Hystrio 2012 1 gennaio-marzo

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trimestrale di teatro e spettacolo

anno xxV 1/2012

teatromondo: berlino, LONDRA dublino, vilnius wroclaw, praga riga, johannesburg eugenio barba alessandro gassman vÁclav havel constanza macras

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DOSSIER TEATRO in GIAPPONE oggi

critiche / danza / teatro di figura / biblioteca / la società teatrale


Punti vendita Rivista trimestrale di teatro e spettacolo fondata da Ugo Ronfani editore: Hystrio-Associazione per la diffusione della Cultura Teatrale, via De Castillia 8, 20124 Milano. direttore responsabile: Claudia Cannella redazione: Albarosa Camaldo, Giorgio Finamore, Roberto Rizzente, Rita De Grandi (segreteria), Marta Vitali, Claudia Zambianchi (web). progetto grafico: www.studiopaola.it grafica e impaginazione: Alessia Stefanini hanno collaborato: Paola Abenavoli, Giorgio Amitrano, Giovanni Azzaroni, Elena Basteri, Stefania Bevilacqua, Laura Bevione, Mario Bianchi, Claudia Brunetto, Gabriella Calchi Novati, Fabrizio Sebastian Caleffi, Roberto Canziani, Laura Caretti, Matteo Casari, Katja Centonze, Elena Cervellati, Tommaso Chimenti, Cinzia Coden, Lucia Cominoli, Maria Pia D’Orazi, Chiara Dattola, Ana Candida De Carvalho Carneiro, Gala Follaco, Renzo Francabandera, Renato Gabrielli, Camilla Gennari Feslikenian, Doi Hideyuki, Katia Ippaso, Takada Kazufumi, Renate Klett, Margherita Laera, Giuseppe Liotta, Sergio Lo Gatto, Fausto Malcovati, Matilde Mastrangelo, Antonella Melilli Rossi, Giuseppe Montemagno, Simone Nebbia, Enrico Pitozzi, Andrea Porcheddu, Valeria Ravera, Domenico Rigotti, Bonaventura Ruperti, Laura Santini, Francesco Tei, Pino Tierno, Cinzia Toscano, Nicola Viesti, Diego Vincenti, Giusi Zippo, Mao Wada, Gunji Yasunori. direzione, redazione e pubblicità: via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02 40073256, fax 02 45409483, hystrio@fastwebnet.it – www.hystrio.it Iscrizione al Tribunale di Milano (Ufficio Stampa), n. 106 del 23 febbraio 1990. Stampa: Arti Grafiche Alpine, via Luigi Belotti 14, 21052 Busto Arsizio (Va). Distribuzione: Joo, via Filippo Argelati 35, 20143 Milano, tel. 02 8375671 Manoscritti e fotografie originali anche se non pubblicati non si restituiscono. È vietata la riproduzione, parziale o totale, dei testi contenuti nella rivista, salvo accordi con l’editore.

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Barba e l'Odin Teatret, bilancio di mezzo secolo di vita — di Claudia Brunetto Biennale: i maestri peccatori di Venezia — di Roberto Canziani Giovani mattatori/4: Alessandro Gassman — di Fausto Malcovati Constanza Macras, coreografa atipica. Meglio, atopica — di Roberto Canziani Milano, galassia teatrale: intervista ad Antonio Calbi — di Diego Vincenti

16 teatromondo

Berlino, zapping d'autunno — di Elena Basteri Londra, spietati racconti d'inverno — di Margherita Laera Dublino e i fantasmi del passato — di Gabriella Calchi Novati Vilnius: il teatro lituano in scena a Sirenos — di Stefania Bevilacqua Wroclaw: Dialog, il festival "non comune" — di Laura Caretti Praga, la primavera della nuova drammaturgia — di Pino Tierno Riga: un festival in cerca delle identità nazionali — di Sergio Lo Gatto Johannesburg, Ballando con Dada di Kentridge — di Renate Klett

31 dossier Il teatro in Giappone oggi — a cura di Giovanni Azzaroni e Matteo Casari, con interventi di Giorgio Amitrano, Gunji Yasunori, Mao Wada, Bonaventura Ruperti, Takada Kazufumi, Maria Pia D'Orazi, Elena Cervellati, Cinzia Coden, Gala Follaco, Camilla Gennari Feslikenian, Enrico Pitozzi, Katja Centonze, Cinzia Toscano, Matilde Mastrangelo, Doi Hideyuki e Giuseppe Liotta 60

teatro di figura

Incanti a Torino e IF Festival a Milano — di Laura Bevione e Claudia Cannella

62 teatro ragazzi

Festival d'autunno: Segni d'Infanzia e Zona Franca - Biancaneve tra cult e novità — di Mario Bianchi, Laura Bevione e Tommaso Chimenti

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I protagonisti della giovane scena/38: Anagoor — di Laura Bevione

nati ieri

66 critiche

Festival Prospettiva a Torino/Solenghi per Moscheta/Invasione russa a Milano/Kapusvetki e Shukshin's stories, doppio Hermanis/Premio Scenario 2011/Donnellan a Vicenza/Vie Festival a Modena/Intercity Festival a Sesto Fiorentino/Kevin Spacey è Riccardo III a Napoli/Saverio La Ruina, albanese d'ItalialLa Mennulara a Catania/Lirica: Oedipe della Fura dels Baus a Bruxelles e Il Flauto magico secondo l'Orchestra di Piazza Vittorio

96 danza

Marin, Armitage e De Keersmaeker, ancora lontano il viale del tramonto? I nuovi spettacoli di Balletto Civile, Virgilio Sieni, Daniel Linehan, Ambra Senatore e Fattoria Vittadini — di Domenico Rigotti, Giuseppe Liotta, Laura Bevione e Roberto Rizzente

99 exit

Addio a Václav Havel — di Domenico Rigotti

100 testi

Babele — di Ana Candida de Carvalho Carneiro, Premio Hystrio Scritture di Scena_35

120 biblioteca

Le novità editoriali — a cura di Albarosa Camaldo

124 la società teatrale

Tutta l'attualità nel mondo teatrale — a cura di Roberto Rizzente

Nel prossimo numero: dossier: August Strindberg/Teatromondo: Parigi, Berlino, Londra, Copenaghen/RITRATTI: Duda Paiva, Robert Carsen, Federica Fracassi/CRITICHE: le recensioni della seconda parte della stagione e molto altro… Hy1


La vita cronica (foto: Jan Rusz).

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Barba, esperienza e testimonianza, un sapere incarnato da tenere vivo Il fondatore e leader dell’Odin Teatret fa un bilancio e traccia le prospettive di una compagnia che sta per compiere mezzo secolo. Cardini del suo teatro le relazioni tra persone, il “baratto” interculturale e il valore della memoria. di Claudia Brunetto

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bbiamo incontrato Eugenio Barba, fondatore dell’Odin Teatret, a Holstebro in Danimarca, nei giorni delle prove dello spettacolo La vita cronica che ha debuttato al Teatro Fabbricone di Prato nel mese di ottobre. Un’occasione speciale per parlare della biografia straordinaria dell’Odin che fra tre anni festeggerà cinquant’anni di vita. Cos’è cambiato nel suo modo di fare teatro in questi anni? Anche in riferimento agli spettatori e all’approccio che hanno i suoi attori nell’affrontare una tournée oggi. E se dovesse dire, dopo tutti questi anni, che cos’è per lei il teatro, cosa risponderebbe?

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È radicalmente diverso il capitale di competenze e il sapere tecnico e progettuale delle persone che costituiscono oggi l’Odin. Ho iniziato con quattro teenagers rifiutati alle scuola teatrali di Oslo e dopo 47 anni ho 25 collaboratori specializzati a “non essere specializzati”. Cioè non sono solo attori efficaci nello spettacolo, ma anche registi, pedagoghi, realizzatori di progetti autonomi, da grandi festival a iniziative interculturali. Abbiamo sviluppato una capacità di agire con tecniche teatrali a livello intra-culturale. Possiamo pensare spettacoli per spettatori abituati ad andare a teatro e a giudicare secondo criteri artistici, sappiamo affrontare nelle strade i passanti che non sono

motivati a seguirci, possiamo creare interazioni in ambienti poco interessati al teatro come gli ospedali, le prigioni, le periferie, le case di riposo per anziani. Siamo in grado di “barattare” la nostra cultura di gruppo con specifici contesti antropologici e sociali. È evidente che oggi mi sento più forte e profondamente consapevole della responsabilità che ho nell’usare questa efficacia. Per me oggi il teatro è la tecnica per stabilire relazioni: con me stesso, con il mio passato e futuro, con la Storia con cui mi sono confrontato, con la tradizione dei miei antenati professionali, con gli attori, con lo spazio in cui scelgo di agire, con gli spettatori, con l’eredità da trasmettere a eredi ignoti.


vetrina

Si parla spesso dell’eccezionale longevità dell’Odin nella storia del teatro contemporaneo. Quali sono le ragioni di questa vita straordinaria? Sottolineerei l’abnegazione di tutti i componenti del gruppo che hanno sviluppato un senso e un sapere tecnico individuale e che sono abili a operare autonomamente in una cornice di lavoro comune. Esiste un forte senso di appartenenza all’Odin da parte di ognuno di noi: stranieri che hanno abbandonato patria e amici per stabilirsi nella piccola cittadina di Holstebro. In realtà abbiamo messo radici nella “piccola” tradizione dell’Odin e in quella patria costituita da un centinaio di persone amiche sparse in tutto il mondo con le quali abbiamo scambiato esperienze e avventure per decine di anni. Un altro fattore penso sia anche la mia caparbietà a negare la natura di un teatro fatto di rapporti di lavoro transitori. La storia del teatro dimostra chiaramente che tutte le avventure teatrali di gruppi, laboratori o enclaves sono durate al massimo una decina d’anni. Poi il nucleo umano che li aveva generati ha preso strade diverse, anche se il nome è rimasto come un’etichetta. Questo vale per tutte le nicchie dell’ecologia teatrale, da quella del Berliner Ensemble a quella del Teatrlaboratorium di Grotowski. Sembra che la parola “crisi” regni sovrana nel vivere quotidiano, ma ancora di più in campo artistico. Come può salvarsi un artista di teatro dal baratro della disillusione? Cosa può fare il teatro di fronte a tutto questo? Mai come oggi il teatro può diventare il luogo della non-appartenenza ai valori, ai costumi, alle aspettative e alle pratiche di una società in cui la parola “crisi” rispecchia il baratro in cui si ha la sensazione di sprofondare quotidianamente. Il teatro può essere uno dei luoghi in cui si pratica una socialità diversa, come fanno libere associazioni e collettivi, cooperative e iniziative di cittadini: tutte iniziative di piccoli numeri. Penso al Museo della 'ndrangheta di Reggio Calabria, intorno al quale si svolge l’attività del Teatro Proskenion. O alle varie tappe della “Non-scuola” del Teatro delle Albe a Ravenna e in tutto il mondo. Basta leggere il mensile di Milano Una città o il mensile Lo straniero per rendersi conto che esiste

una cultura sotterranea che si alimenta di altri valori e li applica quotidianamente e anonimamente. Cosa rimarrà dell’Odin un domani? Pensa mai al futuro? Un amico mi raccontava che in Russia esiste un modo di dire tra la gente di teatro: «Non disturbateci, non esigete niente da noi, lasciateci morire in pace». Quando me lo ha raccontato ci siamo messi a ridere. Ci sono due tipi di memoria. Una è la raccolta di materiali sul training, sull’antropologia teatrale, sulla collaborazione con i maestri asiatici, sui baratti. Un’enorme enciclopedia di esperienze tecniche che ha un senso salvare per quelle poche persone che sentiranno il bisogno di conoscerla. Ma poi c’è un altro senso della memoria che mi interessa di più e che è quello del testimo-

ne, di persone che hanno vissuto, visto qualcosa di veramente unico. Mi riferisco a un gruppo di persone di teatro che sono rimaste un’intera vita insieme, negando la legge biologica del teatro che non tollera la durata delle relazioni. Questo eccesso di conoscenza incorporata, di sapere che ogni attore ha è la memoria che mi interessa conservare e mantenere viva. Con questi attori scomparirà un mondo di biblioteche, di sapere incarnato. È possibile che alcune persone possano entrare in contatto con questo mondo che si costruisce nel corso di una intera vita e che in qualche modo possano acquisire tutto questo? Non credo. Però possono essere testimoni, sentirsi ispirati e utilizzare questo incontro come stella polare per orientarsi e seguire tutto un altro cammino in questo tempo in cui la gente dice: «Lasciateci morire in pace». ★

prato

Odin Teatret, un canto del cigno per i martiri dell'impegno civile LA VITA CRONICA, testi di Ursula Andkjaer Olsen e Odin Teatret. Drammaturgia e regia di Eugenio Barba. Dramaturg Thomas Bredsdorff. Scene, costumi e luci di Odin Teatret. Con Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley. Prod. Nordisk Teaterlaboratorium, HOLSTEBRO - Teatro de La Abadia, MADRID - The Grotowski Institute, WROCLAW. in tournÉe Uno spettacolo, La vita cronica, con cui l’Odin «fissa lo sguardo sulla propria fine», parola del dramaturg Thomas Bredsdorff. E, in effetti, l’impressione più forte che rimane nello spettatore è quella del tempo che è passato, segnando fatalmente i volti e i fisici dei mitici performers di Eugenio Barba. L’immagine dell’Odin, in questo nuovo lavoro presentato in “prima” nazionale al Teatro Fabbricone di Prato, è quella di una illustre, gloriosa sopravvivenza: nessuna ripetitività, ma tuttavia la corposa classicità di uno stile maturato e rifinito pienamente. Dedicato ad Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, La vita cronica accompagna visioni nere e dolenti di una denuncia e di un messaggio politico e civile sempre sentiti con convinzione. Al centro della parabola c’è la figura di un ragazzo colombiano (la giovane ma già splendida Sofia Monsalve) che cerca suo padre scomparso – e ucciso – in Europa, imbattendosi in persecutori e vittime di un mondo insanguinato. Ecco, a parte gli aguzzini, la vedova di un combattente basco (Kai Bredholt, straziante e incredibilmente intenso in questo ruolo al femminile); una rifugiata cecena (Julia Varley), uscita da un universo di guerra e di brutale violenza; una casalinga rumena dal look bizzarro e quasi sexy (Roberta Carreri), destinata a subire da immigrata violenze meno feroci e più striscianti. Indimenticabili per il loro magnetismo e la fortissima carica di emozione molte scene dello spettacolo, quali quelle legate alla presenza ricorrente del “corpo” (o almeno della bara) del padre del ragazzo; o soluzioni come il blocco-cuore di ghiaccio da prendere in mano e da trasportare con dolore. Da ammirare tutti i singoli personaggi, autentiche creazioni d’arte teatrale grandissima, a cominciare dalla Madonna Nera della Rasmussen: ma quanto spessore, quante pieghe e storie nascoste anche nelle figure, a prima vista meno significative, del Musicista rock delle Faroer (Jan Ferslev) e dell’Avvocato (Tage Larsen). Unico appunto: una troppo ampia parte del testo in danese, che fa perdere qualcosa della comprensione dello spettacolo. Non siamo d’accordo con l’Odin quando paragona il parlato di uno spettacolo teatrale al testo di un’opera lirica, tradizionalmente accettato dallo spettatore anche se è in una lingua a lui ignota. Il teatro è un’altra cosa. Francesco Tei

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I maestri peccatori di Venezia Per la Biennale Teatro il direttore Álex Rigola e il presidente Paolo Baratta hanno puntato sui campioni della regia contemporanea: Thomas Ostermeier, Jan Fabre, Jan Lauwers, Ricardo Bartís, Romeo Castellucci, Rodrigo García, Calixto Bieito e Stefan Kaegi. Ma in quanti modi, contemporaneamente, si può essere registi? di Roberto Canziani

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mmettetelo. Non capita spesso di vedersi offrire nell’arco di pochi giorni le creazioni di sette campioni della scena internazionale. Nemmeno in certi festival eccellenti. E non capita mai - ma proprio mai - che gli stessi magnifici sette, nell’arco di una giornata sola, vi presentino il risultato di un progetto che li ha visti, almeno un po’, coordinarsi assieme. Si sa che gli artisti, tanto più se maiuscoli, hanno uno spiccato senso d’indipendenza, quando non è indifferenza, nei confronti dei colleghi. Eppure a Venezia, per la Biennale del Teatro firmata in questi due anni da Álex Rigola, la formula “sette magnifici sette” ha dato un eccellente risultato. Non solo perché nel giro di

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una settimana, tra il Teatro Goldoni, il piccolo Arsenale, le Tese, si è vista la campionatura di alcuni tra i loro lavori, quelli che hanno segnato di più l’Europa teatrale delle ultime stagioni. Non solo perché nella austera Sala delle Colonne, a Ca’ Giustinian, si è presentata giorno dopo giorno l’occasione per incontrarli, porre loro delle domande, sentirli difendere un punto di vista o una scelta di valore. E non solo perché quello spazio ha anche ospitato ogni mattina incontri con scenografi che alla regia dei primi dieci anni del terzo millennio hanno dato supporti importanti (c’erano Jan Pappelbaum, Jim Clayburg, Margherita Palli, Nick Ormerold e Anna Viebrok). Bisogna inoltre aggiungere che il progetto con-

gegnato da Rigola prevedeva ogni giorno all’ora di pranzo, nella piccola sala alle Fondamenta Nuove, un Young Italian Brunch, menù alimentato dalla Generazione 0-10 delle scene italiane (non c’è davvero modo migliore per definire il decennio dal 2000 al 2010?): Anagoor, Muta Imago, ricci/forte, Santasangre e Teatropersona. E ancora: un distico di danza accostava l’internazionalissimo Josef Nadj (però con uno spettacolo vecchio purtroppo di una quindicina d’anni, Woyzeck) e l’italiano Virgilio Sieni nel duetto con suo padre, Osso. Torniamo ai magnifici sette. Che cosa abbiano in comune Thomas Ostermeier (Leone d’oro per il teatro quest’anno), Jan Fabre, Jan Lauwers, Ricardo Bartís, Romeo Castellucci, Ro-


vetrina In apertura, The Slow Lie, di Jan Lauwers; in questa pagina, The Holy Gangster, di Jan Fabre e Death in Venice, di Thomas Ostermeier.

drigo García, Calixto Bieito, a cui va aggiunto il Leone d’argento Stefan Kaegi, non è facile dire. Se non il fatto, evidente, che condividono la qualifica di regista, qualifica che da un bel po’ di tempo è in fibrillazione. A confermarlo c’erano gli spettacoli, i quali mostrano chiaramente che ognuno di loro è regista alla sua maniera, e che profondamente diverse e divergenti sono le loro pratiche. Regia di classici, regia di documenti A Thomas Ostermeier si addice il testimone, che gli è stato trasmesso dopo essere passato di mano in mano per oltre mezzo secolo, della “regia critica”, quella che si applica ai classici (vedi qui accanto la recensione di Roberto Rizzente a Hamlet). Di segno opposto è il lavoro di Dokumenten che Kaegi mette in atto in ognuno dei progetti con i suoi Rimini Protokoll. Del concetto di regia secondo Kaegi e delle modalità di lavoro del team tedesco, Hystrio si è occupato altre volte (vedi sul numero 4.2008, La parola agli esperti, in occasione del conferimento del Premio Europa). Bodenprobe Kasachstan, lo spettacolo presentato al Piccolo Arsenale, era naturalmente in linea con le loro pratiche: portare alla luce un problema (in altri casi sono state le adozioni internazionali, le bolle finanziarie del capitalismo avanzato, o il fallimento della compagnia aerea belga Sabena) e attraverso la parola e la storia personale dei testimoni - che loro chiamano Experten - imbastire un teatro-reportage che faccia appello all’intelligenza, ma ugualmente all’emozione, nel cortocircuito dell’esperto che racconta il proprio vissuto, specialistico e per questo singolare. Nel caso di Bodenprobe era di scena l’Eldorado petrolifero del Kazakistan e un complicato fenomeno di migrazioni da e per la Germania (ma si capisce che erano deportazioni) avviato ancora ai tempi dell’imperatrice Caterina e messo a punto da Stalin. Regia, in questo caso, voleva dire rendere avvincente, per un pubblico totalmente digiuno, gli approfondimenti tecnici dell’ingegnere minerario, le strategie di vendita del piazzista di pannelli solari, il candore dell’ex-

estetista che oggi si esibisce cantando e ballando nei pub tedeschi. Tutta gente vera, non interpreti, protagonisti ciascuno a suo modo speciale di questa land art a cui Kaegi e Rimini Protokoll intersecano una drammaturgia - chiamiamola pure regia - di documenti.

do aperto il gioco, per Muerte y reencarnación en un cowboy ci è voluta un’ispezione “vera” dei carabinieri per rilevare che una spessa parete riflettente separava in quella teca le due specie animali. Finzione, quindi. Ma “vera” era l’ansia del pubblico.

Il Figlio di Dio, il gatto e i pulcini Sarebbe possibile a questo punto indicare, per ognuno degli altri, un peculiare modo di essere regista, fuori dai metodi e dalle collocazioni a cui ci ha abituati il secolo della regia, il breve '900. Che i lavori di Romeo Castellucci siano veri e propri “attentati” alla sensibilità di chi guarda è risaputo. La santità degli escrementi umani (ancorché paterni), che è il concetto-cuore di Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, è stato oggetto di una clamorosa sollevazione di sensibilità cattolica, quando qualche mese dopo Venezia lo spettacolo ha toccato Parigi. Non ci soffermeremo di più. E non c’è neanche bisogno di attardarsi sul fatto che ci sia sempre qualcuno disposto a storcere il naso davanti all’Hamlet di Ostermeier o al Prometheus di Jan Fabre, e lodare subito dopo il lavoro di qualche impresentabile e sussiegoso artista di casa nostra, che fa fatica a mettere insieme una tournée di quattro date. Ma sono i piccoli malori della critica e degli addetti ai lavori nostrani. Un pubblico che sia un pubblico, il pubblico venuto per guardare, capire, sentire e, sperabilmente, farsi trasformare dallo spettacolo, si comporta in modo diverso. Vale la pena precisare che “sentire” non vuole dir solo provare sentimenti e dare senso a ciò che si vede, non significa soltanto godere di qualche cosa che risponde al proprio gusto e ai propri criteri estetici. Una regia “ansiogena”, come quella di Rodrigo García, può essere ugualmente vincente ed efficace nel far fuggire a gambe levate gli spettatori più impressionabili, se il perfido e sornione regista d’origine argentina mette a convivere in una teca di vetro un gatto assieme a una pigolante nidiata di pulcini. E se già Pirandello, nel finale dei Sei personaggi, metteva in guardia sugli scivolamenti tra realtà e finzione, lascian-

Ottavo: dirigere il pubblico È invece sull’ultima proposta di Rigola (ma anche del presidente Paolo Baratta), sul punto di arrivo di questo Festival-Laboratorio che vale la pena tornare. La proposta ulteriore, fatta ai magnifici sette era di lavorare in autonomia, con gruppi di giovani attori confluiti nei rispettivi laboratori, e impaginare alla fine il risultato in evento collettivo “a capitoli”, da presentare nell’ultima giornata. I 7 capitoli dovevano essere ambientati in altrettanti luoghi, alternativi però ai consueti spazi della Biennale. Sette capitoli: l’occasione giusta per suggerire ai registi di additare sette peccati contemporanei, lasciando loro decidere quale fosse il più capitale. La modestia, l’inappetenza, la stupidità, eccetera, come suggerisce Spregelburd? Oppure, come hanno fatto loro, altri insidiosi mali. L’indifferenza per Jan Lauwers. La violenza per Jan Fabre. L’invidia per Calixto Bieito. E così via. Ciascuno, con la sua manciata di giovani attori (allievi sì, ma in alcuni casi anche severi critici del proprio maestro), ha preparato un’azione di una ventina di minuti, presentata poi a gruppi di spettatori che, a turno, per diverse repliche nel corso della giornata, si incamminavano lungo una via crucis di sette stazioni peccaminose. L’ottavo peccato è il nome dato alla testata del foglio giornaliero di informazione e critica che ha seguito tutto lo svolgersi di questa Biennale Teatro. “Ottavo peccato”, ci è sembrato però anche quello di tutti i registi messi assieme. Artisti così attenti nel dirigere i propri spettacoli dovrebbero infatti essere altrettanto meticolosi nel dirigere anche il pubblico, in tutti in quei casi in cui manchi la tradizionale struttura di un teatro. Perché la gradinata, o il rap-

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porto di potere fra palcoscenico e platea, o la forma di un teatro all’italiana, sono meccanismi impliciti che, da soli, determinano modi di visione e di partecipazione, e quindi, un’automatica “regia del pubblico”. Regia che invece è tutta da inventare e mettere a punto quando lo spazio è inedito: sale progettate non per il teatro, ma per altro, ambienti che non preordinano una visione, luoghi aperti, addirittura in non-luoghi. Perché il pubblico deve addossarsi e schiacciarsi contro una parete, chi in piedi, chi accosciato a terra, per seguire il primo dei Sette peccati: la serie di demoniache possessioni con cui Romeo Castellucci arrossava una delle apollinee sale della Fenice? Perché deve raccogliersi in mandria, e tendere il capo, e sollevarsi in punta di piedi, davanti al secondo: l’invidia raccontata da Bieito, che sfruttava lo spazio della sala Rossi, sempre alla Fenice, ma al contrario (attori sugli spalti, pubblico nell’orchestra)? Perché deve sgomitare e far quasi a botte per trovare posto negli spazi angusti di una sala di biblioteca (quella dell’Ateneo Veneto) per il peccato di Ricardo Bartís: la burocrazia? Rodrigo García aveva scelto la solitudine. Dovevano o non dovevano gli spettatori accomodarsi ai tavolini apparecchiati nel cortile del Conservatorio “B. Marcello”, dove figure incappucciate bianche insistevano nel dedicarsi ai loro solitari con le carte? Originale la scelta di Ostermeier: lasciar vedere il suo frammento di Morte a Venezia (peccato sottointeso, la pedofilia) attraverso una cortina di verdi e frondose piante nel salone dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti. Meno originale il fatto che gli spettatori un po’ più arretrati non vedevano alcunché. Quando il teatro esce dai teatri, ai registi esso chiede anche un’altra regia. Quella del pubblico. Trascurarla, questo sì è un peccato. ★

SETTE PECCATI. Attore, il tuo nome non è esatto, ideazione e regia di Romeo Castellucci; Envidia, ideazione e regia di Calixto Bieito; The Holy Gangster, ideazione e regia di Jan Fabre; Burocracia, Brazo armado de la política o Maquinaria Idiota, ideazione e regia di Ricardo Bartís; The Slow Lie, ideazione e regia di Jan Lauwers; Desconocer nuestra propia naturaleza, ideazione e regia di Rodrigo García; Death in Venice, ideazione e regia di Thomas Ostermeier. BIENNALE TEATRO 2011, VENEZIA.

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Ostermeier, eccellente doppietta da Shakespeare ad Achternbusch HAMLET, di William Shakespeare. Traduzione e drammaturgia di Marius von Mayenburg. Regia di Thomas Ostermeier. Scene di Jan Pappelbaum. Costumi di Nina Wetzel. Luci di Erich Schneider. Video di Sebastien Dupouey. Musiche di Nils Ostendorf. Con Urs Jucker, Lars Eidinger, Judith Rosmair, Robert Beyer, Sebastian Schwarz, Stefan Stern. Prod. Schaubühne, BERLINO. SUSN, di Herbert Achternbusch. Drammaturgia di Julia Lochte. Regia di Thomas Ostermeier. Scene e costumi di Nina Wetzel. Luci di Björn Gerum. Video di Sebastien Dupouey. Musiche di Nils Ostendorf. Con Brigitte Hobmeier ed Edmund Telgenkämper. Prod. Münchner Kammerspiele, MONACO. Leone d’oro 2011 a Venezia. La direzione, a soli trentuno anni della prestigiosa Schaubühne di Berlino. Subentrando niente meno che a Peter Stein. Thomas Ostermeier, classe 1968, è ormai una star internazionale. Troppo a lungo assente dalla scena italiana – quella dei costi è la scusa ufficiale – torna con due spettacoli, Hamlet e Susn, rispettivamente alla Biennale Teatro di Venezia e Prospettiva allo Stabile di Torino. Presentato al Festival di Atene e di Avignone nel 2008, Hamlet ben esemplifica la capacità che Ostermeier ha di attraversare creativamente un testo. Non tanto per l’attualizzazione al presente, con i rimandi alla televisione e i personaggi glam “alla Easton Ellis”, o la reinvenzione dello spazio in chiave simbolica - il banchetto di nozze mutuato in tavolo da comizio politico e da Pappelbaum collocato dinanzi alla terra nuda del cimitero - quanto proprio per l’energia vitale, saremmo portati a dire barbarica, che lo spettacolo conserva. In Hamlet il coraggio e una certa dose di spregiudicatezza – la grande assente in Italia – consentono a Ostermeier di prendersi, anche dinanzi a un monumento della letteratura teatrale, le necessarie libertà, mescolando codici condivisi di rappresentazione (il cinema, soprattutto, con i rimandi all’espressionismo, il cinéma-vérité e la slapstick comedy, nella bellissima scena del becchino) e sfruttando i ritrovati della tecnologia (la telecamera in scena, il palco semovente) per moltiplicare arbitrariamente i piani dell’azione. Di più, gli danno l’estro, addirittura, per improvvisare: Lars Eidinger, il bravissimo interprete di Amleto, ripete «Essere o non essere» all’inizio dello spettacolo e ogni qualvolta ne ha voglia, giusto per liberarsi del peso dell’auctoritas. Cita, addirittura, il bunga bunga nostrano e gigioneggia en travesti con Rosencrantz e Guildenstern. Certo, non tutte le ciambelle escono col buco e la materia, a tratti, specie nella lunga sequenza del metateatro, sembra prendere il sopravvento, giustificando le rimostranze di chi avrebbe auspicato un più accorto lavoro di sintesi e bilanciamento. Ma si tratta, certo, di un peccato veniale, presto perdonato se si considera l’alto grado raggiunto. Non sarebbe il regista che è diventato, tuttavia, se Ostermeier non fosse in grado di lavorare anche con altre produzioni, oltre la Schaubühne. Susn è un testo contemporaneo di Achternbush, allestito a Monaco. Una sorta di kammerspiele postmoderno, dove nulla di eclatante accade, sterilmente proiettato sull’esistenza di Susn, fotografata nel corso degli anni. Non ci sono picchi, nella pièce, e la scrittura di Achternbush non è certo quella di un Bergman, ma ciò non impedisce a Ostermeier di confezionare uno spettacolo duro, diretto, sottilmente seducente. Una sorta di road movie applicato al teatro, con in aggiunta la fuga dei primi piani, che sopperisce alle pecche della drammaturgia con una maestosa prova d’attore – meravigliosa la Hobmeier - e uno sguardo incensurato, direttamente puntato sull’intimità del personaggio. È uno spettacolo che si nutre di niente, questo Susn, asciutto, minimale e pure spietato, e tanto basta per liberare le potenzialità del dramma, restituendo il ritratto a tutto tondo di una donna in rivolta. Ancora una volta emozionando. Roberto Rizzente Hamlet (foto: Arno Declair).


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Giovani mattatori/4 Alessandro Gassman, la forza del destino Dall'adolescenza inquieta al debutto cinematografico con il padre Vittorio che lo sprona, fino alla decisione consapevole di fare l'attore. Gli incontri teatrali fondamentali con Ronconi, Mauri, Quartullo, Longoni che crea la coppia Gassman-Tognazzi. Dal 2012 si dedica anche alla regia e dal 2006 alla direzione di prestigiosi teatri, dallo Stabile d'Abruzzo a quello del Veneto. di Fausto Malcovati

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are l’attore io? E chi ci pensava? A quattordici anni avevo altro per la testa. Calcio, sport, ragazze, caso mai. E a scuola ero una frana. Ma mio padre, un perfezionista in tutto, dunque un gran rompiscatole (in casa come sul lavoro), era severissimo, non voleva sentir ragioni: se fai una cosa, la devi far bene. A ogni insufficienza sbraitava, menava anche. Così, a suon di botte e punizioni, il liceo l’ho finito. Che fare dopo? Studiare, no grazie. Volevo essere indipendente e mi son guardato intorno: fisico e statura (un metro e novantatre) li avevo, perché non fare il modello? Ho sfilato per Coveri: pagavano bene, da fare non c’era gran che.

Ma di nuovo è intervenuto mio padre: che cazzo di professione è, bofonchiava. A diciassette anni mi mette davanti alla macchina da presa: Di padre in figlio, un film sulla sua complicata famiglia, mogli, figli, amici. Naturalmente io avevo il ruolo di quello che sono: suo figlio». A diciotto, senza grande convinzione, entra nella Bottega Teatrale di Firenze, la scuola voluta e diretta da Vittorio. Il saggio finale diventa uno spettacolo, con Vittorio regista e protagonista, che gira l’Italia con un buon successo: I misteri di Pietroburgo, un montaggio di brani tratti dai romanzi di Dostoevskij. L’anno dopo, 1983, Vittorio, con la Guarnieri, mette in scena Macbeth: uno dei suoi spettacoli shakespeariani più riusciti. Alessandro questa

volta si deve accontentare del ruolo non esaltante di aiuto attrezzista: addetto ai fumogeni. «Di fumogeni me ne intendevo: riuscivo a farli entrare allo stadio quando era vietatissimo». Sessantacinquemila lire al giorno lorde. Altro che Coveri! Poi arriva Affabulazione: un trionfo per Vittorio, due anni di tournée, riconoscimenti internazionali. Per Alessandro, che ha una particina («Ero terrorizzato»), una conferma: riceve il Biglietto d’oro. Farà l’attore, è un mestiere che comincia a piacergli. Sempre col padre, Poesia, la vita: gli fa da spalla nel recital che ogni sera cambia di programma, da Dante a Pirandello, una ginnastica quotidiana al servizio della camaleontica bravura paterna. E la carriera decolla.

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Ronconi lo chiama per I dialoghi delle Carmelitane. Un cast stellare di primedonne: Marisa Fabbri, Franca Nuti, Paola Mannoni. Uno spettacolo lunghissimo: più di quattro ore. Due soli personaggi maschili: Maurizio Donadoni e lui. Un’esperienza dura, sconcertante. «Ero disorientato. Non capivo. Mi sembrava tutto molto meccanico, arbitrario. Luca dava indicazioni rigorose su pause, intonazioni, salti di registro. Io seguivo al millimetro, ma non ero convinto di quello che mi faceva fare. La mia prima battuta era: “Dov’è Bianca?”. Banale, no? E invece: lunga pausa dopo “Dov’è” poi due note più alto “Bianca”. Ero, diciamo, molto ronconiano, ma, francamente, molto mediocre». Poi Gianfranco Mauri: La dodicesima notte, una produzione estiva. Il Teatro Greco di Taormina stracolmo, un grande affiatamento nella compagnia, «Mauri è esigente, vuole il 100% da chi lavora con lui, ma è anche attento e tenero». Da Melville a Longoni Poi, nel 1992, la consacrazione: Alessandro è Ismaele, voce narrante in Ulisse e la balena bianca, riduzione da Melville, regia e interpretazione grandiosa di Vittorio, una delle vette del suo lavoro teatrale. Uno spettacolo imponente: musiche di Piovani, coreografie di Ezralow, colossale impianto scenico di Renzo Piano in piazza delle Feste del Porto Antico di Genova. «La sera della prima ci fu un temporale: tuoni, fulmini, la pioggia che batteva sul tendone, sembrava ordinata apposta per rendere ancora più drammatica la lotta di Achab con la balena in mezzo all’oceano». Un incontro riuscito è stato quello con Pino Quartullo: due spettacoli scritti e firmati da lui, Quando eravamo repressi, un testo per l’epoca abbastanza coraggioso sullo scambio di coppie e, nel 1993, Le faremo tanto male con Stefania Sandrelli al suo debutto in teatro, su una coppia di borgatari sfigati che sequestrano una presentatrice televisiva ma nessuno paga e finiscono per non saper cosa fare della

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loro vittima. «Grazie a Pino mi sono accorto che avevo dei buoni tempi comici, che la commedia poteva essere una strada da percorrere». Infatti qualche mese più tardi, alla fine del 1993, Angelo Longoni gli propone Uomini senza donne, un testo a due personaggi di cui è autore e regista: suo partner è Gianmarco Tognazzi, un attore con cui trova una sintonia inattesa. Compagni di giochi fin dall’infanzia (i due padri erano amici fraterni), diversissimi, uno alto e bello, l’altro piccolo e bruttino, trovano in scena una perfetta intesa, grazie anche a un testo che ne mette in evidenza le differenze: protagonisti del lavoro di Longoni sono due scapoli, un pubblicitario estroverso, aitante, salutista, fortunato con le donne, e un sassofonista, ombroso, timido, nevrotico, autolesionista. L’autore era convinto di aver scritto un dramma e invece nell’interpretazione di Gassman-Tognazzi il testo diventa una commedia che fa molto ridere, anche se poi il fondo è amaro. Uomini senza donne riceve premi e riconoscimenti da critica e pubblico: tre anni di tournée, premio speciale Idi per la drammaturgia contemporanea, Biglietto d’oro Agis, premio “Salvo Randone” ad Alessandro come miglior attore. E diventa un film con altrettanto successo. Con Longoni, e sempre con Tognazzi, fa un secondo spettacolo, nel 1996, Testimoni: protagonisti due testimoni di giustizia che assistono a un delitto si mafia, decidono di testimoniare. In attesa del processo vengono messi sotto sorveglianza, sono costretti ad assumere nuova identità e sradicarsi completamente dal passato. «Al Ciak di Milano è stato un tale successo che l’ultimo giorno, per non rimandare indietro chi non aveva trovato biglietto, abbiamo fatto una replica a mezzanotte». Sempre con Gianmarco, nel 2000 un musical: la versione teatrale di A qualcuno piace caldo, un altro successo clamoroso di pubblico. «Di solito i musical li trovo noiosi, ma questa versione del film di Wilder era magnifica. Una compa-

gnia perfetta, costumi splendidi, Rossana Casale una Marilyn perfetta. E poi Saverio Marconi è una forza della natura: ci ha fatto ballare, cantare (tre mesi di allenamento: io me la cavavo, ma Gianmarco era sempre in controtempo), forse lo spettacolo fisicamente più faticoso che abbia mai fatto. Devo dire che, vestito da donna, io sono bruttissimo, mentre Gianmarco era davvero carino: comunque quando comparivamo alla stazione con le nostre toilettes piene di lustrini, ci prendevamo sempre un applauso a scena aperta». Intanto film e sceneggiati televisivi si succedono con crescente successo: Il bagno turco (1997) di Ozpetek, di cui è protagonista, va a Cannes, viene distribuito in America, riceve premi e impone Alessandro all’attenzione della critica internazionale, mentre in tv Lourdes, Piccolo mondo antico, La guerra è finita fanno audience da capogiro. Con Amnesty International Nel 2002 si apre un nuovo capitolo, la regia: La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard. «Un progetto a cui pensavo da tempo. Bernhard è il mio autore preferito e questo è uno dei testi che amo di più. La problematica del testo, ossia la ricerca della perfezione, che è nella realtà irraggiungibile, mi è molto vicina. Credo che ogni attore, uscendo da teatro, sia sempre scontento di quello che ha fatto. Nessuno di noi riesce mai, nemmeno i più grandi, a dare in scena tutto quello che vorrebbe. Io, come il protagonista del testo, vivo nella speranza che la replica successiva sarà quella perfetta, ma so già che questo non avverrà. Ecco, è proprio questa tensione verso l’eccellenza a trasformare ogni sera lo spettacolo in una sfida al precedente. Al centro de “La forza dell’abitudine” c’è la vita di un circo, e per questo ho scritturato una famiglia di clown molto famosa, i Colombaioni. Mi raccontava uno di loro che, quando erano giovani, avevano provato un numero acrobatico per quasi otto an-


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ni, un numero che durava quattro minuti e che hanno poi replicato solo per un anno e mezzo, perché nel frattempo erano cambiati i pesi, le età, la forza. E il protagonista, il direttore Caribaldi, sogna di eseguire il quartetto di Schubert La trota e non ci riuscirà. È la tensione che conta. È lo sforzo di dare il meglio di sé, anche se poi non ci si riesce». Lo spettacolo va in scena al Festival di Borgio Verezzi con Carlo Alighiero che, oltre a essere protagonista, collabora con Alessandro alla traduzione e all’adattamento. Poi, quattro anni dopo, Alessandro riprende lo spettacolo e ne diventa anche protagonista: da atletico quarantenne deve trasformarsi in settantenne pieno di reumatismi. Una bella prova: pause, gesti, toni, inflessioni di un vecchio che parla, si muove con fatica. «Alla fine di ogni spettacolo ero stanco come se avessi avuto veramente quella età». Una fatica premiata nel 2007 con il “Golden Graal” per miglior regia e interpretazione. Nello stesso anno l’assessore alla cultura dell’Aquila fa il suo nome come possibile direttore del Teatro Stabile dell’Abruzzo: il Consiglio approva all’unanimità. Per due anni, fino al 2009, Alessandro decide la programmazione e firma la sua seconda regia: La parola ai giurati di Reginald Rose, un celebre testo che ha avuto due versioni cinematografiche, una americana negli anni ’70 di Sidney Lumet con Henry Fonda e una russa nel 2004, di e con Nikita Michalkov. Bernhard: una riflessione sul destino dell’artista, intessuta di squarci onirici e di inflessioni grottesche. Rose: un problema politico di attualità scottante, la pena di morte, che in troppi paesi è ancora una realtà. Non a caso lo spettacolo ottiene il sostegno di Amnesty International. Dodici uomini alle prese con un caso che sembra di facile soluzione (la pena di morte, appunto per un “diverso”, un ispano-americano per Lumet, un ceceno per Michalkov) e invece si rivela difficilissimo, tanto da spingere i giurati, dopo due ore di riflessioni, esami di coscienza, confessioni,

all’assoluzione. Alessandro ne fa uno spettacolo teso, duro, aggressivo, attualissimo: pensa al Medio Oriente, alle notizie che giungono da Teheran o da Damasco. «Quello che mi ha ispirato fin dalla prima lettura è la possibilità di portare alla luce i pregiudizi e le false certezze che caratterizzano i comportamenti dei giudici e che affiorano proprio quando si trovano di fronte al compito più difficile: decidere della vita di un altro uomo». Hawking all’Olimpico Nel 2009 il Consiglio di Amministrazione del Teatro Stabile del Veneto lo nomina direttore: tre teatri prestigiosi fanno capo a lui, il Goldoni di Venezia, il Verdi di Padova, l’Olimp ico di Vicenza. Una nomina che lo riempie di orgoglio e lo stimola a nuove iniziative. «Venezia, Padova, Vicenza sono tre sedi universitarie: gli studenti spesso sono pigri, distratti, attirati dal cinema o dalla tv, io invece voglio che si abituino a frequentare il teatro. Bisogna offrire loro testi che li riguardino, che li facciano discutere, che affrontino i loro problemi. Voglio dialogare con loro sui temi che ci coinvolgono tutti: dunque per ora pochi classici e molti autori contemporanei. Trevisan, per esempio, che in Wordstar(s) parla degli ultimi giorni di Beckett, Tiziano Scarpa che ha scritto un bellissimo testo su Leopardi, Infinito, Massimo Carlotto. Porterò all’Olimpico uno spettacolo su Stephen Hawking e riproporrò il mio ultimo spettacolo, Roman e il suo cucciolo, che sta girando l’Italia e per cui ho ricevuto uno dei premi più prestigiosi, il premio Ubu, per il miglior spettacolo». Sì, Roman e il suo cucciolo: di nuovo un grande atto di coraggio. Alessandro va a testa bassa contro l’intricato mondo della droga. Il testo è un vecchio successo degli anni Ottanta portato in scena da Robert De Niro a Broadway, Cuba and his Teddy Bear di Reinaldo Povod, figlio di una portoricana e di un cubano, morto giovanissimo dopo una vita difficile di emar-

ginazione e persecuzione. Povod denunciava allora la situazione vergognosa in cui vivono i latinos negli Usa, Edoardo Erba, che ha curato la traduzione e l’adattamento, ha trasportato l’azione nella periferia romana in mezzo agli emigrati rumeni che vivono di espedienti, traffico di droga e prostituzione. Alessandro e i suoi attori hanno passato mesi a imparare la parlata dei rumeni trapiantati, i suoni gutturali, le u e le o deformate, la loro gestualità esagerata, la loro violenza, la loro disperazione. Ne è venuto fuori uno spettacolo forte, urlato, impetuoso e insieme pieno di angoscia: Roman cerca di salvare il suo cucciolo, suo figlio adolescente, dalla droga ma non ce la fa. È un urlo contro il dilagare incontenibile di questa piaga sociale che a tutti i livelli miete vittime ogni giorno e che sembra inarrestabile. Anche per questo spettacolo Amnesty International ha dato il suo patrocinio: e Alessandro ne è giustamente orgoglioso. Di nuovo una enorme fatica fisica: due ore di scontri verbali, abusi, risse, e sullo sfondo prepotenza, segregazione, solitudine. «Oggi sono questi i problemi che urgono, che la gente deve affrontare: non è una storia di periferia lontana, è una quotidiana tragedia che coinvolge tutti, magari il tuo vicino di casa e non lo sai». Uno spettacolo che fa ovunque esauriti, e mette sotto gli occhi di tutti un frammento della nostra degradata società che troppo spesso non vogliamo vedere. Alessandro Gassman: un attore bellissimo che Yves Saint Laurent e Ferragamo chiamano come testimonial e che fa qualche volta anche i cinepanettoni, ma anche un attore coraggioso che in palcoscenico combatte per un mondo migliore. ★

In apertura, un ritratto di Alessandro Gassman di Gianmarco Chieregato; in questa pagina, Alessandro Gassman in: Le faremo tanto male, di Pino Quartullo (foto: Tommaso Le Pera); Uomini senza donne, di Angelo Longoni (foto: Tommaso Le Pera); La parola ai giurati, di Reginald Rose e Roman e il suo cucciolo, di Reinaldo Povod (foto: Federico Riva).

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Berlin Elsewhere (foto: Thomas Aurin).

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Constanza Macras coreografa atipica. Meglio, atopica. Una danza, la sua, vicina e lontana da ogni luogo: da Buenos Aires, dove è nata, come da Berlino, dove vive, dopo essere passata per New York e Amsterdam. di Roberto Canziani

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angi assieme a lei, e lei ti sorprende con una voracità che nessuno mai augurerebbe a un’artista di danza. Ordina ogni cosa, curiosa di cibi a chilometro zero o piatti internazionali. Mangi assieme a lei perché sai che le cene, dopo gli spettacoli, sono occasioni imperdibili per parlare. E alla fine scopri che tu hai mangiato, mentre lei ha solo assaggiato qualcosa, uno scarso menù di bocconcini. A parlare, invece, è stata generosissima. Morde i gusti, divora storie, addenta le emozioni. È un metabolismo d’arte. Perché vorace, Constanza Macras lo è del mondo. Macras viene dalla più autentica Buenos Aires, ma è cittadina del pianeta. Imbevuta di mondo.

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È cresciuta a New York, dove ha studiato design e moda, e ha frequentato maestri come Merce Cunnigham. È volata in Europa, ad Amsterdam, e quindi a Berlino, per inventare qui la sua prima compagnia di danza dal nome nippo-giovanilista, Tamogochi Y2K. È una che si trova a proprio agio nelle periferie della nuova povertà: Neukölln, tre chilometri dal centro di Berlino, è un borgo dormitorio dove ha lavorato con i figli degli immigrati in un’esperienza che ha poi riassunto in Scratch Neukölln. Ma è altrettanto disinvolta quando abita i più luccicanti palcoscenici internazionali: con la Schaubühne, che coproduce i suoi spettacoli, e insieme a Thomas Ostermeier, con il quale ha creato un animalesco Sogno di una notte di mezza estate.

Insomma Macras, quarantun anni, è una coreografa atipica. O magari “atopica”, vicina e lontana al tempo stesso da tutti i luoghi: il principio che domina i suoi spettacoli. Creazioni che possono invadere chiassosamente gli spazi metropolitani di un grande magazzino in abbandono (Back to the present, il suo primo titolo, 2003), interrogarsi sui diversi sud del mondo (Big in Bombay, 2005), fotografare le pressioni dall’economia globale (Brickland, 2007, e Megalopolis, 2009, titolo che ha ottenuto il maggior riconoscimento teatrale tedesco, il premio Der Faust). A renderli speciali è la mescolanza delle tecniche, delle musiche dal vivo, delle lingue, dei punti di vista. Che poi è il carattere della loro creatrice.


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«You are leaving the American sector» stava scritto fino a vent’anni fa, in quattro lingue inglese, russo, francese e tedesco - sul cartello bianco che a Chekpoint Charlie segnava il limite di Berlino Ovest. «This is not a pièce about Berlin» scrive Macras oggi - in quelle stesse quattro lingue - sul cartello che apre la sua più recente creazione, Berlin Elsewhere. Fermamente al timone della sua compagnia, che adesso si chiama Dorky Park, lei ha le idee chiare: «No, non volevo fare uno spettacolo su Berlino. Anche se questa città mi ha cambiata molto. Io sono nata a Buenos Aires. A Berlino abito, lavoro, c’è la mia famiglia. Nonostante ciò, Berlin Elsewhere non è uno spettacolo sulla capitale tedesca. Sono altri i temi da cui sono partita». Hanno scritto che, contendendo un titolo che sembrava saldamente in mano a Sasha Waltz, è oggi lei l’erede più prossima della grande signora del teatro-danza, lady Bausch. Ma che è anche l’artista più in sintonia con il teatro eccitato e nervoso del suo connazionale argentino Rodrigo Cattivo Garcìa. Che le piace essere caotica e, un minuto dopo, meditativa. «Volevo parlare di come le società contemporanee vivono di conflitti e di segregazioni. Volevo parlare di noi migranti, noi spaesati, noi marginali. Di studenti e disoccupati, di turisti e iper-consumisti, dei disperati e dei feticisti. Volevo parlare del mondo d’oggi, non in astratto, ma aderendo alla storia. Berlino mi è venuta in soccorso. Berlino è un luogo-metafora. È il modello di un meccanismo che si sta riproducendo ovunque nel globo. Le grandi città oramai sono intercambiabili. Berlino è dappertutto». E anche i suoi interpreti sono dappertutto. Tedeschi e argentini, come è facile immaginare, ma anche da Brasile, Israele, Corea, Giappone, Canada e altri angoli di mondo. Macras non li vuole solamente bravi. Li sceglie speciali, che sappiano svelarsi in un monologo, suonare e cantare elettricamente, danzare come acrobati, farsi testimoni del tempo breve che ci investe e ci dà ritmo. Li veste con abiti qualsiasi, oppure smaccatamente eccentrici. A piedi nudi, o con tacchi esasperati. Li fa correre in passerella, contorcersi in scene di gruppo, o fondersi solitari con l’enorme schermo alle loro spalle, tra miniature in gommapiuma di edifici urbani. Li vuole rissosi. E disperatamente poetici.

Da dove vengono le immagini potenti di questi spettacoli? Parto da un’idea, e ci aggiungo gli stimoli che trovo nei libri, nei film, nella musica, nelle fotografie che guardo. Discuto tutto con i danzatori e il mio drammaturgo, che anzi è una drammaturga di cui mi fido molto, Carmen Menhert. Se ho lei accanto, le idee sono più chiare, più distinte. Tutti insieme lavoriamo sulle improvvisazioni, ma spesso anche individualmente. Li invita a confrontarsi con i limiti fisici del corpo? I miei performer hanno vissuti differenti, spesso anche età diverse. Alcuni di loro non hanno mai danzato, oppure hanno un training d’attore. Il mio punto di partenza non è la tecnica, ma l’esperienza personale. Prendi Ana Mondini, una delle danzatrici che lavorano con me. Ha già passato i cinquant’anni, ma quando è in palcoscenico è una forza. «Quando sto là - mi di-

ce - mi sembra di non avere più corpo». Eppure, appena la vedi, riconosci immediatamente la sua straordinaria presenza. Perché Dorky Park? C’era chi aveva visto il film, Gorky Park, e gli era piaciuto. Così è stato facile scivolare verso Dorky Park. Dove dork indica uno che non è tanto giusto con la testa. Quanto di argentino c’è ancora in Constanza Macras? Più che argentina mi sento porteña, legata cioè indissolubilmente a Buenos Aires. Mi porto dietro il mio accento spagnolo, il mio humour nero, e un’arroganza di cui non vado fiera. E quanto c’è, oramai, di tedesco? La prima cosa di cui mi preoccupo, quando do il via a un progetto, è l’assicurazione sugli infortuni per i miei collaboratori. Poi la precisione, la serietà, la mia famiglia…. ★

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Berlin Elsewhere: la città-prototipo infiniti punti di messa a fuoco BERLIN ELSEWHERE, di Carmen Mehnert. Regia e coreografia di Constanza Macras. Con Hilde Elbers, Hyoung Min Kim, Fernanda Farah, Anouk Froidevaux, Denis Kuhnert, Johanna Lemke, Ronni Maciel, Ana Mondini, Elik Niv, Miki Shoji. Prod. Constanza Macras/Dorky Park, BERLINO. Prende la realtà e la mette nel frullatore, Constanza Macras. Berlin Elsewhere è il suo titolo più recente, spettacolo di antropologia urbana con indice puntato su un modello di megalopoli che dalla Germania può essere esportato in tutto il pianeta. L’Italia ha cominciato a scoprirlo dal Nord-Est, dove la coreografa è stata ospite di Teatro Contatto, cartellone del Css di Udine, quest’anno più che mai votato a titoli internazionali, anche per festeggiare le 30 edizioni consecutive. In Berlin Elsewhere, Macras seleziona diverse condizioni umane, immagini di anonima architettura contemporanea, sonorità rubate al consumismo musicale, mancata integrazione etnica, dialoghi da camera da letto, scale mobili, mercatini rionali e tante altre cose. E le assembla nello spettacolo. Con un linguaggio di palcoscenico che è difficile contornare. È un’idea di scena centrifuga, moltiplicata per numerosi punti di messa a fuoco, un lavoro sul corpo di dodici interpreti, sulla loro presenza reale e le loro storie personali. Che sono in contatto stretto con la musica dal vivo (la band sul lato sinistro del palcoscenico assicura ballate romantiche alla Sting, o sostiene sorprendenti cori a cappella). E con il grande schermo, che alle spalle dei performer apre finestre su città di continenti lontani, affiancato da costruzioni in gommapiuma e grandi elementi gonfiabili che richiamano edifici: elementi di un Lego urbano da rovesciare, rimettere in sesto, scalare, usare come alcova, o balcone per serenate, grattando magari la chitarra, come l’umanità mobile o marginale che si incontra alle stazioni della metropolitana berlinese. Berlin Elsewhere suggerisce che questa città-prototipo è altrove. Così la coreana che sogna che il coreano diventi lingua universale, il brasiliano che con la danza è sfuggito alle favelas, la nullatenente exDDR che vorrebbe che il tempo tornasse indietro, prima della caduta del Muro, non ci appaiono soltanto interpreti, ma frammenti di mondialità in trasformazione. Disperata a tratti. A tratti anche speranzosa. Roberto Canziani

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Luci e ombre del sistema teatrale milanese una galassia in continuo movimento I teatranti meneghini attendono con una certa ansia le prime mosse della Giunta Pisapia. E intanto scoprono che punto di riferimento (politico) per lo spettacolo dal vivo sarà di nuovo Antonio Calbi. Chiacchierata informale su una città che finge di credersi capitale dell’arte, ma che in realtà si scopre con le spalle strette. E qualche problema di troppo con cui fare i conti. di Diego Vincenti

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al 2 gennaio è nuovamente Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano. In tempi di precarietà economico-esistenziale, la poltrona di Antonio Calbi dona (quasi) un senso di stabilità. Non così scontata peraltro. Specie considerando che come dirigente si è ritrovato a lavorare nell’ordine con Sgarbi e Finazzer Flory, assessori alla cultura, e con la sindachessa Moratti. Ora la Giunta Pisapia e il lavoro con Boeri, che l’ha richiamato dopo la breve interruzione dei cambi al vertice. Curriculum strettamente culturale (all’epoca della prima chiamata si trovava alla guida del Teatro Eliseo di Roma, mentre la nuova nomina è stata ufficializzata proprio durante la presentazione del bel libro Milano città spettacolo da lui curato per l’Aim-Associazione Interessi Metropolitani), mette evidentemente d’accordo schieramenti e bandiere. E così ora si può riprendere da dove ci si era interrotti. Tanti

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i problemi sul tavolo: dalla riforma delle convenzioni, voluta negli scorsi anni proprio da Calbi, al difficile ricambio generazionale, dalla mancanza d’avanguardie cittadine al lavoro sul territorio, lo smantellamento di rendite acquisite, il rapporto col privato. Solo per dirne alcuni. E poi il Festival MiTo, il Teatro degli Arcimboldi, i progetti per l’Expo, il Lirico ferita aperta. Non poco. Antonio Calbi, metterete mano al sistema delle convenzioni? Va rivisto, perché di transito. Attiveremo un confronto fra le parti, ma tre punti reputo fondamentali: il ricambio generazionale, un legame più forte con la contemporaneità e rinnovare il rapporto col pubblico e la comunità. Anche l’idea dei distretti culturali potrebbe essere una direzione di lavoro, e in questo senso ben vengano le collaborazioni con una fondazione meritoria come la Cariplo. Sono comunque abbastanza

ottimista, perché non si può negare che abbiamo un sistema, a differenza delle altre città italiane. Se The History Boys prende tre premi Ubu una ragione ci sarà pure. The History Boys sembra più un caso, gli spettacoli milanesi faticano a superare l’hinterland. È vero. Ma è una sorta di sistema planetario in movimento, dove magari c’è un sole che ha comunque bisogno di aggiustamenti (come il Piccolo), e intorno pianeti di un certo pregio come il Franco Parenti, l’Elfo o il Crt e pianetini più periferici ma vivi come l’Atir/Ringhiera o il Cooperativa. Un sistema in cui è normale che alcuni pianeti si raffreddino e vengano ridimensionati, mentre fanno la loro comparsa nuove stelle particolarmente vivaci come può essere ora il Teatro i, in cui credo molto, una piccola factory che si è costruita sul campo. Bisogna valorizzare questo dinamismo.


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Perché in città manca la ricerca? A Milano ha prevalso la concretezza del fare e la comunicazione verso un grande pubblico. Strehler ha sempre intrecciato la ricerca di uno stile al contenuto ed è emblematico di quella cultura politecnica che facciamo risalire a Leonardo. Quindi non estremizzerei dicendo che è una città senza avanguardia. Magari è un po’ sotterranea ma esiste, anche se dovrebbe essere più innovativa. Non ha alfieri ma sa scoprirli. Rimane il fatto che non riescono a emergere nuovi talenti milanesi. Nelle convenzioni bisognerà essere più perentori: i teatri devono produrre il nuovo, in tutte le sue declinazioni. Però è l’intera Milano della creatività che si deve svegliare. Vogliamo parlare degli architetti? Nella città di Giò Ponti, Castiglioni, Enzo Mari, Gregotti o Gae Aulenti, mi dica i nomi di giovani trentenni affermati. E quali designer eredi di De Lucchi, Artemide, Flos? Tutti gli ambiti si devono mettere in movimento, anche la formazione. La Scuola "Paolo Grassi" è stata molto importante ma dopo Serena Sinigaglia, che si è diplomata nel 1995, chi ha prodotto? Ci sono dei limiti da parte di tutti, dal Piccolo in giù. Bisogna lavorarci attraverso azioni politiche e private. E attraverso quelle istituzioni che dovrebbero già farlo per statuto. Si parla molto del ruolo degli Stabili d’Innovazione. Lo Stabile d’Innovazione aveva un senso qualche anno fa, ma il problema è del teatro in generale. Lo Stabile si deve interrogare urgentemente su come mutare il proprio statuto e la propria missione, in uno scenario mondiale profondamente cambiato. Se poi devo dire se la categoria degli Stabili d’Innovazione ha prodotto innovazione, è facile rispondere di no, comprendo il paradosso. Quelli milanesi non mi sembra abbiano avuto delle spinte in avanti. Il Crt e l’Out Off hanno ancora una funzione,

gli altri non è chiaro cosa siano. Nei casi specifici, va riconosciuta la coerenza dello spazio di via Mac Mahon nell’accogliere artisti che altrove non sarebbero visibili e nello scommettere su Loris come artista in residenza. Il Crt con la scomparsa del Professore vede peggiorare la sua situazione, ma produce ancora Emma Dante, Educazione fisica di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, i Babilonia Teatri e così via. Ma è vero che serve una riflessione su cosa significhi essere innovativi quando non lo si è. Ad esempio c’è l’Atir che pur periferico ha un’identità precisa, persegue una propria ricerca, oltre a lavorare sul territorio. Viene quindi da domandarsi, è più innovativo quello che fa Serena Sinigaglia o quello che fa il Litta? Ma, nella pratica, come si può intervenire? Credo che sarà uno dei temi delle nuove convenzioni, che potrebbero prevedere una competizione fra omogenei, fra pari, come nel caso degli Stabili di Innovazione milanesi. Ma non so esattamente quale sarà la direzione, il mio ruolo è quello di suggerire attraverso confronto e collegialità. Se fosse per me, farei una riforma a livello nazionale dei teatri pubblici, dove ad esempio i direttori possano avere un ciclo massimo di dieci anni, così come gli artisti in residenza, la danza la inserirei obbligatoriamente per cicli triennali e anche gli ensemble di ricerca musicale o i dramaturg. Un teatro più cangiante, che metta in condizione di lavoro e creatività un numero più ampio di settori e di artisti. Per fortuna Milano, grazie al genio di Ronconi, ha prodotto un ciclo di lavori che altri non hanno fatto. È una cosa da riconoscergli. E perché ad esempio nessuno Stabile ha prodotto un grande spettacolo sui disastri della politica, della finanza o su Berlusconi? Me lo dica lei. Troppo poco coraggio e troppa poca libertà. Ma è un ruolo che spetta agli Stabili. E invece

è stato demandato solo ai piccoli gruppi o agli autori solitari, mi viene in mente Paolo Rossi. Come se solo al comico fosse concesso di poter dire qualcosa di forte sulla nostra condizione di italiani dimezzati. ★

Quattro passi nella capitale dello spettacolo MILANO CITTà E SPETTACOLO, a cura di Antonio Calbi, Milano, Sassi, 2011, pagg. 288, euro 30 Il volume si apre con un prologo, e non poteva essere altrimenti. Antonio Calbi, curatore dell’opera, ci introduce dal suo personalissimo e privilegiato punto di vista alla scoperta di quello che stiamo per leggere. Seguono tre atti: il primo, e il più corposo, dedicato al teatro e alla danza, il secondo alla musica e il terzo al cinema. Lunghi capitoli in cui giornalisti e addetti ai lavori tracciano una mappa del passato, del presente e del futuro dello spettacolo milanese. Milano città e spettacolo è un atto d’amore per la città. Un amore vero, che sa riconoscere pregi e difetti dell’amata. Che esalta i successi internazionali della Scala, l’esperienza unica del Piccolo Teatro e la tenacia degli innumerevoli spazi off che ridisegnano costantemente la pianta urbana. Ma che non nasconde gli scandali del Teatro Lirico e del Teatro Gerolamo, luoghi carichi di storia il cui destino è a tutt’oggi incerto. Che riconosce il debito di Milano nei confronti della danza, ma allo stesso tempo prova a spiegarne le ragioni e a ipotizzare soluzioni. Per chi frequenta i palcoscenici cittadini è affascinante sfogliare questo volume e riconoscere nel corposo apparato fotografico il proprio percorso di spettatori, quasi che il libro fungesse da memoria collettiva. Per chi non conosce Milano è un’ottima occasione per scoprirla da un punto di vista diverso dal solito, attraverso i volti dei registi, degli attori, dei ballerini, dei musicisti che ne hanno calcato le scene. Il volume rientra nell’attività editoriale di Aim-Associazione Interessi Metropolitani, che annualmente pubblica un prezioso volume dedicato alla città di Milano. Marta Vitali

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Premio Hystrio alla Vocazione Bando di concorso 2012 Il Premio alla Vocazione per giovani attori, giunto con crescente successo alla quattordicesima edizione, si svolgerà il 21-22-23 giugno 2012 a Milano. Il Premio è destinato a giovani attori entro i 30 anni (l’ultimo anno di nascita considerato valido per l’ammissione è il 1982): sia ad allievi o diplomati presso scuole di teatro, sia ad attori autodidatti, che dovranno affrontare un’audizione di fronte a una giuria altamente qualificata composta da direttori di Teatri Stabili, pubblici e privati, e registi. Il Premio consiste in due borse di studio da euro 1500 riservate ai vincitori del concorso (una per la sezione maschile e una per quella femminile). Il concorso sarà in tre fasi: 1) una pre-selezione (a Milano e a Roma), riservata a giovani aspiranti attori autodidatti o comunque sprovvisti di diploma di una scuola istituzionale di recitazione; 2) una semifinale per i candidati che hanno superato la pre-selezione; 3) una selezione finale a Milano, a cui hanno accesso diretto coloro che frequentano o sono diplomati presso accademie o scuole istituzionali (l’elenco completo su www.hystrio.it) e coloro che hanno versato per tre anni consecutivi i contributi Enpals, ai quali si aggiungono coloro che hanno superato la pre-selezione e la semifinale. IL BANDO PER LA PRE-SELEZIONE (tra il 20 e il 30 maggio 2012, Milano e Roma) Le pre-selezioni avranno luogo, a fine maggio, a Milano e a Roma. Le domande di iscrizione dovranno pervenire alla direzione di Hystrio (via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02.400.73.256, fax 02.45.409.483, premio@hystrio.it) entro l'11 maggio 2012. Possono essere inviate per posta oppure online (www.hystrio.it), corredate dai seguenti allegati: a) breve curriculum; b) foto; c) fotocopia di un documento d’identità; d) indicazione di titolo e autore dei due brani (uno a scelta del candidato e uno a scelta fra una rosa proposta dalla Giuria) e di una poesia o canzone da presentare all’audizione. I brani, della durata massima di cinque minuti ciascuno e ridotti a

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monologo, possono essere in lingua italiana o in uno dei dialetti di tradizione teatrale. I candidati che supereranno la pre-selezione parteciperanno alla semifinale (Castiglioncello, Castello Pasquini, 8-9 giugno, in collaborazione con Armunia): i candidati selezionati avranno accesso alla finale organizzata a fine giugno a Milano. IL BANDO PER LA SELEZIONE FINALE (21-22-23 giugno 2012, Milano) La selezione finale si svolgerà a Milano il 21-22-23 giugno 2012. Le domande d’iscrizione dovranno pervenire alla direzione di Hystrio (via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02.400.73.256, fax 02.45.409.483, premio@hystrio.it) entro l'11 giugno 2012. Possono essere inviate per posta oppure online (www.hystrio.it), corredate dai seguenti allegati: a) breve curriculum; b) foto; c) attestato di frequenza o certificato di diploma della scuola frequentata oppure la fotocopia del libretto Enpals; d) fotocopia di un documento d’identità; e) comunicazione del titolo e autore dei due brani (uno a scelta del candidato e uno a scelta fra una rosa proposta dalla Giuria) e di una poesia o canzone da presentare all’audizione. I brani, della durata massima di cinque minuti ciascuno e ridotti a monologo, possono essere in lingua italiana o in uno dei dialetti di tradizione teatrale. Modalità di iscrizione L’iscrizione avviene preferibilmente dal sito www.premiohystrio.org attraverso la compilazione dell’apposito modulo, corredato dei materiali di cui sopra. In alternativa si accetta anche l’iscrizione via posta. La quota d’iscrizione è la sottoscrizione di un abbonamento annuale alla rivista Hystrio (euro 35). Per informazioni: www.hystrio.it oppure segreteria del Premio Hystrio presso la redazione di Hystrio-trimestrale di teatro e spettacolo, tel. 02.400.73.256, fax 02.45.40.94.83, premio@hystrio.it.


Premio Hystrio Scritture di Scena_35 Bando di concorso 2012 Dopo il successo del 2011, parte la seconda edizione del concorso Premio Hystrio-Scritture di Scena_35, aperto a tutti gli autori di lingua italiana ovunque residenti che al giorno 2 aprile 2012 non abbiano ancora compiuto 35 anni. Il testo vincitore verrà pubblicato sulla rivista trimestrale Hystrio e sarà rappresentato, in forma di lettura scenica, durante la prima delle tre serate della 14a edizione del Premio Hystrio che avrà luogo a Milano nel giugno 2012. La premiazione avverrà nello stesso contesto. La presenza del vincitore è condizione necessaria per la consegna del Premio. Regolamento e modalità di iscrizione: - I testi concorrenti dovranno costituire un lavoro teatrale in prosa di normale durata. Non saranno ammessi al concorso lavori già pubblicati o che abbiano conseguito premi in altri concorsi. - Se, durante lo svolgimento dell’edizione, un testo concorrente venisse premiato in altro concorso, è obbligo dell’autore partecipante segnalarlo alla segreteria del Premio. - Se la Giuria del Premio, a suo insindacabile giudizio, non ritenesse alcuno dei lavori concorrenti meritevole del Premio, questo non verrà assegnato. - La quota d’iscrizione è la sottoscrizione di un abbonamento annuale alla rivista Hystrio (euro 35) da versare, con causale: Premio HystrioScritture di Scena_35, sul Conto Corrente Postale n. 40692204 intestato a Hystrio-Associazione per la diffusione della cultura teatrale, via De Castillia 8, 20124 Milano; oppure attraverso bonifico bancario sul Conto Corren-

te Postale n. 000040692204, IBAN IT66Z0760101600000040692204. Le ricevute di pagamento devono essere complete dell’indirizzo postale a cui inviare l’abbonamento annuale alla rivista Hystrio. I lavori dovranno essere inviati a Redazione Hystrio, via Olona 17, 20123 Milano, entro e non oltre il 31 marzo 2012 (farà fede il timbro postale). I lavori non verranno restituiti. - Le opere dovranno pervenire mediante raccomandata in tre copie anonime ben leggibili e opportunamente rilegate: in esse non dovrà comparire il nome dell’autore, ma soltanto il titolo dell’opera. All’interno del plico dovrà essere presente, in busta chiusa, una fotocopia di un documento d’identità e un foglio riportante, nell’ordine, nome e cognome dell’autore, titolo dell’opera, indirizzo, recapito telefonico ed email. È inoltre necessario inviare i file dell'opera a premio@hystrio.it (nel nome del file e all'interno di esso dovrà comparire solo il titolo; nell'oggetto dell'e-mail indicare "Iscrizione Scritture di Scena_35"). Non saranno accettate iscrizioni prive di uno o più dei dati richiesti né opere che contengano informazioni differenti da quelle richieste. - I nomi del vincitore e di eventuali testi degni di segnalazione saranno comunicati ai concorrenti e agli organi di informazione entro il 15 maggio 2011. La giuria sarà composta da: Marco Bernardi (presidente), Fabrizio Caleffi, Claudia Cannella, Renato Gabrielli, Roberto Rizzente, Diego Vincenti, Giorgio Finamore. INFO: il bando completo può essere scaricato dal sito www.hystrio.it, segreteria@hystrio.it, tel. 02.400.73.256.

Premio Hystrio-Occhi di Scena Bando di concorso 2012 Hystrio promuove la quarta edizione del Premio Hystrio-Occhi di Scena che, dedicato alla fotografia di scena, si pone come obiettivo di far emergere una professionalità mai sufficientemente valorizzata nel mondo del teatro. Considerando la fotografia parte vitale della comunicazione dello spettacolo e delle creazioni artistiche a esso connesse, il premio vuole promuovere e sostenere progetti fotografici di qualità che sappiano coniugare il rispetto dell’evento performativo con nuovi modelli espressivi capaci di darne una lettura critica e interpretativa. Il premio è rivolto a tutti i fotografi residenti in Europa, di età compresa o inferiore a 35 anni, che svolgono un’attività di collaborazione presso teatri, compagnie, festival, o che vogliano fare con la propria arte un omaggio al mondo dello spettacolo. Il premio verrà consegnato nel cor-

so della serata finale del Premio Hystrio 2012, che si terrà a Milano il 23 giugno 2012. Modalità di iscrizione L’iscrizione al concorso dovrà essere effettuata via email all’indirizzo andrea.messana@hys trio.i t . L’email dovrà inoltre contenere: a) scheda di partecipazione debitamente compilata in tutte le sue sezioni e firmata. b) fo tocopia di un documen to d’identità valido. c) curriculum vitae dell’autore. d) breve presentazione sulle intenzioni e le modalità operative del proprio lavoro. e) eventuali materiali critico-informativi. f) copia della ricevuta di pagamento della quota di iscrizione di euro 35 (equivalente alla sottoscrizione di un abbonamento annuale alla rivista Hystrio) da versare, con causale: Premio Hystrio-Occhi di

Scena 2012, sul Conto Corrente Postale n. 40692204 intestato a Hystrio-Associazione per la diffusione della cultura teatrale, via De Castillia 8, 20124 Milano; oppure attraverso bonifico bancario sul Conto Corrente Postale n. 000040692204, IBAN IT66Z0760101600000040692204. Le ricevute di pagamento devono essere complete dell’indirizzo postale a cui inviare l’abbonamento annuale alla rivista Hystrio. Una volta verificata l’iscrizione, ogni partecipante riceverà l’indirizzo di una cartella ftp personalizzata e le istruzioni sulle caratteristiche tecniche che dovranno avere le immagini. Le domande d’iscrizione dovranno pervenire entro il 15 aprile 2012. I vincitori del premio avranno diritto alla pubblicazione del proprio lavoro sulla rivista Hystrio e su un catalogo edito da Titivillus, a una borsa-lavoro per realizzare un reportage su due produzioni del Teatrino dei Fondi/Titivillus Mostre Edi-

toria, alla partecipazione gratuita a un corso di fotografia specializzato e alla possibilità di vedere il proprio lavoro esposto a San Miniato (Pisa, novembre 2012 - gennaio 2013). È prevista, inoltre, l’esposizione collettiva dei migliori reportage selezionati in occasione del Premio Hystrio (Milano, giugno 2012). La giuria sarà composta da: Massimo Agus (fotografo), Rossella Bertolazzi (diret tore IED Visual Communication), Maurizio Buscarino (fotografo), Claudia Cannella (diret tore di Hystrio), Silvia Lelli (fotografa), Andrea Messana (fotografo); e altri in via di definizione. INFO: il bando completo può essere scaricato dai siti www.hystrio.it, www.centrofotografiaespettacolo. it. Responsabile dell’organizzazione del Premio: Andrea Messana, andrea.messana@hystrio.it.

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Berlino, zapping d'autunno A zonzo tra le “prime” più intriganti in scena nella capitale tedesca: Kafka secondo Erpulat, l’Onegin di Hermanis e le ultime fatiche di Schimmelpfennig e Macras. di Elena Basteri

uello che segue è un piccolo tour tra alcune delle “prime” berlinesi d’autunno. Un tour che ci porta da un teatro all’altro, da un genere all’ altro, da un autore all’altro non secondo un piano premeditato e strutturato ma seguendo piuttosto una Zufalldramaturgie, una drammaturgia del caso per dirla con Dürrenmatt. Lo stesso caso che, quando si è in una nuova città, non ci fa seguire mappe o percorsi prestabiliti, ma ci porta a girovagare e a perderci, pronti ad accogliere interessanti sorprese come piccole delusioni. Si comincia allora al Deutsches Theater dove Nurkan Erpulat, una stella emergente del panorama della regia teatrale tedesca, ha messo in scena Das Schloss (Il castello) di Franz Kafka. Indicato dalla prestigiosa rivista Theaterheute come miglior regista emergente del 2011, questo quarantenne dalle origini turche rappresenta un caso di carriera fulminea: dopo essersi formato alla Scuola “Ernst Busch” di Berlino, si è fatto le ossa al Ballahaus Naunyn-

strasse, un teatro indipendente situato nel quartiere multietnico di Kreuzberg e specializzato in teatro della post migrazione. Con Verrücktes Blut (Sangue pazzo), lo spettacolo invitato ai Theatertreffen 2011 che lo ha portato alla ribalta, Erpulat aveva messo in luce le schizofrenie e le ossessioni di una società (quella tedesca in questo caso) dove la favola dell’integrazione si rivela in tutta la sua illusoria fragilità (cfr. Hystrio n. 3.2011). Proprio per il suo legame stretto con i temi e gli ambienti della migrazione, molti si aspettavano una lettura di questo tipo anche della grande opera incompiuta di Kafka. Il tema dell’estraneo, di colui che viene da fuori e che viene respinto e accolto con freddezza e diffidenza, che non riesce a inserirsi nella struttura sociale e che rimane un outsider avrebbe potuto trovare un’efficace impersonificazione nell’agrimensore K., il protagonista de Il Castello. Ma questa volta Erpulat, disattendendo le aspettative di alcuni, non usa la chiave “post migrantisches”; rimane fedele al testo (ad affiancarlo come drammaturgo ancora

Eugen Onegin, regia di Alvis Hermanis (foto: Thomas Aurin).

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una volta Jens Hillje) e punta piuttosto su trovate sceniche e registiche. Come la scenografia composta da lastre trasparenti che salgono e scendono su più piani, delimitando lo spazio sempre in maniera diversa e creando, grazie alle luci, giochi di specchi e riflessi, o come la colonna sonora dei The Doors cantata live da un coro di bambini a piedi nudi che irrompono più volte sul palco. Lo spettacolo, nonostante questi accessori a effetto, il ritmo incalzante e la fisicità forte degli attori, dopo un po’ perde il suo appeal, lasciandoci assopiti nelle maglie surreali e oscure del racconto kafkiano. Puškin, storie di amanti, mode e manie Di tenuta maggiore è invece il poema ottocentesco di Aleksandr Puškin Eugen Onegin, portato in scena da Alvis Hermanis alla Schaubühne. A scapito della semplicità della trama (la classica storia di amori travagliati, di tempistiche sentimentali incongruenti, di fraintendimenti e duelli sullo sfondo della campagna russa di inizio Ottocento), Hermanis confeziona un gioiellino di storia del costume in forma di intrattenimento teatrale. Sul palco, ridotto a una striscia orizzontale di proscenio, si dispiega un tipico appartamento russo d’inizio Ottocento dove fanno il loro ingresso due donne e tre uomini in abiti contemporanei e ci raccontano della fama di Don Giovanni di Puškin, il quale pare abbia avuto più di 130 amanti prima di convolare a nozze. Si intraprende così, tra aneddoti biografici sull’autore e racconti coloriti sulle usanze e la mentalità del tempo, un viaggio nel passato, illustrato finemente da un repertorio originale di dipinti e disegni proiettati su grandi schermi sopra il palcoscenico. Nel frattempo i cinque ciceroni si svestono dei loro abiti comuni per indossare strato su strato davanti ai nostri occhi mutandoni, corsetti, panciotti e parrucche. La metamorfosi nei personaggi di Puškin non sarà però definitiva. Le vicende del romanzo o l’ introduzione di un personaggio nuovo continueranno a essere una scusa per curiosi intermezzi metateatrali da parte dei protagonisti stessi: apprendiamo così come anche i dandy (il personaggio di Eugen Onegin) fossero ostili all’acqua e quindi assai maleodoranti o come lo svenimento diffuso tra le donne fosse sì provocato dal corsetto troppo stretto ma anche visto come un gesto alla moda (si imparava la tecnica per cadere in modo più aggraziato). Queste e tante altre storie accompagnano tutta la vicenda creando un mosaico divertente delle manie e delle mode poco conosciute di un’epoca che, dopo lo spettacolo, sentiamo più simpatica e familiare.

Fiabe gotiche e patologie metropolitane Si torna alla contemporaneità e al Deutsches Theater dove Roland Schimmelpfennig ha messo in scena il suo ultimo testo dal titolo Die vier Himmelsrichtungen (I quattro punti cardinali). Quattro personaggi arrivano da luoghi diversi della terra, il loro destini si intrecciano per effetto del caso e ognuno in maniera diversa andrà incontro a una sorte avversa. Le atmosfere cupe date da una scenografia dove si alternano temporali, neve, pioggia e nebbia insieme ad altri elementi magici e onirici, rendono questo lavoro una sorta di favola noir per adulti: il personaggio della veggente (una bravissima Almut Zilcher), il clown dalla lingua blu tatuata sul mento (Ulrich Matthes), il mito di Medea e Perseo intrecciato misteriosamente alla vicenda, la ruota panoramica di un vecchio Luna Park come metafora dell’esistenza umana. Anche a livello stilistico la ripetizioni di frasi e formule (e quindi di certe situazioni sul palco) o il racconto in terza persona dei personaggi su se stessi creano un ritmo e un’estetica da fiaba gotica senza un lieto fine. Il nostro tour termina all’Hebbel am Ufer con Here/After, l’ultima fatica di Constanza Macras, notoriamente appassionata di temi come fobie, attacchi di panico, isterismi e altre patologie urbane contemporanee. Questa volta la coreografa argentina e naturalizzata berlinese ha deciso di focalizzare la sua attenzione sull’agorafobia, la paura degli spazi aperti, dei luoghi pubblici. Per difendersi da queste minacce i personaggi di Here/After si chiudono nelle loro case, su divani stile Ikea, muniti di MacBook Pro e di I-Phone per poter chattare con amanti immaginari, acquistare online nuove pantofole o ordinare pizze. E proprio l’uomo delle pizze o il postino diventano l’unico contatto reale con il mondo esterno e quindi anche una possibile preda sessuale. Le due ore di spettacolo sono un susseguirsi di gag divertenti, di dialoghi serrati e di loop coreografici spossanti, fatti di salti e cadute acrobatiche. L’inconfondibile “stile Macras” scurrile, ironico, caotico, poco intellettuale e molto pop regna sovrano. A qualcuno sembrerà di avere un déjà vu, altri verranno comunque rapiti dall’incredibile energia dell’ensemble Dorky Park, dai colori sgargianti, dai mille oggetti, dalla musica live, dalle proiezioni video, dalla piattaforma rotante in cui si svolge l’azione centrale. Tutto è in movimento. La danza non è solo un’incredibile prova fisica ma un gesto apotropaico, un rito purificatore che ci libera dalle paure, ci lascia stanchi e svuotati, pronti per un nuovo inizio. ★

In questa pagina, Here/After, di Constanza Macras; Il castello, di Nurkan Erpulat (foto: Arno Declair) e I quattro punti cardinali, di Roland Schimmelpfennig (foto: Arno Declair).

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Saved, di Edward Bond (foto: Simon Kane).

Violenza, sfruttamento e illegalità a Londra spietati racconti d'inverno Sulle rive del Tamigi, il clima grigio degli ultimi tempi ispira meditazioni sul significato della violenza. Al Lyric Hammersmith, al Barbican Centre e allo Shoreditch Town Hall, tre spettacoli made in Britain affrontano il tema da punti di vista differenti. di Margherita Laera

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arah Kane l’aveva detto: si può imparare tutto quel che c’è da sapere sulla drammaturgia da Saved di Edward Bond. In effetti, era ora che qualcuno si decidesse a rimettere in scena questo testo amaro ma importante. Da quando la censura britannica (abolita solo nel 1968) lo bandì nel lontano 1965, nessuno si era ancora azzardato a cimentarsi con le patologie di una famiglia di lavoratori come tante altre, in una Londra del dopoguerra ancora oscillante tra le vecchie regole vittoriane e il mondo nuovo del capitalismo pre-Thatcher. Amore, odio, nichilismo, gravidanze adolescenziali indesiderate, violenze fisiche e psicologiche, crudeltà e indifferenza, un nucleo familiare soffocante e disfunzionale: ci sono tutti gli ingredienti per un dramma totale, magistralmente orchestrati da un grande del teatro contemporaneo, troppo spesso trascurato nelle logiche commerciali e perbeniste della scena britannica. Nella bella produzione del Lyric Hammersmith di

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Londra, diretta da Sean Holmes, tutta la brutalità dei personaggi di Bond emerge senza censure. Lo stesso teatro propone una rassegna di testi dell’autore, che andranno in scena la prossima primavera. In Saved, l’infatuazione della giovane Pam per Len, l’inquilino che affitta una stanza nella casa della sua famiglia, si trasforma in un incubo. Dopo la nascita di un bimbo non voluto, i due rimangono a vivere nella casa dei genitori di lei, come se niente fosse accaduto, trascurando i pianti disperati del figlio. La tragedia raggiunge l’apice quando la neo-mamma, a passeggio con la carrozzina nel parco, abbandona di proposito il bebè in balia di un branco di giovani teppisti, che si divertono a prendere a sassate il corpicino indifeso, finendo per ucciderlo. Ma anche dopo questo episodio, i due rimangono a vivere in famiglia, alimentandone l’atmosfera asfissiante e opprimente. In questa produzione, splendidamente interpretata da un cast impeccabile (soprattutto Lia Saville nel difficile ruolo di Pam), i

dialoghi di Bond denunciano una società malata con accuratezza e musicalità. Il realismo sociale dipinge un paesaggio umano desolato di una working class senza valori e senza bussola, guidata solo da un’inerzia degradante. Nel programma di sala, Bond azzarda paragoni con il periodo presente e traccia le origini della violenza individuale nella violenza del sistema, accusando senza mezzi termini il governo Cameron per la bieca mancanza di volontà di ristabilire uno squarcio di giustizia sociale. Attendiamo dunque i suoi nuovi testi sull’era del credit crunch. E sempre di soprusi si parla in Roadkill, uno spettacolo site-specific realizzato al Barbican Centre da Cora Bissett, con testi di Stef Smith sul traffico illegale di donne dalla Nigeria al Regno Unito. La storia è basata su fatti realmente accaduti, raccontati da donne scappate dal giro di sfruttamento grazie all’intervento di organizzazioni non governative. Il pubblico, massimo venti persone a replica, è testimone dell’arrivo a Londra


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dell’ignara tredicenne Mary in compagnia della “zia” Martha, appena scesa dall’aereo con tanto di valigetta rosa. Insieme alle due attrici, gli spettatori vengono trasportati in pulmino in una casa nella periferia est della città, dove assisteranno alle violenze indicibili cui viene sottoposta l’adolescente, costretta a sopportare il suo nuovo “mestiere” per spedire qualche spicciolo a casa. Pur non essendo degno di nota dal punto di vista della messa in scena, lo spettacolo ha il merito di portare il problema all’attenzione del pubblico. Per l’accorata denuncia delle inaccettabili violenze sulle donne, Roadkill ha vinto numerosi Fringe Awards al Festival di Edimburgo 2010. Mercy Ojelade, nei panni di Mary, è capace di tenere alta la tensione, ma l’insistenza dei suoi piagnucolii innervosisce più che commuovere. Adura Onashile è perfetta nel ruolo della tirannica Martha, abile manipolatrice e complice dell’infimo protettore. Itinerante e immersivo è anche The New World Order, altra produzione site-specific creata dalla compagnia Hydrocracker per il Brighton Festival 2011, che combina cinque testi brevi di Harold Pinter creando un’esperienza spaesante per gli spettatori. I drammi, tra i più apertamente politici e “distopici” di Pinter, dipingono un mondo non così lontano dal nostro, in cui un regime totalitario impone una cultura unificante e terrorizza i dissidenti tramite la tortura. Per le repliche londinesi, le storie sono ambientate tra il primo piano, il piano terra e i sotterranei della Shoreditch Town Hall a Hackney, il municipio del quartiere dove visse Pinter, che di solito ospita il consiglio di zona e gli immancabili matrimoni. All’entrata, tre attori vestiti da poliziotti con occhiali scuri perquisiscono gli spettatori e distribuiscono pass di vari livelli: A, B e Press. Un personaggio che sembra essere un politico conduce il pubblico al primo piano per una conferenza stampa (Press Conference), in cui il Ministro dell’Integrità Culturale, ex-capo dei Servizi Segreti (l’eccellente Hugh Ross), informa i giornalisti sul suo programma per eliminare ogni dissenso. Al momento di cambiare stanza, il pubblico viene separato in due gruppi senza preavviso: ora lo stesso attore interpreta il capo dei Servizi Segreti (One For the Road), in cui un prigioniero politico viene interrogato e minacciato tra un bicchiere di whiskey e l’altro. Al pian terreno, due ministri si scontrano sul numero esatto di morti in una catastrofe non meglio identificata (Precisely). Poco dopo, nei sotterranei, due

ufficiali dell’esercito ordinano alla madre del prigioniero di non parlargli usando il dialetto delle montagne, perché è stato bandito (Mountain Language), mentre in una stanza oscura, due soldati discutono su quali tipi di tortura adottare davanti allo stesso prigioniero incappucciato (The New World Order). Mentre sua moglie e suo figlio sono maltrattati senza posa, i poliziotti non smettono mai di sorvegliare il pubblico, che viene messo a disagio con domande, ordini e occhiate fulminanti. Nel suo genere, questa è una bella impresa, capace di far vivere Pinter in maniera inusuale e creando attimi di vera tensione. Alla fine, quando il prigioniero ormai zoppo e gravemente ferito viene fatto uscire dalla porta sul retro, è un sollievo rendersi conto di essere liberi e di poter andare a bere una birra nel pub dietro l’angolo. ★

SAVED, di Edward Bond. Regia di Sean Holmes. Scene di Paul Wills. Luci di Oliver Fenwick. Con Susan Brown, Calum Callaghan, Michael Feast, Joel Gillman, Bradley Gardner, Tom Padley, Lia Saville, Billy Seymour, Morgan Watkins, Monsay Whitney. Prod. Lyric Hammersmith, LONDRA. ROADKILL, ideazione e regia di Cora Bissett. Testi di Stef Smith. Scene di Steff Brettle. Prod. Pachamama Productions - Traverse Theatre, EDIMBURGO - Barbican Centre, LONDRA. THE New World Order, di Harold Pinter. Regia di Ellie Jones. Scene di Ellen Cairns. Luci di Tim Mascall. Coreografie di Vik Sivalingam. Con Kate Dyson, Beth Fitzgerald, Richard Hahlo, Hugh Ross, Ross Sutherland, Matthew Wait, Jem Wall. Prod. Richard Hahlo e Jem Wall (Hydrocracker) - ArtsAgenda Barbican Centre, LONDRA.

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Incubi ebraici da Berlino a Brooklyn la tragedia moderna dell'ultimo Miller BROKEN GLASS, di Arthur Miller. Regia di Iqbal Khan. Scene di Mike Britton. Luci di Matthew Eagland. Musiche di Grant Olding. Con Antony Sher, Tara Fitzgerald, Stanley Townsend, Caroline Loncq, Suzan Sylvester, Brian Prothero, Laura Moody (violoncello). Prod. Vaudeville Theatre, LONDRA. Diretta in modo esemplare da Iqbal Khan con Tara Fitzgerald e un bravissimo Antony Sher, questa edizione di Broken Glass di Arthur Miller non solo ha riscosso un grande successo, ma per molti spettatori è stata la scoperta di una sconosciuta “tragedia moderna” di sorprendente intensità drammatica. Ancora una volta, colpisce di Miller la capacità di dare rilievo emblematico al microcosmo familiare della sua Brooklyn, per evocare, in questo caso, gli incubi del passato e svelarne l’ombra che si allunga fino al nostro presente. I “vetri rotti” del titolo sono infatti quelli che coprirono le strade di Berlino e di altre città nella tremenda “notte dei cristalli”, in cui i nazisti frantumarono le vetrine dei negozi della comunità ebraica. Ma la scena del dramma è volutamente lontana da quel teatro di sangue. Siamo a Brooklyn, nel novembre del 1938. Le notizie di quel che accade nella Germania nazista arrivano portate dai giornali ed è proprio questa condizione di lontananza e apparente sicurezza che Miller esplora nei suoi personaggi di ebrei borghesi inseriti nella società americana. Sono le loro reazioni a quegli avvenimenti che costruiscono il dramma e determinano l’imprevista “frantumazione” dei loro rapporti. I “vetri rotti” sono così anche quelli della casa, dove l’improvvisa paralisi isterica di Sylvia rompe il superficiale equilibrio del suo matrimonio, svelando un groviglio di angosce e paure represse. Come una Cassandra incompresa, Sylvia vede la violenza che dilaga senza che nessuno intervenga a fermarla. Se per lei quel che succede è traumatico, per il marito si tratta invece di fatti che non lo riguardano, convinto com’è di essere saldamente riuscito a salire dove nessun ebreo è mai arrivato. E tanto più catastrofica sarà per lui la caduta da questa posizione sociale, conquistata al prezzo di annullare se stesso. Antony Sher è eccezionale nel mostrare come vada gradualmente in frantumi la sua iniziale sicurezza sotto i colpi di un razzismo invisibile da cui si credeva immune. La novità della messinscena di Londra sta proprio nel rilievo che acquista la sua sconfitta e nella capacità della regia di far emergere la complessa partitura di questo doppio dramma, in cui entra, a scandire le scene, la voce suonata dal vivo di un violoncello. Laura Caretti

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Dublino, la difficile resa dei conti con i fantasmi del passato Tema ricorrente, all’ultima edizione dell’Ulster Bank Dublin Theatre Festival, è stato il tentativo, soprattutto da parte di gruppi emergenti, di fare i conti con un capitolo nero della storia nazionale, quello degli abusi su donne e minori perpetrati all’interno di istituzioni statali ed ecclesiastiche. di Gabriella Calchi Novati

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no degli aspetti degni di nota dell’Ulster Bank Dublin Theatre Festival 2011 è la presenza di numerosi spettacoli di compagnie emergenti che tentano di confrontarsi con un problematico passato nazionale, un passato fatto di abusi su minori e donne, perpetrati per mano sia dello Stato che della Chiesa. Spettacoli come World’s End Lane, Laundry e The Blue Boy riflettono in modo teatrale e performativo sulle cause che hanno portato allo sviluppo di istituzioni “di recupero” come le Magdalene Landries e le Industrial Schools. Le prime erano conventi dove suoreaguzzine rinchiudevano fino alla morte, con il benestare dello Stato e delle famiglie, donne e bambine per i motivi più disparati: dalla banalità di essere troppo carine e quindi una possibile fonte di “peccato” per il genere maschile, fino all’infelice evento di essere ragazze madri, o di essere stata violentate o semplicemente di essere nate con un deficit fisico. Le Industrial Schools erano invece istituzioni gestite da preti come alternativa agli orfanotrofi, scuole che avrebbero dovuto provvedere a un’educazione, sia intellettuale che pratica, per bambini e ragazzi senza famiglia o colpevoli di crimini minori, come aver rubato una mela o una bicicletta. Gli ultimi cinque minuti di Cechov Ma il Teatro Nazionale d’Irlanda, piuttosto che offrire il suo spazio per riflettere su temi importanti e pressanti come quelli appena descritti, ha invece deciso di offrire agli spettatori una sorta di escapismo surrealista. 16 Possible Glimpses di Marina Carr ha infatti come protagonista Anton Cechov, la cui vita è rappresentata sul palcoscenico attraverso episodi che, come brevi e intense polaroid, mostrano un passato impossibile da recuperare. Spettacolo elegante ma a volte eccessivamente fazioso, contrappone Cechov-uomo a Cechov-metonimia teatrale. Utilizzando lo strumento narrativo dell’episodio, 16 Possible Glimpses mostra come la frattura postmoderna abbia lacerato non solo il testo ma anche la memoria, lasciando in sua assenza residui, resti, frammenti. Questi episodi, questi glimpses, dimostrano che non ci può essere alcuna unità narrativa, poiché tale unità è di per sé inafferrabile in prima istanza. E così è solo attraverso possibili, probabili glimpses, che lo spettatore si addentra nella memoria di Cechov. Lo spettacolo, focalizzandosi sulla vita personale

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teatromondo In apertura, 16 Possible Glimpses, di Marina Carr; in questa pagina, The Blue Boy e Laundry, regia di Louise Lowe.

dell’autore russo piuttosto che sulle sue opere letterarie o teatrali permette di “spiare” come da un buco della serratura momenti intimi della vita di Cechov (Patrick O’Kane), una vita che sembra costantemente sfuggire la memoria, un vissuto personale che non può essere tradotto né in immagini né in parole. Nella non linearità narrativa noi spettatori siamo testimoni non solo della vita ma anche della morte di Cechov che, afflitto dalla tubercolosi, tenta una corsa contro il tempo, nella speranza di sconfiggerlo. Lo spettacolo, infatti, si apre con una scena di morte. Una nera figura incappucciata, il Monaco Nero, cerca il protagonista per portarlo con sé. Ma lui chiede di avere cinque anni in più da vivere. Il Monaco Nero gli concede solo cinque minuti. Il tempo a questo punto si dilata e questi cinque minuti diventano quanto necessario per mostrarci l’essenza umana e artistica del maestro russo. Attraverso una carrellata di episodi incontriamo le numerose identità dello straordinario scrittore. Da quella di medico a quella di fratello amoroso, da quella di amante appassionato a quella di viaggiatore. Poi ecco il Cechov uomo di famiglia, marito, figlio; Cechov che da medico diventa paziente, incapace o non pronto ad accettare fino in fondo la gravità della sua malattia. E per finire il Cechov scrittore. La regia di Wayne Jordan svela al pubblico solo alcuni attimi della sua vita. Attimi immaginati e allo stesso tempo attualizzati attraverso una stratificazione di segni che si muovono dal reale al virtuale, confondendosi. La sovrapposizione di scene dal vivo, scene pre-registrate e intimi primi piani, creati dagli stessi attori live, diventano modi di narrazione teatrale che sembrano fare eco ai Motus degli anni Novanta, purtroppo senza l’aggressività creativa del gruppo romagnolo. Il ritorno del rimosso Gli abusi sessuali su minori da parte del clero è al centro di The Blue Boy. L’iniziale tono astratto dell’opera, in cui una serie di attori mascherati si muove in silenzio sul palco, quasi a voler suggerire come la violenza, sebbene al “plurale”, rimanga sempre senza volto, è interrotto dalla proiezione di immagini d’archivio relative alle istituzioni indagate per abusi. Mentre i bambini, per quanto assenti, sono i protagonisti di The Blue Boy, World’s End Lane e Laundry, entrambi per la regia di Louise Lowe, che affrontano il tema delle cosiddette “donne di-

menticate d’Irlanda”. World’s End Lane si concentra sulla storia del quartiere di Dublino chiamato “Monto”, il più grande distretto a luci rosse in Europa che venne chiuso nel 1925 in una notte, e la cui chiusura avrebbe causato l’apertura di numerose Magdalene Laundries nella stessa area. Laundry, invece, come suggerisce il titolo, è una performance che tenta di offrire uno spazio di riflessione su quegli eventi della storia irlandese che, benché rimossi, continuano a ritornare come fantasmi. Si entra tre alla volta nella abbandonata Magdalene Laundry in Gloucester Street a Dublino. Appena varcata la soglia, gli spettatori vengono separati: ognuno deve vivere in modo personale e intimo l’incontro con le “Maggies”, così erano chiamate quelle donne recluse e prive di vita, di presente e di futuro, spettrali ma fisicamente presenti. Ma, nonostante gli sforzi per far sì che l’evento sia vissuto come “vero”, Laundry resta imprigionato nel formalismo della performance. E non basta l’utilizzo di materiale storico e di archivio per trasformare la finzione di una realtà nella realtà stessa. L’implicita decisione del Teatro Nazionale, riflessa nella scelta dello spettacolo per il Festival, di non avere alcuna connessione con eventi contemporanei così importanti, e il tentativo non proprio riuscito di affrontare tali temi in spettacoli come The Blue Boy e Laundry, sembra suggerire che il teatro, come medium, sia inadeguato, incapace di muovere e commuovere. Cosa che invece riescono a fare le opere di Gerard Mannix Flynn, grande escluso del Dublin Theatre Festival. Scrittore, regista, attore, attivista e figura politica, Flynn stesso da bambino ha subito abusi: dalla reclusione nelle Industrial Schools alla prigione e al manicomio. Flynn, nel panorama dell’arte irlandese, sembra essere l’eccezione che conferma una regola scricchiolante. In un momento di crisi della creatività irlandese, in cui il teatro dimostra di non essere ancora pronto ad accendere luci troppo intense sulle piaghe sociali contemporanee, Flynn, sia nelle sue in-stallazioni che nelle sue ex-stallazioni (così chiamate, in quanto l’artista le posiziona nelle strade di Dublino), non offre certo luci soffuse ma accecanti, così da “presentare” il passato invece di “rappresentarlo”. Che questa sia l’indicazione di un limite intrinseco del teatro irlandese contemporaneo? Come a dire che non appena l’oggetto del teatro è reale, la realtà dello stesso oggetto immediatamente si vanifica. ★

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Sirenos, il meglio del teatro lituano per sedurre la scena europea L’ultima edizione del Festival Internazionale di Vilnius prende le mosse da un duplice intento: consacrare le migliori proposte nazionali dell’ultima stagione (Koršunovas, Varnas, Giniotis, Areima) e ospitare artisti stranieri in grado di fondere il teatro tradizionale con le arti visive (Gob Squad, Muta Imago, HOPPart, Kristian Smeds). di Stefania Bevilacqua Bassifondi, regia di Oskaras Koršunovas (foto: D.Matvejevas).

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ome le Sirene, raffigurate nella mitologia classica simili a donne-pesce pericolosamente seducenti, così il Festival Internazionale del Teatro Sirenos nasce con l’intenzione di incantare il pubblico. Questo è il suo spirito profondo, l’anima passionale di Vilnius, città dove ogni anno, dal 2004, si svolge il festival, nato da un’idea del regista Oskaras Koršunovas in accordo con il Comune di Vilnius, il Ministero della Cultura della Repubblica della Lituania e con il sostegno economico degli enti pubblici e privati locali. Il Festival Sirenos non ha certo lo scopo di uniformarsi a una generazione di artisti, a una certa estetica, a un genere teatrale specifico, ma si propone costantemente di superare i limiti imposti cercando nuove forme di sperimentazio-

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ne e creando nuove interazioni culturali. Dalla prima edizione a oggi, infatti, vi ha preso parte tutta una generazione di registi europei che hanno raggiunto la loro maturità artistica dopo la caduta del Muro di Berlino: Romeo Castellucci, Jan Fabre, Heiner Goebbels, Krzysztof Warlikowski, Kristian Smeds, Alvis Hermanis, Eimuntas Nekrošius e Oskaras Koršunovas. Gli ospiti stranieri presenti quest’anno appartengono a una zona di confine del teatro che combina l’azione tradizionale del dramma con le nuove indicazioni del teatro post-drammatico e delle arti visive. Erano gli anglo-tedeschi Gob Squad con Super Night Shot, gli italiani Muta Imago con Dispiace #1. La rabbia rossa, gli ungheresi HOPPart con Korijolànusz e la versione rinnovata della produzione di Kristian Smeds Sad

Songs from the Heart of Europe, ispirata a Delitto e castigo di Dostoevskij.

Koršunovas nella tempesta Non meno importante obiettivo del festival è quello di presentare i più significativi artisti del teatro lituano. Nell’ultima edizione (29 settembre-8 ottobre 2011) il panorama del teatro nazionale è stato rappresentato dagli spettacoli che hanno riscosso grande successo durante la passata stagione: Bassifondi di Maxim Gor’kij diretto da Oskaras Koršunovas e Miranda, il suo ultimo lavoro tratto da La tempesta di William Skakespeare; Il pubblico di Federico García Lorca, regia di Gintaras Varnas; I villeggianti, tratto da Gor’kij e diretto da Aidas Giniotis; e gli spettacoli La maledizione, tratto da Il lutto si addice a


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Elettra di Eugene O’Neill, e Anfitrione di Peter Hacks del giovane talento Artéras Areima. Bassifondi di Gor’kij è stato realizzato da Koršunovas lo scorso anno. Un’interpretazione molto personale dove il filo conduttore del dramma, cioè il rapporto degli esseri umani con la verità e la menzogna, si è trasformato per gli attori in un’analisi interiore, una confessione agli spettatori e anche a se stessi. Nella messinscena di Koršunovas il teatro comincia quando gli attori, messi fisicamente molto vicini al pubblico, si siedono a tavola e cercano se stessi attraverso il confronto diretto con gli spettatori. Il regista ha realizzato solo il quarto atto e ha rinunciato alla funzione narrativa del dramma: questo ha permesso agli attori di analizzare il proprio percorso artistico e creativo. I personaggi sono stati solo un pretesto per parlare di sé e non viceversa. Sempre nel 2010 Koršunovas si è recato in Islanda dove ha ideato Miranda. Le tempeste invernali, le aurore del Nord sullo sfondo, la solitudine dell’isola, i vulcani attivi e i segreti di questa terra lo hanno sicuramente ispirato. Spesso quest’opera è rappresentata come una fiaba per adulti, ma Koršunovas ha preferito la lettura critica di Jan Kott, il quale ha visto nella Tempesta un dramma sociale sull’interminabile e assurda lotta per il potere. Miranda è quindi incentrata sul dramma del potere. Ovunque, nel mondo, ci sono isole deserte create appositamente dalle autorità per le persone “scomode”. In Unione Sovietica, dice il regista, una vasta area di isole deserte furono, per lungo tempo, la casa di molti geniali creatori. Esse erano piene di fermento e i deportati fecero di tutto per proteggere e mantenere integra la loro vita spirituale con l’aiuto dei libri. Così per Prospero (Povilas Budrys) i libri hanno un significato speciale. Miranda invece è una creazione di Prospero, una proiezione della sua anima, l’essenza profonda del suo essere, la sua salvezza. Il messaggio è dunque rivolto a tutti gli artisti che, nelle loro isole deserte, ancora evocano la loro Miranda. “Uno spettacolo intelligente”, così si può definire Il pubblico, diretto da Gintaras Varnas, regista di

opere teatrali e liriche, diplomato all’Accademia di Musica e Teatro della Lituania e nato nel 1962. Per Varnas è il secondo allestimento del dramma di Federico García Lorca. Nell’opera dell’autore spagnolo si fronteggiano due modelli di teatro: quello che seduce con trucchi il pubblico, il quale non desidera assistere alla “verità” sulla scena, e quello che mostra il dramma autentico nel quale si esprime l’intimità dell’autore. Per questo motivo il regista definisce: «il primo allestimento, nel 1996, una spiritosa performance sul teatro e il suo pubblico». Mentre il secondo è stato provocato dalle proteste seguite al Baltic Pride del 2010, che testimoniano l’intolleranza della società lituana. Nello spettacolo presentato al festival il diritto di un individuo di essere se stesso, di non avere paura della propria natura è stato il tema chiave della rappresentazione: il regista, sensibile e raffinato, ha mostrato con unità stilistica e attenzione all’estetica dell’autore, un deposito di segreti umani, un racconto sulla realtà nascosta dalla vita. Se Anfitrione incontra Brecht Intellettuali, discendenti di gente comune, rappresentati nell’ultima fase della loro decadenza spirituale quando, dopo aver infranto i sogni della giovinezza, lentamente affondano nel pantano del benessere borghese. Sono i protagonisti de I villeggianti (1904) di Maksim Gor’kij, titolo che è metafora dell’atteggiamento psicologico dei personaggi e del loro desiderio di “prendersi una pausa”. Aidas Giniotis (oggi insegnante all’Accademia di Musica e Teatro della Lituania e leader del Keistuolių Teatras) affronta la pièce con lo sguardo rivolto all’oggi. La sua messinscena, infatti, mette al centro i problemi causati dalla crisi spirituale e culturale che, oggi come nel XX secolo, ha colpito la società occidentale. Giniotis inserisce poi nello spettacolo anche il breve racconto Makar Cudra e il poemetto Il canto del falco, scritti da Gor’kij in anni giovanili, arricchendolo così di nuove sfumature. Infine particolare attenzione va rivolta alla giovane promessa del teatro lituano, il regista

Artūras Areima, nato a Šiauliai, laureato all’Accademia di Musica e Teatro sotto la guida del regista Rimas Tuminas e presente al Festival Sirenos 2011 con due spettacoli. Nel primo, basato su Il lutto si addice a Elettra di O’Neill, il regista parte da alcune domande: che cosa accade ai membri di una famiglia perché diventino nemici? Che cosa succede nell’animo di una donna, quali tormenti suscitano odio e rancore nei confronti del proprio marito e della propria figlia? La tragedia della famiglia Mannon, protagonista della pièce, è una lotta con la natura e il destino. Ogni discendente della famiglia sta cercando di spezzare la maledizione che grava su di lui, ma non è in grado di farlo. Areima è interessato proprio a questo aspetto, ai tentativi dei personaggi di sfuggire al proprio destino. Da sottolineare anche la straordinaria presenza sulla scena del musicista jazz Liudas Mockųnas. Al sassofonista il regista ha dato un ruolo: improvvisare e interpretare con la musica gli stati d’animo dei personaggi e i temi centrali del dramma. Secondo spettacolo presente al festival era Anfitrione. Il regista ha scelto la versione del drammaturgo tedesco Peter Hacks alla quale si è ispirato. In questo spettacolo le vicende di Giove - che per trascorrere una notte d’amore con Alcmena, moglie di Anfitrione comandante dell’esercito tebano di ritorno da una battaglia, ne prende le sembianze - appaiono nitide, maliziose e brechtiane. La messinscena di Areima, interpretata da un gruppo di giovani attori (e giovane è anche la scenografa e costumista, la brava Agné Kuzmickaité), è un’ode all’amante, alla rinascita dei sensi: «Desidero che il pubblico, dopo aver assistito al mio spettacolo, senta il bisogno di fantasticare, pensare e filosofare». A questo proposito Areima ama citare il poeta Allen Ginsberg: «Vado in camera da letto silenziosamente e mi sdraio tra lo sposo e la sposa, quei corpi caduti dal cielo, distesi, nudi e irrequieti, braccia appoggiate sui loro occhi nel buio, seppellire la mia faccia nelle loro spalle e nel loro petto, respirando la loro pelle e accarezzare e baciare il loro collo e la loro bocca». ★

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Wroclaw, al Festival Dialog la parola d'ordine è "non comune" L’edizione 2011 della rassegna polacca si è concentrata sul tema dell’“inconsueto” nel teatro contemporaneo. Molte le proposte che hanno messo alla prova il pubblico: da quelle dei “nostri” Emma Dante e Romeo Castellucci a quelle di Krystian Lupa e Ivo van Hove. di Laura Caretti

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uriosi, attenti, non prevenuti e non censori, pronti all’applauso, ma anche critici e desiderosi di discutere quello che la scena propone. Così sono gli spettatori del Festival di Wroclaw “Dialog”, che ogni due anni rinnova la sua formula con una rassegna di spettacoli scelti da una prospettiva sempre diversa. Nel 2009 era stato lo sguardo teatrale sul “male nel mondo” a coinvolgere il pubblico nella visione drammatica del nostro tempo “fuor di sesto”, e Shakespeare era stato il grande protagonista della scena (vedi Hystrio n. 1.2010). Questa volta, la decisione di esplorare quello che è “inconsueto” e “non comune” nel teatro di oggi ha offerto ai nostri occhi un ven-

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taglio variegato di proposte “insolite” sul doppio piano della drammaturgia e della scrittura scenica. E certo, su questo terreno, il nostro Romeo Castellucci, con il suo controverso spettacolo Sul concetto di volto del figlio di Dio, ha avuto buon gioco nel sorprendere e suscitare emozioni forti. Per molti, esposti per la prima volta al suo modo di far teatro, è stato uno shock, ma anche una scoperta non rifiutata. «Desidero che il pubblico veda un teatro inconsueto, – mi dice Chrystina Meissner, regista e direttrice del Festival - spero che lo sguardo degli spettatori accolga questa diversità, non la rifiuti e la loro visione del mondo ne sia influenzata». E così è stato. Nessuno, com’è invece successo in

Francia, ha gridato allo scandalo, nessuno, pur nella cattolicissima Polonia, ha sentito dissacrata la propria religione. La mattina dopo, però, nella discussione aperta che segue sempre gli spettacoli del giorno precedente, Castellucci si è dovuto arrampicare sugli specchi del suo credo artistico per difendersi dall’accusa di aver costretto dei bambini a gettare bombe a mano sull’immagine di Cristo e anche per rifiutare l’elogio di aver messo in scena “il dramma della vecchiaia”. «Non faccio un teatro sociologico», ha dichiarato con malcelata irritazione, anche perché il suo grande affresco era stato accomunato al piccolo quadro di Emma Dante, Ballarini, visto nello stesso giorno.


teatromondo In apertura, Mariage Blanc, di Tadeusz Rózewicz; in questa pagina, The Russians, di Ivo von Hove e The waiting room, di Krystian Lupa.

I vecchi e i giovani In realtà, l’accostamento tra i due spettacoli non era offensivo. Corrisponde alla prassi, comune a “Dialog”, di guardare in sequenza gli spettacoli del Festival, rapportandoli tra loro, individuando come in una sinfonia temi, situazioni e tipologie che si presentano in diverse varianti. E, tra questi leitmotiv, quello della “vecchiaia in scena” è apparsa una costante piuttosto insolita, un filo rosso che legava, attraverso la distanza dei loro universi scenici, alcuni personaggi: il padre umiliato e impotente dell’Ecce Homo di Castellucci; la coppia di vecchi sposi, a cui Emma Dante fa ripercorrere a ritroso la vita, in un crescendo di sensuale vitalità ritrovata (Ballarini); gli anziani signori di Gardenia che si trasformano a vista in seducenti maliarde, facendo teatro della metamorfosi di sé, con intrepida ironia; Fyodor Karamazov, deciso fino alla fine a non cedere il suo potere d’acquisto sulla vita e sull’amore, al centro, nella regia di Cezary Wodziński, di una scena girevole che come una giostra delle passioni fa ruotare vorticosamente fino a travolgere tutti, anche il più innocente Alosha; e ancora i rispettabili padri e nonni borghesi di Mariage Blanc di Tadeusz Rózewicz che concupiscono cuoche e nipotine, o inseguono immaginarie fanciulle discinte intorno a un confessionale, nella messinscena di Krystyna Meissner, grottesca e drammatica insieme. E i giovani? Eccoli, venuti da paesi feriti in cui il passato parla di morte e grava troppo sulle loro spalle. Sono gli attori-personaggi della compagnia cilena La Re-sentida, diretta da Marco Layera, inventivi e iconoclasti (Simulacro), o quelli del cabaret politico dell’ensemble di Ljubljana, diretto da Oliver Frlji, che ci coinvolge fin dall’inizio in un “memento mori” calato nella realtà di un mondo fatto a pezzi (che non è soltanto la loro ex-Yugoslavia), un mondo dove chiunque può diventare un bersaglio e si uccide per un nulla. È solo a teatro che le pistole sparano a salve e i corpi caduti

risorgono. (Damned be the Traitor of his Homeland!). Poi ci sono i giovani sperduti nel buio di un sottopasso della metropolitana, che cercano con le siringhe ancora una piccola vena che pulsa, mentre intrecciano tra loro amori e risse, mescolando solitudine e droga nei loro cucchiai. Il regista Krystian Lupa li ha tolti dalle pagine di Lars Norén (Personenkreis 3.1) per mostrarne a distanza ravvicinata la vita, i sogni, le paure, le esaltazioni metafisiche in uno spazio di assurda sospensione dove non sanno, nel loro viaggio fuori binario, che cosa o chi aspettano (The Waiting Room). A noi sembra di conoscerli da tempo, li abbiamo già visti in Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino o in Trainspotting, eppure, nella finzione teatrale, le loro voci suonano più vicine al nostro orecchio e più reali appaiono i primi piani dei loro volti, magnificati in alto su grandi schermi. Platonov incontra Ivanov Uno scenario metropolitano sfolgorante di insegne luminose, con i muri dei palazzi coperti di aggrovigliati graffiti, accoglie invece, del tutto inaspettatamente, “i russi” che Ivo van Hove trasporta dalla campagna di Cechov in una grande città del nostro tempo. Ancora una volta, come successe con le Tragedie romane di Shakespeare, questo bravissimo regista e la sua straordinaria compagnia di attori sono riusciti a tenerci avvinti per quasi sei ore, facendoci riscoprire i drammi di Ivanov e Platonov, radicalmente rinnovati nella scrittura scenica e drammaturgica. Eliminati i primi due atti del testo di Cechov, l’originale adattamento dello scrittore belga Tom Lanoye fa scorrere e interseca fin dall’inizio il doppio intreccio, creando una serie di illuminanti rispecchiamenti e incontri inediti tra i personaggi, senza tuttavia alterare minimamente il percorso degli eventi che procedono verso una comune fine simultanea. Messi così su uno stesso palcoscenico, vediamo i due protagonisti muoversi all’interno di una stessa comunità, simili nel loro rabbioso

senso di frustrazione, incapaci di amare, ripiegati egotisticamente su se stessi. A trent’anni si sentono già vecchi e senza un futuro che li faccia guardare con slancio in avanti. Le giovani donne, Sacha e Sofia, vorrebbero poterli amare in una “nuova vita”, ma fanno balenare solo per un attimo il miraggio di un’uscita dal pantano delle illusioni perdute, in cui Ivanov e Platonov sono immersi. Non si era davvero mai sentita così forte l’oscillazione, nel ritmo vitale dei personaggi, tra esaltazione improvvisa e ricaduta nel disincanto, sono tutti solo capaci di accendersi (e anche di amare) in modo effimero, brillano e si spengono come i fuochi d’artificio con cui fanno festa. Il titolo I russi non intende far viaggiare gli spettatori in un altrove lontano, ma provocare uno shock of recognition. Questi “russi”, sottratti alla patina di malinconia che spesso li avvolge a teatro e mette la sordina alle loro voci, rivelano inaspettatamente la loro energia repressa e una rabbia che li fa essere crudeli con se stessi e con gli altri. Ed è con distacco critico che Ivo van Hove li mette in scena e parlando di loro parla anche di sé: «Lavoro ad Amsterdam, una città che non è più democratica e tollerante, dove, per reagire alla frustrazione della crisi, si pensa di gettare la colpa sugli altri. Il mio Cechov non è quello della noia, ma della rivolta sterile di uno contro l’altro. Volevo mostrare una società che non è più una società, ma solo un gruppo di individui chiusi in se stessi che cercano un capro espiatorio. L’unica che non partecipa dell’egoismo degli altri è l’ebrea Sarah, l’innamorata moglie di Ivanov, l’esclusa». Di questa sua visione si è discusso nell’incontro con il regista, e come sempre è stato un momento eccezionale di confronto e di dialogo. Questa è la vera forza del Festival “Dialog” e, come ha sottolineato Zygmunt Bauman in una conferenza (On the Uncommonness of Dialogue), oggi che la velocità del vivere impedisce il tempo lento del parlarsi e dell’ascoltarsi, non c’è niente di più “inconsueto” del dialogo. ★

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Non son solo marionette... la primavera (teatrale) di Praga La Repubblica Ceca, nota soprattutto per il teatro di figura, è sempre più presente nei festival di molti Paesi, grazie anche all’opera di promozione dell’Istituto delle Arti e del Teatro, mentre nuovi, interessanti drammaturghi si affacciano sulla scena internazionale. di Pino Tierno

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el teatro e della drammaturgia della Repubblica Ceca ben poco arriva, attualmente, sui nostri palcoscenici, ma l’impressione, andando per teatri a Praga e visitando l’Istituto delle Arti e del Teatro, è quella di una realtà effervescente e più che mai desiderosa di contatti con l’estero. Gli unici nomi internazionalmente conosciuti sono probabilmente Václav Havel e, per le sue incursioni teatrali, Milan Kundera ma, a un esame appena più approfondito, la scena praghese appare, nel complesso, piuttosto matura e articolata. Il teatro, nella Repubblica Ceca, ha sempre rivestito un’importanza primaria; sia negli anni dello stalinismo, sia negli anni della “normalizzazione”, successivi all’invasione sovietica del 1968, il palcoscenico è stato, grazie alla relativa libertà di cui godeva, un pulpito da cui, in maniera più o meno celata, si potevano esprimere opinioni e raccontare storie talvolta anche ai limiti della dissidenza politica. Durante gli anni ’60 il pubblico affollava le sale e molte compagnie, grazie anche alla qualità degli spettacoli proposti, poterono farsi conoscere in Occidente. Il cosiddetto teatro poetico filtrava la realtà attraverso metafore liriche ed ermetismo, mentre il più noto filone del teatro dell’assurdo o grottesco cercava, attraverso deformazioni e distanziamenti, di porre l’accento sulla follia del totalitarismo o le storture della burocrazia. Dopo il ’68, la gran parte degli autori più affermati emigrò, smise di scrivere oppure continuò rischiosamente a farlo, adoperando pseudonimi. Anche in quegli anni, il teatro continuò, tuttavia, a mantenere un ruolo privilegiato, in quanto gli spettatori accorrevano a decifrare le allegorie proposte dagli artisti per ritrovare sia pur minime tracce di opposizione e protesta nei confronti delle condizioni politiche e sociali che si stavano vivendo. Alcuni studiosi, di fatto, hanno diviso il teatro ceco fino alla fine degli anni ’80 in teatranti “proibiti” e “non proibiti”. L’allergia al realismo Dopo l’’89, sia per la riconquistata libertà da parte di più accattivanti media, sia per la sindrome da “perdita del nemico”, il teatro e la scrittura scenica

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teatromondo In apertura, Storie di ordinaria follia, di Petr Zelenka (foto: Tom Ontiveros); in questa pagina, Ritirarsi, di Václav Havel ed Europeans, di Jirí Adámek (foto: Petr Kralik).

videro affievolirsi tanto la propria forza espressiva quanto l’interesse del pubblico. Molti degli autori le cui opere erano vietate iniziarono, fra l’altro, attività politica e smisero di scrivere, per sempre o per lungo tempo, com’è stato il caso di Václav Havel, eletto Presidente della Repubblica, e di Milan Uhde, ministro della Cultura e Presidente del Parlamento. La scrittura sembrò appiattirsi su tematiche e strutture che cercavano di rincorrere affannosamente quelle del teatro occidentale. Negli ultimi anni, tuttavia, grazie anche alla spinta di un importante concorso di drammaturgia (Premio Alfréd Radok), promosso da una rivista e da un’agenzia teatrale, e all’opera di promozione dell’Istituto del Teatro, nuovi autori e nuovi talenti della scena sono emersi. Fra questi citeremo almeno Petr Zelenka, il cui testo più famoso è Storie di ordinaria follia, da cui è stato tratto anche un film; David Drábek che, con la sua compagnia Giraffe in fiamme, ha messo in scena testi caratterizzati dallo sguardo comico e surreale rivolto al mondo del consumismo; Radmila Adamová, autrice, fra le altre cose, di un lavoro di feroce critica al mondo della moda. Havel e Uhde sono tornati proprio nello stesso anno, il 2007, alla scrittura per il teatro, con due opere complesse e sapienti. Quella di Uhde, Miracolo nella casa nera, con le sue riflessioni sulla storia ceca degli ultimi decenni, filtrata attraverso il racconto delle vicende di una famiglia, venne giudicata la migliore di quell’anno, mentre il testo di Havel, Ritirarsi, non risparmiava critiche alla nuova generazione di politici e burocrati, riallacciandosi a temi già affrontati dallo scrittore nei suoi testi più celebri. In generale la drammaturgia ceca sembra, come già accadeva durante gli anni del totalitarismo, allergica al realismo e alla mitizzazione di storie e personaggi, preferendo sempre guardare alla realtà da una distanza che consente, al di là di apparenti deformazioni, di mettere in luce i giochi di potere, la sopraffazione, la perdita di senso. Oggi i testi di tanti autori possono essere letti in inglese in una delle pubblicazioni promosse dall’Istituto delle Arti e del Teatro, oppure scaricati dal sito, come ci spiega Martina Černá, a capo del Dipartimento per le Relazioni Internazio-

nali. «Il nostro compito, sin dal 1959, quando è nato l’Istituto, - ci spiega la Černá - è stato soprattutto quello di documentare il teatro ceco, grazie all’attività di editoria e documentazione, oltre che all’incremento costante di una biblioteca teatrale fra le più grandi d’Europa; a questo è sempre stata affiancata una grande attività espositiva, e quest’anno abbiamo festeggiato la dodicesima edizione della Quadriennale di Praga, mostra di scenografia e architettura teatrale. Oltre ad amministrare i centri locali di tutte le organizzazioni professionali, attualmente lavoriamo molto per la promozione all’estero del nostro teatro, pubblicando annualmente, ad esempio, la rivista in inglese Czech Theatre». Fiorenti sono, di fatto, le iniziative volte a far conoscere quanto più possibile la realtà locale, come addirittura la produzione di un film intitolato ’89 minuti con il teatro ceco (2010), con sottotitoli in inglese, spagnolo e anche in giapponese; e poi antologie, manuali, cataloghi. «Oltre a ciò, partecipiamo direttamente a moltissimi eventi mondiali legati allo spettacolo dal vivo e soprattutto organizziamo lo showcase del teatro ceco, in collaborazione con il festival internazionale di Pilsen». Da Kafka allo showcase Lo showcase è una interessante realtà, oltre che un’ottima abitudine diffusa in molti Paesi (dalla Germania all’Olanda, dalla Slovenia a Israele) e consiste nel mostrare, a un gruppo di operatori stranieri invitati per l’occasione, il meglio della propria produzione teatrale e drammaturgica concentrato in pochi giorni. L’ultimo showcase ceco ha avuto luogo alla fine del 2010 e ha consentito di vedere, di fatto, moltissimi lavori interessanti, che vanno dal recupero di testi classici (Adriano di Rimsy di Václav Climent Klipcera) a lavori poco conosciuti di Milan Kundera (L’abbaglio), da mostre di marionette (a cura del Teatro Drak) a un argutissimo lavoro sul linguaggio, Europeans (Boca Loca Lab, diretto da Jirí Adámek), esportato in vari Paesi stranieri, fino ad arrivare al collage, firmato da vari autori, di atti unici sul tema della partenza e dell’aeroporto, che ha avuto luogo proprio all’aeroporto di Praga, davanti a decine e decine di viag-

giatori incuriositi. L’ambientazione di quest’ultimo spettacolo rende bene il desiderio di farsi conoscere anche all’estero da parte degli artisti cechi. Certo l’estero non può essere la Slovacchia, dalla quale la Repubblica Ceca si è divisa pacificamente solo nel 1992. «È ancora nuovo e strano per noi avvertire come “stranieri” gli slovacchi – ammette Martina Černá – e, come si può immaginare, i contatti e gli scambi con questo paese sono frequentissimi. Poi, per ragioni storiche, guardiamo molto all’area di lingua tedesca. Abbiamo addirittura un festival dedicato alle migliori produzioni della Germania, dell’Austria e della Svizzera. Questo evento mette a confronto tematiche e stili diversi. Il nostro teatro è in genere più poetico e stilizzato di quello concreto e politico dei tedeschi. Questo festival, però, serve anche a testimoniare la relazione secolare fra i tedeschi e i cechi, oltre che la realtà ceco-tedesco-ebrea di Praga della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, con i suoi giganti, Kafka, Brod e Kisch, fra i primi». Altra relazione intensa la Repubblica Ceca la mantiene con vari Paesi dell’ex blocco-comunista, come Polonia e Ungheria. «La piattaforma Visegrad è un programma, non solo culturale, fra questi Paesi centroeuropei. Il nostro sforzo, però, oggi è teso a portare il nostro teatro anche in quelle aree dove la scena ceca è poco conosciuta. I nostri spettacoli di marionette, così come quelli del nuovo circo, sono notissimi in tutto il mondo per il loro alto livello – conclude Martina Černá – ma, oltre al teatro di figura, ci sono tante altre realtà da conoscere». In Italia, per il momento, siamo andati poco oltre Václav Havel. ★

Per saperne di più: www.idu.cz; www.divadlo.cz; www.theatre.cz; www.programculture.cz; www.narodni-divadlo.cz; www.ndbrno.cz; www.czechlit.cz; www.czechtheatrereport.cz; www.theatre.cz/publications; www.theatre.cz/directory-2.

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Riga, il Baltic Theatre Festival alla ricerca delle identità nazionali Nella capitale lettone un festival ha riunito le nuove proposte delle regioni baltiche. Ma, tra kolossal e progetti velleitari, l’unico a non tradire le attese è stato Alvis Hermanis. di Sergio Lo Gatto

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Ziedonis e l'Universo (foto: Gints Malderis).

i può raccontare un popolo attraverso il teatro? È una domanda che molti grandi artisti si sono posti. Da un incontro con un festival teatrale delle regioni baltiche arriva la conferma di quanto difficile sia trovare una risposta. Bisogna innanzitutto interrogarsi sul concetto di identità. Il Baltic Theatre Festival (o Baltic Drama Festival, non è tuttora chiara l’esatta dicitura, visto che nel programma stesso è indicato in due modi diversi) è stato ospitato a Riga dal 19 al 23 novembre 2011. La prima giornata ha visto in scena i nominati al premio Performer’s Night 2010/2011, una sorta di mini Premio Ubu. Della selezione abbiamo visto solo Amadeus di Peter Shaffer per la regia di Jan Willem van den Bos, giovane rampante olandese molto apprezzato in Europa e Asia. La sua versione, premiata come miglior spettacolo d’insieme grazie – si suppone – al milionario investimento nelle scenografie, ha presentato un dramma completamente esteriore, montato su un Salieri mattatore e su un Mozart decerebrato. Si perde quasi tutto lo spessore del testo di Shaffer, in cui i personaggi storici non erano che archetipi di un discorso più profondo, quello sull’ossessione cieca che cancella addirittura il genio, e che qui calpestano la scena come pachidermi della postmodernità, schiacciando la poesia di un’opera psicologica con insensati coupe de théâtre (una rockband che rivisita i brani mozartiani?).

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A caratterizzare le tre giornate successive, riservate ciascuna a una regione baltica, è stata un’aperta presentazione di temi nazionali accoppiati a eccellenze artistiche. Ne è prova il fatto che non è stata nominata una vera e propria direzione artistica: ciascuna area ha presentato due spettacoli del proprio “repertorio nazionale” e un piccolo comitato è stato inviato dal festival a vagliarne l’effettiva qualità. Senza tuttavia poter avere, ha confessato uno dei membri, una reale libertà di contestare le scelte. È allora una scelta solo politica? Il risultato è stato, per la Lettonia, una dubbia apertura con un adattamento di Anija, romanzo storico di Jānis Jaunsudrabiņš (una sorta di Manzoni locale), a metà tra ultra-naturalismo e ammiccamenti onirici. Di certo una goffa traduzione simultanea – scelta invece dei sopratitoli per tutti gli spettacoli –, non aiuta a fluidificare la visione, soprattutto quando si viene travolti da un fiume di parole. È stato anche il caso del lituano La ragazza temuta da Dio di Gintaras Grajauskas, una secchiata di monologhi, impossibili da seguire addirittura per i madrelingua, tuffati in un’impenetrabile scenografia fantascientifica. Di fantascienza si occupava anche The End, ambizioso spettacolo estone in tre tempi: il mito di Zarathustra inscenato sottoforma di rituale massonico; il capovolgimento metateatrale (enfatizzato dallo spostamento in diretta delle gradinate) che mostra la compagnia stessa riunita per una

“ultima cena” con verdure preparate dal vivo in una vera cucina Ikea e testo e ritmo tra Bergman e Kasdan; l’apocalisse dei Maya che si risolve nella possibilità per ogni superstite di salvare solo 8 GB di memorie personali. Un pastrocchio di segni drammaturgici colpevole di prendersi troppo (e troppo a lungo) sul serio. Nel fatiscente e affascinante Gertrude Street Theatre, uno dei pochi spazi indipendenti di Riga (che ha invece ben sei teatri nazionali) l’estone IRD, K. di Ivar Pollu ha visto il proprio debutto lettone con la bellezza (e l’inutilità) di tre ore e mezza di ritratto di Kaarel Ird, controversa figura del comunismo estone, alla guida dei teatri nazionali di Tartu e Vademuine dagli anni ’50 agli anni ’80, che avrebbe avuto di che raccontare un’identità nazionale, non fosse stato per il livello insieme pretenzioso e amatoriale della messinscena. Il risultato: l’unico spettacolo a raccontare davvero è stato quello di Alvis Hermanis (New Riga Theatre). Il suo Ziedonis e l’Universo è l’ennesima conferma di una pura genialità. Nell’emblematica figura di Imants Ziedonis (poeta e intellettuale simbolo della Lettonia del XX secolo) si concentra la possibilità stessa di rappresentare l’identità. Non solo quella nazionale, ma l’identità come concetto, quell’insieme di vissuto e immaginario che disegna il profilo di un pensiero comune. Scena sgombra, oggetti estremamente realistici usati – con squisito gusto brechtiano – solo per la loro funzione, portati dentro e fatti uscire come qualcosa di radicalmente utile. Il testo mescola i versi di Ziedonis con stralci di interviste e testimonianze; la struttura è quella di un protagonista che dialoga con il suo subconscio (un coro di sette attori perfettamente affiatatati e, per una volta, divertiti dal loro stesso mestiere); i personaggi compaiono e scompaiono al ritmo di una vita che passa, ripercorrendo la coscienza di un’intera comunità. Ed ecco come tre ore di spettacolo possono passare senza che nemmeno ce ne si renda conto. Lirismo, aneddotica, umorismo ma soprattutto una riflessione profonda che non si prende mai davvero sul serio animano questo teatro dell’essenzialità, che qui vive di simboli come di simboli vive la poesia. Che è forse l’unico mezzo per raccontare l’identità. ★


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Kentridge a Johannesburg, un enigma dei sensi e dell'intelletto Ballando con Dada, ultimo spettacolo dell'artista sudafricano, è una miscela complessa di immagini, suoni, pensieri, cinema, danza e testo. di Renate Klett

uando William Kentridge aveva otto anni, suo padre gli lesse la storia di Perseo, che riuscì a sconfiggere Medusa, ma non il suo destino. Nonostante tutte le strategie per evitare che la profezia dell’oracolo si realizzasse, egli uccise il nonno con un lancio del disco che colpì l’anziano, presente nello stadio travestito per precauzione da mendicante. Ma il piccolo William si rifiutò di accettare l'avverarsi della profezia: perché il nonno era seduto proprio in quel posto, perché era travestito, perché il nipote doveva partecipare alle competizioni atletiche? Così tante coincidenze tutte insieme, unicamente per tener fede a un oracolo! Con questo aneddoto Kentridge apre il suo nuovo Ballando con Dada, spettacolo che ha recentemente debuttato al Market Theatre di Johannesburg, una miscela complessa di immagini, suoni, pensieri, cinema, danza e testo, una rivista dada in bianco e nero con poche macchie di colore e legami con il costruttivismo russo, con Schlemmer e i futuristi. William Kentridge, libro di testo in mano, è punto centrale e fondamentale del sogno estetico-filosofico presentato sul palco. Le sue osservazioni circa la gravità, la velocità del-

la luce, i buchi neri, i fusi orari, il tempo regresso o le città ventilate con aria fresca, sono piene di poesia e di sapienza, lucidi giochi di pensiero che richiedono un pubblico attento, il piacere quasi brechtiano nell’esporre sul palco i percorsi di conoscenza della mente che rappresenta il mondo. Meravigliosi i suoi colleghi, tra cui il compositore Philip Miller, la ballerina e coreografa Dada Masilo (omonima del titolo), i cantanti Joanna Dudley e Bham Ntabeni, che danno corpo e follia a questo spettacolo multimediale. Illustrano, associano, contrastano ciò che il linguaggio, la musica e le immagini rappresentano, tremano e vibrano sul palco come se fossero appena fuggiti da Ball, Schwitters, Artaud. Quando Kentridge parla di Felix Eberth e della sua teoria sulla velocità della luce – in cui tutto quello che succede sulla terra continua ad andare avanti, con relativo dislocamento temporale, nell’universo –, allora Masilo balla il cosmo, fra sentimento e azione. Quando si tratta della sincronizzazione del tempo, con cui l’“Ora Madre” decide che il sole deve stare in ogni luogo esattamente allo Zenit – benché in realtà non lo realizzi –, allora Dudley e Ntabeni rispondono con un fuoco d’artificio di parole e toni alti, che sembra composto

unicamente da raggi solari. Poi gli artisti e i musicisti portano in scena Spectre de la Rose di Berlioz e le composizioni di Miller in un modo così enfatico, che ne nasce un teatro concertistico surreale, un’opera d’arte obliqua, completa, in cui la cacofonia sviluppa le sue proprie armonie. Sul palco e nel film si riconoscono molti segni “classici” del marchio di fabbrica di Kentridge: il megafono e gli strumenti cinetici, la macchina per l’espresso italiano con le sue molteplici possibilità di trasformazione, i metronomi e i sensori sospesi come bracci. Oltre alla costante immagine dell’artista nel suo studio, che pensieroso cammina su e giù, corre e salta gli ostacoli. C’è una batteria computerizzata e il suo ritmo costringe Dada Masilo a ballare più lentamente di quanto avrebbe fatto senza l’elettronica. In un assolo superbo, si ritrova come braccia due enormi megafoni, e così come Kentridge oppone a ogni “do” un “undo”, a ogni “remember” un “unremember”, così anche lei a un certo punto si libera con grazia degli imbuti metallici. Lo spettacolo di ottanta minuti è così complesso che si deve vedere più volte per poter individuare e mettere in collegamento tra loro tutte le ramificazioni e le sovrapposizioni. Risolvere l’enigma può essere veramente un piacere sensuale oltre che intellettuale. Come confronto con il Kentridge di otto anni prima, si vedrà in seguito la storia del film che proietta nel suo studio insieme al figlio di otto anni. Gli dà un secchio con vernice, matite e carta e gli ordina di realizzarci qualcosa. Il ragazzo butta la vernice sul muro, strappa la carta, e lancia nella stanza le matite ed i pennelli. Ma la confusione si trasforma in ordine, se si gira il film in senso contrario: la carta è intatta, la parete bianca, e le dodici matite volano da tutti gli angoli nella mano del ragazzo. Colpito da questo “momento utopico di perfezione”, il ragazzo chiede se lo può fare di nuovo. «Sì – dice il padre –, ma prima dobbiamo ripulire lo studio e il muro. Ogni cosa grande ha un suo prezzo». ★ (traduzione di Nicole Horsten) DANCING WITH DADA, ideazione e regia di William Kentridge. Coreografia di Dada Masilo. Musiche di Philip Miller. Con William Kentridge e Dada Masilo. Prod. Documenta 13, KASSEL (Germania).

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G(L)OSSIP I valleggianti di Fabrizio Sebastian Caleffi

Dalla città di M., come la chiama Colaprico (ne approfitterol x lodare il suo reportage sul Papi Silvio Show Le cene eleganti), dalla Mahagonny del Bertolt Pisapia guardiamo l’Italia con il suo nuovo governo di M. (Emme come Monti, Mabuse&Marcinkus, in arte Monsignor Casimir, vedi Ior) e il Valle okkupato, con particolare riguardo e attenzione per i colleghi Autori, very incazzados, tutti contro tutti, tra tonti, fintitonti e pro-Monti (Pyton), mentre il Vento dell’Est gonfia a Valle Bandiera Gialla (cfr. Gian Pieretti e la sua sigla epocale per la hit parade: «quando vedrai/sventolar Bandiera Gialla/tu saprai che lì si balla») e là si sballa il ballo del quaqaraquà e i vessilli si fan giallorossi, semo aRrroma, no? A Saint Vincent c’è il Casinò de la Valleè (dove, in evo socialdemocratico con Egidio Ariosto, si riunivan festanti i commedianti dell’Idi), a Roma il Casino del Valle. Nord-Centrosud: ma dove passa la Linea Gotica, anzi, la Linea Cotica? La cronaca confusa dei fatti si manifesta attraverso una ridda di mail. Da Angela Demattè, vincitrice del Riccione con Avevo un bel pallone rosso, arriva anche una Chiamata alle Arti di sapore vagamente, molto vagamente, marinettiano più che majakovskiano, riguardante il Teatro Lirico di Milano, dove Strelher fece debuttare gli ultimi suoi Giganti e dove Mussolini arringò i repubblichini “ultima raffica”. La stampa si muove. Il 18 novembre 2011 esce un articolo firmato Francesca De Sanctis sull’“importantissima” riunione di mercoledì 16 al Valle «finita come ti avevo anticipato: insulti e sputi tra gallinacci», secondo la mia fonte, che non è Patrizia La Fonte, ma Enrico Bernard, il quale specifica la natura metaforica di detti scaracchi: «Scrivere per il teatro e nello stesso tempo dire no all’“invisibilità”. Inventare senza dover combattere contro chi vorrebbe pièce con non più di 3-4 personaggi. Essere autori e - quando va bene - non dover firmare pure la regia dei propri testi. Stare dentro i cartelloni degli Stabili, e magari aprire la stagioni. Creare, sapendo di poterlo fare liberamente...». Questo, secondo la gazzetta, il cuore delle rivendicazioni. Non vi sembra che si sia ingranata la retromarcia? Essere o non essere registi, that’s the question. Se sia meglio subire gli oltraggi di un piccolo epigono di Stanislavskij o sostener da sé il proprio Gaev, tic tac, carambola. Del resto, Shakespeare non era un anonymous aristocratico? De Vere o falso che sia, il recente scoop cinematografico è sintomatico: mi riferisco al film diretto da Roland Emmerich e con protagonisti Rhys Ifans e Vanessa Redgrave che si basa sulla controversia dell’attribuzione delle opere di Shakespeare, secondo la quale le opere del drammaturgo sarebbero in realtà state scritte da un aristocratico elisabettiano, Edward

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de Vere, diciassettesimo conte di Oxford. Vien voglia di gridare: a monte, arimortis! Un altro ampio servizio sull’Unità assaggia il sapore neige d’antan caduto nel bel mezzo di un gelido inverno sul piccolo mondo antico del teatro italiano, dove un teatro occupato e commediografi confusi che cercano di fondare un Centro di Drammaturgia nazionale, in preda al dilemma morettiano: mi si nota di più se vado o non vado al Valle? Riferisce l’articolista: «Andrea Porcheddu esprime forti dubbi sull’efficacia di un’occupazione assai tollerabile tanto da non meritare neppure uno sgombero. A corredo elenca gli ospiti di rilievo: Camilleri e Jovanotti, Elio Germano, Renzo Arbore, Paolo Rossi. Più che la Schaubühne sembra una Domenica in d’antan. Che al Valle siano nostalgici?». Rincara la dose Daniele Timpano presente all’assemblea, citato nello stesso articolo: «C’è fortemente il rischio che l’“occupazione mediatica” del Valle illumini uno spazio dove non c’è proprio un cazzo di interessante, con centri di drammaturgia senza drammaturghi, utopie democratiche senza democrazia». Paolo (Rossi), il Paolo di cui sopra, che nostalgico è solo dell’Inter di Herrera, tutt’al più di quella del Mou, intanto s’è dato all’opera: alla regia lirica. Il teatro d’opera, dice, gli dà le stesse sensazioni dello stadio. E questo ci porta dritti al Don Giovanni alla Scala il 7 dicembre scorso: se un tempo San Siro era detto “la Scala del calcio”, ora è il caso d’indicare la prestigiosa sede del Piermarini come “il Meazza della Lirica”. Dove a Sant’Ambrogio s’è visto Mozart come se fosse la prima volta. Merito di Mozart, of course. Di Barenboim, naturalmente. Di cantanti anche attori eccellenti. Ma soprattutto del plot di Da Ponte letto dalla regia del canadese Robert Carsen. I conti (non stiamo parlando di quelli del governo...) tornano: il regista che aveva messo a nudo Berlusconi e le sue “cene eleganti” ora fa trionfare il Burlador di Siviglia sul Convitato di Pietra nel palco reale, accanto all’ex commediografo Napolitano (opportunamente applaudito al suo ingresso a teatro) e al premier, quasi un doppio del Commendatore. Così uno spettacolo sa incidere sulla realtà. Non possiamo non augurarci per l’anno nuovo, scherzando con i fanti e facendo sul serio con i santi, che gli autori nazionali scelgano San Lorenzo Da Ponte da Trieste loro patrono. E che trovino, senza darsi delle arie fingendo umiltà, baritoni, tenori, soprano, attori felici d’intonar le loro arie. Poi tutti a cena e che non sia una Cena delle Beffe: chi non beve con me, noia lo colga!


dossier Il teatro in Giappone oggi

a cura di Giovanni Azzaroni e Matteo Casari

In continua dialettica fra tradizione e innovazione, apertura all’Occidente e conservazione, il teatro nipponico del terzo millennio mantiene comunque salda la sua identità nazionale. Tuttavia, anche generi storici, come nō, kabuki, bunraku e kyōgen, sono diventati oggetto di sperimentazioni che creano ponti tra passato, presente e futuro. E poi c’è la scena contemporanea, che parte dal butō per arrivare ad artisti ormai internazionali come Suzuki, Teshigawara e Hirata, e a un teatro di ricerca capace di contaminarsi con tecnologia e multimedialità. Hy31


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Le strade arcane del teatro giapponese quando il rito si fonde con il racconto La storia di un avvicinamento al teatro nipponico che parte da libri suggestivi e arriva alla sacralità delle messinscene. Un viaggio attraverso il mistero del butō, le maschere “magiche” del teatro nō e le appassionanti vicende del kabuki. di Giorgio Amitrano

Tobari, della compagnia Sankai Juku.

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a mia prima esperienza di teatro giapponese risale a più di trent’anni fa. Frequentavo ancora l’università e avevo studiato il nō, il kabuki e il bunraku solo sui libri. Questi tre generi di teatro tradizionale possedevano per me un fascino straordinario, e quando sfogliavo nella biblioteca dell’Orientale dei grossi volumi con foto di costumi, maschere, burattini, quelle immagini suscitavano in me suggestioni profonde. Forse vale la pena di ricordare che internet non esisteva, la televisione aveva solo pochi canali, e quello che alcuni anni più tardi Calvino avrebbe definito il «diluvio delle immagini prefabbricate» non era ancora un diluvio, ma solo una pioggia intermittente. Quindi sfogliare quei volumi in biblioteca aveva su di me un impatto proba-

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bilmente molto più forte di quello che potrebbe avere su un ragazzo di oggi, con il suo cellulare nella tasca pronto a emettere immagini se appena sfiorato da un dito. Sfogliavo quelle pagine come un bambino che guarda un libro di fiabe illustrate, leggendo poco e immaginando molto. Tutto mi appariva allo stesso tempo ieratico (e quindi statico) e avventuroso (e quindi dinamico). Le due qualità non stavano insieme eppure io mi figuravo il teatro giapponese proprio così: un misto di solennità rituale e di dinamismo. In effetti, l’intuizione era abbastanza giusta. In seguito avrei sperimentato l’esistenza, nel teatro giapponese, di un rapporto diverso, rispetto a quello occidentale, tra stasi e movimento. Sia nel nō che nel kabuki, e anche nel bunraku, sebbene in modo diverso per ognuna

di queste arti, i momenti più emozionanti sono quelli in cui il ritmo lento del dramma subisce un’accelerazione e d’improvviso gesti e movimenti acquistano una vitalità inattesa. Il passaggio è così repentino che è come se la mente, dopo essersi immersa negli strati più profondi della coscienza, risalisse alla superficie di colpo, inebriandosi di aria e di luce. Insomma, le fantasie coltivate nelle aule silenziose della biblioteca prefiguravano la realtà che avrei poi conosciuto più da vicino. Ma allora non sapevo quando sarei andato in Giappone ed ero impaziente di incontrare quel mondo in modo diretto, di toccarlo e aspirarne l’odore. Uno dei primi romanzi giapponesi che avevo letto era stato Il paese delle nevi di Kawabata. Il protagonista, Shimamura, era un erudito cono-


DOSSIER/teatro giappone

scitore del balletto occidentale, che non aveva mai visto. Il libro era meraviglioso, ma questa frequentazione dell’arte in absentia era quanto potesse esserci di più lontano dalla mia mentalità. Io ardevo dal desiderio di essere lì. L'alieno con la conchiglia Un’estate venne a Napoli il Sankai Juku con la sua prima tournée europea. Credo che all’epoca in Italia pochissimi conoscessero il butō. Io non ne sapevo nulla, nessuno dei libri che avevamo in biblioteca ne faceva il minimo cenno ma, affamato com’ero di qualsiasi cosa giapponese, ci andai. Lo spettacolo si svolgeva nel cortile del maestoso castello napoletano del Maschio Angioino. Ricordo l’inizio, con la “non-entrata in scena”, come si diceva per la Duse, di un attore che tutt’a un tratto “era già” sul palcoscenico, senza che il pubblico si fosse accorto del suo arrivo. La testa rasata, il corpo avvolto in una tunica da grande sacerdote, il volto bianchissimo tranne due segni rossi che gli partivano dalle orecchie come rivoli di sangue. L’uomo si muoveva lentissimo, una lentezza anomala che sembrava appartenere a un’altra dimensione del tempo, e lui stesso aveva l’aspetto di un essere arcaico e alieno. Portava in mano una grossa conchiglia che accostava all’orecchio, come una trasmittente che gli comunicasse messaggi inquietanti. Tutti fissavamo, increduli e rapiti, i movimenti dell’attore, con una concentrazione insolita per il vivace pubblico napoletano. Eravamo così occupati a fissare quello strano individuo che nessuno di noi notò che alcune figure avevano cominciato a calarsi, sospese a delle corde, lungo le pareti del castello. A un tratto ce ne accorgemmo. La percezione di quegli uomini nudi dalle teste rasate e i corpi glabri coperti di biacca che scendevano lenti dall’alto si diffuse di colpo tra il pubblico, e un mormorio di sorpresa, tra la paura e l’incanto, si levò dalla platea. Fu un momento di autentica magia che non ho mai dimenticato. Quella fu la mia prima esperienza di teatro giapponese. Cosa fosse il butō l’ho saputo più tardi, ma ho recuperato: negli anni in cui ho vissuto in Giappone ne ho visto tante rappresentazioni da rendermelo familiare. La familiarità di solito di-

strugge ogni mistero ma, stranamente, negli spettacoli di butō per me lo stupore resiste, e ancora continua a colpirmi l’assoluta eccentricità delle sue atmosfere rispetto al quotidiano e al reale. Vi è sempre, nel butō, sia in quello estetizzante e ritualistico dei S ankai juku che nella forma più esasperata e selvaggia di altre compagnie, una risonanza arcana, una sorta di richiamo alla parte meno addomesticata di noi stessi. Tutto è estraneo alla nostra esperienza di cittadini responsabili e membri della società, e ci riconduce alle forme più ataviche della nostra appartenenza alla stirpe umana, espresse in gesti e movenze che sfidano i limiti del corpo e insieme il concetto tradizionale di bellezza. L'alberello spezzato Ho provato emozioni non meno forti assistendo a spettacoli di teatro giapponese tradizionale. Nonostante l’attrazione per le immagini del nō, in particolare per le maschere, avevo sentito dire che le sue rappresentazioni potevano essere di una noia mortale. Questo mi preoccupava, ed esitavo ad andarci, per paura che la malinconia di uno spettacolo tedioso potesse distruggere le fantasie che mi ero creato. Ma non andò così. La concentrazione, come mi era successo a Napoli guardando il butō, fu immediata. Avevo letto anche che i giapponesi sonnecchiavano spesso assistendo al nō, e che farsi dei pisolini durante gli spettacoli era normale e “socialmente accettato”. Ma su me il nō non ebbe alcun effetto soporifero, anzi rese i miei sensi più lucidi: mi sembrava necessario osservare tutto con la massima attenzione, senza perdere il minimo gesto. È noto che quest’arte ha stretti rapporti con il buddhismo, che i suoi drammi hanno spesso per protagonisti monaci, e che un’aura di spiritualità pervade molti testi. Ho sempre percepito il nō come una rappresentazione religiosa, ma non per le ragioni appena dette. Piuttosto per quel carattere magico e sacro che uno spettacolo teatrale, a qualsiasi tradizione appartenga, assume nelle sue forme più alte, quando il senso di un’esperienza condivisa unisce pubblico e attori, e tutti sono consapevoli di celebrare qualcosa di più profondo e importante di un semplice rito sociale.

Il kabuki è di solito descritto come una forma di teatro meno esoterica del nō, più coinvolgente e popolare, simile per le vicende appassionanti e gli allestimenti spettacolari all’opera lirica. Ma sarebbe sbagliato considerarlo un’arte drammaturgica convenzionale e di scarso spessore. Anche nel kabuki, almeno nei suoi drammi più belli e negli allestimenti più felici, siamo nel terreno dell’Arte, come si diceva una volta, con l’A maiuscola. È vero che a volte il kabuki incanta con trucchi drammatici di facile effetto, o favolose battaglie in cui l’eroe sgomina intere bande di provetti spadaccini con una serie di gesti stilizzati e simbolici. Gli spettatori guardano a bocca aperta i nemici volare in aria uno dopo l’altro senza che la sua lama li abbia nemmeno sfiorati. Ma al di là di queste scene fatte per infiammare le platee, è nei momenti più intimi e privi di clamore che la bellezza del kabuki rifulge più vivida. Come in alcuni michiyuki, scene in cui coppie di amanti condannate alla morte viaggiano lungo ripidi sentieri montani o attraverso campi desolati, preparandosi a dire addio alla persona amata e alla vita. Dialoghi meravigliosi fioriscono dalle loro labbra mentre stanchi procedono sul palcoscenico nel loro triste viaggio. Lei, sfinita, cade più volte, e il suo amante con premura la sostiene e la solleva. Ricordo con chiarezza una di queste scene. Ho dimenticato quale fosse il dramma, ma conservo nitida l’immagine dei due amanti che camminano su un palcoscenico su cui cade incessante la neve. Dopo aver recitato il loro dialogo struggente i due escono di scena e il pubblico sa che per loro la morte è vicina. L’emozione è altissima e il ritmo della musica si fa incalzante, come per imitare il battito di un cuore impazzito. Non c’è più nessuno, solo un fragile alberello al centro della scena mentre la neve cade sempre più fitta. Gli spettatori, ormai in lacrime, guardano il grande palcoscenico vuoto aspettando ormai solo il chiudersi del sipario. Tutto sembra finito quando, tutt’a un tratto, sotto il peso della neve anche il fragile alberello cede, spezzandosi in due con un colpo secco. Credo di non aver mai visto, né prima né dopo, in nessuno spettacolo di nessun teatro del mondo una metafora della separazione e della morte più delicata e potente. ★

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DOSSIER/teatro giappone

Identità e cultura al primo posto la politica del nuovo Giappone Nonostante la crisi, negli ultimi anni il governo giapponese ha investito miliardi di yen per la crescita del settore artistico-culturale. E cresce anche l’impegno per un recupero dell’identità nazionale e delle culture regionali, a scapito delle troppe influenze da parte dell’Occidente. di Gunji Yasunori

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a cultura è il grande investimento per il futuro delle generazioni, perché conoscenza e saperi sono la nuova linfa dell’era digitale e cognitiva. Non esiste conoscenza e libertà, capacità critica e incontro tra i popoli e le culture, senza la memoria, la storia, la ricerca delle radici e del futuro, che possono offrire solo i beni culturali, le arti visive, la musica, il teatro, il cinema, la scienza, il pensiero filosofico e letterario, veicolati dalla scuola e dall’università, dall’informazione e dal web, dai musei e da tutti i mezzi di comunicazione. Negli ultimi anni si sente frequentemente parlare della politica culturale e della maggiore necessità di sovvenzioni pubbliche adeguate alla società globalizzata per promuovere le attività artistico-culturali. Tuttavia, quando viene utilizzato il termine “politica culturale” ci sono molte persone che hanno dei ricordi negativi della

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politica culturale “propagantistica” del passato come quelli legati al nazismo, al fascismo, allo stalinismo e anche a quelli del governo militare giapponese nell’ultima Guerra Mondiale. Quindi vorrei affrontare con una certa cautela il tema della politica artistico-culturale statale, tenendo conto di questa passata esperienza. Contributi statali e mecenatismo privato Per l’anno 2011 il Ministero della Finanza del Governo giapponese ha assegnato al Gabinetto della Cultura (Bunkacho) la somma di 103 miliardi di yen (circa 1 miliardo di euro) per promuovere il settore artistico-culturale. Questo finanziamento statale viene destinato prevalentemente alla conservazione, al mantenimento dei patrimoni storico-culturali, al miglioramento dei musei, alla formazione delle persone che lavorano e lavoreranno nel campo artistico culturale. È importante notare che, nonostante

la difficoltà economico-finanziaria degli ultimi anni, il Governo giapponese non abbia tagliato il budget per lo sviluppo artistico-culturale, al contrario ogni anno l’ha sempre leggermente aumentato. Oltre a questa sovvenzione statale indirizzata alla cultura, è stata creata una fondazione per la ricerca scientifica, specialmente per formare i giovani ricercatori e aiutare la ricerca scientifica. Per l’anno 2010 il Goveno ha stanziato 200 miliardi di yen (circa 2 miliardi di euro). La sovvenzione statale per le attività artisticoculturali viene investita principalmente in due settori: in primo luogo per mantenere, restaurare e migliorare i beni storico-culturali. In secondo luogo per promuovere le attività teatrali e artistiche che vengono prodotte anche dai mezzi di comunicazioni di massa. Per l’anno 2010 il Gabinetto della Cultura ha destinato alle attività teatrali e artistiche comprese nel set-


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tore dei mass media la somma di 47,7 miliardi di yen (circa 500 milioni di euro). Per diffondere e fare conoscere la cultura artistica giapponese all’estero ha destinato, invece, la cifra di 6,7 miliardi di yen (circa 70 milioni di euro), mentre per la produzione cinematografica ha messo a disposizione la somma di 9,3 miliardi di yen (circa 90 milioni di euro). A parte lo Stato, gli enti locali (province e comuni) hanno il loro bilancio per l’arte e la cultura. Nell’anno 1993 gli enti locali hanno investito più di 1000 miliardi di yen (circa 10 miliardi di euro), evento che ha segnato il massimo storico del contributo destinato alla cultura. Negli anni successivi, a causa delle ristrettezze economico-finanziarie, purtroppo il budget riservato alla cultura da parte degli enti locali tenderà a diminuire costantemente. Il mecenatismo privato è invece sempre in aumento, favorito anche dalle agevolazione sulle imposte. Ogni anno dai privati viene fornita una cifra che va da 270 a 300 miliardi di yen (2,5-3 miliardi di euro). Questo budget viene usato principalmente per sponsorizzare le attività musicali, le mostre e le produzioni teatrali tradizionali come il Kabuki, il Nō e il Bunraku. È molto interessante sapere con quali motivazioni i privati sponsorizzino le attività culturali: le società private con questi finanziamenti sperano di poter vivacizzare la vita locale, di poter contribuire a educare i giovani artisticamente e culturalmente, e infine sperano anche di poter aiutare i giovani artisti che si meriterebbero di essere sostenuti adeguatamente nel mondo. Le sovvenzioni pubbliche in Giappone sono comunque limitate. Per esempio, rispetto alla Francia, sono solo un quarto. Lo Stato francese per l’anno 2011 ha destinato alla cultura la somma di 7,5 miliardi di euro (in Germania 8,6, in Gran Bretagna 5,3, in Italia di 1,8 miliardi di euro). Il governo francese ha destinato per il restauro e il mantenimento dei beni culturali 375 milioni di euro e per le attività teatrali 663 milioni di euro, investendo nella sola Opéra de Paris 105 milioni di euro l’anno. Poi ha destinato la somma di 420 milioni di euro per aiutare

le imprese d’informazione in difficoltà. Questi aiuti non esistevano in passato: questo ci fa capire che la società francese ha nuove esigenze. Un dualismo culturale La promozione delle attività artistico-culturali e la protezione, miglioramento e mantenimento dei beni culturali, rispettando la libertà d’espressione attraverso la politica culturale statale, è un pensiero che si è largamente diffuso nei paesi occidentali dopo la Seconda Guerra Mondiale. Con le riflessioni sulle esperienze non positive dei vari nazionalismi e con le nuove esigenze di rivedere e conservare la cultura tradizionale e di stimolare e promuovere l’arte d’avanguardia in relazione all’avanzata dell’internazionalizzazione del mercato mondiale è aumentata l’importanza della politica culturale statale. Ma lo sviluppo e il modo d’applicare la politica culturale si differenzia da una nazione all’altra, condizionati anche dalle eredità storiche e culturali. Per unificare l’educazione scolastica del popolo in Giappone diventano di importanza vitale, assieme all’arte e alla cultura tradizionale, la pittura, la musica e il teatro. La politica del governo Meiji (1868-1912) nella seconda metà dell’Ottocento consisteva nella modernizzazione della struttura e dell’infrastruttura sociale produttiva, introducendo le scienze occidentali dai paesi europei, per esempio, per ricostruire una difesa militare di tipo occidentale, creare nuove industrie, introdurre il sistema scolastico moderno, ecc. Quindi la politica culturale in Giappone dall’epoca Meiji mirava principalmente a far radicare la cultura e la scienza europee nella società nuova che si stava costruendo. Per esempio è da notare che nel nuovo sistema scolastico viene introdotto l’insegnamento della musica occidentale al posto della musica tradizionale giapponese. La musica giapponese tradizionale veniva insegnata dai maestri nelle scuole private, come pure le arti teatrali tradizionali (Kabuki e Nō ). Così nelle scuole pubbliche venivano insegnate le scienze occidentali. Naturalmente i giapponesi impiegarono molto

tempo per appropriarsi della cultura occidentale, anzi potremmo dire che in Giappone coesiste ancora oggi un dualismo culturale. A parte questo sforzo statale di introdurre le scienze e la tecnica occidentali, il nuovo governo Meiji è stato quasi assente per quanto riguarda la politica culturale, lasciando così ai privati le iniziative per promuovere le attività culturali. Già nel precedente governo Tokugawa (1603-1868, governo di tipo feudale) le attività culturali e artistiche venivano promosse e gestite dalle comunità, non dal governo centrale feudale. Questa particolarità storica di lasciare nelle mani dei privati l’iniziativa di promuovere le attività artistico-culturali continua a esistere ancora oggi. Quando nella vita dei Giapponesi, intorno agli anni 1920-30, si diffondono le scienze occidentali, le attività artistico-culturali dei privati si vivacizzano. Le società private che prosperavano con la vendita di nuove merci di importazione occidentale, come cosmetici, vino e whisky, soprattutto nelle grandi città, iniziano a sponso-

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DOSSIER/teatro giappone In apertura, un'immagine prospettica del palcoscenico durante uno spettacolo di teatro kabuki; nella pagina precedente, un attore; in questa pagina, l'interno di un teatro e tre attori in scena.

rizzare i concerti di musica classica occidentale e le rappresentazioni teatrali con testi e danze occidentali. Naturalmente lo sponsor aveva interesse nel fare pubblicità delle merci che stava introducendo nel mercato giapponese, ma è anche vero che in quegli anni la cultura occidentale introdotta dal governo Meiji stava mettendo radici nella società giapponese. Quindi è importante notare che, dalla seconda metà dell’Ottocento, la politica culturale statale in Giappone in alcuni casi veniva utilizzata per introdurre le scienze occidentali per trasformare la società, in altri veniva utilizzata per dirigere il popolo verso il nazionalismo estremo. Il vero made in Japan In seguito al disastro della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone ha dovuto affrontare la ricostruzione delle strutture e delle infrastrutture devastate dalla guerra. Prima di tutto il governo sentiva una grande necessità di creare teatri, sale da concerto e musei in ogni parte del Paese per corrispondere alla grande richiesta di cultura da parte della popolazione. Per questo motivo, negli ultimi sessant’anni, il governo ha usato soprattutto il denaro pubblico, circa 7 mila miliardi di yen (circa 70 miliardi di euro), creando una rete di teatri, sale da concerto e musei in ogni angolo del territorio nazionale. Il loro numero attualmente supera di cinquanta volte quello dell’Inghilterra. Purtroppo, però, questa politica non si è occupata in modo adeguato della formazione professionale relativa al settore culturale. Negli ultimi dieci anni il Governo si sta impegnando concretamente, mettendo a disposizione denaro pubblico per colmare questa lacuna. La storia ci insegna che perseguire una politica culturale significa possedere una visione strategica complessiva della cultura, mettere cioè in atto politiche non episodiche e residualistiche, non conservative, ma al contrario profondamente laiche, transdisciplinari, fondate sul legame fra arte, scienza e tecnologia piuttosto che sulla loro separazione. Potrebbero insegnarci,

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infine, che avere una politica culturale significa pensare alla cultura come qualcosa di vivo e di dinamico, un laboratorio e una sperimentazione costanti, capaci di generare sì sviluppo sociale, elevazione culturale, aumento della scolarizzazione, ma anche crescita dei mercati culturali e soprattutto andare verso altri settori dell’economia, dai servizi all’industria manifatturiera e al turismo. Secondo questa visione, allora, dotarsi di una politica culturale significa pensare alla cultura come una risorsa destinata alla propria collettività. Il Giappone, nazione tradizionalmente orientata all’innovazione e alla tecnologia, da circa sei anni ha puntato sulla cultura come leva di svi-

luppo economico e ha attuato un Master Plan a medio termine fondato su sei obiettivi: rilancio delle attività creative e loro sviluppo, promozione delle culture regionali, formazione delle persone nel sistema produttivo culturale, promozione della cultura giapponese e del suo contributo alla cultura globale, sviluppo di infrastrutture per la promozione della cultura giapponese. I primi risultati si sono riscontrati dopo appena quattro anni, con un aumento dei consumi culturali interni superiore al 10% e con una progressiva centralità della specificità locale nella produzione di beni e di prodotti. I giapponesi non copiano più: il made in Japan è frutto della cultura giapponese. ★

PER SAPERNE DI PIÙ Giovanni Azzaroni, Teatro in Asia, 4 voll., Bologna, Clueb, 1998-2006. Giovanni Azzaroni, Matteo Casari, Asia il teatro che danza. Storia, forme, temi, Firenze, Le Lettere, 2011. l Giovanni Azzaroni, Dentro il mondo del kabuki, Bologna, Clueb, 1988. l Matteo Casari, Teatro nō. La via dei maestri e la trasmissione dei saperi, Bologna, Clueb, 2008. l Maria Pia D’Orazi, Il corpo eretico, Padova, CasadeiLibri, 2008. l Camilla Gennari Feslikenian, Taiko, Il ritmo del Giappone, Milano, Italia Press Edizioni, 2008. l Avant-gardes in Japan. Anniversary of Futurism and Butoh. Performing Arts and Cultural Practices between Contemporariness and Tradition, a cura di Katja Centonze, Venezia, Cafoscarina, 2010. l Matilde Mastrangelo, Le rappresentazioni di kōdan nel Giappone di oggi, in Oriente, Occidente e dintorni… Scritti in onore di Adolfo Tamburello, a cura di Franco Mazzei e Patrizia Carioti, IV vol., Napoli, Università degli Studi di Napoli L’Orientale Dipartimento di Studi Asiatici - Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, 2010, pagg. 1585-1602. l Mishima Yukio, Cinque nō moderni, Guanda, Milano, 1984. l Benito Ortolani, Il teatro giapponese - Dal rituale sciamanico alla scena contemporanea, Roma, Bulzoni, 1998. l Enrico Pitozzi, L’impermanente trasparenza del tempo. Per un’estetica dell’effimero. Conversazione con Christine Buci-Glucksmann, in Art’O, n. 20, primavera 2006. l Brian Powell, Japan’s Modern Theatre - A Century of Change and Continuity, London, Routledge, 2002. l Bonaventura Ruperti, Gli anni del Meiji: L’incontro con l’Occidente, in Sipario, nn. 507-508, gennaio-febbraio 1991, pagg. 20-26. l Bonaventura Ruperti, Il ningyōjōruri o dell’artificio manifesto, in Sipario Speciale Giappone V puntata n. 487, marzo-aprile 1989, pagg. 32-34. l Nicola Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Roma- Bari, Laterza, 1992. l Nō Theatre Transversal, a cura di Stanca Scholz Cionca e Christopher Balme, München, Iudicium, 2008. l Suzuki Tadashi, The Way of Acting. The Theatre Writings of Tadashi Suzuki, New York, Theatre Communication Group, 1986. l Elisa Vaccarino, Danze plurali. L’altrove qui, Macerata, Ephemeria, 2009. l Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro nō, Adelphi, Milano, 1966. l l


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Kabuki e dintorni: istruzioni per l'uso Luoghi, periodi, orari degli spettacoli, prezzi dei biglietti: usi, costumi, consuetudini e partecipazione del pubblico nel teatro giapponese oggi. di Mao Wada

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Tōkyō i luoghi ove sono concentrati i teatri si dividono in due zone. Nella prima, al cui centro si trova Ginza, si concentrano l’industria dei grandi spettacoli commerciali, mentre la seconda è chiamata la Mecca delle piccole rappresentazioni, Shimokitazawa. A Ginza si trovano il Kabuki-za (chiuso per ristrutturazione dal maggio 2010 se ne prevede la riapertura nell’aprile 2013), il Shinbashi Enbujō, sale per le rappresentazioni dei musical della Toho (ad esempio, il Teatro Imperiale e il Teatro Nissay), il Meiji-za e il Teatro Mitsukoshi. A Shimokitazawa, incentrata nella zona adiacente alla baia di Tōkyō, ci sono i teatri della compagnia Shiki (letteralmente, Quattro Stagioni): questi teatri, forse anche a causa delle ridotte dimensioni del quartiere, sono concentrati in una zona limitata, nei pressi dell’omonima stazione. Ginza è ricca di grandi magazzini e di locali costosi e i frequentatori appartengono a fasce di età adulta; al contrario, Shimokitazawa brulica di live-house e di negozi di abiti di seconda mano ed è frequentata soprattutto da giovani. Questa tipologia può essere applicata per individuare le diverse classi sociali degli spettatori. Gli spettatori di Shimokitazawa sono soprattutto studenti e giovani, in maggioranza donne; il pubblico degli spettacoli commerciali di Ginza è costituito quasi totalmente da donne di età avanzata. Questa tendenza è lampante soprattutto nel caso del kabuki. Nel teatro commerciale, che comprende il kabuki, frequentemente si mette in scena uno spettacolo con una cadenza mensile: la regola prevede che la prima rappresentazione si tenga il 2 del mese e che si concluda con il cinquantesimo spettacolo il 26, senza giorni di riposo. Dal 27 al primo giorno del mese successivo le compagnie si dedicano alle prove del nuovo spettacolo e al training. Le rappresentazioni nei teatri di dimensioni ridotte durano tre giorni, dal venerdì alla domenica, e il programma è organizzato in modo che nell’arco di tre giorni si rappresentino dai quattro ai cinque spettacoli. Nei teatri medio-piccoli i biglietti costano da 2.000 a 8.000 yen, in quelli grandi dai 5.000 ai 12.000 yen. Nel caso del kabuki i prezzi variano da 3.000 a 17.000 yen; esiste un tipo di biglietto, il makumiseki, con il quale si può assistere a un solo atto dell’opera rappresentata

con un costo che va dai 700 ai 1.500 yen. Gli organizzatori dei grandi spettacoli commerciali creano delle associazioni per la prenotazione dei biglietti alle quali gli acquirenti sono tenuti a registrarsi come soci. Un altro sistema è quello di richiedere direttamente i biglietti a un attore: questo può avvenire solo dopo l’iscrizione nel club dei sostenitori, e colui che raccoglie le domande, il Bantō, è senza dubbio una figura unica ed emblematica nel teatro kabuki, rappresentando un “ponte” tra il pubblico e gli attori. Lo spettacolo kabuki è diviso in due parti: quella del pomeriggio, che inizia alle undici, e quella serale che comincia alle sedici e trenta. Ogni parte, compreso l’intervallo, dura dalle quattro alle quattro ore e mezza. Circa un quarto del tempo che si trascorre a teatro è costituito dagli intervalli: questo tipo di organizzazione è molto adatta a una fruizione che prevede il godimento anche di questi lassi di tempo: il teatro, infatti, investe negli intervalli non facendo mai mancare punti di ristoro, caffetterie e negozi di souvenir. Nel kabuki costituisce senza dubbio un punto debole il fatto che, per mettere in scena opere che in origine sono molto lunghe, se ne ritaglino solo degli episodi, in quanto in questo modo

la storia diventa di difficile comprensione. Questa è la tendenza dominante nel kabuki di oggi. In conclusione vorrei trattare la questione finanziaria connessa alle rappresentazioni del teatro kabuki, che non è proprietà dello Stato. Erroneamente si pensa che gli spettacoli siano finanziati dal governo, mentre, al contrario, le rappresentazioni non sono che una delle varie imprese di una società privata chiamata Shōchiku, che opera per ricavare profitti. Attualmente non esistono sovvenzioni pubbliche dirette per le rappresentazioni kabuki e neppure un sistema di donazioni. Sono una eccezione le tournée nelle scuole e gli spettacoli all’estero. Per quel che riguarda le prime, il sistema prevede che il Ministero della Cultura finanzi la Shōchiku; gli spettacoli all’estero sono invece considerati come attività utili allo scambio interculturale e negli ultimi anni sono stati realizzati richiedendo fondi al Ministero della Cultura Giapponese e a imprese giapponesi e straniere. ★

L'attore Nakamura Nakazō II nel ruolo di Matsuōmaru, xilografia policroma del 1796 di Utagawa Toyokuni; l'attore Ichikawa Ebizō IV in un ruolo di Shibaraku, xilografia policroma del 1796 di Utagawa Kuminasa.

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Il teatro nō, una tradizione contemporanea Tradizione non è sinonimo di immobilità. Il teatro tradizionale giapponese più antico, il nō, è al contempo un modello da preservare e l’origine di numerose sperimentazioni teatrali che hanno unito le scene di Oriente e Occidente e reso possibile il connubio tra passato, presente e futuro. Con tre domande al maestro Umewaka Naohiko. di Matteo Casari

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l nō, genere teatrale fiorito e portato al suo primo compimento come teatro d’arte tra XIV e XV secolo dalle geniali intuizioni di Kan’ami Kiyotsugu (1333-1384) e Zeami Motokiyo (1363-1444), padre e figlio, è oggi universalmente noto e apprezzato tanto da essere considerato un patrimonio comune della civiltà teatrale tout court. A Zeami Motokiyo, in particolare, si deve una poderosa opera di messa a punto degli statuti fondanti del nō, opera che si è tradotta in un imprescindibile corpus di trattati teorici e nella fondazione di una tradizione artistica tuttora viva e operativa. A una prima fase caratterizzata da una ricerca vivace e sperimentale, durante la quale si compone l’iniziale repertorio drammaturgico e si mettono a punto stili e mo-

Umewaka Manzabur ō in Uneme.

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dalità esecutive, segue già a partire dal XVI secolo una progressiva tendenza alla fissazione degli assetti canonici che ancora oggi connotano a grandi linee la forma tradizionale del nō. Sarà il XVII secolo, preso a battesimo dalla salita al potere shogunale dei Tokugawa (16031868), a imprimere un ulteriore passo in questa direzione: il repertorio si fissa, come pure le tecniche compositive, lo spazio performativo assume dimensioni standardizzate e le diverse tradizioni tecniche vengono per editto suntuario fatte confluire in sole quattro famiglie: Kanze – i discendenti di Zeami –, Komparu, Kongō e Hōshō. Poco più tardi si aggiungerà la famiglia Kita. A queste famiglie fanno capo le relative scuole che, attraverso il sistema iemoto (capo scuola), disciplinano ancora oggi la formazione degli attori e assicurano un sistema di governo e gestione dell’arte nel rispetto della sua ortodossia tradizionale. Sul palco gli attori agiscono secondo tecniche corporee e vocali fissate in kata (modello, forma) che producono esiti scenici astratti e stilizzati. Gli interpreti sono solitamente in numero esiguo e si suole affermare che il nō sia un’arte a protagonista unico, lo shite, ruolo cui possono ambire solo gli attori formatisi in seno alle scuole sopra richiamate. Lo shite, che indossa il più delle volte una maschera, è il protagonista assoluto non solo della vicenda rappresentata ma, estensivamente, della scena tutta. A lui si affianca il waki, il deuteragonista, cui è generalmente demandata la funzione di aprire una rappresentazione. I trattati di Zeami postulano alcuni principi, prevalentemente di natura estetica, ancora oggi validi. Elencarli e approfondirli tutti sarebbe impossibile ma si possono almeno ricordare lo yū gen (incanto sottile) e lo hana (fiore). Lo yū gen è scaturigine di una raffinata bellezza scevra di volgarità, induce impressioni di eleganza, delicatezza e grazia. Non si dà yū gen senza hana: il fiore è forse la metafora più potente e imprendibile di Zeami. Il fiore, un epifenomeno frutto della maestria interpretativa, è un traguardo posto lungo la via dell’attore. Il fiore autentico, che solo un grande maestro può suscitare, si manifesta nel momento in cui la relazione teatrale si compie producendo una comunicazione empatica che apre a un godimento estetico ineffabile. Forte di una tradizione ininterrotta lunga oltre sei secoli, tra i non specialisti il nō viene percepito, e considerato, quasi alla stregua di un fossile vivente. Uno sguardo appena più attento, invece, rivela l’inesausta vitalità che ha animato e anima questo genere teatrale rendendolo senza alcun dubbio un teatro vivente che ha senso e pro-


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duce senso nell’oggi. A fianco della giusta e doverosa tutela della tradizione, con crescente intensità mano a mano che ci si avvicini ai nostri tempi, si sono sviluppate numerose tendenze sperimentali e innovative. In tale processo hanno giocato un certo ruolo i sempre più frequenti scambi teatrali con l’estero: tournée, adattamenti di grandi classici del teatro occidentale per il nō, riduzioni di nō per il teatro d’opera e, fondamentali, gli allestimenti con cast misti e i workshop per attori che avrebbero favorito la formazione di una “nuova specie di performer” che Stanca Scholz-Cioca e Cristopher Balme hanno definito “interculturali”. Ancora poco nota in Occidente è la ricca produzione di shinsaku nō (nuovi nō ). Con questo termine si indicano opere alquanto varie: vi possono rientrare nuove drammaturgie tematicamente focalizzate sull’attualità e messe in scena in stile classico, allestimenti nei quali il nō viene intrecciato ad altri generi artistici, testi antichi rinnovati sotto il profilo del linguaggio, opere uscite dal repertorio e riallestite con coreografie e musiche create ex novo, e così via. Molto noti al pubblico italiano, perché di cinque è disponibile una traduzione, sono invece i nō moderni di Mishima, sebbene l’operazione mishimiana sia limitata a una sorta di libera citazione di titoli e temi ripresi dal repertorio tradizionale e finalizzata ad allestimenti in stile shingeki. Se è vero che non sono mai le culture a incontrarsi, bensì gli uomini, è alla sempre maggiore disponibilità degli attori nō di tradizione a prendere parte a progetti sperimentali o, in certi casi, a condurli in modo autonomo che si deve il maggiore impulso all’innovazione. Tra questi l’attore Umewaka Naohiko, shite nato e cresciuto in una delle famiglie più prestigiose e ammirate nel professionismo del nō, nonché drammaturgo, regista, studioso e saggista di frequente impegnato in tournée e workshop fuori dal Giappone. Come coniuga la necessità di preservare e rispettare la tradizione con quella di non "museificarla"? La tradizione è un ostacolo o un aiuto a rendere vivo il nō oggi? Prima di tutto bisogna identificare in che parte del nō è conservata la tradizione. La tradizione non è un concetto, ma un insieme di funzioni che si trovano nei suoi dettagli. Ad esempio le parti cantate e le partiture musicali devono rispettare determinati canoni per svilupparsi in parallelo. Anche i movimenti, annotati in libri segreti (katatsuke), sono patrimonio della tradizione. La

maggior parte di questi, per esempio, è apparentemente molto semplice ma per rendere apprezzabili questi gesti si richiede una profonda forza mentale, capacità di meditazione per non parlare della possente forza di gambe e lombi. I vari movimenti e il corpo umano non devono avere un rapporto superficiale, ma devono essere profondamente in sintonia. Possiamo dire che anche questo aspetto fa parte della tradizione. È risaputo che non si può mettere il vino nuovo nella botte vecchia, ma non si deve neanche mettere un vino nuovo di cattiva qualità in un contenitore nuovo. Produrre un vino nobile e di ottima qualità non è lavoro di una sola generazione. Si può dire la stessa cosa per la fisicità del maestro del nō, per ottenerla bisogna seguire la sapienza del passato e nello stesso tempo aggiornarsi come si fa con le applicazioni del computer. Al contrario del computer, che invecchia velocemente e deve essere cambiato spesso, il corpo del maestro nō rimane invariato nel tempo: tuttavia potrebbe succedere che un giorno anche il corpo del maestro abbia bisogno di un cambiamento radicale. I trattati di Zeami sono ancora un riferimento per il nō odierno? Zeami fu il capo della scuola Yuzaki-za, ma la sua teoria artistica è stata trasmessa anche al genero, Konparu Zenchiku, sotto forma di trattati segreti. Si può dire perciò che i trattati di Zeami abbiano influenzato profondamente sia la scuola Kanze che la Konparu. Personalmente non saprei dire con esattezza come i trattati abbiano condizionato le altre scuole. In ogni caso a mio parere le teorie di Zeami costituiscono un insegnamento d’enorme importanza. Da molti anni è impegnato in una serie di sperimentazioni teatrali – come attore, drammaturgo, coreografo e regista – che l'hanno portata oltre i limiti canonici del teatro nō. Può parlarci di questa esperienza? Personalmente non ho mai avuto intenzione di scrivere e mettere in scena sceneggiature di nō contemporanei, ma ho scritto semplicemente opere di teatro. L’aver avuto esperienze nel nō tradizionale e averle vissute in prima persona non mi ha aiutato nello scrivere il cosiddetto “teatro contemporaneo”, ma volente o nolente quello che scrivo è influenzato dal nō. Potrei dire che inconsciamente dentro di me tutto è collegato al nō. L’uso delle maschere nelle mie drammaturgie, ad esempio, è stato del tutto spontaneo. Sono presenti in scena ma non ho mai avuto l’intenzione strategica di usarle per portare lo stile del nō nelle mie drammaturgie contemporanee. ★

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Il kabuki, un ossimoro strutturale tra passato, presente e futuro Con il super kabuki Ennosuke III declina al presente il passato. Rinnovando il mondo del kabuki, Ennosuke III propone una filosofia teatrale che affonda le radici nella consapevolezza della necessità del rinnovamento per conservare la tradizione. di Giovanni Azzaroni

Ichikawa Ennosuke III in Yamato Takeru (1986).

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on la messa in scena in prima mondiale nel 1986 al Meiji za di Tokyo di Yamato Takeru, dramma in tre atti e tredici scene scritto dallo storico e filosofo Takeshi Umehara nel 1980, Ichikawa Ennosuke III ha proposto in maniera esemplare la sua concezione di un moderno teatro kabuki, fondata sulla spettacolarità e sul rigore delle azioni sceniche nel rispetto della tradizione. Nasceva il super kabuki, secondo tentativo di rinnovare “dall’interno” questo genere teatrale, evitando le ingombranti e retoriche superfetazioni che lo avrebbero reso “diverso” nelle espressioni visive e non nelle strutture formali. Poiché in questo allestimento sono presenti i tre elementi fondanti del kabuki - musica,

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danza e recitazione -, Yamato Takeru può essere preso a modello, a mio avviso, del metodo da seguire per rinnovare il kabuki dall’interno. Il kabuki (ka, musica e canto; bu, danza; ki, recitazione) è uno dei tre generi di teatro classico giapponese - gli altri sono il nō e il bunraku - e la sua nascita, tra la fine del sedicesimo e l’inizio del diciassettesimo secolo, è miticamente attribuita a una danzatrice, Izumo no Okuni. Lo stile teatrale si compenetrò così profondamente con la vita dei primi anni del diciassettesimo secolo che coloro che usavano vestirsi con abiti dai colori sgargianti e con modelli elaborati erano chiamati kabuki mono o kabuki, a testimonianza della popolarità raggiunta dal nuovo genere teatrale.

Divertimento preferito dalla ricca classe emergente dei mercanti (chō nin), il kabuki ha strutturalmente definito e perfezionato le proprie tecniche espressive soprattutto durante il diciassettesimo secolo, mantenendole intonse sino ai nostri giorni. L’attore (nel kabuki non sono presenti le attrici e i ruoli femminili sono interpretati da attori, gli onnagata) è il centro dell’azione scenica e ne condiziona il divenire con un vocabolario di moduli espressivi gradualmente codificati negli anni. I modelli di recitazione sono chiamati kata e la recitazione, l’azione mimica e il movimento ne sono elementi costitutivi; ogni famiglia di attori ha uno stile di recitazione. I costumi, il trucco, gli oggetti scenici e la musica possono essere considerati come una


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estensione dell’attività dell’attore, e quindi come una parte dei kata. Tra i kata gli effimeri si bruciano rapidamente, mentre i durevoli, perfezionati e definiti nel corso degli anni da generazioni di attori, rappresentano il momento fondamentale dell’arte del recitare del kabuki. Secondo gli studiosi giapponesi è possibile individuare tre livelli di kata: stile di recitazione, tecniche di interpretazione e variazioni delle tecniche interpretative create dagli attori per meglio evidenziare le proprie caratteristiche personali, intellettuali e fisiche. Nascita dello shin kabuki Nei suoi primi trecento anni di vita il kabuki non ha sostanzialmente variato il proprio corpus interpretativo, lasciando solamente ai grandi attori l’arduo compito di inventare nuovi kata in relazione alla messa in scena di un personaggio, variando i kata sanciti dalla tradizione e fissandone così una nuova che diventerà di pertinenza assoluta della sua famiglia. Bisognerà attendere i primi quarant’anni del secolo scorso perché intellettuali, drammaturghi e attori si pongano il problema del rinnovamento del kabuki, suggerito anche dall’invadente arrivo in Giappone del teatro occidentale. I lavori conosciuti come nuovo kabuki (shin kabuki) furono scritti da drammaturghi come Tsubouchi Shoyo (1859-1935) e Okamoto Kido (1872-1939), aperti alle tendenze moderne. In genere gli autori erano letterati senza specifiche competenze teatrali che misero in discussione gli schemi narrativi e rappresentativi degli autori tradizionali. Scritti con moduli occidentali e messi in scena con stili tradizionali, queste opere rappresentano il tentativo più significativo di rinnovamento del kabuki. Tsubouchi Shōyō fu una delle più importanti personalità dei periodi Meiji (1868-1912), Taishō (1912-1926) e Shōwa (1926-1989). Drammaturgo, romanziere, letterato, erudito illuminato, profeta di una nuova teoria della letteratura, tradusse Shakespeare in giapponese, riformò il jidaimono e lo shosagoto e fu uno degli esponenti più prestigiosi del moderno teatro (la drammaturgia kabuki può essere strutturalmente suddivisa in tre generi: drammi jidaimono, drammi storici o

mitologici in stile classico; drammi sewamono, opere che trattano della vita della gente comune, che iniziarono a essere scritti dagli inizi del diciottesimo secolo; drammi shosagoto, danze drammatiche con la danza al centro dell’azione e le parole e la gestualità relegate a un ruolo secondario). Okamoto Kido fu un drammaturgo anticonvenzionale, dotato di uno stile riservato e modesto, che si ispirò alla natura e alle situazioni stagionali per esprimere i sentimenti che agitavano i suoi personaggi. Critico teatrale e scrittore, compose drammi per Ichikawa Sadanji II e fu uno dei più rappresentativi autori del shin kabuki; gli anni in cui lavorò sono ricordati come “l’età d’oro del dramma di Kido”. Il super kabuki di Ennosuke Dopo lo shin kabuki, il super kabuki di Ennosuke rappresenta l’unico tentativo strutturato di rinnovamento di questo genere teatrale partendo dalle forme interne, dai kata, per cercare di corrispondere ai “diversi” gusti del pubblico. In realtà la sottolineatura si impone, poiché ritengo sia necessario approfondire questo concetto. Il pubblico giapponese ama il teatro kabuki tradizionale, come ama il nō e il bunraku come sono stati definiti da generazioni di attori e di marionettisti. Accetta il nuovo ma non come alternativa all’antico, al contrario lo apprezza come una diversa ipotesi scenica che non inficia quanto la tradizione ha stabilito. Nel caso del super kabuki di Ennosuke credo si possa affermare che la rottura degli schemi tradizionali debba essere imputata alla sua personale visione critica, continuamente alla ricerca di nuove forme espressive sempre nel rispetto della tradizione. Ennosuke ama definirsi un “regista innovativo” che cerca di stupire il pubblico con messinscene spettacolari e ardite anche quando propone drammi kabuki con allestimenti kabuki. Il pubblico va a teatro per vedere il “suo” teatro, continuando così a perpetuare il mito del grande attore che è costitutivo di questo teatro. Dal 1986 a oggi Ennosuke ha proposto solamente otto produzioni di super kabuki, inserite in una programmazione tradizionale di una decina di drammi ogni anno allestiti secondo i

dettami della tradizione e con varianti minime dettate dai suoi gusti estetici. Attualmente il mondo del kabuki è diviso tra innovazione (Ennosuke) e tradizione (tutti gli altri attori). Va qui precisato che il concetto di regista, come è definito in Occidente, è sconosciuto nel teatro classico giapponese: generalmente sono i capi delle compagnie (iemoto) che, agendo come direttori di scena, allestiscono gli spettacoli secondo stilemi fissati dalla tradizione, così come è stato loro insegnato. Ennosuke rappresenta l’eccezione. Questa affermazione comporta alcune necessarie considerazioni. Lo shin kabuki ha avuto una breve vita, connessa soprattutto agli attori che lo hanno interpretato: con la loro scomparsa, lo shin kabuki si è visto raramente sulle scene, confermando la regola che assegna all’attore il ruolo principale, mentre il dramma è solamente “un’occasione” per mostrare le sue abilità interpretative e il pubblico si reca a teatro per ammirarle dimenticandosi spesso del testo. Ancora oggi non è raro che nella locandina di uno spettacolo troneggi il nome dell’interprete principale e sia dimenticato il nome dell’autore del dramma. L’interrogativo è dunque d’obbligo: quando Ennosuke lascerà il teatro, che cosa ne sarà del super kabuki? Seguirà il destino dello shin kabuki oppure continuerà a essere rappresentato? Attualmente nessuna famiglia segue le indicazioni di lavoro di Ennosuke, il suo è un lavoro solitario, un grande attore e un grande regista che crede nel rinnovamento, crea nuovi kata per le sue messe in scena che rivoluzionano il kabuki mantenendone inalterate le qualità precipue di teatro di attore, ganglio vitale e inalienabile della rappresentazione. Nessuna concessione agli estetismi fini a se stessi, alle inutili superfetazioni, alle ridondanti e autoteliche macchinerie, ma al contrario una visione teatrale che affonda le proprie radici nelle tradizioni della famiglia Ichikawa, reinterpretate secondo la personalissima filosofia teatrale di Ennosuke. L’auspicio è che il suo lavoro non vada perduto e sia raccolto sin da ora per proseguire il suo tentativo di rinnovare la tradizione nella tradizione. ★

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Marionette di legno per rappresentare l'animo umano: il bunraku oggi Nell’universo del teatro giapponese la forma più illustre, elevata e complessa di teatro di figura è senza dubbio il bunraku. Lo spettatore viene travolto, nell’acme dell’azione drammatica, da passioni e sentimenti di umana intensità. di Bonaventura Ruperti

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ella ricchezza di forme e tradizioni dello spettacolo che il Giappone ha sviluppato nel corso della sua storia, senza dubbio, accanto al nō, al kyō gen e al kabuki, un posto di assoluto rilievo ha occupato e occupa tuttora il teatro dei burattini, ningyō jō ruri o bunraku, nel 2003 designato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Questo, fiorito a Ōsaka, ha avuto qui la predominanza e uno sviluppo senza equali sia dal punto di vista drammaturgico, che della manipolazione dei burattini, sia sul piano dell’accompagnamento musicale, che del complesso scenografico dello spettacolo. Nei teatri odierni il bunraku si presenta allo spettatore in un assetto nitido in cui canale visivo e canale uditivo della rappresentazione sono separati: di fronte il canale visivo, costituito dal palcoscenico in cui si muovono i fantocci (nel caso dei personaggi principali mossi in maniera elaborata da tre manovratori); sul lato destro (rispetto allo spettatore) il versante udi-

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tivo costituito da un narratore affiancato da un suonatore di shamisen, uno strumento a tre corde percosso con un grosso plettro. Così, rispetto alla tradizione europea del teatro di figura, il manipolatore dei pupazzi e il narratore che a questi dà voce sono scissi. Il narratore del testo che viene inscenato è visibile al pubblico e, per di più, i gesti del burattino e i gesti del manipolatore sono manifestati tramite una animazione in vista: i burattinai, dissimulati solo da vesti e cappuccio neri, per gli artisti più illustri e in scene importanti appaiono senza cappuccio e in abito da cerimonia. In realtà questa esplicitazione dei ruoli e l’assenza di ogni pretesa di illusione sono l’esito di una lunga sperimentazione attuata nel corso dello sviluppo diacronico, e in tale soluzione scenica ogni gesto si manifesta, a enfatizzare inequivocabilmente la performatività dell’arte: la narrazione come atto e il racconto come contenuto vengono a emergere come presenza fisica di si-

mulacri, umani e non, a confermare il valore oltre che di rappresentazione di un evento che viene a compiersi sulla scena, anche e soprattutto il senso di arte performativa, di maestria dell’arte dello spettacolo nel suo farsi. I grandi maestri e i loro palcoscenici Tutt’oggi il bunraku ha il suo centro nel teatro nazionale (Kokuritsu bunraku gekijō) inaugurato nel 1984 e sito a Ōsaka, dove si svolgono nel corso dell’anno di norma quattro programmi di spettacolo (gennaio, aprile, luglio, ottobre), in genere distinti in matinée e soirée, ciascuno riproposto per quasi un mese di repliche, e quattro programmi (febbraio, maggio, settembre, dicembre), anch’essi doppi (o tripli) tra mattina e pomeriggio, con repliche ciascuno per quasi un mese presso il teatro nazionale di Tōkyō (Tōkyō Kokuritsu gekijō). All’interno di questo e nei restanti mesi dell’anno la compagnia di artisti del bunraku è dedita alle sperimentazioni, alle rap-


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presentazioni dimostrative di promozione della conoscenza dell’arte con cicli per bambini, per le scuole superiori, ai giri nelle aree di provincia e a eventuali tournée internazionali. Negli anni si registra e conferma una grande popolarità degli spettacoli che incontrano il tutto esaurito, più che nella sede natale di Ōsaka, soprattutto negli spettacoli a Tōkyō. Il problema vitale primario dell’affluenza del pubblico, dunque sembra limitato ad alcuni programmi che talora non incontrano i gusti del pubblico di Ōsaka, più concreto e neghittoso, mentre una folta platea di affezionati affolla gli spettacoli nella capitale. D’altro canto, il problema della trasmissione e preservazione delle tre arti portanti di questo teatro - la recitazione del narratore (tayū), la musica del suonatore di shamisen e l’animazione dei burattinai - un tempo sentita come una minaccia di crisi per il futuro, nel reclutamento di nuove leve, sembra in questo momento scongiurato. Tra i manovratori di pupazzi si segnala la presenza di artisti di grande spicco, come il tesoro nazionale vivente Yoshida Minosuke, dalla straordinaria delicatezza e sensibilità nelle movenze, e Yoshida Bunjaku (entrambi specializzati in particolare nei personaggi femminili), mentre Kiritake Kanjūrō, Yoshida Tamame, Yoshida Kazuo si dedicano alla manipolazione dei personaggi maschili, affiancati da una nuova generazione di buona solidità tecnica (e si confida anche fisica, vista la forza richiesta a sostenere il peso di burattini di grandezza quasi umana). Tra i suonatori di shamisen si stagliano artisti come il veterano Tsurusawa Kanji, il massimo virtuoso Tsurusawa Seiji e nella generazione più giovane, Tsurusawa Eisuke, Tsurusawa Enza, Toyozawa Tomisuke e altri, che garantiscono il sostegno di una maestria di alto tenore nell’accompagnamento musicale. Nell’ardua arte della narrazione, dove più faticava il reclutamento di giovani pronti a dedicarsi alla sfibrante disciplina, oltre al tesoro nazionale Takemoto Sumitayū, ormai di età avanzata ma ancora protagonista di limitate e osannate esibizioni in singole scene dei drammi più impegnativi, la generazione dei più maturi artisti vede la presenza di Takemoto Tsunatayū e Takemoto Shimatayū, mentre grandi speran-

ze sono riposte nella generazione successiva, Chitosetayū, Hanabusatayū e Mojihisatayū, e anche in quella dei più giovani. Drammi antichi e nuove creazioni Il repertorio ricchissimo tuttora inscenato nei programmi è costituito dai classici di quest’arte, un totale di circa duecento brani. Nato tra la fine del XVI e il XVII secolo, questo genere subisce una grande svolta nel 1687 con la nascita del sodalizio tra un narratore, Takemoto Gidayū (16511714), con uno scrittore specializzato nel teatro, Chikamatsu Monzaemon (1653-1724), nel teatro Takemoto di Ōsaka. Gidayū, cantore di straordinaria potenza e espressività, elabora uno stile di narrazione (gidayūbushi) altamente drammatico in cui si fondono avventure eroico-guerresche, iperboli fantastiche, eleganza nei brani danzati, melodie patetiche apprese dai predecessori, con la complessità tragica dei testi di Chikamatsu. Con Chikamatsu, che opera anche per il teatro di attori (kabuki) per poi dedicarsi con oltre 100 drammi solo al teatro dei burattini, si definiscono anche i due generi principali: i jidaimono (drammi d’ambientazione storica), storie grandiose e tragiche in genere in cinque atti che rielaborano in trame nuove e originali materia e personaggi della tradizione storico-letteraria e i sewamono (drammi d’attualità), più semplici, in tre atti, ispirati a eventi di attualità, suicidi di giovani amanti, problemi di adulterio o di denaro, che esaltano la purezza del sentimento denunciando le costrizioni della società: Sonezaki shinjū (Doppio suicidio d’amore a Sonezaki); Meido no hikyaku (Un corriere per l’inferno, 1711), Shinjū Ten no Amijima (Doppio suicidio d’amore a Amijima, 1720), drammi che sono tuttora tra i più amati. Tuttavia più ricorrenti, rappresentate nelle scene principali o talora nella loro quasi completa estensione (in tal caso a cavallo tra programma della mattinata e quello del pomeriggio), sono le opere risalenti soprattutto a drammaturghi e artisti successivi quando, sotto l’impulso della competizione tra due teatri, Takemotoza e Toyotakeza, nascono testi con intreccio più complesso, composti a più mani, in cui ciascun atto viene scritto da un autore diverso sotto la supervisione di uno scrittore principale, e recitato nelle scene salienti dai cantori di maggiore pre-

stigio. Al contempo, dai piccoli fantocci mossi da un unico operatore, a partire dal 1734, grazie al maestro burattinaio Yoshida Bunzaburō (?1760), sono apparsi i burattini a grandezza quasi reale per i personaggi principali, manovrati da dietro da tre individui quali vediamo oggi. Così l’arte dell’animazione stessa è venuta sollecitando la scrittura teatrale verso le potenzialità e il fascino di un fantoccio che riproduce con grazia e minuzia la realtà dei gesti più complessi, in concorrenza con il corpo in carne e ossa degli attori del kabuki. A questa fase risalgono i capolavori tuttora più apprezzati: Sugawara denju tenarai kagami (Specchio della tradizione calligrafica di Sugawara, 1746), Yoshitsune senbonzakura (Yoshitsune e i mille ciliegi, 1747) e Kanadehon chū shingura (Il manuale sillabico, magazzino dei vassalli fedeli, 1748), in cui convivono la visione idealizzata di Takeda Izumo II (1691-1756), con il pessimismo e la percezione della fugacità (mujō ) della vita di Namiki Senryū (Sōsuke, 1695-1751). Di grande effetto scenico, con intrecci d’azione e inganni, personaggi forti e ribelli e figure femminili di grande fascino sono anche le opere di Chikamatsu Hanji (1725-1783): Honchō nijū shikō (Ventiquattro esempi di pietà filiale del nostro impero, 1766), Ōmi Genji senjin yakata (La residenza di battaglia degli ō mi Genji, 1769), Imoseyama onna teikin (I monti Imo e Se, insegnamenti per la donna, 1771). Se la drammaturgia del teatro dei burattini offre spesso al kabuki testi drammatici e modelli da imitare, nella fase più tarda anche il teatro dei burattini attinge a opere nate nel kabuki o nella letteratura, come Ehon Taikō ki (Un Taikō ki in libro illustrato, 1799), che segna la fine della grande stagione creativa. Anche oggi quasi ogni anno vengono tentate e promosse rappresentazioni di nuovi testi o recupero anche di brani del passato, ma la contemporaneità sembra faticare a comporsi con una recitazione di matrice epica, nel difficile confronto con la grande qualità dei testi drammatici del passato interpretati da un narratore capace di variegata e minuta espressività. Da quelle passioni, da quei sentimenti così intensamente rappresentati lo spettatore viene travolto nell’acme drammatica, ove distrazione e piacere convivono con un’irresistibile commozione. ★

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Il kyōgen oggi: i maestri del rinnovamento Da anni alcuni attori kyōgen di nuova generazione non si limitano a conservare lo stile di recitazione classico come un tesoro prezioso da tutelare, ma cercano di ritrovarne il valore universale mettendolo a confronto con varie forme di teatro tradizionale e contemporaneo.

Nomura Mansai ne Il kyōgen degli errori (foto: Shinji Masakawa).

di Takada Kazufumi

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l kyō gen è una forma di teatro classico giapponese sorta nel XIV secolo insieme al teatro nō, e il suo stile di recitazione rimane sostanzialmente immutato a partire dal XVII secolo, da quando, cioè, è stato patrocinato dalla classe dirigente come un rito ufficiale del governo samuraico. Ma a differenza del teatro nō, che utilizza al massimo il canto e la danza, il kyō gen ha il carattere di un teatro di prosa di stampo realistico, in quanto si tratta fondamentalmente di un genere comico basato su dialoghi quotidiani. Infatti già dalla sua nascita una pièce del kyō gen veniva recitata come una specie di intermezzo fra due opere del nō, per alleggerire l’atmosfera della serata. Appunto per questo carattere comico e leggero si ritiene che la tecnica di recitazione del kyō gen abbia una certa flessibilità che permette agli attori di adattarsi anche al teatro contemporaneo.

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Mannojo e la Via della maschera Da parecchi anni alcuni attori del kyō gen di nuova generazione non si limitano semplicemente a conservare lo stile di recitazione classico come un tesoro prezioso da tutelare, ma cercano di ritrovare il valore universale di questo teatro mettendolo in confronto con varie forme di teatro sia tradizionale che contemporaneo. Uno degli esponenti della nuova generazione è stato Nomura Mannojo (1959-2004), discendente di una famiglia che tramanda da secoli l’arte di scuola Izumi, una delle due scuole del kyō gen esistenti fino a oggi. Mannojo è stato un rinnovatore nel senso più radicale e ha tentato di ritrovare l’origine di questo teatro per mettere in rilievo la forza espressiva che aveva il kyō gen ai tempi della sua nascita. Da giovane ha soggiornato a Milano per studiare la tecnica di recitazione del teatro occidentale e ha cominciato a interessarsi della Commedia dell’Arte italiana. Ha intuito come attore l’affinità fra queste due forme di teatro comico tradizionale, con particolare attenzione all’uso delle maschere. Successivamente ha iniziato a ricercare le radici del kyō gen tentando di ricostruire lo stile del gigaku, uno spettacolo con maschere che ha storicamente preceduto il nō e il kyō gen. Le maschere usate per il gigaku sono conservate come oggetti da museo e lo spettacolo è scomparso totalmente dalla storia teatrale giapponese, quindi non si sa esattamente in quale modo fosse rappresentato. Si presume, comunque, che fosse giunto in Giappone nel VII secolo dalla Cina attraverso la Corea e fosse una forma di spettacolo che attingeva a varie forme di teatro e di danza popolare delle diverse zone dell’Asia orientale. Mannojo ha cercato di rivalutare anche il dengaku, un altro tipo di spettacolo popolare precedente al kyō gen, diffuso una volta fra i contadini di diverse zone del Giappone, ma ormai quasi dimenticato salvo poche eccezioni. Secondo Mannojo, sia il gigaku sia il dengaku, essendo ambedue forme di spettacolo più primitive, dovevano essere ricche dell’energia del teatro popolare e la loro tecnica di recitazione strettamente legata al lavoro dei contadini. Attraverso varie sperimentazioni di ricostruzione e allestimento di questi antichi spettacoli perduti, Mannojo ha pensato di ritrovare l’energia e la vitalità che caratterizzavano la cultura popolare giapponese di quell’epoca: l’obiettivo finale era quello di far rivivere le opere del kyō gen eccessivamente stilizzate e raffinate sotto il patrocinio e la protezione


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dei samurai e diventate, ormai, pure forme superficiali mancanti della forza espressiva originale. Mannojo non si è accontentato solo di riprodurre le antiche forme teatrali giapponesi, ma ha fatto indagini su varie forme di spettacolo e di danza di diversi paesi asiatici. Ha viaggiato appositamente a questo scopo in Corea, in Cina, in Bhutan, in Tibet e persino in India, e ha stretto collaborazioni con attori e danzatori di questi paesi per creare uno spettacolo multietnico e multiculturale. Con il chiaro intento di ritrovare elementi comuni fra i diversi tipi di spettacolo dell’Asia ha denominato la strada che attraversa questi paesi Mask Road (Via della maschera), contrapposta alla Silk Road (Via della seta), che nell’antichità collegava i paesi dell’Asia e quelli del Mediterraneo dove appunto si sono sviluppate le maschere della Commedia dell’Arte. Anche grazie all’aiuto finanziario della Nhk (Radiotelevisione Nazionale Giapponese), Mannojo ha realizzato diversi spettacoli e programmi televisivi su questo argomento ed è riuscito a scoprire il valore storicoculturale dell’arte di kyō gen e a rivalutare la sua tecnica di recitazione da un punto di vista molto più ampio. Purtroppo Mannojo è improvvisamente scomparso nel 2004, all’età di 44 anni, e le sue ricerche a livello scientifico e pratico sono pressoché sospese, anche se alcuni suoi discepoli hanno ereditato il suo spirito di rinnovamento. Mansai tra il Bardo e Arlecchino Un altro fautore è Nomura Mansai (1966), anche lui discendente della famiglia di attori della scuola Izumi. Da giovane è stato educato come figlio d’arte nel mondo del kyō gen ma, allo stesso tempo, ha nutrito un forte interesse per il teatro contemporaneo lavorando di frequente anche per spettacoli di prosa e programmi televisivi. Ha recitato, ad esempio, Hamlet e Edipo Re, quest’ultimo sotto la regia di Ninagawa Yukio, uno dei registi giapponesi più rinomati anche a livello internazionale. Il suo lavoro più importante è sicuramente Il kyō gen degli errori, adattamento della pièce shakespeariana La commedia degli errori. Il testo in giapponese è scritto da uno studioso di Shakespeare, Yasunari Takahashi, con linguaggio tipico del kyō gen ma al tempo stesso perfettamente comprensibile al pubblico giapponese di oggi. La regia è firmata da Mansai stesso il quale, pur rispettando la trama e la situazione originale di Shakespeare, ha fatto recitare tutti gli attori in sti-

le kyō gen realizzando uno spettacolo completamente nuovo. Con le varie tecniche del kyō gen, in particolare l’uso del trucco e della maschera, il regista ha enfatizzato al massimo la confusione causata da due coppie di gemelli, una dei padroni e l’altra dei servi. I quattro personaggi vengono recitati da due attori (il padrone e il servo), ma tutti e due coprono ogni tanto il volto con la maschera per mistificare un po’ la propria identità, complicando ulteriormente il meccanismo del sosia. Da 2002 Mansai ha assunto il ruolo del direttore artistico del Setagaya Public Theater a Tokyo, uno dei teatri stabili più importanti del Giappone, e continua assiduamente la sua attività in vari generi, dal teatro di prosa alla danza contemporanea, oltre al suo lavoro come attore del kyō gen tradizionale. Nel 2009 ha realizzato uno scambio teatrale importante fra il Giappone e l’Italia: il Setagaya Public Theater ha ospitato il famoso Arlecchino servitore di due padroni del Piccolo Teatro di Milano, e questo la tournée italiana della compagnia del kyō gen di Nomura. Mansai, che si interessava da tempo del teatro occidentale, ha cominciato così anche a fare un confronto tra il suo teatro tradizionale e la Commedia dell’Arte. Anche nell’area di Kyoto, dove risiede la famiglia Shigeyama della scuola Okura, un’altra importante scuola del kyō gen tradizionale, non manca il tentativo di rinnovamento. Shigeyama Akira (1952), nato anche lui come figlio d’arte, si interessa da parecchi anni della Commedia dell’Arte e, a metà degli anni ‘90, ha iniziato un progetto internazionale per lo scambio culturale con gli attori europei proponendosi di rinnovare lo stile tradizionale del kyō gen. Anche lui ha individuato l’affinità tra kyō gen e Commedia dell’Arte, e ha realizzato diversi progetti di collaborazione con attori italiani: convegni e laboratori sulle due tecniche di recitazione, rappresentazioni a confronto di spettacoli di kyō gen e di Commedia dell’Arte, e perfino un tentativo di rappresentare lo stesso testo nei due diversi stili. L’intento comune a questi tre rinnovatori è quello di cercare di far uscire la tecnica di recitazione del kyō gen dall’ambito ristretto del teatro tradizionale conservato fino ad oggi come un tesoro di famiglia da tutelare a tutti i costi. A guidarli la consapevolezza che oggi come oggi, quando lo scambio di informazioni e di tecniche avviene con una rapidità incredibile, anche il mondo dell’arte tradizionale dovrebbe aprirsi a un certo cambiamento pur conservando, è ovvio, il suo nucleo essenziale tramandato attraverso i secoli. ★

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Il fantasma del butō dal mito delle origini alle visioni del futuro Il butō di Hijikata Tatsumi e ōno Kazuo: la luce e l’ombra della danza delle tenebre. In scena un corpo totale che è scultura modellata dal tempo e magazzino di una memoria dell’universo. di Maria Pia D'Orazi

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n enorme corpo disteso con gli occhi chiusi. È così che il fotografo americano William Klein percepì Tōkyō nell’estate del 1960, quando arrivò da Parigi per scattare il ritratto di una città mai vista prima con l’idea di affidarsi unicamente alle sue sensazioni. Girovagò per mesi da un quartiere all’altro inseguendo danzatori d’avanguardia fra i vicoli del centro e attori vestiti da donna nei camerini del teatro kabuki, vecchi massaggiatori ciechi e nuovi saloni di bellezza, giocatori di baseball e lottatori di sumō, signore in kimono e ragazze in tailleur, statue del Buddha e cartelloni pubblicitari della Sony. Una coeva generazione di fotografi giapponesi, troppo stretta nelle convenzioni realistiche dell’epoca, ne prende ispirazione per raccontare un Paese lontano dagli stereotipi fissando la proiezione emotiva del paesaggio reale. Le periferie desolate di Eikoh Hosoe per esempio, e i suoi ritratti: Mishima Yukio, avvolto in un bondage stretto di corde con la lingua di fuori e un martello in ma-

no sullo sfondo della sua villetta stile liberty; o Hijikata Tatsumi in kimono che corre all’impazzata sventolando fra i palazzi una bandiera della marina giapponese. Fu allora che un’intera comunità d’artisti mostrò di condividere il medesimo punto di partenza: una crisi d’identità frutto di una capillare occidentalizzazione che l’occupazione americana del dopoguerra aveva formalizzato in sottomissione culturale tanto da produrre insurrezioni sociali. Fotografi, registi, pittori, scrittori e danzatori esprimono il disagio di una generazione in rivolta contro l’ipocrisia di un sistema sociale e politico che affidava il riscatto del Paese al successo economico, senza aver mai fatto i conti con un passato di sogni eroici e con le sue conseguenze. La danza delle tenebre di Hijikata Tatsumi È in questo clima che Hijikata Tatsumi, aspirante danzatore sperimentale, arriva a Tōkyō all’inizio degli anni Cinquanta e fonda un nuovo genere che chiama ankoku butō : la danza delle tenebre.

Qualche anno a prendere ogni lezione possibile dal balletto al jazz al flamenco alla danza espressionista tedesca e capisce che non c’è tempo da perdere. Tutti quegli stili che arrivano da un Occidente lontano rimandano a un tipo fisico che segue altri ritmi e obbedisce a differenti principi etici ed estetici. Non c’è niente che corrisponda alla necessità di quel suo corpo anarchico, cresciuto senza limiti nella campagna del Tohoku, profondo Nord, freddo neve pioggia e vento per la maggior parte dell’anno. Sente che imparare a danzare non significa mettere in posizione braccia e gambe, né mettere in relazione il movimento con un contenuto emotivo e che il corpo stesso, nella sua essenza, è qualcosa di molto più misterioso che non un mezzo da usare per esprimere qualcosa. Allora comincia a vagheggiare una danza imponente e originale, come l’urlo di disperazione di un miserabile ragazzo dalla pancia perennemente vuota. Il suo debutto ufficiale arriva nel 1959, in una sala di 650 posti dove l’Associazione Nazionale Dan-

Akira Kasai in Seraphita (foto: Emilio D'Itri).

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za Moderna presenta i nuovi talenti. Titolo Kinjiki (Colori proibiti): cinque minuti ispirati all’omonimo romanzo di Mishima Yukio che si svolgono completamente al buio. Un giovanotto in calzoncini entra in scena, mentre un uomo a petto nudo corre dietro di lui. Quando i due si raggiungono, il ragazzo strangola un pollo fra le cosce in un simbolico atto di sodomia. Poi cadono insieme, rotolano e gemono. È subito scandalo. Hijikata presenta il suo progetto attraverso un atto criminale e l’infrazione di un tabù. In una società dominata dalla produzione, dove il corpo è soltanto l’ennesimo prodotto, associa la danza a un comportamento senza scopo: una protesta e un invito a non accontentarsi del ruolo di consumatori passivi, a teatro come nella vita. Ma il suo gesto è anche l’affermazione di un concetto di corporeità che include un mondo d’istinti forze e pulsioni eccedenti la pura funzionalità del quotidiano. Stabilisce così la possibilità di una danza che non riguarda la dimensione sociale dell’individuo, ma mette in questione il significato stesso del corpo e le sue potenzialità. Nella nuova versione di Kinjiki che presenta qualche mese dopo il debutto, Hijikata coreografa per ōno Kazuo il ruolo di Divine, il vecchio travestito descritto da Jean Genet nel romanzo Notre Dame des Fleurs. Ōno è il danzatore speciale, complice, insegnante e amico che condividerà quella sistematica distruzione del modo abituale di muovere e percepire il corpo portata avanti per circa un decennio con la serie dei Dance Experience: esperienze che non somigliano a nessun genere conosciuto e spesso non sembrano neanche danza. Quando poi al momento della distruzione segue quello della costruzione, ognuno dei due obbedirà a una diversa necessità interiore. Ōno smette di danzare sette anni, dal 1970 al 1977, quando torna con il suo capolavoro, Ammirando l’Argentina, che lo consegnerà al successo internazionale esportando il butō in tutto il mondo, dove continuerà a danzare ultranovantenne fino ad arrendersi all’incoscienza e spegnersi l’anno scorso a 104 anni. Mentre Hijikata smette di danzare per dedicarsi alla coreografia subito dopo aver portato in scena, nel 1968, un ultimo, furioso assolo che diventa anche il suo manifesto: Nikutai no hanran. Hijikata Tatsumi to nihonjin (La rivolta del-

la carne. Hijikata Tatsumi e i giapponesi). Si prepara raccogliendo immagini di Francis Bacon, Egon Schiele, Hans Bellmer. S’ispira a Eliogabalo – l’imperatore bambino raccontato da Antonin Artaud – depravato campione di crudeltà ma soprattutto «autore della degradazione sistematica di un ordine». Per due ore è vergine sposa in processione e uomo nudo con un enorme fallo dorato in erezione che si lancia contro pannelli di rame sospesi al soffitto, spagnola che danza il flamenco e ragazzina in kimono. Per finire come il Cristo, con un drappo bianco sui fianchi, legato all’estremità di quattro corde tese tra il palco e la balconata della sala mentre si alza sulla testa degli spettatori. Il suo modo per farla finita con l’Occidente. Il “corpo totale” del butō Quando comincia a domandarsi che cosa sia quel suo corpo che rifiuta di muoversi seguendo astratte regole uguali per tutti, Hijikata ritrova gesti e comportamenti vissuti e osservati nel corso della vita che nella danza chiedono di venire nuovamente alla luce. E compie il suo viaggio a ritroso, verso l’originario Tohoku. Perché ognuno è la somma di esperienze che definiscono la personalità e modificano la struttura fisica individuale determinando differenti modalità di movimento. A partire dagli anni ’70, elabora un vero e proprio linguaggio tipico del “corpo giapponese”, memore di contadini curvi sulle risaie con le gambe deformate dal lavoro, volti contratti nelle smorfie del freddo e della fatica, spiriti del vento e animali dispettosi da leggenda. Molti stereotipi del butō nascono qui. Ma l’ankoku butō è solo lo stile di Hijikata, l’espressione del suo “paesaggio interiore”. Ciò che invece ha reso possibile quel risultato è l’idea di un “corpo totale”, scultura modellata dal tempo e magazzino di una memoria dell’universo: l’essenza e il cuore ancora vitale del butō. La morte di Hijikata nel 1986 segna un periodo di crisi profonda. Nello stesso anno a Bagnolet, il “post-butō ” di Saburō Teshigawara vince il premio della critica spostando l’attenzione internazionale su un vivace sviluppo della danza contemporanea. A chi si chiede quale sia oggi la fortuna del butō in Giappone, basti pensare che la ribalta è an-

cora dominata da una generazione di danzatori che ne ha fatto la storia: dai Dairakudakan di Akaji Maro, che quest’anno festeggiano il quarantesimo anniversario dalla fondazione della compagnia; ai Sankai Juku di Ushio Amagatsu, primi ospiti assieme a Ōno Kazuo, del Festival di Nancy del 1980. E poi c’è Akira Kasai. L’allievo di ōno, protagonista dei primi Dance Experience, e autore oggi del più sistematico ed eclettico rinnovamento del linguaggio del butō. Dal suo punto di vista Hijikata ha rivoluzionato il concetto di danza svincolandolo dall’identificazione con il movimento: «La danza non è una forma d’arte fisica. Danzare non vuol dire muovere il corpo, quanto piuttosto mostrare che tipo di consapevolezza spinge il corpo a muoversi». Quanto al suo possibile significato però, il butō va reinventato, perché «negli anni Sessanta esisteva ancora un concetto di nazione che la globalizzazione ha ormai frantumato. (…) All’epoca potevamo mostrare con il nostro corpo l’identità giapponese in contrasto con il volto della nazione, e per questo motivo è nato il butō. Ora è in una condizione completamente diversa e ha differenti significati per esistere rispetto alle origini». Secondo Kasai è necessario che si verifichino tre condizioni, in presenza della quali anche un ballerino classico può essere definito butō : «Un danzatore deve avere gli strumenti per percepire il proprio corpo, perché il butō è il riconoscimento dell’esistenza materiale del corpo. Deve vivere con il mondo contemporaneo, perché il butō si muove con il mondo, non è una nuova tradizione ma è sempre in evoluzione. E la sua danza deve essere criminale, perché il butō è sempre in lotta contro il potere». Quanto alla diffusione del butō oltreoceano è stata accompagnata da una domanda costante sulla legittimità della sua “importazione”, sulla possibilità di considerarlo come un qualsiasi altro genere di danza, anche nell’evidente assenza di uno stile riconoscibile e di una tecnica unica, oppure come il prodotto non riproducibile dell’ambiente culturale in cui è nato. Hijikata Tatsumi, il suo fondatore, ha creduto che fosse possibile far nascere nuovamente e ovunque il butō, a patto di affrontare il mistero del corpo. ★

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Il butō: declinazioni europee Avanguardia estrema, nata sull’asciuttezza terrigna del corpo giapponese, il butō ha messo radici profonde anche in Europa. Le esperienze, tra gli altri, di Carlotta Ikeda, Amagatsu Ushio, Iwana Masaki, Murobushi Kō, Kasai Akira, Alessandro Pintus, Onishi Sayoko. di Elena Cervellati

Onishi Sayoko in Primavera siciliana (foto: G. Bellomare).

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l butō, nato in Giappone alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, giunge in Europa alla fine degli anni Settanta. Nel 1978, infatti, il Festival d’Automne di Parigi accoglie Carlotta Ikeda e Murobushi Kō con L’ultimo Eden e Ashikawa Yoko con Ma. Lo spazio-tempo del Giappone, creato da Tatsumi Hijikata (che, invece, non varcherà mai i confini del proprio Paese). Nel 1980 il Festival di Nancy ospita Ōno Kazuo in Omaggio per Argentina, oltre a Juku Sankai e Tanaka Min. A partire dal proprio dalle prime apparizioni, il lavoro di questi artisti arrivati da lontano suscita nel pubblico europeo un particolare interesse. È soltanto l’inizio di uno dei tanti processi di avvicinamento e di intersezione tra cultura orientale e cultura occidentale che hanno connotato così diffusamente il secondo Novecento, un processo, in questo caso, che tocca e coinvolge intimamente il numero sempre crescente degli spettatori che cercano le occasioni di assistere a creazioni rientranti sotto questa etichetta, ma soprattutto quello degli allievi, danzatori professionisti o amatoriali, che si avvicinano a una pratica percepita come capace di incidere sulla vita stessa delle

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persone, oltre che sull’arte. Avanguardia estrema, che ha voluto fare scandalo e rompere con tante convenzioni della scena e della vita, in oltre cinquant’anni di vita il butō, nato sull’asciuttezza terrigna del corpo giapponese, ha fatto proseliti fuori dai confini insulari in cui era nato e ha messo radici profonde anche in Europa, da cui peraltro i “padri fondatori” avevano attinto importanti riferimenti letterari, come Jean Genet o Lautréamont, e coreutici, come la danza d’espressione dilagata a inizio secolo a partire dalla Germania. Danza della non-forma, fatto dell’esperienza di ogni singolo danzatore, passando da corpo a corpo, da paese a paese, si è diversificato ed è, necessariamente, mutato. Alcuni artisti giapponesi protagonisti del butō della prima ora hanno scelto di lavorare stabilmente in Europa. In particolare, la Francia accoglie da anni Carlotta Ikeda, Amagatsu Ushio, Iwana Masaki. Ikeda, dal 1974 a capo di Ariadone, una compagnia tutta al femminile, e dal 1997 residente a Bordeaux, con il proprio nome, scelto in omaggio a un’icona del balletto romantico ottocentesco come Carlotta Grisi, rappresenta bene la miscela di forze e pro-

venienze che vanno oggi a nutrire il butō, che per lei consiste in una danza fatta di cancellazione di sé ed erotismo asessuato, candore delle carni e abiti che esplodono con la policromia di fiori sontuosi. Amagatsu Ushio, autore di spettacoli in cui l’estrema cura dei dettagli formali porta a quadri estatici quasi patinati, è invece alla guida di Sankai Juku, compagnia maschile che, nata nel 1975, dal 1982 ha trovato nel parigino Théâtre de la Ville il luogo di elezione in cui fare debuttare la maggior parte delle proprie creazioni. In Normandia ha sede invece La Maison du Butoh Blanc di Iwana Masaki, dal 1977 autore di assoli rigorosi e poi austero maestro impegnato in un lavoro sul corpo che cerca di approfondire l’oscurità dell’esistenza. Altri artisti giapponesi, pur non risiedendo stabilmente nel vecchio continente, lo hanno tuttavia attraversato di frequente, lasciando semi fecondi, come Murobushi Kō e Kasai Akira, entrambi danzatori di Hijikata Tatsumi, di cui hanno saputo fare propria e reinterpretare l’essenza in modo del tutto personale e maturo. Presenze stabili o transitorie, questi danzatori-maestri hanno segnato tanti artisti europei che oggi sviluppano il proprio lavoro lungo il solco del butō. Se l’attività di Suzanna Akerlund in Svezia o del gruppo Derevo nell’allora Unione Sovietica ha avuto inizio negli anni Ottanta, oggi la scena si è popolata e non è facile rintracciare le linee portanti di un panorama in pieno fermento, punteggiata da nomi di coreografi che stanno ancora consolidando un’identità artistica ancora fluttuante ma di sicuro interesse, come, in Italia, Silvia Rampelli, Alessandro Pintus, Marie-Therese Sitzia o Onishi Sayoko. Cos’è il butō oggi? Si continua a danzare davvero il butō in Giappone? Si danza il butō in Europa? Non è inutile interrogarsi ancora su cosa sia il butō e su cosa definisca, oggi, questa etichetta critica. La storica della danza Kunioshi Kazuko preferisce parlare dell’esistenza di una “cultura del butō ”, trasversale e particolarmente diffusa, capace di attraversare esperienze anche diverse da quelle appartenenti al canone, e Carlotta Ikeda dichiara con schiettezza: «Pour moi, butô signifie tout simplement danse». ★


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Shinpa e shingeki, le nuove forme teatrali Dopo l’apertura del Giappone all’Occidente, la ricerca di novità investe anche il teatro. Shinpa e shingeki diventano i generi espressivi che meglio interpretano questo rinnovamento. Tra le compagnie ancora attive figurano il Bungakuza di Kubota Mantarō, Iwata Toyoo e Kishida Kunio e lo Haiyuza di Senda Koreya. di Cinzia Coden

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l processo di modernizzazione e occidentalizzazione intrapreso dopo la Restaurazione Meiji (1868) innesca un rinnovamento anche a livello teatrale. Durante questo periodo, il “nuovo teatro” (shin’engeki) comprende i generi del sō shi shibai e dello shinpa che negli ultimi anni del secolo vanno distinguendosi nei filoni attuali dello shingeki e dello shinpa. L’uso corrente del termine shinpa si rintraccia a partire dal 1911 e indica un genere teatrale a se stante, letteralmente una “nuova corrente” di teatro riconducibile a Ii Yōhō (1871-1932) che nel 1912 fissa le basi della sua attività al Teatro Meiji perseguendo il modello del kabuki. L’interesse di Ii Yōhō si focalizza sugli aspetti artistici di un teatro di tipo letterario. Nega la tendenza dei critici di far risalire lo shinpa al sōshi shibai, una forma di teatro strumentale alla diffusione del pensiero liberale di militanti attivi nella lotta per i diritti del popolo, guidati da Sudō Sadanori (1867-1907) che nel 1888 mettono in scena il primo spettacolo a Ōsaka. A questa forma di teatro va ricondotto piuttosto il filone dello shingeki. Infatti tra i fautori del sō shi shibai, Kawakami Otojirō (1864-1911) svolge un ruolo catalizzatore nello sviluppo del teatro giapponese moderno. Pur dovendo attingere alle tecniche recitative del kabuki, unica forma accessibile all’epoca, i suoi dialoghi tendono al linguaggio colloquiale, la narrazione è arricchita da elementi tratti da esperienze reali dirette, persino da reportage di guerra. Dal canto suo, Ii Yōhō - eccetto l’esperienza della compagnia Seibikan finalizzata a ripristinare il ruolo delle attrici sulla scena giapponese e limitata a un unico allestimento nel 1891 - continua a operare alla creazione di una nuova corrente nell’ambito del kabuki, dal 1901, al fianco di Kawai Takeo (1877-1972). Al contrario, il lavoro di Kawakami mira a differenziarsi dal kabuki perseguendo il realismo della scena attraverso dialoghi in cui gli attori recitano dando enfasi alle caratteristiche individuali dei singoli personaggi. Inoltre la sua pratica teatrale mira all’innalzamento del livello artistico senza però perdere di vista il fine di una riforma sociale e politica. Le innovazioni apportate da Kawakami a livello tecnico, dopo i viaggi all’estero compiuti sin dal 1893, trova-

no la concretizzazione definitiva nella costruzione del primo teatro in stile occidentale: il Teatro Imperiale di Ōsaka nel 1910. Kawakami sostituisce gli onnagata, gli interpreti maschili di ruoli femminili nel kabuki e nello shinpa, con sua moglie: l’attrice Sada Yakko (1872-1946). Nel 1908, le affida anche la direzione della prima scuola moderna di recitazione per attrici Teikoku Joyū Yōseijo (Scuola imperiale per attrici). Kawakami porta in scena adattamenti di Shakespeare, Daudet, Goethe e Jules Verne. Il “nuovo teatro” (shin’engeki) di Kawakami si basa su un’amalgama di materiali e stili occidentali e giapponesi, mentre lo shingeki che prende piede negli anni successivi porta avanti l’occidentalizzazione in maniera più diretta, attraverso allestimenti di opere in traduzione. Il termine shingeki viene usato nell’accezione attuale di teatro fondato sul modello occidentale, chiaramente distinto dal kabuki e dallo shinpa, a partire dal 1913, in occasione dell’inaugurazione del Geijutsuza (Teatro d’Arte) fondato da Shimamura Hōgetsu (1871-1918) con l’attrice Matsui Sumako (1886-1919). Nel breve periodo di attività fino al 1918 portano in scena traduzioni di Maeterlinck, Ibsen, Wil-

de e Tolstoj. Il “padre” dello shingeki Osanai Kaoru (18811928) dopo la fase di studio dei drammi di Ibsen, nell’ambito dell’associazione a lui dedicata (1906) prosegue lo sviluppo del genere con il Jiyū gekijō (Teatro Libero) fondato nel 1909 con l’attore di kabuki Ichikawa Sadanji II (1880-1940). Entrambi viaggiano in Europa per acquisire le conoscenze tecniche necessarie a sviluppare stili di recitazione autonomi dal kabuki. In madrepatria Osanai segue le orme dei registi Reinhardt, Gordon Craig e Stanislavskiji. Nel 1924 gli allestimenti allo Tsukiji shōgekijō (Il Piccolo Teatro Tsukiji), finanziato da Hijikata Yoshi, affiancano le opere originali di Osanai ai maggiori drammaturghi occidentali. Tra le compagnie il Bungakuza (Teatro Letterario) di Kubota Mantarō, Iwata Toyoo e Kishida Kunio e lo Haiy ūza (Teatro degli attori) di Senda Koreya, sono tuttora attive. Tra i drammaturghi che hanno contribuito allo differenziazione degli stili sono da ricordare Miyoshi J ūrō, Tanaka Chikao, Katō Michio e Kinoshita Junji. ★

Uno spettacolo della compagnia Bungakuza.

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Gli engekijin di Suzuki Tadashi diario di un'esperienza Suzuki Tadashi, fondatore del metodo che porta il suo nome, ricerca strenuamente la perfezione, senza lasciare nulla al caso. Il suo teatro è fatto di responsabilità, fatica, umiltà. di Gala Follaco

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osa sai di me?». Di lui sapevo che era uno tra i più importanti registi teatrali viventi, che la Cambridge University Press gli aveva dedicato un volume nella prestigiosa collana Directors in Perspective, che aveva inventato un metodo di training che porta il suo nome. Sapevo quello che qualcuno mi aveva

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detto alla notizia che avrebbe preso parte al Napoli Teatro Festival Italia e che sarei stata la sua interprete: «È un genio, sei fortunata». Quando l’ho incontrato all’aeroporto di Fiumicino, il 15 giugno 2009, Suzuki Tadashi non mi ha dato il tempo di pronunciare nessuna delle frasi di circostanza che mi ero mentalmente preparata a scambiare con lui. «Cosa sai di me?» mi ha do-

mandato, e alle mie parole ammirate ha risposto con un’espressione indifferente e col dono di un libro: Culture is the body. «Voglio che tu lo legga durante il viaggio fino a Napoli. Così saprai di cosa starò parlando nelle interviste e negli incontri con il pubblico». Con Suzuki niente è lasciato al caso. Genio, sì, ma anche molto di più. Il suo teatro è fatto di responsabilità, fatica, umiltà. Nel primo giorno dell’allestimento di Electra ci siamo ritrovati in venti sul palcoscenico del Mercadante. Al capo elettricista che chiedeva, per motivi di sicurezza, che scendessero tutti tranne i tecnici, lui rispondeva che nella sua compagnia tutti sono tecnici, anche gli attori. Durante le prove capitava che un interprete venisse sgridato non per la battuta appena pronunciata, ma per aver posizionato male un elemento della scenografia. Pomeriggi interi sono trascorsi con gli elettricisti abbarbicati su scale vertiginose, alla ricerca dell’angolo perfetto per collocare un faro, quello che Chū, come lo chiamano affettuosamente i membri della compagnia, ha ben chiaro nella mente. Non esiste l’infinitamente alto, non esiste l’impossibile. Le luci devono essere impeccabili, corrispondere esattamente alla sua visione. «Che ne pensi?» mi chiese più d’una volta, e io tremavo, mi domandavo cosa gli potesse mai importare di ciò che pensavo. Ma non era quello il punto. Lui voleva che ciascuna delle persone coinvolte fosse consapevole e responsabile; il suo teatro è fatto di corpi, di esseri umani, ognuno dei quali deve partecipare con tutto se stesso. Deve tremare. I membri della compagnia obbedivano agli ordini prontamente, tacevano all’asprezza dei suoi rimproveri, sembravano impauriti, ma non era così. La paura genera immobilità e smarrimento, mentre quelle persone sapevano sempre esattamente cosa fare. Ciascuno andava avanti a schiena dritta, sicuro, nei preparativi come sul palcoscenico. Tutti ben saldi nel loro posto nel mondo, erano engekijin, “uomini di teatro”. Calava il sipario su Electra, e il pubblico che si avviava all’uscita non sapeva che lì dietro gli attori, con ancora indosso i costumi di scena, stavano smantellando la scenografia. Non c’è tempo per la stanchezza né per il divismo, nel teatro di Suzuki. Dopo una settimana di lavoro, con ancora nella testa lo scalpiccio dei piedi proveniente dal Ri-


DOSSIER/teatro giappone tamburi giapponesi

Taiko, il battito del cuore che attraversa tutto il mondo

dotto, adibito a sala prove, ci salutavamo tutti con la sensazione di aver guadagnato un ricordo raro e prezioso. Il coordinatore tecnico del Mercadante, Fulvio Dell’Isola, a nome di tutto il personale regalava al Maestro una maschera di Pulcinella, creazione dell’artista Lello Esposito; commosso, Suzuki ricambiava con una katana. Gli eravamo tutti grati, io ripensavo a quello che mi ero sentita dire: «È un genio, sei fortunata». La fortuna fu doppia, perché Suzuki mi chiese di raggiungerlo a Toga un mese dopo, come interprete per Giorgio Barberio Corsetti, ospite della Scot Summer Season. Il villaggio di Toga, settecento anime in un angolo della prefettura di Toyama, dal 1976 è sede della compagnia, che svolge le sue attività tra gli spazi verdi incontaminati e i cinque teatri che Suzuki vi ha fatto edificare. Lui osservava divertito il mio stupore di fronte a quel luogo isolato, senza illuminazione stradale, senza negozi, pieno di tafani. «È il posto più bello di tutto il Giappone, vedrai» mi diceva ridendo, e io pensavo che scherzasse. Poi giunse il giorno dell’inaugurazione e capii. La gente arrivava da ogni angolo del Paese e oltre, centinaia di auto incolonnate lungo le strade sterrate, i prati immensi pieni di tende da campeggio. Tutta quella gente era animata dall’amore sincero per il teatro, dalla curiosità, dall’entusiasmo, dal religioso rispetto per la fatica degli engekijin. Suzuki Tadashi era riuscito a coinvolgere le persone, a portarle a teatro costringendole a un impegno. Tutti sapevano, tutti erano responsabili, tutti tremavano. E Toga era davvero «il posto più bello di tutto il Giappone». ★

Il taiko, parola composta dagli ideogrammi “grosso” e “tamburo”, usata per indicare tutta la famiglia di membranofoni giapponesi, è la chiave per comprendere non solo un mondo sonoro, ma anche una cultura, un mondo simbolico e sacro, una tradizione complessa. Nella tradizione giapponese il taiko ha un’importanza che va molto al di là della sua natura di strumento musicale: per il materiale stesso di cui è costruito, il legno, partecipa alla sacralità dell’albero da cui deriva, e la sua voce potente e simile al tuono è in grado di raggiungere le divinità. Fin dall’antichità il tamburo è stato il protagonista di cerimonie religiose popolari ed è l’unico strumento che possiamo trovare all’interno dei templi, buddhisti e shintoisti, oltre a essere sempre stato presente nella musica di corte. L’importanza del taiko come strumento magico-religioso è il motivo della sua diffusione nella musica tradizionale, sia popolare che colta, e nella musica teatrale (si pensi al ruolo preponderante che le percussioni svolgono nella musica di scena del teatro nō e del teatro kabuki). Nel secolo scorso il taiko è uscito dalla sua posizione tradizionale di accompagnamento diventando lo strumento principale del suo ensemble. I kumidaiko, ensemble di taiko moderni, si sviluppano come fenomeno post bellico a partire dal 1951 e come manifestazione primaria della cultura neo-tradizionale nel Giappone modernizzato. Nei gruppi di taiko moderni confluisce la musica di varie culture, reinterpretando e dando nuova vita alla musica antica e tradizionale, in un fenomeno di contaminazione culturale positivo e innovativo oltre che di rivitalizzazione delle tradizioni. Il gruppo più famoso è sicuramente i Kodō (parola che gioca sul duplice significato degli ideogrammi “tamburo” e “bambino” omonimi di “battito del cuore”), nato nel 1981, che rappresenta il vertice del taiko drumming. Ma esistono centinaia, a questo punto direi migliaia, di bande di taiko in Giappone oltre che nel resto del mondo. Si tratta infatti ormai di un fenomeno di portata mondiale, che interessa soprattutto gli Stati Uniti e il Canada, ma anche Europa, Australia, Sud America. Suonare il taiko diventa una scelta totalizzante che coinvolge tutti gli aspetti della vita, anche nel quotidiano, e crea un forte senso di coesione e di appartenenza tra i membri del gruppo, che spesso vivono insieme in comunità ricercando una fusione completa di corpo, mente e spirito nell’atto di suonare. Battere il tamburo non è solo un’attività artistica, ma un modo per scavare in fondo a se stessi e raggiungere la propria profondità. Camilla Gennari Feslikenian

In apertura, alcune fasi del training del "Metodo Suzuki"; in questa pagina, suonatori di Taiko (foto: Camilla Gennari Feslikenian).

Suzuki Tadashi nasce a Kiyomizu, prefettura di Shizuoka, il 20 giugno 1939. Esordisce nel teatro nel 1962. Quattro anni dopo fonda, con Becchaku Minoru, Saitō Ikuko, Tsutamori Kōsuke e altri, il Waseda shōgekijō, nei pressi dell’attuale campus dell’Università Waseda. Dopo dieci anni di attività la compagnia si sposta nel villaggio di Toga, prefettura di Toyama, dove dal 1982 si svolge un importante festival. Nel 1984 il nome cambia in Scot (Suzuki Company of Toga). Il metodo di addestramento che porta il suo nome, fondato sulla dimensione fisica dell’attore, è oggi insegnato in molte scuole di teatro in tutto il mondo. Tra i suoi lavori, molti dei quali rivisitazioni di classici occidentali, si ricordano Re Lear, Le Troiane, Madame De Sade e Haishachōya no Kachi kachi yama, che unisce un soggetto di Dazai Osamu a I Bassifondi di Maksim Gor’kij. Tra il 1995 e il 2007 è stato direttore artistico dello Shizuoka Performing Arts Center. È inoltre membro della commissione internazionale delle Olimpiadi del Teatro ed è stato tra i fondatori del BeSeTo Festival, che raccoglie artisti provenienti da Cina, Corea del Sud e Giappone. È presidente della Japan Performing Arts Foundation. Tra i suoi numerosi scritti dedicati al teatro si segnalano, in particolare, The way of acting (Tcg, 1990, traduzione di J.T. Rimer) e Culture is the body (SCOT, 2008). Suzuki Tadashi è stato nel nostro Paese per l’ultima volta nel 2009 in occasione del Napoli Teatro Festival Italia, dove ha presentato la produzione Waiting for Orestes: Electra.

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Una sottile geometria di luce la composizione coreografica di Teshigawara Il lavoro di Teshigawara Saburō, il più importante danzatore contemporaneo giapponese, è un’interrogazione rivolta allo sguardo. Per lui coreografare significa dare forma allo spazio che si disegna nella periferia dei corpi. di Enrico Pitozzi

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produzioni, è la sottile linea che porta l’invisibile a materializzarsi nello spazio della scena. Siamo in presenza di un processo – quasi un negativo fotografico – di totale inversione della prospettiva dalla quale guardare: coreografare, per Teshigawara, significa – prima ancora che scrivere i corpi – dare forma allo spazio che si disegna nella loro periferia. In lavori come Light Behind Light (2000) – che ha rivelato il coreografo al pubblico europeo – fino al recente Eclipse (2011) passando per Absolute zero (2005), Miroku (2007) o Obsession (2009) – si dispiega un processo compositivo che richiede uno “sguardo radiografico” in cui il senso della composizione comincia al di là di ciò che di essa è visibile. Non si tratta di un “al di là” consegnato alla metafisica del nascondimento; quanto, piuttosto, di una prossimità, di

un “a fianco” capace di dare consistenza all’aria attraverso il cambio dell’andatura del tempo: è un rallentamento del gesto o, viceversa, una sua accelerazione a svelare il volume dell’aria, a dare a vedere lo spazio che circonda e si interpone tra i corpi. Attraverso questa precisa calligrafia del gesto, ogni cosa che cade sotto la nostra percezione – sembra indicarci Teshigawara – non è che un invito a percepire oltre: in altri termini, ciò che fa la realtà della cosa è ciò che la sottrae al nostro possesso. Solo così possiamo comprendere come la composizione coreografica non sta tanto nella forma del corpo ma, per così dire, nel negativo di quella forma, cioè nello spazio immateriale che esso disegna; è là che risiede la sua reale fisicità: in una traiettoria incisa nella densità dell’aria, nel volume in cui la vibrazione del

Eclipse (foto: Marco Caselli Nirmal).

edele a una linea di composizione radicale che ne fa una delle figure più interessanti del panorama coreografico internazionale – fin dagli esordi a Tokyo nel 1985 quando fonda, con la danzatrice Miyata Kei, la compagnia Karas – Teshigawara Saburō interroga radicalmente le logiche di composizione del movimento. Lo fa intervenendo sulle qualità sottili della materia, su tutto ciò che è impalpabile; inafferrabile come l’ombra, per esempio, o il riverbero della luce: strategie per rendere “sensibile” l’invisibile. Danser l’invisible, non a caso, è il titolo del film documentario che Elisabeth Coronel ha dedicato nel 2005 all’immaginario del coreografo. Avvicinare il lavoro di Teshigawara significa, dunque, fare i conti con un’interrogazione rivolta allo sguardo. A essere in gioco, nelle sue

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corpo si deposita. Teshigawara dà, così, a vedere l’ombra del corpo come materia appesa al tempo, metamorfosi di un gesto nella rifrazione della luce. L’immagine – quest’immagine vibrante del corpo – è qualcosa che abita l’occhio che osserva, che si imprime sulla retina: equilibrio, forma, spazio, geometria, tutta una “cinetica” dei fantasmi si dispiega in scena. Quando il corpo “manca” Guardando al movimento, Teshigawara non disegna linee con il corpo; la linea – sospesa e fluida come a disegnare una continuità là dove il corpo si arresta – è il suo corpo stesso, o il corpo di Soto Rihoko, insostituibile partner che lo accompagna nei “passi a due” come in Absolute Zero e Eclipse. La qualità principale del gesto sembra così organizzata intorno a un pensiero del corpo che procede per stratificazioni temporali: staccare il busto dal bacino, come in torsione sul proprio asse, oscillando sul centro di gravità attribuendo così a ogni diversa parte del corpo un tempo autonomo, una traiettoria differente. È qui, in questa precisa logica compositiva, che si inscrive l’intervento cromatico giocato tra oscurità e luce, qualità che segna fortemente lavori come Light Behind Light, Miroku ed Eclipse. La saldatura tra questi due aspetti rivela, quasi in filigrana, un elemento decisivo della composizione del gesto: la logica del dettaglio. A ben vedere – nei lavori citati – manca sempre, all’occhio dello spettatore, una presa totale sul corpo, una comprensione logica, definitiva, unitaria. Il corpo dei danzatori – che si tratti dei solo come Miroku o dei “passi a due” come in Absolute Zero e Eclipse – non smette di “scomparire”, di sottrarsi, optando per un’epifania fatta di traiettorie che solcano lo spazio. Tale processo è ottenuto in scena operando a partire da due direzioni complementari: intervenendo, da un lato, sulla luce come strumenti in grado di sezionare i corpi; dall’altro operando sul ritmo attraverso l’accelerazione o, viceversa, il rallentamento del movimento. Accelerare o rallentare il gesto, sezionandolo

con la luce – come in alcuni passaggi di Light Behind Light o Eclipse – significa consegnare alla retina dello spettatore un corpo disarticolato fatto da una successione di dettagli, impressioni vibranti del movimento, traccia sospesa della sua anatomia. Qui il corpo cessa di essere un’entità simbolica e diventa un’entità fisica dai particolari infiniti: pura estensione. Come se il corpo fosse esposto a una lente di ingrandimento che, di volta in volta, ne mette in rilievo singole qualità ritmiche. È qui che la coreografia si fa destabilizzazione misurata di tutto ciò che “persiste”, muovendosi nel solco dell’estetica dell’impermanenza (mujō) cara al pensiero giapponese. La logica del colore All’interno di questa struttura – in particolare per lavori come Light Behind Ligth o Miroku, oltre che in Eclipse – le composizioni cromatiche sono essenziali al fine di portare il movimento in primo piano. Le geometrie di luce materializzano lo spazio: danno volume alla scena così come il contrappunto sonoro ne sostiene la temperatura. In Light Behind Ligth, per esempio, Teshigawara compie un viaggio diagonale da una delle estremità del palco verso il centro. Si tratta di una traiettoria lenta, fatta di sospensioni e riprese in dialogo con una figura femminile che si materializza, per scomparire subito dopo, al centro della scena. È qui che assistiamo a un “passo a due” fatto di corpi che si liberano attraverso il disegno di linee che si intersecano senza mai toccarsi, fino al finale in cui il corpo femminile diventa fosforescente, sottraendosi alla vista per eccesso di esposizione luminosa. La luce – vera e propria logica del colore – definisce uno spazio “transitorio” che muta continuamente, isola il corpo, permette al movimento di emergere per attraversare lo spazio e, a intermittenza, imprimersi sulla retina dello spettatore attraverso una serie di palpitazioni. In Eclipse invece, questo processo è riassunto in una sequenza che ha il valore di un’epifania: un cono di luce bagna il corpo del performer lasciando in ombra lo spazio che lo av-

volge. La qualità del movimento, capace di passare dall’estrema lentezza del gesto a una sua repentina accelerazione, produce l’illusione ottica secondo la quale il corpo stesso si muove – entra in ombra in alcune sue parti per poi ricomparire – all’interno di due pareti d’aria. È qui, in questo processo di variazione continua, che ogni movimento, anche il più impercettibile, diventa visibile. Qui, il movimento “fonda” lo spazio. La densità dell’aria e le forme del tempo La composizione del movimento insieme alla poetica della luce – si diceva – invertono l’ottica percettiva a favore di uno sguardo negativo che rende “visibile” la densità dell’aria. Nelle composizioni di Teshigawara, lo spazio della scena sembra elastico, si contrae e si assorbe o, viceversa, si dilata a seconda dello spostamento del corpo, disegnando nello spazio la sua traiettoria invisibile, la sua architettura: l’aria è materia solida all’interno della quale il movimento e, dunque, la presenza del corpo, si inscrive come una traccia. Il movimento fende l’aria, ne tocca ogni singola particella: toccare non solo il cambiamento di consistenza della materia, ma gli stati di variazione interna, la temperatura dell’aria, il suo grado d’umidità. È qui che la composizione di Teshigawara per la partitura in “solo” di Miroku o nel duo di Eclipse si fa coreografia della materia e il movimento è considerato alla stregua di un vapore che si leva dal suolo secondo diverse densità: il corpo del performer è “dentro” il corpo dell’aria, lo abita. Ogni variazione d’equilibrio nella composizione del movimento, anche impercettibile, rende manifesta questa relazione. Modellare la velocità e l’ampiezza del movimento a contatto con la luce significa rendere lo spazio e il tempo visibili così come avviene, tra l’altro, anche nell’installazione Fragments of time del 2008. Il tempo prende forma, appare nel campo del visibile attraverso la traccia del gesto che si fa vibrazione nell’immagine: stato transitorio ed effimero che consegna la sua impressione luminosa alla placca fotosensibile del cervello dello spettatore. ★

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Dream Regime, dei Gekidan Kaitaisha (foto: Miyauchi Katsu).

Scena contemporanea giapponese il corpo tecnologico e la scena urbana Teatro e danza contemporanei: il gioco tra corpo e parola dal caleidoscopio multimediale all’intreccio fra le discipline. Le sperimentazioni, tra gli altri, di Dumb Type, Chelfitsch, Ishinha, Hirata Oriza, Gekidan Kaitaisha. di Katja Centonze

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a scena performativa del Giappone, territorio dove la tecnologia avanzata e la società sono intrecciati indissolubilmente, è contrassegnata da un trasversale articolarsi di ibridazione e contaminazione. I confini dei settori e delle produzioni sono sempre meno definibili per la loro essenza di mescolanza fra le arti, le tecniche, fra tradizione e contemporaneità, per il loro carattere di intermedialità manifestata attraverso l’uso di nuove tecnologie, che oggi sono integrate profondamente nelle performance. In tal senso il collettivo multimediale Dumb Type costituisce fin dagli anni ’80 un esempio di spicco sulla scena internazionale. Numerose compagnie teatrali si distinguono per la ricerca di originali linguaggi performativi che puntano prevalentemente sulla gestione

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del corpo e le sue nuove estetiche. Miura Daisuke, che dirige la compagnia Potsudo-ru, abiura quasi lo script teatrale a favore di una scena che mette a nudo la trivialità della pop-culture giapponese e il corpo nella sua sonorità urbana, puntando la lente sull’industria del sesso, la cultura televisiva, il quotidiano intimo dell’ambiente giovanile. In Yume no shiro (Castello di sogni, 2006) un gruppo di ragazzi, radunati in una stanza piena di cianfrusaglie e cibo junk, agisce sulla scena avendo dei veri rapporti sessuali, mangiando, guardando la tv, giocando ai videogiochi senza quasi interloquire. Ispirato dal mondo dei serial televisivi, il teatro realizzato da Miura vuole essere una forma di documentario lontano dalla finzione, che lo spettatore può seguire come se fosse testimone di accadimenti non allusivi.

Anche Okada Toshiki apre uno squarcio sulla nuova generazione giapponese cogliendone i tipici atteggiamenti nel suo teatro “coreografato”, dove il meccanismo corporeo, scisso completamente da una semantica peculiare, si impone con enfasi e compulsività. Dal 1997 il suo gruppo, Chelfitsch, configura situazioni di quotidianità estratta dalla subcultura metropolitana, in cui gli attanti, per lo più giovani non professionisti, si avvalgono di un linguaggio disarticolato e frammentario. La parola del supercolloquiale è accompagnata da una ipertrofia del movimento che si pone in dissonanza con il cadenzare del testo, come a distrarre l’attore dalla parola oberandolo di un peso motorio. In Sangatsu no itsukakan (Cinque giorni a marzo, 2004) due sconosciuti si ritirano per cinque giorni in un love hotel di Shibuya, mentre fuori sono in


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corso le manifestazioni contro la guerra in Iraq. Okada, attratto dalla profondità che soggiace all’oralità del giapponese medio, esprime così il suo sentimento anti-bellico. L’ultima creazione Kaden no yō ni wakariaenai (Impossibile capirti, è quasi come con un elettrodomestico), in collaborazione con il danzatore Moriyama Kaiji, ha debuttato durante il Festival Tōkyō (F/T) 2011. L’attore robot conquista la scena La sfida alla dinamica usuale del teatro lanciata da Hirata supera, in collaborazione con l’ingegnere animatronico Ishiguro Hiyoshi, la barriera del corpo umano ricorrendo a collaboratori meccanici. Hirata disegna delle drammaturgie quiete e icastiche di vita quotidiana con un contrappunto tecnologico. In Hataraku watashi (Io, lavoratore, 2008) appaiono sulla sua scena i robot Momoko e Takeo, che vivono con la coppia Mayama. Il paradosso emerge nel caso di Takeo, il quale, soffrendo di depressione, perde la sua ragione d’essere che è il lavoro, tema su cui quest’opera si interroga. In contrasto, la versione robotica di Mori no oku (Nel cuore della foresta, 2010), ambientata nel Congo postcoloniale, indirizza il discorso sui primati e sulla differenza tra scimmia e uomo. In Sayonara, apoteosi del teatro androide-umano, presentato al F/T ’10, compare l’avvenente e giovane androide Geminoid F, ultima creatura di Ishiguro, che dialoga con l’attrice Bryerly Long in uno scambio poetico e intellettuale intorno ai sentimenti e alla solitudine. L’intento di Hirata è di riconfigurare dinanzi al pubblico il valore riguardo all’uomo e ai robot. Cosa vuol dire? La tendenza a creare una scena in cui figurano dei dispositivi robotici si presenta anche nell’opera Le petit Ballet des Rolly (2008) diretta dal rinomato musicista Ōno Seigen, dove dei riproduttori musicali a forma di uovo inscenano suono, danza classica e luce. Anche in questo caso si profila il tentativo di far avvicinare i robot alla sfera emozionale del pubblico, modificandone la ricezione e percezione. Fin dagli anni ’80 anche Ameya Norimizu si è dedicato alla ricerca sugli apparati meccanici e il corpo umano producendo elaborazioni sceniche cyberpunk con gli allora MMM. La sua attività spazia dalla gestione del suono per il teatro di Kara Jūrō a quella di gestore di un negozio di animali rari, occupandosi anche delle possibilità di incrocio fra specie, discusse in sue pubblicazioni. La sperimentazione sul corpo realizza-

ta da questo artista si dispiega su vari livelli, ponendo in questione con una disarmante chiarezza il concetto di credibilità e veridicità del reale, come quando espone del sangue infetto dal Hiv con l’avviso che il contagio non avviene per via aerea. Nel 1995 collabora con i Technocrat esponendo Public Semen, che pone al centro della riflessione il tema dell’inseminazione artificiale. Il performer, che si era anche sottoposto a una trasfusione di sangue prima di una esibizione, rischia in primo piano. In Vanishing Point si chiude per 24 giorni in un cubo con uno spazio minimo per l’aria e una ridottissima razione di liquidi. L’unica forma di comunicazione con l’esterno è il bussare dei visitatori sul cubo. Al F/T ‘09 ha presentato 4.48 Psychosis, e Jimen (Suolo) al F/T ‘11 con Romeo Castellucci. Il corpo politico della performance Una riconfigurazione della corporalità performativa in termini politico-teatrali emerge con evidenza nei lavori dei Gekidan Kaitaisha diretti da Shimizu Shinjin, il quale è fortemente ispirato dalla concezione corporale avanzata da Hijikata Tatsumi. In un sapiente intreccio di testo, scrittura proiettata, video e ricerca del movimento estremo, l’atto performativo realizzato da questo gruppo si manifesta sulla soglia critica dell’attorialità ridotta a un corpo critico inserito nel presente storico. Scene vibranti di rara intensità e perspicacia compositiva si materializzano davanti a un pubblico che difficilmente rimane indifferente alle problematiche esposte. Il progetto Dream Regime presentato nel 2011 si muove su un piano di collaborazione internazionale valicando i limiti della retorica nativista. Nella medesima direzione, Kawamura Takeshi muove, con il suo gruppo T-Factory (ex Daisan Erotica), provocatorie critiche alla società contemporanea giapponese immersa in uno stato di euforia pseudo-utopistica. Kawamura articola un’analisi dello spazio distopico della bubble economy e contrasta con le sue creazioni la tendenza ludica del teatro fiorito in quel periodo. Tra le sue produzioni ricordiamo Nippon Wars (1984), Tokyo Trauma (1995), incentrata sull’attacco al gas nervino, e, sul terremoto di Kobe, Hamletclone (2000). Dopo Freaks/Pasolini/Show (2002), nel 2011 mette in scena con Tetsuka Tō ru e il danzatore Itō Kim Butagoya (Porcile) di Pier Paolo Pasolini al Za-Koenji Public Theatre. L’intreccio fra tradizione e contemporaneità è

ravvisabile nel gruppo Ami, diretto da Okamura Yōjirō, il quale traduce la pratica del nō nella forma del teatro contemporaneo. Le creazioni di Okamura, allievo di Kanze Hideo, riformulano la gestione del corpo pertinente alla tradizione spostando la drammaturgia verso complesse tematiche sociali di attualità. Akuta Masahiko, esponente dell’angura, cuore della rivoluzione scenica degli anni ’60-‘70 avanzata da figure come Kara Jūrō, Terayama Shūji e Satō Makoto, ritorna nel 2011 sulla scena con Artaud 24jikan (Artaud 24 ore) prodotto con Yūki Isshi del Edo Ayatsuri Ningyō-za. In una sinfonica interazione tra butō, teatro delle marionette rivisitato in chiave alquanto sorprendente, videoart, testo recitato e improvvise apparizioni di personaggi, come un Derrida impersonato dallo studioso Otori Hidenaga, il mito di Artaud vibra tra la scena della controcultura, toccando temi come il recente triplo disastro dell’11 marzo scorso. È di scena Fukushima La profonda scossa subita dopo l’11 marzo ha implicato ovviamente un melt-through nella scena della performance che in gran parte è orientata verso tematiche e questioni riguardanti il post-tsunami, e la non risolta problematica del nucleare. Le azioni pubbliche dei Chim ↑Pom creano un forte clamore nei media come quando a maggio, nella stazione di Shibuya, aggiungono una parte posticcia con disegnati i reattori di Fukushima al murale di Okamoto Tarō, Myth of Tomorrow, dipinto in memoria di Hiroshima e Nagasaki. Durante la mostra Real Times, il gruppo di giovani artisti espone diversi filmati e gli oggetti raccolti durante il loro periodo di volontariato a Sōma (Fukushima), come alcuni fiori arrangiati poi in una composizione. La zona stravolta dall’onda anomala, in cui l’assetto surreale supera la fantasia, viene mostrata così come è. Tipico dei Chim↑Pom sono le performance ardite tra cui l’impresa di passeggiare per 40 minuti proprio nella zona della centrale indossando tute hazmat. Mentre alle loro spalle appare il reattore fumante, i ragazzi issano una bandiera bianca, su cui prima spruzzano il sole rosso, vessillo del Giappone, poi aggiungono tre trapezi, anziché raggi, che indicherebbero il paese in guerra, formando il simbolo della radioattività. Anche Referendum Project, presentata al F/T ’11 da Takayama Akira, direttore di Port B, si ar-

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ticola come indagine sul nucleare tenuta tra i partecipanti in un interazione tra web e percorsi deambulatori. I progetti dei Port B sono inseriti nel contesto urbano. Lo spettatore diviene attante e partecipa in prima persona alle “tour performance” dove, seguendo delle tappe, entra a contatto diretto con delle realtà storiche, urbane, sociali e culturali meno note della città, interagendo con esse. Tokyo/Olympics (2007), con la drammaturgia di Hayashi Tatsuki, è un viaggio con lo Hato Bus attraverso i siti costruiti in occasione delle Olimpiadi del ’64 fino ad Akihabara, mecca della subcultura. In Sunshine 62 (F/T ’08) i partecipanti radunati in gruppi seguono un itinerario sulla mappa intorno al Sunshine 60, l’allora sito della prigione di Sugamo dove erano stati giustiziati i criminali di guerra. Allo stesso modo, il regista polivalente Miyazawa Akio ha presentato all’ultimo F/T Total Living 1986-2011 (2011), che affronta criticamente la vita quotidiana distorta nell’era dell’emergenza nucleare di Fukushima in connessione al precedente storico di Cernobyl. Il lavoro di Miyazawa con la sua compagnia U-enchi Saisei Jigyōdan, fondata nel ’90, punta sulla ricerca sulla parola e sul corpo. Per quanto riguarda le messinscene all’aperto uno stupefacente esempio è il gruppo Ishinha di Matsumoto Yūkichi, che dà vita a costruzioni scenografie strabilianti su larga scala integrando configurazioni corporali innaturali pensate per l’individualità degli attori, con musicalità originali del dialetto del Kansai, da cui la definizione di Jan-Jan Opera. Le sue temporanee strutture teatrali sono site-specific. Con Landscape Tokyo-Ikebukuro Matsumoto si ripresenta al F/T ’11. Se nel teatro vediamo un forte accento posto sul movimento e la dinamica corporale, la danza contemporanea ricorre visibilmente a strategie di teatralità. Gruppi come gli Idevian Crew, Pappa Tarahumara, Ōhashi Kakuya and Dancers, Baby-Q, Image Opera, Nibroll, Yubiwa Hotel, Leni Basso e Condors, oltre a condurre una ricerca di coreografie sperimentali e di uno stile coreutico peculiare, fanno trasparire il gioco tra corpo e parola dal caleidoscopio multimediale e intreccio fra le discipline. ★

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seinendan theater company

Dal teatro colloquiale agli androidi gentili la scena sperimentale di Hirata Oriza Nato a Tokyo nel 1962 in una famiglia di artisti, Hirata Oriza scrive il primo testo a diciotto anni, ispirandosi al suo viaggio in bicicletta intorno al mondo compiuto due anni prima. Durante l’Università forma una compagnia teatrale che oggi conta circa trent’anni di storia: la Seinendan Theater Company. A partire dagli anni Novanta, il drammaturgo, regista e teorico avvia un percorso di ricerca teatrale che lo condurrà allo sviluppo della “teoria del teatro colloquiale contemporaneo”. L’obiettivo è di liberare il moderno teatro giapponese dalle strutture drammaturgiche e dalle metodologie recitative occidentali, a vantaggio di una nuova teatralità che esprima la mentalità contemporanea giapponese. Durante un’intervista, rilasciata lo scorso luglio al Festival di Santarcangelo di Romagna, dove era ospite con Tokyo Notes e The Yalta Conference, il regista ha dichiarato: «Il popolo giapponese non è abituato al dialogo, al confronto (…) il teatro contemporaneo è, invece, basato sulla discussione pubblica. Ho dovuto cercare un’ambientazione dove necessariamente avvenissero delle discussioni, uno scontro tra opinioni diverse». Esempio ne è appunto Tokyo Notes. Ambientato nel bookshop di una galleria d’arte, è costruito sulla sovrapposizione di tante conversazioni, che si accavallano l’un l’altra, simulando voci della vita reale. Il regista è attualmente impegnato anche nel progetto Human-Android Theater che coinvolge il laboratorio di robotica dell’università di Osaka. Con questa ricerca ha partecipato al XII congresso internazionale della Italian Association for Artificial Intelligence (Palermo 2011), dove ha diretto Sayonara, una pièce di circa venti minuti che racconta la storia di una ragazza gravemente malata e abbandonata dai genitori (interpretata dall’attrice americana Bryerly Long). A confortarla, recitando delle poesie, è Geminoid F, un androide con l’aspetto di una giovane giapponese. Hirata si chiede: «una regia può far credere che un robot abbia un’anima o che un determinato attore sia davvero cattivo?»; domanda che per adesso Hirata lascia in sospeso anche se sembra assegnare alla regia un ruolo preminente. Dal 1984, è direttore artistico del Komaba Agora Theater, un piccolo teatro di Tokyo, in cui prepara i suoi workshop e li adatta ai paesi che li ospitano di volta in volta. I suoi laboratori, infatti, hanno riscosso successi anche in Francia, Belgio, UK, USA, Corea e Australia. Cinzia Toscano

Una scena di Tokio Notes (foto: Claire Pasquier).


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La voce come teatro: l'arte della narrazione giapponese In Giappone la parola recitata da un artista veicola emozioni e informazioni anche senza l’apporto di elaborati attrezzi di scena. Un teatro di narrazione che dal X secolo arriva fino ai giorni nostri. di Matilde Mastrangelo

L'interno di uno yose (foto: Matilde Mastrangelo).

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ecarsi a teatro per il gusto di sentire raccontare una storia, nuova o anche già conosciuta, apprezzarne la recitazione e l’efficacia comunicativa e d’intrattenimento: questo il perno del teatro di narrazione giapponese. L’ampio spettro di rappresentazioni basate essenzialmente sulle capacità retoriche di un artista che da solo cattura il pubblico va sotto la categoria di wagei (arti del discorso o della parola). Teatro di narrazione è una definizione di uso più recente, e rende bene l’idea di una forma teatrale che si completa con pochi ma fondamentali elementi. La convinzione che la parola recitata da un artista veicoli emozioni e informazioni, anche senza l’apporto di elaborati attrezzi di scena, sottende per intero l’evoluzione dei wagei. L’origine comune ai diversi generi dei wagei è quella dei sermoni buddhisti testimoniati fin dal X secolo. Le declamazioni si sono poi sviluppate seguendo due linee principali: quella dell’intrattenimento didascalico e moralistico, e quella umoristica. I generi che si sono formati per entrambi i filoni sono numerosi, e tra questi il kō dan per il primo e il rakugo per il secondo, sono le due tipologie teatrali che hanno conosciuto un maggiore sviluppo, popolarità ininterrotta fino a oggi, cospicua for-

mazione di scuole e artisti. Kō dan (nel termine antico kō shaku) vuol dire “lettura e spiegazione di un testo scritto” perché tradizionalmente l’artista aveva davanti a sé un testo che leggeva e commentava. Rakugo (o più anticamente otoshibanashi), “parole scivolate, srotolate”, è una narrazione che termina quasi sempre con una battuta finale (ochi), basata spesso su un gioco di parole, che può non avere alcuna relazione con la trama. Le tematiche dei due repertori sono diverse: se il kō dan si ispira alla storia, con precisi riferimenti a personaggi storici, eroici ed esemplari descritti nel rispetto del loro ruolo gerarchico, il rakugo rappresenta maggiormente tipi e maschere umane livellandoli attraverso l’ironia. Molti sono però anche i punti in comune, soprattutto in relazione alle tecniche della performance e della trasmissione. Le rappresentazioni si svolgono, oggi come un tempo, in teatri di piccole dimensioni detti yose. Una musica composta da shamisen, flauti e tamburi, chiamata debayashi, introduce l’ingresso del declamatore sul palco. L’artista si siede in maniera formale su un cuscino, sistema accanto a sé un ventaglio chiuso e si inchina al pubblico. Nel caso del kō dan, davanti al declamatore è posizionata una piccola scrivania sulla quale bat-

te un ventaglio chiuso (hariō gi) e un bastoncino di legno (hyōshigi) per evidenziare il tempo della narrazione e richiamare l’attenzione degli spettatori. Il declamatore, unico interprete della storia, recita tutti i ruoli grazie ad alcune modalità convenzionali. La prima utilizza la ricchezza della lingua giapponese che rende possibile differenziare posizione, ruoli sociali e genere dei partecipanti a un dialogo; il timbro vocale ha delle piccole variazioni, diventando più alto per i personaggi femminili e per i bambini. La seconda tecnica è il kamishimohō (sistema dell’alto e del basso) che prevede una rotazione del collo verso sinistra e lo sguardo rivolto in alto per indicare che il protagonista sta parlando con qualcuno di livello, grado o età superiore, e la testa rivolta verso destra in basso se l’interlocutore è inferiore. Oltre al ventaglio, il narratore porta con sé un tenugui, una striscia di stoffa piegata in forma rettangolare, funzionali entrambi a mimare degli oggetti: il ventaglio diventa nella storia una pipa, un pennello, una spada o le bacchette per mangiare, oppure un vassoio o una scodella; il tenugui può essere un libro, una lettera o un portafoglio. Gli yose erano di dimensioni ridotte e permettevano all’artista di avere gli ascoltatori a portata di vista per osservarne le reazioni, in base alle quali era in grado di prevedere anche repentini cambiamenti di scaletta. La performance di ogni interprete poteva durare trenta minuti o più, e poteva essere suddivisa in giorni consecutivi, lasciando la giusta suspence per la “puntata” seguente. Oggigiorno la maggior parte degli yose ha le dimensioni di un normale teatro, i tempi delle performance non vanno oltre i venti minuti, e solo raramente le declamazioni vengono divise in più giorni. Centrale rimane la gerarchia artistica, che va dal minarai/zenza (apprendista) al futatsume (secondo) per finire allo shin’uchi (l’artista completo), secondo l’ordine con il quale entrano in scena. Imprescindibile è il principio secondo il quale una buona capacità retorica è legata all’ascolto attento e ripetuto sia del maestro, sia dei senpai (superiore, in senso gerarchico), sia del pubblico. Numerosi i repertori degli ultimi venti anni in cui i testi, soprattutto nel caso del rakugo, sono stati tradotti in lingue occidentali e presentati in tutto il mondo. ★

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Pasolini in Giappone miti antichi per parabole contemporanee di Doi Hideyuki

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er inquadrare il rapporto dialettico tra Pasolini e la cultura giapponese sarebbe opportuno partire dalla presenza di teatro e musica del Giappone antico nel suo cinema, dove il particolare uso della banda sonora fa sì che la musica non accompagni semplicemente l’immagine, ma vada piuttosto a tessere una trama autonoma di mitografia “astorica e atemporale”. Allo scopo di ottenere una dispersione del cronotopo nella narrazione cinematografica, Pasolini si avvaleva, oltre che di ambientazioni e scenografie esotiche, anche della musica etnica, dando così origine a una commistione tra sonorità di molteplici provenienze. Un caso famoso è quello della musica giapponese antica: in Edipo re (1967) troviamo «l’antico pezzo giapponese collegato all’Oracolo», ovvero una «musica ancestrale, privata, confessionale, […] decadente». La musica giapponese ha inoltre funzione di «rievocazione del primitivo, delle proprie origini» (dall’intervista del 1969 per Pasolini su Pasolini). Come esempio di “tema del destino”, le ben sette scene in cui si svolge una trasposizione locale e temporale o la situazione del protagonista subisce un drasti-

co mutamento, sono commentate da due pezzi del tipo hashirimai – “danze veloci” – appartenenti al genere bugaku (IX secolo). La suite s’intitola Ryo’o (un re cinese “dal bel volto” del VI secolo), citato dalla collana Unesco Collection. A Musical Anthology of the Orient Records, proprietà di Elsa Morante. Per quanto riguarda le musiche etniche in Medea (1970), un articolo dell’etnomusicologo Koizumi Fumio (Asahi-shinbun, 8 maggio 1970) propone un’analisi applicata alle contaminazioni musicali originarie di vari paesi (da Algeria e Iran, fino a India e Tibet) nei commenti sonori. Tra i brani presi in esame troviamo quelli eseguiti con la cetra giapponese sō dai titoli Yaegoromo (La veste ad otto strati) e Yuya, e quello cantato, Yuki (Neve). Questi pezzi, spesso cantati da Orfeo nel film, hanno stili che risalgono al XVI-XVII secolo, mentre i loro testi sono molto più antichi. Grazie al successo, sia di pubblico che di critica, che ottengono Edipo re e Medea tra il 1969 e il 1970, il cinema di Pasolini richiama interesse anche tra alcune personalità teatrali. Il drammaturgo Jyūrō Kara, alla guida della compagnia Jyōkyō Gekijyō (Teatro Situazionista) attiva nel-

la Tōkyō underground, prende spunto dalla poetica “misteriosa e profonda” dello yū gen nel teatro nō, cui si fa riferimento nella recensione di Edipo re. Il contributo critico più interessante si riscontra nel manuale di Shōzō Masuda, L’espressione del nō : l’estetica del paradosso (1971), che paragona la rilettura pasoliniana della Medea di Euripide alla trasposizione di Zeami dell’antico racconto Aya no tsuzumi (Il tamburo di damasco) nel suo dramma Koi no omoni (Il pesante fardello dell’amore). Da più di quarant’anni la ricezione del cinema e della letteratura di Pasolini risulta consolidata. Al contrario, il teatro pasoliniano è rimasto avvolto da un lungo silenzio, che ha iniziato a sciogliersi solo di recente. L’unico fautore, al momento, del teatro pasoliniano in Giappone, Kawamura Takeshi (Tōkyō 1959), noto sin dagli anni Ottanta insieme alla sua storica compagnia Daisan Erochika (Terza Erotica), mette in scena Orgia (1966-70) nel febbraio 2003 al Setagaya Public Theatre di Tōkyō. Ancora a Tōkyō nel maggio 2011, a due mesi dal terremoto dell’11 marzo, viene presentato Porcile (1967-72) dalla compagnia di Kawamura, T Factory, ripercorre la storia di Julian, giovane contestatore borghese tanto avverso all’ipocrisia della sua classe quanto ambiguo. Leggiamo nell’introduzione del regista le chiare precisazioni sull’opera: «una pièce di Pasolini autore ormai dimenticato» o «una versione indipendente da quella cinematografica». Ma questa versione in giapponese presenta anche una lettura sul Giappone contemporaneo colpito dal recente cataclisma; le prove erano già in corso prima del terremoto, ma l’opera ha subito una doverosa modifica nel finale. La scenografia, per tutto il tempo completamente bianca, si srotola alla fine in un gigantesco collage di giornali che gridano ossessivamente gli slogan lanciati dal governo: una feroce ironia sulla macchina dell’auto-censura scattata subito dopo il disastro, e al contempo la negazione della possibilità di esprimere una parola funzionale e valida di fronte all’evento apocalittico. La parabola pasoliniana sulla società di oggi diventa così uno dei primi messaggi su un Giappone tragicamente costretto alla trasformazione. ★ Maria Callas e Pier Paolo Pasolini durante le riprese del film Medea.

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Mishima e le cinque volte di Madame de Sade Della prolifica produzione teatrale di Mishima Yukio solo quest’opera ha avuto una certa fortuna scenica in Italia. Gli allestimenti di Tito Piscicelli, Ferdinando Bruni, Andrea Adriatico, Piero Ferrarini e Massimo Castri. di Giuseppe Liotta

Madame de Sade, regia di Massimo Castri (foto: Marcello Norberth).

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elle sessantuno opere teatrali di Mishima Yukio, tra cui sei kabuki e nove nō, due sono di ambientazione europea: Madame de Sade e Il mio amico Hitler; e, di queste due, solo la prima ha avuto una qualche fortuna scenica in Italia, probabilmente grazie alla edizione che nel 1989 ne fece Ingmar Bergman per il Teatro Reale di Stoccolma, a cui fece seguito una importante e acclamatissima tournée europea, con una breve tappa anche in Italia al Festival di Parma. Mentre per quanto riguarda il secondo testo, dal titolo rabbrividente e “scorrettissimo” da qualunque parte lo si consideri, la prima, e credo unica, rappresentazione in Italia la si deve a Tito Piscicelli che, nella stagione teatrale 1995-96, ne curò la regia con in scena Danilo Nigrelli nella parte di Hitler, Antonio Latella in quella di Ernst Rohm, e Lucio Alloca che fa Gustav Krupp, il magnate dell’acciaio. Nel 1996 il Teatro dell’Elfo propone una interessante e originale versione di Madame De Sade per la regia di Ferdinando Bruni che si ritaglia anche il ruolo di Madame de Montreuil, la madre della Marchesa, con forti richiami al nō e al kabuki, un palcoscenico spoglio ma fornito di porte scorrevoli, in cui i costumi e le luci, come nello spettacolo di Bergman, ne costituivano la vibrante e visibile scenografia. Affascinante, drammaturgicamente intrigante, delicatamente “distonico”. Fluviale, 222 minuti, ellittico, con ampliamenti drammaturgici che sembrano portare l’opera di Mishima in un altrove ideologico-politico per poi invece ribaltarsi all’interno della rappresentazione e illuminarla più da vicino, l’allestimento che propone di Madame de Sade Andrea Adriatico per i Teatri di Vita – spettacolo che inaugura la nuova sede del gruppo bolognese nel maggio del 1999 – e che diventa un punto di svolta per la definizione di un’idea di teatro che solo “dentro” lo spazio della scena può trovare le ragioni principali e ultime della necessità di una rappresentazione. In questo modo il dramma di Mishima recupera uno dei suoi molteplici sensi e significati quando diventa elemento “perturbante” di relazioni interpersonali, spazi, movimenti, corpi che si “manifestano”. Come se il regista nel suo lavoro con le interpreti (in questo caso cinque figure femminili, senza Charlotte, la cameriera di casa Montreuil) non intendesse “mettere in scena” l’opera di Mishima, ma spingere il testo a un suo limite estremo: “autorappresentarsi”. Solo in questo modo si spiega l’aggiunta, in un copione già denso e lungo di suo, di un ulteriore “contenuto” drammaturgico: quello dato dal testo Anarchie. Ciò che resta di Libertè, Egalitè, Fraternitè di Milena Magnani: uno spettacolo nello spettacolo che restituisce alla visione mishimiana del divin marchese una correlazione oggettiva e contem-

poranea. Nel 2010, nell’ambito del Convegno Mishima, mon amour. L’uomo, lo scrittore, l’onore è andato in scena, per la regia di Piero Ferrarini, un curioso spettacolo che spostava la vicenda della signora De Sade nella Francia del secondo dopoguerra, senza che nella rappresentazione si avvertisse questo cambio d’epoca, né si palesasse la ragione teorica di questa variante storico-drammaturgica, se non nei costumi di scena firmati da Gianni Battistoni. Una vicenda, quella descritta in Madame de Sade, che si svolge nell’arco di vent’anni, che ha un unico luogo – Parigi, il salotto di Madame de Montreuil – ma si sviluppa in tre epoche diverse che corrispondono ai tre atti (autunno 1772; estate inoltrata del 1778; primavera del 1790), i cui sei personaggi femminili parlano di un uomo, il Marchese de Sade, che non si vede mai. Nel 2001 Massimo Castri, prodotto dal Teatro Stabile di Torino e dal Teatro Metastasio di Prato, ambienta questa storia straordinaria in un giardino-labirinto, non dunque in una stanza ma “all’aperto”, in un divertito, geometrico gioco marivaudiano, lontanissimo dal mondo di Mishima ma vicino a suggestioni pittoriche settecentesche che, attraverso la straordinaria scenografia di Maurizio Balò, sembravano ricordare Il mistero dei giardini di Compton House di Peter Greenaway. ★

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teatro di figura

Garibaldi, ombre e un frigorifero anche Incanti festeggia l'Unità Al festival piemontese di teatro di figura si celebra l’anniversario dell’Unità d’Italia, ma si raccontano pure storie universali, tenute insieme dal fil rouge dello stupore e della meraviglia. Tra i protagonisti Clair de Lune Théâtre, Giulio Molnàr, Les Sager Fous, Antonio Panzuto e gli storici Bread and Puppet. di Laura Bevione

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er il terzo anno consecutivo, Incanti, la rassegna internazionale di teatro di figura organizzata dalla compagnia torinese Controluce e diventata “maggiorenne” proprio nel 2011, è stata dedicata al «teatro di figura e storia». Un tema che, in occasione del 150º anniversario dell’Unità, appariva quanto mai azzeccato: l’apertura del festival, dunque, è stata affidata a Cà Luogo d’Arte con il suo Locomotiva 1861 - appunti per un compleanno italiano, un divertente spettacolo di attori e burattini per ripassare con leggerezza il Risorgimento. Un periodo avventuroso rievocato anche dalle maschere della tradizione italiana, cui è stato assegnato l’onere e l’onore di aprire

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le prime serate di Incanti 2011: il progetto Teatro Popolare ha dunque visto avvicendarsi sul palco quattro fra i nostri maggiori burattinai, Gianluca Di Matteo, Marco Grilli, Vladimiro Striniati e Gaspare Nasuto. Per puro spirito campanilistico ci concentriamo sull’esibizione del torinese Marco Grilli, che ci ha raccontato di come il riservato Gianduja abbia entusiasticamente cercato di contattare telefonicamente Arlecchino e Pulcinella perché lo aiutassero a “fare” l’Italia. Eppure, sebbene i succitati spettacoli abbiano efficacemente puntato il riflettore sulle vicende storiche nazionali, il vero filo rosso di questa edizione di Incanti non ci è parso essere tanto la riflessione sulla Storia, quanto, invece, lo stu-

pore e la meraviglia. Non un tema, quindi, piuttosto un atteggiamento, nei confronti dell’arte come dell’esistenza. Così Omelette, spettacolo d’ombre senza parole ma con accompagnamento musical-rumoristico dal vivo, ideato e messo in scena dal duo belga Clair de Lune Théâtre, ci riporta a un’infanzia giocosa e fiabesca, con madri arcigne, padri inguaribili romantici, figlie disubbidienti con le trecce all’insù e galline ribelli. Una parete scura nella quale si aprono cornici di fogge e dimensioni diverse, ognuna delle quali racchiude uno dei personaggi. E lo stupore di riscoprirsi amati, benché per un periodo troppo breve, è ciò che provano anche i due infelici innamorati creati dall’immaginazione fervida


teatro di figura e sbarazzina, autoironica e persino noir di Giulio Molnàr, l’artista ungherese che negli anni Settanta ideò il Teatro d’Oggetti. Nel suo Piccoli suicidi – spettacolo “storico” ora riproposto con minime variazioni – l’autore-interprete mette in scena due atipici “suicidi” e una poesia dedicata al Tempo. Se i protagonisti del secondo suicidio sono un’avvenente brasiliana (un esotico chicco di caffé) e un introverso svedese (un austero fiammifero) amanti sfortunati; nel primo assistiamo a un addio alla vita messo in atto con una compressa di alka seltzer. Cioccolatini, noccioline, tubetti di maionese, fiammiferi, caffè, fazzoletti di carta: Molnàr sa immettere vita in qualsiasi oggetto e, insieme al pubblico, sembra meravigliarsene lui per primo. In effetti, a teatro può capitare di scoprire che anche un magazzino abbandonato può nascondere inaspettate sorprese: in Cirque Orphelin il duo canadese Les Sages Fous trasforma un luogo polveroso e ingombro di mille cianfrusaglie in una sorta di laboratorio alchemico dove, grazie a misteriose «transformations», vengono evocate strane creature. Un bruco un po’ folle, il leggendario «homme oiseau», la sirena e, ancora, un essere che possiede solo la testa e le braccia, allo stesso tempo inquietante e affascinante. Una compagnia di freaks dai volti grinzosi come neonati ma anche rugosi come vecchiardi, dalle espressioni malinconiche ovvero dittatoriali. La coppia canadese – entrambi ottimi manovratori di questi atipici burattini – si muove con circospezione nello spazio buio del magazzino e con eguale stupore imbandisce e assiste a questi riti alchemici che, qualche volta, sanno anche regalare una piccola felicità: per esempio, la sirena acquista due gambe per potere amare liberamente il suo «homme oiseau». Ma non sono soltanto i magazzini abbandonati a nascondere inusitate meraviglie, a volte perfino l’umile frigorifero di casa può sorprenderci. Un’esperienza che Antonio Panzuto condivide con il pubblico in Il frigorifero lirico, un’«opera lirica in un frigorifero», liberamente ispirata al Vascello fantasma di Wagner. L’elettrodomestico si trasforma come per magia in un vero e proprio teatro d’opera, con tanto di palchi e profusione di velluti rossi, mentre fra i ripiani divenuti golfo mistico e palcoscenico ombre cinesi e figurine di carta ricreano fantasiosamente le atmosfere non soltanto di Wagner, ma anche della Carmen di Bizet e del Barbiere di Siviglia di Rossini. Uno spettacolo piccolo – sta tutto in un frigorifero casalingo – ma divertente e vitale. E la vitalità è certo una delle qualità migliori di Peter Schumann, fondatore e animatore dell’ormai storica compagnia statunitense Bread and Puppet – è nata a New York nel lontano 1961 – che a Incanti ha presentato, unica data italiana, il suo ultimo lavoro, Man of Flesh and Cardbo-

ard. Lo spettacolo è dedicato al soldato Bradley Manning, testimone di soprusi e “irregolarità” compiute dal governo e dall’esercito americani nel corso della guerra in Iraq. Manning riuscì a pubblicare alcuni degli scottanti documenti in suo possesso sul sito di Wikileaks, azione che gli è costata l’arresto e la detenzione. Nella prima parte dello spettacolo – decisamente la più riuscita – Schumann e soci rievocano un bombardamento statunitense in Iraq che, accidentalmente, colpisce obiettivi civili: giocata sul bianco e nero, forte dell’essenziale efficacia delle sagome dai volti quasi espressionistici di vittime e carnefici, la messa in scena riesce a trasmetterci il terrorizzato stupore delle vittime innocenti. Nella seconda parte, un po’ confusa, sono ricostruite, invece, le vicende giudiziarie di Manning.

Minimo comun denominatore dell’intero spettacolo, tuttavia, è proprio quell’atteggiamento di “meraviglia” di cui parlavamo: in questo caso corrisponde al sentimento generato dall’assenza di giustizia che ancora domina la nostra società. Ma non solo, stupito e meravigliato è lo sguardo curioso e vitalissimo di Peter Schumann: dopo quarant’anni sale con inalterato entusiasmo sul palcoscenico, convinto dell’intrinseca necessità del suo mestiere, e, dopo lo spettacolo, distribuisce ancora agli spettatori il pane che la compagnia stessa prepara, celebrando con immutata convinzione l’antico rito del teatro. ★ In apertura, un'immagine da Omelette, di Claire de Lune; nel box, una scena di Don Giovanni in carne e legno, di Tap Ensemble (foto: Gaetano Ievolella).

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Tap Ensemble: Don Giovanni seduce IF Festival DON GIOVANNI IN CARNE E LEGNO, di Nicola Cavallari e Luca Ronga. Regia di Ted Keijser. Con Nicola Cavallari, Eleonora Giovanardi, Luca Ronga, Gianluca Soren. Prod. Tap Ensemble, MONTEFIORE CONCA (Rn) - Balrog Teatro, MONZA - Teatro delle Temperie, CALCARA DI CRESPELLANO (Bo) - La Bagattella, RAVENNA. Una bella sorpresa ha aperto la 5a edizione di IF Festival Internazionale di Teatro di Immagine e Figura, organizzato dal Teatro del Buratto al Teatro Verdi di Milano. È Don Giovanni in carne e legno della giovane compagnia Tap Ensemble, nata dall’incontro fra il burattinaio Luca Ronga, esperto in guarattelle napoletane, e un gruppo di attori, accomunati dal desiderio di valorizzare il teatro di tradizione popolare, attualizzandolo attraverso un nuovo linguaggio fatto di commistione di generi. Ecco allora che il grande seduttore, sprofondato all’inferno come punizione per le sue scellerate imprese, resuscita in una sarabanda divertente e poetica in cui le guarattelle si mescolano alla Commedia dell’Arte, Sganarello diventa Pulcinella, i vari personaggi prendono di volta in volta le sembianze di attori, pupazzi a grandezza umana e piccoli burattini (realizzati da Brina Babini), mentre qualche passaggio viene risolto con deliziosi giochi di ombre cinesi o con parti cantate. Duttili, creativi, capaci di giocare senza timori riverenziali con i diversi generi, questi quattro bravissimi attori-burattinai hanno dimostrato con grazia e sapienza artigianale di altri tempi come la tradizione possa ancora essere “rivoluzionaria”. E, se questo è l’esordio, Tap Ensemble è senza dubbio una compagnia da tenere d’occhio. La rassegna proseguirà, da gennaio a maggio, con l’idilliaco tinto di noir La sarta di Gardi Hutter, Il combattimento fra Orlando e Agricane con i pupi della Compagnia Orlando/Papa (9 e 10 marzo), The Writer del Nordland Visual Theatre/Ulrike Quade/Jo Strømgren Kompani sul premio Nobel norvegese e presunto simpatizzante nazista Knut Hamsun, e Avec des ailes immenses, ispirato a un racconto di Garcia Márquez e realizzato dal Figuren Theater Tubingen. Claudia Cannella

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teatro ragazzi

Sogni jazz e principi rockettari Mantova e Parma nel segno dei piccoli L’autunno del teatro ragazzi anche quest’anno è passato per Segni d’Infanzia e Zona Franca. Se il primo festival ha privilegiato le giovani compagnie italiane, il secondo ha puntato sulle infinite declinazioni della fiaba. di Mario Bianchi

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egni d’infanzia, in tempi di crisi, si è consumato in soli quattro giorni anziché nei consueti otto: dal 10 al 13 novembre. Quest’anno Cristina Cazzola, direttrice del festival, non ha concentrato il suo interesse solo sulle compagnie internazionali (ci sono stati comunque diversi incontri di presentazione di progetti europei e alcuni spettacoli stranieri), ma ha intelligentemente privilegiato soprattutto la presenza di giovani compagnie italiane come Rodisio, Teatro del Piccione e Teatro Distinto, con spettacoli, peraltro già visti, che si sono potuti misurare con gli operatori stranieri giunti come sempre curiosi all’appuntamento autunnale di Mantova. In prima battuta è stato presentato La natura dell’orso di Dario Moretti di Teatro all’Improvviso. Utilizzando la consueta tecnica del rapporto tra scena e video, con l’elaborazione in diretta della sua arte pittorica, l’artista e attore mantovano ha proposto una sequenza di immagini e pensieri sulla natura in perfetta sintonia con la leggerezza della danzatrice Stefania Rossetti. Altro incontro interessante è stato quello con il jazzista norvegese Terje Isungset, che sulle suggestioni di Roald Dahl sui sogni dell’infanzia (uno dei temi ricorrenti del festival) con l’aiuto dei

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bambini ha riempito il Teatro Bibiena di suoni completamente reinventati. Laboratori, percorsi e installazioni, insieme al Riccio che quest’anno era il simbolo del festival, hanno riempito la città per quattro giorni. Tra le installazioni, molto bella quella di Lucio Diana, che ha rivisitato sotto nuova luce molti dei bellissimi materiali utilizzati durante la sua lunga vita d’artista. Zona Franca, organizzato a Parma dal Teatro delle Briciole, ci ha regalato molte novità, tutte di grande rilevanza, a cominciare dalle sue due nuove creazioni: la prima, Piccoli sentimenti, realizzato da Alain Moreau del Tof Theatre con l’accompagnamento artistico di Antonio Catalano, è un piccolo gioiello di teatro di figura, dove un minuscolo essere, mosso e accompagnato musicalmente da Sandrine Hooge e Celine Robaszynski, si trova in un paesaggio fantastico e si confronta con il mondo, riempiendolo di gioia, paura, sorpresa, tristezza, desideri. La seconda creazione è Cappuccetto Rosso, di Davide Doro e Manuela Capece di Rodisio che, con il loro consueto rigore stilistico, ci hanno restituito tutte le paure della celebre fiaba, creando uno spettacolo di atmosfere attraverso segni teatrali precisi di grande suggestione. Due compagnie pugliesi poi hanno messo in sce-

na per la prima volta le loro recentissime produzioni. Il Kismet, con la regia di Lucia Zotti, ha proposto un’ora di sicuro e intelligente divertimento con una delle fiabe più famose di Andersen, La principessa sul pisello, dandole nuova luce, ma restituendocene tutti i significati. Proposto musicalmente tra lazzi e rimandi scespiriani, mescolando antico e moderno, fiabesco e quotidiano, lo spettacolo narra di un principe rockettaro, assillato da una madre iperprotettiva, che viene spedito nel mondo per diventare adulto e cercare finalmente una moglie, la quale per diventare principessa dovrà superare la celebre prova del pisello. Principio attivo invece ha proposto La Bicicletta rossa, su una drammaturgia ben calibrata di Valentina Diana e per la regia di Giuseppe Semeraro, con rimandi a De Filippo, inzuppata da movenze di fiaba. In scena una famiglia impegnata nel confezionare le sorprese contenute nei famosi ovetti di cioccolato, appartenenti alla ditta del Signor Bankomat, padrone e signore della città. A narrare è la voce di Marta che è ancora nella pancia della sua mamma. Per il resto sono i gesti dei personaggi che ci raccontano la storia tra cinema muto e teatro di figura. In contrappunto con le musiche, essi ci parlano di povertà ma anche di amore, di gesti sempre uguali che vengono interrotti dall’arrivo appunto di una piccola bicicletta rossa che porterà la storia verso esiti inattesi. Due le produzioni estere da ricordare: Biblioteca di corde e nodi, dove l’artista spagnolo Antonio Portillo mette, in un imponente cilindro di legno, migliaia di piccoli manoscritti creando un mondo costruito da manufatti, fotografie, corde e nodi, con attaccati oggetti che rimandano a pensieri che sta al visitatore intimamente svelare; e Terres, tratto dall’affascinante testo di Lise Martin che Nino D’Introna, ora direttore del Centre Dramatique di Lione, ambienta in uno spazio geometrico di sapore beckettiano. Lo spettacolo, dedicato agli adolescenti, si interroga con intelligenza, attraverso dialoghi serrati e poche ma incisive invenzioni registiche, sulle origini della violenza che nasce per la ricerca della terra ideale e lo fa senza retorica, ponendo domande a cui è difficile rispondere. ★


teatro ragazzi

In questa pagina, un'immagine da Gli alti e bassi di Biancaneve, di Emma Dante (foto: Carmine Maringola); una scena di Biancaneve, di Maria Grazia Cipriani.

Biancaneve: tra cult e novità GLI ALTI E BASSI DI BIANCANEVE, testo, regia, scene e costumi di Emma Dante. Luci di Gabriele Gugliara. Con Italia Carroccio, Davide Celona, Daniela Macaluso. Prod. Compagnia Sud Costa Occidentale, PALERMO.

BIANCANEVE, dalla fiaba dei fratelli Grimm. Adattamento e regia di Maria Grazia Cipriani. Scene e costumi di Graziano Gregari. Con Elena Nenè Barini, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Jonathan Bertolai. Prod. Teatro del Carretto, LUCCA.

in tournÉe

in tournÉe

Dopo Cenerentola, Emma Dante si confronta con un altro super-classico della letteratura per l’infanzia, ovviamente rileggendolo e declinandolo secondo la propria personalissima visione del mondo e del teatro. La Biancaneve dell’artista palermitana è una ragazzetta che si diverte ancora a giocare con le bambole ma che diventerà repentinamente grande, dopo l’abbandono nel bosco e l’incontro con i nanetti. È una Biancaneve costretta ad affrontare molti “alti”, ossia la tentazione a porsi sempre su un gradino più elevato rispetto a quello occupato da chi la circonda, così come numerosi “bassi”, ovvero i sette moderni nani, che le insegnano, invece, l’umiltà e l’attenzione. Non a caso la matrigna travestita da vecchina comparirà di fronte a Biancaneve arrampicata su altissimi trampoli, mentre i piccoli uomini la costringono costantemente ad abbassare il suo corpo così come il suo sguardo. Questa la moderna morale della favola ma, poiché la platea è composta principalmente da bambini, tutto ciò è veicolato per mezzo di una serie di ingegnose trovate sceniche, scaltre e divertenti. Così il famigerato «specchio delle mie brame» è interpretato da un attore, che affianca e riproduce tutti i movimenti della matrigna, con effetti assai spassosi. E, ancora, il guardiacaccia è una sorta di fricchettone con pellicciotta e pantaloni attillati, mentre i nani traducono nell’aspetto e nelle azioni il detto nomen omen. Non dobbiamo poi dimenticare il principe, stanco e un po’ disorientato, che porta con sé una preziosa valigia in cui nasconde il sontuoso abito destinato alla sua sposa. A tutti questi personaggi danno energica vita i tre infaticabili interpreti, impegnati in rapidissimi cambi d’abito, che avvengono dietro l’unico elemento scenografico, una sorta di teatrino per marionette in cui domina il rosso fuoco. E i piccoli spettatori entusiasti danno consigli e “tifano” per la fanciulla Biancaneve che si appresta a diventare donna. Laura Bevione

Ha trent’anni la Biancaneve del Teatro Del Carretto. É il primo lavoro della coppia Cipriani-Gregori. Un sogno-incubo dove è traslata, senza compiacimenti infantili, l’ancestralità, la durezza e la violenza delle fiabe dei fratelli Grimm. Meraviglia la ricerca, e la riuscita, della tridimensionalità, della prospettiva, in una continua fuoriuscita di immagini, che da piccole si fanno gigantesche o viceversa, che da pupazzi diventano di carne e ossa. Una casetta-pozzo dei desideri-cilindro del mago-matrioska che è anche armadio delle sorprese e dei segreti, che è piccolo teatrino dei burattini, o entrata, attraverso un altro sipario in basso, dei nani nella miniera. Una Biancaneve operistica e lirica che, proprio grazie alle arie e alla cura pregevole dei dettagli, riesce a cucire la magia semplice del teatro artigianale all’interno dei sentimenti umani più atroci. Si passa dalla dolcezza alla durezza, dalla spensieratezza all’accanimento spaventevole in un cortocircuito emotivo sorprendente per potenza visiva e commozione. Vari piani attoriali differenti s’intersecano e dialogano abilmente: i burattini guidati con la mano, l’attrice con maschera nei panni della Regina cattiva, i pupazzi a grandezza (in)naturale. E mentre nel teatrino in alto si svolgono le scene madri, ai lati si aprono porte e finestre per zoomare su un dettaglio, come ad esempio il pettine che nelle mani della regina diviene gigantesco; stessa sorte (e sortilegio) che tocca alla mela rossa; oppure, ancora più eccitante risulta l’arrivo dall’esterno di sagome che riproducono i nani, alte circa un metro l’una che, accompagnate dalla classica canzoncina, entrano sulla scena, ritrasformandosi in miniature. Giochi di prestigio che diventano visioni montate in sequenze cinematografiche. Come essere dentro la casa delle bambole. Tommaso Chimenti

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ll’inizio fu Giorgione o, per essere più precisi, il Liceo Ginnasio “Giorgione” di Castelfranco Veneto, provincia di Treviso, profondo Nord Est. Lì, nel lontano 1993, una professoressa di latino e greco, insolitamente illuminata e affetta da un’inguaribile passione per il teatro, inaugurò un percorso di formazione destinato ai propri allievi e condotto da attori di vaglia, fra cui alcuni militanti di Laboratorio Teatro Settimo. Tra quei fortunati studenti c’erano Simone, Anna, Moreno, Paola che, diplomati, decisero di assecondare la propria vocazione teatrale, seguendo ciascuno un cammino formativo modellato su talenti, passioni e predisposizioni affatto individuali. Simone, Anna, Moreno, Marco, Paola lavorano stabilmente insieme da cinque anni, malgrado Anagoor sia nato, ufficialmente, già nel 2000. Il nome, tratto da Buzzati che così battezzò la sua città ideale, fu scelto poiché nasceva «dall’amore dei suoi fondatori per la

città». E il legame della compagnia con Castelfranco è solido e imprescindibile per comprenderne natura e obiettivi: le esperienze personali, infatti, coesistevano e, anzi, nutrivano, un progetto artistico condiviso che «in primo luogo, era rivolto al territorio». L’eccentricità e l’eterogeneità dei percorsi individuali si incontravano nel desiderio e nella necessità di lavorare sulla città. Dieci anni fa, ma così ancora oggi, la provincia di Treviso non esprimeva nessun interesse verso il contemporaneo: in quella mancanza, dice Simone Derai, «ci siamo sentiti coinvolti e abbiamo trovato una spinta attrattiva. Anziché andare via, ciascuno per conto proprio seguendo percorsi diversi, ci si è focalizzati su un lavoro da fare insieme a partire da un nucleo preciso che è la formazione del pubblico». L’indifferenza – se non l’ostilità – delle istituzioni non ha scoraggiato il giovane gruppo ma, al contrario, si è trasformata in una sfida che, oggi, può dirsi sostanzialmente vinta.

Certo le difficoltà rimangono e, tuttavia, Anagoor è riuscito a divenire un punto fermo nel trevigiano: dal 2003 la compagnia organizza ogni estate a Castelfranco e dintorni un festival che vuole essere una porta aperta alla scena cosiddetta contemporanea. Dal 2008, poi, Anagoor gestisce uno spazio teatrale a Castelminio di Resana, la Conigliera: sorge in mezzo alla campagna, è un ex allevamento cunicolo che il gruppo ha trasformato in sala teatrale, luogo per le prove e per i laboratori destinati agli abitanti della zona. La creazione per immagini Castelfranco, dunque, ma anche il suo più illustre cittadino, Giorgione, e, ancora, la pittura rinascimentale, i suoi annessi simbolici ed esoterici, la sua universalità. Tutto concorre a definire quella che la compagnia stessa definisce «creazione per immagini» e che critici troppo frettolosi bollano come «gusto estetizzante». La particolare drammaturgia elaborata da Anagoor rinun-

Anagoor, l'estetica "colta" dei nipotini di Giorgione I protagonisti della giovane scena/38 - Nata nel profondo Nord Est, la compagnia di Castelfranco Veneto ha nel sangue la passione per l’arte figurativa e l’attenzione ai linguaggi contemporanei. Studio, visione e tempi prolungati sono le loro parole d’ordine, sia nella produzione di spettacoli che nella gestione di spazi teatrali. di Laura Bevione

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nati ieri

cia alla parola – con qualche eccezione, come Rivelazione – sette meditazioni intorno a Giorgione, prologo e appendice di Tempesta, scritto in collaborazione con Laura Curino – ma non alla storia, poiché «non c’è separazione fra storie e immagini. La visione per noi è fondamentale, ma è come se affondasse delle radici profondissime in storie, in vite». I video, il suono, la musica e il canto, la coreografia, la composizione pittorica della scena non sono che un involucro che, «se lo si pensa in termini biologici, nasce e si genera da un corpo concreto». Lo stesso approccio alla storia dell’arte – fonte prima della poetica della compagnia – non ha nulla di accademico né di superficiale, bensì consiste in un «sintonizzarsi a un livello più profondo, come se l’immagine fosse la pelle stessa di un corpo, con carne, sangue, storia». La pittura di Giorgione e di Tintoretto, in cui l’armonia e l’ottimismo rinascimentali si velano di mistero ed esoterismo, ma anche i fasti della Serenissima che, dietro alla scintillante facciata, tentava di celare lo strisciante sentimento di precarietà e inquietudine. Arte, architettura e storia raccontano di emozioni e verità universali, quelle stesse che Anagoor ribadisce in spettacoli nitidamente puliti eppure stratificati, frutto di studio e letture intensi, di riflessioni e meditazioni che segnano un cammino di creazione a volte anche piuttosto lungo. Il minimo comune denominatore degli spettacoli della compagnia veneta è proprio – dice Marco Menegoni – «il tempo concentrato e prolungato». La genesi dei lavori è assai lunga e mal si concilia con la prassi strisciante degli studi, che costringe i gruppi a proporre a intervalli anche molto brevi quelli che, in realtà, sono debutti veri e propri. Il metodo di lavoro di Anagoor, al contrario, presuppone una sana e produttiva lentezza: l’idea, frutto di fascinazioni personali e magari estemporanee, le riprese e il montaggio dei video, la creazione della partitura visiva e di quella coreografica, la composizione del

suono. Il tutto realizzato dai membri della compagnia, ognuno dei quali condivide con gli altri non soltanto le differenti esperienze – formative e di vita – ma altresì le svariate competenze tecniche e professionali. Un metodo di lavoro che, in occasione dell’ultimo progetto, Fortuny, il gruppo ha dovuto modificare. Cortocircuiti tra vita e arte Fortuny è ispirato alla figura di Mariano Fortuny, nato a Granada ma veneziano di adozione, artista del tessuto ma anche pittore, esperto di illuminotecnica, fotografo, collezionista. Anagoor non realizza un lavoro biografico bensì, come già era avvenuto con la figura di Giorgione in Tempesta, rapisce «lo sguardo di un artista che viene utilizzato poi in modo altro, come una sorta di miccia». Si innestano cortocircuiti che, per esempio, da Fortuny conducono a Venezia e alla Fortuna, che della città è il simbolo. Ma non solo: Fortuny era un artista dell’eccesso e il suo immaginario era «un generare continuamente forme, intrecci sovrapposizioni», un accumulo di stimoli, suggestioni, archetipi che ha condotto Anagoor a un non indifferente sforzo di sintesi, così da pervenire a quel segno, nitido eppure carico di significati, che è la cifra dei suoi lavori. Un segno che qualifica l’unicità e la novità della drammaturgia della compagnia, un’apparente freddezza che, al contrario, è coerente ai temi che innervano gli spettacoli. Così in Jeug il raffreddamento iniziale era il punto di partenza per quella ricerca spasmodica di un canale di comunicazione che era il contenuto primo della messa in scena. Al contrario, in Tempesta, il finale “raggelante” dichiara la chiusura narcisistica cui pervengono i due performer, impedendo un dialogo fra di loro così come fra l’uomo e la natura che lo circonda. Proprio la ricerca di un dialogo con le altre realtà teatrali italiane e straniere così come con

l’arte, ma altresì con la filosofia, la storia e la letteratura, innerva e sostanzia la poetica di Anagoor, una compagnia colta e curiosa, intellettuale nel senso positivo del termine. Questi trentenni dai volti sorridenti e genuini, dichiaratamente timidi e riservati, rivelano una maturità e una consapevolezza artistico-professionale non comune fra i coetanei: la cultura onnivora, la riflessione sul presente e sulla sua barbarie sono stimolo per la creazione di immagini certo raffinate e levigate, ma fermarsi a questa immediata apparenza sarebbe una colpevole leggerezza critica. Assistere a uno spettacolo di Anagoor significa intraprendere un cammino – magari a tratti arduo e accidentato a causa di quell’oscurità e di quel raffreddamento a cui si è accennato – in direzione di quelle esperienze e quelle verità che plasmano la nostra umanità. Le immagini, così, non ci appariranno più leggere ed evanescenti, al contrario ispessite e persino “macchiate” dalla concreta vita che le ha originate e plasmate. Esattamente come un quadro di Giorgione: chi potrebbe mai affermare che l’artista fosse “estetizzante”? ★ In apertura, Tempesta; in questa pagina, il gruppo Anagoor e una scena di Fortuny.

La compagnia Anagoor nasce nel 2000 a Castelfranco Veneto, su iniziativa di Simone Derai e Paola Dallan, ai quali si aggiungeranno successivamente Anna Bragagnolo, Marco Menegoni, Moreno Callegari, Eloisa Bressan e Pierantonio Bragagnolo. Nel 2008 la compagnia è finalista al Premio Extra con Jeug e, l’anno successivo, Tempesta viene segnalato al Premio Scenario. Nel 2010 Anagoor è finalista al Premio Off promosso dal Teatro Stabile del Veneto, mentre nel 2011 entra a far parte del progetto Fies Factory e del network internazionale Apap. Fra 2010 e 2011 la compagnia lavora all’articolato progetto dedicato alla figura di Mariano Fortuny, conclusosi con lo spettacolo Fortuny, che ha debuttato al festival Drodesera 2011.

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critiche

Prospettiva sulle solitudini dell'umanità straniera L'autunno della rassegna torinese è stato incentrato sulla lotta tra individuo e società, sulla degradazione e la sfida ai propri limiti. In scena, tra gli altri, Latella, Lupa, Cassiers e Pathosformel. Prezydentki

DIE NACHT KURZ VON DEN WÄLDERN (La notte poco prima della foresta), di Bernard-Marie Koltès. Drammaturgia di Catherine Schumann. Regia di Antonio Latella. Costumi di Graziella Pepe. Luci di Simone De Angelis. Musiche di Franco Visioli. Con Clemens Schick. Prod. Spielzeit’europa, Berlino - Berliner Festspiele Stabile/Mobile Compagnia Antonio Latella, Napoli. PROSPETTIVA 150/FESTIVAL D’AUTUNNO, TORINO. in tournÉe Buio/luce; movimento/staticità; lentezza/velocità: si nutre di dicotomie lo spettacolo che Antonio Latella ha diretto per la scena tedesca e che Fabrizio Arcuri ha voluto aprisse la terza edizione del festival Prospettiva, significativamente intitolata Stranieri in patria. Il disperato protagonista del monologo di Koltès - drammaturgo egli stesso “diverso” per la sua irriducibile non convenzionalità - pare appunto precipitato in una terra di nessuno, ostile e inospitale, in cui stenta a rintracciare punti di riferimento familiari. La sala immersa nella semi-oscurità, dal palco proviene la voce affannata dell’anonimo monologante, interpreta-

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to dall’infaticabile attore tedesco Clemens Schick, pantaloni e giacca scuri sul petto nudo. Sul fondo del palco, completamente spoglio, nove grandi riflettori che a tratti accecano la platea, infrangendo l’oscurità dominante. L’uomo corre instancabilmente rimanendo, però, fermo al centro del proscenio. Rievoca con amara nostalgia incontri amorosi frettolosi ovvero senza futuro, ricostruisce con animoso disincanto contrasti con colleghi in un non precisato luogo di lavoro, denuncia con disarmante ma rabbiosa autoconsapevolezza la propria incapacità a comprendere azioni, parole, sentimenti dei propri simili. Un uomo a cui un’anonima camera d’albergo pare regalare più calore che una qualunque casa. L’incessante movimento che, tuttavia, non conduce da nessuna parte, diviene così fisica oggettivazione dell’inanità di quel fiume di parole, uno sfogo verbale che riesce soltanto ad aumentare parossisticamente il sudore e a sgualcire l’incoerentemente elegante abito scuro. La corsa e le frasi sono interrotte da inattese esplosioni di musica ad alto volume e di luce che stordiscono il pubblico, costringendolo a condividere con il protagonista quell’aggressione sensoriale che lo ammutolisce e lo immobilizza. E, in questi frangenti, Schick è assai efficace nel mimare quegli schiaffi sonori e visivi che, cor-

rispettivi di ben più dolorosi lividi dell’anima, ne deformano i lineamenti del viso, così da tramutarlo in una sconcertata maschera di sofferenza. Fino al finale, struggente e teatralmente perfetto: il lentissimo ripiegarsi su se stesso di un uomo che si arrende a un mondo che non ha voluto comprenderne la disperata ma orgogliosa alterità. Laura Bevione PREZYDENTKI (Le presidentesse), di Werner Schwab. Adattamento, regia, scene e musiche di Krystian Lupa. Con Bozena Baranowska, Halina Rasiakówna, Ewa Skibinska. Prod. Teatr Polski, Wroclaw. PROSPETTIVA 150/FESTIVAL D’AUTUNNO, TORINO. Tre donne non più giovani trascorrono pigramente il pomeriggio nel salotto, scrostato e sgangherato, di una di loro, assistendo in televisione a un discorso di papa Wojtyla. Il messaggio di fraternità e di tolleranza del Pontefice spinge le tre - annoiate e insoddisfatte delle proprie grigie esistenze - ad addolorate considerazioni sul proprio destino crudele, sulla malvagità del prossimo ma, anche, sulla misericordia celeste. La padrona di casa, che per nulla al mondo rinuncerebbe al cappello di pelliccia trovato per strada e da allora costantemente sulla sua testa, si lamenta del figlio che non l’ha ancora resa nonna e fantastica di un’improbabile love story con il virtuosissimo macellaio Wottila. L’amica bionda e disinibita rievoca ex-mariti e figlie emigrate in Australia, affetti familiari sostituiti dall’ossessione per una viziatissima bassotta. C’è, ancora, la più giovane e fanatica, appassionata di pellegrinaggi e dedita alla manutenzione dei water dell’alta borghesia cittadina. Nel primo atto le tre donne - evidentemente “spostate” ed emarginate dalla società - discutono con relativa pacatezza dei rispettivi problemi, ma il clima diviene sempre più nervoso e il rancore di ognuna si riversa inevitabilmente sull’altra. Nel secondo atto le tre, aiutate certo dall’alcool ingurgitato, si muovono goffamente in una sorta di incubo a occhi aperti, fino al tragico finale. Insomma, se nella prima parte dello spettacolo prevale il grottesco, nella seconda il tono si fa cupamente surreale, tanto che le frustrazioni e i rimpianti di ciascuna acquistano progressivamente concreta e ingannevole consistenza. Le tre, impotenti ed egocentriche, si rivelano vittime di un esasperato individualismo, frutto di primitiva lotta per la sopravvivenza più che di snobistico egotismo. L’ignoranza e l’assenza di un’etica forte condannano le tre donne a un’esistenza meschina e isolata e, tuttavia, accettata e persino foraggiata dalla società colta e benestante. Lupa, il più noto e apprezzato fra i registi polacchi, fa propria l’amara denuncia di Werner Schwab, esaltandone il gusto per la pittura - allo stesso tempo grottesca e visionaria - di interni e di esseri umani afflitti da fatale degradazione. Una regia misurata ma capace di amplificare la denuncia sociale contenuta


criticHE/PIEMONTE Alcune primavere cadono d'inverno.

nel testo, risultato raggiunto anche grazie alle tre interpreti, capaci di incarnare la miseria umana e morale dei loro personaggi senza mai cedere alla facile tentazione della caricatura. Laura Bevione SUNKEN RED, dall’omonimo romanzo di Jeroen Brouwers. Adattamento di Corien Baart, Guy Cassiers, Dirk Roofthooft. Drammaturgia di Corien Baart ed Erwin Jans. Regia di Guy Cassiers. Scene, video e luci di Peter Missotten. Con Dirk Roofthooft. Prod. Toneelhuis&Ro Theater, Olanda/Belgio. PROSPETTIVA 150/ FESTIVAL D’AUTUNNO, TORINO. Poco si conosce dei campi di concentramento eretti e gestiti dal governo giapponese nel corso della Seconda Guerra Mondiale e nei quali furono rinchiusi, fra gli altri, quegli occidentali che, per lavoro o per caso, si trovavano in Oriente allo scoppio del conflitto. Una realtà misconosciuta di cui, nondimeno, ci traccia un vivido e drammatico paesaggio lo scrittore olandese Jeroen Brouwers che, all’età di soli tre anni, venne rinchiuso con la nonna, la madre e la sorella in uno di quei terribili luoghi di prigionia. E, con una vividezza allo stesso tempo crudele e commossa, il regista fiammingo Guy Cassiers ridisegna quella tragica realtà sul palcoscenico, affidando alla voce e al corpo di Dirk Roofthooft il racconto di un passato che ancora, invincibile, plasma il presente di chi ne è stato, suo malgrado, protagonista. La sala è occupata da sei lunghi rettangoli riempiti di acqua, sui quali galleggiano rigidi quadrati; sul lato alcune sedie, un tavolino e una sorta di finestra con ampie veneziane; sul fondale, sul quale sono proiettati primi piani e dettagli dello stesso interprete, ritornano le medesime veneziane. Dominano l’oscurità e il rosso brillante, l’eloquio quieto e quasi sottovoce di un uomo che, troppo presto, ha imparato lo strazio delle grida. All’inizio dello spettacolo il protagonista è impegnato a limare dalle piante dei propri piedi i calli, attività appresa proprio nel campo di prigionia, dove ai detenuti non era consentito portare le scarpe. Un indizio di come il passato continui a scavare piaghe nell’anima dell’uomo: egli rievoca, in particolare, il rapporto con la madre, cui i carnefici giapponesi sottrassero femminilità e umanità, tanto da condurre il bambino a desiderare una nuova mamma, che non fosse “guasta”. Una relazione complessa che egli replica anche nei rapporti con le donne, in particolare con la moglie: il freddo racconto del parto e della nascita della figlia è uno dei momenti più angoscianti dello spettacolo. L’infanzia traumatizzata e rubata reclama ogni giorno riscatto e al protagonista non rimane che sopravvivere, conscio che la vera vita gli è stata sottratta per sempre a tre anni. Una consapevolezza che regista e interprete ci trasmettono con strazio gelido e impassibile e, proprio per questo, ancora più disperato e drammatico. Laura Bevione

ALCUNE PRIMAVERE CADONO D’INVERNO, di Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani. Musiche di Port-Royal. Con Stefano Leone. Prod. Pathosformel, Venezia - Auditorium Musica per Roma - Centrale Fies, Dro.

AN AFTERNOON LOVE, di Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani. Con Joseph Kusendila. Prod. Pathosformel, Venezia - Centrale Fies, Dro Workspace Brussels. PROSPETTIVA 150/FESTIVAL D’AUTUNNO, TORINO. in tournÉe La teatralità del gesto sportivo e la sua innegabile affinità con la leggerezza e l’armonia di una sofisticata coreografia. La ricerca artistica dei Pathosformel, da sempre interessati a esplorare territori inediti alla costante ricerca di nuove declinazioni del termine spettacolo, si concentra questa volta sullo sport, inteso però non quale insieme di regole e atti codificati, bensì quale privilegiata occasione di conoscenza e sperimentazione del proprio corpo. In Alcune primavere… un performer - Stefano Leoni agisce all’interno di una compatta costruzione scenica, attraversata da una serie di ventilatori, celati nella base e nel fondale, e capaci di far danzare qualsiasi oggetto leggero, quale la bianca busta di plastica lì abbandonata. Il solitario interprete, seguendo le musiche originali composte ed eseguite dal vivo dai Port-Royal, si esibisce in movimenti da breakdance, più o meno rapidi ovvero rallentati, indossando a tratti una felpa o un cappellino. I suoi gesti, concentrati e pensosi, mai casuali, scrivono una meditata riflessione sulle potenzialità dei propri arti e dei propri muscoli, sulla loro capacità di perdere rigidità e peso, così da divenire leggeri e aggraziati quanto la succitata busta di plastica delicatamente mossa dai ventilatori. Il movimento atletico ed energico si tramuta così in dimostrazione di un’intuizione, in espressione evidente ed efficace di un concetto. Un’analoga meditazione sulle svariate e insospettate implicazioni dell’atto sportivo è alla base di An afternoon love, che mette in scena un allenamento di basket: un giocatore solo con il suo pallone e con un canestro da centrare in una sorta di corteggiamento serrato e appassionato. Quella interpretata – o meglio, vissuta – da Joseph Kusendila è in primo luogo una sfida ai propri limiti, fisici ed emotivi, ma anche un tentativo di esaltare l’armonia del gesto atletico. Laura Bevione

LO SHOW DEI TUOI SOGNI, di Tiziano Scarpa. Regia di Fabrizio Arcuri. Musiche di Luca Bergia e Davide Arneodo. Con Tiziano Scarpa, Luca Bercia, Davide Arneodo. Prod. Accademia degli Artefatti, Roma. PROSPETTIVA 150/FESTIVAL D’AUTUNNO, TORINO. in tournÉe Sul palcoscenico non ci sono attori ma uno scrittore affermato e due componenti di un noto e apprezzato gruppo rock. D’altronde, quello a cui assistiamo non è certo uno spettacolo nel senso tradizionale del termine, bensì un reading, però strutturato e abbellito così da scansare l’impersonalità che di solito contraddistingue tali eventi. Dunque, il veneziano Tiziano Scarpa, in nero, è spinto dai due musicisti - membri dei cuneesi Marlene Kunz - a presentarsi al pubblico, che viene invitato ad attivare la propria immaginazione così da apprezzare al meglio quanto lo scrittore si appresta a raccontare. In piedi dietro a un leggio e poi seduto a un tavolino variamente posizionato sul palcoscenico, Scarpa narra la vicenda di un uomo qualunque, mediocre e insoddisfatto della propria vita come un po’ tutti, che, in seguito a una serie di fortunate coincidenze, diviene una star televisiva, capace di dettare i sogni all’intera nazione. Il racconto è accompagnato e intervallato dalla musica eseguita dal vivo dai due strumentisti, che interagiscono con Scarpa anche a livello metateatrale, dando vita a brevi siparietti, in realtà assai poco originali e, in fondo, inutili. Un esempio: uno dei due, poco interessato al racconto, legge il giornale mentre Scarpa tenta di appassionarci alle peripezie del suo personaggio. E proprio il bisogno della regia di introdurre questi inserti segnala la fragilità di simili forme spettacolari, ambigue e, soprattutto, artificiose: Tiziano Scarpa è generoso e appassionato, ma non possiede né la tecnica né l’indispensabile iniziale estraneità al copione che consentono a un attore “vero” di iniettare linfa vitale alle parole. Bergia e Arneodo sono due splendidi musicisti ma - inevitabilmente - tracciano una drammaturgia che per un trat to troppo lungo corre parallela a quella disegnata da Scarpa, senza che una solida necessità riesca a farle incontrare e intrecciare. Laura Bevione

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critiCHE/piemonte modena/torino

Gob Squad: teenager e rivoluzioni per canovacci del terzo millennio

Italoamericana (foto: Eugenio Pini).

BEFORE YOUR VERY EYES, ideazione, regia e design di Gob Squad. Con Marta Balthazar, Spencer Bogaert, Faustijn De Ruyck e altri 4 interpreti. Prod. Campo, Gand (Be) - Gob Squad, Berlino/Nottingham. VIE FESTIVAL, MODENA. REVOLUTION NOW, ideazione, regia e interpretazione di Gob Squad. Coreografia di Tatiana e Tamara Saphir. Musiche di Christopher Uhe e Masha Qrella. Prod. Gob Squad, Berlino/Nottingham. PROSPETTIVA 150/FESTIVAL D’AUTUNNO, TORINO. Politicamente molto scorretti, ironici, intelligenti, consapevoli dei limiti del teatro e, di conseguenza, capaci di esaltarne i punti di forza: questi sono i Gob Squad, un collettivo anglo-tedesco che si è conquistato l’attenzione del pubblico e della critica mettendo in scena i propri – originalissimi – spettacoli in luoghi non convenzionali in giro per tutta l’Europa. La loro particolare cifra stilistica è una riuscita commistione di copioni non rigidi, bensì quasi dei moderni canovacci: video – preregistrati ovvero realizzati “in diretta” nel corso dello spettacolo -, musica dal vivo, interazione non pretestuosa col pubblico e, certo, recitazione. Una poetica teatrale che sostanzia Revolution now, spettacolo-happening in cui la compagnia, da una parte, dibatte con divertita ma consapevole ironia della supposta necessità di rivoluzionare la nostra stanca società occidentale, mentre dall’altra mette alla berlina le superficiali velleità di cambiamento che hanno mosso i presunti rivoluzionari degli ultimi decenni del Novecento. Fra inviti al pubblico a toccarsi e ad abbracciarsi, abboccamenti fuori del teatro con passanti che, senza che abbiano il tempo di rendersene conto, si ritrovano primattori; chitarre elettriche offerte ad alcuni spettatori e finte bombe molotov esplose contro un muro, i Gob Squad ci ricordano come la vera rivoluzione sia imparare a riconoscere e quindi conoscere chi più è vicino a noi. Questa capacità di cogliere limiti, ipocrisie ma anche fragilità dei nostri simili è alla base di Before your very eyes, frutto del laboratorio triennale realizzato dalla compagnia con i fiamminghi Campo e che ha avuto come protagonisti assoluti alcuni ragazzi fra i nove e i quattordici anni. I sette preadolescenti sono isolati sul palcoscenico all’interno di una struttura composta da specchi, che consente al pubblico di osservarli senza che loro possano vederlo. Ai lati, due schermi sui quali vengono proiettati video realizzati nel passato oppure immagini riprese da una telecamera in scena. Il tema è quello della crescita e, dunque, assistiamo alla maturazione dei ragazzi, che si trasformano prima in trasgressivi diciottenni, poi in trentenni insoddisfatti e, infine, in pensionati stanchi. Non solo, grazie ai filmati preregistrati, i sette magnifici protagonisti dialogano con il se stesso cresciuto, magari chiedendogli conto di un pupazzo di peluche oramai dimenticato. Davanti ai nostri occhi, insomma, vediamo trascorrere la nostra stessa esistenza e, stimolati dalla genuinità dei ragazzi e dalla sagace e penetrante regia “oscura” di Gob Squad, riflettiamo sulla consistenza delle aspettative e dei sogni che ci hanno fatto diventare “grandi”. Laura Bevione

Revolution now.

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Emigranti ologrammi per raccontare Little Italy ITALOAMERICANA, di Francesco Durante. Regia di Davide Livermore. Costumi di Clara Mennonna. Luci di Alberto Giolitti. Con Salvatore Sax Nicosia, Toni Laudadio, Diego Mingolla (pianoforte). Prod. Associazione Baretti, TORINO - Alma Teatro, TORINO - D-wok, MILANO. In pochi conoscono l’intensa produzione letteraria, rigorosamente in lingua italiana, creata fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento da alcuni nostri connazionali immigrati negli Stati Uniti. Francesco Durante ha ricercato, raccolto e pubblicato molte di quelle opere – specchio di desideri, frustrazioni, nostalgie dei migranti italiani – e da questo cospicuo materiale ha tratto le vicende – quelle reali ma, soprattutto, quelle inventate – di Bernardino Ciambelli, giornalista, drammaturgo e scrittore, considerato il maggiore romanziere italoamericano. Durante, con la complicità di Davide Livermore, porta sul palcoscenico non soltanto l’eclettico ed entusiasta Ciambelli, ma altresì i protagonisti dei suoi fluviali romanzi. Ed è qui la novità dell’allestimento: un modernissimo sistema di proiezione video per creare simulazioni di ologrammi permette la magica apparizione sulla scena – vuota – di personaggi che, quasi pirandellianamente, giungono a visitare il proprio creatore, intrepretato con disinvolta ironia da Sax Nicosia. Seduto alla propria scrivania su un lato del palcoscenico, l’attore interagisce con queste figure, che raccontano della nostalgia della patria, ma anche degli innumerevoli sotterfugi – non sempre legali e moralmente ineccepibili – escogitati per sopravvivere nel nuovo mondo, in molti casi assai poco accogliente nei confronti dei migranti italiani. Accanto a lui, in carne e ossa, Toni Laudadio, im-

pegnato in varie caratterizzazioni, e il pianista Diego Mingolla. Attori presenti in scena e ologrammi, nondimeno, non interagiscono fra di loro: i primi osservano e ascoltano i secondi, che paiono abitare una dimensione altra, quasi fossero intrappolati in una nuvola da fumetto. L’avveniristico sistema di videoproiezione crea anche suggestive e coloratissime scenografie: i fondali dell’oceano ovvero la valigia da cui compaiono i volti di italoamericani famosi. L’alta tecnologia al servizio di un’arte nata povera, dunque, eppure il risultato non ci convince pienamente: probabilmente perché neanche le tecniche più sofisticate e immaginose possono compensare la debolezza dell’elemento fondante il teatro, ossia la drammaturgia, qui, purtroppo, fragile, a tratti scontata ed eccessivamente didascalica. Peccato. Laura Bevione

Re-imparare a vedere con Edipo e la Bibbia APOCALISSE, di e con Lucilla Giagnoni. Scene e luci di Massimo Violato. Musiche di Paolo Pizzimenti. Prod. Fondazione Teatro Piemonte Europa, TORINO - Ctb Teatro Stabile di BRESCIA - Teatri del Sacro, LUCCA. in tournÉe Lucilla Giagnoni dedica al libro più complesso e oscuro della Bibbia l’ultimo capitolo della sua “Trilogia della spiritualità”, iniziata con Vergine Madre e proseguita con Big Bang, allestimento ispirato alla Genesi. E, tuttavia, non c’è nulla di realmente “apocalittico” nello spettacolo che l’attrice ha scritto, diretto e magistralmente interpretato. Anzi, il lavoro contiene un vivificante invito a ripensare la propria esistenza re-imparando a guardare con maggiore attenzione quanto ci circonda. La riflessione nasce da un inedito parallelo


critiCHE/piemonte - liguria

fra l’Apocalisse e l’Edipo Re, fra testo sacro e tragedia greca, genere che, cinquecento anni prima che il libro conclusivo della Bibbia venisse scritto, già rispecchiava i valori etici giudicati essenziali per una vita giusta e corretta. Lasciandosi guidare da due parole chiave – rivelazione e cecità – utilizzate quali sicure bussole, Giagnoni intreccia brani tratti da Eschilo a citazioni bibliche, aneddoti legati alla propria complessa vita familiare a excursus teologico-filosofici. La cecità di Edipo è la condizione che consente all’eroe tebano di comprendere finalmente la verità del proprio infausto destino; la rivelazione è quella che apre gli occhi agli uomini sulle reali priorità dell’esistenza. Sul fondo del palcoscenico, sei pannelli bianchi sui quali sono proiettate immagini sfocate in bianco e nero, in proscenio il leggio attorno al quale si muove l’attrice, elegante in seta candida. Un monologo denso che, per un’ora e mezza, racconta storie avvincenti e paradigmatiche e fornisce allo spettatore innumerevoli e non scontate informazioni su etimologie, teologia, entomologia, antropologia, ecc., testimoniando dell’immenso lavoro di documentazione condotto da Lucilla per preparare il proprio spettacolo. Laura Bevione

Garibaldi e i guitti GARIBALDI FUFFERITO, progetto di Titino Carrara e Mauro Piombo. Drammaturgia di Michela Marelli e Titino Carrara. Scene e luci di Marco Ferrero. Costumi di Roberta Vacchetta. Con Titino Carrara, Fabio Bisogni, Cecilia Bozzolini, Costanza Maria Frola, Valentina Pollani, Fulvia Romeo. Prod. Santibriganti Teatro, TORINO - Asti Teatro33, ASTI. in tournÉe Frutto della collaborazione fra Titino Carrara, ultimo esponente dell’omonima storica famiglia di teatranti, e dei torinesi Santibriganti, uno spettacolo che vuole suggellare l’intenso anno di celebrazioni dedicate ai 150 anni dell’Unità. Il sottotitolo prescelto – Una spedizione teatrale nelle terre d’Italia – rimanda all’eroica impresa dei Mille, qui celebrata “in diretta” da una sconclusionata compagnia di giro che, sul palcoscenico, mette in scena le notizie che compagni e amici, dive-

nuti garibaldini, fanno loro, fortunosamente, pervenire. Un altero capocomico, un contabile apprendista attore e quattro commedianti tutte aspiranti primattrice e ovviamente in competizione l’una con l’altra, alternano al repertorio consueto la cronaca di quanto sta avvenendo a Quarto e poi in Sicilia. L’eroe della spedizione, Garibaldi, è costantemente citato e alluso: la stramba compagnia ne descrive l’orgoglio e il coraggio, ne evoca l’accoglienza trionfale tributatagli dai paesi liberati dai Borbone, ne recita le preghiere che all’eroe dei due mondi vengono dedicate. Sul fondo del palcoscenico teloni bianchi issati su strutture di legno chiaro – fondali ovvero candide vele – e sul pavimento una struttura a botole e praticabili, così da rimandare alla flessibilità e all’agilità del teatro praticato dalle antiche compagnie di giro. E alla tradizione teatrale italiana rimanda anche l’uso, in alcuni frangenti, delle maschere. Lo spettacolo procede così, dunque, fra canzoni – del repertorio classico ma anche successi degli ultimissimi anni – screzi e discussioni fra gli attori, messa in scena delle notizie che giungono dai garibaldini, dialogo con il pubblico. Un’eterogeneità di situazioni che, in verità, genera una certa confusione, accresciuta dall’iniziale nebulosità dell’impostazione metateatrale dell’allestimento, che diviene chiara soltanto a metà spettacolo. Troppi spunti, troppe idee – forse – troppe suggestioni e l’incapacità di scegliere e individuare una chiave di rappresentazione univoca: una debolezza che, malgrado la buona volontà degli affiatai interpreti, risulta in un’evidente farraginosità. Laura Bevione

Dini, un Don Giovanni rapinatore di bellezza

sceniche e cromatiche, per un clima narrativo ora luminoso ora cupo. La scena segue e manifesta soprattutto l’umore anarchico di un Don Giovanni dallo spirito indomito, ma è anche percorsa da quell’intramontabile morale, che sulla bocca degli altri personaggi attraversa la storia e invoca il cielo come autorità imprescindibile. Eppure Filippo Dini non entra in scena come malvagio, tutt’altro, il suo Don Giovanni è giovane - che è già un’attenuante - senza scrupoli certo, ma maestro nel descrivere con palpabile passione il desiderio irrefrenabile che lo porta a rapinare bellezza. A darne un ritratto più spietato è il suo servo, Sganarello, un Alberto Giusta che si fa specchio del suo padrone o suo alterego, ed è in sé una versione ibrida: nell’aspetto simile al Lucky di Aspettando Godot, nei fatti e nelle parole più emancipato, come un servo scaltro di Goldoni. Condotta da questo spirito di conquista – a tratti in fuga da chi è stato “offeso” - la drammaturgia ci porta in campagna, su una spiaggia, in mezzo a un bosco, dentro una tomba, in una casa nobile, in una chiesa. Ci si arriva grazie a una serie di teli (che calano sul palco) su cui linee di pennello determinano figure geometriche astratte ma leggibilissime che spetta al pubblico completare. Infrangendo fin dall’apertura la quarta parete, con Sganarello che entra dalla platea, lo spazio libero e ampio del testo si allarga ulteriormente in questa regia di Antonio Zavatteri per includere gli spettatori nella narrazione, giocando a farne statue, croci di morti o testimoni di una finta conversione. La

scenografia diventa a tutti gli effetti una co-regia che sottolinea concetti, direziona lo sguardo e chiede allo spettatore di partecipare come comparsa. Laura Santini

Il tinello degli orrori di un'Italia impotente TINELLO ITALIANO, di Francesco Tullio Altan. Drammaturgia e regia di Giorgio Gallione. Scene e costumi di Guido Fiorato. Luci di Aldo Mantovani. Musiche di Paolo Silvestri. Con Melania Genna, Simona Guarino, Massimo Mesciulam, Rosanna Naddeo, Sarah Pesca, Mauro Pirovano, Vito Saccinto, Giorgio Scaramuzzino, Beatrice Schiros. Prod. Teatro dell’Archivolto, GENOVA - Teatro Stabile di GENOVA. in tournÉe «Se il futuro non è bello rifugiamoci in tinello», cantano nove attori che portano in scena la comica e tragica coincidenza tra l’impotenza maschile, tipicamente sessuale, e quella politico-culturale di un intero Paese. Raccontano una «democrazia sepolta e cremata» dove votare è un «accanimento terapeutico» e, nell’attesa di un responso «dall’urna cineraria», si prospettano le possibili trasformazioni di Silvio il Giovane. Tinello Italiano, tra battute sagaci, scambi sarcastici e canzonette, tesse una drammaturgia a piccoli quadri che Giorgio Gallione (anche regista) ha costruito a partire

Don Giovanni (foto: Bepi Caroli).

DON GIOVANNI, di Molière. Traduzione di Cesare Garboli. Regia di Antonio Zavatteri. Scene e costumi di Laura Benzi. Luci di Sandro Sussi. Con Filippo Dini, Alberto Giusta, Massimo Brizi, Alessia Giuliani, Alex Sassatelli, Mariella Speranza. Prod. Teatro Stabile di GENOVA - Compagnia Gank, GENOVA. In un disegno naïf, fatto di nuvole intrecciate, l’atmosfera del Don Giovanni si trasforma su leggere variazioni

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criticHE/liguria regia di sciaccaluga

Un Solenghi sanguigno e amaro per una Moscheta dalle tinte fosche MOSCHETA, di Ruzante. Regia di Marco Sciaccaluga. Scene e costumi di Guido Fiorato. Luci di Sandro Sussi. Musiche di Andrea Nicolini. Con Tullio Solenghi, Maurizio Lastrico, Barbara Moselli, Enzo Paci. Prod. Teatro Stabile di GENOVA - Teatro della Corte, GENOVA. in tournÉE Latitava da qualche anno, almeno dalle grandi scene, il Ruzante. Lo rilancia per farci risentire la sua voce aspra e possente lo Stabile di Genova attraverso quella che è una delle sue opere più vitali, Moscheta, nell’operazione coinvolgendo Tullio Solenghi, assai bravo in una veste drammatica che poco gli conoscevamo. In Moscheta, commedia la cui prorompente comicità di marca plautina è velata da un amaro (oh, quanto amaro!) segno drammatico, sono solo quattro personaggi sulla scena ma bastanti a comporre l’immagine di una triste e tragica condizione sociale. Naturalmente al centro la stessa figura del Ruzante. Il rozzo, furbastro e ladruncolo Ruzante la cui lasciva moglie Betia se la intende sia con il vecchio e danaroso amante Menato, sia con il soldato bergamasco Tonin. Il tapino finirà ingannato, cornificato, picchiato a causa dei guai procurati dalla sua dabbenaggine. Ma non è tanto lo “scandaloso” intreccio che importa in Moscheta, quanto piuttosto l’indiavolato scontrarsi di corpi e lingua, con Ruzante che si fa emblema stesso del teatro, recando in sé la farsa, la commedia colta, la tragedia. È questa miscela di elementi che fa la forza e la grandezza di questo grigio capolavoro che Marco Sciaccaluga ha riportato alla ribalta con rigoroso impegno registico e cura attenta di quel pavano sulle tracce di Gianfranco De Bosio, colui che in tempi moderni ridiede lustro al Beolco. Sciaccaluga imponendo agli attori mimica e gestualità giuste e privilegiando, più che il coté farsesco, il lato oscuro, inquietante della vicenda. In questo a diventare elemento essenziale la bella scena, inventiva e rutilante di colori, di Guido Fiorato. Scena che al tempo stesso rimanda a una arcaica bidonville e a un campo rom. Ciò segnalato, come avrebbe detto il buon Goldoni «vegnimo a dire el merito del protagonista», Tullio Solenghi. La partita, lui genovese e non pavano, non era facile da vincere. C’è riuscito, e bene. Sotto un trucco pesante, come quello dei due compari che lo sbeffeggiano, ha dimostrato grande consapevolezza del personaggio: gli ha dato piena corposità. Il suo un Ruzante sanguigno, ribaldo, sfrontato, e sciocco naturalmente come vuole la tradizione, ma anche registrato con una sottile malinconia. Un Ruzante il suo che da iniziale maschera comica lentamente si trasforma in maschera tragica. Gli altri? A fiorire bene il pavano-moscheto sulle labbra della giovane Barbara Moselli che è una Betia dal segno esatto e vigoroso. Ruffianissimo il Menato di Maurizio Lastrico ed Enzo Paci a caratterizzare a tinte forti, quasi da Commedia dell’Arte, il soldato bergamasco. Domenico Rigotti

da testi di Franceco Tullio Altan. Risultato? Un profilo impietoso dell’unità minima che fonda la grammatica sociale italiana: il tinello. Lì troviamo esempi di impotenza, incontinenza, mancanza di idee, assenza di prospettive, immaturità. Gino, Gina e Ginetta, tipica famiglia media: padre che abusa della figlia, madre depressa che abusa di farmaci, figlia che, confessata la violenza subita, viene menata dalla madre gelosa. In questo spettacolare rimestare al vetriolo emerge anche l’ascesa e caduta di Silvio il Giovane, divenuto Imperatore con annesso erede: Pier Cristo. I magnifici nove sono tutti ex-allievi della Scuola di Recitazione del Teatro Stabile, seppure di annate molto lontane tra loro: Simona Guarino e Giorgio Scaramuzzino, coppia persa in un’intima deriva, tra pannoloni per l’incontinenza e recrudescenze di erezione; Beatrice Schiros e Mauro Pirovano sono l’altra faccia della stessa decadenza nel patto matrimoniale, mentre Melania Genna, Sarah Pesca e Vito Saccinto quelli della nuovissima generazione che si chiede: «ma il papà va a escort? No, va ancora a puttane». Adolescenti-bambini che per ribellione gridano: «Ho diritto a un futuro», ma per tutta risposta ricevono un: «Sì, lungo come un verme solitario». E per disperazione minacciano: «torno a fare il feto». D’altra parte Rosanna Naddeo e Massimo Mesciulam vestono i panni del coro o dei “corvacci neri” (vedi abiti e occhiali); quelli che portano le brutte notizie in un ricorrente, sempre più cupo, Notiziario dall’Italia, che riverbera per tutta la scena nelle pagine di giornale che foderano pareti e mobili. Laura Santini

La confessione di Gardini L’ULTIMA NOTTE. ANATOMIA DI UN SUICIDIO, di Corrado Augias e Vladimiro Polchi. Regia e video di Andrea Liberovici. Scene e costumi di Guido Fiorato. Luci di Sandro Sussi. Con Luciano Roman e Mario Menini (voce fuori campo). Prod. Teatro Stabile di GENOVA. in tournÉe Tullio Solenghi in Moscheta (foto: Marcello Norberth).

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Toni intimistici, a tratti lugubri. Un solo personaggio in scena, più voci a

tormentarlo. Ne L’ultima notte. Anatomia di un suicidio, inizialmente Luciano Roman si offre immobile al pubblico per alcuni lunghissimi minuti. In piedi, muto accanto a un monitor tv. L’intento drammaturgico è recuperare la storia di Raul Gardini e portarla sul palco come il Vajont o come Mattei (nel programma di sala si parla persino di teatro civile). Poca la Storia in scena però, e soprattutto appiattita, perché lasciata in esclusiva a immagini di repertorio - dalle Teche Rai - che, come un intervallo pubblicitario, vanno in scena a cadenze regolari in alternativa a un monologo-confessione. Poca o del tutto assente la suspence, inesistente l’indagine su un periodo storico affollatissimo di eventi – a partire dalle indagini giudiziarie dell’allora magistrato Antonio Di Pietro. A mancare del tutto sono testimonianze altre, o in prima persona o di qualcuno vicino a Gardini che, oltre a fare da collante, avrebbero rappresentato un’occasione per affacciarsi tra le pieghe della Storia e di una personalità piena di contraddizioni. A spezzare il monologo intimista, goffamente autocompiaciuto, alcuni dialoghi che il protagonista Roman/Gardini intrattiene al telefono e che in una sorta di rilet tura de La voce umana (1930) di Jean Cocteau, vedono lo stesso amoreggiare con la vita dall’altra parte del filo, con un tempo in scadenza (come segnala il suono insistente come di un orologio a pendolo) o indugiare volgarmente su alcuni vezzi del lusso. Il dialogo entra in gioco anche tra Gardini e la sua ombra (voce fuori scena di Mario Menini). E qui una coscienza un po’ moralista - da grillo parlante - è letteralmente in scena come proiezione: silhouette bianca su campo nero. A questo si aggiunge l’utilizzo di specchi che genera un moltiplicarsi delle possibili controfigure del protagonista, in una sorta di auto-assedio. Come per una storia già sentita sembra ci sia poco o niente da aggiungere. Sarà? Flebile eppure chiaro, disperso qua e là nel testo, emerge il parallelo con le vicende di una figura, recentissimamente passata dai clamori della cronaca al déjà-vu del lancio delle monetine. Laura Santini


critiCHE/lombardia La mite

Milano, trionfo di one-man-show per Dostoevskij e Puškin

S

ignori, anche a teatro c’è la crisi. Il nuovo motto è austerity: bisogna risparmiare, tagliare, ridurre. Un fondale, qualche sedia, pochi attori, nessuna comparsa. L’ideale sarebbe uno spettacolo a costo zero. Dunque mai come in questi mesi si è puntato sul one-man-show, come stanno dimostrando la Guarnieri, Battiston, la Melato, Gifuni, la Bergamasco, Russo Alesi. E visto che non sono molti gli autori di monologhi o atti unici a cui si possa ricorrere, gli attori li commissionano su misura o li pescano nei romanzi dove gli eroi sono molto loquaci. Il più sfruttato è Dostoevskij, che non scrisse una sola riga per il teatro e per di più diffidava delle riduzioni teatrali dei suoi romanzi. Eppure eccolo lì, sulle scene milanesi, in cima alle classifiche degli involontari drammaturghi. Chi ne ha approfittato di più è stato Roberto Trifirò, certamente il più dostoevskiano tra i nostri interpreti. Due monologhi, tratti da altrettante opere dell’autore dei Karamazov: Memorie dal sottosuolo alla Sala Fontana e La mite al Parenti, due racconti in prima persona, due contorti itinerari interiori in cui affiorano inquietudini, angosce, disperazioni. Nel primo caso Trifirò è da solo: esplora con maestria i meandri oscuri di un piccolo ex-impiegato, si crogiola nella ricerca del perché di frustrazioni, fallimenti, umiliazioni. E racconta qualche episodio della sua vita passata per far capire al lettore-spettatore da dove nasce la sua ipocondria, la sua tetraggine. Ne La mite, dove è diretto con rigore da Monica Conti, ha accanto una presenza quasi sempre muta ma di grande effetto, Federica Rosellini, bravissima nella parsimonia di gesti: un marito, di fronte al cadavere ancora caldo della moglie suicida che si è lanciata dal sesto piano ab-

bracciata a un’icona, racconta la storia del loro rapporto a partire dal primo incontro. Lui è un usuraio trentacinquenne, lei una sedicenne poverissima che per mantenersi porta poveri oggetti in cambio di qualche rublo. A lui fa comodo una moglie giovane, sottomessa, servizievole: e le fa la proposta. La sciagurata accetta: e inizia un rapporto tra un marito padrone che impone severe regole, ferrea disciplina, obbedienza assoluta e una moglie ansiosa di premure, tenerezze, condivisione. Tra i due, per volontà di lui, cala una cortina di silenzio, una totale assenza di comunicazione, un’ostilità per tutti e due intollerabile. E la vita di lei si fa sempre più chiusa, desolata, avvilita: fino al gesto finale. Trifirò è magnifico nel raccontare il crescente disastro affettivo, la perversa dinamica di soggezione e aggressività, di prepotenza e umiliazione, la brutale cecità maschile di fronte alla smarrita sofferenza femminile. Pochi gesti, nessun eccesso, molta tensione: lo spettatore segue il racconto con sospesa angoscia fino al tragico esito. Uno spettacolo di grande rigore, di grande forza: chi l’ha perso è un babbeo. Al Teatro Libero altre due riduzioni dostoevskiane: Alberto Oliva ha ripreso Notti bianche con due giovani interpreti, Stefano Cordella e Vanessa Korn, di ammirevole spontaneità e naturalezza. Il racconto, da Visconti in poi, ha avuto molte versioni teatrali e cinematografiche: Oliva ne fa un gioco di ragazzi, un timido, impacciato incontro tra due adolescenti alle soglie della vita e dell’amore, una storia di solitudini e di fantasie, di reticenze e di confessioni. Bella soprattutto la seconda parte dove si parla meno e ci si muove di più: ci sono poetiche soluzioni gestuali, allegri girotondi, liberi scoppi di giocosa felicità. Ne I demoni c’è un capitolo di cui la censura zarista

vietò la pubblicazione: si parlava in modo troppo esplicito di pedofilia. È la confessione che scrive uno dei protagonisti, Stavrogin, per consegnarla al priore di un vicino convento, Tichon. Un testo di lucida disperazione: Stavrogin confessa lo stupro di una bambina, confessa la sua perversione, la sua totale assenza di principi morali. Mino Manni in La confessione ha una inquietante freddezza, una normalità di toni talora sconvolgente, alcune risate che sono davvero agghiaccianti: una bella prova d’attore. Due brande, due camere contigue in una casa “di riposo e creazione” (così venivano chiamate in Unione Sovietica le modeste pensioni dove artisti e letterati potevano passare gratuitamente periodi di vacanza più o meno coatti), due vecchi attori che cercano di reagire al grigiore delle loro esistenze organizzate dal partito leggendo frammenti del romanzo in versi dell’autore della Donna di picche. Curiosa, intelligente, originale operazione: Flavio Ambrosini, anche regista, e Magda Poli hanno sovrapposto, in Evgenij Onegin, due piani, la stanchezza malinconica dei due attori e l’ardente passione dei due protagonisti puskiniani. Massimo Loreto è un attore di grande sensibilità, di autentico estro: è insieme ironico, allusivo, intenso, struggente e fa del protagonista Onegin un dandy ipocondriaco, bizzarro, narcisista, imprevedibile. Altrettanto brava Annina Pedrini, che fa di Tat’jana, in Puskin eroina appassionata e sincera, orgogliosa e fedele, un personaggio a tutto tondo, sofferto e struggente. Fausto Malcovati

MEMORIE DEL SOTTOSUOLO, di Fedor Dostoevskij. Regia e drammaturgia di Roberto Trifirò. Con Roberto Trifirò e Beatrice Facconi. Prod. Elsinor, MILANO. LA MITE, di Fedor Dostoevskij. Drammaturgia di Monica Conti, Filippo Soldi, Roberto Trifirò. Regia di Monica Conti. Con Roberto Trifirò e Federica Rosellini. Prod. Teatro Franco Parenti, MILANO. LE NOTTI BIANCHE, da Fedor Dostoevskij. Adattamento e regia di Alberto Oliva. Scene di Cecilia Cosulich e Francesca Cioccarelli. Musiche di Danilo Attanasio. Con Stefano Cordella e Vanessa Korn. Prod. Associazione I Demoni, MILANO. LA CONFESSIONE. IL CAPITOLO CENSURATO DEI DEMONI, da Fedor Dostoevskij. Adattamento e interpretazione di Mino Manni. Collaborazione di Alberto Oliva. Prod. Associazione I Demoni, MILANO. EVGENIJ ONEGIN, di Aleksandr Puškin. Adattamento di Magda Poli e Flavio Ambrosiani. Regia di Flavio Ambrosiani. Con Massimo Loreto, Annina Pedrini, Silvano Bregante, Marcello Spinetta. Prod. Teatro Franco Parenti, MILANO.

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criticHE/lombardia

PRO & CONTRO

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ccetto il match che mi propone Claudia Cannella e mi metto dalla parte del “pro”. Così per una volta infilo la toga professorale (che di solito per Hystrio depongo) e do voti a tutti. Mogucij: 28 sulla fiducia. Il ragazzo (50 anni il 23 novembre!!) ha talento da vendere ma la prova non è stata all’altezza. Capitano studenti asini ma con un cervello funzionante: sono del parere che, come in questo caso, va premiato il cervello. Cominciamo col dire che Pro-Turandot è uno spettacolo poco esportabile: già difficile da capire per un pubblico russo medio, diventa indecifrabile con la traduzione in cuffia, approssimativa, affannata, zoppicante. Poi: sono passati otto anni da quando fece accorrere tutta Pietroburgo in uno sfigatissimo teatrino di poche decine di posti. Di strada da allora Mogucij ne ha fatta e come: tanto di cappello. Dunque l’esperimento non è da sottovalutare: Gozzi è una scusa, l’invenzione di cinque eunuchi che commentano l’azione sputando veleno su tutto e tutti è ben trovata, attori e regista usano la fiaba per imbastire un pamphlet cattivo, ironico contro tirannie, soprusi, prevaricazioni di ieri e di oggi. Morfov: 27 un po’ tirato. Un buon Don Giovanni. Forza, energia, belle invenzioni gestuali, abbastanza canaglia il protagonista che passa dalla sfrontatezza del primo tempo alla depressione del secondo, interessante il Commendatore che discute con il seduttore, lo affronta ad armi pari e non lo trascina all’inferno. Non memorabile, ma si esce contenti. Spivak: 23 per simpatia nei confronti della colonia russa che compatta lo ha osannato e si è commossa guardando le vecchie zie tutte trine e pizzi, le processioni nuziali con le candele, l’happy end zuccheroso, il birignao di alta classe di tutta la compagnia. Anche a me piacciono le vecchie zie che of-

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frono tè in tazze di porcellana trasparente e pasticcini che sanno di buon burro, ma a teatro preferisco evitarle. Spivak è l’opposto di Mogucij: ha studiato, è diligente, ma niente di più. Il testo del mediocrissimo Aleksej Tolstoj poteva anche essere lasciato nel dimenticatoio in cui era finito da decenni. Ma lo spettacolo ha davvero un certo fascino dolce, malinconico, un po’ stucchevole di vecchio teatro fatto bene, da grandi professionisti che sanno come commuovere. Lochov e le sue marionette. Erede di una tradizione secolare, inventa per ogni spettacolo nuove marionette, ha uno staff prodigioso di animatori che muovono con straordinaria grazia e ironia tutti i personaggi. Le Tre melarance gozziane sono tutte da godere: non sono un giudice imparziale, amo le marionette e ho amato quelle di Lochov, così vivaci, allegre, buffe, poetiche. So che quegli intellettualoni presuntuosi e supponenti di Hystrio arricceranno il naso, ma do un affettuoso trenta, anche per l’entusiasmo con cui l’intera compagnia ha accolto grandi e piccoli milanesi. Ccheidze: 27, sì proprio 27. Ha trasformato un insopportabile drammone, grondante crudelissime efferatezze e tormentoni moraleggianti in uno spettacolo asciutto, energico, lucido, addirittura a tratti emozionante. Noioso? Colpa di Lev Tolstoj, magistrale romanziere ma drammaturgo soporifero, ridondante, impacciato. È vero che ogni tanto i bravissimi attori si strappano i capelli e portano le mani al cuore, ma poi sanno ricalibrare i toni, diventano vitali, incisivi. Dodin: 30 e lode. Resta magistrale il suo Zio Vanja, capolavoro di intensità, rigore, intelligenza. Sublimi tutti gli interpreti, belli, convincenti, impetuosi, sottili. Il miglior Zio Vanja degli ultimi decenni. Tre sorelle malinconiche, autunnali fin dal primo atto che tutti fanno solare, primaverile: in-

fagottate in cappotti sgraziati, sempre con l’occhio verso il fallimento, verso quella Mosca che non vedranno mai, un fratello adolescente ciccione, impacciato, immaturo, una cognata ferma, determinata, per nulla sguaiata, isterica, versione troppo facile di tutti i nostri registi. E Vita e destino? Una magnifica drammaturgia che mescola i temi del capolavoro di Grossman con chiarezza, coerenza, durezza. I fantasmi della nostra storia recente compaiono allucinanti e chiedono di non essere dimenticati. Tre spettacoli da vedere e rivedere. Fausto Malcovati

PRO TURANDOT, da Carlo Gozzi. Regia di Andreij Mogucij. Scene di Emil Kapeliush. Luci di Evghenij Gansburg. Musiche di Vladimir Bychkovskij, Aleksandr Cernov, Vitalij Saltykov. Con Marina Solopcenko, Aleksandr Ronis, Dmitrij Gotsdíner, Vitalij Saltykov, Andrej Noskov, Andreij Scimko, Daniela Stojanovich, Svetlana Michailova, Olga Karlenko, Denis Scirko. Prod. Teatr Priut Komedianta, SAN PIETROBURGO. DON GIOVANNI, da Molière. Adattamento e regia di Aleksandr Morfov. Scene di Aleksandr Orlov. Costumi di Irina Cherednikova. Con Aleksandr Bargman, Vladimir Bogdanov, Evghenia Igumnova, Aleksandr Vontov, Elena Andreeva, Vladimir Krylov, Ivan Vasiljev, Gheorghij Korolciuk e altri 9 attori. Prod. Teatro Vera Komissarzhevskaja, SAN PIETROBURGO. KASATKA - LA RONDINE, di Aleksej Tolstoj. Regia di Semion Spivak. Scene di Marat Kitaev e Michail Platonov. Costumi di Michail Vorobejcik. Con gli attori del Teatro della Gioventù sulla Fontanka. Prod. Teatro della Gioventù sulla Fontanka, SAN PIETROBURGO.


critiCHE/ lombardia

Ottobre Russo al Piccolo: San Pietroburgo si fa in otto

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on la scusa dei voti, il professore è stato fin troppo buono! Ma, se voti si devono dare, partirei con un bel 21 come valutazione globale dell’operazione “San Pietroburgo a Milano”. È vero che le due città sono da tempo gemellate, è vero che Dodin è sempre stato di casa al Piccolo. Ma la sensazione è che sia stato acquistato il classico “pacco” preconfezionato con poco margine di scelta su quanto effettivamente offre la scena sanpietroburghese. In questa confezione deluxe, anche per il prezzo dei biglietti, i tre spettacoli firmati da Dodin se ne stavano aristocraticamente arroccati in

L’AMORE DELLE TRE MELARANCE, di Carlo Gozzi. Regia di Dmitrij Lochov. Marionette di Tatjana Melnikova. Musiche di Tatjana Alioscina. Prod. Teatro delle Marionette Evghenij Demmeni, SAN PIETROBURGO. LA POTENZA DELLE TENEBRE, di Lev Tolstoij. Regia di Temur Ccheidze. Scene di Eduard Kocergin. Costumi di Svetlana Bystrova. Luci di Vladislav Vlasov. Musiche di Nikolaij Morozov. Con Anatolij Petrov, Tatjana Aptikeeva, Nina Aleksandrova, Elena Shvariova, Polina Tolstun, Dmitrij Bykovskij e altri 11 attori. Prod. Bol’shoi Drama Theatre, SAN PIETROBURGO. TRE SORELLE e ZIO VANJA, di Anton Cechov. VITA E DESTINO, di Vasilij Grossman. Regia di Lev Dodin. Scene di Aleksander Borovskij (Tre sorelle), David Borovskij (Zio Vanja), Alekseij Poraij-Koshits (Vita e destino). Costumi di Aleksander Borovskij (Tre sorelle). Con gli attori del Malij Teatr di San Pietroburgo. Prod. Malij Teatr, SAN PIETROBURGO.

coda alla rassegna ma, per arrivarci, il percorso non è stato certo una passeggiata, anche perché i russi hanno una concezione del tempo scenico molto diversa dalla nostra: marionette a parte, se non si sta inchiodati in sala almeno tre ore, non si può dire di essere stati a teatro. E quel famoso virtuosismo attorale di cui sono orgogliosissimi, spesso per noi si traduce in manierismo compiaciuto, in gergo “caccole”. Per non parlar del fatto che, prima di glasnost e perestrojka, ben pochi artisti russi potevano mettere il naso fuori dai confini e altrettanto pochi artisti occidentali potevano metterlo in Russia: cosa che, per quanto riguarda il teatro di ricerca, qualche evidente “ritardo” lo ha creato. Se poi i testi portati in scena vanno da metà Seicento a metà Novecento (un Molière, due Gozzi, due Tolstoj, Aleksej e Lev, due Cechov, un Grossman), come se dopo non fosse successo niente altro di interessante nella drammaturgia russa (ma che fine hanno fatto Koljada, Galin, Vyrypaev?), allora il rischio che il pacco sia anche polveroso si fa assai concreto. Ma entriamo nel merito dei singoli spettacoli, voti alla mano, per contrastare almeno in parte il buonismo del prof. Mogucij, 20: il più atteso e il più deludente. Un Gozzi che doveva essere dissacrante e rivoluzionario, ma che ricorda gli spettacoli dell’Elfo degli esordi. Il prof. dice che è uno spettacolo di otto anni fa e che allora era stato dirompente. Ma allora perché non portarci qualcosa di più recente? Forse una vendetta perché il Piccolo continua a propinar loro solo Arlecchino? Morfov, 24: è bulgaro, ma facciamo finta di niente. Il suo Don Giovanni è un pasticcio che mescola a casaccio tradizione e teatro di ricerca, per cui in scena troviamo suggestioni da opera lirica, musica rock, una bicicletta ecc. Il protagonista però non è male, molto tamarro, ma con un suo fascino da seduttore indolente e consapevole della fine che lo attende. Spivak: se fosse realmente uno studente, gli chiede-

rei di ripresentarsi alla prossima sessione con un testo più significativo e un piglio, suo e della compagnia, un po’ meno filodrammatico. Lochov, qui il prof. mi frega, anche a me piacciono molto le marionette! Certo, il voto che lui dà è molto alto, io mi fermerei a un 27. Ancora Gozzi, chiodo fisso dei russi, ma questa volta è la celeberrima fiaba dell’Amore delle tre melarance, che ben si presta al garbo, all’ironia, alla poesia giocosa delle buffe marionette con le teste grosse del Teatro Evghenij Demmeni. Ccheidze, 18: la tipica punizione fantozziana, con la differenza che almeno La corazzata Potëmkin era un capolavoro. Qui Tolstoj (Lev), che effettivamente era un pessimo drammaturgo, ci ammorba con un polpettone edificante, manco fossimo dissidenti da rieducare. Ma la cosa più grave è che regista e interpreti assecondano la noiosissima, stentorea retorica che pervade il testo. Dodin: rimane il fuoriclasse assoluto, anche quando non tutte le ciambelle gli riescono col buco. Vorrei però differenziare i voti: Tre sorelle 25, Vita e destino 27, Zio Vanja 30 e lode. Il più atteso era Tre sorelle (gli altri due erano già passati da Milano), ma ha parecchio deluso. Dodin ha puntato su uno solo dei molteplici registri cechoviani: quello tetro e depressivo. Risultato: una marcia funebre fin dalla prima battuta, nonostante l’innegabile bravura dei suoi attori. Solido Vita e destino, ma la complessità dell’epopea di Grossman non si è lasciata del tutto domare dal regista siberiano. Il capolavoro resta però Zio Vanja: qui Dodin riesce a realizzare quella miracolosa alchimia tra vaudeville e tragedia che tanto sarebbe piaciuta a Cechov, con attori in stato di grazia. Claudia Cannella Nella pagina precedente, Tre sorelle e Pro Turandot; in questa pagina, La potenza delle tenebre e L'amore delle tre melarance.

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criticHE/lombardia regia di hermanis

Alla recherche della Russia perduta SHUKSHIN’S STORIES, di Vasilij Shukshin. Regia di Alvis Hermanis. Scene di Monika Pormale. Con Evgenij Mironov, Chulpan Khamatova, Julia Svezhakova, Natalia Nozdrina, Dmitrij Zhuravlev, Alexander Grishin, Alexander Novin, Pavel Akimkin. Prod. Teatro delle Nazioni, MOSCA. in tournÉE È un peccato che in Italia nessuno (o quasi) conosca Vasilij Shukshin, morto a 45 anni nel 1974: in Russia è un mito non ancora appannato a più di trent’anni dalla scomparsa. Scrittore tra i più letti della sua generazione, sceneggiatore dei suoi romanzi, regista, attore, ha raggiunto con la sua vasta produzione letteraria e cinematografica una popolarità a dir poco leggendaria. Nato nella regione siberiana dell’Altaj (dove ha ambientato molte delle sue opere e in particolare i racconti scelti da Hermanis per il suo spettacolo), ha raccontato la vita semplice dei contadini della sua terra d’origine, il difficile sradicamento di molti di loro, attirati dai più sicuri guadagni che la città offriva, e insieme il disagio di una vita diversa, lo scontro tra chi restava e chi se ne andava per poi tornare con i segni del raggiunto benessere. È questo uno dei problemi più scottanti degli anni brezneviani: la graduale perdita dell’identità contadina, l’avvento di nuove generazioni che dei padri hanno perduto valori, affetti, legami. Tutti in Russia l’hanno vissuto. Ecco perché nelle due serate al Teatro Parenti di Milano la platea rigurgitava di russi commossi, entusiasti, elettrizzati nel ritrovare in scena frammenti del loro passato per nulla dimenticato. Sì, per loro lo spettacolo di Hermanis è stato una recherche a tratti commovente: per esempio la storia di un paio di stivali che un marito porta trionfalmente in dono alla moglie dalla città e che si rivelano troppo stretti (ma vanno bene alla figlia, anche se non ha mai portato tacchi così alti e barcolla indossandoli) è un topos degli anni in cui trovare da vestirsi era un’impresa quasi impossibile. Tutti i racconti hanno questo sottofondo di vita vissuta che al pubblico italiano sfugge: un sottofondo forse banale, forse insignificante, ma descritto da Shukshin in modo spassoso, ingenuo, diretto, messo in scena da Hermanis con ritmi impeccabili, aiutato da un gruppo di attori perfetti nei tempi comici, nelle intonazioni dialettali, nella mimica buffa, nella gestualità rozza, negli stornelli intonati tra una scena e l’altra. Su tutti domina Evgenij Mironov, attore amato da Nekrosius e da Peter Stein, versatile, abilissimo nel mutare stile, nell’infilarsi nei panni di sei o sette diversi personaggi. La scena è spoglia: due lunghe panche al proscenio, alle spalle una serie di pannelli fotografici (bellissime le foto di paesaggi e di volti contadini di Monika Pormale) che vengono cambiati a ogni nuova storia. Uno spettacolo non indimenticabile, ma semplice, limpido, efficace, energico, vitale. Da vedere con gli occhi di chi sa che cosa sono stati gli anni brezneviani, che cosa ha voluto dire il massiccio inurbamento dell’inizio degli anni Settanta, e di che cosa ancor oggi vuol dire vivere nei villaggi a migliaia di chilometri dalla civilissima Mosca piena di ipermercati e dall’aristocratica Pietroburgo, villaggi dove ancor oggi non arrivano i più elementari generi alimentari. Hermanis ci parla anche di questo. Forse temi a noi estranei. Ma lo spettacolo non annoia e gli attori valgono la serata. Fausto Malcovati

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Elettra, luci e ombre del varietà d'antan ELETTRA, BIOGRAFIA DI UNA PERSONA COMUNE, tratto dalle parole di Elettra Romani. Drammaturgia di Nicola Russo e Sara Borsarelli. Regia di Nicola Russo. Scene, costumi e video di Giovanni De Francesco. Luci di Cristian Zucaro. Coreografie di Stefano Bontempi. Con Sara Borsarelli e Nicola Russo. Prod. Monstera, MILANO. in tournÉe Una vita sulla scena. Così si potrebbe riassumere la storia di Elettra Romani al centro di Elettra, biografia di una persona comune di Nicola Russo. Non è poi così importante se la scena in questione non è un palcoscenico nobile, quello del teatro con la “T” maiuscola, ma l’universo plebeo dell’avanspettacolo. Nata nel 1927 in un paesino in provincia di Frosinone, dopo un’infanzia e un’adolescenza difficili Elettra approda al mondo dello spettacolo giovanissima, un po’ per caso e un po’ per disperazione, iniziando come ballerina in una compagnia di giro. È un’ascesa lenta e costellata di stenti e dolori – la miseria, la fame, le umiliazioni, la nascita di una figlia che non può tenere con sé –, ma Elettra ce la fa, affermandosi prima come soubrettina e poi come attrice, sino all’incontro con Alfonso Tomas, suo compagno d’arte e di vita per quarantasei anni. Con lui attraversa le ultime stagioni di gloria dell’avanspettacolo e la sua definitiva scomparsa. Sulla scena spoglia, Nicola Russo e Sara Borsarelli, anche autori della drammaturgia, danno vita a un flusso ininterrotto a due voci di parole, canzoncine, sketch e passi di danza che richiamano l’epoca del varietà. In abiti identici – una maglietta e un paio di braghette bordate di paillettes – gli attori si alternano continuamente nel dare corpo alla protagonista e alle persone che incontra sulla sua strada. A fare da controcanto muto alla loro lingua verace, colorita dalla cadenza romanesca, è il primo piano di Elettra Romani proiettato su uno schermo in fondo al palco: mentre il racconto procede, sul suo

volto si legge lo scorrere delle emozioni che vengono evocate dagli attori in scena. Canto d’amore al mestiere dell’attore, Elettra ha i suoi punti di forza nella semplicità, nel garbo affettuoso con cui si approccia alla biografia di una persona al contempo comune e straordinaria, e nel toccante coup de théâtre finale. Valeria Ravera

Il teatro-canzone di Pacifico BOXE A MILANO, drammaturgia, regia e interpretazione di Pacifico. Prod. Irma Spettacoli, MILANO. in tournÉe C’era una volta una canzone. Boxe a Milano era il titolo. Parlava dell’altro lato della boxe, quello meno epico, e di uno sportivo, Callegari, che non vinceva mai e che pure voleva continuare a combattere. Passano gli anni e Gino De Crescenzo, in arte Pacifico, l’autore di quella canzone, decide di farne uno spettacolo. Non ha esperienze alle spalle - è solo un cantautore -, ma una tradizione in cui inserirsi sì: la tradizione di Gaber e di Jannacci, di Moni Ovadia e, in genere, del teatro canzone. Pacifico prende nota, osserva i maestri, ma quella che introietta nel genere è, essenzialmente, opera sua. E forse proprio questo è il pregio fondamentale dello spettacolo: la sincerità. Nelle sue coordinate essenziali, il senso del testo è rimasto quello della canzone. Nulla di eclatante: un uomo, nel quale è facile riconoscere l’ex campione Agostino Sella, viene coinvolto in una rissa. Vittima di un violento trauma, perde la memoria e si rifugia in un magazzino nel retro della piccola tipografia di famiglia, ove incontra altri personaggi, come lui vinti dalla vita. Pacifico ne restituisce le emozioni, i pensieri. E lo fa con discrezione, limitandosi a sottolineare con lo strumento che meglio conosce – la canzone – gli snodi tematici più importanti, quasi fossero l’attualizzazione al presente dei cori della tradizione. Molto, è vero, ci sarebbe da dire, riguardo all’interpretazione e la drammaturgia. Così, lo stadio dei personaggi non supera quello abbozzato nelle canzoni, manca-


critiCHE/lombardia Educazione fisica.

no i volti, non ne udiamo le voci, non ci vengono restituiti i dettagli, senza il filtro di un commento esterno. Di più, troppo esile pare essere lo spunto iniziale per giustificare a fondo l’operazione, più che altro limitata alla giustapposizione di idee e sensazioni. Limiti di cui Pacifico pare essere consapevole, ma che pure non riescono a sfatare la sensazione di trovarsi dinanzi a un qualcosa di genuino, in cui è facile identificarsi. E tanto basta per applaudire questa prima, tenera prova d’autore. Roberto Rizzente

viso. Buone le interpretazioni del protagonista, dell’avvocato e in generale emerge una coralità che può essere un punto di forza da far fruttare con il ricorso alla misura. Lo spettacolo nel complesso è godibile, andrebbe accorciato, mondandolo proprio di quelle parti in cui le creatività comuni non hanno saputo abdicare al proprio egoistico istinto di lasciare un segno distintivo e distinguibile. Come nelle migliori filosofie orientali, nel meno c’è il più, mentre spesso nel più c’è meno. Renzo Francabandera

Kafka in condominio

Le geometrie del silenzio del Teatro delle Moire

IL PROCESSO, da Franz Kafka. Un progetto di BabyGang - Sanpapié Band à Part. Testi di Carolina De La Calle Casanova e Sarah Chiarcos. Regia di Paolo Giorgio. Coreografia di Lara Guidetti. Musiche di Marcello Gori. Con gli attori delle tre compagnie. Prod. Progetto PUL, Compagnie in Residenza – Tieffe, Teatro Stabile d’Innovazione, MILANO. E se non fosse il sistema a sconfiggere la nostra ricerca di altro, ma fossimo noi stessi a condannarci a un perenne Truman Show nei confronti del potere costituito senza mai tentare di rompere la bolla, di aprire la porta di quell’universo di sorci in cui spesso ci pare di condurre l’esistenza? Deve essere stata questa la riflessione di partenza delle tre compagnie in residenza presso lo spazio Mil di Sesto San Giovanni (Mi), sostenute dal progetto Être della fondazione Cariplo, per lo spettacolo di fine triennio. BabyGang, Sanpapié e Band à Part decidono di dar vita a una creazione unica, che nasce da sforzi comuni e che rilegge il classico di Kafka portando la riflessione sul senso del vivere in una società scandita dai tempi della burocrazia, dall’insormontabile montagna di obblighi sociali, che poco restituiscono all’essere umano in termini di poesia, di colore: bella la sciarpa rossa della donna di cui K si innamora (come il cappotto della bambina in Schindler’s list, del resto), contrapposta all’assenza di colore, al grigio che regna sovrano, alle maschere tutte uguali in stile Maus di Spiegelman con cui gli indistinti personaggi coprono il

IT’S ALWAYS TEA-TIME, di Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani. Dramaturg Renato Gabrielli. Luci e suono di Paolo Casati. Con Gianluca De Col, Alessandra De Santis, Attilio Nicoli Cristiani, Emanuele Sonzini. Prod. Teatro delle Moire, MILANO. Dall’isola che non c’è alla festa che non c’è. Ecco, in sintesi, il percorso del Teatro delle Moire negli ultimi due anni. Il fluire indiscreto di un’assenza. L’evocazione di un mondo, una dimensione che esiste solo nella mente degli interpreti. C’è un elemento, mutuato dalla realtà, che domina in scena, e tanto basta. Tutto il resto, ciò che sta intorno, è un portato della psiche, o forse dell’infanzia. L’elemento in scena, qualunque esso sia - un baule, piuttosto che una tavola imbandita - è una porta sospesa sul tempo. Scatena il gioco, il can-can dei travestimenti. Che si traducono, presto, in una coreografia leggerissima di corpi e dissolvenze, che a tratti indugia alla pantomima. Il mondo delle Moire è tutto qui, nella descrizione da un lato della distanza, e dall’altro del tentativo di colmarla, questa distanza, in via apparentemente giocosa, e spesso con risultati fallimentari. Nel caso di It’s always tea-time, tutto muove da un banchetto. C’è una tavola, imbandita, nel bianco candido della sala. Lecito aspettarsi un ricevimento. I convitati - o forse solo dei passanti - arrivano, a uno a uno. Attratti, irresistibilmente, dalle tazzine, i piatti e i bicchieri in tavola, imbastiscono un finto banchetto.

Bisticciano, litigano per futili motivi. Si nutrono di niente, un cibo che non esiste e che invano tentano di sostituire con degli animali in plastica, o se stessi, sdraiati nudi sui piatti. Evidente, come nel precedente Never, never, neverland, è il richiamo al grottesco, il surreale. Irrobustito, qui, dalla presenza di un drammaturgo di peso come Renato Gabrielli, bravo a rielaborare lo spunto di partenza - Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll - in una drammaturgia calibratissima e sorvegliata di corpi e movimenti, tutta giocata sul silenzio, che dà ordine e rigore ai tanti spunti disseminati nel precedente lavoro, eliminando i tempi morti e distillando il linguag gio. Come nel pr eceden te Neverland tuttavia, anche questa produzione pecca, a tratti, d’intellettualismo. La partitura delle micro-azioni è esatta e partecipata, ma dovrebbe dirci qualcosa di più su noi stessi, il mondo che ci portiamo dentro. Toccarci, con maggior convinzione, nel profondo. Roberto Rizzente

Rivoluzione in palestra EDUCAZIONE FISICA, di Elena Stancanelli. Progetto e regia di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. Scene di Petra Trombini. Luci di Cristian Zucaro. Con Enrico Ballardini, Sabino Civilleri, Alice Conti, Giulia D’imperio, Daniele Giacomelli, Veronica Lucchesi, Dario Mangiaracina, Dario Muratore, Chiara Muscato, Quinzio Quiescenti, Alessandro Rugnone, Francesca Turrini, Marcella Vaccarino, Gisella Vitrano. Prod. Crt, MILANO. in tournÉe Si osserva come da esterni. Lo sguardo un poco limitato, neanche si spiasse da uno di quei finestroni orizzontali delle palestre. In scena un’ora di educazione fisica (appunto). Tredici ragazzotti casinisti e bellissimi alle prese col basket, in una follia verista di gesti, vitalità, colori. Tredici ragazzotti da piegare alle

gerarchie, da inquadrare in metodi spartani (i deboli verranno esclusi) per un solo scopo: la vittoria. Bisogna vincere, vinceremo? Metafora affascinante, specie per l’inconsueta piega sportiva. E acuta, fosse solo per le opportunità performative cui si presta e certi rimandi politico-sociali da atletismo fascista. Dallo spunto il testo della Stancanelli, che Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco scelgono per il loro primo progetto e regia lontani dalla Compagnia Sud Costa Occidentale fondata con Emma Dante. Produzione importante, per numeri e ambizioni. Non delude. Perché il lavoro è bellino, gioca sulle reiterazioni e su un caos organizzato che strizza l’occhio a un’estetica semplice ma di grande impatto. Dove è sufficiente una panchina, l’odore degli spogliatoi, il lento adeguarsi dei ragazzi al passo marziale, alle dinamiche di gruppo e alle sue vittime. C’è violenza, meschinità. Perché è nel conflitto che si attua la spersonalizzazione del singolo, verso un’identità plurale che puzza di caserma esistenziale. A indicare la via un insegnante torvo e smagrito, che, come Léon di Luc Besson, pare amare più la sua pianta che gli esseri umani. Curioso il suo ruolo, capace di passare da una certa comicità slapstick iniziale a burattinaio unico e potentissimo che esclude e dispensa favori. Divide et impera, funziona da sempre. Non qui. A credere alla breve rivoluzione che chiude il lavoro, il duce accasciato al suolo, i ragazzi liberi ma in ogni caso ormai ordinatamente in “uniforme” sulle panche. Con un gesto di vittoria alla Winston Churchill che si alza (quasi) timido fra le fila. Immagine forte. In un finale però che ci si sarebbe attesi più enfatico e vissuto. Ma la chiave è estetica, non drammaturgica. Nonostante la metafora. In un ritmo serrato che affascina, spinge a un climax di mezza serata e poi cala. E allora le reiterazioni rischiano di divenire ridondanze, il gioco un poco ripetitivo come certe squadre di provincia. Ma si esce soddisfatti. Piace. Specie per quei momenti di simbolo e follia che ricordano utopie zemaniane. Lui sì il migliore, da sempre. Diego Vincenti

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criticHE/lombardia

Premio Scenario 2011 Che cosa pensano i vitelli?

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rent’anni, o giù di lì. Produrre diventa sempre più difficile, e ancor più investire. Restano ancora i Premi, con i loro bilanci minuscoli, i loro riconoscimenti, le segnalazioni, a dare una mano alle speranze e all’indipendenza di chi trent’anni o giù di lì - non si arrende al soffocamento di vocazione e passioni. Da tredici edizioni il Premio Scenario accompagna il crescere di questi artisti e dà valore allo loro infanzia allestendo le “foreste di bambù” in cui trova un habitat il teatro dei panda (l’immagine è di Stefano Cipiciani, al timone del Premio con il direttore artistico Cristina Valenti). Una spinta di visibilità, prima che monetaria (rispettivamente 8000, 5000 e 1000 euro rappresentano il contributo alla produzione), che dà respiro alle idee e al talento delle generazioni del nuovo. Anche quest’anno i quattro progetti selezionati (Premio Scenario, Premio Scenario per Ustica, e due segnalazioni, sulle 238 candidature iniziali) sono andati maturando secondo le tappe d’obbligo (studio di 5’ presentato agli osservatori territoriali, poi 20’ di trailer montato per le selezioni finali, e infine l’allestimento vero e proprio) e sono stati raccolti nelle due serate di Generazione Scenario, all’inizio di dicembre al Teatro Franco Parenti di Milano. Liricamente, con slittamenti di senso e cortocircuiti di idee, InFactory di Matteo Latino (Premio Scenario 2011) fotografa e racconta lo spaesamento dei puledri italiani del teatro. Animali da macellazione perché - suggerisce Latino con delicatezza materna o con il coraggio rumoroso e fragile dei trentenni - si può esplorare per linee parallele il destino di giovani bestie tenute nei box della stabulazione fissa, in vista del futuro macello, e quello di piccoli uomini a cui la società del welfare ha tagliato corna e attributi, lasciando loro un’illusione di libertà, dentro i

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recinti di una vita coatta. Che cosa pensano i vitelli? Che cosa pensano i trentenni? Figlio di una Puglia di agriturismi, allevamenti e mozzarelle, Matteo Latino seleziona le molecole del suo vissuto, le incrocia a personali letture e visioni, combina tarantelle e sonorità techno. Poi indica, ma per accenni, il senso del proprio lavoro e lascia che lo spettatore congiunga i punti. Sono punti trovati su Google, come i tutorial per cuochi sul trattamento del pollame e sul grado di cottura del filetto bovino, che si allargano in danze a specchio, e nel rarefatto finale approdano su uno schermo di pellicola per alimenti, dove Latino e il suo partner di scena, Fortunato Leccese, disegnano sagome col pungente odore della vernice spray e il tappeto sonoro è In this shirt degli Irrepressibles. Ben costruito e toccante, per chi si lascia toccare, InFactory ha saputo far risuonare le sensibilità degli spettatori del Parenti. Ma impossibile sarebbe stato non lasciarsi toccare da Due passi sono dei messinesi Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, Premio Scenario per Ustica 2011. Qui la distanza tra il vissuto e l’immaginato si fa ancor più breve, perché è nel corpo - piccolo, miniaturistico, dei due interpreti - che si impone la verità di una storia d’amore buffa e in miniatura anch’essa. E la stanzetta che sembra uscita da un fumetto e le due figurine da presepe (Pe’ e Cri’, perché anche i nomi si restringono) sono quanto basta a questo Romeo e a questa Giulietta consapevoli delle “gambe molli” e dei limiti fisici che - sottolinea la motivazione del Premio - «anziché spegnere desideri e speranze, diventano grimaldello con cui forzare la porta del futuro». Nella forza di un’idea, più che nel risultato vero e proprio, vanno infine valorizzate le segnalazioni speciali. Spic & Span (dei veneti foscarini:nardin:dagostin) è una coreografia colora-

ta, fresca, scandita da stop-and-go continui, leggermente acidula, soprattutto quando invita a bere tutto un flacone di detersivo. Mentre più impegolati nel face-à-face politico e televisivo e negli acquisti all’Ikea, e quindi succubi dei propri modelli, mi sono parsi gli emiliani ReSpirale Teatro, creatori di L’Italia è il paese che amo. Roberto Canziani

INFACTORY (vincitore Premio Scenario 2011), drammaturgia e regia di Matteo Latino. Con Matteo Latino e Fortunato Leccese. Prod. Teatro Stalla, MATTINATA (Fg). DUE PASSI SONO (vincitore Premio Scenario per Ustica 2011), drammaturgia, regia e interpretazione di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi. Scene di Cinzia Muscolino. Prod. CarulloMinasi/Il castello di Sancio Panza, MESSINA. SPIC & SPAN (segnalazione speciale), drammaturgia e regia di foscarini:nardin:dagostin. Musiche di Tommaso Marchiori. Con Marco D’Agostin, Francesca Foscarini, Giorgia Nardin. Prod. foscarini:nardin:dagostin, BASSANO DEL GRAPPA (Vi). L’ITALIA È IL PAESE CHE AMO (segnalazione speciale), drammaturgia di ReSpirale Teatro. Regia di Veronica Capozzoli. Con Veronica Capozzoli, Antonio Lombardi, Luca Serafini, Emanuele Tumolo. Prod. ReSpirale Teatro, BOLOGNA.

Nelle foto, Infactory e Due passi sono.


critiCHE/lombardia

branciaroli

L’ultimo Lear del vecchio mattatore SERVO DI SCENA, di Ronald Harwood. Traduzione di Masolino d’Amico. Regia di Franco Branciaroli. Scene e costumi di Margherita Palli. Luci di Gigi Saccomandi. Con Franco Branciaroli, Tommaso Cardarelli, Lisa Galantini, Melania Giglio, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Valentina Violo. Prod. Ctb, BRESCIA - Teatro degli Incamminati, MILANO. in tournÉE Circus Klezmer.

Klezmer e nouveau cirque matrimonio nello shtetl CIRCUS KLEZMER, ideazione e regia di Adriàn Schvarzstein. Drammaturgia di Irma Borges. Scene di Miri Yeffet e Tzabar Amit. Costumi di Paulette. Luci di Francis Baena. Con Helena Bittancourt, Luis Nino “Toto”, Alba Sarraute, Joan Català, Adriàn Schvarzstein e (musicisti) Petra Rochau, Rebecca Macauley, Nigel Haywood. Prod. Ateneu Nou Barris, BARCELLONA. in tournÉe Nouveau cirque e tradizione klezmer, un matrimonio che s’ha da fare. Non come quello che, in un villaggio ebraico dell’Europa dell’Est a inizio Novecento, sembra destinato a naufragare tra mille impicci causati dalla fibrillazione da preparativi che ha stravolto l’intera comunità. Nell’ordine: lo Scemo del Villaggio ha perso le fedi nuziali, la bisbetica madre della sposa tenta di tradire il marito col primo che passa, l’alcol scorre a fiumi e nessuno è astemio. Ma l’happy end non poteva mancare e addirittura un doppio matrimonio sarà celebrato in un tripudio festoso di musiche, gags e momenti di romantica poesia. Una trama esilissima, quella di Circus Klezmer, grosso modo un canovaccio. Ma già questo, cioè la presenza di una storia, insieme all’assenza di animali, giustifica il marchio di nouveau cirque sotto cui rubricare lo spettacolo di Adriàn Schvarzstein visto al Teatro Parenti di Milano. È un lavoro estremamente semplice dal punto di vista drammaturgico, ma di eccezionale efficacia in virtù di un ensemble di alto livello e grande affiatamento. Lo si nota fin dalle prime battute, dalla grazia lieve e diver-

tita con cui la compagnia, mescolata al pubblico nel foyer, invita gli spettatori ad entrare in sala. Giochino mai facile. E gli spettatori saranno poi coinvolti durante tutto lo spettacolo, in un continuo spostarsi dell’azione dalla scena alla platea. Ma nulla è forzato, tutti ci stanno e si lasciano andare al piacere infantile della semplicità, che poi in questo caso è in realtà un distillato di complessità, di raffinata sapienza artigianale e duro lavoro preparatorio. In un fuoco di fila di giochi clowneschi e numeri acrobatici, gli ostacoli alle nozze saranno superati e tutti per qualche minuto ci sentiremo abitanti di quello sperduto shtetl pronti a festeggiare gli sposi, magari con la lacrimuccia d’ordinanza. Claudia Cannella

Tre sorelle da camera LE TRE SORELLE, da Anton Cechov. Progetto, regia e interpretazione di Monica Faggiani, Paola Giacometti, Raffaella Boscolo. Prod. Teatrouvaille, MILANO.

Dentro un teatro di fasti ormai trascorsi, un vecchio capocomico cerca di portare a termine la replica di un Lear che, nella sua memoria, si confonde con brandelli di altri spettacoli del Bardo. Attorno a lui una corte di mezze figure, dal tratto ora isterico, ora approfittatore, fino al vecchio attore disilluso e alla devota tuttofare di compagnia. Servo di scena è la divertente drammaturgia di Harwood, che Franco Branciaroli ha scelto per l’apertura della stagione al Ctb, lo storico Centro Teatrale Bresciano di cui è consulente artistico. Il testo racconta di un piccolo mondo, uno spaccato della realtà teatrale di tutti i giorni, una geniale tipizzazione delle figure che vivono attorno al mondo dello spettacolo, che chiunque ne sia frequentatore poco più che occasionale non fatica a riconoscere. La scenografia di Margherita Palli è imponente e si sviluppa su due piani che riempiono tutto lo spazio agibile: un sottoscala, che ospita i camerini, sconquassati e decadenti, e il piano superiore, che è in realtà il palcoscenico di un teatrino di città, di cui lo spettatore osserva il dietro le quinte. In questi spazi, illuminati dalle sempre attente luci di Gigi Saccomandi, si agita un universo piccolo piccolo, che cerca di sopravvivere a se stesso e alle bombe di una guerra di cui sentiamo lontana eco. Tutto finisce: il capocomico, la compagnia, il teatro. La tenuta d’insieme dell’allestimento è buona con, paradossalmente, maggior ritmo nel primo atto, costruito attorno all’attesa della replica del Lear e in cui nulla davvero accade, che nel secondo, più denso di eventi che si susseguono tumultuosi. Nel finale l’emotività frena, in concomitanza con il passaggio dall’intonazione ironica, più riuscita e interessante, a quella drammatica, più didascalica: dalla scenografia fino alla recitazione viene via via meno lo spazio per l’immaginazione, per la fantasia dello spettatore, che sempre dovrebbe avere qualche costruzione incompiuta, qualcosa da riempire con le sue congetture, le sue ipotesi, mentre qui è tutto detto, e dunque, con l’andare dello spettacolo, si intuiscono scelte artistiche ed esiti drammaturgici e non si ha poi nulla di cui sorprendersi.

Renzo Francabandera

Queste tre sorelle si presentano con un look promettente, tra il kabarett di Weimer evocato dai racconti di Isherwood e dal musical Cabaret e una campagna Armani junior. Ma regia e recitazione, accurata l’una e ineccepibile l’altra, nell’armonica gestione collettiva del trio, non sviluppano l’intuizione visiva: la gestualità è convenzionale, il passaggio dal riso al pianto un po’ meccanico, le suggestioni evocative discontinue. I personaggi maschili sono fantasmi, l’inconscio di Irina, Masha e Olga vien fuori straniato, brechtiano, mentre l’intero tessuto drammaturgico si colora d’insensatezza ionsechiana, forse citata dalle (tre) sedie della scenografia. All’Irina di Monica Faggiani basta un

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cambio di luce per passare dall’età del rimpianto alla dolce ala della giovinezza, la Masha di Paola Giacometti si russizza cantando, la Olga di Raffaella Boscolo è malinconicamente severa, però mai inattesa nelle sue reazioni: Cechov eseguito in versione kammerspiel d’antan è comunque gradevole per il pubblico, che lo può godere come il trailer di una drammaturgia così delicata da esigere prese di posizione registiche spericolate. Ma il barone che muore in duello, ai tempi della Federazione di Putin e dintorni, non può che soccombere nello scontro a fuoco tra neomafiosi. Oppure, spettro di uno spettro, deve avere la carica visionaria di una scuola che va da Dodin a Nekrosius: nell’autunno russo a Milano anche le betulle globalizzate sono arredi Ikea. E i ciliegi hanno il gusto di un commerciale Mon Chèrie. Quel che resta di Cechov è la clinica/cinica anamnesi della frustrazione: in questo caso, la frustrazione femminile è attualissima nel clima catto-regressivo che si respira appena usciti da teatro nella realtà italiana. Fabrizio Sebastian Caleffi

in un gabinetto di Amsterdam, di fronte alla morte di una delle amiche. E il testo, per quanto poco teatrale nei suoi continui salti temporali, rimane l’aspetto più felice del lavoro. Lieve la scrittura senza essere ruffiana, accompagna per mano nella testa di una teen spirit, si fa litania, conquista la scena pur tradendo debolezza nei dialoghi. Deludono invece le scelte registiche, appesantite da una staticità di fondo (scenica e interpretativa) che inchioda in se stessi personaggi e allestimento. Si ha così l’impressione di una drammaturgia più esposta che “vissuta”: poco sfruttate le potenzialità delle tre giovani attrici, è un fluire di stampo quasi narrativo dove emotività e sfumature si arenano in superficie. E lì rimangono. In un progetto tendente al simbolo ma gravato da palesi incongruenze. Come il ritrarre da vera “tossica” l’unica poveraccia che ci rimane. Le altre sempre belline, atmosfera da Liceo Parini, al limite fascino borderline un po’ posticcio. Ma se si cerca la verità, ci vuole il coraggio di portarla in scena. Non solo di scriverla. Diego Vincenti

Quando eravamo tossiche

I volti della Fortuna nel segno di Anagoor

MITIGARE IL BUIO, drammaturgia, regia e scene di Francesca Sangalli. Con Paola Campaner, Serena Di Gregorio, Stefania Ugomari di Blas. Prod. Giovio15 – FeDerSerD, MILANO. in tournÉe Tre pischelle. Tre pischelle milanesi. Famiglie (più o meno) bene alle spalle, noia adolescenziale e un’insana curiosità che le porta a giocar con droghe e affini. Non finirà bene. Nonostante quell’altalena in mezzo al palco, simbolo di un’infanzia perduta (o da perdere). È un viaggio a ritroso verso un’antica tossicodipendenza Mitigare il buio della Sangalli, qui anche alla regia con un testo che ha destato una certa curiosità. Racconto in prima persona della protagonista “Babba di minchia”, a volte flusso di coscienza, altre narrazione piuttosto spensierata di anni ingenui divenuti presto nerissimi. Incontro, innamoramento e separazione (definitiva) con l’eroina, così anni Ottanta, così impietosa all’epoca nello spazzar via militanze e controculture. Ma qui le siringhe sono già bandite (o quasi) e il tempo è sempre al presente. Per una lenta discesa dove non si tocca, prima di decidersi a voltar pagina

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FORTUNY, di Simone Derai, Moreno Callegari, Marco Menegoni. Regia di Simone Derai. Scene e costumi di Simone Derai, Moreno Callegari, Marco Menegoni. Video di Simone Derai e Marco Menegoni. Musiche di Marco Menegoni e Paola Dallan. Con Anna Bragagnolo, Pierantonio Bragagnolo, Moreno Callegari, Marco Menegoni. Prod. Anagoor, CASTELFRANCO VENETO (Tv) - Città di Venezia/Teatro Fondamenta Nuove, VENEZIA - Centrale Fies, DRO - Operaestate Festival Veneto, BASSANO. in tournÉe Può essere fuorviante il titolo dell’ultimo spettacolo di Anagoor: non si assiste, infatti, alla ricostruzione dell’esistenza di Mariano Fortuny - andaluso trapiantato a Venezia, dove fu artista del tessuto, scenografo, collezionista d’arte e molto altro - bensì a una riflessione “per immagini” sul significato della Fortuna e, conseguentemente, sulla predeterminazione o meno del destino degli uomini. Questa premessa - necessaria - non nega però la pregnanza del titolo stesso, poiché il

olimpico di vicenza

Donnellan, un Racconto d'inverno che sa di favola russa ed eleganza british THE WINTER’S TALE, di William Shakespeare. Regia di Declan Donnellan. Scene e costumi di Nick Ormerod. Musiche di Svetlana Lavrova. Con Pyotr Semak, Mikhail Samochko, Anatoly Kolibianov, Oleg Gaianov, Alexei Zubarev, Vladimir Zakharyev, Alexander Koshkarev, Sergei Muchenikov e altri 14 interpreti. Prod. Maly Drama Teatro - Theatre of Europe, SAN PIETROBURGO. Shakespeare? È il classico dei classici, ma all’Olimpico di Vicenza vi entra di rado, o almeno non regolarmente. Vi mancava da oltre un decennio. È riapparso con uno spettacolo (destinato a passare negli annali) che è nato da una strana e felice operazione. Dall’incontro fra un regista inglese di talento e una troupe di straordinari attori russi che si esprimono nella loro meravigliosa lingua e che Shakespeare sembrano amarlo come Cechov. Il regista è Declan Donnellan. Gli attori sono quelli del famoso Maly di San Pietroburgo, cresciuti alla scuola di quel maestro della scena che è Lev Dodin. La scelta è caduta su Il racconto d’inverno, non certo una delle opere più riuscite di Shakespeare, vuoi anche per la commistione di generi, ma non priva di magia. E una magia che il mirabile spazio dell’Olimpico è sembrato esaltare. È questo strano romance un apologo sull’esistenza intriso di malinconia o, se vogliamo, del mistero impietoso del Tempo, che qui Donnellan raffigura in una vecchia donna che con la sua ramazza scaccia via dal palcoscenico la polvere. Una prima parte fosca e una seconda solare, luminosa. Una che si chiude in tragedia con un finale nero e l’altra che esibisce - e sono passati ormai sedici anni e tanti inverni hanno portato rughe e dolori ma anche pentimenti e amori - tutti o quasi tutti i personaggi per un lieto fine matrimoniale. Una che ci mostra una reggia siciliana buia e tormentata dai sospetti di un adulterio mai commesso; l’altra una Boemia alquanto bucolica con interludi da fiera, curiosamente ambientata in un paese di mare quasi più mediterraneo della stessa Sicilia. La forza e la bellezza dello spettacolo (sarebbe piaciuto anche a Tolstoj che non amava il Bardo) sta nel fatto che Donnellan, usando a meraviglia l’insolito spazio scenico, tutto racconta con pudore, senza intellettualismi, con ritmo piano e preciso, con eleganza e raffinatezza tutta british ma dando al racconto un sapore di vecchia favola russa. Un sapore che si precisa già nei costumi di Nick Ormerod. Ma se la regia si fa garante della migliore tradizione teatrale, tutto ciò non sarebbe possibile senza l’apporto di una strepitosa compagnia d’attori. Una ventina d’interpreti in gara fra loro per bravura ed entusiasmo. Limitiamoci a nominare il protagonista Pyotr Semak che eccelle nel ruolo di Leonte per scandaglio psicologico. Domenico Rigotti

The winter's tale (foto: Colorfoto).


critiCHE/veneto

“personaggio” Fortuny innesca percorsi drammaturgici precisi e originali, legati a una certa idea di Venezia e della bellez za, dell’ar te e dell’esistenza umana. E all’artista rimandano esplicitamente gli splendidi sipari costruiti con preziose stoffe damascate e i tessuti appesi alle pareti del composito spazio scenico, dominato da un’enorme ventola e da due schermi rettangolari sui quali sono proiettati suggestivi video di varia natura. Tre giovani, abbigliamento sportivo e zaino sulle spalle, sono visitati dalla Fortuna - dorata statua vivente - e invitati ad apprenderne i movimenti, così da poter percorrere autonomamente la propria strada. Un cammino che i tre compiono abbandonando gli abiti “comuni” per neri tabarri da pellegrini ma anche da alchimisti ovvero oscuri pirati. Dagli zaini escono vasi di vetro, coltelli, pennelli, oggetti che per i tre sono gli strumenti per appropriarsi della Fortuna e, al termine dello spettacolo, diventare essi stessi Fortuna. Un percorso di emancipazione e di ribellione che si dipana non attraverso atti violenti e inconsulti bensì all’insegna della lentezza e dell’armonia, alla ricerca di quella bellezza che è l’agognata meta finale ma altresì la cifra dell’intera messa in scena. Coreografie stilizzate e plastiche, eccentrici riferimenti artistici - dall’arte primitiva al possente dipinto di Tintoretto, San Marco salva un saraceno da una tempesta - quadri viventi muti ma straordinariamente eloquenti, corpi tramutati in malleabili tele. Una messa in scena stratificata, abitata da segni di una bellezza visiva discreta ed equilibrata eppure fatalmente assordante, capace di esercitare sugli spet tatori una fascinazione misteriosa alla quale è impossibile sottrarsi. Laura Bevione

Giacomo il pessimista secondo Scarpa e Cirillo L’INFINITO, di Tiziano Scarpa. Regia di Arturo Cirillo. Scene di Dario Gessati. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Pasquale Mari. Musiche di Francesco De Melis. Con Arturo Cirillo, Margherita Mannino, Andrea Tonin. Prod. Teatro Stabile del Veneto, VENEZIA. in tournÉe

Parte da una folgorante e divertente possibilità il nuovo testo teatrale di Tiziano Scarpa. Per un cortocircuito temporale, il poeta d’Italia, Giacomo Leopardi, piomba nella nottata turbolenta che precede gli orali della maturità di un ventenne milanese, che è alle prese con L’infinito. Sono due ragazzi, praticamente coetanei, e per una strana, impossibile alchimia, tra loro nasce un'amicizia. Un dialogo impossibile che pure trova un punto di contatto proprio ne L’infinito. Lo spettacolo segna un nuovo incontro tra lo scrittore veneziano e il regista e attore Arturo Cirillo. Appare mirabile il lavoro fatto sul doppio registro linguistico del testo: contemporaneità e - diciamo - classicità si confrontano in modo serrato. Il pubblico segue, oscilla, sbanda, torna alle memorie scolastiche, si sorprende. Superate le (notevoli) gag dal risvolto comico, tra rap e ballate, che sono forme contemporanee di poesia, Giacomo Leopardi racconta gradualmente il suo punto di vista: non più rimanere solo, sull’ermo colle, ma agire per liberare il mondo dalla “peste”, ossia dal genere umano. Tra una prima parte - più gradevole e comica - e una seconda più aspra e a tratti grottesca, lo spettacolo muta infatti radicalmente di clima. Ma al centro dell’indagine testuale di Scarpa non c’è solo un gustoso confronto con Leopardi; vi è anche, e forse soprattutto, una riflessione sulla tarda adolescenza e l’immaginazione, sull’essere al mondo. Lo spettacolo è affidato a uno straordinario Arturo Cirillo, che firma la regia e, pallido e imparruccato, dà vita a un Leopardi efficacissimo. Vien da dire, a ripercorrere i tanti lavori dell’artista napoletano, che i suoi personaggi sembrano nascere dalla camminata: qui è legnosa, scomoda, impacciata. E con lui il parlar dotto assume toni quasi pirandelliani, gli interrogativi si fanno cogenti, la dialettica sublime e trascinante. A fianco di Cirillo un buon Andrea Tonin, giovane prestante con il mito dei dj e una ancora acerba Margherita Mannino. Nelle belle luci di Pasquale Mari, con una scena semplice e suggestiva di Dario Gessati, sulle affascinanti musiche di Francesco De Melis, L’infinito è un’operina complessa, dai molteplici e simultanei livelli di lettura, sospesa tra sogno e realtà. Andrea Porcheddu

biennale teatro

A Venezia lo “scandaloso” Fabre, sotto l’opulenza poco o niente PROMETHEUS - LANDSCAPE II, testi di Jeroen Olyslaegers (da Eschilo) e Jan Fabre. Drammaturgia di Miet Martens. Regia di Jan Fabre. Costumi di Andrea Kränzlin. Luci di Jan Dekeyser. Musiche di Dag Taeldeman. Con Kurt Vandendriessche, Ivana Jozic, Gilles Polet, Cédric Charron, Kasper Vandenberghe, Lawrence Goldhuber, Annabelle Chambon, Katarina Bistrovic-Darvaš, Katarzyna Makuch, Vittoria De Ferrari. Prod. Troubleyn/Jan Fabre, Antwerpen. BIENNALE TEATRO, VENEZIA. A giugno, all’inaugurazione della 54ª Biennale, aveva scandalizzato Venezia con la sua rivisitazione della Pietà. Una bellissima installazione alla Scuola Grande della Misericordia, che contaminava la scena sacra con immagini di morte e consunzione. A distanza di qualche mese, Jan Fabre torna a Venezia, alla Biennale Teatro di Àlex Rigola, con un’opera che non vuole essere da meno. Solo che, questa volta, l’immaginario è laico: il mito di Prometeo, letto attraverso Eschilo. Un tema indubbiamente affascinante, sviscerato dall’artista fiammingo con sovrabbondanza di mezzi – attori e danzatori a profusione, scenografie virtuali e magniloquenti – e citazioni - l’uomo vitruviano, le parodie naziste, le hit parade del momento, occidentali e non, l’immaginario à la Bosch, rituali orgiastici e pratiche bondage a non finire – per interrogare il pubblico su temi di stringente attualità: l’omologazione, l’eroismo oggi. Tanta carne al fuoco, insomma. Quanto basta per compiacere il palato fino di uno spettatore consapevole. Cos’è, allora, che non funziona in quest’opera? Forse proprio la sua natura ibrida di “installazione per la scena”. Da anni, ormai, Fabre ci ha abituati al suo immaginario baroccheggiante, lussureggiante, delle volte persino kitsch. Solo che, il più delle volte, è retto da un afflato narrativo, un’idea pregnante, un contesto forte. Al contrario, qui, l’opulenza non fa che confermare il sospetto che tutto sia messo lì per rimpolpare una drammaturgia esile, impalpabile, insopportabilmente predicatoria e, nel fondo, reazionaria. Non basta contentarsi di qualche slogan, peraltro scandito con tono monocorde, per dare l’illusione dell’azione; i due piani, Prometeo e gli dei, rimangono confinati su piani differenti, che non comunicano. Né si può parlare di originalità delle coreografie: quante volte abbiamo visto immagini simili, Socìetas Raffaello Sanzio, ma anche ricci/forte o, addirittura, il cinema di genere. L’impressione generale, insomma, è che Fabre tenti qui, con un po’ di stanchezza e molto autocompiacimento, di fare il verso a se stesso. Una sorta di Fellini ultima maniera, senza, però, l’abbrivio di un Amarcord. Disperdendo, presto, il potenziale rivoluzionario di Prometeo in una sequela ininterrotta e patinata di cliché, molto alla moda ma poco incisivi per quello che il teatro, oggi, è diventato. Roberto Rizzente Prometheus - Landscape II (foto: Wonge Bergmann).

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criticHE/FRIULI VENEZIA GIULIA-emilia romagna udine

Il principe di Lievi tra eleganza e sogno IL PRINCIPE DI HOMBURG, di Heinrich von Kleist. Drammaturgia di Peter Iden. Traduzione e regia di Cesare Lievi. Scene di Josef Frommwieser. Costumi di Marina Luxardo. Luci di Gigi Saccomandi. Musiche di Flávio Martins Dos Santos. Con Stefano Santospago, Ludovica Modugno, Maria Alberta Navello, Emanuele Carucci Viterbi, Lorenzo Gleijeses, Graziano Piazza e altri 5 interpreti. Prod. Teatro Nuovo Giovanni da Udine - Css Teatro stabile di innovazione, UDINE. Grande, tragica e enigmatica figura quella di Heinrich von Kleist: militare fallito, studente indisciplinato, scrittore e drammaturgo pronto a bruciare i suoi lavori più belli. Lavori che sono storie morali colorate come fiabe, anche ossessionanti come incubi. Così il Principe di Homburg, l’ultima da lui scritta, poco prima della sua tragica fine. La storia è quella di un “giovane principe” che riceve in sogno la promessa della gloria. In realtà tutto solo una beffa architettata, pur senza malizia, dal suo sovrano e dai suoi compagni. Cosa che lo turba e gli impedisce di ascoltare attentamente le istruzioni della prossima battaglia, sì che al momento dello scontro disobbedirà per eccesso di ambizione e per questo sarà condannato a morte. Ciò che otterrà sarà solo una grazia pericolosa: se crede di aver subito un’ingiustizia lo provi e sarà libero. Ma Homburg non può. Sa che le leggi della disciplina, la stessa sua morale, lo condannano. Fa di sé un esempio all’esercito, condannandosi. Proprio per tale atto sarà libero. Testo straordinario che Cesare Lievi ha ottimamente tradotto vigorosamente snellendo la rigogliosa partitura, dando così alla fiaba un tono onirico, sospeso. I molti luoghi scenici dell’originale sostituiti da un unico ed efficiente apparato scenico dove elementi mobili suggeriscono l’ambientazione e luci perfette creano quel tocco necessario a dar magia. E musiche ben meditate a legare le scene di questa storia fra due sogni, che forse è anch’essa un sogno e anche una cerimonia di iniziazione. Lo spettatore è premiato insomma dall’eleganza e dalla raffinatezza dell’allestimento. E giustamente ad applaudire regista, scenografo, musicista e light designer, ma anche un pool di attori che si profondono in impegno e che non mancano di nitore espressivo. A cominciare dal “figlio d’arte” Lorenzo Glejeses, il quale (prova ardua) si misura col giovane principe dando a esso, più che impulsività, trasognata dolcezza. Ma subito poi da segnalare Stefano Santospago, che trova per il suo Elettore il giusto equilibrio tra Ragion di Stato e bontà del cuore. Così come al non facile personaggio di Natalie trasmette la vibrazione necessaria Maria Alberta Navello. Intensità di partecipazione anche in Andrea Collavino (Hoenzollern), Ludovica Modugno (l’Elettrice) e Graziano Piazza (Kottwiz). Domenico Rigotti

Il principe di Homburg (foto: Flavio Martins Dos Santos).

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Assassino e pedofilo confessioni di un prete

Rane alla parmigiana, un Aristofane brechtiano

ODORE DI SANTITÀ, di Laura Forti. Regia di Massimiliano Farau. Scene e costumi di Fabiana Di Marco. Luci di Luca Bronzo. Con Salvatore Cantalupo. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA.

LE RANE, di Aristofane. Regia e interpretazione di Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Luca Nucera, Tania Rocchetta, Marcello Vazzoler. Scene di Alberto Fravetto. Costumi di Marzia Paparini. Luci di Luca Bronzo. Musiche di Alessandro Nidi. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA.

Nella svariata tipologia degli odori presenti nella drammaturgia novecentesca e contemporanea mancava proprio “l’odore di santità”: quel misto di sudore e amido per camicie, qualcosa che stava sulla veste dei preti, che non li lasciava mai, che il protagonista della terribile e tragica vicenda ricorda quando, ancora ragazzino, si accostava al sacerdote della sua parrocchia. Un odore che gli permette di ricordare: la casa popolare che abitava da bambino, la sacrestia, le aule del seminario che frequentava prima di diventare anche lui prete ed assassino. L’odore del sangue mischiato a quello del sesso, perché il protagonista di questa storia è un prete pedofilo che, mentre esce dalla sua vasca da bagno, si asciuga e si veste, ci racconta la sua penosa e infame esistenza di figlio di nessuno, sbandato, che cresce e matura troppo lontano da quella vita normale che avrebbe desiderato. Non turbato da alcun senso di colpa per i misfatti compiuti, ripercorre la sua vita difficile da incolpevole, cerca anche di chiarirla a se stesso, forse di comprenderla, e in questo somiglia tanto al protagonista della Mite di Dostoevskij. Nella seconda par te il monologo di Laura For ti, scritto con finezza letteraria, accumula in maniera drammaturgicamen te compulsiva una serie di eventi che sbilanciano il racconto fino a renderlo poco credibile, mentre una tenuta maggiore dei fatti, un’atmosfera più noir avrebbe condotto il suo protagonista, un eccellente Salvatore Cantalupo, e lo spett a to r e a quello s c avo c r udele attraverso cui poter fare emergere un’altra verità. Il regista Massimiliano Farau sottolinea il lucido realismo di questo monologo/confessione sul mis ter o delle a z ioni umane, senza dare né richiedere un giudizio su quei delitti, quei gesti inesplicabili. Giuseppe Liotta

Con grande e semplice professionalità, mestiere e acuto artigianato teatrale viene presentato uno spettacolo a direzione multipla, giusta quanti sono i suoi otto vivacissimi interpreti che, una volta assegnate le parti, si prodigano in scena a dare il meglio di se stessi per la riuscita di una rappresentazione lontana dalle abituali modalità di interpretazione di un testo “classico”. E questa commedia di Aristofane si presta particolarmente a essere considerata un’opera “aperta”, quasi un canovaccio. Oggetti iperbolici invadono la scena come quel “megafono” costruito proprio rispettandone la lettera -, il movimento degli attori è febbrile e costante, a un passo dall’assurdo; a non farlo precipitare nel delirio scenico è l’intento pedagogico, brechtianamente didattico che il gruppo dei valenti protagonisti si è assegnato: attraverso il comico dei discorsi sottolineare quel quesito finale aristofaneo che è alla base delle Rane: che si deve fare per salvare una città che non sa distinguere il bello dal brutto, il bene dal male? È per rispondere a queste domande che Dioniso scende negli Inferi a incontrare Eschilo ed Euripide e riportare sulla terra chi dei due, in un duello poetico, gli darà il consiglio migliore. Alla fine anche il pubblico viene fintamente coinvolto a dare il suo responso; ma importante per noi oggi non è sapere chi ha vinto, ma avere posto con divertimento e rigore teatrale il problema del rapporto fra cultura e politica nella società civile, che trova nella bellissima scena della fine la sua sintesi poetica più immediata ed efficace; numerosi palloncini si innalzano nel cielo del palcoscenico e a ognuno di essi viene associato il nome di un uomo di teatro, scrittore, poeta che ha reso più confortevole e degna la nostra vita sulla terra: Goethe, Shakespeare, Brecht, Checov, Pirandello, Molière, Pasolini... Giuseppe Liotta


critiCHE/emilia romagna

Doppia prova d'attore per il male di vivere IL MALE OSCURO, di Giuseppe Berto. Regia di Elena Bucci e Maurizio Cardillo. Luci di Filippo Pagotto e Massimiliano Buldrini. Con Maurizio Cardillo. Prod. Compagnia Cardillo - Associazione Culturale Le Belle Bandiere - Teatro delle Moline Arena del Sole, BOLOGNA. in tournÉe Il teatro di Maurizio Cardillo e di Elena Bucci ci parla della natura umana e, se lo fa con l’ausilio letterario, come ama sottolineare Cardillo, lo fa ancor di più con il corpo poetico di un attore che mai si risparmia. Accade anche qui, ne Il male oscuro, spettacolo tratto dall’omonimo romanzo del 1964 di Giuseppe Berto, film di Mario Monicelli nel 1990, presentato in prima nazionale al Teatro delle Moline di Bologna. Diviso in due puntate, Il padre e La moglie ragazzet ta e altri amori, il monologo ci conduce nelle vicissitudini di un Narratore romano, ossessionato dai conflitti irrisolti con il padre malato di cancro, che lo porterà a un’incontrollabile nevrosi, alleviata dall’amore per una diciassettenne e sviscerata nella gestazione di un romanzo che presto si trasformerà nell’atto espiatorio di colpe mai commesse. Il tessuto narrativo è impalpabile, uno stream of consciousness completamente disciolto nello scorrere del discorso psicanalitico, di cui Cardillo restituisce il fluire angosciante e ansioso a tratti vezzeggiandosene, a tratti rigettandolo fuori di sé. Schizofrenico è il rapporto del Narratore con il ricordo del padre, rancoroso e pietoso al tempo stesso e schizofrenico è anche il rapporto che l’uomo conserva con la propria intimità. Una doppia ombra, suggerita dal gioco di luci della sobria architettura scenica, ci offre l’immagine di un artista fragile e dall’intelligenza sottile, che all’espressione del proprio male di vivere unisce la riflessione sulla vita stessa. Eppure non è subito facile divenire suoi complici. Il testo infatti, pur unico nel suo genere, resta tortuoso. A soccorrerci, la prova d’attore di Cardillo e gli abbozzi di una regia delicata, capaci di rispondere con occasioni di indispensabile respiro agli ostacoli più complessi del racconto. Lucia Cominoli

Il viaggio delle ceneri DUE VECCHIETTE VANNO AL NORD, di Pierre Notte. Traduzione di Anna D’Elia. Regia di Marcello Cotugno. Scene di Tonino Di Ronza. Con Iaia Forte e Daniela Piperno. Doppiaeffe Production S.r.l. - Teatro delle Celebrazioni, BOLOGNA. in tournÉe Si deve divertire molto Pierre Notte a scrivere le sue vaniloquenti piccole storie surreali e umoristiche fatte di niente, dove non accade mai nulla di significativo, con scene spesso troppo brevi per essere vere, credibili; con personaggi sovrastati da comportamenti e imprese più grandi di loro che dicono battute importanti con molta indifferenza e banalità quotidiane con grande sussiego, secondo le regole di un gioco drammatico che tende a nascondere le proprie ragioni tematiche e gli obiettivi che si intendono perseguire. Come in una tragedia shakespeariana o in un “trattamento” cinematograf ico, gli ambien ti mu tano continuamente, in interni e in esterni, con un variare dei luoghi e tempi dell’azione così irreale da non permettere di seguire bene la vicenda, né di affezionarsi pienamente ai suoi personaggi. In questo caso, le strambe e un po’ folli sorelle Annette e Bernadette che intraprendono un cammino nel Nord della Francia per inumare le ceneri della loro madre nel cimitero in cui è sepolto il padre. Naturalmente, questo viaggio, che ha anche i tratti di una vera e propria peregrinazione iniziatica, e di riconoscimenti impreveduti, si trasforma presto in una resa dei conti tutta all’interno della famiglia di cui si portano in luce i suoi fragili segreti e le innocue incomprensioni. Si cerca di dare interesse e movimentare questa desolante ricerca di un passato perduto, facendo interloquire le due sorelle con la voce fuori scena di un funzionario di polizia che le interroga con l’acribia del Commissario che ha scoperto un delitto, che invece non c’è stato. Facili stratagemmi, esili astuzie per portare avanti una commedia che non tiene. Iaia Forte e Daniela Piperno si mostrano in panni e in ruoli non appropriati. Appaiono timide, a volte impacciate, quasi imbarazzate a dovere dare conto

Biglietti da camere separate (foto: Raffaella Cavalieri).

della loro indiscussa bravura attraverso un testo impossibile. La regia di Marcello Cotugno appare tutta concentrata a trovare delle atmosfere giuste con le luci (ma ci sono troppi bui), e una colonna sonora fatta di canzoni francesi anni Sessanta. Ma non basta a coinvolgere il pubblico, né a divertirlo. Giuseppe Liotta

Tondelli-Adriatico, atto d'amore anni '80 BIGLIETTI DA CAMERE SEPARATE, da Pier Vittorio Tondelli. Drammaturgia e regia di Andrea Adriatico. Scene, costumi e luci di Andrea Cinelli. Musiche di Massimo Zamboni. Con Maurizio Patella, Mariano Arenella, Angela Baraldi (cantante). Prod. Teatri di Vita, BOLOGNA. Il titolo dello spettacolo di Andrea Adriatico su Pier Vittorio Tondelli è composto dal romanzo dello scrittore di Correggio - da cui si trae soprattutto il terzo movimento, Camere separate, che dà il titolo al volume - e dal libro Biglietti agli amici: uno sconfinato atto d’amore nei confronti dei 24 amici destinatari delle sue intime e brevi riflessioni sull’amore, la vita, la morte. A sua volta, questo ultimo lavoro teatrale di Adriatico vuole essere la testimonianza di una passione letteraria, di una condivisione di tematiche e dimensioni d’esistenza. Un atto di devozione realizzato attraverso le parole del romanzo, che racconta la storia di un amore omosessuale: quello di Leo e Thomas vissuto nella distanza e nel silenzio, perché Thomas sta morendo di Aids. La perdita di Thomas porta

Leo a scoprire il senso della propria solitudine e a iniziare un viaggio che lo porterà a conoscere altre città, luoghi, persone, a soddisfare il proprio bisogno di annullarsi e di morire. Nel capitolo finale si riaccendono tutte le magnifiche e perdute ossessioni di Leo, come in un flusso di coscienza vigile e trattenuto; la scrittura diviene commossa, soverchiante, ripetitiva. A Leo il destino ha riservato la stessa sorte di Thomas, ma adesso non ha più nulla da conoscere, sa tutto, anche per lui è arrivato il momento di dirsi addio. Il merito maggiore di Adriatico è stato quello di avere dato una spazialità tutta scenica a parole che hanno una forte radice letteraria; di avere tenuto sempre in scena i protagonisti della storia, Mariano Arenella e Maurizio Patella, nei ruoli di Leo e Thomas, come vere presenze teatrali che si scambiano gli spazi in cui agiscono - due pedane circolari che si fronteggiano - si incrociano, si sfiorano, si mostrano nudi e dicono a memoria il romanzo, così che quello che accade in scena è soprattutto la manifestazione visibile e concreta di quelle parole, la loro sonorità, il piano “erratico” dell’ascolto; mentre ciò che vediamo - il movimento, i gesti dei due attori, il loro costante cercarsi - diventa l’esemplificazione simbolica ed estrema di una storia che fu allo stesso tempo immaginaria e reale, in cui, comunque, i corpi, lo spazio della visione, hanno lo stesso pudore, la stessa innocente forza delle parole det te. E per raggiungere questo obiettivo, la regia e i due bravi interpreti si muovono assieme in maniera assolutamente limpida e cosciente. Giuseppe Liotta

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criticHE/emilia romagna

Dall'Africa ad Atlanta, tutte le Vie portano a Modena In scena, al festival emiliano, le diverse declinazioni di una contemporaneità che attinge ai grandi classici, alle tradizioni e alla drammaturgia del dolore.

KAPUSVĒTKI. GRAVEYARD PARTY, di Alvis Hermanis e l’ensemble del Jaunais Rigas Teātris. Regia di Alvis Hermanis. Luci di Mareks Lužinskis. Musiche di Jēkabs Nīmanis. Con Vilis Daudziņš, Gundars Āboliņš, Andis Strods, Ivars Krasts, Varis Piņķis, Edgars Samītis, Andris Keišs, Ģirts Krūmiņš, Gatis Gāga, Iveta Pole, Maija Apine, Ansis Nikolovskis, Jēkabs Nīmanis. Prod. Jaunais Rīgas Teātris, Riga - Wiener Festwochen, Vienna. VIE FESTIVAL, MODENA. C’è un’usanza, in Lettonia, che qua da noi può destare sconcerto. Il Graveyard Party, la festa dei morti. Tra luglio e agosto, tutto il paese è in festa: i cimiteri, specialmente quelli dei piccoli paesi e delle zone rurali, si trasformano, accogliendo i parenti dei defunti. Canti religiosi, balli, spesso improvvisati, e persino dei banchetti scandiscono la giornata, nella convinzione che la morte sia parte della vita, e che vada affrontata col giusto piglio. È questo il formidabile spunto da cui parte Hermanis nel suo Kapusvētki. Il rischio di scadere nel filosofico, divagando in improvvide speculazioni sulla morte e la vita, è presto scongiurato. Fedele alla propria vocazione, il regista lettone preferisce avventurarsi nel territorio sdrucciolevole dell’emozione, chiamando alla ribalta un’orchestra - gli attori del Jaunais Rīgas teātris, che per l’occasione hanno imparato a suonare gli ottoni - e proiettando alle loro spalle le foto (oltre 500) scattate da M ārtiņš Grauds al cimitero di Riga in sette anni di indagine, affiancate a quelle di re-

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pertorio del “Dia de los Muertos” in Messico. Ma qui Hermanis si ferma, demandando alla buona volontà e alla fantasia dello spettatore il compito di valorizzare i nessi, restituendo la vita alla lunga sequela di fatti. Ed è un vero peccato perché la materia è incandescente, originale, e meriterebbe un ben altro trattamento. Riducendo il numero degli orchestrali, ad esempio. Prediligendo, sulla quantità, la qualità, per concentrarsi su una, in particolare, di queste storie, virandola in chiave magari anche crepuscolare - sono destinati, ormai, all’oblio questi riti - ma soprattutto giocosa, grottesca, come nella migliore tradizione slava. O, ancora, restituendo la parola a uno dei tanti personaggi evocati dagli attori, quasi ci trovassimo in una riedizione per il teatro dell’Antologia di Spoon River. Limitandosi, al contrario, alla riproposizione delle foto e al racconto omnicomprensivo, Hermanis confeziona niente più che un documentario. Originale fin che si vuole, certo - non sono numerosi i casi, applicati alla scena - ma avulso dalle reali necessità dello spettacolo. Roberto Rizzente RACCONTI AFRICANI DA SHAKESPEARE, drammaturgia di Piotr Gruszczyński. Regia di Krzysztof Warlikowski. Scene e costumi di Małgorzata Szczęśniak. Luci di Felice Ross. Con Stanisława Celińska, Ewa Dałkowska, Adam Ferency, Małgorzata HajewskaKrzysztofik e altri 7 interpreti. Prod. Nowy Teatr, Varsavia - Théâtre del

la Place, Liegi - Grand Théâtre de la Ville de Luxembourg e altri 4 enti. VIE FESTIVAL, MODENA. Racconti africani da Shakespeare è stato fra gli appuntamenti più attesi di VIE Festival, a Modena in esclusiva assoluta, pochi giorni prima del debutto mondiale in Belgio. Warlikowski, nonostante i suoi quarant’anni, è uno dei grandi protagonisti della scena contemporanea europea, allievo di Lupa e di Brook, di recente vincitore del Premio Europa per il teatro, lavora da molti anni con lo stesso gruppo di artisti, fra cui la scenografa Malgorzata Szcz ęś niak e il musicista Pawel Mykietyn. Warlikowski ha già lavorato in passato a tragedie shakespeariane: in questo caso ha scelto una rilettura del drammaturgo inglese attraverso il filtro letterario dello scrittore sudafricano John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, che ambienta Otello, Il mercante di Venezia e Re Lear nell’Africa dei nostri giorni. Un allestimento importante in cui, dopo aver assistito per tre ore a riletture di Lear, del Mercante, dell’Otello, non era ancora venuta fuori la visione d’insieme di un’opera di durata ambiziosa: cinque ore a teatro sono sempre un limite temporale notevole. Ma è il terzo e ultimo atto a comporre i frammenti, iniziando con un tableau vivant di ispirazione freudiana, sia nel senso di Sigmund che di Lucian, che allunga la prop r i a o m b r a s u u n u t ili z z o d i Shakespeare come legame e come pretesto, come forza dirompente di un umano possibile e attuale, carnale, e al contempo titanico e caduco, sano e malato. Warlikowski/Coetzee rileggono il classico con una contemporaneità elettro-domestica, dove il neon del tribunale del Mercante, il frigo in cui lo stesso tiene la carne, fino alla luce d’ospedale nel finale in cui Lear si rivela padre incestuoso, restituiscono un complesso di codici quotidiano e sofferente, come il Lear nudo e solo, con i piedi in una bacinella d’acqua. Nonostante qualche superflua digressione qua e là, il lavoro, oltre che ben interpretato, rivela una compattezza che solo l’intera fruizione restituisce. E d’altronde è giusto così: uno spettacolo deve essere “causa sui” e completo nel tutto non necessariamente nelle parti, e il regista polacco in questo riesce. Renzo Francabandera

VISION DISTURBANCE, di Cristina Masciotti. Regia di Richard Maxwell. Scene e luci di Adrian W. Jones. Costumi di Victoria Vazquez. Con Lidia Mancini e Jay Smith. Prod. New York City Players, New York. VIE FESTIVAL, MODENA. Nessun inganno, nessuna malizia, nessun artificio. Vision disturbance in fondo, ci dice il regista Richard Maxwell, non è altro che una storia semplice, quella di un incontro, di un intreccio e dell’unione di due persone tra tante. Una è Mondo, greca di mezz’età in procinto di divorzio e affetta da un disturbo alla vista all’occhio sinistro, l’altra è Jay, timido oftalmologo che ancora vive con la madre, medico prescelto dalla donna per alleviare gli effetti di quest’ultima gran seccatura che le è capitata. Mondo è tutta d’un pezzo, consapevole, pragmatica, involontariamente comica per le manifestazioni del suo affettato cinismo. Banditi dai loro pacati discorsi, il cedimento e la sofferenza sembrano non trovare mai la valvola emotiva di uno sfogo senza difese se non nella visione impedita, in qualcosa che pare sfuggire alla superficie. E c’è qualcosa che sfugge anche a noi nella lucidità della recitazione, nella minuziosa e al solito rigida precisione registica di Maxwell, che qui si sporca con la più soffice narrazione della drammaturga Cristina Masciotti in un amalgama ironico ed elegante. Vision Disturbance parte dalla semplicità di una storia solo per condurci in un gioco di apparenze complesso, dove le uniche a traballare davvero sono le certezze della nostra visione, incrinata nelle pieghe di un registro minimale che non esita a ridurre al minimo anche il sentimento per tornare poi, in un offuscato ma lineare crescendo, a manifestarlo nudo e crudo in tutta la sua purezza. Di pari passo con la guarigione di Mondo anche la scatola scenica si dissolve per allargare spazio e movimento. Mondo e Jay, alla fine, non sono più seduti con noi sul palco “invertito” del Teatro Herberia di Rubiera, sono giù in platea che si scambiano un bacio. E così, quando la donna apre le porte del teatro per andare verso la sua strada, siamo sì solleticati dall’effetto, ma quello che realmente ci sorprende è che in quella vita ci scopriamo ora coinvolti e che questo, in fondo, non era previsto. Lucia Cominoli


critiCHE/emilia romagna

TE HARÉ INVENCIBLE CON MI DERROTA, ideazione, regia e interpretazione di Angélica Liddell. Luci di Carlos Marqueríe. Prod. Iaquinandi S.L - Atra Bilis - Festival Citemor. VIE FESTIVAL, MODENA. in tournÉE L’immagine più bella, quella che rimbalza spesso sul web, sono sei violoncelli distesi in fila, orizzontali come cadaveri, le vittime affiancate di un terremoto o uno tsunami. Quei violoncelli, lei li sevizia con l’archetto, cavandone sonorità che prima accarezzano, e poi fanno male all’orecchio. In realtà, fa male dappertutto il teatro di Angélica Liddell, 45enne risorsa delle scene spagnole, performer squisitamente antisociale - come dice di sé - ed esponente di una drammaturgia del dolore, interiore ed esteriore. Una che dice di fare teatro perché altrimenti uscirebbe con la pistola per strada. Una che ai vetri rotti e agli aghi che straziano le gambe e le mani fino al sangue, è abituata come ci si potrebbe abituare al Voltaren. Una che scrive libri, testi teatrali e plaquette poetiche e li intitola in modo non equivocabile: Suicidio de amor por un defunto desconocido. Lesiones incompatibles con la vida. Ecco perché non bastano le belle immagini postate su Facebook a raccontare Te haré invencible con mi derrota (Ti farò invincibile con la mia sconfitta). Bisogna esserci, come c’eravamo, al Teatro Comunale di Carpi dove Liddell costituiva uno dei punti alti dell’edizione 2011 di Vie Festival. Alti perché la ricaduta fisica ed emotiva che lei convoglia sul pubblico è pari - per fare un esempio immediato - all’eco che resta dentro alla fine di certi spettacoli di Rodrigo Garcìa. Ma se in Rodrigo la rabbia è tutta buttata fuori, in Angélica, che sta sola in scena, in conversazione ideale con i morti, la rabbia distrugge dentro. L’interlocutore assente, stavolta, è la violoncellista Jacqueline Du Pré, musicista leggendaria, moglie di Daniel Barenboim. Con quell’anima scomparsa, che sembra manifestarsi attraverso gli strumenti in scena, Liddell tesse una conversazione fatta, oltre che di musica per archi e attentati all’integrità del proprio corpo, di esplosioni emozionali e colpi di fucile al ritratto della virtuo-

sa inglese del violoncello, stroncata dalla sclerosi multipla nel 1987 a soli 42 anni. Alla stessa età, Liddell creava questo spettacolo. Un vecchio hit del ‘68, Angel of the Morning di Merrilee Rush (da noi lo rifecero i Profeti cantando Aveva gli occhi dell’amore verdi) sembra per un istante rincuorarci. Ma è un trucco, per farci ricadere subito dopo nel compianto più nero. Roberto Canziani KARAMAZOV, di Fëdor Dostoevskij. Adattamento e regia di César Brie. Costumi di Mia Fabbri. Luci di Paolo Pollo Rodighiero. Musiche di Paolo Brie. Con César Brie, Mia Fabbri, Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhionero, Pietro Traldi, Adalgisa Valvassori. Prod. Emilia Romagna Teatro Fondazione, Modena. VIE FESTIVAL, MODENA. I fratelli Karamazov in due ore e mezza o poco più di spettacolo. Ne aveva impiegate cinque Nekrosius per Idiotas e dodici, addirittura, Peter Stein per suoi Demoni. Come fare, allora, a tradurre sulla scena, in un tempo così breve, questo monumento della letteratura, eccezionalmente complicato? Sarebbe bastato, probabilmente, scegliere uno dei tanti percorsi di cui è costellato il testo per cavarne un lavoro di senso compiuto. Un po’ come ha fatto Peter Brook con Il Grande Inquisitore. O come avrebbe potuto fare Brie con la storia del piccolo Iljuša, così vicino alla sua sensibilità. E invece l’autore argentino ha scelto un’altra strada: quella più difficile, probabilmente, la fedeltà alla lettera. E l’ha fatto non sacrificando nulla delle avventure di Fëdor Pavlovic, Alëša o Dmitrij, né delle speculazioni intellettuali di Ivàn. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: troppo denso per risultare avvincente, lo spettacolo procede forsennato verso lo scioglimento finale. Gli snodi fondamentali, le contese tra Katerina Ivanovna e Grušenka per Dmitrij, e tra questi e il padre Fëdor per l’eredità, vengono liquidati nel giro di poche battute. Personaggi di assoluto rilievo, come quello, eccezionale, di Ivàn, o il non meno interessante Smerdjakov, appaiono incolori, sbiaditi, rendendo ardua la comprensione della vicenda a tutti coloro che non abbia-

no una confidenza diretta col romanzo. Né si può dire che le scelte scenografiche aiutino lo spettacolo: c’è, sì, il tocco magico di Brie, così seducente, così poetico, in grado, ogni volta, di dare “anima” alla materia, ma non sembra intenzionato a rinnovare il repertorio. Tornano le grucce, già viste in Zio Vanja, le corde, i burattinibambini, persino gli abiti appesi. Gli stessi attori, usciti dal Cantiere delle Arti dell’Ert, sembrano a tratti fuori parte - più adatto a interpretare Alëša che Smerdjakov sarebbe stato, ad esempio, Ferraù - e non danno ai personaggi la giusta carica di autorevolezza. Col risultato di debilitare ulteriormente uno spettacolo che, in potenza, col suo lirismo, molto può aggiungere al mondo personale di Brie. Roberto Rizzente FRANCAMENTE ME NE INFISCHIO. 1. TWINS, 2. ATLANTA. Drammaturgia di Linda Dalisi, Federico Bellini, Antonio Latella. Regia di Antonio Latella. Scene e costumi di Marco Di Napoli e Graziella Pepe. Luci di Simone De Angelis. Musiche di Franco Visioli. Con Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca. Prod. Stabile/Mobile Compagnia Antonio Latella, Napoli. VIE FESTIVAL, MODENA. Domani è un altro giorno. O forse, sarebbe meglio dire, domani è un altro spettacolo. Sono cinque i movimenti che Antonio Latella ha deciso di ricavare da Via col vento di Margaret Mitchell. Un proget to ambizioso, com’è nelle corde di questo talentuoso regista, che ci parla di America, di rivolta. Il pretesto, qui, è Rossella O’Hara, la protagonista del romanzo. Il carattere inquieto, capriccioso, tutto teso al futuro, pare rappresentare a meraviglia le storture che Latella vuole comunicare. Rossella non rappresenta solo l’America, è l’America. Ci sarebbe da discutere, su questo punto - ci sono altri simboli, più adatti

allo scopo -, ma tant’è: l’idea ha una sua originalità, e merita di essere seguita. Parte prima del progetto è Twins. Rossella, vestita di blu a pois bianchi con le scarpette rosse, a metà tra Dorothy del Mago di Oz e Minnie, apprende dai gemelli Tarleton, mascherati da Bart Simpson, che Ashley è in procinto di sposare Melania. Inevitabile lo scatto d’ira di Rossella, che nel sonno, a più riprese, invoca l’amato. Invano: Ashley non apparirà. Al suo posto, una sequela di personaggi che, nelle intenzioni di Federico Bellini, dovrebbe rappresentare la cultura a stelle e strisce: nell’ordine, King Kong, il Presidente vestito da Joker, Neil Armstrong e Marylin Monroe. I riferimenti si sprecano, la drammaturgia pesca a piene mani dalla cultura di massa (la banana di Warhol, la mela di Apple, l’osso di 2001 Odissea nello Spazio) per veicolare la solita, edulcorata critica al consumismo made in Usa. Temi ormai arcinoti che, per risultare convincenti, dovrebbero esser affrontati con meno enfasi e una cura maggiore del linguaggio, aggirando lo stereotipo. Termina il sogno, è la volta di Atlanta. Interlocutore di Rossella è, questa volta, il pubblico. Uno spettatore viene prelevato dalla scena e investito della parte di Rhett Butler, tra le risatine e gli scoppi di euforia di Rossella, la zia Pittipath e Prissy, la cameriera. Il copione della Dalisi conserva i difetti del precedente - toni sopra le righe, accumulo di citazioni, situazioni a tratti scontate - ma ha, per lo meno, il coraggio dell’(auto)ironia, concedendosi il lusso dell’improvvisazione e facendo sperare in un più sintetico e meno didascalico prosieguo del progetto. Roberto Rizzente

Nella pagina precedente, una scena di Racconti africani da Shakespeare (foto: M.F. Plissart); in questa pagina, Lidia Mancini e Jay Smith in Vision disturbance (foto: Michael Schmelling).

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criticHE/emilia romagna A lato, Enzo Vetrano e Stefano Randisi in Totò e Vicé (foto: Tommaso Le Pera); sotto, Micaela Casalboni in Bollettino del diluvio universale (foto: Luciano Paselli).

Aspettando il diluvio Celati incontra Beckett BOLLETTINO DEL DILUVIO UNIVERSALE, di Gianni Celati. Regia di Nicola Bonazzi. Scene e video di Nicola Bruschi. Costumi di Cristina Gamberini. Con Eugenio Allegri, Micaela Casalboni, Lorenzo Ansaloni, Ida Strizzi. Prod. Compagnia Teatro dell’Argine - Itc, SAN LAZZARO DI SAVENA (Bo). C’è qualcosa di già visto, anzi d’antico nel primo testo teatrale di Gianni Celati, dove ritroviamo come riflesse situazioni teatrali risapute che rinviano da una parte al teatro di Beckett, dall’altra alla commedia erudita. Gianni Celati è il narratore di quelle storie “di pianura” paradossali, collocate in quella terra di nessuno dove l’illusione diventa inseparabile dalla realtà, compresa quella minuscola marionetta, il portaborse Tarozzi, che parla con voce da ventriloquo e che un fantomatico Dirigente si porta in spalla conversandoci di frequente. La scena rappresenta una stanza desolata, forse un vecchio teatro, pericolosamente situato sull’orlo del mondo; abitata da strani personaggi: un Guardiano che da una scala guarda fuori con un cannocchiale, una vistosa Segretaria che fra una limata alle unghie e la lettura di un giornale risponde al telefono, la sua Cugina che si muove in camicia da notte come una sonnambula. Sono tutti e quattro personaggi senza storia e senza qualità che attendono un diluvio che non arriva. Insomma, la storia è di per sé esile e il cupo finale del teatro di campagna che precipita in un grande gorgo non riesce a diventare metafora della lotta infinita fra l’arte e quei barbari giganti sempre in agguato che la minacciano. In un testo che non possiede una struttura drammaturgica forte, anche gli attori smarriscono il loro statuto di interpreti,

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per cui recitano le loro parti “a soggetto”: bravi - Eugenio Allegri, Micaela Casalboni, Lorenzo Ansaloni, Ida Strizzi - ma estranei gli uni agli altri. La regia di Nicola Bonazzi, in maniera intelligente, mantiene l’assurda vicenda dentro quella sottilissima linea di confine che non permette al surreale di divenire grottesco. Giuseppe Liotta

Vetrano e Randisi filosofi clochard TOTÒ E VICÉ, di Franco Scaldati. Regia e interpretazione di Enzo Vetrano e Stefano Randisi. Scene di Marc’Antonio Brandolini. Luci di Maurizio Viani. Prod. Diablogues, IMOLA. in tournÉe Franco Scaldati nella letteratura teatrale del '900 ha rappresentato una tra le figure forse più appartate e solitarie, il cui valore è stato riconosciuto soltanto dopo molti anni. Il teatro di Enzo Vetrano e Stefano Randisi compie una profonda ricerca nelle radici della parola teatrale, con un forte senso dell’indagine esistenziale - celebri i loro Pirandello - e dunque non poteva non incontrare le parole di queste drammaturgie amorose e vibranti, intrise di pensiero che s’interroga e nel paradosso indaga. Totò e Vicé, testo che risale al 1992, si carica della forza scenica dei due attori, perfettamente disegnato sulla figura di due clochard sopra le righe (evanescenti e poetici, come negli Uccellacci e uccellini di Pasolini) che nel dialogo sciolgono temi da dissertazione filosofica. Vetrano e Randisi portano in questa dimensione liminare, quasi onirica, tutta la loro capacità di attrarre con leggerezza e felicità interpretativa, mai fuori da quella convenzione con

lo spettatore che è quasi dedizione all’atto dell’ascolto. La vita e la morte, attraversate nel cerchio di lumini attorno: con due malandati cappotti spigati aperti sul davanti, Totò e Vicé vagano in un cimitero, e non sanno dove andare, si caricano della poesia frammentata, che non ha bisogno di unità drammaturgica perché vive di quella sentimentale, e giocano fra il vero e il verosimile («Piove - dice Totò - ma a Vicé non glielo dico così crede che non piove e si bagna». «Non piove più - dice Vicé - ma a Totò non glielo dico così crede che piove ancora e si bagna»). I due protagonisti cercano il loro senso magico nelle cose, negli eventi del mondo, concludendo ogni citazione con «chi lo dice? » e non ricordano mai la fonte perché non ce n’è: fonte è l’uomo, ognuno che vive e che muore. È qui che il teatro torna a Pirandello e il palco si fa - di vita e morte - specchio d’ogni azione. Simone Nebbia

La ferita e la cura nel Velo di Castellucci IL VELO NERO DEL PASTORE, di Socìetas Raffaello Sanzio/Romeo Castellucci. Regia, scene e luci di Romeo Castellucci. Musiche di Scott Gibbons. Sculture e meccanismi di Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso. Con Silvia Costa e Diego Donna. Prod. Socìetas Raffaello Sanzio, CESENA - Théâtre National de Bretagne, RENNES. in tournÉe Proprio mentre alcuni attivisti lefebvriani contestavano le repliche di Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, in scena al Théâtre de la Ville a Parigi, con urla e catene fin sopra il palco, olio motore e pece sul pubblico, Romeo Castellucci, drammaturgo e regista della Socìetas Raffaello Sanzio, si trovava a Cesena dove era in prova per il debutto - di lì a poco - del nuovo spettacolo: Il velo nero del pastore. Pensati inizialmente come un dittico, questo secondo è produttivamente autonomo dal precedente spettacolo, ma idealmente lo continua e ne svolge alcuni caratteri. «Io sono il tuo pastore» era la frase conclusiva del primo, la sua proiezione

sceglie il velo nero, per sempre a coprirne il volto. Castellucci accoglie dunque la suggestione che gli venne dalla lettura del racconto omonimo di Nathaniel Hawthorne, parabola risalente al 1836. Non casuale è la scelta. La costruzione parabolica prevede un congruo esercizio di morale, cui Castellucci non sfugge, lui artista avversato dagli integralisti per un altro, suo personale, integralismo. La scena è carica di profondi segni religiosi, ma su tutto - come nel primo lavoro - Castellucci non parla d’altro che dell’uomo: il fulcro del suo pensiero ruota attorno allo sdoppiamento naturale dell’uomo nella sua rappresentazione, quindi il velo è quello dell’arte che asseconda e vivifica la menzogna espressa (quindi vera). Qui è la duplicità dell’anima umana, dentro e fuori scena: la ferita, la violenza, delle stesse mani che officiano la cura. La scelta di Castellucci, dentro la scelta esclusiva del pastore, è nel potere della visione, nelle immagini fortissime forse non tutte così fruibili né svolte - in cui il doppio segno s’impone con evidenza; su tutte la più decisa: le lampadine accese dall’energia del movimento si caricano ed emanano luce, ma dalla stessa energia finiscono distrutte. Nella cura, dunque, la ferita. Due espressioni dello stesso volto, due gesti della stessa mano, quella con cui il pastore in vita diventa immagine di morte: sceglie il drappo e lo terrà per sempre sul volto, diventando altro da sé, coperto dal velo nero dell’attore. Simone Nebbia


critiCHE/toscana

Intercity Helsinki una Finlandia metropolitana

Juha, regia d Juhani Aho.

l logorio, le frenesie e le nevrosi della vita moderna erano al centro dei due esempi di drammaturgia finlandese di inizio millennio presentati al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino nella ventiquattresima edizione del Festival Intercity, dedicata a Helsinki e alla Finlandia. Si tratta delle due produzioni in lingua italiana Mobile horror di Juha Jokela e Panico di Mika Myllyaho affidati - come da tradizione del festival fiorentino che ogni anno punta l’obiettivo su una città e una nazione straniera diversa - ad attori italiani guidati da un regista della città “visitata” dal festival. In questo caso i registi sono lo stesso Jokela per Mobile horror e Irene Aho per Panico. Tutti e due ci conducono in una Finlandia metropolitana e supercontemporanea, che, alla fine, non è così differente da una qualunque altra nazione del mondo ricco (o ex tale). Mobile horror, clamoroso successo di pubblico sulla scena finnica, ci porta dentro il comparto industriale di cui il paese nordico è ai vertici mondiali, quello della telefonia cellulare. Uno staff di imprenditori creativi (?) e rampanti (o aspiranti tali) cerca di fare concorrenza, senza troppo successo, al “colosso” Nokia. Il testo - e di conseguenza anche lo spettacolo diretto dallo stesso autore - soffre di una costante indecisione tra un bozzettismo satirico, al limite del grottesco e coloriture psicologiche più “serie”, nel dipingere la fragilità e la precarietà interiore dei tre membri dell’improbabile staff progettual-manageriale della ditta, sull’orlo della chiusura. Se Francesco Franzosi e Nicola Pecci - ma anche Francesco Acquaroli che è il “boss” esterno - disegnano più o meno delle macchiette, Daniela D’Argenio riesce a fare una figura autentica della sua donna in carriera di cui rende con grande attenzione psicologica e sensibilità gli smarrimenti e le comiche incongruenze.

Ancora più leggero è Panico, che - in uno spettacolo dai ritmi aggressivi, dalla “presa” accattivante, dalla drammaturgia frenetica e quasi rock - si limita a ritrarre con gustosa ironia e un andamento incalzante la deriva di un trio maschile di personaggi molto lontani dalla “normalità”. Le donne sono le grandi assenti, ma sono sempre presenti, all’orizzonte, come “problema”, come prospettiva con cui non è mai facile confrontarsi… Simpatici, a tratti scatenati i tre interpreti Riccardo Naldini, Roberto Gioffrè e Matteo Procuranti. Terza produzione di Intercity-Helsinki, Sad songs from heart of Europe, è una libera rielaborazione, intensa e sofferta, di Kristian Smeds di temi di Delitto e castigo. Un testo che va a pennello a Silvia Guidi nella costruzione dell’ennesimo episodio del suo percorso teatrale solistico estremo e inquietante, provocatorio al limite dello shock sullo spettatore. In questo caso, il tema su cui lavora la Guidi, davanti alle porte di una serie di gabinetti fatiscenti e in rovina, probabilmente di un luogo pubblico semiabbandonato, sono le figure comunque di vittima delle donne del romanzo dostoevskiano. Uno solo lo spettacolo ospite, dalla Finlandia: Juha, del Tanssiteatteri Minimi di Kuopio, lavoro che, nella rilettura firmata da Mikko Roiha - anche regista - di un classico della letteratura finnica di Juhani Aho (1911), ci fa balenare davanti agli occhi l’anima più autentica della nazione e della sua gente, le sue tradizioni, il legame intenso con la natura, il marchio di una cultura rurale e primitiva, dai tratti rudi e spartani. E lo stesso linguaggio del gruppo è povero, fatto di presenze e di “materia” naturali, d’una forza per certi versi primordiale, e proprio per questo di grande suggestione. La storia di un doloroso trian-

golo amoroso (reso più drammatico dal fatto che l’“altro” è un russo, quindi uno straniero-padrone), ambientata su un palcoscenico spoglio, lascia il segno anche grazie all’intensità degli interpreti, alla tensione lancinante, all’incisività brutale di questa parabola. Al di là degli inserti di un linguaggio danzato che forse sono la parte meno interessante dello spettacolo, impressionano le capacità della protagonista Riikka Puumalainen di “parlare” con lo sguardo e con la sua sola presenza per restituirci i diversi momenti del calvario di Marja, il suo personaggio. Francesco Tei

MOBILE HORROR, testo e regia di Juha Jokela. Scene, costumi e luci di Dimitri Milopulos. Con Francesco Acquaroli, Daniela D’Argenio, Francesco Franzosi, Nicola Pecci. Prod. Intercity, Sesto Fiorentino (Fi). PANICO, di Mika Myllyaho. Regia di Irene Aho. Scene, costumi e luci di Dimitri Milopulos. Con Roberto Gioffrè, Riccardo Naldini, Matteo Procuranti. Prod. Intercity, Sesto Fiorentino (Fi). SAD SONGS FROM THE HEART OF EUROPE, di Kristian Smeds. Regia e interpretazione di Silvia Guidi. Scene e luci di Dimitri Milopulos. Prod. Intercity, Sesto Fiorentino (Fi). JUHA, dall’omonimo romanzo di Juhani Aho. Adattamento e regia di Mikko Roiha. Costumi di Jaana Kurttila. Luci di Sam Siltavuori. Con Sampo Kerola, Antti Lahti, Marja Myllylä, Riikka Puumalainen. Prod. Tanssiteatteri Minimi, Helsinki.

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criticHE/toscana La cantatrice calva

Un Giardino in frantumi che convince a metà IL GIARDINO DEI CILIEGI, di Anton Cechov. Drammaturgia di Zelika Udovicic. Traduzione e regia di Paolo Magelli. Scene di Lorenzo Banci. Costumi di Leo Kulas. Luci di Roberto Innocenti. Musiche di Arturo Annecchino. Con Valentina Banci, Mauro Malinverno, Luigi Tontonarelli, Sara Zanobbio, Elisa Cecilia Langone, Fabio Mascagni, Daniel Dwerryhouse, Valeria Cocco, Corrado Giannetti, Silvia Piovan, Paolo Meloni, Francesco Borchi. Prod. Teatro Metastasio Stabile della Toscana, PRATO - Teatro Stabile della Sardegna, CAGLIARI. in tournÉE Paolo Magelli nelle sue note di regia scrive: «la casa di Lyubov Andreevna è il Teatro», così come il giardino «è la nostra memoria, la vita che se ne è andata irrimediabilmente». Un’idea molto bella, che poteva essere sfruttata e accentuata poeticamente, e che porta invece la regia solo a utilizzare come scena il palcoscenico vuoto. Per il resto, Magelli, grande conoscitore e frequentatore del repertorio slavo, preferisce affidarsi al lavoro di una dramaturg: è quindi anche grazie a lei che assistiamo a un Giardino dei ciliegi spiazzante e frammentato, in cui ogni atmosfera psicologica, ogni musicale “crescendo” o “diminuendo” lirico sono interrotti e alla fine disintegrati da una resa espressivamente sfaccettata, colma di voluti contrasti e contraddizioni. Il procedere dell’azione viene accompagnato da una complessa partitura di gesti e movimenti, che però non hanno un significato leggibile ma sembrano, al contrario, avere solo il senso di un’invenzione inattesa o di una perturbante “rottura” linguistica. Con un effetto da “teatro sperimentale” di trenta-quarant’anni fa, di provocazione assolutamente in

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ritardo sui tempi. L’incontro, in questo spettacolo, tra gli attori - in gran parte giovani - degli Stabili della Toscana e della Sardegna si risolve in una prova d’insieme dai risultati come minimo alterni. Certo non aiuta l’assoluta noncuranza - nell’assegnazione delle parti - nei confronti di ogni plausibilità anagrafica, con giovani attori dai capelli imbiancati per sembrare maturi, o un Lopachin (Luigi Tontonarelli) almeno in apparenza più adulto della Lyubov troppo fresca e avvenente di Valentina Banci. E ancora ecco un Firs (Paolo Meloni) per niente vecchio e decisamente improbabile nella parte dell’ottantasettenne servitore, al di là delle qualità che avrebbe l’attore. Alcuni personaggi - come Šarlotta o Varja - sembrano restare disegnati soltanto a metà; e non a caso, alla fine, la figura migliore la fanno gli interpreti dei ruoli rimasti più vicini all’originale: Sara Zanobbio - Anja - e Francesco Borchi, uno Jasa giustamente odioso. E di questo “smontaggio” di Cechov e soprattutto dello psicologismo poetico del suo linguaggio teatrale fa le spese, per esempio, un attore di razza come Mauro Malinverno, che è Gaev. Francesco Tei

Uno Ionesco ibseniano per la Cantatrice di Castri LA CANTATRICE CALVA, di Eugène Ionesco. Regia di Massimo Castri. Scene e costumi di Claudia Calvaresi. Luci di Roberto Innocenti. Musiche di Arturo Annecchino. Con Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langoni, Sara Zanobbio, Francesco Borchi. Prod. Teatro Metastasio - Stabile della Toscana, PRATO. in tournÉE Intanto, l’“anticommedia” con cui Ionesco inventò il teatro dell’assurdo

funziona ancora, dopo ben sessantun anni, e non è invecchiata; a parte, forse, la movimentata parte finale, troppo programmaticamente - e poco felicemente - “rivoluzionaria”. Una verifica da farsi, tutto sommato, per un testo che è più nominato e più conosciuto come titolo che effettivamente rappresentato, almeno negli ultimi decenni: a vantaggio di altri drammi di Ionesco, dalle implicazioni più tragicamente esistenziali o psicosociologiche. Drammi forse migliori de La cantatrice calva, nella quale però la carica eversiva del linguaggio (antilinguaggio?) teatrale di Ionesco e l’impatto della sua distruttiva satira - non soltanto sociale e antiborghese, ma devastatrice di ogni convenzione e di ogni logica - si manifesta con la massima forza, nella sua forma più pura e limpida. A Castri, che presto - per gravi motivi di salute - ha dovuto, di fatto, passare la mano a Marco Plini, si deve lo spostamento dell’azione in una cornice e in un ambiente quasi ibseniani o strindberghiani, da fine Ottocento-primo Novecento: una scelta non casuale, che si rispecchia poi nel tentativo - nella prima scena tra il Signore e la Signora Smi th - di un’accen tuazione dell’asprezza, della ferocia, quasi, dei contrasti e delle sotterranee tensioni di coppia, in un abbozzo (poi abbandonato nel resto dello spettacolo) di scavo psicologico - se non drammatico - certo sorprendente nella Cantatrice calva. Nel complesso, però, la messa in scena prodotta dal Metastasio sembra puntare soprattutto sul gusto del divertimento, del gioco, saporoso quanto irridente; trasgressivo, sì, ma più che altro comico, nel fuoco di fila di invenzioni irriverenti ed apparentemente folli di Ionesco. Un assurdo, in definitiva, tutto da ridere, più che inquietante e problematico, questo di Plini e di un sestetto di attori in gran parte giovani: fra i quali si distingue, per ricchezza e finezza di sfumature (con trovate individuali a volte irresistibili), il ben più esperto Mauro Malinverno, certamente al di sopra degli altri nella parte del Signor Smith. Al suo fianco, Valentina Banci è una Signora Smith colorita (fin troppo) e dalla robusta, vigorosa presenza, forse più apprezzabile, però, negli inquieti accenti “castriani” dell’inizio. Francesco Tei

Orlando-Rameau filosofo e parassita IL NIPOTE DI RAMEAU, di Denis Diderot. Traduzione e adattamento di Edoardo Erba e Silvio Orlando. Regia di Silvio Orlando. Scene di Giancarlo Basili. Costumi di Giovanna Buzzi. Con Silvio Orlando, Amerigo Fontani, Maria Laura Rondanini. Prod. Cardellino srl, ROSIGNANO MARITTIMO (Li). in tournÉE Da una parte la sobrietà severa di un filosofo, portatore di ideali alti di limpidezza e rigore morale. Dall’altra un uomo d’aspetto trasandato e sciatto, colto nel momento del disastro, quando, cedendo per una volta a un inconsulto impulso di sincerità, ha perso gli agi e la tavola imbandita che lo avevano protetto fino a quel momento. Un cortigiano (Silvio Orlando) che sembra materializzarsi sui ricordi del primo, il filosofo, impersonato qui da un misurato Amerigo Fontani, e che, la parrucca scomposta e il viso sfatto, teorizza i vantaggi e soprattutto la giustezza della sua scelta di parassita senza dignità e vergogna. Con argomentazioni peraltro che, pur nel cinismo sfrontato che le sottende, rivelano acutezze paradossali di intelligenza raffinata, capace di scuotere e di suscitare in chi ascolta dubbi e riflessioni. Poiché “il nipote di Rameau”, è certamente un musico fallito, sostenitore di una felicità ridotta a pura visione materiale della vita. Ma è anche un uomo colto di grande lucidità analitica, capace di incidere con esattezza da chirurgo i bubboni del vivere civile. E, se la scena di Giancarlo Basili riproduce con essenziale e veristico tratteggio l’interno del settecentesco Café de la Régence in cui l’incontro avviene, non pochi lampi si riverberano da quel lontano secolo dei Lumi a disserrare nei nostri tempi identici succhi di sempiterne cancrene. Mali quasi connaturati nell’umano consesso che l’allestimento accompagna con una sorta di posata e solida compattezza lungo gli acrobatici affondi di una lucidissima ambiguità, dove l’attore napoletano si muove con perizia sorvegliata e duttile, appena inficiata da balenii di mediterranea appartenenza non del


critiCHE/toscana

tutto assimilabili al contesto del tempo. Non tali tuttavia da impedirgli di restituire dalla stringente lucentezza della satira la grottesca complessità di una irridente spregevolezza e il gusto amaro di un pessimistico annullamento di sé. Antonella Melilli Rossi

Schuster burattinaio nel lontano West WESTERN, di Massimo Schuster e Chiara Laudani. Regia e interpretazione di Massimo Schuster. Scene di Alexandre Bügel e Silvio Martini. Costumi di Marco Caboni. Musiche di Paolo Fresu. Disegni di Paolo D’Altan. Prod. Théâtre de l’Arc-en-Terre, MARSIGLIA - TJP-Centre Dramatique National d’Alsace, STRASBURGO L’Estive-Scène Nationale de Foix et de l’Ariege - Teatro Pietro Aretino, AREZZO. in tournÉE È come sentirla la polvere, l’acciottolio degli zoccoli dei cavalli, l’immensità delle praterie sconfinate, l’ululare dei coyote, le penne degli indiani, i Winchester e le Colt dei cowboy. Nel nuovo lavoro di Massimo Schuster, Western, che ha debuttato in Italia dopo alcune repliche francesi, il grande mangiafuoco è vestito di tutto punto in salsa texana con cappello, cinturone, stivali e chitarra. La storia inizia a metà Ottocento, con parti documentate sulle quali s’innesta questa grande storia di amicizia, integrazione, razzismo e giustizia. Una fiaba per adulti. Da una parte la ferrovia che deve correre, il progresso che non può fermarsi, lo spostamento della frontiera (ricorda sempre più i coloni israeliani nel “mangiarsi” la Palestina), l’ambizione del sogno americano, i cowboy dalla pistola facile, dall’altra i “pellerossa”, gli indiani indigeni, primitivi da scacciare da quelle che erano sempre state le loro praterie. Le figure che anima Schuster sono cartonati che il narratore manovra grazie a fili di ferro. Centinaia i personaggi nei disegni accuratissimi di Paolo D’Altan, dal presidente degli Stati Uniti Grant a messicani, indiani, donnine, mandriani, governatori, baristi, suonatori, cinesi. Addirittura appare Clint Eastwood con

la sua celebre battuta tratta da Per un pugno di dollari: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto». Il burattinaio è voce ma anche corpo per i suoi personaggi. Il piano della visione, su questo teatrino a manovella, si sdoppia: in basso con le scene fumettistiche che scorrono come fotografie in sequenza, in alto la figura imponente che li guarda, li muove, gioca con loro. Una narrazione a grande vocazione cinematografica: ecco la scena della Sala Ovale della Casa Bianca, le montagne con i coyote, l’accampamento indiano, la luna piena che scende a rischiarare la notte fredda del deserto, il saloon. Una festa per gli occhi. Vengono in mente la canzone Buffalo Bill di De Gregori, i film di Sergio Leone e gli “spaghetti western”, Tex e John Wayne. Tommaso Chimenti

Gengè, l'amico intimo riflesso allo specchio GENGÈ, da Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello. Drammaturgia di Roberto Bacci e Stefano Geraci. Regia di Roberto Bacci. Con Savino Paparella, Francesco Puleo, Tazio Torrini. Prod. Fondazione Pontedera Teatro, PONTEDERA (Pi). in tournÉE La domanda pirandelliana rimane inevasa dopo infinite riflessioni psicoanalitiche e innumerevoli interpretazioni filosofiche. Già dal titolo, però, stavolta per la regia di Bacci e la drammaturgia dello stesso più il fidato Stefano Geraci, la versione è più intima e familiare. Quel nomignolo “Gengè”, che dall’impersonale Uno, nessuno e centomila passa al formale nelle tabelle anagrafiche Vitangelo Moscarda, diventa vezzeggiativo tanto da farcelo sentire parente, amico o, addirittura, noi stessi. La scelta del titolo è importante, non va sottovalutata, apre scenari più profondi. La scena è scarna, sgombra come arena dove al suo interno agiscono tre facce della stessa medaglia, tre parti dello stesso cubo di Rubik a incastro. Hanno abiti che paiono uguali, completo marrone e camicia e calzini rossi, ma, in definiti-

regia di scaparro

Dumas e il sogno garibaldino nella Napoli post borbonica IL SOGNO DEI MILLE, da Les Garibaldiens di Alexandre Dumas. Drammaturgia di Roberto Cavosi. Regia di Maurizio Scaparro. Scene di Mario Torre. Costumi di Giuti Piccolo. Luci di Gino Potini. Musiche di Cristina Vetrone e Michele Maione. Con Giuseppe Pambieri e Vincenzo Nemolato. Prod. NAPOLI Teatro Festival Italia - Compagnia Italiana/ Centro Europeo Teatro d’Arte, ROMA - Fondazione Teatro della Pergola, FIRENZE. Nel florilegio senza fine delle celebrazioni 2011 per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia arriva anche questo spettacolo, un omaggio teatrale per certi versi “ufficiale” firmato Maurizio Scaparro e Napoli Teatro Festival. Nel mettere in scena un Alexandre Dumas (testimone giornalistico-letterario d’eccezione dell’Impresa dei Mille) nel carnevalesco caos della Napoli dei festeggiamenti dopo la fine del regime borbonico, in giorni di festa ed esaltazione in cui Garibaldi è già il monumento e il mito popolare che poi sarebbe rimasto per tutti nel tempo, Roberto Cavosi, autore del copione, e Maurizio Scaparro riescono a evitare, con destrezza, i rischi della convenzionalità, dell’oleografia e della retorica più o meno celebrativa. C’è solo qualche compiacimento di troppo nel ritratto, pure affascinante, del Dumas uomo di mondo di un Pambieri comunque autorevole ed elegante come sempre: un primattore, che si merita questa passerella di prestigio, ben affiancato dal giovane Vincenzo Nemolato, che mostra i segni - innegabili - di un talento autentico, da coltivare. È lui il ragazzo napoletano la cui storia emerge lentamente, col progredire dell’azione, in una serie di piccoli grandi colpi di scena. Una vicenda emblematica, la sua: quella di un italiano qualsiasi che ha combattuto, senza averne colpa e senza capire, dalla parte sbagliata, salvo poi accorgersi che certe cose non potevano essere accettate. Ed ecco che, sul filo di questa vicenda, pian piano lo spettacolo riesce a convincere, a emozionare, a lasciare un segno sullo spettatore, a colorire poeticamente la ricostruzione storica e celebrativa: fino all'epilogo, tragico, che riesce a essere toccante e commovente. Forse, allora, ci viene da dire, questo Risorgimento tanto lontano da noi, dalle nostre preoccupazioni, dai nostri pensieri è stato veramente qualche cosa di bello, di degno di restare nella nostra memoria viva e nel profondo della nostre coscienze. Anche oggi nel ventunesimo secolo.

Francesco Tei

Giuseppe Pambieri in Il sogno dei Mille (foto: Fabio Donato).

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criticHE/marche-abruzzo In questa pagina, una scena di Rain man; nella pagina seguente, Paolo Ferrari e Valeria Valeri in Gin game.

va, sono soltanto simili. Piccoli particolari li differenziano. Le loro voci si sommano, per finire a parlarsi all’unisono in un’eco in surround amplificato. Tre sedie da scambiarsi. Una crisi d’identità esistenziale che tutto rimette in discussione. Si vede la grossa mano registica di sudore e fatica imposta da Bacci ai suoi tre attori-atletimaratoneti che s’inzuppano in giravolte, pseudocoreografie, monologhi intensi, faccia a faccia impetuosi. Un ritmo infartuale che porta il fisico Savino Paparella a un’implosione benigna, il delicato Tazio Torrini a meno compiacimento, amalgamati da Francesco Puleo, di grande presenza, vocale e mimica. I tre accennano anche gli altri personaggi, caricandosi addosso la moglie Dida, l’amante pistolera Anna Rosa, il padre banchiere che qui appare come il Re amletico, senza farne macchiette. La consapevolezza di sé, la visione del sé allo specchio, la vista degli altri esterni su di sé. Tommaso Chimenti

Rain man, Lazzareschi degno di Hoffman RAIN MAN, di Dan Gordon. Traduzione e adattamento di Michele Renzullo e Saverio Marconi. Regia di Saverio Marconi. Scene di Gabriele Moreschi. Costumi di Carla Accoramboni. Luci di Valerio Tiberi. Con Luca Bastianello, Luca Lazzareschi, Valeria Monetti, Beppe Chierici, Irene Valota, Gian Paolo Valentini. Prod. Compagnia della Rancia, TOLENTINO (Mc). in tournÉE Quando nel 1986 uscì sugli schermi Rain Man - L’uomo dello pioggia di Levinson diventò subito un film cult. Solida la sceneggiatura di Barry Landon, tale da poter essere trasformata in un copione teatrale. Lo fece Dan Gor-

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don e ora, in versione italiana, a proporlo con risultato convincente e il protagonista perfetto, Luca Lazzareschi, è Saverio Marconi. Ispirato a un personaggio realmente esistito, Rain Man narra la storia di Raymond, un uomo affetto appunto da autismo che, dopo la morte del padre, eredita l’immenso patrimonio familiare e del suo fratello minore Charlie che, giovane cinico e arrivista, per beneficiare dell’eredità da cui è stato escluso, vorrebbe diventarne il tutore. Ed ecco (il suo è quasi un tentativo di rapimento) a strappare Raymond dalla clinica dove è condannato a vivere. Un atto sconsiderato. Ma quel viaggio per le città americane e l’intimità col fratello apriranno la coscienza del giovane. Con un cast di rilievo, Marconi dà vita a uno spettacolo che non manca di agganciare lo spettatore. Tutto condotto per linee chiare e decise, strutturato con quel taglio veloce e cinematografico di cui Marconi è maestro. Il tutto ancora saldato dentro una efficace scenografia che si presenta come una sorta di scatola-gabbia astratta e luminosa, dove concorrono diapositive ben scelte che scorrono su un fondale e recano l’immagine di un’America scintillante di false luci. Non ci sarà un Oscar in arrivo per il bravissimo Luca Lazzareschi, ma il premio arriva dagli applausi degli spettatori. Prosciugato da ogni superfetazione mattatoriale, da ogni esasperazione naturalistica, registra il suo Raymond con una verità che ti colpisce fin dalla sua prima, muta apparizione. Ogni gesto frutto di uno studio meditatissimo. Un dinamismo mimico il suo non artificiale, ma che pare sorgere dalle pieghe più sotterranee del candore della sua anima. Nel ruolo del fratello gli tiene testa con giusta baldanza giovanile Luca Bastianello, attore di cui è facile indovinare una carriera più che promettente. Anche per lui molti applausi. Domenico Rigotti

Fedra, Cosentino e gli altri

Un Bergman tutto da ridere

FEDRA – RIVISTA A TRANCI, di Andrea Cosentino. Regia di Valentina Rosati. Scene di Paolo Garau. Luci di Dario Aggioli. Con Simone Castano, Andrea Cosentino, Elisa Marinoni. Prod. Pierfrancesco Pisani-Teatro Stabile delle MarcheAmat, ANCONA.

SCENE DA UN MATRIMONIO, di Ingmar Bergman. Traduzione di Piero Monaci. Adattamento e regia di Alessandro D’Alatri. Musiche di Franco Mussida. Con Daniele Pecci e Federica Di Martino. Prod. Teatro Stabile d’Abruzzo, L’AQUILA. in tournÉE

in tournÉE Fedra-rivista a tranci non pare essere uno dei più riusciti nel repertorio del mattatore romano. Forse perché il testo non è nelle corde di Cosentino, troppo monolitico, troppo organico e forse troppo aulico per chi è abituato a lavorare, prima di tutto, su testi propri, spesso fondati sull’improvvisazione. O forse per il peso di una committenza esterna - in questo caso lo Stabile delle Marche -, cui l’attore ancora non è abituato. O forse per la presenza di altri interpreti, i pur bravi Simone Castano ed Elisa Marinoni. Fatto sta che Cosentino non riesce qui a trovare dei momenti di autentica libertà, infondendo alla materia il gusto per il surreale che gli è proprio. Ci sono, è vero, dei momenti assolutamente esilaranti, come quello della mantecatura della pecora, entro la divertentissima gag del telegiornale. O, ancora, la caccia a Dio, perseguita da Ippolito, piuttosto che l’immagine iniziale del re Teseo, in macchina con la famiglia. Ma a questi momenti, decisamente personali, ne sono affiancati degli altri dove l’inventiva di Cosentino pare affievolirsi. Come nella scena della seduzione tra Fedra e Ippolito. Iniziata bene, parodiando i toni aulici della tragedia, ma presto appiattita sui binari vieti della tradizione, quasi fosse un corpo estraneo inserito a forza nello spettacolo. Non basta, in questi momenti, il talento eccezionale che Cosentino ha per il narrare, non bastano la sua mimica e la felicità inventiva, quella leggerezza e spontaneità che ne fanno un attore di peso assoluto: lo spettacolo zoppica, traballa. Non riesce a trovare un filo unitario che ne giustifichi appieno l’operazione. Rimandando a un’altra, più favorevole occasione, un nuovo incontro di Cosentino con la classicità. Roberto Rizzente

Curioso come possano cambiare i punti di vista. Anche di fronte ai (nuovi) classici. Così uno magari si aspetta di andare a vedere il Bergman più straziante e autobiografico, di dover spingere la propria paranoia di spettatore verso i peggiori interrogativi relazionali, e invece si ritrova in una sorta di commediola di quelle che tanto spopolano ultimamente nei cinema. E la platea del centro cittadino si sbellica, neanche fosse Checco Zalone. Sensazione non proprio piacevole. Perché se l’obiettivo è quello di far sorridere di se stessi, di giocare sulle (inflazionatissime) dinamiche di coppia, non c’era motivo di coinvolgere il colosso svedese. Come se si prendesse Apocalypse Now per raccontare di una gita in barca. Ma D’Alatri sceglie qui il taglio della commedia all’italiana, sforbicia e ricuce, rende i due protagonisti molto più giovani e passionali degli originali del film del 1973 (Liv Ullmann ed Erland Josephson), accantona rigore e razionalità scandinavi per buttarla sulla risata. Ne esce così un mosaico di scenette edulcorate in un’affascinante scenografia di teli candidi, inframmezzate dalla chitarra di Franco Mussida (ex Pfm). Ma anche la dimensione onirica e intimissima cui farebbe pensare l’allestimento, viene frustrata dall’incapacità del dialogo di scalfire fosse solo la superficie bergmaniana. Una coppia borghese, con le sue paturnie. Poco altro. Con l’animo umano e il suo (ir)risolto confronto con le aspettative sociali e gli affetti, dimenticato da qualche parte. Belli e volonterosi Daniele Pecci e Federica Di Martino, ma inadeguati nel colmare il vuoto di senso. Viene però il dubbio se glielo si è mai neppure chiesto. Peccato. Rimane la sensazione di un’occasione sprecata. La prima produzione post-terremoto del Teatro Stabile d’Abruzzo, forse avrebbe meritato profondità e intensità maggiori. Invece che una stanca metafora sui crolli, relazionali o materiali che siano. Diego Vincenti


critiCHE/lazio

Cristina primadonna del nostro Risorgimento LA BELLE JOYEUSE, testo e regia di Gianfranco Fiore. Scene di Sergio Tramonti. Costumi di Sandra Cardini. Luci di Pasquale Mari. Con Anna Bonaiuto. Prod. Pav, ROMA. in tournÉE Non fu una donna comune la principessa Cristina di Belgioioso: intellettuale, scrittrice, filantropa, infermiera, imprenditrice, viaggiatrice; amata da uomini di cultura così come dal popolo, temuta dai potenti e scomunicata dalla Chiesa. Cristina, però, fu innanzitutto un’attrice ma, a differenza di molte primedonne, non si affidò mai a registi e/o drammaturghi, bensì scrisse sempre da sé la propria parte e seppe egregiamente dirigersi da sola. L’eccentrica e decisa principessa scelse autonomamente il ruolo di protagonista del Risorgimento italiano, sostenendo economicamente i patrioti fuoriusciti e allestendo un ospedale da campo nella futura capitale durante i giorni gloriosi della Repubblica Romana. E, sempre da sola, Cristina decise di trasferirsi nel Medio Oriente, prima in Turchia, poi in Siria e in Libano, dove diede vita ad aziende agricole, lavorando lei stessa la terra e sopravvivendo persino a un tentato omicidio dettato da motivi passionali. Il testo di Gianfranco Fiore, anche misurato regista, ripercorre le vicende dell’intrepida donna a partire dallo sfortunato matrimonio col principe Emilio - dal quale formalmente non si separerà mai, malgrado la sifilide da lui contratta - fino alla pacificata vecchiaia. L’unica reticenza riguarda la nascita della figlia Maria, un segreto che Cristina vuole conservare con sé, mentre la sincerità e la schiettezza contraddistinguono il racconto delle alterne vicende della sua vita non ordinaria. E, sulla scena, Cristina ha il volto dalla mimica moderata e controllata e il corpo sottile e nervoso di Anna Bonaiuto. L’attrice, stretta in un severo abito di velluto nero, si aggira in un salotto spoglio, animato da un enorme baule che rimanda, nella foggia, a un libro prezioso, a segnalare la statura intellettuale della principessa. Mai sopra le righe, adeguatamente sarcastica e disincantata ma anche

appassionata e dolcemente materna, Anna Bonaiuto incarna al meglio le qualità di una donna che volle, e riuscì a, «sedurre il mondo». Laura Bevione

Corna alla francese, un triangolo quadrato LA VERITÀ, di Florian Zeller. Traduzione di Giulia Serafini. Regia di Maurizio Nichetti. Scene di Alessandro Chiti. Costumi di Silvia Morucci. Luci di Luigi Ascione. Con Massimo Dapporto, Antonella Elia, Susanna Marcomeni, Massimo Cimaglia. Prod. Enzo Sanny, ROMA. in tournÉE Un classicissimo triangolo che tende a trasformarsi in quadrato. In scena ci sono infatti due amanti (Michel e Alice) e i rispettivi coniugi (Laurence e Paul), che presto verranno a scoprire tutto anche perché le due coppie sono legate da rapporti di amicizia e sensi di colpa. Ma nessuno sembra scomporsi più di tanto, tutti hanno i loro bravi scheletri nell’armadio o preferiscono sopportare in silenzio. Tra una confessione e l’altra, le verità diventeranno molteplici, complicando un menage fatto di tradimenti veri e tradimenti raccontati, dove i ruoli di vittima e colpevole si scambiano allegramente. Ultima pièce dell’enfant prodige della drammaturgia francese, Florian Zeller, classe 1979, La verità è arrivata fresca fresca in Italia, scoperta e voluta da Massimo Dapporto che ne è anche, naturalmente, il protagonista, nel ruolo di Michel, sornione e ammiccante come la commedia e la regia dell’esperto Maurizio Nichetti comandano. Accanto a lui reggono altrettanto bene il gioco Susanna Marcomeni, la consorte tradita, e Massimo Cimaglia, ma anche Antonella Elia, pur bamboleggiando un po’ sopra le righe, tutto sommato si difende. Insomma, siamo di fronte al tipico buon prodotto medio, di solida fattura artigianale e adatto a quell’ampia fetta di pubblico che ama il teatro d’intrattenimento old style, dove regnano sovrani equivoci, corna e risate. E le ascendenze “nobili” di questo testo si rintracciano facilmente nel teatro boulevardier e nei meccanismi comici a orologeria alla Feydeau. Non sorprende: la Francia è la patria dell’autore, Florian Zeller, a cui va riconosciuta un’indubbia abilità nel costruire dialoghi e continui colpi di scena. Quel che invece sorpren-

de è che Zeller abbia solo trentadue anni: in senso positivo per il mestiere che già possiede, in senso negativo perché, rimanendo pure nell’ambito della commedia da boulevard, ci si potrebbe aspettare qualcosa di più fresco e innovativo. Claudia Cannella

Ferrari-Valeri partita a due GIN GAME, di D.L. Coburn. Regia di Francesco Macedonio. Scene di Bruno Garofalo. Costumi di Maria Grazia Nicotra. Musiche di Massimiliano Forza. Con Valeria Valeri e Paolo Ferrari. Prod. L’Associazione Culturale La Pirandelliana, ROMA - L’Incredibile s.r.l., ROMA. in tournÉE Gin game è un gioco di carte che unisce le solitudini di Fonzia e Weller, due anziani ospiti di una casa di riposo che trascorrono il tempo giocando e litigando, mentre si aprono tristi squarci sul loro passato. Grazie all’interpretazione di due mattatori come Valeria Valeri e Paolo Ferrari, si spazia dal sorriso provocato dal battibecco per la partita a carte, ai toni rabbiosi con cui Weller aggredisce la sua partner quando lei vince, alla malinconia quando emergono dolorosi episodi del passato. I due protagonisti si incontrano in una veranda, l’unico posto per sfuggire, alla domenica, alla fatidica caotica giornata di visita dei parenti di cui si sente il vociare dall’altra stanza. Man mano emergono particolari delle loro vite: Fonzia, tratteggiata con la consueta lievità da una splendida Valeri, si fa

insegnare a giocare, anche se probabilmente lo sa già, poiché vince sempre, ma emerge così che è abituata a mentire in modo simpatico, come quando racconta che il figlio vive in un altro paese e perciò non va a trovarla, mentre, in realtà, abita lì vicino e non ne vuole sapere di lei, come rivela lo scorbutico Weller. Tuttavia l’anziana signora non perde il buonumore e l’ironia, mentre Ferrari caratterizza il suo Weller con il dolore di chi si sente in gabbia e cerca nel gioco la sua occasione di rivalsa da una vita che si intuisce essere stata piena di fallimenti. La scenografia essenziale contribuisce a creare l’atmosfera rarefatta adatta alla vicenda. Albarosa Camaldo

C'è poca Manhattan in questo Neil Simon STANNO SUONANDO LA NOSTRA CANZONE, di Neil Simon. Regia di Gianluca Guidi. Scene di Alessandro Chiti. Costumi di Francesca Grossi. Luci di Valerio Tiberi. Musiche di Marvin Hamlish. Con Giampiero Ingrassia, Simona Samarelli e 6 danzatori. Prod. Loy Productions D&P Production, ROMA. in tournÉE È più “facile” allestire uno Shakespeare decoroso che un Neil Simon strepitoso. E un copione di Neil Simon, come They’re Playing our Song merita una messa in scena travolgente. Based on a true story, la love story tra il compositore Oscar(c) winner Hamlish e la paroliera Carol Bayer Sager, qui chia-

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criticHE/lazio

mauri/sturno

Al circo in fuga dal passato il sogno poetico di Andreev QUELLO CHE PRENDE GLI SCHIAFFI, di Leonid Nikolaevic Andreev. Adattamento e regia di Glauco Mauri. Scene di Mauro Carosi. Costumi di Odette Nicoletti. Luci di Gianni Grasso. Musiche di Germano Mazzocchetti. Con Roberto Sturno, Glauco Mauri, Barbara Begala, David Paryla, Leonardo Aloi, Marco Bianchi, Paolo Benvenuto Vezzoso, Lucia Nicolini, Stefano Sartore, Roberto Palermo, Mauro Mandolini. Prod. Compagnia Mauri - Sturno, ROMA. in tournÉE Ha ormai una lunga carriera alle sue spalle ma non ha mai perso né l’entusiasmo né la fiducia per il teatro. Ed è con questa convinzione che Glauco Mauri oggi si accosta a uno dei testi più ricchi e profondi di Leonid Andreev. Un’opera che già nel titolo, Quello che prende gli schiaffi, sembra racchiudere tutto il portato di una sensibilità umana capace di scrutare i meandri più sottili dell’anima e, insieme, l’angoscia di un pessimismo doloroso. E che l’attore affronta nel segno di una freschezza lieve di libertà e di sogno. Quasi una fiaba che oppone all’aridità dei tempi l’impronta onirica e avvolgente della poesia. Così che il Papà Briquet interpretato dallo stesso Mauri, novello Cotrone di una compagnia scalcinata di clown struggenti che sembrano irradiare intorno a sé umile purezza, campeggia sulla scena con lo splendore di una chioma bianca soffusa di paterna preoccupazione e di fanciullesca adesione d’artista alla gioiosa funzione della propria arte. Mentre la lacrimevole sorte di una ballerina muta che il padre scialacquatore destina alla rozzezza di un ricco barone si stempera, con l’interpretazione di Lucia Nicolini, in mitezza d’obbedienza dolente che l’acrobata innamorato accetta nel silenzio conchiuso di una rassegnata impotenza. E lo stesso fuoco disperato che spinge il protagonista, qui impersonato da un Roberto Sturno di duttile sensibilità, ad abbandonare la vita passata per cercare nella solidale spontaneità del mondo circense l’anonimato di una quasi dostoevskiana espiazione. Intorno, la cangiante leggerezza di tinte pastello delle scene di Mauro Carosi e la ricchezza iridescente dei bellissimi costumi di Odette Nicoletti, perfettamente fuse con le musiche di Germano Mazzocchetti a delineare la sospesa semplicità di un favolistico incanto. Dove quasi naturalmente accade che la morte si trasformi nuovamente in vita e che l’amore trionfi sul male del mondo. Come un sogno benefico di terrena felicità che le fiabe, nonostante tutto, ci consentono di sognare. Antonella Melilli Rossi

mati Vernon Gersh (senza il “win” di Big George, tocco di autoironia trasversale di Big Simon) e Sonia Walsh, è testo più complesso di quanto possa apparire. Questo hit musical del 1979, già nell’80 del secolo scorso trionfa a Londra con un protagonista maschile del calibro di Tom Conti. Segue, l’anno successivo, la versione italiana con Proietti/Goggi, che, vent’anni dopo, firma la regia per il duo Guidi/Baccarini. Ora la regia è di Guidi e risulta un po’ moscia. Il peso dello show si regge principalmente sulle spalle di Ingrassia, che tutto può interpretare tranne un nevrotico newyorker, e sulla verve, la voce e le gambe di Simona Samarelli, 1,72 di bionda franco-barese, già protagonista di Flashdance made in Italy e Sandra e Saraghina nel Nine di Saverio Marconi. Il meccanismo di Simon è, come s’è detto, complesso, non complicato: cita in versione soft il Long Journey di O’Neil e pirandellismi vari, ricorrendo ai 3 doppi dei protagonisti (tra le ragazze svetta l’eleganza di Federica Capra); sceneggia l’amore in corso tra il suo compositore e la giovane Sonia vera; mescola da grande chef i topoi di Broadway in salsa psicanalitica da precursore dei Woody Allen a venire; fa ruotare il plot intorno all’assente Leone, che forse è l’avatar di un aka (Gersh come Hamlish). Nulla di tutto questo e/o altro sottotesto vediamo in questo pur godibile allestimento. Che non è neppure garibaldino alla Proietti. Procede verso un tiepido happy end per ripartenze, dopo un primo atto tutto in difesa. Soffre della diffusa difficoltà ad americanizzare l’atteggiamento interpretativo italiano e quasi mai ci sentiamo a Manhattan. In questi casi, forse, bisognerebbe italianizzare la squadra come ha fatto il Trap con l’Irlanda europea. Fabrizio Sebastian Caleffi

Non tutta l'immondizia vien per nuocere TANTE BELLE COSE, di Edoardo Erba. Regia di Alessandro D’Alatri. Scene di Matteo Soltanto. Costumi di Giuseppina Maurizi. Luci di Adriano Pisi. Con Maria Amelia Monti, Gianfelice Imparato, Valerio Santoro, Carlina Torta. Prod. La Pirandelliana - L’incredibile s.r.l., ROMA. in tournÉE

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«La pou-belle sei tu/ che ti chiami Orsinà/ oh no cara/ non raccoglier più la spazzatura»: se fosse un musical (e il soggetto si presterebbe), la brava Monti canterebbe una canzoncina al gusto di babà al rhum tipo quella di cui ho inventato il ref r a in, r imas ter i z z a t a in jingle pubblicitario. E commercial style è la regia di D’Alatri. Orrore, che insulto! Errore: che sbaglio! Questo spettacolo cucina gli ingredienti più freschi della comunicazione contemporanea: autore italiano vivente, noto per la sua consuetudine con la Grande Mela e i suoi fenomeni tipo maratona, tema sociale dibattibile a Porta a Porta, regista indie italiano, un po’ indipendente un po’ mainstream, un po’ pop un po’ bollywood, protagonisti pepati comme il faut e, Torta sulla ciliegina, la magica Carlina, insieme al Santoro ben più simpatico dell’omonimo tribuno televisivo. La commedia narra di Orsina, una “hoarder”, cioè un’accumulatrice compulsiva, che fa l’infermiera a domicilio e mette a disagio i vicini, i quali non sopportano la sua mania di accumulare, ritenendola responsabile della sporcizia e delle puzze della palazzina. Per buttarla fuori, i condomini, guidati dalla implacabile Bolasco e dal viscido Eugenio, assumono un amministratore pieno di debiti e ricattabile, Aristide. Fra Orsina e Aristide c’è una spontanea simpatia e l’amministratore si illude di poterla aiutare a sgombrare tutto. Nella sua missione impossibile è costretto a entrare nella follia della donna, che è legata a ogni oggetto, anche il più piccolo, da un ricordo affettivo, da un progetto futuro, da un timore irrazionale di privarsene. In un crescendo di sapori e umori, la strana coppia trova motivi di scontro e di simpatia, arrivando fino a due passi dall’amore. Una ricetta boulevardier cucinata alla off Broadway. Edoardo Erba, nato a Pavia nell’anno delle Mille Miglia della Topolino, autore di copioni assai riusciti (Maratona di New York, Muratori ) e di un dramma legato alle automobili, Curva cieca, sulla vita di Achille Varzi, coglie qui un meritato successo con la formula melò/dramma a ciglia asciutte. Successo condiviso da interpreti e regia. Fabrizio Sebastian Caleffi


critiCHE/lazio-campania

Riunione di famiglia con aspirante suicida PRIMA DI ANDAR VIA, di Filippo Gili. Regia di Francesco Frangipane. Scene di Francesco Ghisu. Costumi di Bianca Gervasio. Luci di Javier Delle Monache. Musiche di Roberto Angelini. Con Giorgio Colangeli, Filippo Gili, Michela Martini, Vanessa Scalera, Silvia Siravo. Prod. Doppia Effe Production Teatro Argot, ROMA. Un padre, una madre e tre figli riuniti attorno a un tavolo per quello che sembra un periodico incontro familiare. Dove la conversazione si snoda con superficialità frizzante di brillantezze intellettual-chic e pedestri informazioni sulla prole rimasta a casa. E dove i due anziani, qui interpretati con coinvolgente duttilità da Giorgio Colangeli e Michela Martini, costituiscono il perno di una normalità soddisfatta e appagata. Non senza lasciar trasparire tuttavia nella diversità dei caratteri un presentimento di inquiete dinamiche che sembrano trascorrere dalla figura posata del padre alla silenziosa sollecitudine della madre, dal cinguettio vagamente snob di una sorella alla sommessa laconicità dell’altra, all’appartato mutismo del fratello. E in realtà chiuso in un’angoscia che si abbatte improvvisa sulla fatuità della serata con l’annuncio del suo imminente suicidio. Un’autentica mannaia che allo spettacolo imprime una subitanea virata di sgomenta tragicità e che la regia di Francesco Frangipane accompagna con tesissima compattezza lungo il percorso impervio di questo Prima di andar via, dove il titolo emblematicamente rimanda al senso di un congedo, un andar via dalla propria vita che tuttavia sente il bisogno insieme di un ultimo saluto e di una spiegazione atta ad allontanare dai propri cari ogni prevedibile eredità di interrogativi e sensi di colpa. Ma che non può non apparire anche crudele agli occhi di chi resta, destinato a dibattersi fra incredulità, impotenza, tentativi inutili di dissuasione e inevitabili ribellioni di umanissima visceralità: stati d’animo e comportamenti che di ciascuno rivelano la natura più profonda, grazie anche al ruolo determinante di una colonna sonora di quasi spartana efficacia. E grazie a un

gruppo di interpreti che, sia pure tra qualche divario di maturità espressiva, concorrono con affiatata partecipazione alla realizzazione di uno spettacolo di indubbia e serrata incisività. Antonella Melilli Rossi

Donne si diventa? LULU, RUUD E LE ALTRE, drammaturgia e regia di Emanuela Cocco. Scene e costumi di Cinzia Iacono. Con Cristina Aubry. Prod. Compagnia Franz Biberkoff, ROMA. Lulu, Ruud e le altre. Lulu è una ragazza fatta donna, senza voler perdere quei desideri e quegli elementi che la facevano ragazza; Ruud è silenziosa e dura, ha i capelli come il famoso calciatore olandese, Gullit, da cui prende il nome (e che forse vuol dirsi “rude”, come appunto appellata). Donne. Ma lo sguardo su di loro è quello dell’altra, che è loro amica e ne racconta i risvolti che ne determinano la vita quotidiana, ciò che portano nel mondo e che fa la loro giornata. E quella delle altre. In questa comunità femminile - nata per le donne vittime di violenza domestica - si cresce e ci si confronta, si fa scudo alla delusione, si gioisce delle improvvise piccole felicità, si confrontano i disagi: il monologo di Cristina Aubry (scritto e diretto da Emanuela Cocco, vincitore del concorso nazionale “Per Voce Sola” 2010) è un piccolo affresco al femminile che combatte, con la leggerezza e con la forza della comunità, le difficoltà d’inserimento in una società che tende a dimenticare. Donne si nasce o si diventa? È questa la domanda che lo spettacolo tenta di onorare, per farlo invia una donna nella vita delle altre perché le racconti e - per quanto possibile - le sveli. Da un salotto in cui si proietta la scena del gatto bagnato in Colazione da Tiffany, con il ritratto di Simone de Beauvoir su un tavolino, la Aubry passa in rassegna tutte “le altre”, aiutandosi con una playlist musicale. La bontà dell’obiettivo, tuttavia, non assolve la resa scenica, che è piuttosto fragile e segue uno schema ripetitivo; fragile è anche il testo che manca di un guizzo e che la Cocco porta in scena con assoluta sincerità, ma senza che si possa parlare di una ricerca oltre l’ordinaria rappresentazione, senza uno spunto artistico sulla materia. Simone Nebbia

napoli teatro festival

Kevin Spacey mattatore sanguinario per un Riccardo III da Oscar RICHARD III, di William Shakespeare. Regia di Sam Mendes. Scene di Tom Paine. Costumi di Katherine Zuber. Luci di Paul Pyant. Musiche di Mzark Bennet. Con Kevin Spacey, Chandler Williams, Howard Overshown, Jache Ellis, Annabel Scholey e altri 15 interpreti. Prod. The Old Vic, LONDRA - NAPOLI Teatro Festival Italia. Il “pezzo da novanta” il Napoli Teatro Festival l’ha sparato proprio alla fine. Un Riccardo III folgorante, con un attore protagonista che lascia un segno indelebile, Kevin Spacey. La ribalta il suo ring preferito ma il cinema a dargli fama e a regalargli due Oscar. Uno per American Beauty diretto da Sam Mendes. Quel Mendes che ora del fosco, spietato personaggio gli ha fatto rimettere addosso i panni. È Richard III, la più nota delle tragedie storiche del Bardo. La più nera e cruda, ruotante intorno a un personaggio gigantesco, quello appunto di Riccardo Duca di Gloucester che conquista il trono d’Inghilterra trucidando o facendo trucidare tutti i parenti di qualsiasi grado e di qualsiasi età che vantino sulla corona titoli superiori ai suoi. Il più nero dei personaggi storici, Riccardo duca di Gloucester, che mette la sua deformità morale (spaventosa quanto quella fisica e anche Spacey la dimostra) al servizio di una inestinguibile sete di potere: la sete di tutti i dittatori, di ieri fino a quelli del nostro tempo, da Hitler e Pinochet a Gheddafi. Il Medioevo andava estinguendosi ed era l’epoca in cui York e Lancaster lottavano fra loro. Lance, elmi e corazze scompaiono con Mendes e tutto affonda, con segno deciso, nel presente, senza peraltro che nulla vada perso della densità e della potenza del linguaggio scespiriano. E ciò anche per merito di un interprete che, oltre alla maestosa grandezza gestuale, possiede un’infallibilità vocale. Sa come si sillaba una parola, come può incidere sulla platea una battuta, una frase. Dall’iniziale «l’inverno del nostro scontento», fino alla lacerante invocazione finale «A horse! A horse! My Kingdom for a horse!» («Il mio regno per un cavallo!»). E Spacey s’affloscia a terra come un fantoccio e poi verrà impiccato a testa in giù nel sangue. Scena possente, forse però eccessiva, da sfiorare il grandguignolesco. Certo tra le più a effetto di uno spettacolo di alto livello. Anche se la lettura resta piuttosto nella tradizione. Ritmo serrato. Gran dinamismo. Tutto agito frontalmente a diretto contatto con lo spettatore. Sequenze contrassegnate da indicazioni che si riferiscono a personaggi e luoghi. Con una scena fissa e le pareti una teoria di porte che alla fine troveremo segnate tutte da una “x” che simboleggia i delitti compiuti. Uno spettacolo nel quale Spacey fa da grande star. Gli altri (attori inglesi e attori americani, e più di una presenza di colore) anch’essi bravi, ma forse privi di un’autentica personalità.

Domenico Rigotti Riccardo III (foto: Alastair Muir).

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La casa di Bernarda Alba (foto: Fabio Donato).

criticHE/campania

Malacrescita ovvero fare di necessità virtù MALACRESCITA, testo, regia e interpretazione di Mimmo Borrelli. Musiche di Antonio Della Ragione. Prod. Marina Commedia, NAPOLI. in tournÉE Il titolo completo del nuovo, delirante ed emozionante spettacolo di Mimmo Borrelli così recita : Malacrescita, tratto dalla tragedia “La Madre: ‘i figlie so’ piezze ‘i sfaccimma”. E in effetti il vulcanico attore, drammaturgo e regista napoletano ha tratto questo assolo proprio dall’opera, corale e decisamente spettacolarmente più complessa, che ha debuttato, con il titolo appunto de La Madre, la scorsa stagione con grande successo. I tempi sono quelli che sono e - è proprio lui a confessarlo - una grossa produzione stenta a girare mentre un monologo accompagnato dalle musiche di Antonio Della Ragione, che costituiscono esse stesse una partitura drammaturgica parallela, ha più probabilità di essere richiesto. D’altronde il testo, nella sua lunga genesi, è nato prima come un flusso di visioni per voce sola e Malacrescita quindi segna un po’ un ritorno alla struttura originaria. Il teatro di Borrelli si è addolcito nell’asprezza del linguaggio che lo ha sempre contraddistinto e qui lo straordinario impasto di dialetto flegreo e lingua italiana vira decisamente verso quest’ultima. Intatta però resta la malia dei suoni e la crudeltà delle

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storie, vicende che portano il mondo degli dei al cospetto della violenza dell’oggi. Ecco quindi la protagonista, Maria Sibilla Ascione, bambina avvezza ai miracoli della Madonna, incontrare poi l’uomo della sua vita, il camorrista che la renderà donna e che l’amerà di un amore travolgente ma breve. Questa Medea dei giorni nostri non ammazzerà però i suoi figli, ma li allatterà con il vino, ne farà una coppia di gemelli deficienti e sono appunto loro che narrano il loro mondo senza riscatto. Un cerchio magico delimitato da bottiglie vuote di plastica e da fiori finti indica il luogo del rito, prigioniero del quale l’interprete (lo stesso Borrelli) è uno sciamano che segna con i gesti, le parole e con il colore delle luci il rituale violento evocatore di fantasmi senza pace. Una vertigine che non può non catturare lo spettatore ancora una volta prigioniero egli stesso dell’arte di un teatrante eccezionalmente singolare. Nicola Viesti

I versi della Spaziani per la Pulzella d'Orlèans GIOVANNA D’ARCO, romanzo popolare in sei Canti in ottave e un Epilogo di Maria Luisa Spaziani. Regia di Luca De Fusco. Musiche di Antonio Di Pofi. Con Gaia Aprea. Prod. Teatro Stabile di NAPOLI. Un corridoio divide in due il palcoscenico del Ridotto del Mercadante di Napoli. Ai due lati siedono, in due file frontali, gli spettatori. Gaia Aprea lun-

go questo corridoio dà voce ai bellissimi versi in ottave di endecasillabi della Giovanna D’Arco di Maria Luisa Spaziani, il Romanzo popolare in sei canti e un epilogo, scritto «con passione e inesplicabile furia» nel 1988, e che suggella l’amore della poetessa torinese per Giovanna, alla quale ha dedicato anni di ricerche e di febbrili letture. Una messinscena scarna ed essenziale dove a dominare è la semplicità di un bianco abbagliante. Luca De Fusco per la terza volta in undici anni lo adatta per la scena. Nel 2000 ne fece un oratorio per voce e orchestra con musiche composte da Paolo Furlani. Nel 2005 lo adattò in forma più intima, quasi colloquiale. Ancora dopo sei anni firma una regia che, nella sua nuda semplicità, tenta di valorizzare lo splendore dei versi. Il muro bianco, lo schermo che si illumina dell’incipit del testo si materializza sul fondo del palco. I versi si stagliano nitidi e ripercorrono la vita della Pulzella d’Orlèans. La creatura di Dio, la strega, la vergine armigera e l’eroina, si mescolano nel poema della Spaziani e disegnano la donna, guerriera e santa, diventata simbolo del patriottismo francese. Il misticismo, l’ostinazione del personaggio tratteggiato dai versi non trova alloggio nello spettacolo. La regia di De Fusco si limita ad accompagnare la prova di un’attrice che, con generosità fisica e sapiente utilizzo dei registri espressivi, narra le gesta della pulzella senza restituirne le sfumature. Il racconto scorre fluido durante i sessanta minuti dello spettacolo, ma a emozionare sono ancora le parole. Giusi Zippo

Bernarda Alba italiana per Pasqual e la Sastri LA CASA DI BERNARDA ALBA, di Federico García Lorca. Regia di Lluís Pasqual. Scene di Paco Azorín. Costumi di Isidre Prunés. Luci di Maria Domènech. Musiche di Josep M. Arrizabalaga. Con Lina Sastri, Anna Malvica, Gaia Aprea, Chiara Baffi, Marcella Favilla, Azzurra Antonacci, Federica Sandrini, Maria Grazia Mandruzzato, Olivia Spigarelli, Dely de Majo, Dalal Suleiman. Prod. Teatro Stabile di NAPOLI - Teatro Stabile di CATANIA NAPOLI Teatro Festival Italia. in tournÉE

Un’istantanea della Spagna franchista, schiacciata dalla dittatura, lo spettacolo di Lluís Pasqual, La casa di Bernarda Alba, capolavoro di Federico García Lorca, scritto alla vigilia della sua fucilazione per mano dei falangisti. Ma anche il manifesto di una società violentemente maschilista. Il dramma familiare che si consuma nella casa di Bernarda è dunque al contempo denuncia e metafora di una società repressiva e sessuofoba. Incentrato sulla figura della tirannica e folle Bernarda Alba che in seguito alla morte del suo secondo marito impone un lutto rigoroso della durata di otto anni alle sue cinque figlie, Angustias, Magdalena, Amelia, Martirio e Adele, impedendo loro di vivere e di amare. Solo alla primogenita, che ha ereditato una parte consistente del patrimonio paterno, sarà concesso di sposarsi con Pepe il Romano, unicamente interessato alla sua dote e amante della sorella minore. Come in una tragedia greca, l’inizio dello spettacolo è segnato dall’entrata in scena di un coro di donne vestite di nero in contrasto con l’abbagliante bianco della scena. Il palcoscenico posto al centro della platea la divide orizzontalmente. Le file di poltrone e di palchetti ridotti alla metà si contrappongono a una gradinata che si erge alle spalle del palco, e gli spettatori, posizionati nei due semicerchi ai lati del palco, godono di una visione oriz zontale dello spettacolo. Si sbircia nella casa di Bernarda, si spia il precario equilibrio emotivo delle cinque figlie e la follia della vecchia madre di Bernarda. Vigila sulle figlie, pronta a reprimere e castigare, come un severo giudice. Uno spettacolo dal congegno perfetto, una regia asciutta e illuminata, che replica in versione italiana il bell’allestimento già realizzato da Pasqual in Spagna con Nuria Espert protagonista, attrici tutte perfettamente in parte. Lina Sastri, assoluta nel suo ruolo di austera matriarca, coglie le molteplici sfumature del personaggio di Bernarda. Molto brava Maria Grazia Mandruzzato nel ruolo di Ponzia, la depositaria dei segreti delle donne della casa, intense e poetiche Federica Sandrini e Chiara Baffi nei ruoli della ribelle Adele e della conciliante Maddalena. Giusi Zippo


critiCHE/calabria-sicilia

L'Iliade vista dagli ultimi

Mascia in Casa Cupiello

L’ULTIMO INGANNO – UN’ALTRA ILIADE, testo e regia di Salvatore Arena e Massimo Barilla. Scene di Aldo Zucco. Costumi di Patrizia Caggiati. Luci di Beatrice Ficalbi. Con Salvatore Arena. Prod. Mana Chuma Teatro, REGGIO CALABRIA - Fondazione Horcynus Orca, REGGIO CALABRIA - Teatro delle Briciole, PARMA.

NATALE IN CASA CUPIELLO, di Eduardo De Filippo. Regia di Nello Mascia. Scene di Pietro Carriglio. Luci di Pietro Sperduti. Con Nello Mascia, Benedetta Buccellato, Roberto Giordano, Sergio Basile, Danila Stalteri, Gino Monteleone, Franco Scaldati, Andrea Vellotti, Fiorenza Brogi, Aurora Falcone, Domenico Bravo, Massimo D’Anna. Prod. Teatro Biondo Stabile di PALERMO.

in tournÉE La guerra. La verità non creduta. I sentimenti. La vita. Visti dagli ultimi. Una descrizione epica, non narrata dagli eroi, bensì dagli uomini semplici, che fanno quella guerra, che la vivono, che sono più “umani”, mentre i grandi eroi diventano personaggi raccontati anche nelle loro debolezze. L’altra Iliade che propone Mana Chuma Teatro, non rappresenta però “solo” un approccio diverso a una storia universale: è una ricerca accuratissima sul linguaggio, è una narrazione innovativa, è una messinscena in cui il ritmo non cade mai, grazie ai continui passaggi da un tono ad un altro; è un racconto in cui le scene e la luce diventano protagoniste, in cui i sentimenti e le emozioni passano anche attraverso questi elementi. Ed è soprattutto un’intensa prova d’attore: ancora una volta, infatti, Salvatore Arena mostra al pubblico la sua poliedricità, la sua forza interpretativa, la sua capacità di passare dal momento divertente a quello drammatico, utilizzando voce e fisicità al servizio dei diversi personaggi che rappresenta. Questa rivisitazione dell’Iliade, realizzata dallo stesso Arena e da Massimo Barilla, si basa infatti sull’osservazione della storia dalla parte di una vedetta troiana e del greco Tersite, che fa un po’ da giullare per le truppe: aspetti tragici e comici che si uniscono, prima del momento in cui la vita e la guerra arriveranno a chiedere il conto. Arena passa da un personaggio all’altro, utilizzando linguaggi e toni differenti, con uno stile innovativo, anche per la compagnia, arricchito da una serie di citazioni, alcune molto esplicite (Eduardo e Shakespeare), altre riconoscibili con minore immediatezza, ma sempre molto intense. Un altro viaggio nella storia dell’uomo, dunque, per Mana Chuma Teatro, un nuovo percorso scenico e teatrale che colpisce nel segno. Paola Abenavoli

in tournÉE Una commedia “affatata”. Così definiva Eduardo il suo Natale in casa Cupiello. E commedia “affatata” lo è davvero, se dal debutto nel 1931 continua a conquistare il pubblico con la storia, così delicatamente grottesca e tragica al tempo stesso, di un vecchio fanciullo troppo preso dalla preparazione del suo presepe per poter o, forse, per voler vedere le trame meschine della realtà che lo circonda. Dove non manca la minaccia incombente di una giovinezza ribelle di figlia, pronta a rinunciare a marito e benessere per il giovane di cui è innamorata, che finisce per scardinare il sorriso della commedia in epilogo inatteso di tragedia sgomenta. Un’opera di scrittura sapiente e di ininterrotto successo, dunque, che Nello Mascia, anche regista, ripropone oggi con l’intento dichiarato di dimostrarne la modernità. Attingendo per questo alle suggestioni accumulate nella sua lunga carriera d’interprete at traverso la frequentazione degli autori più significativi del Ventesimo secolo. E tendendo al tempo stesso alla realizzazione di un gioco scenico che ruota attorno al lavoro degli attori e alla purezza di una comicità semplice e diretta. Dichiarazioni di intenti che tuttavia sembrano restar tali all’interno del presente allestimento. Dove l’attore, che qui indossa i panni del protagonista, tende a realizzare una contrapposizione netta fra il mondo del sogno, da lui eletto a rifugio contro la realtà, e quello della moglie che della realtà al contrario guida e orchestra l’intero peso. Senza peraltro riuscire a portare in superficie affinità e apparentamenti, da lui individuati, di grettezze, chiusure e ipocrisie fra la borghesia del Ventennio in cui si snoda l’azione e l’umanità dei nostri giorni. Mentre i personaggi, coronati da una bombetta eletta a simbolo dei comici d’ogni tempo, assumono inattesi rimandi beckettiani che, se nulla tolgono, nulla

saverio la ruina

Italiani d’Albania, albanesi d’Italia quando la Storia rimuove le sue tragedie ITALIANESI, drammaturgia, regia e interpretazione di Saverio La Ruina. Luci di Dario De Luca. Musiche di Roberto Cherillo. Prod. Scena Verticale, CASTROVILLARI (Cs). in tournÉE Non è semplice raccontare la forza icastica della semplicità. Specialmente se a incarnarla è un artista come Saverio La Ruina. Forse si può cominciare dalla fine, dal modo un po’ sorpreso e sospeso, estremamente consapevole, con cui l’attore-drammaturgo-regista prende gli applausi, dall’attenzione che riserva a ogni persona che lo va a salutare, da quel suo chiedere all’altro di altro. Una mia cara amica attrice e scrittrice (Cinzia Villari) gli dice nel foyer del Teatro India: «Sei il più bravo». Lui la guarda come se non avesse compreso, poi risponde: «Me lo ricorderò, nei momenti di difficoltà, quando ne avrò bisogno». È una scena fuori scena, che però adesso mi serve ad avvicinarmi alla scena così come fa lui, Saverio, di soppiatto. Italianesi è uno spettacolo meraviglioso e lui, Saverio, è il più bravo. Ha ragione la mia amica. Ma perché? L’elemento sconvolgente non è nella storia, che pure è originale e fa riferimento a una tragedia rimossa dai libri di storia: i campi di prigionia in Albania dove furono rinchiusi, torturati e condannati ai lavori forzati tutti coloro che il regime dittatoriale giudicò nemici politici. Il protagonista del racconto-monologo di Saverio La Ruina vi nasce nel 1951. Figlio di un militare italiano, è trattenuto a forza con la madre in Albania, quando il padre viene rimpatriato. Nel campo, si innamora e impara il mestiere del sarto. Arriva la fine della dittatura, e il bambino, ormai divenuto uomo, arriva come profugo in Italia, per incontrare finalmente il padre. Comincia a questo punto un secondo viaggio di tortura, a contatto con un Paese che lo denigra e lo scaccia come albanese. Italiano, ovvero traditore fascista in Albania, albanese cioè cittadino di serie B, in Italia. Questa la storia, che nella scrittura per corpo e voce di Saverio La Ruina diventa limpida come acqua di lago, tanto più limpida quanto più tragica. La grandezza è nel modo con cui l’interprete porge le parole al suo pubblico, in un tono sommesso, con una grazia che crea in platea un movimento di vento caldo, capace di entrare nelle ossa e provocare una ferita senza sangue. A memoria, dai tempi di Eduardo De Filippo non si vedeva un uso così sapiente della pausa recitativa, che diventa precoce invecchiamento, presagio, tempesta interiore. Katia Ippaso Italianesi (foto: Angelo Maggio).

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criticHE/sicilia

aggiungono alla pregnanza della narrazione. Con un risultato un po’ corrivo e inerte, che non riesce a trovare la strada per scavare nella profondità dei diversi caratteri, né a far emergere dalla precisione delle sfumature e delle intonazioni, dall’esattezza dei tempi e delle pause, tutto il portato metaforico della vicenda e la complessità sfaccettata di allusività, di sentimenti, di pensiero che la parola di Eduardo possiede. Antonella Melilli Rossi

schia (per assurdo) un conformismo di “ritorno”, da pseudo-rivoluzionari. Per un lavoro non ancora compiuto come i precedenti Ouminicch’ e ’A Cerimonia, ma che comunque lascia la sensazione complessiva di una compagnia adulta, già chiaramente riconoscibile per talenti, linguaggi ed estetiche. Non poco. Anche da gestire. Ma sulla Compagnia del Tratto vien da scommettere con una certa serenità. Diego Vincenti

gesti prosciugati all’essenziale e gusto inarrivabile per la battuta folgorante – trova un interprete di riferimento. Ma tutti gli altri non sono da meno: dal tronfio Semmolone di Perracchio all’irresistibile Luisella di Mignemi, civitota verace di martogliano spessore, dalla governante inglese di Ferrante, icona di promozione sociale, all’umanissimo Pa-

squale di Leggio. Ma una menzione speciale merita Rossana Bonafede, che è una Bettina mercuriale, minuscola ma imprescindibile dea ex machina dell’azione: e quando salta in groppa a Luisella, nel corso di una lite d’antologia, la diresti un Puck di shakespeariana levità, pronta a mettere ordine nei casi della vita e del cuore. Giuseppe Montemagno

regia di pagliaro

Donne alla siciliana MANICHÌNI, drammaturgia e regia di Rosario Palazzolo. Musiche di Vincenzo Biondo. Con Monica Andolina, Delia Calò, Chiara Pulizzotto. Prod. Compagnia del Tratto, PALERMO. in tournÉE (De)costruire la famiglia. Farla esplodere in mille pezzi, neanche fossimo in Zabriskie Point. O almeno aprirci qualche crepa, sgrassarne la patina benpensante, agitare i conformismi attraverso storie di donne alla siciliana. Fimmine. Con una madre strega ad accompagnare le vicende attraverso un filmato video; una moglie chioccia e vuota come i suoi figli pupazzi; una donna (amante, forse) limitata dalla vita e dal ruolo. E poi un’altra, lei o lui poco importa, detonatore drammaturgico ma per buona parte persa a giocar con santi e fanti, in un’atmosfera infantile, vagamente mistico-pop. Loro i protagonisti, vittime ma soprattutto carnefici di se stessi, imbrigliati in legami di sangue sull’orlo di una crisi di nervi, ma in realtà anche spazialmente suddivisi in oasi desertiche e autoreferenziali. Isole, senza essere arcipelago. Finirà a schifio. In una forma che si fa sostanza ma che tradisce uno dei limiti più evidenti del lavoro, la sua frammentarietà. Una solitudine di numeri primi incapace di rendersi drammaturgicamente omogenea, dove la reiterazione di ritmi e di voci tende a un certo immobilismo paludoso, che affatica. Come se la bella scrittura di Palazzolo – sempre abile a livello linguistico, in bilico fra italiano e dialetto – non riuscisse questa volta a trovare pieno sfogo nelle dinamiche sceniche. E nonostante la forza di alcune immagini (e di alcuni orrori), appare un poco convenzionale la chiave con cui si cerca di scardinare l’idolo italico per antonomasia: la famiglia. Di nuovo attaccata dall’interno da perbenismi, travestimenti, frustrazioni e voglie represse. Armi spuntate. E si ri-

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Apologo eduardiano della pancia vuota Miseria e nobiltà, di Eduardo Scarpetta. Regia di Nicasio Anzelmo. Scene di Riccardo Perricone. Costumi di Angela Gallaro. Luci di Sergio Noè. Coreografie di Silvana Lo Giudice. Con Tuccio Musumeci, Marcello Perracchio, Rossana Bonafede, Margherita Mignemi, Massimo Leggio, Barbara Gallo, Egle Doria, Plinio Milazzo, Valentina Ferrante, Aldo Toscano, Claudio Musumeci, Salvo Scuderi, Giorgia Migliore, Giuseppe Testa. Prod. Teatro della Città, CATANIA. Miseria e nobiltà segna un passaggio importante nella carriera di Tuccio Musumeci: complice il fortunato adattamento di Anzelmo, infatti, per la prima volta l’artista catanese si cimenta con il repertorio napoletano, opportunamente voltato in siciliano. Felice Sciosciammocca trova così cittadinanza alle falde dell’Etna negli anni del boom economico: ultimi avanzi di nobiltà sembrano precipitare nell’inarrestabile ascesa di arrampicatori sociali dell’ultim’ora, e gli uni e gli altri trovano intralcio in una lingua che non padroneggiano ancora, l’italiano, e in un’altra che stenta ad adattarsi al mutamento sociale, il siciliano. A far da cornice all’azione, Perricone disegna una cucina in bianco e nero, per il primo atto, luogo di incontro e di scontro di due famiglie alle prese con un problema di sconcertante attualità: la fame. Poi sarà la volta dei colori sgargianti di una villa di Taormina, degli stratosferici costumi di Gallaro, che costruisce esorbitanti silhouettes, autentiche maschere pirandelliane di una finzione sin troppo simile alla realtà. E allora i due vertici della commedia, il celeberrimo pranzo come l’abbuffata di gelati in casa di Semmolone, diventano apologo di quella pancia disperatamente vuota che in Musumeci – profilo segaligno alla Eduardo,

L’irresistibile ascesa di una serva padrona LA MENNULARA, di Simonetta Agnello Hornby. Adattamento di Simonetta Agnello Hornby e Gaetano Savatteri. Regia di Walter Pagliaro. Scene di Giovanni Carluccio. Costumi di Elena Mannini. Luci di Franco Buzzanca. Musiche di Marco Betta. Con Guia Jelo, Pippo Pattavina, Ileana Rigano, Mimmo Mignemi, Angelo Tosto, Fulvio D’Angelo, Filippo Brazzaventre, Emanuele Puglia, Valeria Contadino, Camillo Mascolino, Alessandro Idonea, Raniela Ragonese, Sergio Seminara, Raffaella Bella, Giorgia Boscarino, Yvonne Guglielmino. Prod. Teatro Stabile, CATANIA. Una vertiginosa, piranesiana successione di scale s’interseca sulla scena della Mennulara, ad immagine dell’identità inafferrabile della protagonista del romanzo (2002) della Agnello Hornby: una raccoglitrice di mandorle, persona di casa Alfallipe non destinata all’unica metamorfosi da serva in padrona. Dal momento del suo funerale, il mistero sull’irresistibile ascesa di Maria Rosalia Inzerillo progressivamente s’infittisce: la si credeva serva di umili origini e la si scopre azzardata amministratrice dei beni padronali, tanto da investirli in una banca svizzera; ne era appena nota la capacità di leggere, mentre pretende un necrologio che servirà a riconoscerla, dentro e fuori i confini nazionali, come un’esperta di archeologia in contatto con musei e collezionisti d’arte. E tutto questo si apprende dall’inarrestabile cicaleccio dell’umanità varia che abita a Roccacolomba, prona sotto il peso del lavoro come di un potere non solo ufficiale, intenta a parlare, origliare, fraintendere. Pagliaro abilmente dipana una matassa refrattaria a un adattamento teatrale e accende i riflettori su confronti, dialoghi scenicamente suggestivi: così, i fari di una macchina illuminano il primo incontro della Mennulara con i briganti; poi, due candele incrociano i profili quasi fiamminghi della protagonista e del mafioso di turno; infine occulta dietro un velario la lunga confessione dell’avvocato Alfallipe (un Pattavina raffinato e intenso, vanesio e irrequieto), quando rievoca l’inattesa passione senile per la cameriera. Echi di un Novecento inquieto si fondono, nelle musiche di Betta, con preziose citazioni d’autore: e proprio dall’Aida verdiana si comprende quanto la riabilitazione della schiava non sia solo materiale ma voglia essere morale e, soprattutto, culturale. Cupa nel costume color terra, avara di colori sin nelle inflessioni di una voce scavata nella roccia, Guia Jelo rende la protagonista una donna coraggio di brechtiano realismo, tetragona ai colpi della fortuna perché capace di comprendere e orientare le contraddizioni di una società in mutamento: per ritagliarsi uno spazio di libertà, l’unico che vuol dominare.

Giuseppe Montemagno


critiCHE/lirica

Il mito, un uomo, il suo destino Edipo secondo la Fura dels Baus ŒDIPE, tragedia lirica di Edmond Fleg. Musica di George Enescu. Regia di Àlex Ollé/La Fura dels Baus. Scene di Alfons Flores. Costumi di Lluc Castells. Luci di Peter Van Praet. Orchestra sinfonica e coro del Théâtre Royal de la Monnaie, direzione musicale di Leo Hussain, maestro del coro Martino Faggiani. Con Dietrich Henschel, Natasha Petrinsky, Marie-Nicole Lemieux, Jan-Hendrik Rootering, Robert Bork, John Graham-Hall, Ilse Eerens, Jean Teitgen, Henk Neven, Frédéric Caton, Nabil Suliman, Catherine Keen, Yves Saelens. Prod. Théâtre Royal de la Monnaie, BRUXELLES - Gran Teatre del Liceu, BARCELLONA - Teatro Colón, BUENOS AIRES - Opéra national, PARIGI. Quando si alza il sipario su Œdipe (1936), la scena appare interamente occupata da un maestoso tableau simile al timpano di una cattedrale romanica. Nei colori ambrati dell’ocra, vi si rappresenta una natività: il popolo di Tebe festeggia la nascita del primogenito di Laio. La ricercata drammaturgia di Edmond Fleg, scrittore e saggista vicino al movimento sionista, rivisita infatti le tragedie sofoclee e a queste fa precedere due atti che aiutano a ricomporre l’intera parabola umana di Edipo. Il protagonista non è più la vittima di un destino annunciato sin dalla culla, bensì un eroe che lotta per vincere l’ineluttabilità degli eventi: purificato dalla penitenza, morirà trasfigurato nella luce di una nuova consapevolezza sul destino dell’uomo. Nella lettura della Fura dels Baus, diretta da Àlex Ollé, l’opera di Enescu per una volta sfugge alle maglie della videoart, elemento costitutivo del lessico del collettivo catalano, e perfettamente si presta, invece, a una riflessione sulla materia: l’argilla, non solo utilizzata sulla scena ma scelta come autentica sostanza drammaturgica. E come la partitura sembra fondere influenze diverse – ora arcaizzanti, ora simboliste, ora espressioniste, ora legate agli scarti armonici del folclore rumeno –, così Ollé elabora

riferimenti ed esperienze apparentemente contrastanti, ma tutte legate all’uso (e all’abuso) dell’argilla e della terra, metafora dell’uomo e della natura nel Secolo breve della perdita d’identità: accomunati dalla cecità, Tiresia (l’imponente Rootering) ed Edipo (un dolente, penetrante Henschel) condividono invece la capacità di guardare lontano, di interpretare le alterne vicende del mondo. E allora si passa dal grande quadro d’apertura al divano di Freud, da cui Edipo risponde alle domande di Merope, sua madre putativa; dall’omicidio di Laio, in una scena da autentico noir, alla visione di una Sfinge beffarda, trasformata in una sorta di Saint-Exupéry precipitato in una terra di nessuno devastata dalla guerra; dalla visione della peste, evocata come una delle mille catastrofi naturali che sconvolgono il pianeta, sino alla magistrale scena finale, in cui il bosco sacro è abitato dalle mute, imperturbabili presenze atemporali dell’armata dell’imperatore Qin Shi Huang. Apparentemente disparate, tutte queste citazioni diventano strumento privilegiato di un teatro che ha la grande capacità di raccontare con rara potenza di immagini e di situazioni, cogliendo l’essenza di un mito capace di intrecciare un fecondo dialogo con la contemporaneità. Giuseppe Montemagno

mantenere un’aura di fascino e mistero universali. L’opera e la struttura mozartiana vengono smontate e rielaborate per dare spazio a quello che è il connotato più vero di questo gruppo artistico, la mescolanza, l’ibridazione. Coerentemente con questo postulato, il tessuto musicale viene declinato in sei lingue nella parte parlata e nel più ampio ventaglio musicale, quanto agli stili, dal jazz al rapreggae, dal mambo al pop. Al cubano Omar Lopez Valle, trombettista, il compito di fungere da narratore di un allestimento che propone la rilettura di alcune arie negli idiomi più svariati, non di rado completamente riviste e praticamente irriconoscibili, ma ugualmente suggestive e soprattutto divertenti. Agli arrangiamenti di Mario Tronco e Leandro Piccioni fanno da contrappunto visivo dei magnifici acquerelli animati di Lino Fiorito, che prendono lo sfondo della scena e diventano paesaggio del sogno. È indubbio che la lezione di Luzzati abbia lasciato un segno indelebile nell’immaginario di chiunque si avvicini all’opera con intenti di narrazione “altra”. La riuscita è buona, il tratto luminoso e vivo, che quasi in maniera sinestesica cerca la forma del fraseggio per renderlo in forma grafica, in segno. Non mancano le piccole imperfezioni, ma la tensione artistica e lo sguardo dello spettatore volgono altrove, verso un’idea di arte come linguaggio alla ricerca di un minimo comune multiplo di pensiero e un esperanto d’animo. La scansione in piccoli sketches ha un che di rivista, di fotoromanzo (cosa che a un certo punto avviene, tramite proiezioni video) con sequenze divertenti, popolari, cui la regia dà, sobriamente, la chiusa prima che il modulo ripetuto possa diventare noioso. Renzo Francabandera In alto, una scena di Œdipe (foto: Bernd Uhlig); in basso, Il Flauto magico secondo l'Orchestra di Piazza Vittorio.

Il Flauto meticcio e poliglotta dell'Orchestra di Piazza Vittorio IL FLAUTO MAGICO SECONDO L’ORCHESTRA DI PIAZZA VITTORIO. Musiche di Mario Tronco e Leandro Piccioni. Scene, acquerelli e animazione di Lino Fiorito. Costumi di Ortensia De Francesco. Luci di Pasquale Mari. Con L’Orchestra di Piazza Vittorio. Prod. Efeso, ROMA. in tournÉE È stagione di flauti magici: dai maestri come Brook, per arrivare agli ensemble musicali coraggiosi e particolari come l’Orchestra di piazza Vittorio con la direzione artistica e musicale di Mario Tronco, l’opera resa celebre da Mozart continua a

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danza

Marin, Armitage e De Keersmaeker ancora lontano il viale del tramonto? di Domenico Rigotti

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streme, ribelli, irritanti, trasgressive, demistificatrici, indipendenti da canoni precisi. Proprio per questo, apprezzate, riverite, diventate figure cult. Indubitabilmente, hanno segnato una nuova strada, indicato nuovi percorsi, ma la loro danza ha veramente ancora qualcosa da dirci? E i loro linguaggi sono ancora attuali? Altre sembrano, anzi sono, le vie e altro è il sentire di chi fa danza oggi. Il fatto è che nei dintorni, e soprattutto nei dintorni di casa nostra, nessuna personalità ha saputo imporsi, affermarsi con la loro forza, la loro energia, con il bisogno di scardinare i codici. E sono loro Maguy Marin, Anne Therese De Keersmaeker e Karole Armitage che ancora, con più o meno successo, riescono a riempire le piccole arene dove si propone danza. Lo si è visto, qui al Nord, nell’ambito delle due rassegne più importanti d’autunno. Protagoniste e festeggiatissime le prime due a TorinoDanza, la seconda “riesumata” da MilanoOltre. Dalla città lombarda l’ex ragazza punk era assente da molto tempo e la rassegna ha voluto dedicarle un’ampia vetrina (coreografie di ieri e di oggi). Sulla china discendente, anche se non proprio sul viale del tramonto la coreografa americana. Ad apparire piuttosto datati i suoi vecchi lavori, tutt’altro che rivoluzionarie le nuove prove. Giudizio diverso invece per la Marin e la De Keersmaeker. Esponente tra le più importanti della (ex) nouvelle danse francese, la caparbia Ma-

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guy uscita dal vivaio di Bèjart sembra non aver tradito le promesse degli esordi. L’estrosa coreografa francese che aveva scosso le scene tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 con un teatro-danza dalla visionaria fantasia, oggi ugualmente eccelle in composizioni di danza forte ed estrema. A dimostrarlo Faces, il suo nuovo spettacolo, e il primo dopo molti anni di silenzio creativo, e non per la sua compagnia bensì per il Balletto dell’Opera di Lione. Traendo spunto da quanto le immagini possono oggi condizionarci, realizza questa volta un lavoro a folgoranti flash che risulta uno studio sull’immobilità. Buio e luce. E buio e poi ogni volta che torna la luce un’immagine diversa e contrastante. L’occhio a posarsi come su fotografie di realtà contrastanti. Ora ad esempio il pubblico posto davanti a un gruppo di sportivi, ora a un insieme di Grandi di Spagna inginocchiati o ancora a osservare smarrito una serie di zombie col volto laccato e gli occhi neri. Ironia e derisione. Un lavoro che mette a dura prova gli spettatori ma anche i suoi fortissimi 28 danzatori. La stessa dura prova di quando essi tornano a danzare May B, che continua a essere il suo titolo più richiesto, riapparso anche a Torino. Trent’anni esatti dal suo debutto nel 1981. Uno straziato sabba di dieci miserabili tipi umani ispirato alla poetica di Beckett. Anno fondamentale, il 1981, che registra anche il debutto altrettanto importante della coreo-

grafa belga. Aveva solo ventitré anni Anne Therese de Keersmaeker e insieme a tre danzatrici coetanee - Adriana Borriello, Michèle Anne De Mey e Fumiyo Ikeda - avrebbe cambiato per sempre la femminilità nella danza contemporanea. Le quattro interpreti di Rosas Danst Rosas in felpe oversize, gonnelline, legging e anfibi si estenuavano in un crescendo coreografico dalla cifra minimale, intessuto di gesti quotidiani reiterati e convulsi dagli acuti nevrotici. Trent’anni dopo, la coreografa mette al centro del repertorio della sua sempre forte compagnia Rosas i suoi primi lavori, compreso quel Rosas danst Rosas (diventato un cult come May B) sempre ancora lei interpretandolo, ma dividendo la scena con tre bravissime danzatrici di una nuova generazione. E che la sua cifra minimale abbia ancora un forte potere lo dimostrano Bartòk/ Mikrokosmos, una performance suddivisa in tre parti dove danza e musica si inseguono e si intrecciano, e Cesena, non meno ambizioso lavoro del precedente in cui la coreografa continua la sua collaborazione con il collettivo artistico del performer Björn Schmelzer e gioca su un piacevole ribaltamento di ruoli. Musicisti che provano a danzare e ballerini che provano a cantare. La cosa forse alla fine risulta un po’ stucchevole, ma impeccabile è l’ordine strutturale della composizione, e quella dei diciannove corpi sulla scena è musicalità allo stato puro. E anche questo ci fa dire che, se i veri artisti o le vere coreografe firmano i propri capolavori durante la giovinezza e poi sviluppano intere carriere intorno ai loro folgoranti early works, la maturità riesce anche a dar loro nuovo rigoglio. Anche se poi il gioco non muta del tutto. ★ In alto, Bartòk/Mikrokosmos (foto: Herman Sorgeloos); in basso, Faces (foto: Jean-Pierre Maurin).


danza

Il sacro della primavera.

Balletto civile, modernità di due capolavori WOYZECK – RICAVATO DAL VUOTO, di Georg Büchner. Traduzione di Alessandro Berti. Drammaturgia e regia di Michela Lucenti. Luci di Stefano Mazzanti. Musiche di Mauro Montalbetti. Con Maurizio Camilli, Andrea Capaldi, Andrea Coppone, Francesco Gabrielli, Raffaele Gangale, Filippo Gessi, Michela Lucenti, Carlo Massari, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra. Prod. Fondazione Teatro Due - Balletto Civile, PARMA. IL SACRO DELLA PRIMAVERA, da La sagra della primavera di Igor Stravinskij. Ideazione e coreografia di Michela Lucenti. Drammaturgia e interpretazione di Andrea Capaldi, Ambra Chiarello, Andrea Coppone, Massimiliano Frascà, Francesco Gabrielli, Sara Ippolito, Francesca Lombardo, Carlo Massari, Gianluca Pezzino, Livia Porzio, Emanuela Serra, Giulia Spattini, Chiara Taviani, Teresa Timpano. Prod. Balletto Civile, PARMA.

Fertile contaminazione di linguaggi espressivi diversi, eclettici, tenuti insieme da un cospicuo lavoro di sintesi scenica, sia dal punto di vista drammaturgico che dei tanti corpi in continuo movimento, i due spettacoli proposti da Balletto Civile rappresentano un momento importante della ricerca teatrale e coreografica portata avanti dal gruppo diretto da Michela Lucenti e Maurizio Camilli, caratterizzato dalla eccentricità di una “scrittura fisica” che non ha eguali nel nostro Paese. Questa volta affrontano due partiture, una testuale, l’altra musicale, per ricavare dal vuoto, assolutamente colmabile, lasciato dalla distanza “storica” e tematica di questi due capolavori rispetto al periodo in cui sono stati composti, le ragioni intime e profonde della loro modernità. Misurarsi con le parole e la struttura del dramma di Büchner vuole dire fare interagire l’esercizio fisico con l’espressività della voce che guadagna il suo spazio sulla scena come un ultracorpo alla pari di quelli reali che si rincorrono, affrontano, lottano come un unico organismo in incessante movimento. Si ricrea in tal modo una vita scenica originale in cui la vicenda di Woyzeck, la sua personalità criminale, viene come sottratta a un determinismo ideologico e scientifico, per esse-

re mostrata nella nuda realtà di una azione umana. Nel Sacro della primavera, il contemporaneo irrompe invece in palcoscenico come continuum orchestrale di quella strabiliante composizione di Stravinskij, insuperabile nel modello originario, ma proprio per questo disponibile a essere contaminato con altri generi musicali. E qui gli straordinari giovani danzatori creano tra di loro relazioni coreografiche e figure di speciale efficacia scenica e singolare divertimento. Giuseppe Liotta

Sieni, variazioni sulla donna, tra sogno e mitologia LA RAGAZZA INDICIBILE, liberamente ispirato all’omonimo saggio di Giorgio Agamben e Monica Ferrando. Regia, coreografia e scene di Virgilio Sieni. Costumi di Laura Dondoli. Luci di Giovanni Berti e Virgilio Sieni. Musiche di Francesco Giomi. Con Ramona Caia, Xaro Campo Moreno, Marta Capaccioli, Eloise Dechemin, Aurore Indaburu, Claire Indaburu. Prod. Torinodanza - Emilia Romagna Teatro Fondazione, Bologna - Compagnia Virgilio Sieni, Firenze. FESTIVAL VIE, MODENA. in tournÉE

Il mito di Kore-Persefone è l’oggetto del volume La ragazza indicibile di Giorgio Agamben, dal quale Sieni ha tratto titolo e suggestione per il suo onirico e metafisico spettacolo. Kore è la fanciulla rapita da Ade, dio dell’oltretomba, nel fiore della sua giovinezza e costretta da quel momento a trascorrere parte della sua esistenza nell’oscurità degli Inferi. E proprio da questa familiarità con le tenebre e con la morte deriva l’“indicibilità” di Kore, ossia la sua iniziazione a quei misteri che segretamente dettano il destino degli uomini. Un mito legato, dunque, al concetto di duplicità e di indeterminatezza della persona: Kore è bambina e moglie, fertilità e sterilità, buio e luce, vita e morte. Sieni lavora proprio su questa insuperabile doppiezza e, dunque, le controfigure della mitica fanciulla appaiono sì all’inizio seducenti virago con parrucca biondo platino e vertiginosi tacchi a spillo, ma indossano poi coloratissimi calzoni e magliette, i capelli legati e

i piedi scalzi, da disinvolte teenagers. Le sei danzatrici agiscono all’interno di uno spazio neutro, con le tre pareti ricoperte da teli di un candore abbacinante, rotto da inattese luci fluorescenti e spento da brevi bui. Fra assoli e coreografie di gruppo, le sei fanciulle-donne fanno esperienza della realtà - ora rassicurante ora inquietante - in cui sono state catapultate, si toccano e si conoscono, si divertono e si consolano, giocano e si disperano. A tratti, compare una grigia figura, una sorta di idolo primigenio, un oscuro richiamo a miti ancestrali che tuttora plasmano le vite degli uomini. Una funzione che, nel finale, è assunta da un’altra figura simbolica, che indossa una sovradimensionata testa di capra. Il tutto concorre a creare un’atmosfera alla De Chirico, un sogno archetipico e inquieto, in cui più che la psicanalisi c’entrano l’eredità di remote credenze e l’aspirazione a una dimensione “altra” che coesistono in ciascuno di noi. Indissolubile legame col passato dell’umanità e attrazione per l’“indicibile” che Sieni disegna con la sua consueta eleganza, calligrafica e precisa e, nondimeno, suggestivamente vagheggiante. Laura Bevione

Linehan, il dadaista concettuale ZOMBIE APORIA, idea e coreografia di Daniel Linehan. Creazione ed esecuzione di Daniel Linehan, Salka Ardal Rosengren, Thibault Lac. Luci di Brian Broeders. Prod. Centre National de la danse, PANTIN - Centre de Développement Chorégraphique TOULOUSE/Midi.Pyrénées - Kunstencentrum Vooruit, GENT - Buda Kunstencentrum, Kortrijk. SHORT FORMATS, MILANO. in tournÉE

Si era fatto conoscere lo scorso anno al festival Vie di Modena con Montage for three e Not about everything. A distanza di un anno, e dopo Interplay, torna in Italia per il milanese Short Formats con Zombie Aporia, nato dalla commistione di otto pezzi brevi, in collaborazione con la Rosengren e Thibault Lac. Stiamo parlando di Daniel Linehan, astro nascente della coreografia a stelle e strisce, attualmente di stanza in Belgio. Le differenze tra i tre spettacoli sono minime, piccoli scarti innestati su di un’estetica comune. La base è l’arte contemporanea, nella fattispecie concettuale. Linehan disseziona le componenti fondamentali della danza: musica, movimento, ma anche ritmo, corpo, voce, suono, immagine. E lo fa con classe, rimescolando

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danza

Pic-nic con la danza A POSTO, coreografia di Ambra Senatore. Luci di Fausto Bonvini. Musiche di Brian Bellott e Gregorio Caporale. Con Ambra Senatore, Caterina Basso, Claudia Catarzi. Prod. Compagnia Ambra Senatore/ Aldes-Spam!, Torino - con il sostegno di altri sette enti nazionali e francesi. PROSPETTIVA 150/FESTIVAL D’AUTUNNO, TORINO. in tournÉE

Un petit déjeuner sur l’herbe aggiornato non soltanto al nuovo millennio ma, in primo luogo, allo spirito soavemente e intelligentemente dissacratorio di Ambra Senatore. Tre giovani ben pettinate e truccate, con candide ed eleganti camicie di seta, si scambiano sorrisi e piccole cortesie, si osservano da dietro le quinte e incrociano passi e sguardi furtivi. Nel mentre sulla scena rotolano thermos, compaiono coltelli minacciosi e innocue tazzine da tè, una torta con la panna e un programma di sala da sfogliare pigramente. Le tre affiatate performer camminano, si siedono per godersi il sole, si sdraiano e, certo, danzano, ma gesti e passi mimano azioni quotidiane e banali. Un’ordinarietà che, grazie allo straniamento assicurato dal palcoscenico, acquista inattese stratificazioni di senso. L’azione consuetudinaria è destrutturata e ricomposta da Ambra Senatore così da evidenziarne origine e natura e, di conseguenza, riconquistarne la consapevolezza. La coreografa torinese, nondimeno, non tramuta tale filosofico procedimento in disegno “concettoso”, bensì in spiritosa e immediata drammaturgia. Senatore e le sue due complici, in effetti, sono vere e proprie danz-attrici e sanno combina-

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re armoniosamente gesto, mimica e parola, lasciando che le rispettive personalità imprimano forza e originalità alle proprie interpretazioni. Il trio dà così vita a uno spettacolo imprevedibile e dalle infinite sfumature: una tela colorata con pennellate di raffinatezza e sottigliezza, di ironia e giocosità, ma anche di humor nero e satira appuntita, di immediatezza ma altresì di approfondita riflessione. Una “merenda” certo non banale né astrattamente intellettualistica, bensì arguta e sapientemente genuina. Laura Bevione

John Doe, quattro giovani nella società del disagio JOHN DOE, di Guendalina Murroni. Coreografie di Mattia Agatiello. Con Chiara Ameglio, Cesare Benedetti, Noemi Bresciani, Maura Di Vietri. Scene di Irene Cardini. Costumi di Giulia Zoggia. Musiche di Luca Lombardi. Prod. Fattoria Vittadini, MILANO. in tournÉE

Scarna la scena. Come spesso succede per gli spettacoli di teatro-danza. Una scala al centro e una copertura claustrofobica. L’essenziale per dar vita a un gioco relazionale ed esprimere il disagio del mondo di oggi. Il disagio di quattro giovani imprigionati nella società attuale. Tre ragazze e un ragazzo. Il ragazzo si comporta da bullo. Due delle ragazze cercheranno di salire faticosamente i gradini di quella scala per evadere non si sa verso quali orizzonti. La terza delle ragazze

cerca di tenere tutto sotto controllo. Non si va al di là della metafora esistenziale in questo John Doe (un nome anglosassone simbolico che viene a corrispondere al nostro Mario Rossi) firmato dal giovane Mattia Agatiello ma dalla scena, da quella gestualità forte ed essenziale con cui i quattro ragazzi si esprimono e portano avanti la loro azione, arriva qualcosa di non gratuito, di originale e interessante che ci colpisce. È John Doe il primo tassello di un progetto il cui scopo, nell’assenza delle autorità istituzionali, è di dar visibilità e “saggiare” il valore di un gruppo di giovani danzatori, undici in tutto, che, usciti dalla Scuola “Paolo Grassi” di Milano, insieme vogliono affrontare il loro non facile futuro riunendosi sotto l’insegna di Fattoria Vittadini. Primo tassello degno di considerazione perché, spalmati nel corso della stagione, a febbraio e a maggio, ci saranno altre proposte coreografiche originali firmate per la compagnia da altri giovani coreografi, impegnati con altri ex allievi: Riccardo Chevalier (Banchetto) e l’israeliano Amir Zamir (The Head e Al mondo non c’è posto per la fama dei mediocri). Progetto ambizioso quello realizzato da Fattoria Vittadini, in residenza al Teatro Ringhiera, avamposto di resistenza culturale nella periferia sud milanese, ma necessario per una metropoli dove, dopo gli slanci degli anni Settanta e Ottanta, il teatro-danza ha perso di vitalità e deve recuperare il tempo perduto, colmare quel vuoto che appare come una ferita per la cultura del nuovo millennio. Domenico Rigotti

John Doe.

i singoli fattori in un tutto arbitrario che non è surreale né grottesco. Piuttosto dadaista, da cui ogni stimolo risalta, per contrasto. Frasi semplici e iterate; dichiarazioni di poetica; lacerti di comunicazione; slogan ossessivi circa se stessi, il corpo, l’identità; movimenti convulsi e ossessivi; piccoli passi, accenni di danza, contraddittori e destinati allo scacco; tentativi di ripresa in diretta, sono parte integrante della materia. Non è facile, certo, per uno spettatore non avvezzo a cogliere tutti i nessi che stanno dietro una simile operazione. Ma tale è la maestria, l’ironia, l’intelligenza del coreografo statunitense che le inevitabili complicanze intellettuali sono presto assorbite in un gioco scenico leggero e godibilissimo, pronto a conquistare ogni fascia di pubblico. Roberto Rizzente


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Addio a Václav Havel drammaturgo presidente al servizio della verità di Domenico Rigotti

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empre, nel corso della sua vita parecchio tormentata, aveva sostenuto come «il dovere essenziale dello scrittore è servire la verità, la verità sul suo tempo, sugli uomini, sull’uomo, su se stessi». Una consegna a cui lo strenuo combattente per la libertà Václav Havel, l’intellettuale libero da ogni ideologia, fu sempre fedele. Fu l’uomo, Havel, che spese la sua vita per dare la speranza al suo paese, la Cecoslovacchia, martoriato dalla dittatura comunista. Contro la quale duramente combatté, da uomo politico esponendosi in prima persona (fino a diventare Presidente della Repubblica), ma soprattutto attraverso il teatro. Insieme a Pavel Kohout, Havel, scomparso a 75 anni, è stato forse il più grande drammaturgo ceco del Novecento. Una passione, quella per la scena, maturata, come lui stesso ebbe a raccontare, durante il servizio militare, facendo parte di un gruppo di filodrammatici del reggimento cui apparteneva, cosa che gli permetteva di sottrarsi ogni tanto alle esercitazioni militari. Fu però solo dopo, quando, toltosi la divisa, venne ammesso alla facoltà di drammaturgia, che il teatro lo coinvolse totalmente. E da allora, oltre a scrivere articoli teorici o critici sull’importante rivista Divadlo, cominciò a comporre alcune commedie, di cui qualcuna aveva fatto leggere al

drammaturgo Ivan Viskocil che lo fece assumere al Teatro Na Zabradi (alla Ringhiera). Qui inizia il tirocinio come elettricista, per poi diventare rapidamente segretario nonché consulente per il repertorio e infine drammaturgo stabile. Dopo alcuni testi di prova, il successo teatrale arriva con due lavori che trovano largo consenso: Memorandum (aspra satira della burocrazia) e soprattutto Festa agreste che, allestito dal grande regista Otomar Krejca, va incontro a un mare di repliche. E subito, era il 1964, tradotto ed esportato. Sono opere scritte con uno stile secco e lineare, con i toni della satira, che vogliono smascherare il linguaggio disumanizzante e i meccanismi del potere. Presto però, con l’occupazione di Praga, Havel e le sue opere vengono banditi dai teatri e dalle librerie. Aperto oppositore degli abusi del potere sovietico, Havel, che si è sempre rifiutato di lasciare il suo paese, viene ripetutamente imprigionato. Nel 1977, in seguito alla formazione del movimento dissidente Charta ’77 per la difesa dei diritti umani. Ancora e ben più a lungo, dall’ottobre 1979 al febbraio 1983, quando scrive delle condizioni di vita in prigione nelle bellissime Lettere ad Olga, la moglie. Infine, nel gennaio 1989, a causa della sua adesione alle manifestazioni per il ventesimo anniversario della morte di Jan Palach, il giovane praghese datosi fuoco per protestare contro il regime sovietico. Amatissimo soprattutto dai giovani, nel dicembre di quell’anno e con le prime elezioni libere dopo la caduta del regime comunista diventerà presidente della Repubblica Cecoslovacca (mai era successo a un uomo di teatro, da Aristofane in su, e lui stesso ne sorrideva), accettando di rimanere in carica fino all’elezione del nuovo Parlamento. In Italia, questo drammaturgo che sfiorò il Nobel, questo mite condottiero della verità, questo ardente paladino della libertà sempre disponibile a ricevere nella sua vecchia mansarda nel centro della sua amata Praga, ottenne una lunga serie di premi (anche, nel 1990, il Montegrotto Europa promosso da Hystrio), ma non sembrò andare incontro a quella fortuna scenica che certamente meritava. Fra i grandi teatri solo lo Stabile di Genova accolse, per merito di Ivo Chiesa, Memorandum e lo Stabile di Trieste gli mise in scena L’opera dello straccione. E solo teatranti di minor spicco si interessarono ad alcune delle sue ultime pièces. Quali ad esempio Largo desolato, da considerare uno dei suoi lavori più emblematici: la storia di un intellettuale, Leonard, usato da tutti i poteri di turno, il quale finisce per essere una sorta di marionetta sul palcoscenico della politica e alla fine, non potendone più, si congeda con un patetico «Lasciatemi in pace tutti, per favore!». Havel l’aveva scritta proprio per definire una condizione libertaria, per lui irrinunciabile, al di fuori di qualsivoglia strumentalizzazione. ★

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BABELE di Ana Candida de Carvalho Carneiro Premio Hystrio Scritture di Scena_35, edizione 2011

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testi Languages die like rivers. Words wrapped round your tongue today And broken to shape of thought Between your teeth and lips speaking Now and today Shall be faded hieroglyphics. Carl Sandburg

Personaggi: Thomas Ruhe, linguista Samuel Ruhe, suo fratello Sara, una giovane donna Prof. Wittman, direttore del dipartimento di filologia comparata Signorina Jolie, segretaria Djibo, un aborigeno L’azione si svolge in una metropoli. Nota: il simbolo / indica un’interruzione del discorso.

Bip) Johnny… sta male. L’ho fatto vedere, hanno prescritto delle pasticche. Non le vuole ingoiare. Secondo te è grave? (Bip. Altro messaggio) Mi hanno licenziata. La cicciona me l’ha detto così, come se niente fosse, come se bevesse una birra al bar. Siamo in un brutto periodo, la crisi, bla bla, e poi ti scade il contratto. La uccido? (Bip. Altro messaggio) Johnny è peggiorato. Lo tengo sempre sdraiato ora. Fortuna che sono a casa. Insomma, tanto per essere ottimista. Gli sto sempre appresso, gli preparo da mangiare, gli faccio le coccole. È così morbido, così caro. (Bip. Altro messaggio) Domani devo pagare l’affitto. Mi rimangono solo cinquanta euro, e devo dare trecento. Non so che fare. Non ho trovato ancora niente. (Bip. Altro messaggio) Johnny sta sempre peggio. Non riesco più a farlo mangiare. Neanche bere. Sono tre giorni che non fa la cacca. Il dottore non sa cos’è. Non mi ha chiesto niente per la visita. (Bip. Altro messaggio) Ho trovato lavoro. Non è un granché, ma va bene così. (Pausa) Ah, volevo dirti che non ho scopato quel tipo quella volta. Era solo un dispetto. (Bip. Silenzio) Johnny è morto. L’ho trovato stamattina. (Rumore di un oggetto metallico che cade per terra. Respiro affannoso. Bip. Thomas, immobile e impassibile, affonda nel silenzio)

Scena 1

Scena 2

Thomas Ruhe arriva a casa dopo un lungo viaggio. Verifica i messaggi nella segreteria telefonica. Mentre li sente, disfa la valigia. Le sue sono solo reazioni.

Thomas Ruhe sul suo tavolo da lavoro. Ha un piccolo registratore. A periodi lo aziona, a periodi lo ferma e scrive. L’apparecchio emette suoni incomprensibili: una registrazione disturbata, una voce da donna troppo bassa, una lingua strana. Thomas ascolta e riascolta i brani. Cerca di ripetere alcuni suoni, prende appunti. Suona il campanello. Thomas va a rispondere. Alla porta, un giovane vestito in modo inusuale. Può avere caratteristiche etniche distinte, o no. L’importante è che sembri fuori luogo. Una tigre che cerca di fare il gatto, o viceversa.

VOCE DI SARA - Thomas? Thomas! Rispondi. Lo so che ci sei. Non parlavo sul serio. Davvero. Sai che non avrei mai fatto una cosa del genere. Le persone dicono cose brutte quando sono arrabbiate. Normale, no? Possiamo parlare? Possiamo parlare come adulti? (Pausa. Butta giù. Bip. Altro messaggio) Thomas, richiamami, per favore (Bip. Altro messaggio) Thomas… Questo silenzio... non ce la posso fare. (Bip. Vuoto. Bip. Vuoto. Bip. Vuoto. Altro messaggio. Arrabbiata) Basta con questa stronzata. Tutto questo non ha senso. Ti stai comportando come un bambino. Chiamami, cazzo. Chiamami. (Bip. Vuoto. Bip. Vuoto. Bip. Altro messaggio. Pianto. Bip. Altro messaggio, voce arrabbiata) Thomas, rispondi rispondi rispondi, sto male. (Vuoto. Bip. Vuoto. Bip. Vuoto. Bip. Vuoto. Bip. Vuoto. Bip. Altro messaggio) Sai cosa mi è successo oggi? La grassona mi ha detto che sono una svitata. Così, ha detto. Sei una svitata. E io ho pensato: come si permette. Sei svitata e pure stupida, non sai fare nemmeno un pacchetto regalo. Ti rendi conto? Che stronza. Quand’è che ti fai sentire? (Bip. Altro messaggio) Ciao, Thomas. Oggi è il mio compleanno. Pensavo di fare qualcosa, non so, una riunione. Con gli amici. Ma se vuoi ci vediamo noi due da soli, ti va? Ho scoperto un locale carino vicino alla stazione. Si chiama Il Tempio delle Mosche. Alle dieci, va bene? (Bip. Altro messaggio. Silenzio. Fiato corto vicino alla cornetta, voce depressa deturpata da sonniferi) Ti ho aspettato. Ti ho aspettato, sai. Ho creduto fino all’ultimo. Mi sono perfino comprata un vestito nuovo. Volevo cercare di metterci una pietra sopra, di andare avanti. Un nuovo inizio. In fondo, non c’è niente di male in… E ho tenuto duro. Ho tenuto duro fino alle due. Poi è venuto un tipo. Uno con gli occhiali rotondi e la camicia polo. Faccia da informatico. Infatti era informatico. Parlava solo di quello. Giochi di ruolo, internet. Il mondo senza frontiere della globalizzazione. Me lo sono scopata. Aveva un cazzo memorabile. Sono venuta tre volte. (Bip. Pianto.

THOMAS - Ciao. DJIBO - (Dopo un po’) Disturbo? THOMAS - No. Entra, entra. DJIBO - (Riferendosi a degli addobbi appesi sul muro) Cosa sono? THOMAS - Maschere. Di tutto il mondo. Mi piace portare qualche ricordo dai viaggi. Costruire un mosaico di mondo intorno a me. DJIBO - Dalle mie parti cos’hai portato? THOMAS - Non ho proprio avuto tempo per... È stato tutto così veloce. DJIBO - Lei sta bene? THOMAS - Sì. Adesso che ha le giuste cure mediche, tutto andrà per il meglio. DJIBO - Ha fatto resistenza? THOMAS - Non è stato facile. Abbiamo dovuto chiamare un dottore. L’ha fatta addormentare. Non voleva salire sull’aereo. DJIBO - Questo appartamento è bello. THOMAS - Grazie. È un po’ fuori mano, ma niente di grave. Bisogna camminare una ventina di minuti fino alla metropolitana, ma da lì fino in centro è un attimo. DJIBO - Io ci metto un’ora e mezza ad arrivarci. THOMAS - Puoi cercare qualcosa di meglio più avanti. DJIBO - Costa troppo. Pausa. THOMAS - Hai trovato un lavoro?

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testi DJIBO - Non ancora, ma mi rimangono un po’ dei soldi che mi avete dato. THOMAS - Hai preso la decisione giusta, fidati. DJIBO - Sicuro. THOMAS - Adesso è un periodo difficile, ma tutto si aggiusterà. DJIBO - Sicuro. Pausa. Thomas prende un giornale e lo porge a Djibo. THOMAS - Prendi. DJIBO - … THOMAS - Questo è il supplemento annunci. Ci sono tanti tipi di annunci. Tu devi guardare le offerte di lavoro. DJIBO - E se mi chiedono da dove vengo? THOMAS - Tu glieli dirai. DJIBO - Non posso. THOMAS - Non puoi? (Pausa) Ti sbagli. Hai un’idea sbagliata del mondo, delle persone. Siamo in una metropoli, non in un villaggio sperduto nel Madagascar o in Mongolia. Non ci sono lotte tribali. Non ci sono stragi etniche. Qui la diversità è una ricchezza. Qui il colore della pelle, la lingua, le culture diverse sono tasselli che rendono il paesaggio più bello. Non dovresti vergognarti di quello che sei. (Gli posa la mano su una spalla. Pausa. Si avviano alla porta) DJIBO - Allora posso andare a trovarla? THOMAS - Certo. DJIBO - Anche oggi? THOMAS - Hanno degli orari precisi. Prova a chiedere. Penso di sì. DJIBO - D’accordo. (Breve pausa) Grazie ancora. THOMAS - In bocca al lupo. (Chiude la porta. Un attimo di riflessione prima di tornare al lavoro)

nes, on the contrary, are maintained, the income will result extraordinarily enhanced and the company will have fully attained its goals. And finally…» (Si ferma a guardare qualcosa fuori della finestra. Pausa) SIGNORINA JOLIE - Finally? SAMUEL - Ha mai visto due piccioni che si accoppiano? SIGNORINA JOLIE - Mi scusi? SAMUEL - Hanno fatto un nido sul davanzale di Jarman. SIGNORINA JOLIE - Vuole che avverta il personale della pulizia? SAMUEL - Hanno questo modo un po’ tenero di beccarsi. Pausa. SIGNORINA JOLIE - I chiodi sono stati messi l’estate scorsa, ma evidentemente il lavoro non è stato ben eseguito. SAMUEL - Ci sono due piccoli. SIGNORINA JOLIE – Provvederò a sistemare tutto. SAMUEL - Mentre i piccoli urlano affamati, i genitori si divertono. Pausa. La signorina Jolie si alza per prendere provvedimenti. SAMUEL - (Girandosi) Qualcuno le ha chiesto di far qualcosa, signorina Jolie? SIGNORINA JOLIE - Mi scusi, signor Ruhe. Ho pensato che… L’estate scorsa… Ha dato l’ordine di… SAMUEL - Non mi metta parole in bocca, signorina Jolie. SIGNORINA JOLIE - Mi scusi. Pausa. SAMUEL - Piuttosto, si spogli. SIGNORINA JOLIE - Prego? SAMUEL - Si spogli.

Scena 3 Un lussuoso ufficio di una multinazionale. Penultimo piano. Samuel Ruhe è seduto, i piedi poggiati sopra la grande scrivania. La signorina Jolie, impeccabile nel suo tailleur, è seduta su una poltrona. SAMUEL - (Al telefono) …e appena le azioni saliranno, potremo proseguire gli investimenti. (Pausa) Te l’ho già detto, bisogna puntare sul Sudamerica. Hai visto i grafici, no? (Pausa) Se ci teniamo indietro, qualcun’altro abbatterà il toro. E questo noi non possiamo permetterlo. (Pausa) Certo, certo, ti terrò aggiornato, non ti preoccupare. (Pausa) Tra un mesetto. (Pausa) No, perché dovrei essere emozionato? (Pausa. Ride) Sei molto gentile, ti ringrazio. A presto, allora. Arrivederci. (Chiude la chiamata. Si sgranchisce) Perché non si paga un’analista? Tutte queste insicurezze. Ha paura che gli mozzi la testa. La signorina Jolie ha un’espressione ferrea. È la perfetta immagine della professionalità. SAMUEL - Bene, signorina Jolie, andiamo avanti. Dov’eravamo rimasti? SIGNORINA JOLIE - Carefully submitted. SAMUEL - «Carefully submitted to Accountability. For approval». (Pausa) Punto e a capo. No, no. Stesso paragrafo. «If the guideli-

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Pausa. La signorina Jolie si alza, si toglie la giacca e rimane in reggiseno. SAMUEL - Non le avevo detto di usare nero? SIGNORINA JOLIE - Pensavo si riferisse al tailleur, signor Ruhe. SAMUEL - Ho detto tutto nero. È daltonica, signorina Jolie? SIGNORINA JOLIE - Mi scusi, signor Ruhe. Non succederà più. SAMUEL - Si rivesta. La signorina Jolie si riveste. Torna austeramente a sedere come se niente fosse. Silenzio. Il signor Ruhe è tornato a guardar fuori dalla finestra. SIGNORINA JOLIE - (Schiarendosi la gola) Hm-hm. Signor Ruhe. La devo avvertire che la deadline è per le quattro. SAMUEL - Le quattro? SIGNORINA JOLIE - Sì, le quattro. SAMUEL - Certo, le quattro. SIGNORINA JOLIE - Riprendo? SAMUEL - Prego. SIGNORINA JOLIE - If the guidelines, on the contrary, are maintained, the income will result extraordinarily enhanced and the company will have fully attained its goals. And finally / SAMUEL - (Dopo un po’, reticente) And finally the market will be under our complete control. (Si ferma)


testi SIGNORINA JOLIE - Under our complete control. Punto? SAMUEL - Non so, c’è qualcosa che mi disturba oggi. Ha notato, signorina Jolie? SIGNORINA JOLIE - Se mi permette, sembra un po’ più nervoso del solito. SAMUEL - Vero? Sento qualcosa che mi bolle dentro. SIGNORINA JOLIE - Sarà la zuppa di cozze che ha mangiato a pranzo. Provvederò a reclamare. SAMUEL - Del magma. Magma che fa pressione sotto al terreno per uscire. SIGNORINA JOLIE - Vuole un Dramin? SAMUEL - Un vulcano addormentato in procinto di sputare fuoco. SIGNORINA JOLIE - Adesso chiamo l’infermeria. (Si alza) SAMUEL - Il Vesuvio che vuole farsi vivo dopo secoli di silenzio. Dove va, signorina Jolie? SIGNORINA JOLIE - A cercare una persona competente. Per risolvere il suo problema. SAMUEL - Come può essere così frivola? SIGNORINA JOLIE - Mi scusi? SAMUEL - Così sbadata? SIGNORINA JOLIE - Faccio il mio dovere. SAMUEL - Che dovere? SIGNORINA JOLIE - Aiutarla, signor Ruhe. SAMUEL - Chi potrà mai aiutare un suo simile, signorina Jolie? Chi? Questa è superbia. È voler rubare il posto a Dio. SIGNORINA JOLIE - Mi dispiace, signor Ruhe. (Breve pausa) Desidera un bicchiere d’acqua? SAMUEL - Forse uno scotch. Anzi, acqua tonica. (la signorina Jolie si avvia al bar) No, fa niente. Ho solo bisogno di riposare. Finiamo il rapporto domattina. SIGNORINA JOLIE - Ma la deadline? SAMUEL - Dica al presidente che mi è venuto il mal di pancia. Tanto gli scopo la figlia. SIGNORINA JOLIE - Le serve qualcos’altro? SAMUEL - (Dopo un po’) Ha chiamato mio fratello? SIGNORINA JOLIE - No, signor Ruhe. Pausa. SAMUEL - Grazie, signorina Jolie. Può andarsene. (La signorina Jolie esce. Samuel torna a guardare dalla finestra) Non so, è come se oggi mi andasse di ingoiare saliva.

Scena 4 Un parco. Djibo, seduto su una panchina, sta leggendo gli annunci sul giornale. Ha una penna in mano e ogni tanto scrive. Passa Sara, una borsa di patchwork sotto al braccio e tacchi a spillo. Prende una storta, un tacco si rompe. La borsa cade per terra, i suoi oggetti personali si sparpagliano. SARA – Fanculo. (Djibo guarda perplesso) E tu che guardi? Aiutami, no?! (Djibo si affretta ad aiutarla) Io a quelli li ammazzo, capito? Glieli faccio pagare come incidente sul lavoro. Chiamo un avvocato e li lascio in mutande. Stronzi. Vermi. Farmi mettere questi cosi orribili. È come... È come... Come mettere la cintura a un ippopotamo O l'apparecchio fisso a un rospo. Ridicolo, semplicemente ridicolo. E tutto perché? Perché devono dare un’immagine rispettabile di sé, capito? Perché ogni impiegato

è un mattoncino essenziale nella loro immensa piramide. E basta uno sgarro, un colore diverso sulla superficie, un sorriso un po’ storto perché ti sei svegliata male una mattina, che ti fanno ingoiare veleno. Veleno puro. Perché tu sei loro. Tu devi essere loro. E loro non ammettono un sé decadente. Un sé a metà. Devi essere perfetto. Perfetto, capito? Camminare come una regina su un paio di trampoli. Anche se passi tutto il giorno in un angolo schifoso a fare telefonate schifose. E i ragni giocano a Tarzan sopra la tua testa. E i tuoi piedi poggiano su un tappeto di briciole, quelle dei panini che hai mangiato di fretta in pausa pranzo per non perdere neanche un secondo. Perché se perdi un secondo te lo scontano dallo stipendio. Che poi è un cazzo di stipendio, uno stipendio di merda per persone di merda. Che vai a spendere tutto nell’affitto, per quel cazzo di appartamento di trenta metri quadri, con quei cazzo di adolescenti fulminati al piano di sopra. E io di tutto questo non ne posso più. (Silenzio) Ciao. DJIBO - Ciao. SARA - Come ti chiami? DJIBO - Djibo. SARA - Che razza di nome è? DJIBO - È… (cerca una risposta) lituano. SARA - Caspita. DJIBO - Cosa? SARA - Niente. DJIBO - Cosa? SARA - Mi sono resa conto di non averne mai conosciuto uno prima. DJIBO - No? SARA - No. T’immagini? In questo mare di città. (Pausa) Voglio dire, giamaicani, venezuelani, egiziani, tutti questi ani… cioè... insomma, questi sì. Ma un lituano, un lituano legittimo, no. DJIBO - Ah. SARA - Piacere, io sono Sara. (Tende la mano) DJIBO - (Stringendole la mano) Piacere. Djibo. SARA - Bè, Djibo, grazie. DJIBO - Per cosa? SARA - Per aiutarmi. Per. Insomma. Non si trova gente così tutti giorni. (Pausa) Parli bene. La nostra lingua. DJIBO - Grazie. (Pausa) L’ho studiata fin da piccolo. SARA - Allora sei cresciuto qui? DJIBO - (Esita) Sì. SARA - Grande. In che zona? DJIBO - No, non qui. In un’altra… città. SARA - Ma dai? Dove? (Lui non sa cosa rispondere) Ho capito, sei riservato. Scusa, scusa. I miei amici mi dicono che a volte sono un po’ invadente. Ma sai, uno è quel che è, non c’è niente da fare. Sono sempre stata così, un po’ sopra le righe. Difetto di nascita. Anche il mio fidanzato lo diceva. Il mio ex fidanzato. Non mi sono ancora abituata. (Pausa) Mi sa che ho disturbato la tua lettura, vero? DJIBO - No, no. Cercavo / SARA - Un lavoro, eh? Il cruccio di tutti quanti. Con questa crisi non è mica facile. Conosco un sacco di gente che si trova con le pezze al culo. Tagliano, tagliano, più di un coltello svizzero a dieci lame. E la gente torna a casa senza sapere dove andar a bussare, perché gli uffici di collocamento se ne sbattono. (Pausa) Hai trovato qualcosa? DJIBO - No. Solo qualche / SARA - (Prendendogli il giornale di mano) Ma disegni? Hai fatto

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testi dei disegni. Cos’è questo, un dinosauro? DJIBO - (Fa una mossa inutile per riprendersi il giornale) Mi scusi, io / SARA - O un Babbo Natale? Non si capisce bene. DJIBO - Cercavo di far passare il tempo. SARA - Che tipo di lavoro cerchi? DJIBO - Bè, non so se riesco a / SARA - (Leggendo) Project Manager. Cercasi giovane spregiudicato per azienda in netta espansione. Prospettive di guadagno promettenti. (a lui) Niente male, eh? (Legge) Inviare il curriculum all’ indirizzo di email bla bla bla chiocciola bla bla bla punto com. Inglese fluente. Si gradisce anche il francese o lo spagnolo. (A lui) Vedi che stronzi? C’è sempre qualche fregatura. (Chiude il giornale e inizia a massaggiarsi i piedi) DJIBO - È un mese che cerco lavoro. SARA - Io ce ne ho messi sei. Sull’annuncio c’era scritto “assistente di marketing a tempo pieno”. In pratica passo le giornate a chiamare la gente a caso, cercando di rifilare qualche promozione. Tre mesi gratis dopodiché una botta salata. E tu devi convincerli che è una figata. Per l’azienda sono un’operatrice di vendita; per la gente comune, una cagacazzo. È l’aggettivo che mi affibbiano più spesso. A parte qualche buon’anima che ha bisogno di attenzione. Qualche vecchietto solitario o ragazzino in calore. (Pausa. Djibo riprende il giornale. Sara si guarda l’orologio) È tardissimo. Devo andare, comincio il secondo turno. (Prende le sue cose) Ci vediamo in giro, allora. In bocca al lupo per il lavoro. Auguramelo pure tu, mi serve. Per tanti motivi. DJIBO - In bocca al lupo.

l’hanno saputo dire con precisione. Ma vivrà sicuramente di più che se fosse rimasta lì. Non sanno neanche cosa vuol dire un’aspirina. E non posso permettermi di affidarmi alle credenze locali. (Enfatico) Paul, ho bisogno di tempo. Più tempo avrò, più alte sono le probabilità di decifrare la lingua. Pausa. WITTMAN - Ma lei? Lei voleva venire? THOMAS - Ho portato suo nipote. Mi ha dato l’autorizzazione. WITTMAN - Incredibile. THOMAS - Era l’unico modo. Lui è l’unico parente vivo. Lei non parla la nostra lingua, né la lingua locale, e nessun’altro parla il tukti. Così l’ho battezzata, tukti. Pausa. WITTMAN - Non ti è passato per la testa che magari volesse morire lì? THOMAS - Sì, certo. Non ho dormito per parecchie notti. Ma ti rendi conto dell’importanza della faccenda? Ti rendi conto della gravità di questa perdita? Millenni di conoscenze accumulate e cristallizzate in una lingua. E lei è l’unica depositaria di tutto ciò. L’unica parlante rimasta. Non posso lasciar che tutto vada perso. (Pausa) Perché mi guardi così? WITTMAN - Sei sicuro di quello che fai, Thomas? Dico, davvero sicuro? Pausa.

Sara sorride ed esce.

Scena 5 Università. Dipartimento di filologia comparata. Nel suo ufficio, Il Prof. Wittman, un signore sulla tarda sessantina, scrive su un computer, circondato da libri. Bussano alla porta. Thomas fa capolino. WITTMAN - Thomas! Finalmente! (I due si abbracciano) Com’è andato il viaggio? THOMAS - Ho materiale da lavorarci su per almeno un anno. WITTMAN – Eccellente. Breve pausa. THOMAS - Ho portato anche lei. WITTMAN - Lei chi? THOMAS - La vecchia. WITTMAN - La vecchia? THOMAS - Sì. WITTMAN - Hai portato la vecchia? THOMAS - Hanno liberato i fondi. (Breve pausa) Non ho avuto scelta. Sta male. WITTMAN - Non ti sembra / THOMAS - Sta morendo, Paul. L’unica possibilità era portarla qui, dove la possono curare. WITTMAN - Allora c’è speranza? THOMAS - Sì. Voglio dire, no. Possono solo allungarle la vita. Giorni, settimane, mesi, questo nessuno lo sa. I medici non me

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THOMAS - Lo sai che è importante. WITTMAN - Come la tua ricerca sulle particelle sostantivanti nella variante dialettale dei pigmei del Gabon settentrionale? Tre lunghi anni di stipendio, una bella sovvenzione di cinquantamila e non te l’hanno nemmeno pubblicato. THOMAS - Cretini. Degli emeriti cretini. La scienza non è una merce. WITTMAN - (Paterno) Thomas, parliamoci chiaro: nel mondo ci sono da cinque a diecimila lingue diverse, nessuno lo sa di sicuro. Magari seimila è una buona cifra. Ogni due settimane una di queste lingue muore, in qualche parte del mondo, per un motivo o per l’altro. Cosa vuoi che cambi il tuo tukti in tutto ciò? THOMAS - Sono tragedie, Paul, tragedie. E comunque questa volta è diverso. Si tratta di un ramo completamente sconosciuto. Non c’è traccia di derivazione dalle principali famiglie linguistiche che conosciamo. Può cambiare i nostri libri di storia. Può rappresentare un salto epocale per il genere umano, una rivoluzione copernicana. (Arrabbiato) Per dio, tu sei un linguista, sai di cosa parlo. WITTMAN - Sono un latinista. Il latino ha fondato la nostra civiltà. Il latino, il greco, sono lingue nobili, lingue che hanno prodotto il fior fiore del pensiero umano, della filosofia, della letteratura. Senza il latino non ci sarebbe stato Seneca o Catullo o Ovidio. Ma tutto questo non te lo devo dire. THOMAS - Paul, io ti voglio bene come a un padre. Mi devi capire, mi devi dar fiducia. Ho bisogno della tua approvazione. Pausa. WITTMAN - Pensi che ce la farai a presentare qualcosa di concre-


testi to prima della riunione del Consiglio? È la tua possibilità. I cattedratici non vanno in pensione tutti i giorni.

DJIBO - Mi scusi. Pensavo non ci fosse nessuno a quest’ora. Djibo spinge secchio e mocio fuori dall’ufficio.

Breve pausa. THOMAS - Ce la farò, Paul. Ce la farò.

Scena 6 L’ufficio di Samuel. Lui fa jogging in un tapis roulant, in tenuta sportiva. Un segnale acustico indica la fine dell’allenamento. Samuel scende dal tapis roulant, si asciuga, beve acqua, riprende fiato. Poi si guarda all’orologio e inizia a cambiarsi. Mentre si allaccia la cravatta, gli balena un pensiero in mente. Alza la cornetta del telefono, tentenna un attimo, ci ripensa e la poggia nuovamente. Continua ad allacciarsi la cravatta. Si guarda allo specchio. Torna al telefono, alza la cornetta, decide di comporre un numero.

SAMUEL - Non fa niente, sto andando via. DJIBO - Come vuole. (Samuel sistema la sua valigia. Djibo inizia a pulire il pavimento. Prima di lasciare la stanza, Samuel si ferma e lo osserva. Djibo se ne accorge) Posso aiutare, signore? SAMUEL - Da quanto tempo lavora qui? DJIBO - Da una settimana, signore. SAMUEL - E le piace? DJIBO - Non c’è male. SAMUEL - Mi dica la verità. (Pausa) Mi dica la verità. DJIBO - Non ho trovato altro, signore. SAMUEL - E perché no? DJIBO - Perché ho solo le superiori, signore. E non parlo le lingue. Pausa.

SAMUEL - (A disagio) Ciao. Sono io. (Pausa) Spero che tu stia bene. (Pausa) Continui a mangiarti le unghie? Non mangiarti le unghie, fa male. Ti esce il sangue. Non mangiarti le unghie. (Pausa) Che hai fatto oggi? Hai mangiato? Cos’hai mangiato? (Pausa) Cosa pensi ora? Cosa senti ora? (Pausa) Sei sdraiato sul divano? Sei per caso sdraiato sul divano, con un bicchiere di vino? E prendi un sorso ogni tanto, un sorso piccolo, tanto per cambiare il sapore in bocca? Tanto per non mandare giù solo saliva? (Pausa) O sei sdraiato per terra, sulla moquette? Non sdraiarti sulla moquette. È piena di polvere. È piena di quelle cosine che i biologi chiamano acari. E tu sei allergico, ricordati. Sei così sensibile. Non sdraiarti sulla moquette. Sdraiati sul divano. (Lunga pausa. Guarda fuori) Da qui il cielo è molto bello. Te l’avrò già detto cento volte, vero? Centomila, un milione, un miliardo di stelle adesso mi guardano come uno scemo che invecchia. Uno scemo che invecchia con la cravatta, mi sto trasformando in questo, in uno scemo che invecchia con una cravatta Armani. Pian piano affiorano le rughe. Qui, di fianco agli occhi. Anche se mi metto la crema. Anche se tutti i giorni mi metto la crema di una nota casa cosmetica che mi costa cinquecento euro. E mi faccio fare dei massaggi, sì, per attivare la microcircolazione. Ma penso comunque di ricorrere tra qualche anno al chirurgo estetico. (Pausa) Tu ce le hai? Ce le hai, le rughe? Quando ti svegli ti guardi allo specchio e pensi: oggi sono un altro, sono sempre un altro, una copia fasulla di me stesso? (Pausa) Mettiti una giacca. Non mi piace che stai così scoperto. Questo clima inganna. Se ti prende una corrente d’aria corri il rischio di restare a letto una settimana. (Pausa) No, non è male. Il penultimo piano dell’edificio più alto di questa città non può essere male. Magari uno di questi giorni mi vieni a trovare. Da qui si vede tutto. Solo l’alta dirigenza ha il lusso di una finestra panoramica. (Pausa) Che fai? Ti gratti la pancia? Non grattarti la pancia. Ti vengono le ferite. E tu non vuoi che ti vengano le ferite. Ti fa male grattarti la pancia. Non grattarti la pancia. (Pausa. Ride) Io mi diverto, sai? Perché dovrei annoiarmi? Ho tutto quello che voglio. (Pausa) Tutto tranne quello. L’interstizio tra il ventinovesimo e il trentesimo piano. Quel piccolo gradino. E quel piccolo gradino mi fa… C’è un rumore dietro alla porta. Samuel butta giù il telefono. Entra Djibo con secchio e mocio.

SAMUEL - Sei un uomo fortunato. DJIBO - Prego? SAMUEL - Hai trovato lavoro. Di questi tempi è difficilissimo. DJIBO - Sissignore. SAMUEL - Tienitelo stretto. DJIBO - Sissignore. SAMUEL - Non dimenticare di svuotare il posacenere. DJIBO - Sissignore. SAMUEL - E di lucidare bene la finestra. DJIBO - Sissignore. SAMUEL - Allora buona notte. DJIBO - Buona notte, signore. (Samuel esce. Djibo si mette a pulire.)

Scena 7 Casa di Thomas. THOMAS - Ilau. Ilau macungerti. Ilau macungerit capatau ui. Tongherictu ictabar sagmanucat ictui ictuia. Ui ie macungat be, saprtaniz prcat tatmigin. Cacolot maneriptu ui, ia bai, ia bai candivulap, macnetenai racatbu ractibui. Brtcaeip, ui. Ui ga, kan bo trepkriter ictui. Mulet ilau, prcat conbuin ovbut tonkerig. Ma. Ma. Ma pacaretna alai. Pacaretmandu alai. Kraivoret ui, titineru rosnugavu. Nibonibo ju, ninonibo ku, ui rapalet canotat mursiau. Ui rapalet cantonit tolenebar. Ilau-io. O forse tu? Ilau-tu. (Ripete le frasi con diverse intonazioni, cercando di decifrarle, fino all’esasperazione. Si mangia le unghie per il nervosismo. Si sente un tonfo, qualcosa è andato contro alla finestra. Thomas si avvicina, è macchiata di sangue. La apre, guarda giù. Un uccello è andato a sbatterci contro.)

Scena 8 Al parco. Sara dà da mangiare ai piccioni seduta su una panchina. Entra Djibo, che si ferma appena la vede. SARA - Ehi, tu sei il tipo dell’altro giorno, vero? Quello col nome

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testi strano, il kazakistano? Siediti, siediti. (Lui si siede) Allora, come va? DJIBO - Non c’è male. SARA - Hai trovato lavoro? DJIBO - Sì. SARA - Bravo. Dove? DJIBO - In una multinazionale. SARA - Davvero? DJIBO - Un palazzo molto alto. In centro. SARA - Caspita. In che settore? DJIBO - Telecomunicazioni. Linee telefoniche, tivù, queste cose. SARA - E com’è? DJIBO - Un lavoro un po’ sporco. SARA - Imbrogliano? Capitalisti bastardi. Pausa. DJIBO - E tu? SARA - Come sempre. Lavoro-casa, casa-lavoro. Lo stipendio che non basta mai. I weekend li passo davanti alla tivù con un barattolo di nutella. (Enfatica) Ma oggi ho preso una decisione. Ho deciso di fare ordine nei cassetti. Mi sono detta: «Sara, perché non vai a farti un giro? Perché non vai alla ricerca del tuo Sé più profondo?» Bisogna varcare la soglia, bisogna compiere questo gesto, giusto? Hai mai sentito parlare di rebirthing? DJIBO - … SARA - Non importa. Quello che conta è che siamo qui, seduti su questa panchina, a respirare aria pura, in questa bella giornata di primavera. (Inspira, poi fa una smorfia) Cos’è questa puzza? DJIBO - È appena passato il camion dei rifiuti. (Pausa) Tu abiti qua vicino? SARA - No. Ma mi piace questo parco. Ci passo davanti ogni giorno. Lì dietro c’è l’uscita della metropolitana e, quattro isolati più in là, il mio ufficio. Faccio questo tragitto due volte al giorno, ma non mi fermo mai. Sono alti questi faggi. (Breve pausa) E tu? DJIBO - Vado a visitare un amico. SARA - Da quando sei in città? DJIBO - Da quasi due mesi. SARA - Però. Hai fatto in fretta a sistemarti. C’è gente che ci mette una vita. Come me, per esempio. Io un lavoro ce l’ho, ma la testa è un casino. Il mio fidanzato mi ha lasciato e io sono andata in palla. Ma di lui, non ne voglio parlare. (Pausa) Piuttosto mi dispiace per Johnny. DJIBO - Johnny? SARA - Il mio gatto. È morto qualche mese fa. Gli hanno trovato un tumore all’intestino in stadio avanzato. È stato tutto molto veloce. Era uno stecchino verso la fine. DJIBO - Mi dispiace. SARA - Dieci anni. Una vita passata assieme. (Lei si commuove. Lui le passa un fazzoletto) Grazie. (Si asciuga gli occhi. Lo guarda per bene) Hai una fidanzata? DJIBO - (Nega) … SARA - Meglio così. I rapporti di coppia sono una fregatura. Quando pensi che hai trovato quello giusto, che finalmente sei pronto a mettere su baracca e burattini, scopri che il terreno sotto è marcio. (Silenzio) Sei molto buffo, sai? DJIBO - … SARA - Non fraintendermi, niente di grave. Solo che sembri uno

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venuto da… Non so. Come parli, come ti vesti. (Djibo si guarda i propri vestiti) La postura, i gesti, questo sguardo un po’ disorientato. (Pausa) Hai già mangiato? DJIBO - (Nega) … SARA - Ti va un hamburger?

Scena 9 Thomas Ruhe ascolta ripetutamente una registrazione. Trascrive dei brani. Poi si alza, il pezzo di carta in mano, e legge a voce alta ciò che è riuscito a trascrivere. THOMAS - Ilau macungerit capatau ui. Tongherictu ictabar sagmanucat ictui ictuia. Ui ie macungat be, saprtaniz prcat tatmigin. Cacolot maneriptu ui, ia bai, ia bai candivulap, macnetenai racatbu ractibui. Brtcaeip, ui. Ui ga, kan bo trepkriter ictui. Mulet ilau, prcat conbuin ovbut tonkerig. Ma. Ma. Ma pacaretna alai. Pacaretmandu alai. Kraivoret ui, titineru rosnugavu. Nibonibo ju, ninonibo ku, ui rapalet canotat mursiau. Ui rapalet cantonit tolenebar. (Riflette, ripete alcuni brani scandendo le parole, trovando intonazioni. Si mangia le unghie. Suona il telefono) Pronto? (Pausa) Pronto? (Pausa) Chi parla? (Pausa) Chi parla? (Pausa. Ascolta. Buttano giù dall’altra parte. Thomas guarda la cornetta irritato e mette a posto il telefono. Cerca di concentrarsi nuovamente sul lavoro. Riprende a studiare le frasi, ma la sua angoscia cresce per l’impossibilità a capirle. Sputa fuori quella lingua sconosciuta con rabbia. Suona il campanello. Thomas cerca di ricomporsi e va ad aprire la porta. È Djibo) Finalmente. Ti aspettavo per pranzo. DJIBO - Scusa. THOMAS - Mi potevi chiamare. DJIBO - Non ho trovato un telefono. THOMAS - Hai già mangiato? DJIBO - Sì. THOMAS - Sì? DJIBO - Ho incontrato un’amica. Abbiamo mangiato insieme. THOMAS - Un’amica? DJIBO - Un’amica. THOMAS - Che amica? DJIBO - Un’amica. THOMAS - Da quando hai un’amica? DJIBO - Da… Perché me lo chiedi? THOMAS - Così, per curiosità. DJIBO - L’ho conosciuta in giro, qualche giorno fa. Ci siamo incontrati per caso. THOMAS - Mi fa piacere che ti stai integrando. (Pausa. Va fino a un mobiletto, prende un cellulare, glielo porge) Ecco. Questo è per te. È il mio vecchio cellulare. Così puoi chiamarmi quando vuoi. DJIBO - Grazie. THOMAS - Avvertimi la prossima volta. Pausa. DJIBO - Mi piace la tua camicia. THOMAS - Davvero? Grazie. (Pausa) Bene. Ti ho chiamato qui per… Hai notizie di tua nonna?


testi DJIBO - Sono andato in ospedale ieri. L’infermiera ha detto che sta peggiorando. THOMAS - Esatto. Sempre di più. DJIBO - Fa fatica a parlare. THOMAS - Lo so. Ogni giorno facciamo una seduta. Cerco di stimolarla a parlare e registro tutto. Ma ha sempre meno fiato, meno stimolo. (Silenzio) Djibo, ho bisogno del tuo aiuto. Sono esausto. Sto dando corpo e anima a questo lavoro. Non mangio, non dormo. Ma è una lingua difficile, non ci sono appigli, somiglianze. Le interviste non mi stanno aiutando. O sono vaghe, o aneddotiche, comunque inutili. Tu sei l’unica persona che mi può dare una mano. DJIBO - Te l’ho detto che non parlo la lingua. THOMAS - Ma riesci a comunicare con lei in qualche modo. DJIBO - Non con le parole. È questo che ti interessa, no? Pausa. THOMAS - (Nervoso, quasi arrabbiato) Insomma, non è possibile che non ti ricordi niente! È tua nonna, no? Hai passato del tempo con lei quando eri piccolo. I bambini sono come delle spugne, assorbono tutto quello che capita. Ti sarà rimasta un’espressione, una frase, una parola… Parole di una canzone, per esempio? Una ninnananna che lei cantava? Un suono a cui associare un’immagine? Pausa. DJIBO - No. Niente. THOMAS - Pensaci. Pausa. DJIBO - Niente. THOMAS - Niente? DJIBO - Niente. THOMAS - Non è possibile. Ci deve essere... Ascoltami. Ho una proposta da farti. Conosco uno specialista, uno psichiatra molto rinomato. Ha scritto studi molto importanti sull’ipnosi. Vorrei farti fare qualche seduta. Niente di impegnativo. Devi solo stare lì e rilassarti. Seguire quello che lui dice. Farti portare dalla sua voce. Chiudere gli occhi e ascoltare. Lui ti guiderà in un piccolo viaggio. Delle immagini ti appariranno in mente, suoni, ricordi inaspettati. Un po’ come andare al cinema. Pausa. DJIBO - Il cinema non mi piace. THOMAS - D’accordo. Vedilo come un lavoro. Ti servirà qualche quattrino in più, no? DJIBO - Quanto? THOMAS - Venti a seduta. DJIBO - D’accordo. THOMAS - Perfetto! Eccoti un anticipo. Ti chiamo per dirti l’ora, va bene? DJIBO - Va bene. THOMAS - Ti serve qualcos’altro? DJIBO - (Dopo un po’) Vorrei la tua camicia.

Scena 10 Djibo e Sara seduti a un tavolo di una catena di fast food. La statua ad altezza d’uomo di un pagliaccio sorridente in fondo. SARA - Davvero vieni da quel posto? (Djibo fa un cenno positivo con la testa, abboccando un panino) Parli così bene la nostra lingua. DJIBO - Ce la insegnano da piccoli. SARA - Che strano. DJIBO - Cosa? SARA - Dev’essere strano crescere con la lingua di un altro. DJIBO - È la mia lingua. SARA - Voglio dire, andare a scuola e imparare in una lingua diversa da quella che parli a casa, con i tuoi genitori. DJIBO - I miei genitori parlavano poco o niente la lingua locale. Quasi più nessuno parlava la lingua locale. Il commercio, il lavoro – i soldi, insomma – dipendevano dalla nuova lingua. Solo qualcuno in montagna parlava quella vecchia. Ma poi c’è stata un’epidemia… SARA - (Mettendo ketchup sulle sue patatine) Pazzesco. (Gliele infila una in bocca) E perché hai deciso di trasferirti? DJIBO - Perché qui ci sono più opportunità. Ti pagano meglio, puoi avere più cose. Una vita migliore. SARA - Ma lì com’era? DJIBO - Non male. SARA - Tipo? DJIBO - In che senso? SARA - Tipo cosa facevi lì? Tipo mangiavi? DJIBO - Sì, certo. Il cibo era buono. SARA - Ti manca? DJIBO - (Riflette) Forse il latte. Il latte mi manca. Avevamo una mucca. SARA - Una mucca? Pazzesco. Non ho mai visto una mucca. Dico, una mucca vera. Solo quelle stampate sulle confezioni. O sugli spot in tv. (Ride) Ho sempre voluto averne una. Mi stanno simpatiche. Hanno quel manto a chiazze e fanno Muuuu muuuu... (Ride) Mia cugina me ne ha regalata una per la cucina. Di porcellana, ovvio. Figuriamoci, una bestia così in un cubicolo… (ride) DJIBO - (Riferendosi al latte) È più denso. SARA - (Ci ripensa) Anche se il mio vicino di fianco ha un san bernardo. DJIBO - La mungevo io. SARA - Hai mai visto quella in cui la bambina si sveglia, la mamma sta preparando la colazione e sul tavolo c’è un barattolo di mou, ma quando lei lo apre non c’è più niente, ed ecco che vediamo una mucca in giardino che si lecca i baffi? DJIBO - (Non capisce) Quale bambina? SARA - È una delle mie preferite. Poi c’è quella della coca-cola, in cui... (Guardando il panino intatto di Djibo) Ma non mangi? DJIBO - Sa di… SARA - Di? DJIBO - Sapone. SARA - Sapone? (Ride) Aspetta, non hai messo abbastanza ketchup. Ti faccio vedere io. (Inonda il panino di ketchup) Ecco fatto. (Djibo assaggia il ketchup con le dita, ma non mangia il panino) Cosa ti stavo dicendo? Ah, sì, che le mucche sono fantastiche. Dovremmo averne di più in giro. Lanciare una campagna del tipo «adotta una mucca». Portare i bambini in fatto-

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testi ria. Fargli vedere le origini di quello che trovano sulla tavola. La gente non ha idea di certe cose. Bisogna cominciare a renderli consapevoli da piccoli. Tu non sei d’accordo? (Abbocca il suo panino) Buono l’hamburger. (Pausa) SARA - (Guardando l’orologio) Se oggi fosse un lunedì, dovrei scappare di corsa. Oddio, mi fa star male pensare che passo due terzi delle mie giornate in quel buco. Due terzi di vita. Un investimento malsano. Con questo caldo, senz’aria condizionata. E quando la grassona suda, l’unica soluzione è chiudersi il naso con il nastro adesivo. Ma ovviamente non si può. Una volta l’ho fatto e m’hanno scontato tre ore dallo stipendio. (Sospira) Incredibile, dovunque vada c’è sempre una grassona a rovinarmi la vita. Perché non si mettono a dieta? (Cambiando umore) Ma per fortuna oggi è sabato. Ho tutto il tempo per fare tutto quello che voglio. Passo la settimana ad aspettarlo, sai? Una corsa sfrenata verso il weekend. Solo che quando arriva non so mai che farmene. (Pausa) DJIBO - Ho un appuntamento. Sono… in ritardo. SARA - Bravo, stai imparando. Qui si è sempre in ritardo. Anche io ho un paio di appuntamenti più tardi. Faccio dei lavoretti per arrotondare, sai. Consulenza esoterica. Tarocchi, rune, cose del genere. E tu? DJIBO - Io no. SARA - Dico, te la cavi bene con il tuo stipendio? DJIBO - Pago l’affitto. Mangio. (Si guarda il panino) Sara prende dei fogli dalla borsa e li consegna a Djibo. SARA - Mi fai un po’ di pubblicità? Lasciali in giro, dove ti capita. Qui sotto c’è il mio telefono. DJIBO - Grazie. Pausa. Lei mangia. SARA - Sai cosa detesto? Detesto il cinema. Il cinema mi fa cagare. Al cinema ti fanno vedere le donne perfette con gli uomini perfetti con i figli perfetti con gli stipendi perfetti. Per questo non vado al cinema. Saranno anni che non vado al cinema. L’ultima volta che sono andata al cinema ho pianto l’anima. Non me n’era rimasta neanche una goccia. Mi guardavo allo specchio e mi vedevo gli occhi del colore del deserto. Non avevo più pupille. Avevo il viso tutto rosso. Sembravo quel pagliaccio lì. Per fortuna sono venuti i vigili del fuoco. Ma che fai? Lasci le patatine? Mangiale, no? (Se le infila in bocca) Non si lascia il cibo sul piatto. In Africa i bambini muoiono di fame.

Scena 11 L’ufficio della multinazionale delle telecomunicazioni. Samuel cammina per la stanza, mentre detta qualcosa alla Signorina Jolie. Lei prende appunti con un’efficienza impeccabile. SAMUEL - The details of these procedures will be determined by the Administration Council in the next meeting. (Pausa) Che ne dice, signorina Jolie? SIGNORINA JOLIE - Mi sembra eccellente, signor Ruhe. SAMUEL - Il Consiglio di Amministrazione si aspetta molto que-

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sta volta. SIGNORINA JOLIE - È vero, signor Ruhe. Ma sono sicura che lei farà un’esposizione brillante. SAMUEL - È un’operazione molto delicata, signorina Jolie. Potrei anche dire chirurgica. Questa fusione determinerà il successo planetario del nostro business. SIGNORINA JOLIE - Lei sta facendo un ottimo lavoro. SAMUEL - Satelliti con il nostro marchio fluttueranno in cielo. Balleranno il walzer con le stelle. O la rumba. O il chachacha. Raggiungeremo ogni anfratto di questo azzurro corpo celeste. Un grande trionfo. SIGNORINA JOLIE - Il suo trionfo, signor Ruhe. SAMUEL - Non ancora, signorina Jolie, non ancora. La presidenza è a un passo. Ma compierlo non è un gesto banale. SIGNORINA JOLIE - Il presidente ha fiducia in lei. SAMUEL - E lei, signorina Jolie? Lei ha fiducia in me? SIGNORINA JOLIE - Evidentemente, signor Ruhe. Samuel va alla finestra. SAMUEL - Mi ricordo quando è venuta a lavorare per me. Ero ancora al quindicesimo piano. SIGNORINA JOLIE - Esatto. SAMUEL - Un giovane alle prime armi, pieno d’ambizione. SIGNORINA JOLIE - È ancora giovane. SAMUEL - Avevo deciso di sfondare. E non ho risparmiato sforzi. SIGNORINA JOLIE - È sempre stato un uomo di volontà implacabile. SAMUEL - In dieci anni sono salito più di venti piani. Un percorso inaudito. SIGNORINA JOLIE - Direi geniale. SAMUEL - E adesso, alle soglie della quarantina, sto per compiere l’ultimo passo, il passo più importante. SIGNORINA JOLIE - Se lo merita. SAMUEL - Tra qualche settimana, l’ultimo piano sarà mio. SIGNORINA JOLIE - Solo suo. SAMUEL - E lei, signorina Jolie, verrà con me. SIGNORINA JOLIE - La ringrazio, signor Ruhe. SAMUEL - La sua fedeltà sarà premiata. (Pausa) È emozionata? SIGNORINA JOLIE - Certamente, signor Ruhe. SAMUEL - (Pausa. Torna alla finestra e guarda fuori) Quei piccioni sono sempre più numerosi. Sono uccelli fecondi. Raggiungono la maturità sessuale molto presto. (Si gira) Una volta ho letto che se si ammazzassero tutti i piccioni di questa città per dar da mangiare ai poveri, non ci sarebbe più fame nel mondo. SIGNORINA JOLIE - Un dato peculiare. SAMUEL - Non sarebbe una cattiva idea. SIGNORINA JOLIE - Affatto. SAMUEL - Quando la comunità diventa troppo numerosa, aumenta l’aggressività e la competizione tra gli individui della stessa specie. La scarsità del cibo diventa pressante. SIGNORINA JOLIE - La natura ha le sue leggi. SAMUEL - L’altro giorno, per esempio, proprio qui, sotto la mia finestra, un piccione si mangiava un altro piccione. Viscere da tutte le parti. Una cosa disgustosa. (Pausa. Pratico) Bene. Abbiamo finito per oggi, signorina Jolie. (La signorina Jolie fa per uscire) Aspetti. (La signorina Jolie si volta) Stia pure qui. Mi serve ancora.


testi Scena 12 Università. Una lezione di Thomas Ruhe. THOMAS - Molte lingue oceaniche distinguono tra ciò che potremmo chiamare possesso alienabile e possesso inalienabile, termini che si riferiscono anche alla natura della relazione tra il possessore e le cose possedute. Secondo Nettle & Romain, in questi sistemi di classificazione, tutti i sostantivi sono considerati o sotto il controllo del parlante – posseduti in modo alienabile – o no – posseduti in modo inalienabile. Per esempio, nella lingua hawaiana, i genitori e i nonni, così come certi altri parenti stretti e le parti del corpo, sono inalienabili perché una persona non sceglie di nascere, o di avere braccia e gambe. I mariti, le mogli e i figli vengono invece scelti e, così, sono alienabili. Si confronti ka’u keiki, “mio figlio”, con ko’u makuahine, “mia madre”, dove l’aggettivo possessivo ha forme diverse a seconda di ciò che è posseduto, figlio o madre. Ciò che viene considerato alienabile e inalienabile può differire da una lingua all’altra, ed è perciò influenzato dalle credenze culturali sul possesso, la proprietà e così via. In generale, soltanto gli esseri umani sono capaci di possedere cose o di esercitare il controllo su di esse. In nuce, il vocabolario di una lingua è un inventario degli elementi che una cultura ha categorizzato e dei quali parla per dare un senso al mondo e per sopravvivere in un ecosistema locale. Per questo motivo, le numerose lingue del mondo sono una sorgente di dati sulla struttura delle categorie concettuali e una finestra sulla ricca creatività della mente umana. Per oggi basta. Fatemi un piccolo saggio sull’argomento per la prossima lezione.

Scena 13 Luce soffusa. La sagoma di un uomo legato e imbavagliato per terra. La figura geme, si dibatte, tenta di liberarsi. La sagoma di una donna in tacchi a spillo che fuma una sigaretta, di spalle. Questo momento dura un po’. La donna spegne la sigaretta, si avvicina. È la signorina Jolie, nel suo impeccabile tailleur e tacchi a spillo. Prende una frusta dal tavolo. Dà una spintonata all’uomo per terra. È Samuel, in un abbigliamento sadomaso in lattice. La signorina Jolie parla senza emozione.

autopresentazione

Babele, identità e globalizzazione di lingue e destini appesi a un filo Durante una conversazione con il drammaturgo e amico Philip Löhle, lui mi parla di una piccola nota, apparentemente irrilevante, su un giornale tedesco. Una vecchia, l’ultima parlante di una lingua sconosciuta, muore. Quasi un banale fatto di cronaca, destinato a scomparire in fretta come uno sputo sul marciapiede. Se non che mi ha mosso qualcosa nello stomaco. Studiando la morte delle lingue, ho scoperto quanto questo argomento sia assolutamente escluso dai dibattiti pubblici, mentre invece si tratta di una vera emergenza sociale. Si stima che, ogni due settimane, una tra le circa seimila lingue presenti nel mondo sparisca. Svaniscono altrettanto le conoscenze a esse collegate, inestimabili ricchezze di popoli ancestrali. Questo fenomeno è intimamente connesso al processo della globalizzazione, che porta con la sua impetuosa invadenza la colonizzazione culturale. Un processo “cannibalico”, dunque, in cui la cultura (e lingua) dominante inghiotte quelle marginali dal punto di vista economico. Alcune delle domande etiche che mi premevano durante la scrittura del testo sono: fino a che punto è possibile preservare la diversità? Cosa ha più valore: l’ideale di una lingua globale, simulacro di comprensione e dialogo tra i popoli, o la preservazione della molteplicità? Cosa fare se una cosa esclude l’altra, proprio perché fenomeno intimamente legato ai processi economici globali? Sabrina Sinatti dà un’interpretazione del testo che considero molto precisa: «Babele sembra parlare della trappola del capitalismo moderno, o meglio, dell’attuale “libertà condizionata” di noi tutti, attraverso un congegno testuale che intreccia forma e contenuto, fatto di rigorose simmetrie tra personaggi concreti, toccanti e talvolta ironici e una tessitura di segni minuziosamente distribuita, eppure, come un rompicapo logico, è capace di sfidare lo spettatore in ciò che costantemente sfugge. I temi della globalizzazione, del linguaggio, della tensione verso il successo incondizionato, delle minoranze, del rapporto tra natura e cultura e più ancora il tema che riguarda il destino di quei valori come l’amore, l’amicizia il senso di fratellanza e solidarietà o semplicemente lo sguardo e l’ascolto dell’altro in un mondo egemonizzato dalla tecnica, costituiscono un indubitabile collante con la nostra contemporaneità. Contemporaneità che in Babele mostra tutta la sua ferocia e spregiudicatezza, così come suscita la più disperata commozione per l’umanità fragile che racconta». L’edizione qui pubblicata è per ragioni di spazio una versione ridotta del testo. Buona lettura. Ana Candida de Carvalho Carneiro

SIGNORINA JOLIE - (Ficcandogli il tacco nella carne) Fa male? (Samuel emette solo gemiti) Fa molto male? (Samuel emette solo gemiti) Te lo meriti. Ti meriti ogni singola cosa che ti farò. (Samuel emette solo gemiti. Lei, autoritaria) Zitto. Stai zitto. Non voglio sentire una mosca volare.

Scena 14 Un call center. SARA - Buongiorno. Vorrei parlare con il signor Esposito. (Pausa) Ah, deceduto? (Pausa) Lei è per caso la moglie? (Pausa) Avrei bisogno della sua attenzione per qualche minuto, per un’inchiesta. È contenta del servizio di posta? È contenta del... [...]

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testi Scena 15 Stazione della metropolitana. Djibo aspetta, seduto. Il suo treno non arriva. Ogni tanto, rumore del treno in arrivo nel senso contrario. Un po’ spazientito, va fino a una macchinetta delle bevande. Inserisce una moneta, preme il pulsante, ma non esce niente. Perde la pazienza, e inizia a dar cazzotti contro la macchina, inutilmente. Dall’altro lato, entra la signorina Jolie. Si siede su una panchina. Djibo torna a sedersi sulla sua panchina, sconfitto. DJIBO - Mi scusi? (La signorina Jolie lo guarda) Mi scusi, lei sa a che ora passa il treno? SIGNORINA JOLIE - Prego? DJIBO - È mezz’ora che aspetto. SIGNORINA JOLIE - Ogni cinque minuti, ma dopo le dieci sono più radi. Pausa. Rumore di treno che arriva. DJIBO - Lavora in zona? SIGNORINA JOLIE - (Quasi offesa) Come? DJIBO - Non è la prima volta che la vedo. Mi sono domandato se lavora in zona. SIGNORINA JOLIE - No. DJIBO - Allora abita in zona? SIGNORINA JOLIE - No. Pausa. DJIBO - Mi domandavo perché... SIGNORINA JOLIE - Si faccia gli affari suoi. Silenzio. DJIBO - Che ora fa il suo orologio? Mi sa che quello è rotto. (Riferendosi all’orologio della stazione) SIGNORINA JOLIE - Lei mi sta molestando. La avverto che chiamerò la polizia. DJIBO - No, si sbaglia. Volevo solo… La signorina Jolie si alza e cambia panchina. La sua valigetta scivola e le carte si sparpagliano. Dentro, una bomboletta a gas. Djibo si affretta ad aiutarla. Prende la bomboletta a gas. SIGNORINA JOLIE - Mi stia lontano. Cosa vuole? Adesso grido. Adesso chiamo qualcuno. DJIBO - Voglio solo… SIGNORINA JOLIE - Un pervertito, oh mio dio. DJIBO - …aiutare. Djibo lascia quello che ha preso e torna a sedersi, un po’ scosso. La signorina Jolie si calma. Raccoglie le sue cose. Si siede nuovamente. Silenzio. Treno che arriva dall’altra parte. SIGNORINA JOLIE - Davvero voleva…? (Pausa) Davvero? (Pausa) Mi scusi. È che non si sa mai cosa ti può succedere in questa città. È tutto così... fragile. Questa bolla che abbiamo intorno a noi. Può esplodere in qualsiasi momento. In qualsiasi momento, sa, può arrivare qualcuno e buttarti dell’acido in faccia e deformarti per tutta

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la vita. O puntarti un coltello alla gola, sfilarti le mutande, costringendoti a fare brutte cose in qualche angolo buio. Si rende conto? (Pausa) È questione di badare alla propria pelle. Se non lo facciamo noi, e chi? (Pausa) Io sono Amanda Jolie, piacere. Si stringono le mani. DJIBO - Djibo. SIGNORINA JOLIE - Che nome è? DJIBO - Lituano. SIGNORINA JOLIE - Accidenti. Mai conosciuto uno prima. Peruviani, venezuelani, giamaicani sì, ma... Oh dio, non mi fraintenda. Io sono per una società multiculturale. Colore della pelle, nazionalità... dettagli, no? Io stessa sono un sangue misto. Si può dire, no? Mio padre era tedesco e mia madre francese. Sono europea nel senso più ampio del termine. (Ride) Parlo cinque lingue. Francese, Tedesco, Spagnolo e Italiano. E inglese, ovviamente. Senza l’inglese non si va da nessuna parte. (Sfilando un cracker dalla borsa) Vuole un cracker? DJIBO - No. SIGNORINA JOLIE - Sono stata assunta proprio per questo. Per parlare con il mondo. Sono molto brava, sa? Per parlare con il mondo, non basta saper alzare la cornetta. No, no. Ci vogliono le chiavi. Le chiavi per arrivare al cuore della gente. E io queste chiavi ce le ho, e sono cinque. (Pausa. Mangia) Poi bisogna anche essere un po’ psicologi. Dire le parole giuste al momento giusto. Dire quel che il cliente vuol sentire. Assecondarlo. Questa è una cosa importante. Assecondarlo. Perché una volta che si fida di te, la partita è vinta. Parlo di affari, è chiaro. Il mio capo dice che sarei una brava manager se fossi uomo. E tu? DJIBO - Io sono un uomo. SIGNORINA JOLIE - Cosa fai, dico? Cosa fai, ad esempio, a quest’ora qui? DJIBO - Vado a casa. SIGNORINA JOLIE - Non mi piacciono le stazioni deserte. Non si sa mai chi si può trovare. DJIBO - Abito in periferia. SIGNORINA JOLIE - D’altra parte, di giorno è insopportabile. I treni traboccano di gente sudata. E tu cerchi di infilarti dentro, lanciandoti contro il branco, strusciando il corpo ai corpi sudati che ti stanno attorno. Sennò rimani indietro. Sennò perdi il treno. Ti rendi conto? (Mangia) DJIBO - È tranquillo. Dove abito. SIGNORINA JOLIE - A quest’ora la maggior parte della gente è a casa. Ha già mangiato la pasta e ora ha il suo bel distendersi sul divano, a guardare un telefilm. Odio gli straordinari. DJIBO - Ma mi piacerebbe cambiare. SIGNORINA JOLIE - (Come se si svegliasse) Cosa? DJIBO - Mi piacerebbe vivere più in centro. Ci metto tanto ad arrivare qui. Pausa. SIGNORINA JOLIE - Ti sei mai domandato se ha un senso? Dico, se tutto questo ha un senso? Non hai mai avuto una di quelle giornate in cui vorresti chiuderti per sempre in una camera iperbarica, chiuderti a dieci mandate e buttare via la chiave? Quelle giornate in cui ti andrebbe di gridare, gridare così forte, solo per poter sentire il silenzio dopo? Quelle giornate in cui ti sembra inutile ritorna-


testi re a casa, perché tanto c’è solo il tuo gatto che ti aspetta, sul divano di ecopelle, a giocare col topino di gomma? DJIBO - ... SIGNORINA JOLIE - Perché a me succede sempre. (Djibo prende un pezzo di carta e si mette a disegnare. Rumore di treno in arrivo e partenza dall’altra parte) Cosa fai? Disegni? (Djibo le dà il disegno) Un dinosauro? DJIBO - Una donna. SIGNORINA JOLIE - Questo sembra una coda. O una barba. DJIBO - Una vecchia. SIGNORINA JOLIE - Perché hai disegnato una vecchia? DJIBO - Ha i capelli lunghi. SIGNORINA JOLIE - Ah, capelli. Non sei tanto bravo a disegnare. DJIBO - E le labbra increspate dalle rughe. SIGNORINA JOLIE - Non si capisce bene. DJIBO - Sembra che le hanno cucite. SIGNORINA JOLIE - Me lo stai regalando? DJIBO - E gli occhi corrosi dalla cataratta. Non vede niente. Forse non sente nemmeno. SIGNORINA JOLIE - Grazie, è molto carino da parte tua. DJIBO - Forse non sa nemmeno di essere viva. SIGNORINA JOLIE - Anche se non so cosa farne. DJIBO - Forse è un sogno. SIGNORINA JOLIE - Ma è comunque molto carino. DJIBO - Forse sogna. SIGNORINA JOLIE - Magari ci fossero più persone come te in giro. DJIBO - Forse abita ancora in quel tempo. In quella radura. Dietro alle montagne. SIGNORINA JOLIE - Se ci fossero più persone come te, il mondo sarebbe migliore. DJIBO - Forse non esiste. SIGNORINA JOLIE - Davvero. Un mondo migliore.

SAMUEL - Mio padre non mi voleva bene. Era un uomo esigente, e io non ero mai all’altezza. La sua disciplina ferrea, la sua dedizione al lavoro erano la regola d’oro. Quelle rare volte che sorrideva, era come ricevere un regalo anelato per anni. Mai per vera gioia o tenerezza, mai per autentica soddisfazione, ma per scherno. O per via di mio fratello. Lui sì ha sempre avuto la fortuna di piacergli. Il suo modo di esprimersi, articolato sin da piccolo, le sue spiccate abilità intellettive. Un modello da seguire. Ma io a mio fratello non assomigliavo, ed era difficile capire perché. Anche se era il più piccolo, arrivava prima. E io rimanevo sempre più indietro. Quando papà morì, la rottura fu definitiva. Come se nessun altro vincolo ci unisse oltre alla mano ferma di quell’uomo. Le telefonate si sono fatte sempre più rade, più rade, fino a interrompersi del tutto. Non so spiegare il motivo. Non c’è stato un litigio. O una scenata. O il rinfacciarsi l’odio a vicenda. Solo il silenzio. E la distanza oceanica tra due continenti disgiunti. (Pausa) Ogni tanto lo chiamo. Non dico niente. Sento la sua voce e provo a indovinare i suoi pensieri. Non so perché ho ancora bisogno di questo. (guarda l’orologio, si alza) Buona sera, dottore. (Esce dalla stanza. Djibo è in sala d’attesa) DOTTORE - (Voce) Avanti.

Pausa. La signorina Jolie rigira il pezzo di carta.

REGISTRATORE - (Voce di Djibo) I capelli. Vedo i. Capelli. Pendono fino. Al. Piede. Non li ha. Mai. Non li ha mai. Tagliati. Li tiene. Raccolti in una. Treccia. (Pausa. Respiro.) Ha l’abitudine di. Spazzolarli. Spazzolarli la s. Sera. Proprio come adesso, li spazzola, li sta spazzolando. (Pausa. Respiro.) Il volto è solcato. Affianco. Gli. Occhi. E si sempre d. Di. Più. Come terra zappata. Ma il loro colore. Rimane. Lo. Stesso. Quel grigio. Indefinito. Più tardi rafforzato dalla cataratta. (Pausa. Respiro.) Usava parole che non capivo. Che. Volevano dire. «Pietra». O. «Albero». O. «Pioggia». O. «Vacca». Volevano anche dire. «Tristezza». O. «Solitudine». O. «Nostalgia». (Pausa. Respiro) Quando i miei genitori sono morti tutto è cambiato. Mi hanno affidato a una nuova famiglia. Mi hanno mandato a scuola, dove s’imparava la buona lingua. (Pausa. Respiro) L’insegnante era una donna assiderata dentro un abito da suora. Mi faceva inginocchiare sul grano, quando dicevo parole mie. Quei pochi semi rimasti, sparsi sulla pietra. (Pausa. Respiro) Ho imparato a. Provare vergogna. Ho imparato a. Essere adulto. (Pausa. Respiro) Andavo a visitarla sempre più di rado. D’un colpo, non c’era più anima viva. Il presente diventò passato, seppellito sotto terra. Aveva nomi scritti su tavole, in cui lei depositava fiori. Lei passava le giornate a guardare il cielo, secca di saliva. Alla fine non è rimasto niente, solo la voglia di andare via.

SIGNORINA JOLIE - (Leggendo) Sara Newman, sensitiva. Tarocchi, rune, I Ching. Tariffe modiche. Orario serale. (Lo piega e lo mette in borsa) Grazie. Davvero. Rumore di treno in partenza. ALTOPARLANTE - Attenzione, signori utenti. Siamo spiacenti di informarvi che il traffico nella linea verde è stato interrotto. Attenzione, il traffico nella linea verde è stato interrotto. I treni della linea verde sono sospesi a causa di un incidente. Ci scusiamo per lo spiacevole inconveniente. Informiamo che degli autobus sostituivi sono disponibili. Djibo e la signorina Jolie si guardano. SIGNORINA JOLIE - Stupidi suicidi. Fanno solo perdere tempo.

Scena 16 Una seduta di psicanalisi. In primo piano, di spalle alla platea, la poltrona dello psicanalista. Vediamo soltanto il fumo ascendente di un sigaro. In fondo, un divanetto. Samuel è in piedi e, nel corso del monologo, passeggia per la stanza.

Samuel incrocia Djibo. Lo guarda per un attimo: la sensazione di «forse l’ho già visto da qualche parte». Dijibo entra nella stanza.

Scena 17 Tutto come nella scena precedente, tranne che per un registratore poggiato su un tavolino. Luce diversa. Djibo soltanto reagisce a quello che ascolta: odio, terrore, smarrimento, allegria... Diventa piano piano un animale rinchiuso in una gabbia, lottando disperatamente per uscirne.

NOTA - In questo monologo registrato - una precedente seduta di ipnosi di Djibo - è fondamentale che l’attore giochi con i suoni, cercando sfumature nei loro interstizi. Il gioco è far vedere come i suo-

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testi ni producono linguaggio, che ha poi valenza semantica. Da bambino che impara i suoni, finiamo con l’adulto fluente. Dal selvaggio all’uomo civilizzato.

SARA - Veramente… La signorina Jolie la fissa. Rimette la sigaretta in borsa.

Scena 18

SARA - Vuole un bicchiere d’acqua? SIGNORINA JOLIE - Si, grazie.

Casa di Sara. Luci soffuse, incenso, candele. Un tavolo con due sedie. La signorina Jolie è seduta davanti a Sara. Sara legge i tarocchi.

Sara apre un piccolo frigo e versa dell’acqua in un bicchiere. La signorina Jolie si è alzata e gironzola per la stanza.

SARA - Le carte parlano chiaro. La torre è uno dei peggiori arcani del mazzo. SIGNORINA JOLIE - È sicura? SARA - Sta mettendo in dubbio la mia professionalità? SIGNORINA JOLIE - No. Mi scusi. SARA - Può vedere lei stessa. La torre è in testa. Significa tradimento, perdita, morte, punizione... SIGNORINA JOLIE - Tradimento? Ha detto tradimento? SARA - O perdita. O punizione. (Pausa) O morte. SIGNORINA JOLIE - È terribile. SARA - Non si preoccupi. A tutto c’è rimedio. Le prescriverò qualche esercizio per cambiare il suo karma. SIGNORINA JOLIE - Tutto qui?

SIGNORINA JOLIE - (Indicando una cuccia vuota) Ha un cane? SARA - Un gatto. Ma è morto qualche mesi fa. Tumore all’intestino. Povero. SIGNORINA JOLIE - (Prende un topolino di gomma per terra) E perché lascia qui la sua cuccia? SARA - Non so. Per abitudine. Faccio finta che è andato in balcone a fare un giretto. Il vuoto non mi piace.

Pausa. Sara si concentra. SARA - Un uomo. Vedo un uomo. SIGNORINA JOLIE - Davvero? SARA - (Indicando una carta) - L’imperatore. (Pausa) Ma è capovolto. SIGNORINA JOLIE - Cosa significa? SARA - Significa tirannia, brutalità, ingiustizia. SIGNORINA JOLIE - Ingiustizia? SARA - O tirannia. O brutalità. SIGNORINA JOLIE - Non potrebbe essere più specifica? SARA - Io do solo degli spunti. Sono un canale. I dettagli, li dovrebbe sapere lei. SIGNORINA JOLIE - Dice qualcosa su una promozione? Una promozione lavorativa? SARA - (Si concentra) No, non vedo una promozione. SIGNORINA JOLIE - Non vede una promozione? SARA - Non vedo una promozione. Pausa. SIGNORINA JOLIE - Qualcosa su… una famiglia? SARA - Una famiglia? SIGNORINA JOLIE - Un marito, un figlio?

Pausa. SIGNORINA JOLIE - Ha mai pensato a che animale le piacerebbe essere? A me piacerebbe essere un passero. SARA - Forse è un ricordo della sua precedente incarnazione. SIGNORINA JOLIE - Mi piacerebbe volare, una volta tanto. SARA - Può fare paracadutismo. O parapendio. SIGNORINA JOLIE - Ha mai pensato di buttarsi dalla finestra? SARA - No. Preferisco tagliarmi le vene. (Breve pausa) Scherzavo. (Ride) SIGNORINA JOLIE - (Assorta) Io a volte lo penso. Quando non c’è nessuno. Quando il mio capo è in riunione o semplicemente andato in bagno. Penso - adesso basta, adesso è il mio momento, adesso spiego le ali e prendo il volo. Buttarsi dal ventinovesimo piano. Cosa cambierebbe? Una nota di cinque righe sul supplemento di cronaca. SIGNORINA JOLIE - Forse se uno potesse tornare indietro. SARA - Forse. SIGNORINA JOLIE - Forse capirebbe meglio perché le cose sono andate così. SARA - Forse. SIGNORINA JOLIE - O forse sarebbero andate così comunque. (Pausa. Butta il topino per terra) Odio questi aggeggi. SARA - Posso ancora aiutarla? Perché è tardi, devo… SIGNORINA JOLIE - Se lei dovesse morire domani, cosa farebbe? L’ultima cosa, qual è l’ultima cosa che farebbe se sapesse che tra meno di ventiquattro ore il suo corpo giacerà sotto terra. SARA - Non lo so. SIGNORINA JOLIE - Lei non è sincera. SARA - Un atto di amore, penso.

Sara osserva le carte, concentrata. Pausa. SARA - No. SIGNORINA JOLIE - Niente? SARA - Il tre di spade sopra gli innamorati annulla il suo effetto.

SIGNORINA JOLIE - Quanto le devo? SARA - Cinquanta euro.

La signorina Jolie è nervosa. Prende un mazzo di sigarette dalla borsa, fa per accenderla.

La signorina Jolie le dà i soldi. Si avvia all’uscita. Sara rimane inchiodata con i soldi in mano.

SARA - Hm-m. SIGNORINA JOLIE - (Guardandola) Posso?

SIGNORINA JOLIE - (Si volta, prima di uscire) Tradimento? Lei ha detto tradimento?

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testi Scena 19 Casa di Sara. Sara sta “cucinando”: prende dal freezer del cibo surgelato e lo mette nel microonde. Mentre prepara la cena e apparecchia, parla con qualcuno fuori scena. SARA - Perché tutti i miei incubi, capisci, tutti i miei incubi più profondi diventano realtà. THOMAS - (Da fuori) Di che parli? SARA - Perché la bambina non poteva sapere, no? Come faceva a immaginare che… Entra Thomas. THOMAS - Quale bambina? SARA - Come quale bambina? THOMAS - (Finge di aver capito) Ah, certo. La bambina. SARA - Come faceva a sapere che faccio quel sogno ogni notte? Che ogni notte, appena mi addormento, una bambina si avvicina al mio capezzale e mi chiede una moneta. Io cerco disperatamente di svegliarmi per darle la moneta, ma non ci riesco. Non riesco a muovermi. Non riesco nemmeno a gridare. Anzi, grido, ma la voce mi rimane in gola. Grido, grido con tutte le mie forze, ma sono urla inutili. Allora lei pensa che sono morta e si allontana piangendo. È orribile. Ora dimmi, come faceva a saperlo? Come è possibile, Thomas? THOMAS - Pensavo fosse per il caldo. (Pausa) Che ti svegliavi così sudata. Silenzio. SARA - Vuoi un po’ di salsa? THOMAS - No, grazie. SARA - Se vuoi, ce n’è in frigo. THOMAS - No, va bene così. SARA - (Fa per alzarsi) Vado a prenderla. THOMAS - No. Grazie. SARA - (Sedendosi) Thomas. THOMAS - (Senza guardarla) Mm. SARA - Quando lo facciamo? THOMAS - Cosa? SARA - Il bambino. THOMAS - Ne abbiamo già parlato. Pausa. SARA - Perché non mi lasci? THOMAS - (Automatico) Perché ti amo. SARA - Allora facciamo un bambino. THOMAS - Non otterrai niente con i ricatti. SARA - Non è una minaccia, è un fatto. Ho trent’anni, non posso aspettare di più. THOMAS - Oggi giorno molte donne fanno il primo figlio a quarant’anni e anche più tardi. La scienza lo permette. SARA - Non mi va di essere la nonna di mio figlio. THOMAS - Le donne che lavorano, che hanno una carriera / SARA - Non me ne frega niente della carriera. Non ho una casa, non ho un lavoro stabile, non ho nemmeno una laurea. Per la società sono uguale a zero, non valgo niente, capisci? Ma forse per qual-

cuno posso valere. (Silenzio. Thomas è inquieto, gira per la stanza) Sai qual è il tuo problema? Sei un codardo. Hai scritto il copione della tua vita e lo devi recitare a puntino, ad ogni costo. Il figlio modello, il ricercatore modello. Devi essere sempre il primo della classe. L’uomo di grandi valori. Il portatore della conoscenza. Ma in tutto questo io non c’entro. In tutto questo ci sei solo tu e il tuo ego. Tu e quello che devi dimostrare a te stesso. E a tuo padre. (Pausa. Gli gira attorno, cercando il suo sguardo, ma lui lo sottrae) Ma lui è morto. Schiacciato da un tir, povero uomo. O povero stronzo? Tuo fratello invece è vivo, da qualche parte… THOMAS - Lo so. (Pausa) Ha molti soldi. Non gli toccherà di morire così. SARA - Non è un uomo felice. THOMAS - Che razza di domanda è? SARA - Non è una domanda. Pausa. THOMAS - E tu come lo sai? SARA - Ha un non so ché nello sguardo, una sorta di fiume in piena. Come se giorno e notte la corrente si accumulasse, facendo pressione contro la diga, una pressione così forte che il cemento tentenna. Le crepe si vedono, qui, accanto agli occhi. Basta una goccia perché esploda. THOMAS - Te lo stai inventando. SARA - Tuo padre ne sarebbe fiero. Ha tutte le carte in regola. THOMAS - L’hai trovato? SARA - È un pezzo grosso. THOMAS - Come l’hai trovato? SARA - Non è sposato. Oppure non usa la fede. THOMAS - Come ti è venuto in mente? Come cazzo / SARA - Comunque non ho visto portaritratti in giro. Non deve essere uno che coltiva gli affetti. THOMAS - Sei pazza. SARA - Ha una vasca idromassaggio nel bagno. (Pausa) Nel bagno dell’ufficio. Ha una vasca idromassaggio enorme. THOMAS - Sei entrata in bagno? SARA - E degli accappatoi di seta. Mai vista una seta così morbida. Ti senti come una seconda pelle addosso. THOMAS - Hai messo il suo accappatoio? SARA - Non era suo. Ne tiene più di uno, per le visite. THOMAS - Stai scherzando? SARA - Non è maldestro. (Pausa) Non come dicevi tu. (Pausa) Se l’è cavata benissimo. THOMAS - Perché se è uno scherzo… SARA - Mi potrebbe aver messa incinta. Non sarebbe male, perché no? Se una è marcia, magari l’altra metà della mela... Thomas le dà uno schiaffo. Lei porta la mano sulla guancia colpita, ma non reagisce. Lui esce sbattendo la porta. Lei rimane ferma in mezzo alla stanza.

Scena 20 Ufficio di Samuel. Samuel è seduto sulla sua scrivania, in penombra. Sara è nella stessa posizione della scena prima. SAMUEL - Togliti la maglietta.

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testi SARA - Nell’annuncio non c’era scritto che… SAMUEL - Se non ti interessa, puoi andartene. SARA - No, è soltanto che… Non immaginavo… C’era scritto “assistente aziendale di alto bordo”. SAMUEL - Esatto. SARA - “Orario serale. Nessuna lingua straniera richiesta”. SAMUEL - Esatto. SARA - È così buio. Come mai non c’è nessuno? SAMUEL - Preferisco sbrigare questi affari la sera. Di giorno c’è troppa confusione. SARA - Cosa dovrei fare? SAMUEL - Mettiti lì. (Sara si posiziona) Adesso ti sciogli i capelli e ti sfili la maglietta piano piano. SARA - Non preferisce che le faccia un resoconto del mio percorso professionale? SAMUEL - Prima voglio vedere il tuo bel pancino. SARA - Ho iniziato a lavorare a quindici anni. Facevo l’aiutante parrucchiera a mia zia. Lavavo i capelli a tutte le signore di mezz’età del quartiere. Per ogni testa, una moneta. Così potevo comprarmi le canne. SAMUEL - Alzala di più, voglio vedere i capezzoli. SARA - Poi sono passata al settore degli hot dog. Stavo tutta la sera dietro al bancone di una roulotte con un tizio di centoventi chili che puzzava come un orso. Un giorno ha deciso di mettermi le zampe addosso. Io gli ho dato un morso all’orecchio, lui è caduto per terra, gli si è rovesciata la mensola dei condimenti addosso. Alla fine non si sapeva più cos’era sangue e cos’era ketchup. SAMUEL - Adesso toglila del tutto. SARA - Dopodiché ho pensato che era meglio investire nella formazione. Ho finito le superiori, e mi hanno assunta in un birrificio come receptionist. SAMUEL - Il reggiseno. Togli il reggiseno. SARA - Ma mi hanno licenziata subito, perché ho organizzato una festa e infilato i miei amici di nascosto. Mi hanno trovata il mattino dopo in una pozza di vomito. SAMUEL - Girati. Piano. Toglilo piano. SARA - Poi ho intrapreso la carriera di venditrice di cosmetici. Bussavo di porta in porta offrendo una gamma di prodotti anticellulite. Facevano un gran successo. Ma alla fine spendevo di più comprando che vendendo. SAMUEL - Adesso la gonna. Togli la gonna. SARA - Poi è iniziata una serie infinita di colloqui di lavoro. Ma nessuno andava in porto. O comunque durava poco. Allora mi sono inventata una laurea. Ho scritto sul curriculum - laureata con centodieci e lode in “Gestione delle Risorse Umane”. SAMUEL - Le mutandine. SARA - Allora mi hanno assunta come commessa in un negozio e sono andata a lavorare con la grassona. (Pausa) È una tortura. Il salario non basta. Per questo voglio cambiare.

Scena 21 Università. L’ufficio di Wittman.

SARA - Ma tu sei...

THOMAS - Sta peggiorando. Quasi non parla più. Riesce a malapena a respirare. Sto ore lì, a tenerle la mano, aspettando un suono che assomigli a una parola. Ogni tanto lei mi stringe la mano e mi sorride con gli occhi. La bocca non si vede, è coperta dal respiratore. A volte penso che mi scambi per il nipote. Non ci vede bene. WITTMAN - La riunione del consiglio del dipartimento è la settimana prossima. THOMAS - Ho bisogno di più tempo. Il processo è molto più complesso di quello che prevedevo. WITTMAN - Thomas, se non presenti niente di concreto, daranno la cattedra a Bondieu. Ha fatto uno studio brillante sulla linguistica francofona applicata agli affari di stato. THOMAS - Tu non sei dalla mia parte. WITTMAN - Sto facendo tutto quello che riesco. Ma non posso fare miracoli. E non posso nemmeno fingere di vedere di buon occhio questa follia. È un’ossessione. E come ogni ossessione porta al baratro. THOMAS - Ti sbagli. Anche se sono ancora lontano dai miei obbiettivi, ho fatto dei passi avanti. Ho fatto dei passi avanti, davvero. Ho scoperto, ad esempio, cosa vuol dire bakti. Bakti vuol dire “naso”. Lo so perché ha detto bakti e ha puntato il mio naso. WITTMAN - Perché insisti? Non devi provare niente a nessuno. Tuo padre è morto. THOMAS - (arrabbiato) Non ridurre tutto ad una bega freudiana. È una questione di principi, di valori. Perché tutti quanti sono pronti a aizzare la bandiera per le balene, l’aquila reale e lo scoiattolo rosso, o per difendere la foresta amazzonica? E a me danno del pazzo? La logica è la stessa. La biodiversità, no? La ricchezza della vita. WITTMAN - Se le specie scompaiono c’è sempre un motivo. Il buon vecchio Darwin non fa cilecca. THOMAS - Ma il motivo non è nella natura, non come una volta. Siamo noi i colpevoli. E questo Darwin non l’aveva previsto. Non aveva previsto un mondo in cui una scoreggia a Berlino può diventare una bomba atomica a Giacarta, o vice versa. WITTMAN - Noi siamo uomini, Thomas, molto semplicemente. Il nostro contributo all’universo è molto piccolo. Potremmo dire infinitesimale. La nostra esistenza è governata da fattori che non ci riguardano. Forse proprio domani un meteorite staccatosi da Marte cadrà sulle nostre teste. O un attacco terroristico manderà all’aria questa città, questo paese, il mondo. Allora sarà tutto finito. Quello che devi chiederti è: ne vale la pena? THOMAS - Bisogna far qualcosa. Per quel poco che dipende da noi. WITTMAN - Figliolo, ascoltami. Pensa a sistemarti. Trovati una fidanzata. Fate una famiglia. Mandate avanti la specie. Tutto il resto sono sciocchezze. (Pausa) Presentati alla riunione con un nuovo progetto, un progetto sensato. Solo così potrò salvarti la faccia. THOMAS - Non abbandono la mia ricerca. (Fa per uscire) WITTMAN - Thomas. (lui si volta) Lavati.

Lui le bacia il collo.

Thomas esce.

Samuel si avvicina. SARA - E allora, sto andando bene? Mi assumerà? Samuel si avvicina sempre di più. Le tocca i capelli.

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testi Scena 22 DJIBO - (Seduto su un tavolo, con una cuffia e un libro aperto.) «The book is on the table». Il libro è sul tavolo. «The hen ran accross the street». La gallina ha attraversato la strada di corsa. «I love to cook a good English meal». Io amo cucinare un buon piatto inglese. «We buy a big apartment downtown». Noi compriamo un grande appartamento nel centro della città. «The employee speaks good English». L’impiegato parla un buon inglese. «I will achieve all my goals». Raggiungerò tutti i miei obbiettivi.

Scena 23 Casa di Sara. Djibo guarda la tv. Indossa occhiali da sole e abiti più moderni. Entra Sara. Ha i capelli bagnati e si pulisce l’orecchio con un cotton fioc. SARA - Ma quanto ci mettono questi a portare la pizza? (Si mette degli orecchini e si trucca davanti ad uno specchio. Poi si gira e lo guarda come per la prima volta. Comincia a ridere) DJIBO - Cosa c’è? SARA - (Ridendo) Che fai con quella cosa in faccia? DJIBO - … SARA - (C.s.) Gli occhiali. DJIBO - … SARA - Dentro casa non servono a niente. (Djibo se li toglie, un po’ imbarazzato) Scusa, non volevo... Ti stanno benissimo. (Sara si avvicina e glieli rimette) Ecco. Hai fatto un ottimo acquisto. (Djibo se li toglie ancora. Sara glieli rimette. Djibo se li toglie. Sara glieli rimette. Djibo se li toglie. Sara glieli rimette. Djibo se li toglie) Sono contenta che sei venuto. Non mi andava di uscire da sola. Venerdì sera da sola è una tortura. Peggio di lunedì mattina con la grassona. (Ride. Si butta sul divano) Ho una fame da lupo. Tu? DJIBO - Non molta. SARA - Profumi? DJIBO - Cosa? SARA - Tu profumi. Conosco questo profumo. DJIBO - … SARA - No, davvero, mi piace un casino. Mi ricorda quello… Finisco sempre lì, vero? A parlare di lui. Pausa.

DJIBO - … SARA - Sono arrivati in tempo... DJIBO - … SARA - Perché sono arrivati in tempo? DJIBO - … SARA - Forse sarebbe tutto diverso… DJIBO - … SARA - O forse… (Djibo la bacia. Lei si lascia baciare. Suona il campanello. Sistemandosi) La pizza. (Va a prendere il suo portafoglio) Hai spiccioli? Ho solo una banconota da cinquanta. (Djibo prende dei soldi del suo portafogli e glieli porge) Grazie. (Si guarda allo specchio. Ha gli occhi rossi e il trucco sfatto. Prende gli occhiali di Djibo e li inforca. Apre la porta di casa, parla con qualcuno fuori scena. Rientra con due pizze d’asporto) Sono fredde. Scommetto che sono fredde. Che stronzi.

Premio Hystrio-Scritture di Scena_35: la motivazione Il Premio Hystrio-Scritture di Scena_35, edizione 2011, è stato assegnato ad Ana Candida de Carvalho Carneiro per il testo Babele. Questa la motivazione della Giuria, composta da Marco Martinelli (presidente), Fabrizio Caleffi, Claudia Cannella, Renato Gabrielli, Roberto Rizzente, Diego Vincenti, Giorgio Finamore (segretario): «In una prima edizione segnata da molti esperimenti di genere, sbilanciati verso l’esercizio di stile, Babele si distingue per l’eccezionalità del tessuto narrativo, la compresenza di livelli plurimi che insieme disegnano l’affresco suadente e ispirato di un mondo in declino, potentemente vero, dove i rapporti umani sono segnati dalla brama di potere e l’orgoglio vince su ogni cosa. Non nuova a questo genere di esperimenti, la giovane drammaturga brasiliana Ana Candida de Carvalho Carneiro, già finalista al Premio Riccione e artista residente al Royal Court di Londra, riesce nel difficile compito di dare corpo e anima alla materia, destreggiandosi con navigata perizia tra i molteplici registri di cui è composto il testo, evitando lo psicologismo spiccio e le tentazioni della morale, sempre portando avanti l’intreccio con rigore e coerenza, fino all’imprevisto finale. Testo alla lettura intrigante, Babele ha saputo raccontare la complessità dell’incontro tra lingue e culture, e non in astratto, ma tra persone e destini che quelle lingue e culture incarnano, concedendosi il lusso di una polifonia stratificata di voci e personaggi». Il testo è andato in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano, in forma di lettura, il giorno 24 giugno nell'ambito del Premio Hystrio 2011. Gli interpreti erano Donatella Bartoli, Michelangelo Dalisi, Matilde Facheris, Filippo Gessi ed Edoardo Ribatto per la regia di Sabrina Sinatti.

DJIBO - A che concerto andiamo? Sara scoppia a piangere copiosamente. Djibo non sa come comportarsi. SARA - Era tutto un’illusione, capisci? DJIBO - … SARA - Avrei voluto che… DJIBO - … SARA - Ma lui… DJIBO - … SARA - Ma io… DJIBO - … SARA - Sono venuti i pompieri…

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testi Scena 24 Ufficio di Samuel Ruhe. Lui parla al telefono. La signorina Jolie è in attesa. SAMUEL - (Si guarda l’orologio) Ventiquattrore. Mancano ventiquattrore. Domani in questo preciso istante centinaia di occhi saranno puntati su di me. Mitragliatrici cariche, pronte a sputarmi mille proiettili addosso. Dovrò, con la parola, piegarle tutte quante. SIGNORINA JOLIE - Lo ha sempre fatto con naturalezza, signor Ruhe. SAMUEL - Eppure. SIGNORINA JOLIE - Ha paura? SAMUEL - Cosa dice? SIGNORINA JOLIE - Ha forse paura? SAMUEL - Lei mi spiazza, signorina Jolie. SIGNORINA JOLIE - Mi dispiace signor Ruhe. SAMUEL - Da qualche giorno in qua la sento molto strana. SIGNORINA JOLIE - È soltanto un’impressione, signor Ruhe. SAMUEL - L’altro giorno ha sbagliato mittente a una lettera. SIGNORINA JOLIE - Sono mortificata, signor Ruhe. SAMUEL - A quella lettera. Spedire l’offerta di lavoro a Chen e la lettera sulle trattative in Cina a Ross è una distrazione imperdonabile. Un manager della concorrente locale. SIGNORINA JOLIE - Non so come sia potuto succedere. SAMUEL - Tutto l’affare è saltato. SIGNORINA JOLIE - Sono davvero mortificata. SAMUEL - Potrebbe compromettere la fusione, lo sa? SIGNORINA JOLIE - Le buste erano uguali. SAMUEL - C’è tanta aria in questa testolina. Un palloncino legato a terra per un corpicino da donna. Cosa succederebbe se si tagliasse il filo? (Pausa) E come se non bastasse, signorina Jolie, adesso cosa fa? Osa scandagliare i miei sentimenti. Invadere la sfera più intima di un uomo. Entrare nel cratere della sua anima. La dovrei licenziare, lo sa? (Pausa) Quando mai ho avuto paura? Mi ha mai visto avere paura? SIGNORINA JOLIE - ... SAMUEL - (Incalzante) Risponda! SIGNORINA JOLIE - No, signor Ruhe. Lei non ha paura di niente. Per questo è arrivato fin qui. SAMUEL - Invece ho paura, signorina Jolie. Molta paura.

la differenza. Non gli è data questa cognizione. Non come a noi umani. Tutta la sicurezza e leggiadria di quel volo, corollario della sua libertà, si sono sfracellati di colpo, senza che lui abbia avuto il tempo di accorgersene. Un attimo prima era padrone del cielo, quello dopo un corpo sull’asfalto. Aveva già pensato a questo, signorina Jolie? Silenzio. SIGNORINA JOLIE - Vuole rivedere le slides? SAMUEL - (Distante) Slides? SIGNORINA JOLIE - Le diapositive della presentazione. Ha selezionato una decina di grafici, si ricorda? SAMUEL - Certo. I grafici. SIGNORINA JOLIE - Forse sarebbe meglio controllarle un’altra volta. Sono fondamentali. SAMUEL - (Come svegliandosi) Ha ragione. Li controllerò un’altra volta. Si mette a lavoro sul computer. SIGNORINA JOLIE - Desidera altro, signor Ruhe? SAMUEL - No, grazie, signorina Jolie. Può andarsene. (La signorina Jolie fa per uscire) Aspetti. (Pausa. La signorina Jolie ritorna) Ancora una cosa. Il davanzale, è pieno di briciole. Mi cerchi un altro addetto alle pulizie. Lei fa un cenno di sì. Fa per uscire, ma si ferma alla porta. Si gira. SIGNORINA JOLIE - Signor Ruhe, ho dimenticato di dirle una cosa. SAMUEL - Sì? SIGNORINA JOLIE - Ha chiamato suo fratello.

Scena 25

Silenzio.

Casa di Sara. Disordine generale. Si capisce che non viene pulita da tempo. Sara è rannicchiata sul divano in pigiama, mangiando patatine. Lacrime pacifiche scivolano sul suo viso, e dai polsi scorre sangue. Suona il campanello. Lei non risponde. Il campanello continua a suonare con insistenza. Diventano colpi sulla porta. Qualcuno fuori grida di aprire, o di chiamare i vigili del fuoco. Lei non risponde. Continua a mangiare le patatine.

SIGNORINA JOLIE - Ho già stampato il suo discorso. È perfetto. (Glielo porge)

Scena 26

Samuel lo prende. Dà uno sguardo, ma lo posa subito sul tavolo con disinteresse. Guarda dalla finestra.

Sala di attesa del Policlinico. Thomas e Djibo. Quest’ultimo molto “alla moda”.

SAMUEL - Lei sa quanti uccelli muoiono in questa città ogni giorno? Almeno un centinaio. Piccioni, principalmente. Uccelli da poco. E sa qual è la principale causa mortis? Veleno? Malattie? No, signorina Jolie, la luce. La luce li trae in inganno. Vede queste vetrate? Sono una trappola. L’uccello spicca volo, convinto di andar incontro a un faggio o una quercia, e invece ci rimane secco. Perché il faggio o la quercia che desiderava era soltanto il riflesso del parco davanti. L’uccello non è capace di percepire

DJIBO - Ho sentito delle grida. THOMAS - Venivano dalla camera accanto. DJIBO - Sei sicuro? THOMAS - Sì. Mi pare. DJIBO - Quanto tempo ci vorrà? THOMAS - Forse un paio di ore, forse tutta la notte. DJIBO - Farà male? THOMAS - C’è un medico apposta per l’anestesia.

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testi Pausa. DJIBO - Aveva lividi su tutto il corpo. THOMAS - Sono le punture. Gliene fanno tante tutti i giorni. DJIBO - E i capelli. Le hanno tagliato i capelli. THOMAS - Sono caduti per il trattamento. È necessario. Silenzio. Djibo si accende una sigaretta. THOMAS - Non puoi fumare qui. Djibo butta la sigaretta per terra e la schiaccia con un piede. Silenzio opprimente, alla fine del quale suona il cellulare di Djibo. Una stupida suoneria. Djibo risponde quasi alleviato. DJIBO - Pronto (Pausa) Sì, sono io. (Pausa) Giusto. (Pausa) Giusto. (Pausa) Ci ho lavorato tre anni, dopodiché sono stato assunto da… (Pausa) Esatto, esatto. (Pausa) Yes, very well. (Pausa) Sì, disponibilità totale. (Pausa) Adesso? (Pausa) No, è che… (Pausa) No, no, nessun problema (Pausa) Aspetti un attimo. (Prende un pezzo di carta accartocciato dalla tasca e una penna. Scrive) Hm-hm. Hm-hm. Hm-hm. (Pausa. Si guarda l’orologio) In un’ora, va bene? (Pausa) Grazie. Grazie mille, davvero. A dopo. (Ripone il foglio. A Thomas) Un colloquio di lavoro. THOMAS - Giorno fortunato. DJIBO - Devo andare. Puoi rimanere? THOMAS - Sì, certo. DJIBO - Grazie. THOMAS - Ancora per un’oretta, sì. Poi devo scappare. DJIBO - (Sembra non ascoltare, di fretta) Ciao, allora. THOMAS - Ciao. (Prima che lui esca) Ehi, Djibo. (Lui si volta) In bocca al lupo. DJIBO - Crepi. (Esce) Thomas prende la cicca per terra, la guarda per un attimo, poi la butta nel secchio.

Scena 27 L’aula magna della Corporation. Samuel parla davanti a una immensa platea. Una catena di diapositive con immagini di “finta felicità” viene proiettata. Sottotitoli traducono il suo discorso, oppure un’interprete in simultanea. SAMUEL - Good morning, Ladies and Gentleman. I’m delighted to have you all here today. We have eagerly cherished to accomplish this meeting and we want you to be aware that after it our future might change. Our future and the future of our children. Because what I want to be clear about is that it’s not just a matter of individual profit or profit of a Corporation, but a whole Project of Life. A revolutionary project that will found the basis for a resplendent future. (Applausi) Our mission since the early ages is to spread out means of communication, and today, ladies and gentlemen, we are the second company in the world operating in the field of communications. (Applausi) But man has no limits. Limits are just an outdated idea that cannot take part of an advanced society. The limits we have are the limits we

make – underline that. We think – this is our Philosophy – that mankind has the right to be happy. And happiness is the child of hard work. (Applausi. Lui inizia a sentirsi male. Si aggiusta la cravatta per respirare meglio, beve) That’s why we want you to carefully evaluate this prototype our engineers have developed. A satellite of advanced functionalities, which enables to reach every spot of the world. As a benevolent God, it will gather all human beings under a common shelter. The triumph of Humanity. But for that, ladies and gentlemen, to make this dream come true, we need your support. (Suda, tentenna, si confonde) To reach there, high in the sky, where birds… I mean, satellites, will… I mean, a bird as a satellite will… or a satellite as a bird… That is, it is impossible as a satellite… I mean, no bird could as a satellite… Fall down… As a satellite… Falling… I saw… I think I just saw… Something… I saw… Something falling… Something with… no… wings… falling… something is… (Perde i sensi)

Scena 28 Casa di Thomas. Il pavimento e le pareti sono tappezzati di immagini stampate e fogli scritti. Thomas è seduto sul divano. Si mangia le unghie mentre lavora, ripete brani, fa appunti. Sul tavolo, una montagna di piatti sporchi, cartoni da pizza, spazzatura varia, accumulata da diversi giorni. Suona il campanello. Thomas si alza irritato e guarda dallo spioncino. Spaesamento. Il campanello continua a suonare. Decide finalmente di aprire la porta. È Samuel. Silenzio. THOMAS - Cosa fai qui? SAMUEL - Allora non stai morendo. THOMAS - Cosa? SAMUEL - Sei in piedi. THOMAS - … SAMUEL - La mia segretaria ha detto che stavi morendo. Che avevi il cancro e stavi morendo. Pausa. Si scrutano. THOMAS - È per questo che sei venuto? Perché ho il cancro e sto morendo? SAMUEL - Allora è vero? Pausa. Si scrutano. THOMAS - Temo di doverti deludere. SAMUEL - Sei sano? THOMAS - (Ironico) Dipende dal tuo concetto di sano. (Pausa.) Siediti. Vuoi qualcosa da bere? SAMUEL - Grazie. Un gin tonic. No, niente. Non voglio niente. (Dà uno sguardo alla stanza.) Cos’è successo qui? THOMAS - Perché? SAMUEL - Sembrerebbe che hanno sganciato l’atomica. THOMAS - Uno studio. Uno studio importante che sto facendo. SAMUEL - Su che cosa? THOMAS - Una lingua sconosciuta. La sto decifrando. SAMUEL - E come va? THOMAS - Bene. Abbastanza bene. Sono a buon punto. SAMUEL - Non si direbbe. (Pausa. Si fissano) Le unghie. Ti sanguinano.

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testi THOMAS - (Nasconde le mani, in un riflesso infantile) Un periodo stressante. Le lezioni all’Università pesano. SAMUEL - Insegni adesso? THOMAS - Da cinque anni. Pausa. SAMUEL - Lui sarebbe contento. THOMAS - Questo non importa. SAMUEL - Non sei cambiato molto in questi anni. THOMAS - Grazie. (Silenzio) Se non ti dispiace devo tornare a lavoro. Come vedi, non sono un malato terminale. SAMUEL - Chissà perché l’ha fatto. THOMAS - Cosa? SAMUEL - La mia segretaria. Era strana in questi giorni. THOMAS - Si è confusa. O ti ha giocato uno scherzo. (Beffardo) Licenziala. SAMUEL - È morta. Si è buttata dal ventinovesimo piano. (Pausa) Me l’hanno detto stamattina. Ho passato la notte in ospedale. (Pausa) Un malore. Ho avuto un malore ieri sera durante una presentazione. La cosa strana è che mi sembra di averlo visto. Mi sembra di aver visto il suo corpo cadere attraverso il vetro, mentre cinquecento persone stipavano l’aula magna ascoltando il mio brillante intervento. Che non si è mai concluso. THOMAS - Dovrai cercarne un’altra, di segretaria. Ma per te non sarà un problema. SAMUEL - Tu hai mai sofferto il panico? THOMAS - Cosa? SAMUEL - Una sensazione pressante sul petto. Vertigini. Mani sudate. Claustrofobia. Sembra che stai per morire. THOMAS - No. SAMUEL - Neanche io. Pensavo di avere un infarto. Ero convinto di avere un infarto. Ero convinto di morire. Ero così convinto che stamattina ho dato uno schiaffo al cardiologo. Lui si è congedato con un sorriso. Poco dopo è venuto uno psichiatra. THOMAS - Gli ospedali non sono mai stati il forte della famiglia. SAMUEL - Il fatto curioso è che… THOMAS - Devo lavorare. SAMUEL - Da oggi sono il Presidente della Corporation. Devo solo trasferire i miei oggetti personali all’ultimo piano. Da ora in poi, sopra di me non ci sarà nessuno. Semmai un centinaio di piccioni che fanno nido sul solaio. Ma quelli non contano. THOMAS - Lui sarebbe contento. SAMUEL - Anche se non sei tu quello che ha vinto? THOMAS - Io ho vinto. Faccio il lavoro che mi piace. SAMUEL - Anche se hai quasi quarant’anni e vivi ancora in questo buco, a misura di single? THOMAS - Il mio è un sacrificio che persone come te non possono capire. SAMUEL - Non sei ribelle neanche mettendocela tutta. THOMAS - (Inalberato) Cosa sei venuto a fare? Vedermi agonizzare? SAMUEL - Sono venuto a salutarti. Ho immaginato di varcare questa porta tante volte. Parlarti. Parlarti e raggiungerti: cose diverse. Ed ecco che il momento arriva ed è tutto come mi aspettavo. Tu e il tuo egoismo, io e il mio. (Pausa) Non ti piaceva quella ragazza? THOMAS - Chi? SAMUEL - La moretta. Un po’ logorroica.

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THOMAS - (Sarcastico) A te? SAMUEL - Non era male. Le tette un po’ flaccide, ma un culo divino. Dov’è la fotografia? Ha detto di aver visto una fotografia. THOMAS - L’ho stracciata. SAMUEL - Qual era? THOMAS - Capodanno in Sicilia, con i cugini. SAMUEL - Non ce n’è nessun’altra? THOMAS - Forse in cantina. SAMUEL - Neanche una di lui in giro? THOMAS - Sono una persona proiettata verso il futuro. SAMUEL - (Pausa. Ride) Ho sempre immaginato di trovarti sorridente, circondato da una bella famigliola, in un villa in riva al mare. THOMAS - Perché sei venuto? Perché sei venuto, veramente? Silenzio. SAMUEL - Questo linguaggio è difficile da decifrare, eh? Ce la farai? THOMAS - Ce la faccio sempre. Samuel si affaccia alla finestra dell’appartamento. SAMUEL - Bel parco. Vai a correre ogni giorno? Dovresti andare a correre ogni giorno. Fa molto bene alla salute. E tu hai la salute così fragile. THOMAS - Non ho tempo. SAMUEL - (Si gira e lo fissa) È un invito ufficiale al mio matrimonio. Sposerò la figlia del Presidente – ex presidente – della Corporation. THOMAS - Complimenti. SAMUEL - Verrai? THOMAS - Non credo. SAMUEL - Devi far pulire quest’appartamento. Non si respira. THOMAS - Devo lavorare. Samuel si avvicina al fratello, di spalle. Forse un abbozzo di carezza irrealizzata. SAMUEL - (Avviandosi all’uscio) Arrivederci, allora. Pausa. THOMAS - Arrivederci. (Sprofonda nel silenzio) Scena 29 Djibo e Sara al parco. Danno da mangiare ai piccioni. Djibo è sempre più “alla moda”. Sara porta delle bende intorno ai polsi. SARA - Quando arriverò, saranno le undici di mattina. DJIBO - Cosa porti? SARA - Un paio di scarpe, un cambio di vestiti e uno zaino. Voglio capire cosa significa essere spoglia. DJIBO - Com’è che si chiama? SARA - Honduras. DJIBO - Asia? SARA - Centro America. DJIBO - Ti divertirai? SARA - Non lo so. Spero di sì. (Pausa) Più che altro aiuterò le per-


testi

Pausa.

DJIBO - Sono un uomo di talento. SARA - Arriverai al top. DJIBO - Arriverò al top. SARA - Puoi scegliere qualunque strada. DJIBO - Posso scegliere qualunque strada. SARA - Puoi diventare quello che vuoi. DJIBO - Posso diventare quello che voglio. SARA - Avrai successo. DJIBO - Avrò successo.

DJIBO - Mi mancherai. SARA - Anche tu.

Scena 30

Si abbracciano.

Casa di Thomas. Thomas si dedica alla sua decifrazione.

SARA - Mi capisci vero? Vero che mi capisci? DJIBO - … SARA - Non avrebbe mai funzionato. DJIBO - … SARA - La diversità. DJIBO - … SARA - Il mio dolore. DJIBO - … SARA - Avrei finito per distruggerti. DJIBO - … SARA - Lo faccio sempre.

THOMAS - Bakti macungerit capatau ui. Bakti, naso. Bakti macun. Macun-gerit. Ma-cungerit. Macunger-it. Ma-cungerit. Ge-rit. Rit, rit, rit (cerca tra i fogli. Suona il telefono. Risponde) Sì? (Pausa) Sono io. (Pausa) No, non sono un… (Pausa) No, il parente è… (Pausa) Ho capito, signora, ma dica pure a me. Sono io il responsabile. (Pausa) È morta? (Pausa) Quando? (Pausa) Arresto cardiaco? (Pausa) No, non è il caso di... (Pausa) Ascolti, signora, mi deve ascoltare. Ha detto qualcosa? (Pausa) Ho detto: ha detto qualcosa? (Pausa) No, le sto chiedendo se la paziente ha detto qualcosa prima di morire. Una frase, una parola, un suono? (Pausa. Aggressivo) È importante! Mi ascolti? Adesso mi dica cosa… (Pausa) Come? Sorrideva? (Pausa) Sorrideva o piangeva? (Pausa) E basta? Nient’altro? (Pausa. Butta giù il telefono. È frastornato. Silenzio. Demoralizzato, riprende in mano i suoi appunti) Bakti, naso. Bakti macungerit. Macungerit. Rit. Erit, uomo (va guadagnando entusiasmo) Macun. Ma-cun. Mac-un. Capatau. Capa, Troppo. Tau… tau… Capa-tau ui. Tau-ui. Ui, essere. Verbo essere terza persona. É. Uomo naso é. Bakti macungerit capactau ui. Uomo naso troppo é. (Cerca tra i fogli) Lungo. Uomo naso troppo lungo è. Grande. Naso lungo uomo troppo grande é. (Vittorioso) Il naso del grande uomo è troppo lungo!

sone. Bambini dell’orfanotrofio. Hanno una casa famiglia, dove le ragazze madri vanno a partorire. Dopo il parto, molte lasciano i bimbi perché non li possono tenere. Hanno quattordici, quindici anni, capisci? Forse lavorano per sfamare altre bocche. Forse si prostituiscono. Perché lì la gente fa fatica a vivere, sai? Sanno cos’è la fame. Gli si vedono le costole, è terribile. Non hai mai visto un documentario della National?

Pausa. SARA - Hai trovato lavoro? DJIBO - Ancora no. SARA - Lo troverai. Hai imparato l’inglese. DJIBO - Lo troverò. SARA - Sarai felice. DJIBO - Sarò felice. SARA - Avrai tutto ciò che sogni. DJIBO - Avrò tutto ciò che sogno. SARA - Sei libero. DJIBO - Sono libero. SARA - Puoi costruirti il futuro che desideri DJIBO - Posso costruirmi il futuro che desidero. SARA - Sarò fiera di te. DJIBO - Sarai fiera di me. SARA - Sei un uomo di talento.

BUIO

In apertura, Torre di Babele, di Pieter Bruegel; alle pagine 109 e 115 due scene dalla lettura scenica di Babele, regia di Sabrina Sinatti (foto: Margherita Demichelis).

ana candida de carvalho carneiro Nasce a San Paolo, Brasile, nel 1977. Si laurea in Giurisprudenza e compie studi accademici di lingua e letteratura brasiliana, inglese e francese. Nel 2000 si trasferisce in Italia per studiare Lettere presso l’Università degli Studi di Milano. Nel 2006 si diploma in drammaturgia presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Nel 2007 il suo testo È tutto sporco nel paese delle meraviglie è finalista al Premio Riccione. Nel 2008 partecipa alla residenza internazionale per autori teatrali del Royal Court Theatre di Londra, per la quale scrive il testo Anche i Topi ballano il Tip Tap. Nel 2010 scrive il radiodramma Quel profondo oceano..., che debutta a maggio del 2011 al Festival Extensions (Paris), trasmesso da Radio France. Ancora nel 2010 scrive il testo Plastic Doll e partecipa come speaker al 1° Incontro Internazionale di Giovani Drammaturghi a Hangzhou, in Cina. Nel 2011, partecipa al workshop internazionale per autori teatrali emergenti al Teatro Sala Beckett di Barcellona, tenuto da Simon Stephens, dove ha avuto luogo la lettura scenica della sua pièce breve Suoni per una foresta digitale. Scrive Appena prima, appena dopo, commissionata dalla compositrice argentina Analia Llugdar, che debutterà nel 2012 presso il Centro Nazionale della Musica di Buenos Aires. È dottoranda in drammaturgia presso l’Università Cattolica di Milano, con una tesi sul teatro post-drammatico. Ha tradotto opere del drammaturgo brasiliano Nelson Rodrigues per la casa editrice Ubulibri. Scrive in portoghese e in italiano.

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biblioteca Scaparro, il teatro di un sognatore pragmatico Scaparro. L’illusione teatrale a cura di Maria Grazia Gregori e Daniele Aluigi Milano, Skira, 2011, pagg. 206, euro 29 Pochi sono i registi che hanno amato il teatro, fonte di poesia e mezzo di comunicazione come Maurizio Scaparro. Pragmatico ma sognatore, fiuto e intelligenza, efficiente eppure creativo, sempre coi piedi a terra ma sempre gli occhi rivolti alla scena. «Conoscere, riflettere e inventare» è sempre stato il suo slogan. Mille le sue avventure anche fuori d’Italia dove è molto conosciuto e apprezzato; tanti i suoi progetti quasi sempre portati a buon frutto. Con mano ferma ha diretto vari Stabili, il Teatro di Roma in primis; la città, Roma, dove è nato e fin da bambino ha compiuto i primi passi. A Venezia, dove in anni d’oro ha dato vita a un memorabile Carnevale del teatro, ha dato rilancio alla Biennale. A Parigi, cosa che sembrava impossibile, ha fatto rinascere il Théâtre des Italiens. Molti suoi spettacoli sono passati negli annali. Da una straordinaria e “scandalosa” Venexiana con Valeria Moriconi alle Memorie di Adriano con Giorgio Albertazzi. Creatore di un non dimenticato Cyrano che in Europa ha passeggiato a lungo e a Parigi ha strappato entusiasmi e così di un Don Chisciotte che a lungo ha cavalcato anche in Spagna. Un cammeo il suo Pulcinella con Massimo Ranieri, attore da lui forgiato come tanti altri, e diventato anche un bellissimo film. Tributo meritato, giusto e doveroso allora, e a giungere nel momento in cui la sua parabola artistica è tutt’altro che conclusa, questo denso, ampio volume Scaparro. L’illusione teatrale che assai bene ne traccia il profilo intellettuale e creativo. Libro che si apre con un saggio di Maria Grazia Gregori (che ne è anche con Daniele Aluigi l’attenta curatrice), la quale con penna lucida e chiara illustra il lungo e originale percorso di questo signore della scena che mai si è rinchiuso in una torre d’avorio, ma del teatro ha contribuito a fare una delle arti più umane e quindi sempre più necessarie. A farne poi l’interesse e a rendere più completa l’analisi, oltre che un’ampia documentazione fotografica degli spettacoli, gli apporti di autorevoli uomini di teatro anche stranieri e una serie di note di regia dovute allo stesso Scaparro che, come il grande Corbeille, ha dimostrato che anche l’illusion comique, o “l’illusione teatrale”, è il sale della vita. Domenico Rigotti

Il teatro di Sabbath, dopo Fersen Alessandro Fersen Il teatro, dopo a cura di Maricla Boggio e Luigi Maria Lombardi Satriani, Roma, Bulzoni Editore, pagg. 195, euro 20

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a cura di Albarosa Camaldo

Breakfast at Boggio’s: con penna sottile quanto il tubino di Audrey, Maricla introduce il lettore all’indispensabile conoscenza di Alessandro Fersen, il Maestro di Mickey Sabbath. Champagne, dunque, per brindare a un incontro: soffiate sulle candeline del sefirot per il compleanno d’eterna contemporaneità di Aleksander Fajrajzen (Łódz, 15 dicembre 1911 – Roma, 3 ottobre 2001), l’Uomo venuto dalla Polonia a spezzare il pane teatrale per liberarlo dal male della noia dignitosa. Comprate e conservatela cara questa lectio magistralis: insieme al Teatro e il suo spazio di Brook e al romanzo Sabbath’s Theatre di Philip Roth, una Bibbia per il teatrante attivo e un ricettario per lo spettatore che non vuol essere passivo. Roth, nel suo speziato novel del 1995, narra le gesta eroicamente vitalistiche di Mickey Sabbath, marinaio puttaniere diventato burattinaio a Manhattan grazie a Fersen: le trame misteriose della creatività hanno consentito al personaggio di Roth di frequentare Alessandro, magari in Liguria, terra tanto simile per certi versi all’aspra Promessa Israel. Prima di fondare la sua scuola a Roma, Fersen approdò con la Resistenza a Genova e lì s’impose poi al locale Stabile con regie memorabili, fatte a mano, come le dita-marionette di Mickey. Fu dunque in un bozzetto di Lele Luzzati che disegnava Via del Campo come la scenografia di uno shtetl che Fersen e Sabbath s’incontrarono? Certo ora s’intrattengono nello stesso bar al Gan Eden con Simon Axler...come, non lo conoscete? È stato uno dei maggiori attori delle scene nordamericane, suicidatosi lasciando un biglietto con l'ultima battuta del Gabbiano cechoviano in The Humbling, racconto di Philip Roth del 2009. Fratelli Istrioni, sottoponetevi per tempo alla Cura Fersen, espressa nei dodici capitoli di questo prontuario sciamanico. E tu, Pubblico Poco Motivato e spesso Annoiato, trova in Fersen il settore che t’identifica come spettatore bizantino, naïf o gudurioso: forse, smetterai di andare a teatro come si va dal dentista, quando non si può farne a meno o si vuol fare la pulizia della coscienza, per avere un bel sorriso sociale. Desdemona deve morire, ma il teatro può sopravvivere al tedio dell’immortalità. Fabrizio Sebastian Caleffi

Non solo teatro e pittura in una coppia da Nobel Dario Fo e Franca Rame, una vita per l’arte a cura di Anna Barsotti ed Eva Marinai, Corazzano (Pi), Titivillus, 2011, pagg. 171, euro 16 «Il teatro e la pittura fanno parte di uno stesso mondo. Il teatro ha bisogno di essere affiancato da altre decine di sollecitazioni, altrimenti frana». Così Dario Fo. E così anche questo volume agile ma pregno di spunti che, sulla base delle parole del “nostro” premio Nobel, raccoglie saggi che a vario titolo affrontano il tema della pluridisciplinarità negli oltre cinquant’anni di produzione della coppia Fo-Rame. Sono pagine che ci raccontano di incontri e scontri fra

linguaggi, stili, poetiche e tecniche. Pagine che ci fanno conoscere alcuni di quei binomi che legano senza fratture, ma anzi in maniera organica e indissolubile, il mondo del palcoscenico a quello dell’arte figurativa: teatro-pittura; corpo-figura; azione-narrazione; mitologia-mitografia. Si tratta di saggi diversi per stile, tematica e intenti, che in certi casi considerano la coppia Fo-Rame come un unico protagonista artistico, in altri si concentrano soltanto su uno dei due personaggi. Dunque non solo il libero scambio tra foglio dipinto e scena, tra colore e voce. Leggendo questo volume è anche possibile conoscere tutti i modi di narrazione del teatro di Dario Fo e il ruolo che la paura ha nella visione artistica di Franca Rame; scoprire che cosa intende il “grande” Dario quando chiede agli attori di «rompere la cornice» e a cosa si riferisce invece la moglie Franca quando parla di «eroina popolare». E, sopra ogni cosa, si ha la sensazione che nella stessa coppia FoRame ci sia come l’incontro di due polarità opposte e complementari, due mondi diversi ma che si riflettono l’uno nell’altro. Insomma, un libro ricco ma semplice da leggere, adatto non solo agli eruditi della scena, ma anche a chi, con semplice curiosità, si voglia avvicinare alla coppia da Nobel per scoprirli qualcosa di più che semplici “teatranti”. Giorgio Finamore

Il Delbono pensiero Nicola Bionda e Chiara Gualdoni Visioni incrociate. Pippo Delbono tra cinema e teatro Corazzano (Pi), Titivillus, 2011, pagg. 170, euro 16 Percorsi paralleli e trasversali. Nel medesimo istante. Perché se da una parte l’attività cinematografica di Pippo Delbono dimostra sempre più necessità e strumenti propri, dall’altra è facile riscontrarne all’interno frammenti di grammatiche già frequentate sul palco. Da qui la volontà di un’analisi che spesso si fa confronto fra i due mezzi, in questo volume firmato dal critico Nicola Bionda insieme alla docente dell’Accademia di Brera Chiara Gualdoni, e che pare porsi l’obiettivo di comporre un ritratto d’artista che sia veicolo di comprensione più vasta. Per quanto possa essere bulimica ed eterogenea la personalità del protagonista (di volta in volta regista, attore, sceneggiatore, drammaturgo etc.). Materia inflazionata, almeno in ambito teatrale. Meno riguardo al grande schermo, qui a seguire un percorso a balzelli, dove alle sperimentazioni filtrate dalle nuove tecnologie (come l’utilizzo delle riprese via cellulare), si affiancano lavori più compiuti e complessi. Soggettività e documentarismo. Attraverso le analisi dei vari La paura, Guerra, Grido, Amore carne e quant’altro. Ecco quindi nascita e formazione del Delbono pensiero, la biografia a sof-


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fermarsi sugli incontri più importanti (Pina Bausch, Iben Nagel Rassmussen, Pepe Robledo o Bobò, ovviamente), le riflessioni a concentrarsi sul valore imprescindibile del corpo o sulle linee guida di un lavoro espressivo figlio di tensione e sospensione, di laicismo e senso del sacro, sempre e comunque di contraddizioni. A unire i diversi linguaggi l’abbandono del plot, con il racconto a spezzarsi, l’esposizione a crearsi attraverso il montaggio. Scenico o cinematografico che sia. E non a caso si parla di partiture e improvvisazioni, di jazz e Frank Zappa. Dove Delbono appare come una sorta di maestro di cerimonia polifonica, superiore ed interno ad ogni cosa. Ad ogni gesto. Vien da ripensare alla frase con cui Carmelo Bene abbandonò il cinema dopo una breve (quanto intensa) stagione: “Non c’è set che mi comprenda”. Volume comunque esaustivo per una materia tanto difficile da inquadrare in minimi comuni denominatori. Ben arricchito da una manciata di foto e (soprattutto) dai materiali in chiusura, fra cui le ricche schede di tutti i film e gli spettacoli firmati Pippo Delbono. Diego Vincenti

Benvenuti si mette lo smoking Alessandro Benvenuti e Ugo Chiti Trilogia Gori (Benvenuti in casa Gori, Ritorno a casa Gori, Addio Gori) Corazzano, Titivillus, 2011, pagg. 306, euro 15 Era doveroso pubblicare integralmente il testo di questo autentico “classico” di Benvenuti e Chiti, visto, per di più, che le precedenti edizioni singole delle due prime “puntate” della Trilogia erano straesaurite da anni. Al trit tico è stata acclusa, in questo volume, la versione riveduta per l’edizione “corale” del 2010 di Benvenuti in casa Gori, interpretata da attori esordienti appositamente selezionati con Carlo Monni (già mattatore delle versioni cinematografiche di Benvenuti in casa Gori e Ritorno a casa Gori) e con Anna Meacci. Ecco quindi, nel libro (con interventi di Roberto Incerti, Valentina Grazzini ed Elisabetta Cosci), preceduti da gustosissime informazioni biografiche sui personaggi e da un albero genealogico, i copioni dei diversi episodi della Trilogia. Sono copioni “normali”, a parti distinte: tutto sommato, colpisce vederli così, e chi non conoscesse questi tre testi non s’immaginerebbe che tutti quanti i personaggi (dai 10 di Benvenuti in casa Gori salgono a una trentina nel Ritorno) fossero, nella messainscena, “nascosti” in un’unica voce, che sapeva virtuosisticamente cambiarsi in voci differenti, e in un’unica figura, un Alessandro Benvenuti «in smoking, in piedi, immobile al centro della scena - citiamo la prefazione di Elisabetta

Cosci - immerso in una scenografia fatta dalle sole, indimenticabili luci di Maurizio Viani». Poco importa che il modello, anche scenico, di questo oneman-show a tante voci fosse - evidentemente - il Cioni Mario che rivelò Roberto Benigni: l’importanza teatrale e drammaturgica, e anche la novità, dalla Trilogia non ne è affatto sminuita. Tre spettacoli che sono stati - e sono tuttora - il vertice della carriera interpretativa di Benvenuti, in cui ha dato il meglio delle sue capacità (forse non abbastanza riconosciute al livello che - effettivamente - si meritano): ma anche tre testi in cui si incarna una scrittura sensibile e profondissima, tragica ed esilarante, amara e comica; cinica e sentimentale al tempo stesso, drammatica e di grande levità, e insieme toscanissima e universale. Insomma, un lavoro da non dimenticarsi affatto in una ideale panoramica della migliore scrittura per il teatro degli ultimi trenta-quarant’anni. Francesco Tei

Personaggi con deficit morale Sergio Pierattini Teatro (Un mondo perfetto – Il caso K – Il gregario – Il raggio bianco – Le reliquie dell’amore strozzato – Il ritorno – La Maria Zanella) Roma, Editoria & Spettacolo, 2011, pagg. 328, euro 18 Benché cambi di volta in volta il contesto storico e geografico in cui agiscono, si ritrova in gran parte dei personaggi dei drammi di Sergio Pierattini una sorta di deficit morale, un’incapacità di essere all’altezza delle scelte di fronte a cui li pongono, intrecciate con la Storia, le loro vicende individuali. Così, in Un mondo perfetto, collocato in una città di provincia del centro Italia, una coppia piccolo-borghese non riesce ad assumersi fino in fondo la responsabilità di aver adottato, illegalmente, un ragazzino che non corrisponde alle sue aspettative. Evitando di rappresentare il nucleo principale del racconto (il ragazzino non appare mai in scena), Pierattini costruisce la tensione drammatica intorno al suo disvelamento progressivo nei sofferti dialoghi tra Anna e Mario, le cui contraddizioni vengono messe in luce senza indulgenza, ma con la finezza psicologica e la partecipazione emotiva caratteristiche di un autore/attore che calca da molti anni il palcoscenico. Uno sguardo realistico e crudo sulla crisi di una famiglia sullo sfondo di una città di provincia (stavolta in Lombardia) caratterizza pure Il ritorno, forse il più apprezzato e premiato tra i testi di Pierattini, insieme all’intenso monologo scritto per Maria Paiato, La Maria Zanella. Ma questa raccolta consente anche di apprezzare copioni meno conosciuti o totalmente inediti, come il r e c e n t i s si m o Le r e li q u i e dell’amore strozzato, che, ambientato nella Tripoli sotto occupazione inglese nel 1945, rimette

in prospettiva storica un tema di bruciante attualità, raccontando la vicenda di un ex soldato badogliano che cerca di tornare dalla sua famiglia in Libia da “clandestino”. Due diverse chiavi di lettura del lavoro di Pierattini sono offerte, come prefazione e postfazione, dagli stimolanti contributi critici di Corrado Bologna e Dario Tomasello. Renato Gabrielli

Gao Xingjian, tra Oriente e Occidente Gao Xingjian Teatro. Il sonnambulo, Il mendicante di morte, Ballata notturna traduzione e cura di Simona Polvani, Pisa, Edizioni Ets, 2011, pagg.132, euro 14 Non appartiene alle avanguardie: pure Gao Xingjian (Ganzhou, Cina, 1940), premio Nobel per la letteratura nel 2000, dal 1988 rifugiato politico in Francia, scrittore (La Montagna dell’Anima, 1990, e il romanzo autobiografico Il libro di un uomo solo, 1999), pittore e artista visivo (i poemi filmici La Silhouette sinon l’ombre, 2003 e Après le deluge, 2006), ha rinnovato a fondo la drammaturgia cinese, comparando la tradizione dell’Opera di Pechino con quella occidentale - la commedia dell’arte, soprattutto, ma anche il teatro epico di Brecht e quello dell’assurdo del “primo amore” Ionesco - per arrivare ad un dettato profondamente nuovo. Un “teatro onnipotente” – per citare il saggio del 2010 Lun xiju (Sul teatro) - che fonde la parola con le più svariate tecniche performative - recitazione “tripartita”, canto, danza, acrobazia, prestidigitazione, mimo, clownerie, uso delle maschere e delle marionette -, indagando a fondo, in una modalità nuova, che fa largo uso della seconda e della terza persona, gli strati più profondi della coscienza umana. Dei tanti testi scritti da Gao, il volume curato da Simona Polvani, col contributo dell’Ambasciata e del Ministero degli Esteri francese, ne presenta tre: Il Sonnambulo, Il mendicante di morte e Ballata notturna. Scritti tra il1993 e il 2007, compongono una sorta di trilogia ideale intorno al tema della notte, ancora inedita in Italia, se si eccettua lo studio da Ballata notturna, presentato nel 2009 al Teatro del Verme di Milano, durante il Festival La Milanesiana, con la regia di Philippe Goudard e la coreografia di Annarita Pasculli. Chiude il volume, l’interessante postfazione di Antoniet ta Sanna, che ripercorre le tappe dell’esilio di Gao, dai primi scontri con la Rivoluzione Culturale, allora imperante, al lungo viaggio in Cina, dal sud al sud-ovest, tra il Tibet e le montagne del Sichuan, dalla critica ai fatti di Tien’anmen al trasferimento definitivo in Francia, fino all’adozione del francese come lingua letteraria. Roberto Rizzente

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biblioteca scaffale Giulio Ferroni COMMEDIA Napoli, Guida Editore, 2011, pagg. 105, euro 10 Dalla sua lunga esperienza di studio del comico letterario e teatrale Giulio Ferroni ricava qui un sintetico profilo della storia della commedia nella tradizione occidentale, a partire dalla sua fondazione nell’antica Grecia. In un susseguirsi di definizioni sintetiche ripercorre tutti i grandi capolavori che nei secoli hanno sondato gli aspetti più diversi della vita umana con il sorriso. Da Aristofane a Plauto a Machiavelli a Shakespeare a Molière a Goldoni al cinema del Novecento. Un manuale di facile lettura che diviene indagine sul genere della drammaturgia comica. Elisabetta Sala L’ENIGMA DI SHAKESPEARE Milano, Ares, 2011, pagg. 472, euro 24 Come tutti gli uomini geniali, William Shakespeare sfugge a qualsiasi inquadramento: scrittore enigmatico per eccellenza, al punto che qualcuno dubita ancora che sia veramente esistito. Ma, come ogni vero classico, Shakespeare è naturale pensarlo anche protagonista della sua epoca; e poiché visse nel secolo d’oro della letteratura inglese, la corrente Whig-protestante ne fece il poeta nazionale britannico. Tale lettura si è, però, rivelata assai superficiale e non concorda né con le opere, né con quanto sappiamo della vita; tanto più che il sistema elisabettiano è emerso, attraverso gli studi storici più recenti, come un regime totalitario e violentemente oppressivo. Si ripercorre la biografia e l’opera del Bardo seguendo il filo rosso della sua dissidenza e rivelando gli stretti rapporti che egli ebbe con il mondo sotterraneo del cattolicesimo inglese braccato dalle autorità. La sua passione per il teatro si fa quindi missione segreta; giacché le sue simpatie andavano alla minoranza perseguitata e le sue opere cercarono, più o meno cautamente, di dar voce a chi non aveva più il diritto di parlare.

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Paolo Puppa RACCONTI DEL PALCOSCENICO. DAL RINASCIMENTO A GADDA Napoli, Liguori, 2011, pagg. 180, euro 16,99 Nove saggi indagano incroci tematici e strutturali tra palcoscenico e racconto in ambito per lo più italiano, ovvero tra grandi cicli narrativi e riscontri degli stessi sulla scena. Si va dalla presenza e persistenza lungo i secoli della sottana del prete, della figura dell’ingenuo e del duello tra carta e ribalta. Si prosegue poi con prelievi nel territorio pirandelliano operati da Eduardo e Pasolini, quindi ritratti monografici sui due Levi, Primo e Carlo, e su Gadda, sempre nello scambio tra racconto e plot drammaturgico. Giovanni Antonucci LO SPETTATORE NON ADDORMENTATO. QUARANT’ANNI DI SPETTACOLI IN ITALIA E NEL MONDO Roma, Edizioni Studium, 2011, pagg. 221, euro 16,50 Un itinerario avvincente dai classici ai contemporanei, italiani e stranieri, attraverso le interpretazioni di grandi attori tra i quali Gassman, Albertazzi, Bene, Stoppa, Scaccia, Calindri, Valli, Morelli, Falk. Antonucci si sofferma anche sui maestri della regia come Orazio Costa, Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Peter Brook, Bob Wilson, autori di spettacoli indimenticabili e noti anche al pubblico dei giovani. Si coniugano discorso critico e informazione, realtà scenica e memoria. Eugenio Barba e Nicola Savarese L’ARTE SEGRETA DELL’ATTORE Roma, Edizioni di Pagina, 2011, pagg. 320, euro 42 Questo libro, col titolo Anatomia dell’attore, è stato pubblicato per la prima volta nel 1982 come risultato delle prime sessioni della Scuola Internazionale di Antropologia Teatrale (Ista) fondata e diretta da Eugenio Barba, con la collaborazione di maestri di teatro, docenti, attori e registi provenienti da tutto il mondo. Dal 1980, le sessioni dell’Ista si sono moltiplicate e il volume ha aggiunto, nel tempo, sezioni, brani e immagini senza però cambiare la sua caratte-

ristica di dizionario-album, con un intenso rapporto fra testo e immagini (più di 700), e la creazione di sorprendenti accostamenti di forme nel tempo e nello spazio. Un’esauriente bibliografia e un indice analitico completano l’opera.

Marco De Marinis IL TEATRO DELL’ALTRO. INTERCULTURALISMO E TRANSCULTURALISMO NELLA SCENA CONTEMPORANEA Firenze, La Biblioteca Junior, 2011, pagg. 231, euro 25 Vengono prese in esame le questioni dell’identità e dell’alterità, così come esse sono state portate all’attenzione generale dai maestri contemporanei, protagonisti delle due fasi della riforma teatrale nel XX secolo, e così come si pongono oggi nei settori più avanzati della scena. Tre, in particolare, sono le esperienze teorico-pratiche che fungono da riferimenti guida. La prima è quella di Artaud e del suo viaggio in Messico alla ricerca di una cultura organica e del vero teatro. La seconda esperienza teorico-pratica è quella dell’antropologia teatrale di Eugenio Barba e dell’Ista, l’International School of Theatre Anthropology. Il terzo esempio è quello di Jerzy Grotowski, che in qualche modo funge da filo rosso, legando i diversi capitoli del volume.

Alessandra Rossi Ghiglione TEATRO E SALUTE. LA SCENA DELLA CURA IN PIEMONTE Torino, Ananke, 2011, libro+ dvd, pagg. 254, euro 24,50 Da alcuni anni in Italia, e in Piemonte in particolare, il teatro e le arti si affiancano ai processi di cura negli ospedali, realizzando spettacoli, laboratori, mettendo in azione interventi artistici nelle comunità e sul territorio. A partire dall’esperienza di ricerca e di intervento dell’autrice e dal contributo di protagonisti del mondo della sanità e della cultura, il volume approfondisce le ragioni e i metodi che portano il teatro a incontrare la medicina. Nel dvd allegato al volume sono presentati, attraverso numerosi filmati e interviste, progetti d’avanguardia negli ambiti delle performing arts e medical humanities.

Lapo Ciari ARMANDO PUNZO E LA SCENA IMPRIGIONATA. SEGNI DI UNA POETICA EVASIVA Roma, La Conchiglia di Santiago, 2011, pagg. 136, euro 14 Il libro racconta la “scena imprigionata” nella quale prende corpo la straordinaria esperienza della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, all’interno del Carcere di Volterra. Si prende soprattutto in analisi l’ultimo lavoro di Punzo, Hamlice. Saggio sulla fine della civiltà (premio Ubu 2010, miglior regia), mettendo a confronto lo studio andato in scena nel 2009 e lo spettacolo del 2010.

Maurizio Esposito e Antonio Turco OLTRE L’ISTITUZIONE TOTALE. TEATRO E INTEGRAZIONE NELLA CASA DI RECLUSIONE DI REBIBBIA Roma, Franco Angeli, 2011, pagg. 144, euro 17 Il libro racconta il progetto Prometeo, svolto dall’ Associazione Italiana Cultura e Sport con la collaborazione del Laboratorio per lo studio dei nuovi servizi “Francesco Battisti” dell’Università di Cassino. All’interno del laboratorio teatrale della Casa di Reclusione di Rebibbia a Roma, si sono strutturati incontri che all’attività di teatroterapia hanno affiancato interventi di tipo psicologico, di ricerca sociale e di attività di mediazione culturale. I risultati ottenuti consentono di confermare come il teatro, ma più in generale l’arte e la cultura, siano strumenti essenziali per far maturare il dialogo tra le persone recluse e coloro che stanno all’esterno così da facilitare i processi di reinserimento sociale.

Aurora Marsotto FACCIAMO TEATRO! ESERCIZI E STORIE DI UN’ARTE MAGICA Milano, Piccolo Teatro, 2011, pagg. 127, euro 14,50 I maestri del Piccolo Teatro rivelano aneddoti e curiosità sul loro mestiere, proponendo tanti esercizi da eseguire a casa o a scuola per speri-


biblioteca Una scena di Hamlice, di Armando Punzo.

mentare le capacità espressive dei piccoli in una sorta di manuale di recitazione reso ancora più gradevole dalle illustrazioni di Massimo Alfaioli. Vengono anche spiegate alcune nozioni di storia del teatro e dell'organizzazione delle compagnie teatrali.

Paola Abenavoli SUD, SI GIRA. CINEMA E TV ALLA (RI)SCOPERTA DEL MERIDIONE Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2011, pagg. 112, euro 14 Il Sud come linguaggio: così Michelangelo Frammartino, regista de Le quattro volte, sintetizza la visione del Mezzogiorno come protagonista del mondo cinematografico e televisivo di oggi. E, con lui, altri addetti ai lavori (da Emilio Solfrizzi, a Ivan Cotroneo, da Enrico Lo Verso, a Edoardo Winspeare, a Rocco Papaleo) parlano di questa rinnovata “tendenza sud”, nel nuovo saggio che Paola Abenavoli ha voluto dedicare a una attenzione da parte di cinema e tv, nei confronti del meridione - che non sembra scemare. Ivana Chubbuck IL POTERE DELL’ATTORE. TECNICA ED ESERCIZI Roma, Audino, 2011, pagg. 224, euro 22 Il potere dell’attore presenta la tecnica di insegnamento di Ivana Chubbuck, insegnante di recitazione statunitense fondatrice della scuola più prestigiosa di Los Angeles, da cui sono usciti attori fra i più famosi di Hollywood, come Charlize Theron, Brad Pitt e Halle Berry. Questo libro guida l’attore verso risultati ottenuti con una tecnica che parte dalla grande didattica del passato (Konstantin Stanislavskij, Sanford Meisner e Uta Hagen) per portarla a un livello più completo. La forza principale della tecnica Chubbuck risiede nel capire qual è l’obiettivo che il personaggio vuole/deve ottenere. Il libro è diviso in due sezioni. Nella prima, l’autrice presenta i dodici strumenti per entrare nel personaggio e farlo vivere. La seconda sezione è costituita da un compendio di esercizi pratici per imparare a gestire gli stati d’animo più diversi.

William Shakespeare RICCARDO III Torino, Einaudi, 2011, pagg. 370, euro 15 La tragedia di Richard III, sinistro superuomo rinascimentale malato di egocentrismo e brama di potere, racconta l’orrore senza tempo della crudeltà e la fascinazione perversa del sangue. Questa nuova edizione, a cura di Paolo Bertinetti, viene presentata con testo a fronte nella traduzione di Patrizia Valduga e con il puntuale corredo di note di Mariangela Mosca Bonsignore. Henrik Ibsen PEER GYNT a cura di Franco Perrelli, Pisa, Edizioni Ets, 2011, pagg. 384, euro 32 Peer Gynt di Henrik Ibsen (1867) è, per i norvegesi, un’opera poetica fondante l’identità nazionale, come il Don Chisciotte per la Spagna, il Faust per la Germania e la Divina Commedia per l’Italia. In una più universale prospettiva, Peer Gynt ha del resto molte analogie con questi classici perché affronta i temi cruciali del destino civile e metafisico dell’uomo, del senso della sua esistenza e del suo impegno morale. La curatela precisa ed efficace è di Franco Perrelli, grande conoscitore di Ibsen.

Vincenzo Pirrotta TEATRO. ALL’OMBRA DELLA COLLINA, MALALUNA, LA BALLATA DELLE BALATE, LA GRAZIA DELL’ANGELO, SACRE-STIE a cura di Dario Tomasello Roma, Editoria & Spettacolo, 2011, pagg. 220, euro 15 Per la prima volta, la produzione originale dell’artista siciliano trova una sua coerente sistemazione, per dare ragione di un impegno che s’inscrive nella nuova ondata di grandi autori della drammaturgia italiana contemporanea. Esempio concreto di come si stia delineando una «nuova drammaturgia» che intrattiene con il passato e con l’attualità del teatro rapporti complessi. L’autore spesso critico con la religione come appare in La ballata delle balate, una sorta di delirio con il racconto di un latitante, che nel suo covo recita un rosario dove i misteri

dolorosi sono quelli della passione di Cristo, e i misteri gioiosi (misteri di stato) sono quelli delle 5000 vittime di cosa nostra; in Sacre-Stie un prete mette in atto la vendetta che ha pensato per tutta la sua vita, in una sorta di thriller. Mentre Malaluna è un viaggio dentro la città di Palermo cercando di raccontarla in modo duro senza ricorrere ad immagini stereotipate.

Giulio Greco PISACANE NELLA TERRA DEI TRISTI. L’ITALIA FIGLIA DI QUELLA SPEDIZIONE Roma, La Conchiglia di Santiago, 2011, pagg. 80, euro 10 Un racconto che sceglie la forma teatrale, ma che non rinuncia ad informare e a entrare nel dibattito e nella polemica. Un testo sulla spedizione di Carlo Pisacane del 1857, vista dalla parte del Cilento, dove l’eroe fu trucidato, dopo uno sbarco senza speranza nel golfo di Sapri. AA.VV. PERFORMING POP PROVE DI DRAMMATURGIA a cura di Fabio Acca, Corazzano, Titivillus, n. 1/2011 Con questo numero curato da Fabio Acca, la rivista Prove di Drammaturgia cerca di fornire degli indicatori metodologici per orientarsi all’interno dei sistemi di comunicazione di massa. La nozione di “performance pop” mette al centro della propria indagine la portata narrativa di un tipo specifico di corporeità, da Michael Jackson ai Beatles, da David Bowie a Madonna. Sia come dimensione “dal vivo”, sia all’interno della galassia intermediale, la “performance pop”, diviene sintesi del connubio tra pratiche corporee e immagine, al centro delle quali si si-

tua l’artista pop, la sua presenza, che diviene il veicolo principale di un evento narrativo. A una prima parte più teorica (con i contributi di Fabio Acca, Daniela Cardini, Gerardo Guccini, Gianni Sibilla e Lucio Spaziante), ne segue una seconda di possibili applicazioni alle figure di artisti come Peter Gabriel/Genesis, Demetrio Stratos/Area, Patty Pravo e Lady Gaga (rispettivamente di Fabriano Fabbri, Andrea Laino, Tomas Kutinjac ed Eleonora Felisatti/Jacopo Lanteri); e infine una terza, un dossier che raccoglie nove interviste ad altrettanti artisti della scena teatrale italiana di ricerca che, ciascuno con specifiche originalità, hanno declinato nelle proprie poetiche figure e temi legati al pop: Teatro delle Albe, Motus, Kinkaleri, Teatro delle Moire, Teatro Sotterraneo, Babilonia Teatri, ricci/forte, Cristian Chironi, Codice Ivan. QUADERNI DEL TEATRO DI ROMA anno I, nn.1 e 2, novembre e dicembre 2011 Una nuova rivista, diretta da Attilio Scarpellini, per riflettere sul potere della scena e sui suoi linguaggi, al di là degli eventi effimeri che richiamano l’attenzione della stampa non specializzata. Nel numero di novembre, tra gli altri, figurano un articolo di Massimo Marino su Dopo la battaglia di Pippo Delbono, e un intervento di Michele Santeramo, vincitore dell’ultimo Premio Riccione, che auspica il ritorno di una drammaturgia italiana originale e non autoreferenziale. Nel numero di dicembre un pezzo di Lorenzo Pavolini fa il bilancio sugli spettacoli “patriottici” per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia e viene pubblicato un approfondimento di Graziano Graziani sull’ultimo lavoro di Rodrigo Garcìa presentato alla Biennale di Venezia, Muerte y reencarnación en un cowboy.

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la società teatrale

a cura di Roberto Rizzente

Foto di gruppo con C.Re.S.Co di Sergio Lo Gatto

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i è parlato a lungo di come lo spettacolo dal vivo sopravviva ormai grazie ad ardite acrobazie sul ciglio del burrone. Nessuno produce più, nessuno circola più, nessuno legge più. Nel settembre 2010 nasceva il C.Re.S.Co (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea) il cui scopo è di «mettere assieme gli operatori e gli artisti italiani della scena contemporanea e farli lavorare congiuntamente per costruire un progetto e una sensibilità che siano insieme poetici e politici». Eccole lì le due parole chiave. Poetica e politica. Lo scopo è quello di un’azione progettuale che individui le falle di un sistema e, contando su forze concrete, possa apportare cambiamenti. A partire da un passo conoscitivo, un’indagine statistica sullo spettacolo dal vivo commissionata alla Fondazione Fitzcarraldo, i cui risultati sono stati resi noti il 25 novembre a Roma. Il direttore della Fondazione Romaeuropa Fabrizio Grifasi ci tiene a ricordare come sia grazie a uno «sforzo autoprodotto» che questo «laboratorio di pensiero» – come lo chiama l’attuale presidente Luca Ricci – può avere luogo. L’indagine, svoltasi sotto forma di questionario volontario circolato tra artisti

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e operatori, vuole «costruire una cassetta degli attrezzi – continua Ricci – che combatta tutte le diffidenze e i retropensieri con le armi di una fondamentale generosità». Il direttore di Fitzcarraldo Ugo Bacchella spiega poi che «non si vuole affermare una posizione politica» e oltretutto la base volontaria del questionario non assicura comunque una valenza statistica. 1.120 questionari compilati da lavoratori e imprese, con un’età media di 36 anni e il 55% di donne. Certi dati, ed è triste, non stupiscono più: quasi il 50% con laurea o master, ma basso livello occupazionale; quasi assenti gli indeterminati, usatissime le ritenute d’acconto; monti di reddito la cui media oscilla tra i 9 e gli 11.000 e nella fascia 30-40 arriva sì e no a 5. Né sorprende che, correndo ai ripari, il 20% dei lavoratori dello spettacolo svolga altre attività, senza tuttavia la tutela previdenziale che il settore spettacolo non accenna a fornire. Viene poi definito una sorta di “indice di gradimento” che va dai precari e scontenti (51%), che lavorano in media da 9 anni per 46 giornate l’anno totalizzando 4-5.000 Euro, a l’entusiasmo degli esordi, che accontenta i giovani con 25 giornate, paghe irrisorie ma tan-

ti sorrisi, fino ai realizzati, dove la fascia d’età (38-60) si tira in alto pure il reddito (fino a oltre 50.000 Euro per oltre 180 giornate). Sarebbe difficile lamentarsi. Le imprese prediligono la forma associazione, prevedibile differenza nell’attività del Nord e del Sud, con Emilia-Romagna e Toscana a governare le vele della media. Ma soprattutto, a fronte di circa 9 produzioni, gli spettacoli non fanno più di 8 repliche. Ecco tradotta in cifre quell’evidente bulimia del sistema teatrale italiano, incapace di metabolizzare le creazioni e che continua invece a ingerire prodotti. Poetica e politica, si è detto. Se da un lato occorrerebbe una riflessione su che cosa davvero significhi “poetica contemporanea”, è anche vero che l’adesione al CReSCo è spontanea e un comitato si fa forte delle proprie componenti e della relativa autocoscienza. Quanto al resto, da Alessandro Riceci di Zeropuntotre che dal grido “resistere” vorrebbe passare a quello “esistere”, a Giulia Rodano (commissione Cultura alla Regione Lazio) che fa notare come il nostro sia «l’unico paese che finanzia non per progetti ma per soggetti», tutti gli interventi a valle della presentazione hanno evidenziato la valenza non statistica ma politica di questi dati, che «tendono all’autorappresentazione», da essa sono ispirati. L’economista Michele Trimarchi lancia una mezza provocazione, ché la si smetta di «tentare di clonare un’idea esistente», partendo piuttosto dall’analisi di quello che manca oggi, non rispetto al passato ma rispetto alle esigenze dello stesso presente. Questo sì che sarebbe un passo politico. ★

(illustrazione di Renzo Francabandera)

I dati Siae del primo semestre 2011 Sono stati presentati lo scorso novembre i dati Siae del Primo Semestre 2011. Inevitabili, con la crisi economica, le revisioni al ribasso, che hanno registrato un -3,81% di incasso per spettacolo e sport, rispetto al 2010 (di cui -0,81% per biglietti e abbonamenti e un -9% per i servizi accessori, bar, guardaroba, prenotazioni) e un -2,09% di ingressi. Dati comunque non allarmanti, se analizzati al dettaglio: scopriamo così che la spesa per il ballo è scesa del 5,82% e quella teatrale dell’1,12%, a causa principalmente del circo, in calo del 31,87% e della commedia musicale, -6,22%, contro un aumento della lirica (+30,2%), spettacoli di burattini (+36%) e prosa (+0,33%). Più generosi i dati relativi all’offerta di spettacoli, che registra un +19% per la lirica, +10,36% per le commedie musicali, +5,2% per i balletti e +2% per la prosa, per un giro d’affari complessivo di 2 miliardi di euro (-6,34% rispetto al 2010). Info: www.siae.it


la società teatrale

Tornano i Premi della Critica Si è svolta lunedì 17 ottobre al Teatro della Pergola di Firenze la cerimonia di consegna dei Premi della Critica 2011, promossi dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Frutto di un censimento fra membri dell’Associazione e critici teatrali freelance, i premi intendono segnalare spettacoli, personaggi, nuove realtà che hanno animato la stagione 2010-11. I riconoscimenti sono stati assegnati agli spettacoli La resistibile ascesa di Arturo UI di Claudio Longhi, In viaggio con Aurora di e con Erri De Luca e Antropolaroid di Tindaro Granata; agli attori Luca De Filippo (Le bugie hanno le gambe corte) Peppino Mazzotta (Radio Argo), Galatea Ranzi e Federica Fracassi (nella foto con Roberto Latini); ai registi Lorenzo Loris e Virgilio Sieni; oltre che a I Sacchi di Sabbia e il Progetto Giovani ideato dalla Fondazione Venezia. Al regista Maurizio Scaparro è andato il “Premio Poesio”, mentre per quanto riguarda i premi decisi dalle redazioni delle riviste teatrali, sono risultati vincitori Teatro Povero di Monticchiello (Hystrio), Isabella Ferrari (Teatro contemporaneo e Cinema), Giuliano Scabia (Teatri delle diversità) e Roberto Latini (Sipario). Laura Bevione

Addio a Carlo Colla, maestro e marionettista Aveva 76 anni Carlo III Colla, erede, insieme al cugino Eugenio Monti Colla, della storica dinastia di marionet tisti che affonda le radici nei primi dell’Ottocento. È morto martedì 25 ottobre 2011 a Milano dopo un breve ricovero in ospedale. I funerali si sono tenuti giovedì 27 ottobre a Clusane d’Iseo (Bs). Sin da giovane interessato al percorso artistico della compagnia, Carlo Colla ricopriva il ruolo di responsabile degli allestimenti tecnici. Il suo ultimo impegno di marionettista lo ha visto coinvolto nella tournée che si è tenuta, con il consueto successo, lo scorso settembre a Mosca. «La sua attività, insieme a quella degli altri eredi», ha dichiarato il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, «ha caratterizzato lo scenario culturale milanese e italiano. Colla ha fatto sognare grandi e piccini, portando la grande arte delle marionette fuori dai confini nazionali».

Progetto Caravan Ha animato a dicembre Torino la prima tappa del progetto Caravan, evento itinerante di Teatro Sociale e di Comunità, in collaborazione con la Fondazione Crt e il Master di Teatro Sociale e di Comunità dell’Università di Torino. Il progetto, coordinato da Carlo Lingua e Alberto Pagliarino, toccherà nei prossimi 42 mesi 9 diversi paesi europei, coinvolgendo 11 partner tra compagnie teatrali, istituzioni accademiche e fondazioni e dando vita a un articolato programma di performance, teatro, musica, cinema ed esperienze artistiche partecipate. Info: www.teatrosocialedicomunita.it

Premi Nike per il teatro Numerosi i riconoscimenti attribuiti in occasione della tredicesima edizione del Premio Nike, ideato

da Arnolfo Petri e organizzato dall’Associazione Nike per il Teatro e Hermes Comunicazione. Tra i premiati, Arturo Cirillo (attore protagonista), Milvia Marigliano (attrice protagonista), Nunzia Schiano e Roberto Capasso (attori non protagonisti), Carlo Cerciello (regia), Mimmo Borrelli (drammaturgia), Peppe Barra (carriera). È andato invece a Stefano De Stefano del “Corriere del Mezzogiorno” il Premio Mario Stefanile, lo scorso anno tributato a Giulio Baffi. Info: www.arnolfopetri.it

Preziosi neodirettore dello Stabile d'Abruzzo Il Teatro dell’Aquila, devastato dallo scisma e privo da quasi due anni di una direzione artistica, ha puntato su un nome di grande richiamo: Alessandro Preziosi. L’attore e regista, cresciuto alla scuola dei Filodrammatici di Milano e noto al grande pubblico per le sue interpretazioni sul grande e il piccolo schermo, sembra essere la persona giusta per traghettare il Teatro Stabile d’Abruzzo fuori da un periodo nero. Forse verso la riapertura, nel 2013, del Teatro Comunale. Info: www.teatrostabile.abruzzo.it

Foà si racconta al Roma Film Festival Ha aperto la sezione Off-Doc, lo spazio di ricerca della sezione L’Altro Cinema|Extra del Roma Film Festival, il documentario Io sono il teatro: Arnoldo Foà raccontato da Foà diretto da Cosimo Damiano Damato. Unico protagonista Foà si racconta da giovane scorrendo tra le immagini dei primi spettacoli teatrali, commenti e aneddoti fino alle riflessioni del Foà ormai anziano che, seduto sulla poltrona di casa, fuma la pipa, mentre interpreta le liriche di Giacomo Leopardi e Pablo Neruda. Info: arnoldofoa.italymedia.it

Alla Fracassi il Premio Duse È andato a Federica Fracassi il Premio Teatrale Eleonora Duse di Milano per la stagione 2010-11. L’attrice, che cinque anni fa aveva già ottenuto il premio di miglior emergente, è stata scelta dalla giuria presieduta da Renato Palazzi (Anna Bandettini, Maria Grazia Gregori, Carlo Maria Pensa e Magda Poli gli altri membri) e premiata al Piccolo Teatro Grassi di Milano a suggello di una crescita professionale che ha saputo unire al talento interpretativo un’ampia e sofisticata conoscenza culturale. Menzione d’onore invece per Anna Della Rosa nella terna di attrici emergenti proposta quest’anno dai giurati.

Le frontiere liquide dell'Europa Il Piccolo Teatro di Milano, il Teatrul Bulandra di Bucarest, il National Theatre di Salonicco e il Teatro Garibaldi di Palermo hanno avviato in autunno, nell’ambito di Ute (Union des Theatres de l’Europe), una collaborazione sul tema delle “Frontiere liquide”, con riferimento all’eredità culturale dell’Europa e il futuro. Workshop, readings, festival, conferenze e performances sono parte integrante del progetto, che sarà seguito in un numero speciale della rivista “Alternatives théâtrales”, previsto per marzo. Info: www.liquidfrontiers.net, www.frontiersliquides.net

Il trasloco del Guanella Verrà inaugurata il 19 febbraio la nuova sede di Campo Teatrale, via Casoretto 41/A di Milano. Nella stessa location della scuola, che conta, oltre agli uffici, 5 sale prova, troverà posto la nuova sala da 99 posti del Teatro Guanella. Tra le tante attività del centro, in vista della stagione di ottobre, una rassegna e due seminari con Gaetano Ventriglia e Danio Manfredini, mentre la vecchia sala di via Duprè, attualmente in restauro, verrà destinata alle residenze. Info: www.campoteatrale.it

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la società teatrale

"Capusutta": Marco Martinelli e Punta Corsara sbarcano in Calabria Dopo “Arrevuoto”, “Capusutta”. Ancora una volta con la voglia di «rivoltare», di mettere «a testa in giù», creando «un disordine fertile che possa crescere». Da Napoli a Lamezia Terme. “Capusutta” è il laboratorio cui ha dato vita Marco Martinelli a Lamezia Terme (foto sopra): un’idea nata, lo scorso anno, su impulso di Tano Grasso, all’epoca appena nominato assessore comunale alla cultura. Ancora una volta un’iniziativa diretta al coinvolgimento dei giovani, sulla scorta di quanto realizzato con “Arrevuoto”, a Scampia, e la creazione della compagnia Punta Corsara (che ha condotto con Martinelli il laboratorio). In Calabria circa 70 tra studenti degli istituti superiori di Lamezia e bambini rom guidati dagli educatori dell’Associazione La Strada, hanno preso parte a ciò che lo stesso regista definisce «non-scuola, ovvero un “metodo” che mette in relazione gli adolescenti con la forza sempreverde dei classici». Ed il teatro, così, diventa energia. Rivoluzione che mette in scena una rivoluzione: infatti, i giovani di Capusutta hanno portato sul palco, a fine novembre, al Politeama di Lamezia, una versione di Donne al parlamento, di Aristofane, curata da Martinelli ed Emanuele Valenti, anche regista. Uno spettacolo che hanno poi presentato, a dicembre, anche al Teatro Valle occupato. Info: ww.teatrodellealbe.com Paola Abenavoli

Chiude i battenti Il Principe Costante Ha segnato un’epoca con i suoi titoli di culto (Celestini, Manfredini, Brassard, Vachtangov), lo sguardo allargato al mondo (Teatro Noh, Odin Teatret) e le tante collaborazioni (Ponte di Pino, Porcheddu, Molinari...): ora Il Principe costante, la casa editrice indipendente fondata nel 2011 da Vanessa Chizzini e Valeria Ravera è costretta a chiudere i battenti. Per l’occasione, verrà applicato uno sconto del 30% (un volume) e 40% (due o più volumi) per l’acquisto dei titoli in catalogo. Info: www.principecostante.it

Un premio per il web: la nascita di Rete Critica In principio era la critica sul web. Fino all’estate: la febbre festivaliera ha portato consiglio, alimentando gli scambi. È nata così, prima per gioco – una boutade denominata Circo Critico, con profilo su Facebook – poi con più ferma convinzione, la Rete Critica,

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ideata da Oliviero Ponte di Pino, Anna Maria Monteverdi, Andrea Porcheddu e Massimo Marino. Si è cominciato col circoscrivere il campo: quali testate coinvolgere e in che misura. È stata poi la volta del voto: tre preferenze per sito, tredici semifinalisti complessivi, tra cui sono emersi, per sommatoria dei voti degli addetti ai lavori e gli internauti, Menoventi e Ricci&Forte. Il 26 novembre, in diretta da “Piazza Verdi” (Radio Tre Rai), è uscito dal ballottaggio il nome del vincitore: Menoventi. La serata dei Premi Ubu, lo scorso 12 dicembre al Piccolo, è stato il palcoscenico d’elezione per la prima uscita ufficiale del Premio - libri, buoni regalo e un disegno di Francabandera -, consegnato alla compagnia di Faenza. Info: circocritico@libero.it; www.ateatro.it

Il risorgimento del Quirinetta Grazie all’impegno di Geppi Gleijesis e del suo staff gli storici locali del Quirinetta di Roma tornano a nuova vita. A

popolare le sale chiuse da vent’anni dell’edificio saranno gli studenti dell’Accademia Internazionale di Arte Drammatica e il pubblico della stagione, aperta ufficialmente il 6 dicembre con Thom Pain di Elio Germano. Insieme a lui a ricalcare il palco del Quirinetta ci saranno interpreti come Erri De Luca, Maddelena Crippa, Margherita Bui, Giuseppe Battiston e molti altri. Info: www.teatroquirinetta.it

dell’immobile. Tra i sostenitori dell’iniziativa, il dipartimento “Arte e Spettacolo” dell’Università La Sapienza e altre istituzioni, consiglio provinciale e comunale in primis. Info: salavittorioarrigoni@yahoo.it ; ht tp://salavit torioarrigoni.wordpress.com

Uno speciale radio per il Piccolo

Trenta giovani, quindici ragazze e quindici ragazzi, sono i protagonisti del nono ciclo di formazione della Scuola del Piccolo Teatro di Milano, quest’anno intitolato a Jean-Louis Barrault. Dopo più di un mese di selezioni, su novecento candidati tra i diciotto e i venticinque anni, il gruppo è stato scelto sulla base delle prove superate in recitazione, canto e mimo, affrontate in due fasi sotto lo sguardo della Commissione presieduta da Luca Ronconi e dall’équipe di insegnanti del Piccolo. Info: www.piccoloteatro.org

Sei puntate per il canale web di Radio Rai WR6, condotte da Silvana Matarazzo, ripercorrono la storia dello storico teatro milanese, dalla nascita con Paolo Grassi al periodo d’oro delle regie di Strehler, fino all’attuale direzione di Sergio Escobar. A scandirne le tappe frammenti di spettacoli, interviste agli attori oltre agli interventi e le lezioni di regia dello stesso Strehler, accompagnate dalle musiche composte per lo Stabile da Fiorenzo Carpi e conservate negli Archivi dell’Audioteca Rai. Info: www.wr6.rai.it

Debutta L'Accademia dell'Aquila Lo scorso ottobre hanno debuttato i corsi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica dell’Aquila, fondata dall’associazione Teatro Zeta di Manuele Morgese. La scuola è il primo progetto ad avere sede nell’ambizioso “Parco delle Arti”, uno spazio polifunzionale immerso nel verde a pochi chilometri dall’Aquila, ideato da Teatro Zeta e in via di realizzazione grazie a un nutrito gruppo di sostenitori, tra cui Arcus, Unione Europea e Regione Abruzzo. Info: www.teatrozeta.it

Roma, occupato l'ex cinema Palazzo Continua la protesta dei cittadini, artisti e personalità del mondo culturale, che dallo scorso 15 aprile occupano l’ex cinema Palazzo, nel quartiere San Lorenzo di Roma. La mobilitazione mira a impedire che i locali vengano adibiti a casinò, come nelle intenzioni della società Camene, locataria

Al via il nono ciclo della Scuola del Piccolo

Stanza per la Duse È stato inaugurata lo scorso novembre, nell’Isola di San Giorgio a Venezia, la Stanza di Eleonora Duse, spazio permanente dedicato alla memoria della grande attrice. La Stanza, curata dal Centro Studi per la ricerca documentale sul teatro e il melodramma europeo della Fondazione Giorgio Cini, raccoglie alcuni dei semplici mobili ottocenteschi dell’attrice, due abiti realizzati per lei da Mariano Fortuny, la teca in legno che custodiva il ritratto firmato da Franz von Lenbach, e molte preziose fotografie. Info: www.cini.it

Barenboim alla Scala Il musicista di origini argentino-israeliane Daniel Barenboim è, dal 1 dicembre 2011, il nuovo direttore musicale del Teatro alla Scala di Milano. Barenboim, “maestro scaligero” già dalla stagione 2007-08, succede a Riccardo Muti, che si dimise nel 2005. Barenboim, che conserva gli incarichi di direttore musicale anche della Staatsoper e della Staatskapelle di Berlino e della West-Eastern Divan Orchestra, guiderà la Scala fino al 2016. Info: www.teatroallascala.it


la società teatrale Teatro in casa per Être Dal 3 al 6 novembre a Como si è tenuta la terza edizione di “Luoghi Comuni”, il Festival itinerante organizzato da Être (Esperienze teatrali di residenza), il progetto di residenze teatrali pensato in Lombardia dalla Fondazione Cariplo. Il Festival è stato dedicato al “Teatro in Casa” ed è stato composto da 13 spettacoli, ospitati in altrettante case della città lariana. Nella giornata di venerdì 4 novembre, inoltre, si è tenuta una tavola rotonda di grande interesse, “Dal palco a casa tua”, moderata da Oliviero Ponte di Pino che attraverso diverse immagini ha cercato di storicizzarne le esperienze più significative da Kantor a Wojtyla, dal Cechov dello Squat Theater alle esperienze di teatro di stalla di Scabia sino al Bernhard di Lombardi-Tiezzi (ma lo scrittore austriaco è stato messo in scena in un appartamento anche recentemente dal critico Renato Palazzi, anche lui presente a Como). Il tema poi è stato approfondito da Mariella Fabbris, Gerardo Guccini, Michela Marelli, Teatro delle Ariette, Renato Cuocolo, Roberta Bosetti, Fernanda Tucci. Mimma Gallina, Cristina Carlini e Giovanni Scoz ne hanno infine evidenziato gli ancora labili contorni normativi. Mario Bianchi

Inaugura la nuova casa del Maggio Fiorentino

Raccolta di firme per il Verdi di Poggibonsi

È stato inaugurato a dicembre il nuovo teatro del Maggio Musicale Fiorentino, con musiche di Beethoven e del compositore fiorentino Sylvano Bussotti, dirette da Zubin Mehta. L’inaugurazione definitiva è in programma per il 24 novembre 2012, con la Turandot di Puccini. È stata invece archiviata l’inchiesta sulla soprintendente del Maggio Francesca Colombo, indagata per violazioni della privacy e dello statuto dei lavoratori per aver installato una telecamera sul palco. Info: www.maggiofiorentino.com

Il Teatro Verdi di Poggibonsi (Si) rischia di chiudere. A causa dei tagli, il Comune non è più in grado di pagare l’affitto alla proprietà e l’associazione Timbre, che gestisce la struttura, è stata invitata a lasciare lo spazio dalla prossima primavera. Per salvare un luogo molto frequentato, vero punto di riferimento per la Valdelsa, si è creato un Comitato Pro Teatro Verdi, che ha avviato una raccolta firme. Info: www.timbreteatroverdi.it, proteatroverdi@gmail.com

Eresia a Venezia per Giovani a Teatro Proseguono le attività del Progetto “Giovani a teatro” della Fondazione di Venezia, neovincitore dei Premi della Critica 2011. Tra le novità, la Non-scuola di Martinelli “Eresia della Felicità a Venezia”, al debutto in aprile, e la collaborazione col portale roadsharing.com per la condivisione del trasporto verso i luoghi dello spettacolo. Info: www.giovaniateatro.it

Il Teatro Parioli a Luigi De Filippo È stato inaugurato l’8 dicembre scorso con la messa in scena di Napoli chi resta e chi parte di Raffaele Viviani il nuovo corso del Teatro Parioli di Roma. La gestione della storica sala è stata affidata a Luigi De Filippo che ha scelto di intitolare la sala al padre Peppino. Info: www.teatropariolipeppinodefilippo.it

Cambio di look per la web tv del Piccolo Dopo due anni di sperimentazione, la web tv del Piccolo Teatro di Milano si è rinnovata in contenuti e grafica per facilitarne la fruizione. News, Stagione, Interviste e Archivio storico saranno, insieme alla sezione Video e quella delle attività della Scuola del Teatro, i canali di riferimento per soddisfare ogni curiosità. Info: www.piccoloteatro.tv

Non commettere gialli impuri La prima edizione del Premio di Teatro “Non commettere gialli impuri”, bandito da ExCogita edizioni-Milano, è s t a t a vin t a da Pa trizia Monaco con L’occasione, presentata il 15 dicembre a Milano nel corso della premiazione di “Giallomilanese” per la regia di Fabrizio Caleffi con Angelica Cacciapaglia e Max Tibiletti. Nella stessa occasione è stato proiettato Stelle di fango, soggetto vincitore del premio cinema.

Il Sociale di Busto torna all'opera In occasione dei centoventi anni di attività, il Teatro Sociale di Busto Arsizio torna alle origini proponendo un omaggio alla musica lirica. Fino a maggio 2012 saranno quattro gli appuntamenti della rassegna “Tutti all’opera”, sostenuta dall’associazione culturale «Educarte» e dal Teatro dell’Opera di Milano: Carmen, La Cenerentola, La bohéme e Tosca. Gli allestimenti saranno del regista Mario Riccardo Magliara. Info: www.teatrosociale.it

Premio Campi Flegrei L’Associazione Diálogos ha indetto la prima edizione di un premio giornalistico destinato a chi con il proprio lavoro ha promosso il turismo e la cultura dei Campi Flegrei (Napoli e

zone limitrofe). Si può partecipare con articoli e servizi pubblicati su carta stampata, web, radio e tv. Un premio speciale andrà a “Web, Blog & Social Network”. Scadenza, 31 marzo 2012. Info: www.premiocampiflegrei.it

Achting Archives Review è consultabile online Il secondo numero di “Acting Archives Review”, rivista semestrale dedicata allo studio della recitazione diretta da Claudio Vicentini e Lorenzo Mango, è consultabile online su www.actingarchives.it. Collegandosi al sito è inoltre possibile esplorare l’Acting Archives Catalogue (catalogo dei trattati di recitazione dal Cinquecento a oggi) e la sezione Essays (saggi in lingua inglese sulla teorie e le tecniche di recitazione). Info: www.actingarchives.it

Gli Scarti alluvionati Continua la conta dei danni prodotti dagli allagamenti in Liguria. Tra le realtà colpite, nella zona di Padivarma di Beverino (Sp), il Teatro Officina de “Gli Scarti” (foto sotto), attivissima compagnia spezina, emersa a Kilowatt con un ottimo Ubu e una rassegna di qualità, “Fuori luogo”, totalmente autoprodotta. Ammontano a euro 100.000 i danni all’attrezzatura tecnica del service audio-luci, con la quale la compagnia autofinanzia le proprie produzioni. Info: www.associazionescarti.it, www.fuoriluogoteatro.it

Ostelli della cultura a Genova e Napoli Il progetto OstHello, nato dalla collaborazione tra i Ministeri della Gioventù e del Turismo e l’Aig (Associazione italiana degli alberghi della gioventù), trasformerà alcuni ostelli nazionali in case della cultura, dove gli ospiti potranno seguire gratuitamente laboratori artistici. Si trovano a Genova e a Napoli, per ora, gli ostelli dedicati al teatro. Info: www. osthello.it

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la società teatrale Bottiroli alla direzione di Santarcangelo Ne s s u no lo av rebbe detto. L’idea di affidare a un triumvirato di artisti (Chiara Guidi della Societas Raffaello Sanzio; Enrico Casagrande dei Motus ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe, coadiuvati da tre critici (Cristina Ventrucci, Silvia Bottiroli e Rodolfo Sacchettini - foto a lato), il Festival di Santarcangelo, in piena crisi d’idee e mezzi, dopo le dimissioni di Bouin e la parentesi di Sandro Pascucci, era parsa, tre anni fa, un azzardo. Ora quella formula, che ha saputo restituire un ruolo di primo piano al Festival, viene «confermata e al contempo rinnovata», secondo le parole del neopresidente di Santarcangelo dei Teatri, Roberto Naccari. Perché direttrice artistica del Festival per il triennio 2012-2014 sarà Silvia Bottiroli, coadiuvata da Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci, in collaborazione con Motus, che proporrà per l’occasione il progetto triennale “Zona_Motus” nell’ambito di “Making the Plot/Motus 2011-2068”, una sorta di “campo effimero” abitato e gestito da collettivi di artisti. Confermate le linee guida delle passate edizioni: relazione aperta tra artista e critico-curatore, approfondimento delle relazioni internazionali, attenzione al pubblico e alla piazza, residenze e progetti di lungo periodo. Info: www.santarcangelofestival.com Roberto Rizzente

Lo schiaccianoci dalla scena al 3D È uscito a dicembre il film Lo schiaccianoci 3D, basato sulle musiche dell’omonimo balletto e di altre opere del compositore Petr Chaikovskij. Nel cast attori del calibro di Elle Fanning, John Turturro e Nathan Lane. Secondo il regista Andrei Konchalovsky, si tratta di un musical che «comincia come un dolce sogno, si trasforma in incubo, e lascia al risveglio un senso di vittoria».

King Kong, l'opera Il festival OperaInCanto di Terni ha prodotto un’azione musicale grottesca e sentimentale in nove quadri tratta dal celebre film King Kong. Musicata dal compositore Fabrizio de Rossi Re su libretto di Luis Gabriel Santiago, tra gli interpreti annovera Roberto Abbondanza nel ruolo dello scimmione e Sonia Visentin nel ruolo che fu di Fay Wray, diretti dal maestro Fabio Maestri.

Con Scamarcio in backstage È stato presentato al Roma Film Festival il lungometraggio Io non sono io. Romeo, Giulietta e gli altri, diretto da Paolo Santolini. Si tratta di un documentario che segue Riccardo Scamarcio durante la realizzazione di Romeo e Giulietta, diretto da Valerio Binasco (lo spettacolo ver-

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rà ripreso all’Eliseo di Roma dal 31 gennaio al 12 febbraio 2012, poi in tournée). Info: www.teatroeliseo.it

Pupari d'Italia riuniti a Cecina Fino al 29 gennaio, presso la Fondazione Geiger a Cecina (Li), ha luogo la mostra “Burattini & Marionette. Il meraviglioso mondo del Teatro di Figura”. Si tratta di un’esposizione che riunisce burattini e marionette appartenenti alle grandi famiglie di burattinai, marionettisti e pupari italiani, da Pinocchio e Arlecchino al Mago di Oz e le maschere dell’Africa Nera. Info: www.fondazionegeiger.it

L'International Theatre Institute in Italia Si è insediato a Lecce il Centro Italiano dell’International Theatre Institute Unesco, fondato nel 1948 a Praga e forte, oggi, di quasi 100 sedi sparse per il mondo (a Parigi il Segretariato generale). Presidente è Fabio Tolledi, direttore artistico di Astràgali Teatro. Info: www.astragali.org

La tecnologia è di scena Non solo vip, alla prima della Scala dello scorso 7 dicembre. Per l’occasione sono stati allestiti in città schermi per

seguire in diretta l’evento (Ottagono, Teatro Ringhiera, Auditorium Cam zona3, Teatro Cooperativa, diversi cinema), oltre alle dirette radio (Rai3), Tv (Rai5) e, per la prima volta, su facebook e twitter. Info: www.teatroallascala.org

Nasce il sito del teatro asiatico Curato dalle orientaliste Marilia Albanese, Carmen Convito e Rossella Marangoni nasce il sito AsiaTeatro, rivista di studio per specialisti ma anche spazio accessibile a tutti i curiosi che qui potranno discutere e approfondire le conoscenze sul teatro asiatico oltre che restare aggiornati sugli appuntamenti dal vivo. Info: www.asiateatro.it

Die Mauer, una rassegna "altra" I Murazzi del Po, luogo per eccellenza della movida torinese, diventano palcoscenico per i giovani gruppi di teatro sperimentale. La rassegna Die Mauer, organizzata da Amalia De Bernardis per l’associazione Cantiere Altrigo, proporrà, infatti, fino a luglio il meglio della scena “alternativa” italiana. Info: cantierealtrigo.blogspot.com

Noceto, riapre il Moruzzi Dopo alcuni anni di chiusura obbligata a causa dell’assenza di fondi, ha riaperto il 10 dicembre scorso il Teatro Moruzzi di Noceto (Parma). La stagione, curata dall’associazione culturale Numeriprimi, dal Comune e dal circuito Teatronet, comprende ben 14 spettacoli, che spaziano dalla commedia ai grandi classici. Info: www.nocetoinscena.it

Nicolini e Barilla al Politeama Siracusa Riapre i battenti, dopo due anni, il Politeama Siracusa di Reggio Calabria. La gestione della storica e centrale struttura è stata affidata dalla Regione a un raggruppamento temporaneo (che include Università e associazioni) di cui è capofila la Fondazione Horcynus Orca. Direttori artistici sono Renato Nicolini e Massimo Barilla di Mana Chuma Teatro.

Il Verdi commissariato: Orazi a Trieste Giancarlo Galan, ormai ex ministro dei Beni Culturali, prima di lasciare il suo incarico ha indicato Claudio Orazi, in passato sovrintendente dell’Arena di Verona, come Commissario Straordinario della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste e Paolo Marchesi come suo vice. Info: www.teatroverdi-trieste.com

A Genova tornano le Buone Pratiche “Movimenti e istituzioni”: è questo il tema dell’ottava edizione delle Buone Pratiche, l’appuntamento annuale con Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino per discettare sui vizi e le migliorie al sistema-teatro in Italia, oggi in profonda trasformazione. L’appuntamento è fissato per il 25 febbraio alla Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, Genova. Info: info@ateatro.it, www.ateatro.it

Premio alla peruginità per Filippo Timi In occasione del suo spettacolo Giuliett’e Romeo, scritto in lingua perugina, Filippo Timi (foto sotto: Ivano Trabalza Studio) è stato insignito del premio alla cultura dell’Accademia della Peruginità. «Timi ha saputo egregiamente declinare – si legge nella motivazione – una sentita appartenenza alla peruginità nelle molteplici forme della comunicazione, della cultura, della letteratura e dello spettacolo».


la società teatrale Ora e sempre, Ubu

Alla Casolla il Premio Puccini È stato assegnato a Giovanna Casolla il XLI Premio Puccini. Soprano drammatico nota soprattutto per la sua interpretazione di Turandot, nel 2008 era stata chiamata a inaugurare il nuovo Teatro Lirico di Pechino. Info:www.puccinifestival.it

Nekrosius direttore a Vicenza Eimuntas Nekrosius, celebre regista lituano, sarà il nuovo direttore artistico del ciclo di spettacoli classici del Teatro Olimpico di Vicenza, appena staccatosi dal Teatro Stabile del Veneto. Un connubio inaspettato, che riserverà non poche sorprese. Info: www.olimpico.vicenza.it

Madeinchina vince Storie di Lavoro Il 29 ottobre 2011 è stato presentato al Supercinema di Tuscania Madeinchina di Roberto Capaldo, vincitore del Bando “Storie di Lavoro” promosso da Arci Percorsi e VentiChiavi Teatro. Menzione speciale per Brugole di Lisa Nur Sultan e per Schiavi in mano di EmmaATeatro.

L'arte e il foyer Luca Cipriano, presidente del teatro avellinese Carlo Gesualdo, ha deciso di affiancare alla consueta attività teatrale la promozione di altre espressioni artistiche. Così, per tutto l’anno, ogni mese il foyer del teatro ospiterà una mostra personale di pittori, scultori, artisti digitali, fotografi operanti sul territorio, comunale e regionale. Info: www.teatrogesualdo.it

Le dimissioni di Sciarelli Il 14 novembre scorso, nel corso dell’Assemblea dei Soci, Sergio Sciarelli ha presentato le sue dimissioni dalla presidenza dell’Associazione Teatro Stabile della città di Napoli, rinunciando altresì alla carica di consigliere di amministrazione dell’ente teatrale partenopeo. Info: www.teatrostabilenapoli.it

Era il 12 dicembre del 2010 quando Franco Quadri, al Piccolo Teatro di Milano, introdusse la 33ª edizione dei Premi Ubu. È passato un anno. Quadri non c’è più. Ma la sua creatura più celebre è sopravvissuta, nello stesso luogo e nella stessa data, con lo stesso presentatore, Gioele Dix. Merito, certo, dei figli, Jacopo e Lorenzo, ma anche e soprattutto della casa editrice che, a dispetto della crisi, in collaborazione con Leonardo Mello, Renata Molinari, Gianandrea Piccioli, Oliviero Ponte di Pino, Renato Quaglia e Cristina Ventrucci, molto si è prodigata per salvaguardare questo importante patrimonio del teatro italiano, documentando la stagione di riferimento (consultabile al link www.ateatro.org/premioubu.asp) e intercettando nuovi fondi ed energie (il contributo di Unicredit e la diretta in streaming su www.studio28. tv). E proprio per sottolineare la continuità con il passato, sono stati i vincitori dell’edizione 2010 a incoronare i successori del 2011: The History Boys di Bruni e De Capitani e Dopo la battaglia di Pippo Delbono (spettacolo dell’anno); Valerio Binasco e Mario Martone (regia per Romeo e Giulietta e Operette morali); Gianrico Tedeschi (attore); Federica Fracassi e Mariangela Melato (attrice); Luca Micheletti (attore non protagonista); Ida Marinelli (attrice non protagonista); i ragazzi di History Boys (attore under 30); Maurizio Balò (scenografo); The End di Babilonia Teatri (novità italiana-foto sotto); Lucido di Spregelburd (novità straniera); Vollmond del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch (spettacolo straniero); Teatro Povero di Monticchiello, Festival Prospettiva di Torino, la Trilogia sull’individuo speciale di Mario Perrotta, Rai Radio3, Virgilio Sieni, Teatro Valle Occupato (premio speciale); Anna Galtarossa (premio Alinovi) e Menoventi (premio Rete Critica). Nomi che, magari, potranno non accontentare qualcuno - considerando anche i meccanismi di votazione e la giuria, identici al 2010 - ma che insieme disegnano un quadro sufficientemente compiuto del made in Italy. Info: www.ubulibri.it

Roberto Rizzente

A Taddrarite il Premio Linutile È stata la compagnia Accura Teatro di Marsala, con Taddrarite, a vincere la terza edizione del Premio Linutile del Teatro 2011, dedicata alle Lingue d’Italia. La premiazione ha avuto luogo a dicembre al Comunale Quirino de Giorgio di Vigonza (Pd). Info: info@teatrodelinutile.com

Sigilli al Teatro Ghione Il Teatro Ghione di Roma figura tra i beni sequestrati dalla Dia di Reggio Calabria a un imprenditore immobiliarista romano, Federico Marcaccini, coinvolto nell’operazione “Overl o a d i n g ”, c o n d o t t a l o s c o r s o dicembre contro un’organizzazione di trafficanti di droga legata alla ‘ndrangheta.

Rete Matta La composita Rete “Artisti per il Matta” ha ottenuto dal comune di Pescara la gestione dell’Ex Mattatoio. Si tratta di un ampio ambiente ristrutturato e riadattato come spazio funzionale per le arti contemporanee. Obiettivo della Rete è quello di fare del Matta un “centro di incontro” e un “laboratorio permanente” per la realizzazione di progetti e proposte artistiche innovative.

Lindsay Kemp trionfa a Capri Il settantatreenne Lindsay Kemp, coreografo, attore, ballerino, mimo e regista inglese amatissimo in Italia, è stato premiato lo scorso dicembre con il Capri Legend Award. L’assegnazione del riconoscimento è avvenuta a Capri nel corso della XVI edizione del festival internazionale “Capri, Hollywood”. Info: www.caprihollywood.com

Ridi, da Torino al web La rassegna “RidiTorino e Dintorni”, che dal 2011 ha assunto la denominazione di “Ridi”, su scala regionale, ha inaugurato il nuovo sito www.ridi.it, dove è possibile acquistare i biglietti e trovare le informazioni sugli eventi in programma. Info: www.ridi.it

Discovering Maria Callas Distribuito da Emi Music, è uscito The Callas Effect, doppio cd con le arie più famose del soprano di origine greca. In allegato un dvd contenente un documentario appositamente realizzato, dove è possibile conoscere la Callas non solo nella sua dimensione artistica, ma anche negli aspetti più privati. Info: www.emimusic.it

Bari incorona Carla Fracci Lo scorso dicembre il sindaco di Bari Michele Emiliano ha consegnato le chiavi della città a Carla Fracci, indi-

menticabile etoile internazionale della danza. La celebrazione era inserita all’interno delle iniziative promosse dal Conservatorio Niccolò Piccinni per onorare il centenario della nascita del compositore Nino Rota.

Un portale per Torino e dintorni È nato D-Com, il portale di consultazione, comunicazione e scambio tra i media e le realtà culturali emergenti nel panorama torinese e non solo. Diretto da Francesca Chiappero, l’iniziativa è nata da Dreamsforteens, onlus che organizza eventi culturali e che ha creato anche il webmagazine culturale www.d-mag.it. Info: www.comunichiamocultura.com

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la società teatrale

Un Bed&Breakfast per il teatro

Giulio Costa trionfa al Cappelletti Giulio Costa è il vincitore dell’ottava edizione del Premio Tuttoteatro. com alle arti sceniche “Dante Cappelletti”, istituito dall’Associazione Tuttoteatro.com con la direzione di Mariateresa Surianello. Il suo Giro solo esterni con aneddoti (foto sopra), parte integrante del più ampio progetto Manufatti Artigiani, dedicato ai mestieri dell’uomo, ha incontrato, lo scorso dicembre al Teatro India di Roma, i favori della giuria, presieduta da Paola Ballerini (nipote di Cappelletti) e composta da Roberto Canziani, Gianfranco Capitta, Massimo Marino, Renato Nicolini, Laura Novelli, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello e Aggeo Savioli. Il progetto di Costa, prodotto dal Teatro Comunale di Occhiobello e Arkadis, si è imposto per la «maturità interpretativa» degli attori, Marco Sgarbi e lo stesso Costa, e la «capacità di costruzione del personaggio», aggiudicandosi il premio di produzione di € 2.000 e conquistando il voto della giuria popolare, presieduta da Giorgio Testa, in collaborazione con il Centro Teatro Educazione (Cte). Info: www.tuttoteatro.com.

Sorge nel quartiere di piazza Bologna a Roma “Giorni felici”, il nuovo bed&breakfast teatrale. Tra le attrattive, i poster a tema, la biblioteca e l’ospitalità degli spettacoli “d’appartamento”. Info: www.bbgiornifelici.it

Arrivano le anoressiche alla Scala di Milano Una ballerina della Scala su cinque è anoressica o bulimica. È la sconcertante rivelazione di Mariafrancesca Garritano, membro del corpo di ballo del teatro, all’Observer. Sullo stesso tenore il volume della Garritano, La verità, vi prego, sulla danza.

Via M.K.Gandhi 34 – 37050 Oppeano (Vr): è questo l’indirizzo della nuova casa di Babilonia Teatri, la compagnia vincitrice dell’undicesima edizione del Premio Scenario. Info: www.babiloniateatri.it

Un documentario per Franca Valeri

Evening Standard Theatre Awards

Nuova casa per Babilonia Teatri Il nuovo museo del San Carlo

Ha raccolto diversi successi in Molise il progetto “Movi-mente... e si aprono i sipari”, a cura dell’associazione di volontariato “Incontrarsi Onlus”. Al centro dell’iniziativa, una neonata compagnia teatrale itinerante, composta da diversamente abili e pazienti del centro di salute mentale dell’Asrem di Termoli.

È stato inaugurato a Napoli Memus, l’avveniristico museo e archivio storico del teatro San Carlo. Multisensoriale e interattivo, propone un affascinante viaggio nella storia del teatro, con un occhio di riguardo per le nuove generazioni. Info: www.teatrosancarlo.it

Cambi in vista al Pim Off Sarà Adriano Gallina il nuovo consulente organizzativo, fino a luglio, del Pim Off. Mantiene la direzione artistica della danza Barbara Toma, mentre la sezione prosa sarà gestita collegialmente. Confermata, per il 2012/2013, la stagione voluta dall’ex direttore artistico, Edoardo Favetti. Info: www.pimoff.it

Premio Metauro alla Gualtieri L’attrice e autrice Mariangela Gualtieri, anima del teatro Valdoca, si è aggiudicata con Bestia di gioia la diciottesima edizione del Premio Letterario Metauro, assegnato nel novembre scorso a Fermignano (Pu). Info: www.premiometauro.it

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A Fanny&Alexander il Premio dello Spettatore È’ andato a West di Fanny&Alexander, con Francesca Mazza, il Premio dello Spettatore 2011, giunto alla sesta edizione e annualmente assegnato da Teatri di Vita allo spettacolo della passata stagione più gradito dal pubblico. Info: www.teatridivita.it

Chiude Art'O È uscito il 21 dicembre, nel solstizio d’inverno, l’ultimo numero di Art’O, la pubblicazione indipendente dedicata alla performing arts, fondata nel 1998 e diretta da Gianni Manzella. Art’O è parte di Team Network, rete europea delle riviste del settore. Info: www.art-o.net

Riaperto il Bolshoi Dopo sei anni di restauri è stato riaperto il teatro Bolshoi di Mosca. La serata di gala è stata trasmessa in diretta dalla televisione russa e in moltissimi cinema in tutto il globo. Vip (tra cui Carla Fracci) e uomini politici hanno presenziato all’evento. Lo spettacolo è stato una summa della gloriosa storia del teatro, iniziata a sorpresa con una scenografia-cantiere, in omaggio al grande lavoro appena concluso. L’orchestra e il coro della Scala hanno già calcato le scene del nuovo teatro, inaugurando quello che secondo il sovrintendente Lissner sarà un «grande scambio culturale». Info: www.bolshoi.ru

Roberto Rizzente

Una compagnia per disabili

che gli valse la nomination agli Oscar e conquistando in seguito la fama di artista eccentrico e provocatorio con I diavoli, scandalo alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1971. Dedicatosi negli ultimi anni della carriera alla regia d’opera per inserirsi nel 2009 con Mindgame anche nella scena off-Broadway, il regista insieme alla moglie, l’attrice Lisi Tribble, stava lavorando al momento del decesso a un musical tratto dalla versione cinematografica di Alice nel paese delle meraviglie.

È stato presentato al Roma Film Festival nella sezione Extra il documentario Franca la prima, analitico e affettuoso omaggio a Franca Valeri realizzato da Sabina Guzzanti. Info: www.sabinaguzzanti.it

MONDO Ultimo saluto a Ken Russell È morto durante il sonno a Southampton, all’età di 84 anni, il regista inglese Ken Russell. Dopo il passato di pilota della Raf, coreografo e fotografo, Russell approda alla regia negli anni ‘60 raggiungendo il successo internazionale con Donne in amore (1969)

È stata all’insegna del “doppio” la consegna degli Evening Standard Theatre Awards 2011: Benedict Cumberbatch e Jonny Lee Miller si sono aggiudicati il premio come miglior attore per la loro interpretazione nel Frankenstein allestito al National Theatre; mentre Richard Bean ha vinto quale miglior drammaturgo grazie a due sue opere, The Heretic e One Man Two Guvnor. Riconoscimenti anche per Tom Stoppard, vincitore del Moscow Art Theatre’s Golden Seagull per il contributo al teatro russo. Info: www.officiallondonguide.co.uk

I cattolici contro Castellucci È dal debutto del 20 ottobre che un gruppo d’integralisti cattolici sotto la guida di Renouveau France ha manifestato di fronte al Thèâtre de la Ville contro Sul concetto del volto del figlio


la società teatrale

di Dio di Romeo Castellucci, accusandolo di blasfemia e cristianofobia e cercando più volte di causarne l’interruzione. Il direttore del teatro Emmanuel Demarcy-Moto si è detto indignato, considerando che l’opera è stata presentata senza problemi in paesi come Polonia, Italia e Spagna, e ha lasciato così proseguire lo spettacolo. Info: www.raffaellosanzio.org

Gli attori della Scala per Chéreau Grande successo di botteghino e di pubblico a Berlino per Aus Einem Totenhaus, opera tratta da Memorie di una casa di morti di Fedor Dovstoevskji e diretta da Patrice Chéreau, che ha aperto la stagione operistica dello Statsoper Unter den Linden. Per l’occasione, Chéreau ha scelto 16 attori della Scala, già interpreti della prima versione dell’opera, nel 2010. Ridotta in lingua ceca, Aus Einem Totenhaus è il frutto di una ricerca sperimentale basata sull’improvvisazione.

Morto John Neville Il 19 novembre a Toronto è morto l’attore inglese John Neville all’età di 86 anni. Attore presso l’Old Vic Theatre company negli anni Cinquanta Neville ha spartito il palco nel ruolo di Otello e Iago con Richard Burton per poi negli anni Sessanta diventare direttore artistico del Nottingham Playhouse. Trasferitosi in Canada nel ‘72 ha diretto infine il Citadel Theatre di Alberta e lo Stratford Shakespeare Festival, conquistando l’Obe nel 1965 e l’Ordine del Canada del 2006.

La moda francese della colletta In momenti difficili, le istituzioni culturali s’ingegnano come possono. In Francia sembra funzionare il vecchio metodo della “colletta”. Dopo il Louvre, che ha acquistato un dipinto grazie a una raccolta fondi on-line, è toccato al teatro Bouffes du Nord di Parigi, orfano di Peter Brook, chiedere l’intervento del pubblico per la produzione di O Mensch, opera di Pascal Dusapin sui poemi del filosofo Friedrich Nietzsche. Info: www.bouffesdunord.com

I vincitori dell'Altro Festival Sono Somari della compagnia Kilodrammi e lo spettacolo Eroi in fumo di La luna nel pozzo gli spettacoli vincitori della sesta edizione del Concorso di teatro-ragazzi “L’Altro Festival” nell’ambito di Fit/Festival Internazionale del Teatro, entrambi premiati dalla giuria rispettivamente per il carattere energico ed evocativo rivolto allo sviluppo delle tematiche adolescenziali. Info: www.teatro-pan.ch

Teatro palestinese in lutto Lo scorso ottobre è morto, forse suicida, il drammaturgo palestinese Francois Abu Salem. Fondatore e direttore artistico del Teatro Nazionale Palestinese, aveva dedicato tutta la sua vita al teatro, portando in Palestina molte opere prima sconosciute, tra cui Mistero Buffo di Dario Fo.

Terron & Sipario per la drammaturgia

premi

London Theatre Guide per le Olimpiadi

Al via il Premio delle Arti Petroni

È stata ideata dalla Society of London Theatre, in collaborazione con la società del trasporto pubblico cittadino, una guida destinata agli amanti del teatro, con informazioni relative agli orari dei mezzi pubblici e degli spettacoli nel corso del congestionato periodo olimpico, in programma nell’estate 2012. Info: officiallondontheatre.co.uk/ theatre2012

Residenza Idra/Teatro Inverso promuove la terza edizione del Premio delle arti Lidia Anita Petroni, rivolto alle compagnie emergenti del territorio lombardo. La giuria, presieduta dalla direzione artistica di Teatro Inverso/Idra, sceglierà 6 progetti bresciani e 3 lombardi che dovranno essere sviluppati in uno studio di massimo 25 minuti. Il vincitore otterrà una residenza di produzione presso il teatro e un contributo in denaro di euro 1.000 Le domande dovranno pervenire entro il 31 gennaio 2012 all’indirizzo: vicolo delle Vidazze 15 – 25122 Brescia. Info: teatroinverso@teatroinverso.it

American Idiot sbarca a Londra American Idiot, il musical ispirato all’omonimo concept album dei Green Day (foto a lato), dopo una lunga permanenza a Broadway e una tournée americana sta per sbarcare nel vecchio continente. Toccherà Scozia e Irlanda, per concludersi con una settimana di programmazione (4-9 dicembre 2012) al teatro Hammersmith Apollo di Londra. Info: http://venues.meanfiddler.com/ apollo/

tro Libero dal 16 aprile 2012, è bandito il concorso di microdrammaturgia “Facelook” per nuovi testi di 3’. In palio, un workshop gratuito a Milano e la realizzazione dei soggetti vincitori per la serie virale FaceLook (c). Il concorso è esteso anche ad aspiranti registi. Scadenza, marzo 2012. Info: inindie@gmail.com

Facebook award In occasione del 1° Fab&Furious Fast Festival, showcase della creatività crossover che si terrà a Milano al Tea-

“Autori italiani” è il titolo del concorso di drammaturgia bandito dalla Fondazione Teatro Italiano Carlo Terron e Sipario. Tre le sezioni, monologhi, opere a 2 o 3 personaggi. I testi vanno inviati entro il 31 gennaio all’indirizzo: Sipario, via Rosales 3, 20124 Milano. La quota di partecipazione è di euro 20. Sono previste letture pubbliche e la promozione delle opere vincitrici presso Organismi di produzione riconosciuti dal Ministero. Info: www.sipario.it

Cortinscena per under 30 Scripta Volant, in collaborazione con S.I.A.D. (Società Italiana Autori Drammatici) e Associazione Culturale Xenia, presenta la prima edizione di Cortinscena, per artisti sotto i 30 anni. La premiazione avverrà il 28 maggio al Teatro Manzoni di Roma. I vincitori saranno pubblicati su Sipario. È possibile inviare il materiale entro e non oltre il 31 marzo a cortinscena@hotmail.it. Info: www.associazionescriptavolant.it

Libera a Teheran Marzieh Vafamehr È stata rilasciata (sembra per riduzione della pena) l’attrice Marzieh Vafamehr, condannata dal governo iraniano a 90 frustate e un anno di carcere per essere apparsa a volto scoperto nel film My Teheran for sale. Nel film per la prima volta si raccontano le difficoltà di un’attrice teatrale a Teheran.

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la società teatrale

Roma, parte il premio Diversamente Stabili Il gruppo GNuT, in collaborazione con il Teatro Manhattan di Roma, ha indetto il concorso “Diversamente stabili” per corti teatrali di 15-20 minuti e non più di tre attori. I testi sono da inviare, per tutta la stagione, a diversamentestabili@hotmail.it. Sono previsti premi in denaro e una settimana in cartellone al Teatro Manhattan per la Stagione 2012/2013.

Short Basilicata L’Unione Italiana Libero Teatro Basilicata e il Centro Studi U.I.L.T. Basilicata indicono la II edizione del Concorso Nazionale per Corti Teatrali “RitagliAtti”, rivolto allle compagnie amatoriali iscritte a una Federazione (Uilt., Fita, Tai). Il lavoro deve essere della durata massima di 15-17 minuti e per non più di quattro attori. Il bando scade il 30 gennaio 2012. Info: mariadelpopolo@teletu.it, basilicata@uilt.it

Al via l'ottavo Fersen Scade il 15 marzo il bando per l’ottava edizione del Premio Fersen. I testi candidati alle due sezioni opera drammaturgia e monologo dovranno pervenire all’indirizzo Editoria&Spettacolo, via della Ponzianina 65 – 06049 Spoleto (Pg). È prevista la pubblicazione del testo vincitore. Info: www.editoriaspettacolo.it

La fede in scena Il 31 gennaio è la scadenza del Premio “Beato Giovanni Paolo II”. Alle compagnie ammesse alla rassegna di aprile verrà chiesto uno spettacolo di 15 minuti, ispirato al Nuovo Testamento. Inviare materiali a: Alfonso Piccirillo - via De Michele 36 – 71038 Pietramontecorvino (Fg). Info: tel. 333.4739833, 347.2711112, a-piccirillo@libero.it

Torna Teatri di Vetro Il 20 gennaio è il termine ultimo per partecipare alle selezioni della sesta

edizione di Teatri di Vetro a Roma. Tre le sezioni: danza, performance e videodanza e videoteatro. I materiali vanno inviati a: Teatri di Vetro, Teatro Palladium, piazza Bartolomeo Romano 8, 00154 Roma. Info: www.teatridivetro.it, www.triangoloscalenoteatro.it

Premio La Guglia d'oro Scade il 1 marzo il Premio “La Guglia d’oro” 2012 di Agugliano (An), per due volte insignito della medaglia d’argento della Presidenza della Repubblica e riservato al teatro dialettale. La quota di iscrizione è di euro 40, le opere selezionate verranno ammesse al Festival in programma tra il 22 giugno e il 1 luglio. Info: www.associazionelaguglia.it

corsi Drammaturgia attiva con Baby Gang “Raccontami una bugia” è il titolo del laboratorio di drammaturgia attiva organizzato dal 19 marzo al 16 maggio all’Arci Bellezza e al neonato spazio “Linguaggi creativi” da Carolina De La Calle Casanova per Baby Gang. Tra i docenti, Enzo Cinaski, Michele Mele, Piero Colaprico, Paolo Rossi, Lino Musella e Piero Mazzarelli, Claudia Cannella. Info: www.compagniababygang.wordpress.com

Una borsa di studio per organizzatori teatrali L’Associazione Iolanda Gazzerro promuove un bando per l’assegnazione di una borsa di studio pari a euro 8.000 per un tirocinio formativo sulla professione di organizzatore teatrale che si terrà per un periodo di 10 mesi presso Emilia Romagna Teatro Fondazione, in cui si affiderà ai partecipanti un periodo di permanenza presso uno dei teatri europei partner del progetto Prospero. Ammessi unicamente giovani al di sotto dei 30 anni che dovranno presentare domanda entro il 31/3/2012. Info: www.iolandagazzerro.it, www.emilianomagnateatro.com

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A lezione con la Valdoca Dal 14 al 18 marzo 2012, presso l’Arboreto di Mondaino (Rn), Cesare Ronconi terrà il laboratorio “Il cerchio del vento”, aperto ad attori e danzatori. Il laboratorio rientra nella fase di residenza artistica che porterà il Teatro della Valdoca al compimento del progetto Trilogia della gioia. Inviare materiali a: teatrodimora@arboreto.org entro e non oltre il 9 febbraio 2012. Info: www.arboreto.org, www.teatrovaldoca.org

Perugia biomeccanica Dal 30 Aprile al 12 Maggio 2012 avrà luogo a Perugia la XVII edizione del Corso di Formazione specialistica di Biomeccanica Teatrale di Mejerchol’d, diretto da Gennadi Nikolaevic Bogdanov. Il corso sarà composto da sessanta ore di attività pratica e da otto di attività teorica. L’iscrizione è aperta ad attori, danzatori, ballerini, cantanti lirici, registi e studenti anche con poca esperienza. Info: www.microteatro.it

Workcenter Grotowski Si svolgerà dal 18 al 29 luglio 2012, presso il Workcenter di Jerzy Grotowski e di Thomas Richards, il secondo Summer Intensive Program. La quota è di euro 1.200. Per partecipare è necessario inviare una mail con il proprio curriculum e una lettera di motivazione a workshop@theworkcenter.org. Info: www.theworkcenter.org

La scuola di Balletto Civile Avrà luogo dal 17 al 19 febbraio il laboratorio condotto da Michela Lucenti e Maurizio Camilli di Balletto Civile, che hanno scelto come titolo “Corridori, camminatori. Lezioni per una drammaturgia senza parole”. Il workshop è organizzato dal Teatro Portland di Trento, costo euro 100. Info: www.teatroportland.it

Hanno collaborato: Paola Abenavoli, LauraBevione, Mario Bianchi, Fabrizio Sebastian Caleffi, Lucia Cominoli, Giorgio Finamore, Marta Vitali.




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