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III. L’ALONE DI LUCE ATTORNO AL BUDDHA NELL’ICONOGRAFIA E NEI TESTI CANONICI

La luce nell’arte

iv. luci di bisanzio

13. Mosaico absidale della vergine Maria e gli arcangeli Michele e Gabriele inella chiesa di Angeloktisti a Kiti Village, vicino alla città di Larnaca, Cipro.

La luce nell’arte

A fronte: 14. Tessalonica, Santa Sofia, Ascensione, mosaico della cupola.

15. Kiev, Santa Sofia, Madre di Dio orante, mosaico absidale.

Alle pagine seguenti: 16. Annunciazione di Ustjug, Galleria Tret’jakov, Mosca e particolare della testa dell’angelo della Deesis angelica, Galleria Tret’jakov, Mosca.

iv. luci di bisanzio

La luce nell’arte

Alle pagine seguenti: 16. Il Pantocratore circondato da profeti nella cupola del naos della chiesa del monastero della Pammakaristos. Xxxxxxx

La luce nell’arte 17. Madre di Dio con il Bambino, Santa Maria ad Martyres (Pantheon), Roma. 18. Cristo Pantocratore, monastero di Santa Caterina del Sinai. Xxxxxxx

La luce nell’arte

19. Vignetta che illustra una pagina del manoscritto di Giovanni Climaco, secondo G. Duthuil. A fronte: 20. Mosaico della Scala del Paradiso di Giovanni Climaco, xii secolo, Monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto. Xxxxxxx

V. LA TRASFIGURAZIONE NELL’ARTE MEDIEVALE IN OCCIDENTE (IX-XVI SECOLO)

di François Bœspflug

A fronte: 1. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe, Trasfigurazione, mosaico absidale. Se c’è un episodio della vita del Cristo in cui il tema della luce è evidenziato, quello è per eccellenza la Trasfigurazione (metamorphosis) (Tav. 1). L’episodio è riportato dai tre Vangeli sinottici1 ed è evocato nella seconda Lettera di Pietro. La cornice in cui si svolge è costituita da una montagna che gli evangelisti non nominano. Cirillo di Alessandria suppose che si trattasse del monte Tabor e la sua ipotesi divenne tradizione. I tre racconti concordano sugli spettatori privilegiati (Pietro, Giacomo e Giovanni) e sulle cinque fasi della teofania:

1. Il viso e gli abiti di Gesù assunsero un aspetto molto luminoso, «sette volte più brillante del sole» (Apocalisse di Pietro); la trasformazione del viso di Mosè che ridiscende dal Sinai (Es 34, 29: «La pelle del suo volto era divenuta raggiante») è modellata sulla trasformazione del viso di Gesù durante la sua Trasfigurazione. 2. Mosè ed Elia apparvero intrattenendosi con Gesù. 3. Pietro propose di montare tre tende. 4. Sopraggiunse una nube luminosa che avvolse i discepoli con la sua ombra, e dalla quale una voce, parlando di Gesù, disse: «Costui è il mio Figlio prediletto» 5. I discepoli constatarono allora che Gesù era solo.

Le principali divergenze tra i racconti concernono la descrizione della montagna (alta per Mt e Mc), lo scopo della salita (secondo Lc per pregare), il volto di Gesù (brillante come il sole per Mt, divenuto altro per Lc), il soggetto della conversazione di Mosè ed Elia con Gesù (il suo esodo a Gerusalemme, Lc), il tema del sonno mistico, della visione della gloria e del terrore dell’ingresso nella nube (Lc), Gesù che riunisce i discepoli (Mt) e che affida loro un segreto (Mt e Mc).

la luce nell’arte

Mentre l’aspetto teofanico di questa scena nell’arte bizantina o orientale è stato largamente analizzato2, l’iconografia occidentale della Trasfigurazione, invece, non è stata oggetto di studi sintetici3. Lo scopo che ci si propone in questa sede non è quello di presentarla nel suo insieme, fosse anche in modo superficiale, ma solo di suggerire, con l’aiuto della lettura di qualche opera come questa immagine si è strutturata, particolarmente nell’arte romana e nell’arte gotica. Dopo aver richiamato brevemente alcuni elementi che concernono l’istituzione della festa nelle liturgie dell’Oriente e dell’Occidente, si passerà a descrivere, sull’esempio del mosaico di Santa Caterina del Sinai, lo schema canonico orientale da cui gli artisti latini si allontaneranno per creare altri schemi di composizione. Con le implicazioni di questi nuovi schemi concluderemo l’analisi del nostro studio.

I. L’Oriente cristiano attribuisce una notevole importanza all’icona della Trasfigurazione. Dall’insegnamento esicasta in poi, in particolare quello di Gregorio Palamas, essa è diventata l’archetipo e la chiave di tutta l’arte dell’icona, che si propone come arte teologica della metamorfosi del Cristo e della partecipazione alla restaurazione gloriosa dell’immagine di Dio nell’uomo. Il favore di cui gode l’icona della Trasfigurazione deve molto all’antichità della festa nelle chiese d’Oriente: quelle di Armenia e di Siria hanno cominciato a celebrarla con ogni probabilità fin dal iv secolo4 , quella di Gerusalemme (compresa la penisola del Sinai che ne dipendeva) la festeggiava il 6 agosto fin dal vii secolo5. Il mosaico del monastero di Santa Caterina, terminato nel 566, permette con ogni probabilità di far risalire l’esistenza della festa al vi secolo.

In Occidente, benché il racconto della Trasfigurazione sia stato letto almeno dal vii secolo in poi durante la Quaresima, in particolare il sabato della seconda settimana (il sabato dei Quattro-Tempi)6, l’avvenimento non sembra aver avuto diritto a una festa liturgica prima del ix secolo, data in cui questa è attestata per la prima volta in Spagna7. La storia della sua antica denominazione («Festa del Santo Salvatore») e della sua lenta diffusione presso i latini, che spiega sia la relativa rarità delle opere d’arte monumentale su questo tema, sia la loro presenza nelle chiese dedicate al Salvatore8, meriterebbe di essere ricostruita accuratamente9. Comunque sia, la festa figura nei martirologi degli archivi capitolari di Vich, risalenti al x secolo. «I manuali liturgici di Montecassino presentano la festa fin dall’xi secolo. È probabile che da Cassino sia stata trasmessa a Cluny, che, a sua volta, la diffuse alle sue filiali a partire dal 1131»10. Pietro il Venerabile (1092-1156), che fu abate di Cluny dal 1122 alla sua morte, istituì, infatti, nel suo ordine questa festa, di cui riconosceva l’importanza per la teologia monastica11. Da lì, essa si diffonde in Francia e in Italia. Ma è soltanto nel 1457 che Callisto iii l’iscriverà nel calendario romano12, il 6 agosto (costituzione Inter Divine), col rango di festa obbligatoria e doppio rito maggiore.

II. La storia del tema, nell’arte, si profila dal iv secolo in poi, con la Lipsanoteca di Brescia (seconda metà del iv secolo) e la porta di Santa Sabina (verso il 430). Ma nell’arte monumentale comincia solo nel vi secolo. Ci sono stati conservati due mosaici che hanno in comune il fatto di vedere nella Trasfigurazione, come anche i Padri (così Giovanni Crisostomo)13 , una visione celeste prefigurante la seconda venuta. Il primo in ordine cronologico (549), quello dell’abside di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, è un hapax: fungendo da Cristo trasfigurato, una grande croce, che evoca quella della Parusia, appare su un fondo blu pieno di stelle, circondata da una mandorla circolare con un’immagine del Cristo in medaglione14 all’intersezione delle braccia. L’altro mosaico del vi secolo è quello del monastero di Santa Caterina del Sinai15 (Tav.2). Il Cristo vi appare frontalmente, maestoso, in piedi tra i testimoni della sua teofania, dotato di un largo nimbo crocifero. Esso si staglia su una mandorla il cui azzurro diventa sempre più intenso a mano a mano che si va dalla periferia verso il Cristo. Notevole è l’influenza del pensiero dello pseudo-Dionigi l’Areopagita sulla luce sovraessenziale della divinità, che eccede talmente la capacità di percezione umana da sembrare oscura. La mandorla si staglia sul fondo dorato dell’abside. L’opera privilegia, dunque, l’esperienza centrale della Trasfigurazione rappresentata dalla visione di luce (to oqala, Mt 17,9) e a tale scopo il monte Tabor è stato eliminato. Le vesti del trasfigurato sono bianche, conformemente al testo dei Sinottici, ma orlate da ombre violette e strisce dorate. Dal Cristo si sprigionano otto flussi luminosi, possibile eco di un inno della festa: «Dal tuo corpo emanano i raggi della tua divinità, che illuminano i profeti e gli apostoli»16. Dalle due parti, sullo stesso livello degli apostoli, a destra Mosè con la barba e a sinistra Elia. Entrambi fanno un gesto di allocuzione: discutono con Cristo del suo prossimo «esodo» (Lc 9,11). Giacomo a destra e Giovanni a sinistra, inginocchiati, manifestano il loro stupore; sono in piedi, mentre Pietro, al centro sotto la mandorla, è ancora disteso e contempla la scena. Essa è inquadrata in una cornice ornata di trentuno medaglioni con i donatori (indicati da aureole quadrate), alcuni apostoli e profeti. In alto, sulla verticale del Cristo, il medaglione di David, antenato del Cristo e modello degli imperatori bizantini; in basso, sull’arco trionfale a tutto sesto, circondato dalle stesse bande azzurre del Cristo in piedi nella mandorla, si vede l’Agnello che si staglia sulla croce, adorato da due angeli in volo che recano i globi e gli scettri, sinonimi delle Vittorie della tarda antichità, e offrono al Cristo l’oikoumene. Sopra, in due pannelli rettangolari, due episodi della vita di Mosè che si ritiene si siano svolti in quello stesso luogo: la teofania del roveto ardente e il dono della Legge sul Sinai, che prefigurano ognuno un episodio della vita del Cristo (rispettivamente l’incarnazione e il dono della Nuova Alleanza). Dentro un medaglione, ai piedi degli angeli, Giovanni Battista e la Vergine Maria.

Tale iconografia è canonica nel senso che rappresenta contemporaneamente l’espressione dell’ortodossia e il modello dell’iconografia successiva. Le sue caratteristiche si ritroveranno, infatti, nel mosaico di Dafne17 (1100 circa), in seguito nell’icona in mosaico del Louvre18 (Tav. 3), in un tetravangelo greco-latino della metà del xiii secolo19, in un manoscritto delle Opere teologiche di Giovanni Cantacuzeno, illustrato verso il 137020 ecc. Quanto alla sua ortodossia, il mosaico del Sinai è strettamente conforme alla Confessio rectae fidei di Giustiniano, il cui testo fu affisso come editto sui portali di tutte le chiese dell’Impero nel 551. D’altra parte il mosaico presenta una delle prime utilizzazioni della mandorla che riesca a significare simul-

Alle pagine successive: 2. Mosaico dell’abside del Monastero di Santa Caterina del Sinai, 565-566 ca.

v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

la luce nell’arte Il colore nel Quattrocento

la luce nell’arte

A fronte: 3. Pannello in mosaico della Trasfigurazione, fine del xii secolo, Musée du Louvre, Parigi.

v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

taneamente il tempo e l’eternità, la «doxa storica» e la «doxa eterna»21 . Da un punto di vista iconografico si tratta della prima apparizione di uno schema che sarà seguito fino ai suoi limiti estremi (se ne troverà una tardiva codificazione nel manuale di Dionigi di Fourna)22: un Cristo avvolto da una mandorla di luce (elemento che raramente è assente)23, ovale quando è selettiva e racchiude solo il Cristo, circolare quando include, parzialmente o per intero, anche i due profeti24; Cristo, Mosè ed Elia collocati allo stesso livello; Elia a sinistra e Mosè a destra con un libro in mano (il Pentateuco): la mandorla non rappresenta tanto la trasfigurazione del corpo di Cristo, lo splendore del suo viso (che niente può riprodurre) o la brillantezza delle sue vesti, quanto la sua gloria e la sua natura divina; lo stesso rilievo dato alla luce irradiante da Cristo, distinta dalla sua gloria; le stesse divergenze tra le immagini e i testi sinottici (assenza della traduzione della voce del Padre25, della nube, dell’annuncio della Passione e della Resurrezione ecc.).

III. Torniamo ora in Occidente. Alcune immagini consentiranno di rilevare come gli artisti elaboreranno schemi differenti. Noi li classificheremo in base a un ordine di distanza crescente rispetto al canone bizantino. 1. Il canone bizantino è talvolta ripreso in modo identico o quasi: la Trasfigurazione della vetrata della Passione a Chartres (Tav. 4) e quella dell’affresco del Puy hanno avuto come modello quello illustrato nel quadro in mosaico del Louvre26. Un manoscritto bolognese della fine del xiii secolo riproduce, tra le dodici illustrazioni a tutta pagina di una decorazione bizantineggiante, una Trasfigurazione27 conforme allo schema canonico (Tav. 5). Il fondo blu e bianco della mandorla e le vesti bianche del Cristo non possono non far pensare al mosaico del Sinai. 2. Una serie di immagini occidentali testimonia un discostarsi deliberato rispetto al canone bizantino, in particolare per la riproposizione della mandorla priva dei raggi.

Nel Salterio di Utrecht28 , «la Trasfigurazione è concepita come un’apparizione trionfale a cui assiste una moltitudine di testimoni»29 (Tav. 6). Essa illustra il Cantico di Isaia 12,3: «Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. Attingerete con gioia alle fonti della salvezza», de fontibus Salvatoris. L’accostamento tra il tema del Salvator e la Trasfigurazione era tradizionale30. L’artista conosce lo schema canonico ma se ne discosta. All’interno della mandorla ovale (Tav. 7) il Cristo è in piedi su un rilievo; ha un’aureola crocifera e tiene in mano una croce ad asta lunga: si tratta dunque del Risorto; all’altezza della testa alcune pennellate suggeriscono il cielo (o la doxa): il Cristo si trova tra Mosè ed Elia, entrambi in piedi, senza nimbo, situati più in basso – è l’esempio più antico di una disposizione gerarchica, frequente nelle immagini occidentali della Trasfigurazione31, che si distacca dalla regola seguita fino ad allora che poneva i tre personaggi sullo stesso livello. L’attitudine dei due profeti è poco differenziata. Questo elemento costituisce un’ulteriore rottura rispetto all’iconografia orientale, che è solita rappresentare Elia con la barba, a sinistra, e Mosè di aspetto giovanile, che tiene un libro in mano, a destra. Sul pendio i tre discepoli, di cui due sono prostrati con il viso rivolto al sole e il terzo con la testa all’indietro, in piedi, che guarda; ai lati, altri spetta-

la luce nell’arte

4. Vetrata del portale reale (facciata occidentale) della cattedrale di Chartres, xii secolo.

A fronte: 5. Miniatura di fine xiii secolo, Bibliothèque nationale de France, Parigi. ms. SmithLesouef 21, f. 15v., Bibliothèque nationale de France, Parigi.

v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

la luce nell’arte v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

A fronte: 6. Disegno a penna, 830 ca., Salterio di Utrecht, ms. 32, f. 83v., Biblioteca dell’Università, Utrecht.

7. Dettaglio della precedente.

la luce nell’arte

tori divisi in due gruppi, posti da una parte e dall’altra del monticello che designa il Tabor, all’interno di mura di cinta da cui è possibile vedere la Gerusalemme celeste.

Il timpano di Notre-Dame de la Charité-sur-Loire (Tav. 8), uno dei capolavori della scultura romanica, sembra essere stato il primo ad adottare come tema centrale la Trasfigurazione, verso il 114032. «La scena è concepita con sobrietà, come un momento di adorazione e di stupore [...]. Rivelando la gloria e la divinità del Cristo, essa è situata alla fine dei tempi e costituisce un preludio alla seconda Parusia...»33. Dalla liturgia di Cluny è venuta l’idea di associare la Trasfigurazione all’Adorazione dei Magi e alla presentazione al Tempio, scolpite sull’architrave. «In tal modo si trovano riunite tre teofanie della luce: quella del monte Tabor [...], quella dell’Epifania, interpretata come la rivelazione del Cristo ai gentili personificati dai Magi, e quella della presentazione al Tempio, spiegata come la manifestazione della luce agli ebrei, attraverso Anna e Simeone»34. Il modello della Trasfigurazione in questo contesto non è bizantino, ma potrebbe provenire dall’Oriente asiatico35. Tutti i personaggi sono stati rappresentati sullo stesso livello. Il Cristo è al centro della mandorla con il bordo largo scanalato. Benedice e tiene in mano un libro36. Ai suoi lati si trovano Mosè ed Elia, ciascuno dei quali ha in mano una banderuola e asseconda la curva della mandorla37. A scala ridotta si trovano i tre discepoli: a sinistra Pietro, inginocchiato; a destra, Giacomo e Giovanni, imberbi, uno seduto e l’altro in piedi. Lo stupore non impedisce loro di sostenere la luce abbagliante della teofania e di guardare il Cristo in volto. Due di loro si nascondono le mani sotto un lenzuolo in segno di profonda reverenza.

La «parte catalana» del Salterio di Canterbury, che risale al terzo quarto del xiv secolo, non tratta la Trasfigurazione come tema in sé stesso, ma la integra in un riquadro allungato in cui figurano altre scene su due registri38 (Tav. 9). In alto il passaggio del Mar Rosso. I cavalieri del faraone sono inghiottiti da un’acqua rossastra, mentre, a destra, gli ebrei fuggono; Mosè chiude la colonna in marcia; in basso, da sinistra a destra, sono raffigurate le Nozze di Cana, Gesù che insegna ai discepoli e la Trasfigurazione. Fatto sorprendente, il pittore ha omesso Mosè – anche se figura comunque in basso, nella scena del Mar Rosso – ed Elia. Nell’angolo inferiore destro, il Cristo in atto di tenere il globo e benedire, vestito con una tunica rossa, si staglia su una mandorla a fondo blu, la cui estremità superiore deborda sul riquadro di sopra. 3. Possiamo isolare un altro gruppo di immagini, che si svincolano dalla mandorla e la modificano39. L’assenza di mandorla è indice di un’evoluzione del senso di questo simbolo convenzionale: da un lato, esso cessa di essere necessariamente associato all’evocazione della divinità, dall’altro, l’arte occidentale lo attribuisce talvolta ad altri personaggi oltre Dio, e cioè alla Vergine, a David, Daniele, Venere, Giove ecc.

Sull’avorio di Salerno (1080 circa), il Cristo, Mosè (dall’aspetto molto giovanile e situato a destra) ed Elia sono rappresentati nelle stesse dimensioni e posti sullo stesso livello materializzato da una specie di bordo. «L’assenza di mandorla che circonda il Cristo, Mosè ed Elia, e quella dei nimbi, tranne nel caso del Cristo e di Pietro, è una particolarità dello scul-

v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

8. Bassorilievo del timpano di Notre-Dame de la Charité-sur-Loire, Nièvre, metà dell’xi secolo.

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A fronte: 9. Miniatura del Salterio di Canterbury, terzo quarto del xiv secolo, ms. lat. 8846 f. 132, Bibliothèque nationale de France, Parigi. tore di Salerno. Questo mettere Pietro in evidenza è sicuramente una scelta «romana» deliberata da parte dell’artista o del suo committente»40. La Trasfigurazione è associata a un Battesimo del Cristo41 con Colomba e mano del Padre – entrambi i segni teofanici potrebbero valere per le due scene che sono le due teofanie trinitarie del Nuovo Testamento42 .

Un disegno a penna di un Evangeliario proveniente dalla Francia del nord43 e che risale alla fine del ix secolo, riunisce le principali caratteristiche dell’iconografia occidentale della scena (Tav. 10): assenza di mandorla, schema triangolare del gruppo formato dal Cristo e i due profeti, gesti delle mani, Pietro in posizione centrale nel gruppo degli apostoli (qui eccezionalmente ristretto). Sotto un arco a tutto sesto, intorno al quale si avvolgono pampini, i cui grappoli sono beccati da uccelli, un Cristo maestoso con il nimbo crocifero, con in mano un rotolo, a piedi nudi, senza indicazione del suolo, si trova molto al di sopra di Mosè ed Elia. I due profeti tendono le mani verso di lui. Ognuno dei due personaggi della scena porta il suo nome (parzialmente cancellato) in un cartiglio rettangolare.

Sulla rilegatura in avorio Evangeliario di Aflinghem, risalente al xii secolo44, si distingue la mano del Padre in atto di benedire il Cristo; negli angoli, i simboli dei quattro evangelisti; Pietro tiene in mano un vessillo; vi è riprodotto anche un testo: Mundi lucernae Lucis qu(e) hii sunt doctores doctorum. I raggi – tre larghe strisce luminose – sono orientati verso gli apostoli. Il Cristo non è circondato da alcuna mandorla. La mano del Padre e l’assenza di mandorla sono caratteristiche occidentali.

La Transfiguratio Domini che figura in uno dei venti pannelli in basso rilievo del portale del Duomo di Pisa, eseguito da Bonanno45 nel 1186 (Tav. 11), è totalmente estranea all’iconografia orientale e medio-bizantina di questo tema e riunisce anch’essa molti tratti caratteristici dell’iconografia occidentale, ai quali si aggiunge la libertà che l’artista si è concesso. Infatti, l’immagine si distingue innanzitutto per l’assenza di qualsiasi indicazione di luce: né raggi, né mandorla. Il monte Tabor è indicato dalla cima di una collina con la forma di una fuga di archi irregolare la cui base si apre come una caverna – vi si può notare un parallelo con la grotta della Natività; i piedi nudi del Cristo, di Mosè e di Elia posano direttamente su questa altura; vestito di una tunica e di un pallio, il Cristo mostra una grande calma; accenna un gesto di benedizione e tiene in mano un libro; di tre quarti, Elia, a sinistra, e, a destra, un Mosè giovanile alzano le mani verso di lui46; hanno una tunica più corta di quella del Cristo; i tre apostoli hanno un aspetto identico; diversamente dal solito essi sono seduti, immersi in una profonda meditazione – o forse nel torpore mistico, sopor mysticus –, precisamente al di sotto dei tre personaggi in piedi, in alto: quante innovazioni! Con il mento nel palmo della mano, Pietro, al centro47, è l’unico dei tre discepoli che guarda verso l’alto; niente nel suo atteggiamento manifesta l’intenzione di parlare.

Si trovano tuttavia soluzioni di compromesso che, invece di mostrare i raggi di luce emananti dal corpo del Trasfigurato, fanno discendere su di lui una luce dal cielo.

Nella miniatura dell’Evangeliario di Egberto (fine del x secolo)48, il Cristo ha le mani sollevate in posizione di orans (Tav. 12). Una vera e propria

la luce nell’arte v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

A fronte: 10. Evangeliario della Francia settentrionale, fine dell’xi secolo, ms. Ottob. Lat. 79, f. 4v., Biblioteca Apostolica Vaticana.

11. Rilievo in bronzo dal portale del Duomo di Pisa, 1186. Zvonimir Atleti0 / Alamy Foto Stock

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A fronte: 12. Evangeliario di Egberto, fine del x secolo, cod. lat 4453, clm 58, f. 113r., Bayerische Staatsbibliothek, Monaco. aurora boreale avvolge il gruppo nella sua ombra e punta verso il basso, così come il monte Tabor punta verso l’alto; ne fuoriescono sei raggi dorati, mentre la mano del Padre stringe un fascio luminoso a tre raggi, di cui quello verticale si allarga all’altezza della testa del Cristo, come se volesse tenderla al Figlio, possibile allusione alla rivelazione trinitaria della Trasfigurazione49. Si tratta, probabilmente, di un altro simbolismo della luce, quello della nube oscura (Es 19,9), resa qui con lingue di fuoco: «La nozione orientale e bizantina dello splendore divino emanato da Cristo, Figlio visibile di Dio, si decostruisce in Occidente, mentre riappare più di una volta il concetto vetero-testamentario di Dio Padre invisibile, che avrebbe inviato raggi di luce su Cristo dall’oscurità»50. Come il disegno del Salterio di Utrecht questa miniatura ottoniana non situa i tre personaggi della visione sullo stesso piano51 .

La miniatura dell’Evangeliario di Ottone iii, contemporanea della precedente e proveniente anch’essa dalla scuola di Reichenau, presenta la stessa struttura in due zone. In alto, il Cristo trasfigurato, in vesti bianche, si mostra frontalmente tra Mosè ed Elia in aspetto senile. I tre raggi provenienti dal cielo sembrano orientati verso l’aureola e le mani del Cristo. La nube è sparita. La differenza tra gli atteggiamenti dei tre discepoli di Gesù è grande. Mentre Giacomo e Giovanni sono prosternati, quasi prostrati, come se non sopportassero il peso della visione, Pietro si rialza e si rivolge al Cristo. Le sue mani sono smisuratamente grandi. Ai lati della volta due medaglioni in chiaroscuro con le teste di Giano52 .

Si trova anche una tradizione iconografica che rappresenta i raggi emananti dal corpo del Cristo trasfigurato, ma privo di mandorla.

Nell’Evangeliario di Enrico il Leone53, risalente al 1188, la Trasfigurazione è rappresentata in una pagina a due registri, al di sopra di un Ingresso a Gerusalemme in cui si riconoscono, a sinistra, Pietro e Giovanni (Tav. 13). I busti negli angoli associano la scena della Trasfigurazione alla tipologia Sponsus-Sponsa; nei due in alto si trovano lo Sposo e la Sposa, che mostrano su vessilli due versetti del Cantico (4,7 e 1,15); gli altri due in basso rappresentano profeti: a sinistra Zaccaria (Ecce rex tuus venit tibi mansuetus, «Ecco il tuo re viene a te con mansuetudine»: Zc 9,9 e Mt 21,5) e, a destra, Abacuc (Equitatus tuus salvatio, «Colui che viene in sella è la tua salvezza», cfr. Ab 3,8). Le due scene si rassomigliano per l’idea della regalità di Cristo e della teofania. Il titolo tra i due registri dice, infatti, riferendosi a entrambe le scene: Rex ut honoratur qui cum patre clarificatur, «Che sia onorato come re colui che è glorificato con il Padre»; dal capo e dal busto del Cristo emanano otto raggi; i discepoli sembrano esserne accecati. Il numero dei raggi potrebbe rifarsi all’iconografia «solare» che abbiamo visto definirsi nel mosaico del Sinai. Importanti differenze sussistono, tuttavia, tra questa immagine e l’iconografia canonica bizantina: l’assenza della mandorla per il Cristo e il fatto che egli appare quasi allo stesso livello dei discepoli...

La Trasfigurazione del Salterio d’Ingeburge54 (1210 circa) è forse una delle immagini più esplicite di questo sottogruppo (Tav. 14). Il Cristo è vestito di bianco. Il suo volto è d’oro55. È la fonte di ventiquattro raggi che vanno in tutte le direzioni: nulla li ferma. Soltanto Giovanni, che dorme, è inginocchiato. «Generalmente è il testo di Luca a fare da sfondo alle

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13. Evangeliario di Enrico il Leone, Wolfenbuttel, 1188, Cod. Guelf. 105 Noviss. 2°, f. 21r., Bayerische Staatsbibliothek, Monaco. A fronte: 14. Trasfigurazione del Salterio d’Ingeburge, 1210 ca., cod. 9, f. 20b., Musée Condé, Chantillly. Xxxxxxx

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rappresentazioni occidentali, cosicché i discepoli sono rappresentati mentre dormono o si svegliano, ma mai spaventati né che cadono a terra. Lo sguardo verso l’alto è più spesso riservato a Pietro»56 .

Alcune immagini, infine, associano i raggi che emanano dal Cristo alla luce che discende dal cielo. Ne diamo solo un esempio.

La Trasfigurazione della Bibbia di Floreffe (1160 circa)57 è associata a una Cena, a sua volta combinata con una Lavanda di piedi58 (Tav. 15), come nel timpano del nartece della chiesa benedettina di Charlieu – in cui appare un particolare sconosciuto all’Oriente: il Trasfigurato è seduto59 . Il capo del Cristo si distacca dal grande nimbo crocifero posto al di sopra di un duplice orlo di luce celeste, sempre più scura verso l’alto e che crea punte di fiamma; una banderuola dà la parola al Padre: Ecce est filius meus dilectus in quo complacui, «Ecco questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto»; il Cristo benedice e tiene in mano una banderuola orientata verso gli apostoli e raccomanda loro di non avere paura, nolite temere; sul bordo superiore è enunciato il principio della tipologia: quem Moyses celat ecce vox paterna revelat; quemque prophetia tegit est enixa Maria, «colui che Mosè nasconde, la voce del Padre lo rivela; colui che la profezia vela, la Vergine mette al mondo»; dal Cristo emanano cinque raggi, ciascuno dei quali tocca ognuno dei cinque testimoni dell’avvenimento; dietro il Cristo una larga striscia verticale di colore chiaro in cui si vede una mandorla deformata secondo il gusto e il volere degli artisti occidentali60 . Sul bordo superiore e sul bordo verticale destro dell’immagine, un’iscrizione in verso breve nella quale si alternano inchiostro bianco e inchiostro rosso61 .

IV. Contrariamente al rilievo che assume nell’arte dell’Oriente cristiano, la Trasfigurazione occupa un posto meno importante nell’arte occidentale, non gioca un grande ruolo nell’iconografia romanica62 ed è «un tema abbastanza raro, di cui esistono pochi esempi nella pittura e nella scultura monumentali»63. Appare solo nei cicli della vita di Cristo come un episodio narrativo fra gli altri: così a Milano (rilievo, altare d’oro di Sant’Ambrogio, 835-840 circa)64, nella navata di Münster sulla colonna dell’abate Bernardo d’Hildesheim65, alla Daurade di Tolosa e a Moissac (fine dell’xi secolo), poi nel deambulatorio di San Nettario (inizi del xii secolo)66 (Tavv. 16, 17, 18).

Questa importanza minima del tema si spiega non tanto con l’handicap che gli avrebbe procurato la mancanza di una festa corrispondente, ma piuttosto con l’interesse minimo che la mistica della luce divina ha avuto presso i latini. Lungi dall’essere stata sempre occasione di una riflessione approfondita sulla gloria del Cristo, come presso gli orientali, la sua Trasfigurazione è spesso stata letta come una parabola: «La Trasfigurazione, infatti, era, agli occhi dei liturgisti del Medioevo, una specie di esaltazione del digiuno. Essi notavano, tra l’altro, che Gesù si era manifestato agli apostoli, insieme a Mosè ed Elia; ora, Mosè ed Elia avevano digiunato quaranta giorni nel deserto, come Gesù Cristo; essi avevano istituito il digiuno nell’Antica Legge, come Gesù l’aveva istituito nella Nuova Alleanza [...]. Un simile simbolismo, compreso meglio nel xiii secolo che non oggi, spiega la presenza della Tentazione e della Trasfigurazione in un certo numero di opere d’arte dell’epoca»67. Ugualmente, nel capitolo del suo Rationale,

A fronte: 15. Bibbia di Floreffe, 1160 ca., ms. add. 17738, f. 4., British Library, Londra.

v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

la luce nell’arte

16. Rilievo, altare d’oro di Sant’Ambrogio, 835-840 ca.

v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

17. Trasfigurazione nella navata di Münster sulla colonna dell’abate Bernardo d’Hildesheim.

la luce nell’arte v. la trasfigurazione nell’arte medievale in occidente (ix-xvi secolo)

18. Portale sud della chiesa abbaziale di St. Pierre, Moissac, 1110-1120, Trasfigurazione di Cristo. consacrato alla messa e al suo simbolismo, Guillaume Durand dice dei due accoliti che accompagnano il prete nella processione d’ingresso, che essi simboleggiano Mosè ed Elia intorno al Cristo sul monte Tabor68 .

Nell’osservare che il Cristo di Charlieu non ha l’aureola, Christe ne deriva un’opposizione tra le immagini in cui la Trasfigurazione è solo un episodio nella storia di Cristo e quelle, meno numerose delle prime, in cui la «Trasfigurazione è una teofania-visione di carattere trionfale ed escatologico»69. Eccetto quest’ultimo caso, la resa della luce soprannaturale di cui il Cristo della Trasfigurazione risplende non sembra aver preoccupato molto gli artisti. Il motivo esiste: probabilmente la teologia occidentale ha avuto qualche difficoltà a comprendere la natura di questa luce mistico-cosmica che emana dal corpo del Trasfigurato, e di conseguenza si è riallacciata a una teoria secondo la quale – come dice Pietro Comestore (xii secolo) in un commentario del Vangelo secondo Matteo – «poiché nessun corpo mortale può brillare in tal modo, alcuni dicono che lo splendore non si trovava nel corpo del Signore, ma che era diffuso nell’aria intorno a lui. I pittori delle pareti delle chiese concordano con questa opinione: è costume dipingere i raggi di luce intorno al corpo del Signore distaccati da esso»70. Si sarebbero svolti, inoltre, dei dibattiti sulla visione di Dio, in cui la Trasfigurazione interviene come esempio: alla fine del Medioevo, spiega Huizinga, «la chiesa deve sorvegliare affinché Dio non venga troppo spesso ricondotto sulla terra. È un’eresia, essa dichiara, pretendere che Pietro, Giovanni e Giacomo, durante la Trasfigurazione del Cristo, abbiano contemplato la Divinità così chiaramente come lo fanno ora in cielo»71 .

Nella sezione del suo Il sacro, che tratta le «immagini della religione», Alphonse Dupront attribuisce all’iconologia storica anche il compito di discernere la natura dell’immagine religiosa, «questa rivelatrice impudica dei segreti dell’anima», in cui si legge «la confessione degli equilibri profondi, delle solidità, delle risorse vitali della speranza soteriologica». Le assenze e le rarefazioni non sono meno esplicite della moda e dei successi. All’epoca attuale, la scomparsa dell’arte sulpiciana ci parla con la stessa intensità della scoperta dell’icona. Tra i temi di cui Dupront segnala la rarefazione alla fine del Medioevo, figura la Trasfigurazione che l’Occidente, affascinato in un primo momento, avrebbe poi disertato in un secondo momento – segno clinico, azzarda l’autore, di un profondo «aniconismo», ovvero di una «de-teofanizzazione» dell’arte religiosa occidentale72, una diagnosi che si aggiunge all’insieme delle critiche risentite che molti rivolgono spontaneamente a questo tipo di arte (socializzazione oltranzista, naturalismo, sensualismo ecc.).

Un tale punto di vista non deve essere condiviso ciecamente. Alcune delle opere medievali commentate in questa sede sono suscettibili di spostare la diagnosi: esse sono impregnate di una teologia della luce. D’altra parte, non si dovrebbe credere che le iconografie religiose di Oriente e Occidente abbiano finito col costituirsi in due famiglie senza alcun elemento di mescolanza reciproca. In Europa centrale, in particolare, la tipologia orientale si è spesso combinata a quella occidentale73 . Infine, durante gli ultimi secoli del Medioevo, poi durante il ’500 e il ’600, alcuni grandi artisti

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occidentali, anche se non è una regola, si lasciano affascinare dal tema della luce divina manifestata durante la Trasfigurazione. È anche possibile che la Costituzione di Callisto iii abbia provocato una vera e propria rinascita di interesse per il tema della Trasfigurazione del Salvatore.

Già Fra’ Angelico (Tav. 19) aveva realizzato su questo tema un celebre affresco a San Marco di Firenze74, in cui il Cristo, «magnifico e scultoreo», vestito di bianco, situato su una piattaforma rocciosa, inserito in una mandorla a uovo, allarga le braccia in un gesto che prefigura la crocifissione, gesto di accoglienza e di protezione sovrana accordato ai tre discepoli rappresentati più in basso, in una posizione che manifesta il loro stupore e il loro spavento; di Mosè ed Elia si vedono solo i volti con il nimbo; ai lati, la Vergine a sinistra e San Domenico a destra, le mani giunte, rappresentano semplicemente il loro legame con il Cristo e simboleggiano l’imitazione del Cristo, alla quale invitano gli spettatori75 .

Potremmo citare molti altri artisti. Gérard David (1450-1523), per il quadro che ha dipinto per Notre-Dame di Bruges; Hans Baldung Grien per il suo disegno a penna e inchiostro del 150976; Giovanni Bellini (1430- 1516) (Tav. 20), che ha dipinto la Trasfigurazione in due riprese: una prima volta su un quadro conservato a Napoli77 considerato l’opera capitale della sua maturità; una seconda volta, in un’opera più tarda (1460 circa) conservata a Venezia, attribuita per lungo tempo a Mantegna78 (Tav. 21). Si pensi anche al monumentale quadro di Raffaello conservato al Museo del Vaticano79 (Tav. 22). In quest’ultima opera l’artista morto nel 1520, crea una figura di Cristo avvolta da una nube luminosa, sollevata da terra, la cui influenza si eserciterà a lungo soprattutto su Rosso Fiorentino80 e su Rubens81. Menzioniamo infine Veronese, per il quadro del Duomo di Montagnana82 (555 × 260 cm!), del 1556 e per un’altra Trasfigurazione degli anni 1580 di grande formato (320 × 165 cm), a lui attribuita e conservata a Venezia83 – forse un’opera di scuola84. Questa semplice lista, che potrebbe essere più lunga85, è sufficiente per affermare che il tema della Trasfigurazione, pur senza essere molto utilizzato dagli artisti latini, non è stato, tuttavia, da loro abbandonato, e che la diversità, se non la profusione, delle opere d’arte in Occidente, vietano ogni generalizzazione.

Resta il fatto che lo schema soggiacente alla maggior parte delle opere del dossier occidentale costituisce una rottura con il canone bizantino e rivela una teologia che sembra non riesca più ad articolare in modo convincente il corpo (del Cristo) e la luce divina (il monte Tabor), l’umano e il divino. Tutto avviene come se gli artisti fossero messi di fronte a un’alternativa: o la realtà del corpo del Cristo, ma senza la gloria, o la manifestazione della sua divinità, ma a discapito del corpo, il quale perde la sua materialità specifica, cioè la sua realtà. In questo senso, almeno a titolo d’ipotesi e con beneficio dell’inventario, saremmo tentati di dire che l’eventuale perdita di contatto dell’arte sacra occidentale con la luce teofanica del corpo trasfigurato è uno di quei problemi estremamente pertinenti, che gli studiosi attuali analizzano con una grande apertura di spirito – problema prezioso, che presuppone ulteriori ricerche future. Ma è pur sempre già una luce per lo spirito.

A fronte: 19. Fra’ Beato Angelico, Trasfigurazione del Salvatore, 1438-1440, affresco, 189 × 159 cm, Museo di San Marco di Firenze. Xxxxxxx

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20. Giovanni Bellini, Trasfigurazione, 1478-1479 ca., olio su tavola, 116 × 154 cm, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli.

Alle pagine seguenti: 21. Giovanni Bellini, Trasfigurazione, 1455-1460 ca., tempera su tavola, Museo Correr, Venezia.

22. Raffaello e Giulio Romano, Trasfigurazione, 1518-1520, tempera su tavola, 405 × 278 cm, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano.

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VI. LA LUCE E L’ILLUMINAZIONE DELLE CHIESE DAL ROMANICO AL BAROCCO

di Michel Schmitt

A fronte: 1. Interno del Battistero lateranense, v secolo. 1. Introduzione

Fin dalle origini l’architettura delle chiese costituisce un luogo privilegiato dell’esperienza della luce e del suo linguaggio simbolico, in quanto la liturgia e i suoi valori contemplativi sono strettamente collegati all’atto del vedere. Lo sguardo gioca un ruolo primordiale nella liturgia. «Nel cristianesimo, in particolare, è stato detto che la liturgia cattolica si concentrava sulla vista, quella protestante sull’ascolto»1. Da qui l’importanza del ruolo e degli effetti della luce nel volume architettonico delle chiese, delle quali essa rappresenta una costante (Tav. 1). L’architettura invita a vivere l’esperienza della luce in una duplice prospettiva.

Da un lato, l’edificio religioso dispone di sorgenti di luce inerenti al suo volume architettonico. Si tratta qui dell’organizzazione e della distribuzione delle vetrate come composizioni traslucide, un’arte che varia in base alle epoche e che è profondamente ispirata dalle correnti di spiritualità che segnano il periodo di costruzione degli edifici. In questo senso si può parlare di un’esperienza primordiale della luce e di una sua potenza evocatrice. Si prende sempre in considerazione, inoltre, la luce del sole che si infiltra nell’architettura. Ma, a una analisi più precisa, risulta che questa luce naturale è distribuita e trattata diversamente a seconda delle possibilità tecniche e del ruolo che si attribuisce alla sua dimensione simbolica nel corso del tempo.

L’infiltrazione iniziale della luce inerente all’architettura potrà essere modificata in seguito alle trasformazioni architettoniche che l’edificio è suscettibile di subire per l’estensione del volume, l’allargamento delle cornici delle vetrate o la loro sostituzione. D’altra parte, le sorgenti di luce naturale sono completate e intensificate da luci supplementari e artificiali, che servono all’illuminazione interna dell’edificio e che sono installate nell’architettura. Si tratta, in primo luogo, dell’installazione di punti focali di luce a carattere

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simbolico, quali, ad esempio, i bracieri dei ceri, i lampadari circolari dell’arte romanica o quelli fiamminghi dell’epoca barocca. È una pratica che si osserva negli edifici di culto fin dalle origini. Possiamo aggiungervi il ricorso all’oro (Tavv. 2, 3) e ad altri materiali preziosi di natura luminosa che riflettono la luce naturale: l’insieme degli oggetti di culto che comprendono i pezzi di oreficeria, le croci gemmate, gli ostensori con il sole, i reliquiari o la statuaria rivestita di fogli dorati. In questo contesto possiamo menzionare anche gli affreschi policromi (Tavv. 4, 5, 6) che, messi in risalto dalla luce, animano le superfici dell’architettura delle chiese del Medioevo2 .

A partire dalla fine del xix secolo, le sorgenti supplementari e artificiali di luce cominciano a rivestire un’importanza capitale in seguito all’introduzione della corrente elettrica, il cui utilizzo permette un’illuminazione sempre più raffinata e sofisticata. Queste nuove possibilità sono il riflesso dei bisogni e del ruolo della luce nella società moderna. Contemporaneamente, esse si prestano a vantaggio della valorizzazione del patrimonio storico e artistico costituito dall’architettura delle chiese e dal loro mobilio. Dall’applicazione della riforma liturgica in poi, che mirava alla partecipazione attiva alle celebrazioni, ulteriori considerazioni rinforzano il ricorso all’illuminazione elettrica.

L’esperienza della luce e del suo linguaggio simbolico, come anche quella delle tenebre (considerando il rapporto antitetico tra buio e luce)3 oggi è spesso messa in questione, soprattutto in relazione alle ampie possibilità dell’utilizzo delle sorgenti di luce elettrica nel campo dell’illuminazione, che possono provocare un’inflazione o una sovrabbondanza di luce rispetto alle epoche più antiche.

È ancora possibile, a livello di edifici religiosi, penetrare nel simbolismo originario della luce? Può ancora l’architettura delle chiese medievali mettere in risalto lo stretto legame che intercorre tra la luce e il sacro?

È in questo contesto che si pone chiaramente una delle maggiori sfide riguardo al restauro di una chiesa del Medioevo o dell’epoca moderna.

Di fronte al problema della scelta dell’illuminazione, infatti, non esiste una soluzione-tipo, in quanto ogni volume architettonico di valore è in qualche modo unico e rivela la sua particolarità solo progressivamente. Come armonizzare, dunque, le sorgenti naturali di luce e le possibilità di un’illuminazione moderna, in modo da garantire, da una parte, l’esperienza primordiale della luce e del suo simbolismo e, d’altra parte, tenere conto della sensibilità e delle necessità della società attuale?

Prima di tornare alle diverse possibilità di affrontare la sfida lanciata dal restauro degli antichi edifici di culto, in cui il rispetto delle sorgenti naturali di luce detiene un’importanza fondamentale, cerchiamo di situare e di caratterizzare brevemente l’azione della luce inerente all’architettura nel quadro dell’evoluzione dei vari stili.

2. L’architettura gotica

Per meglio situare il ruolo primordiale giocato dalla luce nell’architettura delle chiese cristiane, è necessario riferirsi innanzitutto al periodo gotico, che rappresenta l’apogeo della valorizzazione della luce.

A fronte: 2. Interno, verso l’abside, della chiesa superiore della basilica di San Clemente, Roma. «Azioni e passioni» della luce

la luce nell’arte vi. la luce e l’illuminazione delle chiese dal romanico al barocco

3. Cefalù, cattedrale, Cristo pantocratore, mosaico absidale.

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4a e b. Interno verso l’abside (ovest) della chiesa di San Pietro al Monte, Civate e Interno, verso est, della navata della chiesa di San Pietro al Monte, Civate. «Azioni e passioni» della luce

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A fronte: 5. Barcellona, Museo de Arte Antigua de Cataluña, La Vergine che regge un calice, dalla volta di San Clemente de Tahull, 1123 ca. 6. Aosta, Santi Pietro e Orso, Angeli tubicini, inizio dell’xi secolo.

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Fu l’abate Sugero (Tav. 7) (1081-1151) di Saint-Denis a conferire all’architettura una nuova luce. Nel periodo che va dal 1140 al 1144 egli costruisce, intorno al nuovo coro della sua abbazia, un duplice deambulatorio e delle cappelle le cui pareti vengono abbondantemente svuotate per dare, tramite i vetri, l’illusione di «un muro ondulatorio di luce». Le vetrate si definiscono fonti di luce inerenti all’architettura, a cui donano una luce propria (selbstleuchtende Mauer). La facciata dell’edificio è innovativa soprattutto per la presenza di un rosone, il primo del genere. L’arte delle vetrate partecipa pienamente all’evoluzione della nuova architettura, detenendo un ruolo rilevante nella genesi dell’arte gotica.

Ispirato dall’opera attribuita a Dionigi l’Areopagita, in cui si trova l’idea che Dio è luce, Sugero deriva da tale concezione tutte le sue convinzioni architettoniche ed estetiche, e per la sua chiesa desidera «le finestre più luminose»4. A causa della sua luminosità l’edificio che fa erigere viene chiamato lucerna. La vetrata è contemporaneamente ornamento e insegnamento, in quanto riflette precetti teologici e intenti politici.

Ormai le vetrate sostituiscono i dipinti murali delle chiese romaniche. Attraverso la mediazione delle forme materiali, lo spirito dell’uomo, contrariamente alla dottrina di san Bernardo di Chiaravalle, può elevarsi in direzione della luce celeste. Le vetrate colorate servono, secondo Sugero, a «riempire lo spirito dell’uomo con la luce di Dio». Rinviando a Dio che è luce, la luce gotica, quale si manifesta a Chartres, a Bourges o a Mans (Tavv. 8, 9), è una «luce teofanica» e trascendente, dolce e serena, una luce che dematerializza l’edificio grazie alla vetrata, gli sottrae la pesantezza e lo rende «diafano» procurandogli una trasparenza attenuata. La cattedrale gotica diventa così la dimora della luce. Il sole di Dio lacera le tenebre servendosi delle finestre, le quali, a loro volta illuminate da Dio, manifestano la bellezza degli esseri e delle cose, inserite come sono nella visione della Gerusalemme celeste, riflesso della cattedrale terrestre.

Gli edifici gotici ci mostrano che la loro luce non è naturale. Infiltrata all’interno di un’architettura che si caratterizza nettamente per un movimento ascensionale, questa luce è percepita come soprannaturale o trascendente, sorgente di una luminosità che evoca la dimensione del mistero e del misterioso. Favorita nella sua interpretazione dalla metafisica neoplatonica dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, che ha enormemente influenzato tutto l’Occidente fin dall’epoca di Carlo Magno, la luce delle cattedrali gotiche riveste un carattere sacro. L’esperienza del sacro si percepisce soprattutto nei rosoni multicolori, simboli del sole, che rendono l’edificio suscettibile di trascendere la realtà terrestre e di evocare la visione della Gerusalemme celeste.

Nel periodo gotico non si dispone della luce insita nell’architettura solo per trasformare le chiese in volumi luminosi e trascendenti, o «per riempire lo spirito dell’uomo con la luce di Dio» (Sugero) (Tav. 10), ma si tenta di rinforzare il carattere trascendente dell’architettura popolando le vetrate di personaggi e di racconti biblici, di leggende o storie di miracoli.

I personaggi che animano le vetrate suscitano l’impressione di esistere come esseri liberi dalla pesantezza e assorbiti dalla luce. L’esperienza della luce nelle cattedrali gotiche ricorda gli sfondi dorati delle tele nell’arte pit-

A fronte: 7. Basilica di Vezelay, raggi di luce fendono il colonnato durante il solstizio d’inverno.

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8. Vetrate del lato ovest del duomo di Chartres e rosone.

A fronte: 9. Vetrate della cattedrale di Bourges.

Alle pagine seguenti: 10. Rosone della cattedrale di Saint-Étienne a Tolosa.

la luce nell’arte «Azioni e passioni» della luce

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torica dell’epoca. Non riproducendo l’ombra nel contorno dei personaggi e degli oggetti, questo tipo di arte pittorica trasforma la luce naturale in una luce trascendente, completamente diversa dalla luce naturale che implica sempre la creazione di una zona d’ombra.

A partire dalla fine del xiv secolo lo sfondo dorato scomparirà progressivamente, sostituito da uno sfondo a carattere realistico: le scene figurate saranno inserite in un contesto sempre più terreno.

3. L’architettura romanica

Nell’architettura romanica della fine dell’xi e del xii secolo, lo sforzo dei costruttori si concentra soprattutto sul problema della volta. Contrariamente all’opinione corrente, gli architetti romanici riuscirono a costruire navate ariose e luminose (come per esempio Saint-Philibert a Tournus, Saint-Savin-sur-Gartempe (Tav. 11); Notre-Dame du Port a Clermont-Ferrand).

Tuttavia, in rapporto all’edificio gotico, l’esperienza della luce nelle chiese romaniche si configura diversamente. Essa viene inscritta nella distribuzione stessa del volume architettonico e del suo simbolismo.

L’architettura romanica è sottomessa alle leggi dell’ordine e della regolarità del pensiero, che si manifestano essenzialmente nella costruzione geometrica e nel ritmo. La chiesa romanica pone sé stessa come riflesso della geometria celeste, sulla scia della tradizione filosofica di san Bernardo che vuole la matematica strumento della creazione divina. In quest’ottica, la luce contribuisce alla valorizzazione delle proporzioni dell’edificio.

La luce penetra all’interno, attraverso aperture relativamente piccole, filtrata dal vetro leggermente colorato che attenua delicatamente la luce e richiama l’effetto dell’alabastro nelle chiese dell’antichità. A titolo di eccezione, è necessario citare le monumentali vetrate colorate del coro della cattedrale di Augsbourg create verso la fine dell’xi secolo.

Nello spirito di san Bernardo, l’architettura epurata dei cisterciensi permette di introdurre le vetrate in chiaroscuro (Tav. 12) in una gamma di toni nettamente limitata. Animate da ornamenti a intreccio, esse si prestano perfettamente alla tecnica della messa a piombo.

L’esperienza della luce nelle chiese romaniche è rinforzata da quella emanata dalla lucentezza dei materiali, che fa brillare la maestà di Dio (Tavv. 13, 14, 15). Si pensi ai reliquiari imponenti della fine dell’epoca romanica, agli spazi antistanti gli altari o alle statue rivestite di lamine d’oro fine (per esempio, Sainte Foy di Conques, considerata la «maestà dorata», o la Madonna della cattedrale di Essen in Germania) e soprattutto ai lampadari monumentali di forma circolare (per esempio Aix-la-Chapelle). Si tratta di una luce teofanica o mistica, che nasce dalla luce naturale attenuata, proiettata sui pezzi di oreficeria. «I santi, nelle chiese romaniche, furono celebrati non tanto dagli scultori quanto dagli orefici» (É. Mâle).

4. L’architettura dell’epoca moderna

Rispetto agli edifici religiosi del Medioevo, le chiese dei tempi moderni, edificate in stile rinascimentale, Luigi xiv e Luigi xv, sono caratterizzate

A fronte: 11. Veduta d’insieme della navata centrale della chiesa abbaziale di Saint-Savin e l’Arca di Noè, particolare dell’affresco della navata di Saint-Savin.

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A fronte: 12. Alcobaça, navata centrale.

vi. la luce e l’illuminazione delle chiese dal romanico al barocco

dal punto di vista architettonico da un nuovo rapporto con la luce. Contrariamente al periodo gotico, la luce che scivola nella chiesa è una luce allo stato naturale, in quanto le vetrate colorate sin dalla fine del Rinascimento vengono sostituite da un vetro chiaro e trasparente in cornici ampie. Il bisogno di illuminazione naturale è molto sentito e diffuso, tanto che nelle vecchie chiese le aperture sono spesso allargate in modo che entri più luce. Soltanto nel xix secolo l’arte neogotica introdurrà di nuovo la vetrata colorata, ispirandosi abbastanza fedelmente all’arte medievale del vetro.

Il bisogno molto pronunciato della luce dipende largamente dalla situazione storica nella quale sono state edificate le chiese dei tempi moderni. La Chiesa cattolica, segnata profondamente dallo spirito della Riforma promossa dal Concilio di Trento (1545-1563), rappresenta il momento della fede ritrovata dopo un periodo di lacerazioni. Questa fede esalta il destino della vita cristiana, promessa alla gloria celeste, e dirige lo sguardo dei fedeli verso una visione della chiesa trionfante, aprendo i «cieli barocchi» sopra l’assemblea liturgica (Tav. 16). Un posto di rilievo è riservato alla presentazione pittorica del cielo nei riquadri della volta, rialzata da cornici in stucco luminoso. Rispetto al Medioevo, il cielo non è più evocato simbolicamente. Con la sua opera Perspectiva pictorum et architectorum, edita a Roma in due volumi dal 1693 al 1698, Andrea Pozzo (Tav. 17) (1642-1709) contribuisce alla creazione di una nuova intensità del barocco. Il trompe-l’oeil riesce ad associare l’illusione di un’architettura finta, la luce del cielo e il movimento di scene bibliche o di altro genere. Nel suo inventario figurano numerose decorazioni pittoriche dei soffitti, causa di un nuovo allontanamento da ogni approccio razionale. Lo sguardo è immerso così in spazi che si perdono a vista d’occhio, il soffitto è letteralmente aperto, in modo da permettere allo sguardo di andare «nell’alto dei cieli». Si realizza, in tal modo, un’adattazione perfetta di questo tipo di arte alla teologia e alla spiritualità post-tridentine.

In questo contesto teologico le cupole e i soffitti delle chiese barocche (Tav. 18, 19, 20) sono destinati a diventare sorgenti di una luce che illumina il volume architettonico con un messaggio di fiducia e di vittoria. Essi sono in grado di assolvere questo ruolo grazie al riflesso della luce naturale che scivola attraverso le grandi vetrate chiare.

In un certo senso questa visione della chiesa barocca è simile a quella dell’architettura gotica, per la tendenza a liberare la materia dalla sua mole e dalla sua pesantezza e a orientare l’edificio verso l’aldilà: si tratta di un effetto di dematerializzazione dello spazio. La differenza è costituita dal fatto che, nell’architettura barocca, le sorgenti di luce – generalmente una luce chiara e diurna – si trovano all’esterno dell’involucro architettonico e invadono direttamente l’interno, senza essere filtrate da un vetro colorato. Il volume architettonico resta marcato da contorni nettamente definiti e individuabili nel tentativo di sviluppare l’impressione dell’assenza di gravità. Non si tratta più della forza simbolica della luce ma della sua funzione al servizio della messa in scena e della visibilità del programma pittorico e iconografico dell’edificio; è una luce piuttosto esteriorizzata e più secolarizzata, proiettata dall’esterno verso l’interno dell’architettura per far rivivere i «cieli barocchi».

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Va aggiunto che, nel ridare valore alla legittimità delle immagini e alla loro funzione a servizio dell’approfondimento della fede nella pratica religiosa, gli intenti del Concilio di Trento risiedevano nel ricorso alle chiese luminose, affinché i fedeli potessero contemplare le numerose immagini e statue, sulle quali coesistevano l’oro e il colore, e seguire le funzioni nei libri di preghiera.

Una sintesi storica rivela le ricchezze molteplici e diversificate dell’esperienza della luce naturale nell’architettura delle chiese del Medioevo e dei tempi moderni. Questa esperienza costituisce parte integrante della concezione architettonica, garantendo e favorendo il suo carattere trascendente e simbolico. Nella società attuale in cerca di riti, minacciata da uno svuotamento simbolico del rapporto con la luce, o dall’indebolimento dell’esperienza della luce, il carattere trascendente dell’architettura delle chiese riveste un’importanza capitale.

Di fronte alle possibilità, oggi numerose, di dare rilievo al volume architettonico della chiesa e al mobilio artistico grazie a un’illuminazione elettrica sfumata e diversificata, la creazione di una nuova illuminazione, che può risultare anche dall’installazione di nuove vetrate, non può costituire un raffronto fortuito, ma deve essere dettata da una finalità specifica. Si tratta di rispettare la posizione delle sorgenti naturali di luce dell’architettura per garantire i suoi valori contemplativi o meditativi. Le sorgenti di luce supplementari o artificiali devono restare subordinate agli effetti luminosi prodotti dai punti focali di luce inerenti alla concezione dell’architettura. Non si tratta del grado d’intensità della presenza della luce, ma della sua interpretazione in quanto espressione sacrale, in grado di sviluppare effetti affascinanti ed evocatori. Il restauro di una chiesa con un notevole valore storico e architettonico deve adattarsi di buon grado alla disposizione dell’edificio, in una relazione di amore e modestia5 .

A fronte: 13. Chiesa abbaziale di SaintDenis, navata centrale e coro.

Alle pagine seguenti: 14. Interni della chiesa di Saint-Denis.

15. Fontenay, navata e coro dell’abbazia.

16. Interno della chiesa dell’Assunta a Dillingen, Germania.

vi. la luce e l’illuminazione delle chiese dal romanico al barocco

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17. Veduta degli affreschi illusionistici della volta centrale con la Gloria di san Francesco Saverio e quadrature architettoniche. 18. Interno della cupola di Sant’Ivo alla Sapienza di Roma.

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19. Cupola di San Lorenzo a Torino. 20. La cupola ellittica del Collège des Quatre-Nations a Parigi.

VII. L’ALONE LUMINOSO: LA VISIONE E L’ESTASI

di Émile Mâle

A fronte: 1. Raffaello Sanzio e bottega, Estasi di Santa Cecilia, 1514 ca., olio su tavola trasportata su tela, 236 × 149 cm, Pinacoteca nazionale di Bologna. I. Visitando le chiese di Roma, si rimane profondamente stupiti di imbattersi continuamente in visioni miracolose o immagini di estasi. Si intravede, nell’ombra, il volto pallido di un santo che pare stia per mancare, sospeso fra la vita e la morte; o una giovane santa dolente, in penombra alla quale il Cristo pone sulla fronte una corona di spine. Ci sono chiese nelle quali, quasi a ogni altare troviamo uno di questi estatici dipinti, opere piene di mistero, avvolte in nembi scuri, trapassate da una lama di luce. La maggior parte di questi soggetti costituisce un enigma per il visitatore, giacché per capirli occorre avere avuto una lunga familiarità con i santi del xvi e del xii secolo; ma commuovono lo stesso in modo strano, ci fanno sentire ai confini di un altro mondo, e ci sembra di respirare un’aria nuova, gravida di un fluido ardente.

Tutte queste opere risalgono al xvii secolo o alla fine del xvi. Quale contrasto con l’arte di Raffaello e dei suoi primi successori, con le sue Sante Famiglie (Tav. 1), così umane e che riflettono la bella luce della Grecia!

A quei tempi era tutto amore piacevole, serenità, unione armoniosa di corpo e di anima; mentre ora tutto è slancio, aspirazione, tensione dolorosa per sottrarsi all’umana natura e perdersi in Dio. Un’arte che assomiglia all’anima. La tempesta profonda del mondo cristiano, le lacerazioni dello scisma, la lotta per la fede, la preparazione al martirio, insomma un’atmosfera tempestosa esaltarono nel xvi secolo la sensibilità dei cattolici.

Comparvero santi nuovi, che erano l’immagine del loro tempo, molto diversi da quelli che li avevano preceduti. Pensiamo solo ai santi delle nostre cattedrali, a quei vecchi vescovi che guarivano i malati, vendevano il calice d’oro per nutrire i poveri in tempo di carestia e attendevano con pazienza l’ora della salvazione praticando le opere di misericordia. I santi del Medioevo operavano miracoli; quelli della Controriforma furono essi stessi dei miracoli. Ebbero tutti il privilegio della visione, l’aureola dell’e-

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stasi, e colmavano di stupore i contemporanei e d’ammirazione i secoli che seguirono. Le loro biografie sono piene di queste meraviglie, e essi ci appaiono come esploratori, di ritorno da un viaggio nell’altro mondo, che hanno potuto vedere in viso Dio. Consideriamo qualcuno di questi tratti, e capiremo meglio il genio di questo ardente xvi secolo.

Ignazio di Loyola, a Manresa, seduto sulla riva del Cardoner, ebbe un’estasi che lo portò ai vertici della vita spirituale e gli rivelò i misteri della fede. Fu un’illuminazione improvvisa, che in un istante fece di lui un altro uomo. «Tutto ciò che apprese in tutta la sua vita, dice il suo biografo, non uguagliò ciò che ricevette allora in una volta sola»1. A Manresa ebbe un’estasi che durò un’intera settimana2. Spesso gli succedeva di avere rapimenti mentre era in preghiera, e si vedeva allora una luce irraggiarsi dalla fronte3; l’alone luminoso, che è nell’arte del xvii secolo, circonda la testa dei santi e sostituisce il nembo. Visioni continue gli mostravano Cristo, la Vergine, la Trinità, strappandogli lacrime. Quest’uomo straordinario, che pareva nato per l’azione, che aveva il genio dell’ordine ed era capace di cogliere i minimi particolari, era invece un’anima contemplativa, che si involava continuamente nell’Aldilà. Si vede ancora a Roma, nella casa del Gesù, la finestra dalla quale contemplava le stelle esclamando: «Che pena sopportare la terra, quando contemplo il cielo!»4 .

San Filippo Neri, amico di sant’Ignazio, gli assomigliava nel privilegio della visione e dell’estasi. Quando pregava nelle Catacombe di San Sebastiano o nella sua cameretta del San Gerolamo della Carità, gli succederà di essere stroncato da una felicità soprannaturale. Coricato per terra, esclamava: «Basta Signore, ti prego di trattenere il torrente delle Tue consolazioni. Allontanati da me, o Signore, allontanati da me. Io non sono che un mortale incapace di sopportare una tale abbondanza di delizie celesti. Io muoio se tu non mi soccorri»5. Delle visioni gli facevano vedere la Vergine, o lo trasportavano in mezzo agli angeli, che gli facevano ascoltare, a lui appassionato di musica, la musica del cielo. Celebrando Messa gli succedeva di essere colto dall’estasi e di rimanere ore intere all’altare. In questi momenti, nei quali non pareva più un uomo, il suo volto irraggiava una luce d’oro, e i piedi non toccavano più terra6. Il cardinal Sfondrati e molti altri suoi contemporanei assicurano di averlo visto diverse volte sollevarsi da terra7. Così per gli uomini del xvi secolo, san Filippo Neri era già un corpo santo, che sfuggiva alle leggi della gravità. Con il petto ardente e dilatato dalla possanza del suo cuore, appariva come una fiamma che sale verso il cielo.

Santa Teresa era una guida nel mondo invisibile dal quale veniva. I suoi libri, nei quali essa stessa racconta le sue estasi, analizza le sue visioni e tenta di farcele capire, commossero profondamente il mondo cristiano; vennero subito tradotti in tutte le lingue europee8. Talvolta vedeva il Cristo, la Vergine e la Trinità, che la sbalordivano con la loro bellezza, e talvolta ne indovinava la presenza, senza peraltro vederli; ella sentiva Dio «al centro della sua anima». Il contatto con la divinità era così prepotente, che il suo corpo, ci informa, non era forte abbastanza per sostenerlo, ed essa sprofondava in una di quelle estasi che considerava come il prezzo del riscatto dell’umana debolezza9. Infatti nei grandi mistici la potenza dell’amore divino travolge la forza del corpo. Le pareva di essere lì per morire, e sentiva una freccia penetrarle il cuore. Queste estasi erano rapide, irresistibili, e le succedeva che il corpo fosse sollevato fino a non toccar più terra. «Quando volevo resistere, aggiunge, sentivo sotto ai miei piedi una forza impressionante che mi sollevava»10. Da questi rapimenti, che l’avrebbero poi stroncata, ella usciva più forte per l’azione, più splendente di carità. I contemporanei non si stancavano di ammirare il privilegio accordato a santa Teresa, che invece di innalzarsi lentamente e con fatica verso Dio per mezzo della virtù, si slanciava verso di lui sollevata dall’amore.

Tutti questi mistici realizzavano il sogno di quell’epoca, che era l’unione con Dio; nei conventi erano presi a modello; mai si scrisse tanto sull’unione mistica. San Giovanni della Croce, uno dei primi discepoli di santa Teresa, insegnava il modo di innalzarsi dalla «notte oscura» fino «all’illuminazione». Padre Filippo della Santa Trinità, altro discepolo di santa Teresa, pubblicava la sua Summa theologica mystica, Alvarez de Paz, gesuita, il De gradibus contemplationis, san Francesco di Sales il suo Traité de l’amour de Dieu, José Lopez Ezquerra la Lucerna mystica. Il fatto è che tutti i santi della Controriforma, san Gaetano da Thiene, san Giuseppe Calasanzio, san Felice da Cantalice, san Pietro d’Alcantara, san Giovanni di Dio, san Francesco Saverio godevano del duplice vantaggio della visione e dell’estasi, che sembrava inscindibile dalla santità.

L’estasi e la visione continuarono per alcuni santi anche nel xvii secolo. La carmelitana santa Maddalena de’ Pazzi, morta nel 1607, fu una specie di santa Teresa fiorentina. Le estasi le spalancavano il cielo, dove essa contemplava, nella gloria eterna, la Vergine, san Tommaso d’Aquino, sant’Agostino, san Luigi Gonzaga11. In questi momenti soprannaturali, essa non toccava più terra e pareva volare12. Una visione che durò ventiquattro ore, le fece vedere tutte le tappe della Passione e le fece provare tutte le sue sofferenze13. Non vide l’Inferno, come santa Teresa, ma vide il Purgatorio14. Radiosa di purezza, capace di calmare con la sola apparizione del suo volto angelico i cuori più tribolati, voleva soffrire per la redenzione delle cortigiane, che chiamava sorelle, e faceva colare sulla sua pelle la cera bollente dei ceri, che tingeva del suo sangue15 .

Il beato Giuseppe da Coperchio, il santo più straordinario del xvii secolo, ci viene rappresentato dal suo biografo come sollevato da estasi ininterrotte; alla presenza di Urbano viii ebbe un rapimento che lo sollevò da terra. «Se fratel Giuseppe, disse il papa, morirà sotto il nostro pontificato, io porterò testimonianza di ciò che ho visto»16 .

La Chiesa certamente metteva in primo piano le virtù eroiche dei santi; tuttavia annetteva grande importanza alle loro estasi e visioni, come ci si può convincere leggendo, nel Bullarium romanum, gli atti delle loro canonizzazioni. Per il semplice fedele, estasi e visioni erano il sigillo stesso della santità, e ora vedremo come i pittori furono i docili interpreti del pensiero della Chiesa e dei fedeli.

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II. La vita di sant’Ignazio di Loyola, che fu di volta in volta soldato, studioso, pellegrino, missionario, fondatore dell’ordine, la sua esistenza così poliedrica si riduceva a tre o quattro episodi per gli artisti che in questo, del resto, si attennero alle istruzioni della Compagnia di Gesù.

Uno degli affreschi di Andrea Pozzo, a Sant’Ignazio, e una delle antiche vetrate che ornano le camere occupate dal santo, alla Chiesa del Gesù, ci mostrano san Pietro che appare a un soldato ferito: è la prima visione di sant’Ignazio. Ferito alla gamba, nell’assedio di Pamplona, obbligato al riposo, e già toccato dalla lettura della vita dei santi, che aveva sostituito nella sua ammirazione ai romanzi cavallereschi, vede san Pietro avvicinarsi al letto e guarirlo – soggetto questo che i Gesuiti fecero rappresentare spesso, in particolare da Valdès Leal per la loro casa di Siviglia17 .

Ma di solito è la Vergine che gli appare. È un fatto accettato dalla Compagnia che la Vergine in persona gli avesse ispirato e anzi dettato gli Esercizi Spirituali e la Costituzione dell’ordine18; similmente troviamo molto spesso sant’Ignazio inginocchiato ai piedi della Vergine che gli dice ciò che deve scrivere. In questa interpretazione lo vediamo a Roma, in un quadro nella chiesa di San Vitale. Seghers eseguì un dipinto simile per i Gesuiti di Gand19. Gli arazzi del xvii secolo, che nel giorno della festa del santo vengono esposti nella chiesa del Gesù, collocano l’apparizione nella famosa grotta di Manresa, dove si diceva che fossero stati composti gli Esercizi Spirituali. La ritroviamo in un bassorilievo nella chiesa dei Gesuiti a Cremona. È la stessa grotta che Mignard prese come sfondo per la visione del santo, in un quadro che dipinse per la casa dei novizi gesuiti di Parigi20. L’ordine intendeva in tal modo sottolineare il carattere quasi soprannaturale di questi Esercizi spirituali, che avevano sconvolto tante anime.

Ma la Compagnia di Gesù commissionava agli artisti solitamente un’altra apparizione. Ribadeneira ci narra che il santo, giungendo presso Roma con i primi suoi seguaci, entrò solo in una chiesa abbandonata21. «Là si aprirono gli occhi del suo spirito e vide distintamente Gesù, che portava la croce, raccomandare con profondo affetto lui e i suoi compagni a suo Padre. Poi Gesù volgendosi verso sant’Ignazio con volto pieno di dolcezza gli disse: “Vi aiuterò a Roma”, “Ego vobis Romae propitius ero”»22. Questo episodio assunse per l’ordine un’importanza tutta particolare, poiché fu quello che indusse sant’Ignazio a dare il nome di Gesù alla compagnia che stava per fondare. Per questa ragione lo vediamo spesso rappresentato nelle chiese che sono appartenute ai Gesuiti.

Nella chiesa del Gesù esso occupa un posto d’onore: il famoso altare che sorge sopra la tomba di sant’Ignazio, uno dei più ricchi del mondo cristiano (Tav. 2). Sono pochi i visitatori, credo, che lo notano, poiché la loro attenzione è tutta rivolta alla statua del santo rivestita d’argento e al globo posto sotto la mano di Dio Padre, fatto con il più grande blocco di lapislazzuli del mondo. Queste meraviglie distraggono spesso dal significato dell’opera. Non v’è dubbio comunque che la statua estatica di sant’Ignazio contempli il Padre e il Figlio che compaiono al sommo del frontone; il Figlio regge la croce e si rivolge al Padre che abbassa uno sguardo benevolo su sant’Ignazio: fu questa la visione che avvenne nella chiesa desena nella campagna romana.

A fronte: 2. Andrea Pozzo, altare di Sant’Ignazio, chiesa del Gesù, Roma.

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Nell’abside della chiesa di Sant’Ignazio, Pozzo dipinse con la sua tavolozza chiara il santo inginocchiato davanti al Figlio che porta la croce e il Padre che regge il globo del mondo; ma qui l’iscrizione Ego vobis Romae propitius ero non consente alcun dubbio sull’interpretazione della scena.

A Napoli, al Gesù Nuovo, una grande tela nel braccio sinistro del transetto rappresenta sant’Ignazio in estasi davanti al Padre assiso e al Figlio che porta la croce, che appaiono avvolti da un nembo scuro che avvolge la scena di mistero; si intravede un altare spoglio di tutti gli ornamenti, un altare di chiesa abbandonata, sulla quale s’arrampica l’edera.

Adottata dai Gesuiti, questa visione sarà presente in tutte le chiese dei paesi europei nei quali essi si diffusero. Valdès Leal la dipinse a Siviglia, Abraham Bloemaert a Bois-le Duc23 .

La figura isolata di sant’Ignazio assume quasi sempre un’atteggiamento di estasi. A Manresa, i Gesuiti abbellirono la grotta che fu la culla del loro ordine e il santuario dove il fondatore ebbe le sue lunghe estasi; una statua distesa sul pavimento della cappella rappresenta sant’Ignazio con gli occhi chiusi, la mano sul cuore, e l’anima fuori da questo mondo. A Roma, la statua rivestita in argento della chiesa del Gesù, quella in Sant’Apollinare24, quella in San Pietro25 raffigurano tutte il santo con gli occhi al cielo, nel quale sembra contemplare un’apparizione. Ma nulla può reggere il paragone con la figura di sant’Ignazio dipinta dal Baciccia per la chiesa del Gesù, nella volta che domina l’altare (Tav. 3). È il momento in cui il santo s’innalza nelle sfere dell’eterno: un abisso di luce si spalanca sopra di lui; la testa riversa, stordito dalla luce, il grande lottatore raggiunge finalmente il suo sogno: pare stordito dalla felicità, incantato da uno spettacolo mille volte più bello di quello che avrebbe potuto immaginare. Ecco una nota profonda che il Cristianesimo non aveva ancora toccato.

La vita di san Filippo Neri offriva ai pittori gli spunti più diversi. Potevano raffigurarlo nella stanzetta, dal basso soffitto, che ancora si vede a San Gerolamo della Carità, mentre conversa con sant’Ignazio, san Carlo Borromeo, san Felice da Cantalice, e mentre ascolta la lettura degli Annali di Baronio. Oppure potevano ritrarlo mentre ripeteva il pellegrinaggio alle sette basiliche e conduceva la folla lungo le strade della campagna romana, all’inizio della primavera; oppure ancora in cima al Gianicolo, mentre esaltava il cuore dei giovani che lo circondavano, glorificando le bellezze dell’opera divina. Questo artista, che amava la natura, la musica e la poesia della Roma cristiana, era una figura ideale per ispirare gli artisti. Ma essi non erano liberi di celebrarlo a modo loro: fatta eccezione per due o tre miracoli, erano le sue estasi e le visioni che venivano richieste loro.

A Santa Anastasia, ai piedi del Palatino, Lazzaro Baldi lo dipinse due volte ed entrambe fuori dal mondo. In uno di questi quadri, il santo ha un rapimento nel momento in cui celebra la Messa, nell’altro sviene fra le braccia degli angeli. Alla Chiesa Nuova, nella cappella dove riposa, in questo piccolo santuario che è rimasto per i romani di oggi uno dei luoghi più santi della città, Pomarancio l’ha ritratto in estasi, mentre vede apparirgli san Giovanni Battista, e ascolta la musica degli angeli. Alla Chiesa di San Filippo di Genova, una tela lo mostra mentre celebra la Messa senza che i piedi tocchino i gradini dell’altare.

A fronte: 3. Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccia, Il trionfo del nome di Gesù, chiesa del Gesù, Roma.

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Ma ben presto i suoi discepoli, i Padri dell’oratorio, imposero agli artisti una sorta di rappresentazione ufficiale del loro fondatore. Ricordando che Maria gli era apparsa in diverse riprese, e tenendo presente il culto che egli le dedicava, culto così appassionato che aveva voluto che fosse raffigurata in tutte le cappelle della Chiesa Nuova, decisero di farlo rappresentare in estasi davanti alla Vergine con il Bambino e circondato dagli angeli26 . Il quadro di Guido Reni, trasportato su mosaico (Tav. 4), situato sopra la sua tomba, ce lo mostra così: la Vergine appare al santo, che indossa una pianeta rossa, simbolo della sua carità ardente, e ha un giglio ai suoi piedi. Questa è l’immagine che, dipinta o scolpita, troviamo solitamente nei santuari nei quali lo si è voluto onorare: a San Giovanni dei Fiorentini27 , sulla facciata della chiesa che gli fu consacrata sulla antica via Giulia, nelle stanze dove visse per trentatré anni a San Gerolamo della Carità, come in quella dove spirò alla Chiesa Nuova. Abbiamo detto più sopra che l’ufficialità di tale immagine derivava da quella che era apparsa in San Pietro nel giorno della canonizzazione del santo nel 162228; furono certamente gli Oratoriani a proporla al Papa29 .

Quando per caso san Filippo Neri viene rappresentato senza la Vergine, è raro che un altro particolare non ricordi le sue doti sovrannaturali. L’Algardi, che ne scolpì la statua per la sacrestia della Chiesa Nuova (Tav. 5), e che l’ha ritratto con gli occhi al cielo come in ascolto di una musica celeste, ha posto accanto a lui un angelo con un libro aperto. Vi si leggono le parole del salmo: «Dilatasti cor meum», «Hai dilatato il mio cuore». Evidente allusione al potente cuore di san Filippo, che aveva fatto inarcare due costole per trovare più spazio. Lo stesso angelo e la stessa iscrizione vediamo dipinti accanto a san Filippo Neri in una delle cappelle in San Giovanni in Laterano30. A San Pietro a Roma, l’angelo che sta accanto alla statua di san Filippo in estasi porta questa iscrizione: «De excelso misit ignem in ossibus meis», «Ha inviato dal cielo il fuoco nelle mie ossa». Si tratta, questa volta, di una allusione a quella specie di incendio interiore che faceva ardere il suo petto. In tal modo, in san Filippo Neri sono state messe in luce le meraviglie del soprannaturale.

Lo stesso accadde per santa Teresa.

Quante belle scene avrebbero potuto fermare gli artisti che si accingevano a narrare la sua vita! Potevano ricrearla nell’austera Avila dalle mura di granito, dove in primavera si respira l’aria pura e ghiacciata delle altitudini; oppure potevano mostrarcela nella grave Castiglia, la Castiglia nerovestita di Carlo v e di Filippo ii, mentre conversa con personaggi simili alle ardenti figure del Greco, con san Francesco Borgia, con san Pietro d’Alcantara, con san Giovanni della Croce: poi, attraverso i deserti della Spagna, a dorso di un muletto, per andare a fondare un monastero a Burgos o a Salamanca. È difficile concepire spunti più adatti a sedurre l’immaginazione. I pittori del xvii secolo vi avrebbero lavorato con sommo piacere; ma dovevano lavorare per il monastero del Carmelo e dovevano limitarsi a tre o quattro scene, sempre le stesse, atte a esaltare i doni soprannaturali della santa. E per santa Teresa avvenne lo stesso che per sant’Ignazio di Loyola e san Filippo Neri; i pittori non narrarono la sua vita, non ne celebrarono il genio creatore, non ci fecero vedere le lotte con i grandi di questa terra e

4. Guido Reni, San Filippo Neri in adorazione della Madonna, 1614, olio su tela, 180,0 x 110,0 cm, chiesa di Santa Maria in Vallicella, Roma.

vii. l’alone luminoso: la visione e l’estasi

la luce nell’arte vii. l’alone luminoso: la visione e l’estasi

A fronte: 5. Alessandro Algardi, statua di san Filippo Neri, sacrestia della chiesa Nuova, Roma. le sue vittorie, essi rappresentarono soltanto alcune delle sue visioni. L’arte non fece da tramite tra la santa e gli uomini, ma la metteva in rapporto solamente con Dio. E non era forse questa la vera, la sola maniera per farci comprendere santa Teresa? Che cosa sarebbe la vita pittoresca che possiamo immaginare a confronto col dramma profondo della sua vita interiore?

Nessuna visione parve tanto importante al Carmelo quanto quella che essa ebbe nel momento in cui meditava la riforma del suo ordine. Già da molto tempo si proponeva di fondare un nuovo convento e dargli una regola più austera, ma incontrava ovunque difficoltà insormontabili. Nel 1561, nel giorno dell’Assunta, mentre stava nella chiesa dei Domenicani di Avila, ebbe un rapimento improvviso che la portò all’estasi. «Mi pareva, ci narra, di essere vestita di un manto di un candore abbagliante. Dapprima non sapevo chi me lo poneva addosso, ma presto vidi alla mia destra la santissima Vergine Maria, e alla mia sinistra san Giuseppe, mio protettore e mio padre, che mi ricoprivano del manto; nello stesso tempo mi si fece capire che ero stata purgata dai miei peccati. La Madre di Dio, prendendomi le mani, mi disse che il progetto che avevo di creare un nuovo monastero si sarebbe realizzato; suo Figlio aveva promesso di assistermi ed aggiunse che come pegno della promessa mi dava la sua collana. E dicendo queste parole, mi mise al collo una bellissima collana d’oro, da cui pendeva una croce molto preziosa». Santa Teresa ci informa inoltre che, durante questa visione, san Giuseppe rimase un poco velato al suo sguardo, ma che la Vergine le apparve radiosa di bellezza e di gioventù. Degli angeli li accompagnavano e risalirono insieme a loro in cielo31. Ora, poco tempo dopo, la santa ricevette una lettera del papa che l’autorizzava a fondare un convento dove applicare la sua riforma; fu così che poté fondare nel 1562 il monastero di san Giuseppe d’Avila.

La visione del mantello e della collana contrassegnava dunque gli inizi del Carmelo riformato; e fu quindi logico rappresentarli nelle chiese dell’ordine. Li si trova infatti molto sovente.

A Roma, a San Giuseppe a Capo le Case, dove i primi religiosi carmelitani vennero a stabilirsi nel 1598, un dipinto di Lanfranco ritrae una graziosa santa Teresa, inginocchiata, che riceve la collana dalle mani della Vergine, in presenza di san Giuseppe che sta in penombra32. In Sant’Egidio, a Trastevere, il cui monastero accolse i Carmelitani nel 1610, un quadro di anonimo ci fa vedere san Giuseppe che ricopre la santa del bianco mantello, mentre la Vergine le tende una collana d’oro. I Carmelitani che occupavano l’antica chiesa di San Martino ai Monti, vollero avere anch’essi la visione di santa Teresa; e anche qui la Vergine le porge la collana, mentre san Giuseppe sembra reggere il mantello. Ma neppure gli angeli visti dalla santa sono stati dimenticati: i monasteri del Carmelo richiedevano spesso questo soggetto ai pittori; i religiosi di Fano lo pretesero di mano dell’Albani33 e fu certamente per conto dei Carmelitani che il Guercino eseguì il quadro della Pinacoteca di Brera a Milano, nel quale la Vergine assisa sopra le nubi consegna la collana alla santa.

Lo stesso avvenne in Francia. Jean Daret dipinse nel 1641 per i Carmelitani scalzi di Aix-en-Provence santa Teresa ricoperta da un bianco man-

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tello per mano della Vergine e di san Giuseppe, che oggi vediamo nella chiesa della Maddalena. A Parigi, Nicolas Loir eseguì per i Carmelitani scalzi del Faubourg Saint-Germain un quadro, che conosciamo attraverso una stampa34: la Vergine e san Giuseppe donano il mantello a santa Teresa, che porta già al collo la collana con la croce; degli angeli assistono a questa meravigliosa scena che si inquadra in una architettura classica.

Altre visioni di santa Teresa ebbero la consacrazione dell’arte. La santa stessa riferisce che Gesù Cristo le appariva spesso: «Talvolta, racconta, mi mostrava le sue piaghe, talvolta lo vedevo nell’Orto degli Ulivi, poi coronato di spine, che portava la croce, e poi crocifisso»35 .

È una di queste apparizioni che ritroviamo in un delizioso dipinto al museo di Aix-en-Provence, attribuito a Jean Baptiste de Champagne36: assiso sulle nuvole il Cristo, con la corona di spine, mostra le sue piaghe a santa Teresa. La santa, in ginocchio davanti a lui, le mani incrociate sul petto, vestita in bianco e nero, graziosa e leggera, sembra posata come una rondine che sta per spiccare il volo; la scena si staglia su un fondo d’oro attraversato da nuvole cupe e sembra situata al di fuori dello spazio e del tempo. Talvolta aveva la visione di tutta la Trinità, e così la raffigura un quadro del Guercino, nella stessa sala del museo di Aix37 .

Ma fra tutte queste visioni, due ebbero uno spicco tutto particolare, poiché il Papa le menziona espressamente nella bolla di canonizzazione38 .

La prima è quella dell’unione mistica col Cristo. Un giorno che si era appena comunicata per mano di san Giovanni della Croce, Gesù le apparve e disse: «Non temere, figlia mia, poiché nessuno potrà separarmi da te...», e tendendo la sua mano destra: «Vedi questo chiodo, disse, significa che da questo momento siamo promessi»39. Ancora oggi vediamo nel convento dell’Incarnazione d’Avila la tavola della comunione sulla quale santa Teresa si fidanzò con il Cristo. Sopra, un quadro ci mostra santa Teresa in ginocchio davanti a Gesù Cristo che, al posto di un anello, le porge un chiodo della Passione, simbolo dell’unione attraverso la sofferenza. Era veramente un fidanzamento adatto a una donna che aveva per motto: «O morire, o soffrire». È probabile che questa visione abbia ornato moltissimi monasteri del Carmelo. Jean-Baptiste Corneille l’aveva rappresentato per i Carmelitani scalzi di Parigi40. E ancor oggi la vediamo nella chiesa dei Carmelitani di Sant’Egidio a Roma.

La mistica unione fra il Cristo e santa Teresa aveva dato origine a una leggenda che si ripeteva nei conventi dell’ordine. Si diceva che la santa avesse incontrato un giorno nel suo monastero un bel fanciullo che non conosceva e al quale chiese il nome. «“Dimmi prima il tuo”, rispose il fanciullo. “Mi chiamo Teresa di Gesù”, rispose la santa. “E io, riprese il fanciullo, mi chiamo Gesù di Teresa”»41. Per questa ragione, ad Alba de Tormes, sopra al famoso reliquiario che contiene il cuore della santa, si vedono due angeli che portano due stendardi; su uno si legge Theresa de Jesus e sull’altro Jesus de Theresa.

Il reliquiario è dominato da un gruppo che raffigura Teresa in ginocchio e un angelo che brandisce una freccia. È questa la seconda visione citata dalla bolla del papa e più famosa di tutte, quella della transverberazione...

Ecco come la santa la racconta: «Dio volle che vedessi alla mia sinistra un angelo sotto forma corporea... Non era grande, ma era molto bello; il suo volto ardente indicava che apparteneva a quell’ordine della gerarchia celeste nella quale gli angeli sembrano ardere. Vengono chiamati, credo, serafini; infatti, quando gli angeli mi appaiono in cielo, noto delle differenze fra di loro, ma non so esprimerle a parole. Aveva in mano un lungo giavellotto d’oro, dalla cui punta di ferro sfuggiva una fiamma. Improvvisamente mi trapassò il cuore fino alle più profonde fibre e mi parve che ritraendolo ne strappasse dei brandelli. Poi mi lasciò tutta infiammata d’amore di Dio. Il dolore era così forte che mi strappava dei gemiti, ma la dolcezza che lo accompagnava era così grande che non avrei voluto che la sofferenza cessasse, poiché la dolcezza altro non era che Dio stesso. Questa sofferenza non è del corpo ma dello spirito, benché anche il corpo vi prenda parte»42 .

Abbiamo detto che la transverbazione figurava nello stendardo sospeso alla volta in San Pietro a Roma, nel giorno della canonizzazione della santa. La scena assunse dunque, fin dall’inizio, un carattere Canonico così che non ci si meraviglia di ritrovarla tanto spesso.

Il Bernini la rese celebre con un’opera magica (Tav. 6), nella quale il marmo raggiunge la morbidezza della cera. Quasi svenuta sotto ai veli, semidistesa sulle nuvole che la separano dalla terra, una mano abbandonata senza forza, e mostrando nella sua agonia il piede scalzo della carmelitana, santa Teresa ha davanti a sé un grazioso fanciullo alato che dirige la freccia contro il suo cuore. Secondo il parere del troppo intellettuale presidente de Brosse, è qualificante considerare con un sorriso di sufficienza questo gruppo di Santa Maria della Vittoria. Tali sottintesi avrebbero molto stupito i contemporanei del Bernini e il Bernini stesso, che aveva inteso con tutta l’anima dar gloria a colei che impersonificò la purezza, e che non conobbe mai che cosa potessero essere i turbamenti dei sensi43. L’equivoco è dovuto in parte al fatto che l’opera del Bernini, nonostante tutte le precauzioni da lui prese per valorizzarla come doveva, non gode di buona visibilità. Posto alquanto in alto e lontano dagli occhi dello spettatore, il gruppo non riesce a mostrare la vera espressione dei volti, che invece la fotografia ci ha rivelato. Contrariamente a ciò che si dice, il sorriso dell’angelo non ha malizia alcuna; ma spira invece una ingenua bontà velata da una lieve tristezza, poiché sa bene che con la gioia celeste egli arrecherà anche sofferenza. Quanto alla santa, aleggia sui tratti doloranti, sugli occhi semichiusi, sulla bocca semiaperta una austerità che è quella della morte. È la stessa espressione di un’altra santa del Bernini, la beata Albertoni (Tavv. 7, 8), che egli ha ritratto morente in un’estasi di amore divino44. Fedele interprete di santa Teresa, il Bernini ha qui espresso la sconfitta della natura che soccombe nell’impatto con il divino.

L’opera del Bernini ha messo in secondo piano tutte le altre transverberazioni di santa Teresa. Eppure è questo un soggetto che si incontra spesso nelle chiese dell’ordine del Carmelo. A Roma lo vediamo dipinto o scolpito a Sant’Egidio, a Santa Maria Traspontina, a Santa Maria della Scala, accanto all’altare nel quale si conservano le reliquie della santa. A Santa Maria Traspontina, la tenebrosa tavola del siciliano Calandrucci rivela un carattere

vii. l’alone luminoso: la visione e l’estasi

la luce nell’arte vii. l’alone luminoso: la visione e l’estasi

6. Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa d’Avila, 1645-1652, marmo e bronzo, 350 cm, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma. 7, 8. Particolari dell’ Estasi di santa Teresa d’Avila.

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fortissimo. La santa in ginocchio sta per venir meno e, sostenuta da un angelo, esprime, con la sua veste bianca e nera così severa e così casta, nobiltà e purezza; una mano sul petto, lascia cadere dall’altra il libro che teneva aperto; un angelo scosta le pieghe del mantello, affinché il piccolo serafino che impugna il giavellotto, possa colpirle il cuore.

L’arte francese non possiede nulla che possa paragonarsi a queste opere eccelse. La santa Teresa di Mignard, a Saint-Sébastien di Narbona, inginocchiata, gli occhi al cielo, ha accanto a sé un angioletto privo di qualsiasi nobiltà: si tratta di un’opera abilmente concepita, ma nella quale manca la profondità del sentimento.

La ferita, di cui si dice con certezza che il cuore della santa portasse la cicatrice, era un soggetto di conversazione fra i più amati nei monasteri del Carmelo. Le carmelitane chiesero al papa il permesso di celebrare una festa in onore della transverberazione della santa; Benedetto xiii lo concesse nel 172645; ed è probabile che la decisione pontificia abbia contribuito alla ulteriore diffusione di questa scena miracolosa. La santa Teresa di Saint-Nicolas du-Chardonnet, nella quale la santa sostenuta dagli angeli riceve la freccia da un serafino che scende dal cielo, è opera del xviii secolo; sicuramente fu eseguita dopo il 1726, in occasione della nuova festività.

L’arte, dunque, ha rappresentato soltanto le estasi di santa Teresa; anche quando gli artisti ce la dipingono sola nella sua cella, la penna in mano, richiamano di solito una delle sue visioni. È raro infatti che non si veda una colomba volare sopra il suo capo. Si potrebbe essere indotti a pensare che la colomba, immagine dello Spirito Santo, stia a indicare il carattere soprannaturale dell’opera di santa Teresa, conferendole una sorta di significato sacro; ma sarebbe una supposizione eccessivamente ardita. La colomba, simbolo dell’ispirazione divina, compare talvolta sopra la testa dei profeti, dei Padri o dei Dottori della Chiesa universale; ma a santa Teresa non spetta nessuno di questi titoli46. In realtà anche qui si tratta di una visione della santa. Infatti essa ci narra nella sua Vita che la vigilia di Pentecoste, meditando sulla presenza dello Spirito Santo nella sua anima, vide una colomba volare sulla sua testa: «Era, dice, molto diversa da quelle che ci sono quaggiù, perché invece di piume le sue ali parevano fatte di scaglie di madreperla, che diffondevano una viva luce; ed era anche più grande di una colomba comune»47. Per questa ragione Velázquez, Zurbaran48 e lo scultore Pedro de Mena49 in Spagna, Mancini50 in Italia, Le Brun51 in Francia, Rubens52 nelle Fiandre rappresentarono santa Teresa, in piedi o inginocchiata, gli occhi rivolti al cielo, e una colomba che vola al di sopra del suo capo. Per la maggior parte dei fedeli, la colomba faceva di santa Teresa uno scrittore ispirato; e i monasteri del Carmelo non potevano che favorire questa interpretazione, dato che facevano spesso rappresentare santa Teresa con il berretto di dottore in teologia, per sottolineare quanta stima riservassero alla sua dottrina53 .

Vediamo che i grandi santi della Controriforma, sant’Ignazio di Loyola, san Filippo Neri, santa Teresa, infaticabili creatori che lasciarono sulla terra una così profonda traccia del loro passaggio, furono rappresentati solo nei momenti in cui venivano in contatto col cielo.

Della vita dei santi più recenti, la Chiesa volle che gli artisti eternassero gli stessi momenti soprannaturali.

Le leggende delle sante religiose del Medioevo, narrate dai pittori del xiv secolo, presentano degli episodi incantevoli che le rendono di questa terra: attingono acqua fresca alla fontana del convento, portano alla malata il dolce fatto con le loro mani, ricevono il viandante che giunge sul suo muletto alla porta del convento. Nel xvii secolo, invece, le sante religiose, distaccate da tutte le vicende di questo mondo, contemplano nell’estasi la Vergine, il Cristo o i santi.

Esiste a Roma, nella chiesa di Santa Maria del Monte Santo che apparteneva alle Carmelitane di Sicilia, un’elegante cappella, dedicata a santa Maria Maddalena de’ Pazzi. È opera di Rinaldi e i quadri che la ornano sono stati dipinti da Ludovico Gimignani, contemporaneo e amico del Bernini. Una Vergine vestita di azzurro, piena di grazia e purezza, dalle mani sottili, prende da un vassoio recatole da un angelo un velo trasparente e lo pone sulla testa di santa Maria Maddalena dei Pazzi, inginocchiata ai suoi piedi. Natura ardente, vibrante come uno strumento musicale, tutta nervi, la giovane carmelitana era talvolta sconvolta dalla violenza delle sue tentazioni. Un giorno, all’estremo delle forze, rivolse un’ardente preghiera alla Vergine, che le apparve e la coprì con un velo bianco; subito si sentì liberata e capì di aver vinto per sempre54 .

Nella stessa cappella, un altro dipinto rappresenta una scena misteriosa: un vescovo si china verso la santa inginocchiata e pare scriverle sul petto. Si tratta dell’apparizione di sant’Agostino a santa Maria Maddalena de’ Pazzi mentre meditava un giorno sul Vangelo di san Giovanni. Il santo vescovo le scriveva in cuore, ci spiega il suo biografo, le parole che provocavano i suoi trasporti d’amore: Verbum caro factum est. Verbum fu scritto a lettere d’oro; caro factum est in lettere di sangue; l’oro stava a rappresentare la divinità di Gesù Cristo, il sangue la sua umanità55 .

Tali scene mistiche, grazie alla bravura del pittore e dell’architetto, erano colme di purezza e beltà. Degli angeli a rilievo reggono una ghirlanda che forma una corona tutto intorno alla cappella, e la volta sembra aprirsi verso il cielo dove il Cristo appare in una luce dorata.

Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, questa santa dolorosa, sempre palpitante e tremante davanti a Gesù, aveva conquistato il cuore dei fiorentini, suoi compatrioti. Nel xvii secolo, essi abbellirono il coro di un’antica chiesa che le consacrarono; questo coro, sormontato da una cupola, rivestito di marmi preziosi, adorno di bassorilievi in bronzo di delicato disegno, di statue allegoriche e di quadri di Luca Giordano, è di rara magnificenza. I bassorilievi ritraggono alcuni episodi della vita della santa: i quadri del coro e della navata li ripetono o ne narrano altri. Ma quadri e bassorilievi ci mostrano solo estasi e visioni: Gesù Cristo celebra il fidanzamento con la santa; la Vergine le porge il Bambino che ella prende amorevolmente fra le braccia; il Cristo le presenta il fasciculus myrrhae del Cantico dei Cantici, che è una specie di serto funerario composto da tutti gli strumenti della Passione56; essa si comunica da sola57; riceve il velo che la Vergine le porge58; vede san Luigi Gonzaga accolto in cielo dopo la sua morte59 .

vii. l’alone luminoso: la visione e l’estasi

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Anche i napoletani le dedicarono una chiesa, quella del Santo Sacramento. Bisogna leggere nel libro di padre Mastelloni60 la descrizione delle scene di estasi che ornavano la navata nel giorno della consacrazione. I due biografi della santa, Puccini e Capari, avevano fornito gli episodi più infiammati della sua vita. La si vedeva portare fra le sue braccia Gesù Cristo che aveva staccato dalla croce, poi con le labbra sulle sue piaghe beveva il sangue dalle sue ferite61 .

Gli ordini religiosi che sposavano così appassionatamente la vita interiore dei loro grandi mistici non temevano di far rappresentare anche ciò che poteva esserci di strano nelle loro estasi. Desideravano mostrarli mentre superavano i limiti della umana natura, spiritualizzando il loro corpo con la potenza dell’anima.

A Roma, nel chiostro della Minerva, dove degli affreschi della fine del xvi secolo e dell’inizio del xvii celebrano il più illustre di tutti i Domenicani, si vede papa san Pio v in estasi. Un angelo spiega dinanzi a lui un velo sul quale si vedono le flotte della battaglia di Lepanto: è il momento in cui il pontefice, rapito in spirito, così ci informa il suo biografo, assistette da Roma alla battaglia e annunciò la vittoria.

L’estasi che solleva i mistici da terra, questo miracolo che gli storici dei santi della Controriforma propongono così spesso alla nostra ammirazione, non è stata mai dimenticata. Alcune opere nelle quali l’uomo pare leggero come un angelo possono sorprenderci per la loro stranezza; uno di questi quadri si trova a Roma nella chiesa di Santa Dorotea in Trastevere, che appartenne ai Francescani. Il frate minore Giuseppe da Copertino vola leggero come un uccello sopra a una croce, mentre alcuni fedeli lo guardano con ammirazione62. Ascoltiamo il suo biografo: «Su una collina, racconta, vicino a Copertino si voleva ricostruire un’imitazione del Calvario. Erano già state innalzate due croci, quanto alla terza, più alta delle altre, dieci uomini non riuscivano a collocarla. Improvvisamente il beato, rapito in estasi, volò dalla porta del convento verso la croce, la sollevò come fossa di paglia, e la conficcò nella buca preparata per accoglierla. In seguito gli succedeva spesso di pregare accanto a queste croci; trasportato dall’amore per Gesù Crocifisso, volava fino al braccio trasversale della croce centrale e spesso vi planava sopra»63. Questo fu l’insolito soggetto fatto raffigurare dai Francescani di Santa Dorotea per render gloria al loro beato64. Gli artisti del Medioevo non avrebbero mai osato una cosa simile. Invece nelle chiese romane troviamo più di una scena del genere: a San Carlo alle Quattro Fontane, chiesa dei Trinitari scalzi, un quadro rappresenta il beato Gian Battista della Concezione, riformatore dell’ordine, trasportato dall’estasi al di sopra del suolo65 .

Il genio spagnolo così realista e insieme così mistico non poteva esitare nel rappresentare dei santi sollevati durante la contemplazione. Al Louvre, Murillo ci mostra san Diego d’Alcala che s’innalza dal suolo, mentre gli angeli preparano il pasto del monastero; al museo di Tolosa, ce lo fa vedere sollevato davanti alla croce, in presenza del vescovo di Pamplona. Zurbaran ha dipinto san Francesco d’Assisi, sottratto al mondo, mentre si libra alto nel cielo66; nei suoi celebri Annales, Wadding aveva infatti raccontato che san Francesco era talvolta così trasportato dall’estasi che spariva alla vista67 .

Non arriva fino a Rubens, che pur non ama staccarsi dalla nutrice terra, il quale non ci mostra san Francesco da Paola sollevato in un rapimento68. Per meglio esprimere ciò che di sovrannaturale c’è nell’estasi, e anche per dare un piano d’appoggio a queste figure fluttuanti, gli artisti immaginarono spesso di ritrarre i santi sollevati dagli angeli, nel momento del loro rapimento. Così è concepito il gruppo di san Giovanni della Croce, del Cristo e degli angeli a Santa Maria della Scala in Trastevere. L’ardente mistico, che non si stancava di chiedere giornalmente a Dio la grazia di soffrire, che la sola parola croce mandava in estasi, ha un rapimento in presenza del Cristo Crocifisso. E starebbe sospeso fra cielo e terra se non fosse sostenuto da angioletti che sembrano innalzarlo verso la croce; egli la contempla, le mani spalancate, il capo riverso, come per far dono di sé69. Nella stessa chiesa un bassorilievo di Filippo Valle rappresenta nell’identico modo l’estasi di santa Teresa70; alcuni angeli la trasportano al di sopra della terra rendendo visibile quella forza soprannaturale, di cui ella ci parla, che la sollevava senza che potesse opporre resistenza.

Per quanto singolari ci possano sembrare oggi opere di questo genere, si può capire il loro potere di seduzione su anime piene d’ardore. Questo sforzo di sfuggire alla terra, questo slancio che trascina tutto l’essere verso il cielo, non è forse l’essenza stessa del Cristianesimo? Come si sarebbero potute meglio presentare queste anime tristi e passionali, questi abissi di desiderio, che nulla poteva colmare se non Dio stesso?

III. Perciò nel xvii secolo i grandi santi dei tempi nuovi furono quasi sempre rappresentati nei momenti eccezionali dell’estasi. Ma per uno strano fenomeno anche i santi del passato apparvero sotto questo aspetto; vennero infatti messi in luce alcuni aspetti della loro vita un tempo trascurati.

Ricordiamo gli affreschi di Assisi nei quali Giotto ha narrato la vita di san Francesco; vi ritroviamo le scene principali della sua storia: lo vediamo mentre restituisce le vesti al padre sulla piazza di Assisi, in ginocchio davanti al pontefice a Roma, mentre predica il Vangelo in presenza del sultano di Egitto, mentre parla agli uccelli sulle colline dell’Umbria, e celebra a Greccio la Messa di mezzanotte. Vediamo anche i suoi funerali e le sorelle di santa Chiara che baciano le sue mani con le stigmate. Fra la nuova pittura italiana e la fresca bellezza della leggenda si era creata un’armonia che non si ripeterà più.

Nel xvii secolo i pittori non seguono più passo a passo il santo; non rappresentano più gli episodi illustrati da Giotto71, ma riassumono la vita di san Francesco in due o tre scene di estasi che ritroviamo continuamente. Pare che i Francescani abbiano voluto dimostrare che san Francesco poteva rivaleggiare con santa Teresa e con sant’Ignazio di Loyola, e che al pari di loro era stato colmato di grazie. Infatti quei momenti di annientamento in Dio che contrassegnano ora la santità sono grazie eccezionali.

Vennero scelti nella sua leggenda episodi miracolosi che il Medioevo aveva trascurato.

vii. l’alone luminoso: la visione e l’estasi

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Mi sono imbattuto spesso in Spagna, nelle chiese francescane, in una curiosa visione di san Francesco: un angelo gli appare, presentandogli un’ampolla di vetro piena a metà di acqua limpida72. Nessuno dei religiosi interrogati da me fu in grado di spiegarmi il significato del quadro, e io stesso lo cercai a lungo. Ma finalmente, dopo aver sfogliato molte Vite di san Francesco, riuscii a scoprirlo leggendo l’Historia serafica di p. Salvatore Vitale, apparsa a Milano nel 164573. Seppi che san Francesco ebbe per qualche tempo il desiderio di farsi prete, ma esitava a prendere una così grave decisione, non giudicandosi degno di un simile onore. Un giorno, mentre pregava Dio perché lo ispirasse, gli apparve un angelo che aveva in mano un’ampolla che conteneva dell’acqua trasparente: «Guarda Francesco, gli disse, così deve essere colui che vuole distribuire agli uomini il corpo e il sangue del Cristo». Il santo nella sua umiltà pensò che non avrebbe mai raggiunto una perfezione simile e rinunziò al sacerdozio.

Questo soggetto, di cui non conosco esempi anteriori al xvii secolo, non è particolare della Spagna, anche l’Italia lo rappresentò, come dimostrano un dipinto del Guercino e uno di Lorenzo Lippi74 .

San Bonaventura racconta che durante una grave malattia, san Francesco chiese di ascoltare della musica, e poiché non era possibile accontentarlo, furono gli angeli a soddisfare questo suo desiderio. Una notte che meditava su Dio, udì il suono meraviglioso di una cetra ed ebbe un tal rapimento che gli parve di aver già lasciato questo mondo75. L’estasi attraverso la musica parve certo seducente in un’epoca nella quale, nei cori di Palestrina, si credeva udire la voce degli angeli. A partire dalla fine del xvi secolo la scena appare sempre più spesso nella produzione artistica. Essa illustra una Storia dell’ordine serafico, che uscì a Venezia nel 158676; venne dipinta da Francesco Vanni, e incisa da uno dei Carracci77. All’inizio del xvii secolo, la rappresentarono sia il Domenichino78 che il Guercino79. A Roma la vediamo sul grande altare del transetto dell’Aracoeli, nella chiesa di San Bernardino da Siena, e in quella di Santa Barbara, nella Galleria Corsini80 .

Dall’Italia passò in Spagna. Murillo la eseguì81, ma fu Ribalta, nel suo quadro del Prado (Tav. 9), che le diede la sua più alta espressione. San Francesco, semidisteso su una rozza coperta, è un giovane francescano dagli occhi neri; ascolta la musica dell’angelo in quell’estatica immobilità, così spirituale, che infonde tanta profondità di contenuto nell’arte spagnola. Le mani e i piedi del santo hanno piaghe sanguinanti, poiché gli artisti, istruiti dai dotti frati dell’ordine, sapevano che l’episodio dell’angelo musicante era successivo a quello delle stigmate, e precedeva di poco la morte del santo82. Anche Van Dyck lo sapeva, come Ribalta, e lo dimostra il suo bel quadro al museo del Prado, nel quale san Francesco con le stigmate ascolta a occhi chiusi la musica del cielo. È raro infatti che gli artisti in questa scena dimentichino le stigmate83 .

A partire dalla fine del xvi secolo un altro episodio sedusse la fantasia. Si diceva che la Vergine fosse apparsa un giorno a san Francesco in mezzo a una luce accecante e gli avesse messo fra le braccia il Bambino Gesù; il santo, portandolo con rispetto e tenerezza, come già fece il vecchio Simeone, lo pregava per la conversione dei peccatori e la salvezza del mondo. Un

A fronte: 9. Francisco Ribalta, San Francesco confortato da un angelo, 1620 ca., olio su tela, Museo del Prado, Madrid.

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frate che per caso si trovò testimone della scena, ne fu così profondamente scosso da cadere svenuto. San Francesco lo fece rinvenire e gli proibì di divulgare ciò che aveva veduto; il frate promise, ma non mantenne la promessa84 .

Ludovico Carracci dipinse questo soggetto: san Francesco in ginocchio tiene il Bambino fra le braccia, mentre la Vergine in piedi contempla gravemente la scena; il compagno di san Francesco si intravede nel fondo del paesaggio85. Pietro da Cortona dipinse la Vergine che presenta il Bambino a san Francesco che lo riceve adagiato su un velo86. Ma nessuna opera di questo genere raggiunge la bellezza di un quadro di Orazio Borgiani che si trova oggi nel palazzo municipale di Sezze, in provincia di Roma. San Francesco, giovane francescano dal viso delicato, non fissa il Fanciullo che porta in braccio, ma la Vergine che glielo ha appena consegnato e che ha ancora le braccia tese.

Lo sguardo riconoscente che le rivolge esprime tutto il suo cuore. Quello sguardo, quel corpo teso in avanti che è tutto fervore, si imprimono nella memoria come la testimonianza della profondità espressiva della nuova arte cristiana. In primo piano il compagno di san Francesco manifesta il suo stupore e gli angeli in cielo fanno corona intorno alla Vergine. La fede estatica, il mistero, la luce soprannaturale e le ombre profonde fanno di questa opera una di quelle che meglio esprimono lo spirito di un’epoca.

Ma solitamente, nel xvii secolo, una scena riassume tutta la vita di san Francesco, quella delle stigmate. Si pensava che in quel giorno avesse ricevuto il sigillo di Dio, diventando Signifer Christi87: il primo fra gli uomini a essere, grazie alle cinque piaghe sulle membra e sul petto, l’immagine stessa del Cristo crocifisso88; privilegio incommensurabile, e per cui l’ordine provò grandissimo orgoglio. Ne volle perciò eternare il ricordo con il suo emblema, che mostra il braccio di Cristo che incrocia quello di san Francesco, e le due mani segnate dalle medesime piaghe. Questo geroglifico, sormontato dalla croce, sembra aver tratto origine dal libro famoso della Conformité de Saint François et du Christ89 , che ebbe una riedizione nel 1590 con un commento di frate Geremias Bucchius, a Bologna, e venne ampliato da Petrus de Alva a Madrid, nel 165190 .

Si vede, nella prima pagina dell’edizione spagnola, Assisi contrapposta a Nazareth e il monte Averna al Calvario. I Francescani non intendevano certo fare opera blasfema, giudicando san Francesco uguale a Gesù; volevano solo affermare che, dopo l’incarnazione, nessuna creatura umana aveva realizzato meglio la figura del seguace di Cristo, così come ce lo propone il Vangelo, e nessuno era assomigliato di più al modello divino, il che era perfettamente vero.

L’impressione delle stigmate fu dunque l’episodio della vita di san Francesco che i conventi francescani richiesero più sovente agli artisti, ma la scena assunse un carattere molto singolare, conforme allo spirito dei tempi nuovi.

In precedenza Giotto e i suoi successori avevano ritratto san Francesco in ginocchio contemplante il Cristo in croce che appare in cielo; secondo il racconto dei biografi più antichi, questo Cristo crocifisso assomigliava a un serafino, di cui aveva le sei ali. Per sottolineare che le piaghe del Salvatore si erano impresse ognuna sul corpo del santo, lunghi raggi d’oro, che partivano dalle mani, dai piedi e dal costato del Cristo, raggiungevano le mani, i piedi e il costato di san Francesco. Si trattava di un artifizio immaginato dai pittori per rendere visibile la sostanza del mistero, poiché i biografi del santo non dicono nulla di simile: essi riferiscono invece che san Francesco contemplò con amore e tristezza il suo Dio crocifisso e che solo quando la visione fu sparita si accorse di portare sul suo corpo le piaghe di Gesù Crocifisso91. Un monaco seduto da un lato completa l’iconografia di questi quadri del xiv secolo; egli è immerso nella sua lettura senza immaginare che a pochi passi da lui si compie un miracolo. Si tratta di frate Leone, l’unico dei compagni che san Francesco abbia portato con sé in questa sortita sul monte dell’Averna, dove era venuto a cercare la pace, ingiungendogli di non disturbare la sua solitudine92 .

L’episodio delle stigmate così come l’avevano immaginato i pittori del Medioevo affievolì, col trascorrere del tempo, quel suo carattere di selvaggia grandezza. Non che sparisse del tutto; anche certi artisti del xvii secolo gli conservarono un suo carattere particolare. Anche Rubens ha rappresentato, per i Cappuccini di Colonia, san Francesco in ginocchio davanti al grande cherubino crocifisso93. In Francia un forte quadro di Frère Luc, che noi conosciamo solo attraverso una stampa94, ci mostra Gesù Cristo che lancia da entrambe le mani la folgore a san Francesco. Ma dobbiamo a Vicente Carducho l’opera più insolita eseguita per l’ospedale San Francisco el Grande di Madrid95. Gesù, che ha le grandi ali del serafino, appare crocifisso a san Francesco, e il santo, sospeso a mezz’aria, il viso accanto al volto divino, apre le mani come se le presentasse alla fiamma; opera che appare straordinaria ma che esprime una tradizione leggendaria accettata da alcuni scrittori dell’ordine. Petrus de Alva, per esempio, afferma che san Francesco stava sospeso in aria quando ricevette le stigmate e che a ogni trafittura ricadeva sulla terra per essere poi miracolosamente risollevato96. L’esempio non è isolato, poiché un dipinto nella chiesa di Santa Chiara a Napoli raffigura san Francesco sollevato da terra nel momento in cui riceve le stigmate97 .

Troviamo però anche delle eccezioni. L’immagine geroglifica del Cristo in croce trasformato in serafino e dardeggiante lunghi raggi d’oro, questa singolare figura di sogno, non era la più adatta a ispirare artisti sensibili alle forme pure, e alla fine del xvi secolo venne in gran parte abbandonata. Solo el Greco la usa ancora, ma riducendola a proporzioni tali da essere appena notata98. In Italia, il serafino crocifisso fu sostituito da una testina d’angelo (provvista talvolta da sei ali) sperduta nelle profondità del firmamento. È sotto questa forma che la vediamo a Roma nel quadro di Tommaso Laureti a San Giovanni in Laterano, opera anteriore al 1600; è molto simile al quadro di San Lorenzo in Panisperna e a quello della Chiesa delle Stigmate di San Francesco. Quest’ultima opera, eseguita da Trevisani, possiede una bellezza che le viene dalla notte fonda che avvolge il miracolo e dal commovente atteggiamento di san Francesco, che si intravede in penombra con le braccia in croce, simile al Cristo crocifisso99. Bisogna riconoscere tuttavia che l’episodio delle stigmate, rappresentato semplicemente da un san Francesco in ginocchio di fronte alla testa di un angelo, difetta spesso di grandezza. A

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dimostrarlo basta il quadro che orna una delle cappelle della Chiesa dei Quaranta Martiri, in Trastevere; qui è sparito tutto il mistero del passato.

Gli artisti perciò crearono una nuova scena, più adatta a commuovere e più vicina alla sensibilità del tempo loro: essi immaginarono che san Francesco, dopo aver ricevuto le stigmate, ebbro d’amore e di sofferenza, fosse caduto in estasi e sia stato sostenuto dagli angeli100. Un dipinto del Domenichino, che si vede sia a San Pietro a Roma, dove era stato riprodotto a mosaico, sia presso i Cappuccini di Santa Maria della Concezione, rappresenta questa scena d’estasi. San Francesco, che ha appena ricevuto i segni della Passione, s’abbandona privo di forze fra le braccia di un angelo. Il carattere selvaggio del paesaggio, e la presenza di frate Leone, che appare in secondo piano, confermano che si tratta anche qui dell’episodio delle stigmate nella solitudine del monte Averna101. Questo sarà d’ora in poi il modo usuale di raffigurarlo; e infatti lo vediamo molto spesso nelle chiese romane. Il santo è talvolta sostenuto da uno o da due angeli, a San Nicola in Carcere, a San Bartolomeo sull’isola, a Santa Dorotea in Trastevere, a San Paolino alla Regola. Un quadro di San Paolino, mirabile opera del Parmigianino, è particolarmente commovente. Si vede uscire dalla penombra il bel volto pallido del santo, che pare quello di un morente; gli occhi chiusi, si abbandona fra le braccia di due angeli che reggono con tenerezza le sue mani piagate. A San Pietro in Montorio, un bassorilievo su disegno del Bernini, ma eseguito da uno dei suoi allievi, rappresenta ugualmente il santo svenuto fra le braccia di due angeli. Nel quadro d’altare di Orazio Gentileschi, dipinto verso il 1605, e oggi alla galleria Corsini, lo svenimento mistico del santo, sostenuto da un angelo, assomiglia alla morte stessa. Nell’altare maggiore di San Francesco a Ripa, questo celebre convento in cui san Francesco era stato accolto quando andò a Roma, e dove si vede ancora la sua cella, i frati vollero che le stigmate del loro fondatore fossero raffigurate tali e quali come erano state descritte dagli antichi biografi102. È strano che questo modo di rappresentare le stigmate, l’unico che si attenga ai testi, compaia così raramente nella produzione artistica103 .

L’immagine di san Francesco sostenuto dagli angeli si ritrova ovunque in Italia; la vedremo anche a Napoli104, a Bologna105, a Vicenza106 .

E così l’antica iconografia dell’impressione delle stigmate, nella quale san Francesco appariva davanti al Cristo pieno di grave nobiltà, si trasformò in un estatico mancamento; san Francesco assomigliò a santa Teresa che veniva meno sotto la freccia fiammeggiante dell’angelo. Questa debolezza del corpo e i trasporti dell’anima stavano a indicare la duplice natura dell’uomo, e presagivano il suo eccelso destino. Ecco ciò che i fedeli del xvii secolo potevano ammirare nei doloranti dipinti dell’estasi.

Un francescano della prima generazione, contemporaneo di san Francesco, sant’Antonio da Padova, che fu uomo d’azione, predicatore e controversista, fu anch’egli rappresentato dagli artisti del xvii secolo sotto l’aspetto di un estatico mistico. I fedeli che non conoscevano la sua storia potevano credere che avesse passato l’esistenza nella cella nella quale gli era apparso il Bambino Gesù: questo episodio miracoloso riassumeva l’intera sua vita.

Si narrava che, viaggiando in Francia per recarsi a Limoges, venne accolto da un oste pio che gli diede una camera nella sua casa. Una notte l’oste, passando davanti alla camera semiaperta, scorse il santo che teneva fra le braccia un bambinello: era il Bambino Gesù, disceso dal cielo per consolare il suo fedele servitore. Il giorno dopo, sant’Antonio fece promettere all’oste, che stava per rivelare il grande favore avuto dal cielo, di serbare religiosamente il segreto. Fu infatti solo dopo la morte del santo che egli rivelò il miracolo al quale aveva assistito107 .

È strano constatare come la vita di sant’Antonio da Padova, di cui i secoli precedenti avevano tramandato numerosi episodi108, si concentri unicamente, a partire dal xvii secolo, in questa visione miracolosa109. È evidente che per i Francescani di quel tempo, l’incontro con il Cristo fu il momento supremo della sua esistenza. Sant’Antonio da Padova aveva portato fra le braccia il Bambino Gesù, come san Francesco aveva ricevuto le stigmate: ecco i due titoli di eccellenza di questi santi. Ritroveremo continuamente che il contatto con Dio, anche solo della durata di un istante, è la forma suprema della santità.

Per tale ragione, nel xvii secolo, i Francescani, i Cappuccini, i Recolletti, i Terziari, tutti i figli di san Francesco, chiesero sempre ai pittori di rappresentare sant’Antonio da Padova e il Bambino Gesù.

Queste opere presentano aspetti diversi; talvolta il Bambino, circondato da una grande luce, è solo’110, talvolta, più spesso, scortato da altri infanti che sono gli angeli, scende nella camera dove il santo in estasi lo contempla.

Così ce lo fa vedere una stampa italiana del 1640111. Questa incisione piena di fascino ci dimostra che il famoso quadro del Murillo nella cattedrale di Siviglia (Tav. 10), che è del 1656, ha le sue origini in Italia112 . Nell’opera del Murillo, una delle più belle sul tema della visione, il Bambino giunge dagli spazi celesti, sospeso in una luce accecante, in mezzo a una corona di angeli: la cella, scura come la terra, e dove la verità si cela ai nostri occhi, si riempie di una luce celestiale. Sant’Antonio può finalmente vedere ciò in cui ha creduto, ciò in cui ha sperato, ciò che ha amato, e tende le braccia verso la certezza.

Ma più sovente il Bambino è solo con il santo; in piedi sulla tavola, sulla quale sant’Antonio legge, gli accarezza teneramente il viso con la manina. È un quadro degno del Caravaggio, forse proprio suo, che possiamo vedere a Roma nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano113: l’ombra profonda dalla quale sono avvolti i personaggi conferisce alla scena l’aspetto misterioso di una visione. Simile è anche il dipinto di Murillo al museo di Siviglia. Qui il Bambino è più serio: in piedi sul libro, che è diventato ormai inutile poiché è presente lo stesso Maestro, il Cristo fanciullo sembra intrattenere il francescano, dal bel volto estatico, sui misteri celesti (Tav. 11).

Ma ancora più spesso vediamo sant’Antonio reggere, come una madre, il Bambino disteso fra le braccia; così è a Roma il quadro di Calandrucci a San Paolino alla Regola. Il giovane francescano, tutto purezza, piega il viso verso il Bambino che tende la mano verso la sua guancia. L’innocenza dell’infanzia si unisce all’eroica virtù del giovane uomo. Murillo che ha ritratto svariate volte la visione di sant’Antonio, infondendovi ogni volta

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A fronte: 10. Bartolomé Murillo, Sant’Antonio vede apparire il Bambino Gesù, 1656, olio su legno, 560 x 330 cm, Cattedrale di Siviglia.

11. Bartolomé Murillo, Sant’Antonio con Bambino, 1668-1669, olio su tela, 283 x 188 cm, Museo di Belle Arti, Siviglia.

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una sfumatura diversa, ci mostra anche lui il santo che tiene il Bambino fra le sue braccia e appoggia la guancia alla sua114 .

Vedendo Gesù infante, era difficile che il pensiero non ricorresse a sua Madre, così si immaginava che fosse stata la Vergine stessa a portare suo Figlio a sant’Antonio, facendo per lui ciò che già aveva fatto per san Francesco. È così che a Santa Dorotea in Trastevere sant’Antonio vede contemporaneamente il Bambino sul suo libro e la Madre in cielo. Ma alla Pinacoteca di Brera a Milano, van Dyck ha dipinto una Vergine aristocratica che porge essa stessa il Bambino a sant’Antonio inginocchiato; ella giunge portata dagli angeli su una nuvola e il vento celeste le solleva il mantello.

Questa visione di sant’Antonio fu sicuramente considerata l’avvenimento principale della sua vita, al punto che gli venne continuamente attribuito il Bambino seduto o in piedi sopra un libro chiuso115 .

L’immagine di sant’Antonio da Padova che accoglie fra le braccia il Bambino Gesù apparve a quel tempo così commovente, il privilegio parve talmente invidiabile che gli ordini religiosi cercarono nella biografia dei loro santi qualche passo che potesse autorizzarli a rappresentare anche loro un’analoga situazione. Si videro dunque alcune sante religiose, o anche santi religiosi, che reggevano il Bambino o lo ricevevano dalle mani della Vergine.

Si leggeva nella vita di santa Chiara, che la sorella Agnese aveva visto, nel convento di san Damiano, il Bambino Gesù apparire alla santa e giocare con lei116. Per questa ragione Orazio Gentileschi, certo su richiesta di un convento di Clarisse, raffigurò santa Chiara che accoglieva con delicatezza sopra un bianco velo il Bambino presentatole dalla Vergine; essa si piega su di lui con tanto rispetto da non osare avvicinare la sua guancia a quella di Gesù117 .

I Cappuccini, per onorare san Felice da Cantalice, beatificato da Urbano viii, lo fecero rappresentare nella cappella della loro chiesa in Roma, dove è conservato il suo corpo118. L’episodio scelto fu l’apparizione della Vergine che scende dal Cielo su preghiera del santo per mettergli il Bambino fra le braccia119. Il soggetto fu dipinto da Orbetto, certamente nel 1626, l’indomani stesso della beatificazione. È ritratto il vecchio cappuccino dalla barba bianca che regge teneramente il Bambino che la Vergine gli ha appena affidato. L’opera precede i due dipinti del Murillo eseguiti verso il 1675 per i Cappuccini di Siviglia120: l’ordine volle che fossero concepiti nella stessa maniera. Siamo di fronte al pittore spagnolo che ha raggiunto ripetutamente la sua forma artistica più alta con un tema nato dall’Italia121 . Una delle tele rappresenta il Bambino, il capo circondato da un’alone di luce, che accarezza la barba del vecchio che lo regge con tenerezza di nutrice. L’altra tela introduce nella composizione una graziosa Vergine, una di quelle delicate andaluse di Murillo (Tav. 12), che contempla la felicità del vecchio cappuccino che regge con rispetto l’infante sopra un telo, bianco come una tovaglia d’altare. Il frate mendicante ha lasciato cadere a terra la bisaccia, che contiene, unica ricchezza, una crosta di pane. Ma prima di contemplare il Fanciullo, che è uno dei più incantevoli ritratti dall’artista, rivolge alla Vergine uno sguardo di riconoscenza nel quale ha messo tutto il suo cuore. In tal modo, il figliolo povero di san Francesco, colui che non

A fronte: 12. Bartolomé Murillo, San Felice da Cantalice riceve il Bambino Gesù dalle mani della Vergine, olio su tela, Museo provinciale, Siviglia. L’altra tela introduce nella composizione una graziosa Vergine, una di quelle delicate andaluse di Murillo

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possiede nulla al mondo, e al quale si elargisce una miserabile elemosina, possiede a un tratto il più grande tesoro della terra e del cielo. Immagine questa che avvinceva il popolo e incantava i Cappuccini del xvii secolo, che erano anche loro così vicini al popolo per la loro povertà, le loro tonache fruste, la bisaccia, il buon umore e il coraggio. Murillo ne ha condiviso i sentimenti; ha indovinato la tenerezza per il bambino che cova nel cuore di un uomo e di una donna che hanno volontariamente rinunciato alla famiglia. E in queste opere che sono visioni divine ha messo un calore di umanità che ci commuove. Anche i pittori italiani avevano capito che le sante religiose che ci facevano vedere erano felici di portare il loro Dio fra le braccia perché aveva l’aspetto di un bimbo.

Quasi tutti gli ordini religiosi ebbero un santo o una santa che reggeva fra le braccia Gesù. Nelle Clarisse, fu santa Caterina da Bologna122; nei Domenicani furono santa Caterina da Siena123, santa Rosa da Lima124 , sant’Agnese da Montepulciano125; fra i Carmelitani, santa Maria Maddalena de’ Pazzi126; fra i Teatini, san Gaetano da Thiene127; presso i Fratelli di san Giovanni di Dio, san Giovanni di Dio stesso128; tra i Gesuiti, sant’Ignazio129, san Francesco Saverio130, san Stanislao131 .

Il secolo xvii, abbiamo appena visto, rappresentò san Francesco d’Assisi e sant’Antonio da Padova quasi esclusivamente nei momenti soprannaturali della visione e dell’estasi. Avvenne la stessa cosa anche per altri santi famosi, che il Medioevo aveva ben altrimenti accomunato alle vicende del mondo, e che ora si riconoscono a stento nel nuovo aspetto che viene proposto. Santa Caterina da Siena, la coraggiosa giovane, che assisteva i condannati a morte, e si recava ad Avignone per riportare il papa a Roma, diventa ora una contemplativa che conosce soltanto le avventure della sua anima. L’arte non ritrasse infatti altro che le sue visioni.

A Roma, la chiesa di Santa Sabina, sull’Aventino, riunisce in alcuni affreschi gli episodi principali della vita sovrannaturale di santa Caterina da Siena. Le fu innalzata nel 1671 una cappella sormontata da cupola nella navata laterale sinistra dell’antica basilica, già colma del ricordo di san Domenico. Era stata un’idea piena di poesia quella di onorare la grande domenicana nella chiesa del convento ove fioriva l’arancio piantato dal fondatore dell’ordine. I quattro pennacchi della cupola dipinti da Odazi rappresentano quattro visioni della santa.

Si vede al principio il Cristo che le appare e la invita a scegliere fra una corona d’oro e una di spine132. La santa sceglie quella di spine, poiché per lei la sofferenza è un privilegio, un modo più dolce di partecipare alla Passione: famosa visione, questa, che ritroviamo spesso e che ha permesso a santa Caterina da Siena di venir rappresentata con la corona di spine sul capo133 .

Il secondo episodio è una di quelle comunioni mistiche di cui abbiamo già parlato: il Cristo presenta lui stesso l’ostia alla santa inginocchiata.

Nel terzo pennacchio, Gesù offre il suo cuore a santa Caterina. Si tratta qui di una di quelle insolite visioni che ritroviamo talvolta nella vita dei mistici. La santa, ripetendo le parole di Davide, aveva chiesto a Dio di crearle un cuore puro; per questa ragione vide apparire Gesù e toglierle il cuore dal petto. Durante molti giorni le parve di non aver più cuore; Gesù riapparve e le disse: «Figlia cara, dapprima ho tolto il tuo cuore, ora ti do il mio»134. Da quel momento essa sentì nel suo petto come una fornace, e si dava per certo che fosse morta perché il suo cuore era esploso in un trasporto d’amore135. Questi scambi di cuore, che si ritrovano nella vita di santa Luidgarda136, di santa Maria Maddalena de’ Pazzi137, della beata Osanna di Mantova138 e di molte altre sante, dovevano essere interpretati, secondo la testimonianza di papa Benedetto xiv, in senso squisitamente spirituale: i fedeli dovevano capire che per questi mistici appassionati Gesù era diventato il principio stesso della loro vita. Il xvii secolo non ebbe scrupolo di moltiplicare queste immagini ardenti, di cui l’arte precedente non offriva esempio alcuno139 .

L’ultimo pennacchio della cappella di Santa Sabina rappresenta santa Caterina da Siena in estasi davanti al crocifisso mentre riceve le stigmate; un angelo sorregge la santa che sviene. Il suo biografo ci narra infatti che nel 1375, mentre era in preghiera davanti a un crocifisso, nella chiesa di Santa Caterina di Pisa, si videro cinque raggi di sangue che si trasformarono in cinque raggi d’oro, uscire dalle piaghe di Gesù e raggiungerla. Ella ebbe un rapimento estatico, poi si accasciò, come se fosse stata ferita. Le sue stigmate non erano visibili, perché aveva chiesto a Dio che rimanessero nascoste; ma comparvero dopo la sua morte140 .

Così santa Caterina da Siena aveva ricevuto dal cielo la stessa grazia di san Francesco, e aveva anch’essa portato sulle sue membra i segni della Passione. I Francescani non accettarono con piacere un miracolo che pareva diminuire la gloria del loro fondatore, e fra loro e i Domenicani vi furono lunghe polemiche nelle quali dovettero intervenire i pontefici. Alcuni conventi francescani chiesero che si cancellassero le stigmate dalle immagini di santa Caterina141, ma non vinsero la loro causa a Roma, e i Domenicani continuarono a far rappresentare la santa con le piaghe sanguinanti.

Questi sono dunque gli affreschi che ornano i pennacchi della cappella dedicata a santa Caterina; ovunque essa ha le stigmate. Nella cupola possiamo vederla entrare in Paradiso, e fra i santi che sono ad accoglierla si riconosce san Francesco d’Assisi; le polemiche della terra non giungono dunque in cielo. Questi affreschi di Odazi, eleganti e facili, non sono dei capolavori, ma offrono una testimonianza preziosa sui sentimenti che i Domenicani del xvii secolo provavano nei riguardi della loro illustre santa. Ciò che essi preferivano in lei erano i momenti sovrannaturali della sua vita, quelli che la rendevano simile a santa Teresa e a san Francesco. È singolare osservare come i pittori raffigurassero talvolta la sua stigmatizzazione uguale a quella di san Francesco, o come la transverberazione di santa Teresa: la santa, appena colpita, sviene fra le braccia degli angeli. Tale è la santa Caterina da Siena di Ludovico Carracci nella galleria Borghese142 .

Se l’artista che dipinse la cupola di Santa Sabina avesse potuto avere più spazio, è certo che avrebbe rappresentato anche un’altra visione della santa, allora molto famosa, quella del suo fidanzamento. Un giorno, Gesù Cristo le aveva messo al dito un anello d’oro con quattro perle e un diamante, per indicarle che si fidanzava con lei, come si era già fidanzato con santa Caterina d’Alessandria, sua patrona143. Quando l’apparizione svanì,

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la santa vide l’anello al dito, e da quell’istante fino alla fine della vita non cessò di vederlo; ma l’anello era visibile a lei sola. A Roma, la chiesa di Santa Caterina da Siena, sulla via Giulia, conserva due quadri che raffigurano il fidanzamento miracoloso144 .

Queste immagini erano care alla pietà italiana, e i francesi che si recavano in Italia si stupivano di incontrarle così spesso145. Il fatto è che le due sante Caterina non erano le sole ad aver goduto del privilegio del mistico fidanzamento; molte altre sante erano fidanzate con il Cristo e molti santi con la Vergine146 .

Nella vita dei santi più antichi, il xvii secolo coglieva ogni occasione per mostrarli sotto l’aspetto della contemplazione, così che fra l’arte di questo secolo e quella del Medioevo la differenza è profonda. Per il Medioevo la prova della santità è il miracolo, per il xvii secolo è l’estasi. Il miracolo, che opera fra il santo e l’uomo, non sembra raggiungere l’altezza dell’estasi che mette in rapporto con Dio. Nelle vetrate, nei bassorilievi del xiii secolo le visioni sono notevolmente meno frequenti dei miracoli; nelle chiese del xvii secolo invece, pochi sono i quadri con miracoli e molti quelli con visioni.

Nel xiii secolo, la vita di san Martino, come la rappresentavano gli artisti, era una serie di guarigioni miracolose, di prodigi, di lotte con il demonio. Nel xvii secolo, i monaci di Marmoutiers, vicino a Tours, per celebrare il loro santo fondatore, chiesero a Le Sueur di dipingere non due dei suoi miracoli, ma due delle sue visioni. Le due tele sono oggi al Louvre. Una rappresenta san Martino inginocchiato, che contempla con estatico fervore la Vergine, incantevole per modestia e grazia, che gli appare in cielo; accanto a lei, stanno sant’Agnese e santa Tecla, incoronate di fiori, e i due apostoli san Pietro e san Paolo. È l’apparizione di cui il santo fu gratificato nella sua cella e che Sulpizio Severo ha riferito147. L’altra tela è una Messa miracolosa, e narra anch’essa un episodio soprannaturale (Tav. 13). San Martino, andando in chiesa un giorno di festa, incontrò un povero quasi nudo e sollecitò l’arcidiacono a dargli una tunica. Poiché costui si mostrava restio ad obbedirgli, il santo si spogliò della propria tunica e ne ricoprì il povero. Salì quindi all’altare, ma ebbe un’estasi improvvisa e un globo di fuoco apparve sopra il suo capo. Si vide allora chiaramente che la fiamma di carità che ardeva in lui era di origine celeste. Una donna, un prete e dei monaci, come è detto nel testo di Sulpizio Severo148, sono gli unici testimoni del miracolo ed esprimono con un gesto la loro ammirazione. Tutti i personaggi stanno di profilo – quel profilo caro a Le Sueur e che conferisce ai suoi quadri qualcosa di più spirituale. Al posto di queste scene mistiche, il Medioevo, raccontando la vita di san Martino in una vetrata a Chartres, ci mostra due morti risuscitati, dei demoni scacciati dal corpo di un indemoniato, un pino che nella caduta risparmia miracolosamente san Martino, e un lebbroso guarito dal suo bacio. Si nota la diversità fra le due ispirazioni.

I santi dei primi secoli, i martiri, gli apostoli stessi vengono rappresentati preferibilmente nel momento in cui vengono in contatto col cielo.

Santa Cecilia, quando gli artisti ce la presentano isolata, posa le dita sui tasti dell’organo o l’archetto sulle corde del violino, ma spesso non suona affatto; con gli occhi al cielo, ascolta una musica cento volte più bella

A fronte: 13. Eustache Le Sueur, La messa di San Martino di Tours, 1654, Museo del Louvre, Parigi.

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di tutte le armonie della terra. Questa santa Cecilia musicista, che già il Medioevo conosceva ma che raramente ritraeva, è uno dei soggetti privilegiati dell’arte del xvii secolo (Tav. 14). Si leggeva nei suoi Atti: «Venne il giorno in cui fu apprestato il letto nuziale, ma mentre suonavano gli strumenti, ella cantava nel suo cuore solo per il Signore»149 . Sono state queste poche parole che hanno potuto trasformare santa Cecilia in musicista, facendo di lei la patrona dei musici.

Raffaello, che preannuncia per diversi aspetti l’arte della Controriforma, creò una santa Cecilia che anticipava già il genio dei tempi nuovi150 (vedi Tav. 1). Le stanno intorno santi pieni di ardore: san Giovanni, san Paolo, santa Maddalena, sant’Agostino, anime appassionate che, come lei, udivano la musica del cielo. San Paolo, il grande lottatore, si riposa un istante appoggiato alla spada e riprende forza ascoltando le voci celesti. La santa tiene l’organo capovolto e ha gettato ai suoi piedi gli strumenti diventati inutili: la testa alta, gli occhi al cielo, ascolta i canti divini che fanno tacere tutte le voci di questo mondo. È piena d’amore, ma forte come una patrizia romana, essa possiede la forza che impedisce di cadere. Opera meravigliosa, che raggiunge il sublime pur nel perfetto equilibrio, e che, grazie alla sua simmetria magistrale, ha sull’animo l’effetto della musica stessa151 .

Il quadro di Raffaello, che l’incisione di Marco Antonio divulgò in tutta l’Europa pur con qualche modifica, dominò l’arte del xvi secolo. Barocci l’imitò nel suo quadro nella cattedrale di Urbino, discostandosi di molto poco dal modello. Nel xvii secolo si rappresentò santa Cecilia sola, ma sempre con gli occhi al cielo e quell’aria di estasi che Raffaello le aveva impresso. E nulla interpretava meglio i sentimenti dell’epoca.

Al Louvre, la santa Cecilia del Domenichino (Tav. 15), le dita e l’archetto sulle corde del grande violoncello, suona veramente, oppure ascolta, con gli occhi alzati, la musica degli angeli? In ogni caso, non guarda l’album che il genietto tiene aperto davanti a lei, e se suona, lo fa certo ispirandosi alle melodie che ode.

È tuttavia indubbio che gli artisti hanno spesso dipinto santa Cecilia mentre suona l’organo, l’arpa, la chitarra o il violino. Poiché era diventata la patrona delle accademie musicali, era naturale che fosse rappresentata in veste di musicista; ma quasi sempre essa volge gli occhi al cielo per cercarvi l’ispirazione e per insegnare agli artisti che la devono cercare lassù. La santa Cecilia di Rubens suona l’organo152 , la santa Cecilia di Mignard l’arpa153, ma tutte e due guardano il cielo154 .

Spesso gli artisti, fedeli alla bella intuizione di Raffaello, ce la fanno vedere che rinuncia a lottare con le armonie celesti: la santa Cecilia del Cavallino, al museo di Napoli, ha gettato il violino davanti a sé, per ascoltare in ginocchio, il capo riverso, le voci dall’alto; e durante il suo rapimento un angelo scende dal cielo per porle sul capo una corona. Nella cappella di San Carlo ai Catinari, la santa in estasi, le braccia spalancate (Tav. 16), è entrata in un mondo in cui gli angeli che la circondano fanno suonare i loro strumenti e nel quale non giunge la musica degli uomini.

A fronte: 14. Nicolas Poussin, Santa Cecilia, 1635 ca., olio su tela, 118 × 89 cm, Museo del Prado, Madrid.

Alle pagine seguenti: 15. Domenico Zampieri detto Domenichino, Santa Cecilia suona la viola, 1617-1618, olio su tela, 160 × 119 cm, Museo del Louvre, Parigi.

16. Bernardo Cavallino, L’estasi di Santa Cecilia, 1645, olio su tela, Museo di Capodimonte, Napoli.

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Così la giovane martire romana nel xvii secolo è di volta in volta una figura estatica per opera della musica sacra, e l’immagine dell’anima cristiana unita a Dio, nel quale trova l’armonia suprema.

Santa Maria Maddalena, abbiamo già detto, fu spesso per il xvi secolo simbolo di penitenza; ma fu anche una figura dell’estasi.

Già la Leggenda aurea aveva narrato che «ogni giorno gli angeli portavano santa Maddalena in cielo dove con le orecchie del corpo udiva i concerti delle legioni celesti». Così gli artisti del Medioevo, in particolare quelli del xv secolo, avevano talvolta rappresentato questo miracoloso rapimento. La tradizione continuò nel xvi secolo, come dimostra l’affresco di Polidoro da Caravaggio a Sant’Andrea al Quirinale: vi si vede santa Maddalena sollevata in cielo, alta sopra un vasto paesaggio. I libri in circolazione nel xvii secolo su Maria Maddalena, quelli di Stengelius155 e di Cortez156, non potevano che confermare la fede dei fedeli in questa ascensione estatica della santa penitente. Vi si diceva che gli angeli trasportavano Maria Maddalena non una, ma sette volte al giorno. Non ci si deve dunque stupire di vederla dipinta dal Domenichino che si innalza verso il cielo con slancio irresistibile; sale con le braccia spalancate, potente come una vittoria, trasportata contemporaneamente dagli angeli e dal soffio dell’infinito157. Una tela che rivela un sentimento analogo orna uno degli altari della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, a Roma. Le incisioni ci daranno più di un esempio di questa specie di assunzione di Maria Maddalena158. Ma la più bella di tutte le opere di questo genere è il quadro di Ribera all’Accademia di San Fernando a Madrid. L’artista ha ritratto una Maria Maddalena che è tutta amore, tutta bellezza, tutta purezza riconquistata; ella sale portata dagli angeli, e già vede gli splendori del cielo, già ne ascolta le armonie. Nessun altro pittore ha capito così profondamente la poesia di questa figura di santa, foggiata dal pensiero dei secoli cristiani.

Ma non sempre gli artisti strappano Maria Maddalena a questa terra; talvolta la rappresentano vinta dall’amore, come san Francesco e santa Teresa, e sostenuta dagli angeli. In un bel quadro di Simon Vouet, che si trova al museo di Besançon, e da cui Tortebat ha tratto un’incisione, la santa morente si abbandona fra le braccia di due angeli159. Due versi latini, ingenui e commossi, commentano quest’opera colma di passione:

Incertum moritur vel Magdala languet amore Langueat haud refert an moriatur: amat

«Non sappiamo se Maddalena manchi o muoia d’amore; ma che manchi o muoia non importa: ella ama». Si pensava che colei che era stata solo amore non potesse essere meglio raffigurata che in un trasporto di estasi. Il soggetto venne svolto nello stesso modo da Claude Mellan, in una di quelle belle incisioni apparentemente incompiute che sono così piene di spiritualità160. Anche Rubens eseguì per i Recolletti di Gand una Maddalena in preda a mancamento sostenuta dagli angeli161 .

Così anche i personaggi del Vangelo, immersi in una luce così pura, furono ritratti in tutti gli ardori dell’estasi.

Cosa stupefacente, san Paolo, uomo d’azione per eccellenza, venne anch’egli rappresentato colto dall’estasi. E tuttavia aveva scritto una pagina magnifica che lo mostrava sotto tutt’altro aspetto dal contemplatore: «Spesso in pericolo di morte, diceva, ho ricevuto per cinque volte dai Giudei trentanove colpi di frusta, tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio, ho passato una notte e un giorno in mezzo al mare. Sempre in viaggio ho incontrato pericoli sui fiumi, da parte dei briganti, da parte dei Giudei, da parte dei Gentili, nelle città, nel deserto, sul mare, ad opera dei falsi fratelli; lavoro, fatica, veglie numerose, fame, sete, digiuni, freddo, nudità; tutto ho sofferto»162 . Ora, l’intrepido missionario che parlava così venne rappresentato, nel xvii secolo, in estasi come Maria Maddalena. Com’era possibile concepire san Paolo se non in marcia sulle grandi strade, a parlare sulle pubbliche piazze, davanti ai magistrati romani, sfidando la morte? Però anch’egli aveva scritto, parlando di sé stesso, alcune frasi misteriose: «Conosco un uomo in Gesù Cristo, che fu rapito, quattordici anni or sono, al terzo cielo (se lo fu con il suo corpo o senza non lo so, ma Dio lo sa). E so che quest’uomo fu rapito in Paradiso e vi udì parole ineffabili che non è consentito a un uomo di riferire»163 .

I secoli precedenti non avevano mai considerato come soggetto questo rapimento dell’apostolo; avevano voluto vedere in san Paolo solo il grande missionario, colui la cui parola penetrava come la spada che porta in mano164. Ma questa estasi si identificava troppo bene con il genio dei nuovi tempi per lasciarla passare inosservata. Nel 1604, monsignor Agucchi chiese al Domenichino di raffigurarla e offrì il quadro ai Gesuiti165. Il santo, le braccia aperte, la testa riversa, sale verso l’empireo e forma con i tre angeli che lo sostengono un gruppo pieno di armonia.

Poussin dipinse due volte questo soggetto: il dipinto che si vede al Louvre (Tav. 17), meno spontaneo di quello del Domenichino, è svolto come un problema difficile; la soluzione è felice e l’angelo, serio in volto, che domina il gruppo e indica il cielo, conferisce all’insieme un equilibrio armonico.

Il rapimento di san Paolo fu richiesto agli artisti più di una volta. Un dipinto, che è forse di Jouvenet, ritrae il soggetto a Saint-Paul di Orléans. Gherardo, delle Notti a Santa Maria della Vittoria a Roma, dipinse l’apostolo sulla soglia del Paradiso che canta in mezzo agli angeli: due di loro sembra che allontanino le nuvole per lasciargli vedere la luce pura166. Jan Lys concepì il soggetto quasi nella stessa maniera167 .

IV. Ai santi estatici che abbiamo appena nominato potremmo aggiungerne molti altri. Ne troveremo ancora qualcuno nel corso del presente libro.

Ma si verificò allora un fenomeno strano: sembrò che si volesse far partecipi tutti i santi di questo mistero dell’estasi, che pareva essere il vero distintivo della santità. È raro che nel xvii secolo si rinunci a rappresentare un santo senza gli occhi levati al cielo, in contemplazione di ciò che gli uomini non vedono. Si osservano a Roma, passando davanti a Sant’Andrea della Valle, la chiesa dei Teatini, le quattro statue che ne ornano la facciata. Esse rappresentano san Gaetano da Thiene, fondatore dell’ordine,

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A fronte: 17. Nicola Poussin, Rapimento di san Paolo, 1649-1659, olio su tela, 148 x 120 cm, Museo del Louvre, Parigi.

Alle pagine seguenti: 18. Il catino della cupola della chiesa di Sant’Andrea della Valle, Roma. sant’Andrea apostolo, patrono della chiesa, san Sebastiano, il cui corpo venne ritrovato, secondo la tradizione, proprio sul luogo della chiesa, e infine sant’Andrea Avellino, uno dei santi più famosi dell’ordine. Tutti e quattro contemplano il cielo168 .

È forse necessario ricordare che le statue più note del Bernini, santa Bibiana, san Longino, hanno il capo riverso e lo sguardo diretto alle supreme altezze? Chi non ricorda le figure estatiche di Guido Reni? Sia che si tratti della Vergine169, di santa Maddalena170, di san Sebastiano171, di san Pietro172, o della Sibilla173, tutti guardano il cielo. «Guido Reni – dice Baldinucci – eccelse in tutte le cose, ma specialmente nel movimento del capo che guarda verso l’alto»174. I suoi contemporanei esprimono nello stesso modo l’intima esaltazione dei santi; l’esempio era venuto dai Carracci e dalla scuola di Bologna. È a Bologna che il quadro si sdoppia, e mostra i santi, ancora sulla terra, in contemplazione davanti al Cristo o alla Vergine che stanno in cielo. Raffaello, nella sua Madonna di Foligno, aveva creato il modello per queste visioni celestiali. Ma fu a Bologna che divenne la regola ciò che fino allora era stata l’eccezione. Nel xv secolo la Vergine, reggendo il Bambino sulle ginocchia, era seduta in mezzo ai santi, sotto un portico di marmo aperto su un giardino di lauri, di aranci in fiore e di cipressi: era su questa terra, accanto agli uomini, ai loro desideri, materna e familiare; non occorreva alzare il capo per vederla. Ora invece si ritraeva nelle profondità del cielo; i protestanti che l’avevano oltraggiata la obbligarono a risalire al di sopra delle nuvole, ma tutti i cuori le andarono dietro. Ormai i santi, in ginocchio, gli occhi volti al cielo, contemplavano con tutta la loro anima quel modello celeste. E i fedeli li imitavano. Nell’incantevole dipinto del Barocci, la Madonna del popolo175, una madre mostra ai figli il Cristo e la Vergine in cielo, e insegna loro a giungere le mani. Immagine viva del popolo italiano, ricco di figli e fiducioso nella Vergine, indifferente alle controversie, fedele alla religione dei suoi padri.

La pinacoteca di Bologna è ricca di molti quadri doppi, i dipinti delle visioni; e ve ne sono in tutta Italia. Nella cattedrale di Spoleto, Annibale Carracci ha rappresentato la Vergine che regge il Bambino, assisa sulle nuvole e cui gli angeli fanno corona, mentre san Francesco e santa Dorotea, che stanno ancora sulla terra, la contemplano con amore. Al Louvre ha eseguito la Vergine e il Bambino che si libra sopra san Luca e santa Caterina: san Luca tiene gli occhi levati verso la Vergine; quanto a santa Caterina, non guarda lei ma, voltata verso di noi, ce la indica con la mano, affinché i nostri sguardi si rivolgano a lei.

Vi furono dunque, a partire dalla fine del xvi secolo, uno slancio, un’aspirazione che corrispondevano ai sentimenti dell’animo cristiano.

Questi sentimenti si esprimevano nella pittura e nella scultura, ma l’architettura con le sue forme contenute, nate dallo spirito antico, pareva non potersi associare. Tuttavia, la cupola unendosi alla volta dilatava lo spazio della chiesa. La cupola infatti, altro non era che un cielo circoscritto; la pittura ne fece un cielo aperto. Fu a Parma che, grazie al Correggio, il Paradiso con le sue nuvole, la luce, i mille personaggi, il suo infinito, trasfigurò la cupola. L’esempio del Correggio fu seguito da Lanfranco a Sant’Andrea della Valle a Roma (Tav. 18), al Gesù Nuovo176, e a San Gennaro a Napoli.

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Ben presto in Italia il cielo invase una moltitudine di cupole; in Francia il cielo del Val-de-Gràce stupì i contemporanei.

Ma la volta romanica continuava a poggiare pesantemente sulle navate. Si era tentato di sopraelevarla, come possiamo vedere nella chiesa del Gesù, a Sant’Andrea della Valle, nella Chiesa Nuova e in molte altre chiese di Roma. La si fece partire non più dalla trabeazione che sormontava i pilastri, ma da una seconda trabeazione che si sovrapponeva alla prima. Si riusciva in tal modo a dare maggior slancio alla struttura; ma si capiva che l’architettura pagana che serviva da modello non poteva esprimere il pensiero cristiano. Quando nelle chiese di Roma si cantava una Messa del Palestrina, la musica che saliva al cielo pareva far saltare le volte. Più di un cuore ardente, trasportato da queste armonie celestiali, avrebbe potuto esclamare come Lamartine:

Come i templi, o Signore, sono angusti per il mio cuore; Cadete, o mura impotenti, cadete, Lasciate ch’io veda il cielo, che mi nascondete177 .

Desiderio d’infinito, che talvolta ci trascina, quando le ondate di emozione salgono dal profondo del nostro essere. I Gesuiti, questo ordine così profondamente appassionato, sentirono moltissimo il problema, e furono probabilmente i primi a far dipingere sulla volta della navata un cielo che la spalancò. Nella volta della chiesa del Gesù, il Baciccia, loro pittore, rappresentò le tre lettere mistiche del nome di Gesù (Tav. 19), gli «IHS» irraggianti nello spazio come un sole; e ne fece scaturire dei raggi che illuminano gli angeli e i santi assisi sulle nuvole e che folgorano Satana, il male, la rivolta, l’eresia, facendoli rovinare nell’abisso. Il cielo si spalanca anche nell’abside, dove l’Agnello splendente è fonte di luce; si apre nei transetti, dove sant’Ignazio e san Francesco Saverio, sorretti dalle nuvole, entrano nella gloria; e finalmente si spalanca nella cupola. La pittura cancella le volte, e vi sostituisce nuvole, luci e lampi di luce che paiono in movimento. Pare che la chiesa finisca in un nembo attraversato da lame di luce.

A Sant’Ignazio, l’altra grande chiesa dei Gesuiti, a Roma (Tav. 20), Pozzo, che faceva parte della Compagnia superò Baciccia. Il grande affresco che copre la volta è un capolavoro di prospettiva. Sopra alla chiesa innalzò un’altra chiesa, il cui gigantesco colonnato si perde nel cielo; è una cattedrale aperta che lascia vedere angeli e santi in mezzo alle nuvole e sant’Ignazio in estasi davanti a Cristo che scende con la sua croce dagli spazi celesti. Si ripete da oltre un secolo che era opera di cattivo gusto; ma ciò significa non capire il pensiero dell’ordine, di cui Pozzo fu soltanto l’interprete. I Gesuiti sentivano che il Cristianesimo soffocava nella struttura romanica della basilica e vollero spalancargli a qualsiasi costo un varco verso il cielo. L’ordine e con esso tutto il secolo anelava all’infinito. Si provava una sensazione indefinita che l’architettura pagana figlia della terra, non potesse esprimere le speranze sconfinate della religione cristiana, figlia del cielo. Certo San Pietro di Roma era ammirabile, era l’antichità riportata alla vita in tutta la sua grandiosità; le immense volte, decorate a cassoni e rosoni di oro superavano quelle della basilica di Costantino; la cupola

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19. Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccia, Trionfo del nome di Gesù, affresco della volta della chiesa del Gesù, Roma. 20. Andrea Pozzo, particolare dell’affresco della volta nella chiesa di Sant’Ignazio in Paradiso, Roma.

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era uguale a quella del Pantheon di Agrippa in larghezza e la superava in altezza. Ma esistevano la misura, il numero, la compiutezza; non era la vertiginosa scalata del coro di Beauvais, l’aspirazione, l’amore: «L’amor che muove il sole e l’altre stelle», come dice Dante.

Come potevano delle forme nate per una religione del finito, esprimere una religione dell’infinito? I Gesuiti nutrivano molti dubbi, per questo fecero entrare il cielo nelle loro chiese. L’architettura gotica non aveva avuto bisogno di questo sotterfugio: essa non mostrava il cielo, ma conduceva ad esso.

Queste volte o i soffitti spalancati ad opera della pittura, e trasformati in splendenti Paradisi; con angeli, santi, nuvole e azzurro divennero ben presto una caratteristica dell’arte italiana.

A Roma, i Francescani fecero dipingere dal Baciccia sulla volta della chiesa dei Santi Apostoli il Cristo (Tav. 21) che accoglie san Francesco e i santi francescani in un grande cielo, nel quale vagano nubi piene di luce: vi si riconosce san Bonaventura in estasi, san Giovanni da Capestrano che alza il suo stendardo, santa Chiara che porta l’ostensorio eucaristico. A San Carlo al Corso (Tav. 22), Giacinto Brandi rappresenta la lotta fra gli angeli buoni e ribelli, che Dio e la Vergine contemplano dal fondo dell’Empireo. A San Silvestro in Capite, dipinse il Paradiso tutto intero, tutti i profeti e tutti i patriarchi a partire da Adamo, che accoglievano la Vergine al suo arrivo in cielo; composizione frettolosa e spesso raffazzonata, ma che conserva un’impronta trionfale178 .

Quando la costruzione è coperta da un soffitto a cassettoni, quasi sempre il pannello centrale ci mostra la Vergine o il santo titolare che s’innalzano nella luce verso Dio179 .

È anche successo che l’architettura abbia voluto misurarsi con la pittura: a San Carlo ai Catinari, la cappella di Santa Cecilia, costruita da Antonio Gherardi, contemporaneo di p. Pozzo, possiede il lirismo dell’affresco di sant’Ignazio. Sopra a una cappella un poco scura, ve ne è un’altra che si innalza verso la luce; in basso degli angeli portano rami di palma e corone, al di sopra altri angeli assisi, sorridenti e gentili, suonano il violino; più su ancora, santa Cecilia sale, mediante una ghirlanda di fiori, verso la colomba dello Spirito Santo che irradia luce e pare librarsi verso l’alto del cielo. Questa opera incantevole, concepita in onore della patrona dei musicisti, ha uno slancio musicale; a Roma ci sono poche opere altrettanto poetiche180 .

Dunque ciò che il linguaggio teologico definisce rapimento può trovare espressione anche nell’architettura.

L’estasi, ecco la grande novità nell’arte di quel tempo; essa corrisponde alla «invasione mistica»181 della letteratura religiosa. È una specie di febbre interiore che rende diversa l’arte del xvii secolo da quella del xv e dell’inizio del xvi secolo. Passione, fervore ardente, desiderio spasmodico di Dio che giunge all’annientamento, ecco quello che si sostituisce all’adorabile serenità, all’amore che tace del Beato Angelico. Si può preferire il Beato Angelico, ma non si può negare che quest’arte percorsa da fremiti non porti in sé qualcosa di nuovo e non esprima ciò che non era mai stato detto: la presa di possesso di un’anima da parte di Dio.

A fronte: 21. Ss. Apostoli, veduta dell’interno con l’affresco della volta: Baciccia, 1707-1709, Cristo che riceve i santi dell’ordine francescano.

vii. l’alone luminoso: la visione e l’estasi

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Pare che i grandi popoli cristiani lascino percepire qualche lato del loro genio in queste immagini di estasi. La Francia non rappresenta più l’annientamento mistico, ma l’unione con Dio attraverso la preghiera. Jouvenet non ci fa vedere, come già fece Mola, san Bruno folgorato dalla visione che gli appare in cielo, ma in ginocchio nella sua cella, la testa appoggiata ai piedi del crocifisso182. Egli ritrae san Giovanni della Croce, non sollevato in estasi, ma in ginocchio, in contemplazione di un quadro che rappresenta la Passione183; l’atteggiamento, la luce blanda, il silenzio di una biblioteca di convento, tutto richiama l’idea di una fervente preghiera, ma non di un’estasi; ci par di vedere un severo benedettino di Saint-Maur, non un figlio spirituale di santa Teresa.

22. La cupola della chiesa di San Carlo al Corso, Roma. Xxxxxxx

23. Philippe de Champagne, Ex voto. Madre Agnese Arnault e Sorella Caterina de Sainte Suzanne de Champaigne, 1662, olio su tela, 165 x 229 cm, Museo del Louvre, Parigi.

Philippe de Champagne ha eseguito il capolavoro (Tav. 23) nel quale vive l’anima religiosa dei xvii secolo francese. Suor Caterina di Sainte-Suzanne e la madre Agnese pregano in una cella, povera e spoglia, che si riempie di una misteriosa presenza; esse attendono un miracolo. Non vi è nulla di più semplice, di più modesto, di più dolce di questa giovane religiosa, distesa con le mani giunte, lo sguardo fisso a Dio che vede e che non la stupisce più, tanto è abituata a vivere con lui. In questa pregevole opera Filippe de Champagne ha fatto rivivere il genio del Medioevo184. Quanto più ardente e appassionata è l’Italia! Essa ha dato vita a belle figure in estasi, figure estenuate che hanno il pallore della morte e che ci inteneriscono. Ma essa unisce sempre il corpo all’anima e ci mostra un corpo che si flette al contatto di Dio, e s’abbandona; ma il suo genio riesce a fare, come dice Shakespeare, di una mancanza una beltà. Ma è la Spagna che qui trionfa. La Spagna dei grandi mistici, che è penetrata così profondamente nell’amore e nella morte, e ha rappresentato l’estasi con una semplicità e una grandezza che non sono state eguagliate. Negli artisti spagnoli, il corpo è immobile e come abolito, ma tutta l’anima è negli occhi e sulla fronte del santo. Il san Francesco d’Assisi di Pedro de Mena, a Toledo, corrisponde al san Francesco d’Assisi di Zurbaran, al museo di Lione: le mani infilate nelle maniche della veste, senza fare un movimento, fuori dal mondo, essi vivono solo attraverso quegli occhi che contemplano l’ineffabile.

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VIII. INCONTRI DI LUCE CON DUE ARTISTI

di Giuseppe Panza di Biumo

Dan Flavin (Jamaica, New York, usa, 1933 – Riverhead, New York, usa, 1996)

A fronte: 1. Dan Flavin, Untitled (to Jan and Ron Greenberg), 1972-1973, df 21, The Solomon R. Guggenheim Foundation, 1991. Installazione: Gugghenheim Museum, Soho, New York, 1995-1996. I miei occhi si aprirono, quando due anni dopo, nel 1967, Sperone aprì una galleria a Milano, in via Manzoni, diretta da Tommaso Trini, con una mostra di lampade fluorescenti di Flavin. Opere che venivano da Colonia, dove Rudolf Zwirner aveva fatto una mostra nella sua galleria. Fu una rivelazione. Le lampade fluorescenti mi apparivano un nuovo mondo di emozioni fatte con la luce. Un meraviglioso territorio da esplorare (Tavv. 1, 2). Erano opere che richiedevano un’attenzione mistica per essere comprese. Più che ogni altra opera d’arte dovevano essere guardate in silenzio. Era l’apparizione di un’immagine soprannaturale. Era arte religiosa, senza simboli, senza riti, senza intermediari, era la presenza diretta e immediata del soprannaturale, la via verso l’assoluto. La luce non era più un corpo illuminante, manifestava la sua vera natura di pura energia. L’entità meno fisica del mondo fisico. Era l’intermediario più diretto con l’invisibile. Era l’arte che il mio subconscio aspettava che arrivasse. Le lampade fluorescenti costavano poco, 260.000 lire, una spesa che potevo sostenere malgrado le mie difficoltà economiche; ne comprai subito alcune, tutte quelle che potevo comperare. Questa cifra sembra irrisoria, ma bisogna moltiplicarla per almeno 12 volte; era però sufficiente per consentire all’artista e alla moglie, persona adorabile, di venire in Europa.

In questo modo ebbi l’occasione di conoscere Flavin, che non aveva un carattere simile alle sue opere, anzi era proprio l’opposto. Se la sua arte portava a una serena e intensa contemplazione, il suo comportamento era pieno di angolosità; non era mai contento. Tutte le cose andavano

la luce nell’arte viii. incontri di luce con due artisti

A fronte: 2. Dan Flavin, An artificial barrier of blue, red and blue fluorescent, 1968, df 20, The Solomon R. Guggenheim Foundation, 1991. Installazione: Centro de Arte de Reina Sofia, Madrid 1988.

Alle pagine successive: 3. Dan Flavin, Ultra violet fluorescent light room, 1968, df 17, The Solomon R. Guggenheim Foundation, donazione Panza. Installazione: Villa Manafoglio Litta Panza, Varese, 1981. male, tutto quello che facevano gli altri, che lo riguardava, era sbagliato e bisognava cambiarlo. Non vi erano ancora i certificati firmati dall’artista. Erano indispensabili; tutti potevano farsi dei Flavin, comperando il materiale nel negozio dell’elettricista sotto casa. Per questa ragione Sperone mi vendette dei disegni delle opere acquistate, Flavin non era d’accordo, voleva immediatamente la consegna dei disegni. Io feci qualche resistenza, li avrei restituiti appena ricevuti i certificati, che tardavano ad arrivare. La pressione dell’artista su Sperone fu così forte che mi implorò di restituire subito i disegni senza aspettare l’arrivo dei certificati. Ero preoccupato avendo conosciuto come il carattere di Flavin fosse imprevedibile. Avevo dimostrato di amare profondamente la sua arte più di tutti gli altri: comperai complessivamente 27 opere, proprio quando le sue quotazioni erano depresse – sono aumentate notevolmente di valore solo nel 2000, purtroppo quattro anni dopo la sua morte. Avrei dovuto essere apprezzato per l’interesse dimostrato verso la sua arte. A Biumo ho dedicato spazio alle sue opere, in misura maggiore che a qualsiasi altro artista (Tav. 3). Ogni opera è esposta in modo esemplare, meglio che in qualsiasi museo dove le mostre duravano poco tempo; a Biumo l’installazione è permanente. La discussione sui certificati si concluse quando arrivarono dopo molto tempo e molte insistenze. Non arrivò mai il certificato che riguardava un’opera che si chiamava Untitled (to Karin), 1966, formata da tre lampade in diagonale, due lunghe e una corta al centro, bianche, quella centrale bianco calda.

Le opere erano state pagate tutte, subito; non ho mai saputo perché non volesse darmi il certificato. È accaduta la stessa cosa per opere acquistate molto tempo dopo alla galleria di Heiner Friedrich nel 1974 e pagate un prezzo 50 volte più elevato. Non ho mai ricevuto il certificato per l’opera formata da 4 quadrati nei 4 angoli di una grande stanza (A Four Corner Installation, 1973), un’opera importante, adatta per essere sistemata in modo permanente in un museo. E un danno per la sua fama il non poterla realizzare. Pagai in anticipo fidandomi dei buoni rapporti di Friedrich con l’artista.

Flavin aveva avuto un’infanzia difficile a causa dei rapporti con sua madre: questo fatto ha avuto conseguenze sul suo comportamento, che consisteva nel rifiuto delle cose positive che la vita gli offriva. Certamente sono stato il collezionista che maggiormente ha amato il suo lavoro, che lo ha esposto nel modo corretto e in modo permanente nella propria casa a Biumo; ciò nonostante nutriva ostilità verso di me, quando mi incontrava non mi salutava con piacere. Con mia moglie i rapporti erano diversi: era sempre molto cordiale e gentile. Mi ricordo di un incontro avvenuto molti anni fa a Los Angeles, forse alla Ace Gallery, in occasione di una sua mostra; io e mia moglie eravamo assieme, venne incontro recitando in latino il rituale del matrimonio: «Ego coniugo vos in nomine dominis». Flavin conosceva bene la liturgia cattolica avendo studiato in seminario per diventare gesuita, ma aveva poi abbandonato l’ordine. Lo faceva non per scherzare, ma con molta convinzione, incrociando le dita per benedire. Aveva anche il fisico del monsignore, del prelato di alta gerarchia. Doveva essere la sua vocazione tradita. Ogni tanto lo sentivo dire che sarebbe stato un cattivo gesuita. La sua coscienza era sempre contesa tra il richiamo del

la luce nell’arte Il viaggio del colore: breve nota filosofica

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trascendente e i piaceri della vita. Era molto goloso, preferiva la cucina francese e i suoi vini e quando viaggiava sceglieva sempre i ristoranti migliori. La sua golosità era dannosa alla sua salute: era ammalato di diabete in modo grave e avrebbe dovuto seguire una dieta rigorosa. La sua malattia si aggravò progressivamente e subì l’amputazione parziale di un piede, che lo constrinse a muoversi in carrozzella.

Nel 1990, in occasione dell’inaugurazione del Guggenheim restaurato, con la sua opera che occupava la spirale, si risposò con una donna che certamente era la meno adatta. Mi ricordo di un incontro accidentale in un ristorante con l’allora direttore del museo Stedelijk di Amsterdam, Edy de Wilde; aveva un timore puerile, era gentile in un modo esagerato, temeva per la possibilità di fare una mostra, proprio l’opposto di quando trattava con me, che gli compravo tante opere.

Quando nel 1988 feci una bellissima mostra di Arte Minimal nel museo Reina Sofia a Madrid, dove i Flavin erano al centro della mostra, commisi un errore, interpretando in un modo libero l’adattamento dell’installazione di un’opera alle dimensioni della stanza. Invece di chiedere a me di modificare l’installazione dell’opera, inviò una violentissima lettera alla direttrice, Carmen Gimenez. Non ho mai invitato gli artisti all’allestimento delle mostre perché so per esperienza che creano problemi. Ognuno vorrebbe le stanze che hanno altri, nascono gelosie, invidie e discussioni senza fine. Questo problema sarebbe divenuto particolarmente grave con Flavin, che non era mai contento. Galleristi e direttori di musei mi riferivano delle preoccupazioni create dalle sue lungaggini nel decidere. Le sue installazioni le trovavo sbagliate, perché voleva mettere troppe opere assieme. Era infinitamente meglio metterne una sola invece di tante. Ma se l’opera era una sola dominava la luce invece della forma, se era più importante la luce cambiava il significato ed emergeva l’aspetto mistico (Tav. 4).

Flavin non voleva che questo fosse visibile; era un intellettuale di sinistra, contestatore, e così doveva sembrare, il suo inconscio doveva essere nascosto. Credo che fosse proprio questa la ragione della sua antipatia verso di me: io rivelavo agli altri una sua verità che voleva conservare invisibile. Gli altri non si accorgevano della sua fondamentale essenza mistica, perciò non gli davano fastidio.

È un’opinione molto diffusa presso gli intellettuali che la libertà di giudizio e di pensiero sia la cosa più importante, cosa giustissima. Chi cerca la verità rischia di perdere questa libertà. Idea sbagliata, ma che può avere delle giustificazioni quando si oppone alle scelte individuali. Flavin aveva dietro di sé i contrasti con la madre, era un secondo figlio gemello non atteso, quindi tutto ciò che i genitori ritenevano importante doveva essere rifiutato. Erano anche gli anni ’60, gli anni della contestazione.

Era un uomo diviso tra due tendenze opposte, la ricerca della verità e il rifiuto di ogni verità. Due direzioni opposte, ugualmente forti e per questo laceranti. Un inconscio che sapeva dove era il bene e la ragione che voleva il piacere, il successo, la soddisfazione dei desideri personali. Soprattutto un gran bisogno d’amore insoddisfatto; non ne aveva avuto da sua madre, non riusciva ad averne da nessuna altra persona. La prima moglie la ricor-

4. Dan Flavin, Untitled 1/3 green, 1963, df 1, The Solomon R. Guggenheim Foundation, 1991. Installazione: Centro de Arte de Reina Sofia, Madrid 1988. Il viaggio del colore: breve nota filosofica

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do come una donna dolce, paziente, buona. Ma non ha saputo tenerla con sé. Chi amava il suo lavoro quasi non era gradito. Sono queste situazioni estreme che provocano una grande sofferenza. La liberazione dal tormento di forze contrastanti è la creazione, che consente alla coscienza di sfuggire a queste costrizioni e ritrovare la sua autonomia e la pace. Da grande dolore nasce grande arte. Si arriva alle radici dell’essere, spogliati da ogni elemento contraddittorio.

Flavin è morto nel 1996; ha voluto morire, non si curava e continuava a mangiare e a bere le cose proibite, pur sapendo che il non curarsi gli avrebbe procurato la morte.

Negli ultimi mesi di vita si verificò un fatto nuovo. L’occasione era stata la visita a Biumo delle stanze dove sono esposti i Flavin di don Giulio Greco, parroco di Santa Maria Annunziata in Chiesa Rossa a Milano e del suo assistente don Pier Luigi Lia, professore di Teologia all’Università Cattolica. Essendo stati molto colpiti dal significato mistico delle sue opere, presero la decisione di chiedere a Flavin di fare un progetto da installare nella chiesa, in modo da conferire un nuovo aspetto all’edificio, coerente con la sua funzione. La chiesa è un edificio di grande qualità architettonica, costruita nel 1932 da uno dei migliori architetti italiani del tempo, Giovanni Muzio, in uno stile classicheggiante ma riveduto in un modo personale e originale. L’interno era stato deturpato da numerose aggiunte incoerenti, ma facilmente eliminabili. Tramite Michael Govan, direttore della Dia Art Foundation di New York e amico di Flavin, si chiese all’artista l’esecuzione di un progetto. All’inizio era riluttante, era una cosa nuova, un’opera permanente in una chiesa cattolica, la religione che aveva abbandonato. Si trovava in clinica in modo quasi continuo, gli era molto difficile muoversi, doveva studiare il progetto su un modello con disegni e fotografie. In seguito iniziò a interessarsi con un maggior impegno; intanto però le sue condizioni di salute peggioravano, con il pericolo che il progetto non arrivasse al completamento. Infatti Flavin morì: ormai la speranza di realizzare l’opera nella Chiesa Rossa era finita.

Poco dopo la scomparsa dell’artista, ricevetti una telefonata da New York di Michael Govan, con la quale mi comunicava che Flavin aveva completato il progetto due giorni prima di morire (Untitled, 1996), in un periodo di lucidità e di serenità, e che quindi vi erano tutte le istruzioni per eseguire l’opera correttamente.

Una soluzione si può dire miracolosa, la fine di un conflitto, la riconciliazione con il suo vero destino. Quando si sono sperimentate le alternative, la necessità della verità diventa una libera scelta. In questo modo terminava un cammino con il ritorno alle origini. Il trascendente è una ferita che tormenta sempre, che non si rimargina, fino a quando non si aderisce alla sua chiamata.

L’opera è stata realizzata grazie alla generosità di alcuni amici. Giovanni Rossi e Laura Mattioli Rossi, figlia del famoso collezionista Gianni Mattioli, entrambi con il figlio Giacomo appassionati collezionisti d’arte contemporanea, hanno offerto il ripristino della chiesa alle condizioni originarie; invece Miuccia Prada e il marito Patrizio Bertelli hanno donato l’opera: anche loro, oltre a essere operatori nella moda d’importanza mondiale, sono generosi e appassionati collezionisti. Per molti anni il valore commerciale delle opere di Flavin era stato depresso, il suo lavoro era stimato dai competenti, ma non dal collezionismo e fino a poco tempo prima della sua morte si poteva acquistare a prezzi molto bassi, 10 volte inferiori a quelle di altri artisti Minimalisti.

Ed è triste che la rivalutazione commerciale di un artista avvenga dopo la sua scomparsa. Spesso la vita è ingrata verso chi crea.

Essere liberi dal denaro è la grande lezione di questa storia, ma ancora più grande è l’affermazione di un impulso primordiale spesso represso: la ricerca della verità.

viii. incontri di luce con due artisti

James Turrell, artista del cielo (Los Angeles, California, usa, 1943)

Artista anomalo – finanziatore della sua stessa arte – James Turrell usa come materia prima lo spazio e la luce. La sua opera più audace è la trasformazione di un cratere vulcanico nel deserto dell’Arizona, divenuto un luogo magico dove il cielo e la terra si incontrano e si fondono, annullando la coercizione dello spazio (Tav. 5).

James Turrell appartiene a quel gruppo di artisti di Los Angeles che fra il 1965 e il 1975 hanno sviluppato un’arte che utilizza la luce e lo spazio come strumenti espressivi.

Si distingue da tutti gli altri, non solo perché vive e finanzia la sua arte facendo l’aviatore e quindi passando molto tempo nel cielo, ma anche perché il cielo è il suo “materiale”. Un fatto che appare insolito, ma vedremo come proprio in questo modo lavori, utilizzando la Vera Natura, non le finzioni e le illusioni che solitamente ci offrono i pittori e che Platone giustamente condannava, perché imitazione di un’immagine che è l’ombra della verità, non la sua essenza irraggiungibile.

Contrariamente a quanto accade agli artisti di successo, Turrell finanzia la propria arte invece di ricavarne un reddito: per mantenersi deve volare. È il contrario di quanto solitamente ci si aspetta da un buon artista e per questa ragione il suo lavoro ha una posizione particolare nella storia del ’900 assieme ad alcuni altri che hanno usato la luce.

Questa affermazione può sembrare eccessiva, ma siamo sicuri che il tempo proverà l’importanza della sua opera. È sufficiente vedere quello che ha creato. Purtroppo, è proprio questa la difficoltà che ostacola la conoscenza di quest’arte. È difficile vederla perché non è fatta di quadri che si appendano facilmente alle pareti.

Sono stanze, che più grandi sono meglio riescono, che devono essere predisposte con particolare attenzione, perché il lavoro consiste nella percezione dello spazio e della luce. I muri devono essere perfettamente lisci e bianchi, cosa difficile da ottenere, contrariamente a quanto normalmente si pensa. L’ombra di un avvallamento millimetrico può sciupare il risultato.

la luce nell’arte

5. Visioni aeree del Roden Crater, che si trova a 2000 metri d’altitudine, fotografato da Turrell stesso. (Photo Archives of the Panza di Biumo Collection).

viii. incontri di luce con due artisti

Il muro che doveva sembrare il confine di uno spazio indeterminato diventa visibile come muro, distruggendo l’effetto. A causa della necessità di molto spazio con trasformazioni particolari, non esistono opere sistemate permanentemente in luoghi aperti al pubblico. Esposizioni importanti sono state fatte in molti musei, ma sempre temporanee.

È il rischio grave che corre quest’arte, di esistere solo nel ricordo di chi è andato a vedere la mostra in quella determinata città, in quel determinato momento.

Ma Turrell è impegnato in un’impresa gigantesca che riesce a portare avanti con incredibile tenacia (Tavv. 6, 7, 8). Se si vede il luogo dove, lentamente ma gradualmente, si è attuata, si capisce perché non ha abbandonato un impegno che all’apparenza può sembrare folle: potrà durare per secoli.

Abbiamo detto che la luce, lo spazio, il cielo, sono il materiale della sua arte. È necessario chiarire le premesse storiche, elementi che sono stati sempre presenti, perché sono la struttura fondamentale di quasi tutte le opere d’arte, ma in fondo diversa.

All’inizio del Rinascimento la percezione dello spazio viene esplorata attraverso lo studio della prospettiva, per dare l’illusione della distanza e della terza dimensione su una superficie che ne ha solo due.

L’uomo vuole conoscere e possedere con la sua mente la natura, sta nascendo la scienza. L’interesse degli artisti per capire come rappresentare lo spazio è parallelo a questa ricerca. Anche l’interesse per la luce nasce nel Rinascimento ed è in relazione con la riscoperta della natura attraverso il paesaggio che diventa un elemento della composizione, ma non ancora elemento autonomo come accadrà con il Romanticismo.

La luce è il modo in cui l’invisibile si rende visibile. È manifestazione dell’energia primordiale che crea il mondo. Guardando la natura noi troviamo tutto ciò che succede dentro di noi, guardandola vediamo noi stessi.

L’artista che dipinge un paesaggio descrive quello che succede dentro di sé. Può sembrare una divagazione superflua questa riflessione, dovendo descrivere il lavoro di Turrell, ma invece vedremo come tutto ciò è indispensabile alla sua comprensione. Anche nell’architettura la luce diventa un elemento espressivo importante.

In quella religiosa, romanica, dove le finestre erano di piccole dimensioni in relazione al volume, il contrasto tra luce e ombra era molto forte ed era usato per rafforzare l’opposizione tra il bene e male. Lo spessore rilevante dei muri e delle volte accentuava questi contrasti. Nell’architettura gotica la sua funzione diventa ancora più evidente.

In relazione a una tecnica costruttiva molto evoluta, le strutture diventano agili e sottili, gli sforzi sono concentrati in pochi punti, sui pilastri e i contrafforti, liberando dalle funzioni portanti i muri, che vengono sostituiti da esili vetrate, che filtrano la luce solare nel modo più idoneo per ottenere l’effetto desiderato sul visitatore.

Il Rinascimento era più interessato ai rapporti armonici e razionali tra le forme e i volumi e non in modo particolare agli effetti luminosi. Nell’architettura barocca, invece, la luce viene usata per ottenere effetti illusionistici alterando e accentuando le prospettive per ottenere sensazioni di distanze maggiori.

la luce nell’arte viii. incontri di luce con due artisti

6, 7. Il mutare delle stagioni cambia i colori del Deserto Dipinto, in Arizona. La neve nel deserto e sulle falde del Roden Crater (Photo Archives of the Panza di Biumo Collection).

la luce nell’arte viii. incontri di luce con due artisti

Con l’Impressionismo la luce torna ad avere un ruolo determinante. Il colore puro è una delle qualità di quest’arte, evidente nei quadri di Manet.

Nella pittura metafisica di De Chirico, eseguita tra il 1912 ed il 1918, la luce ha una funzione importante. Ma non è la luce gioiosa del sole splendente del mattino e non è nemmeno quella del tramonto, melanconica ma serena.

La realtà di De Chirico è quella della nostra immaginazione. Sono i sogni incontrollati della nostra mente che l’artista ferma nel loro continuo mutamento, privi di rapporti con la realtà ma non con i desideri inespressi della nostra coscienza.

Un capovolgimento nel modo di vedere l’importanza della luce come mezzo espressivo avviene nel 1964, con la prima mostra alla Green Gallery di New York di Dan Flavin, uno dei fondatori dell’Arte minimal, assieme a Donald Judd e Robert Morris.

La luce non è più un’illusione, ottenuta mediante la contrapposizione di colori scuri e chiari su una superficie piana, ma una radiazione che riempie un volume, tutto lo spazio in cui viene percepita come realtà fisica.

La luce solare è probabilmente la cosa più bella esistente in natura. Sembra bianca perché la somma dei colori che la compongono crea questa impressione, ma se vi poniamo attenzione, in condizioni particolari, vediamo le tonalità infinite che contiene. Dan Flavin realizza questa rivoluzione usando lampade fluorescenti. La qualità di questa luce è infinitamente inferiore a quella solare ma è pur sempre enormemente superiore alla illusione fabbricata dai pittori.

Un altro fatto importante avveniva verso la metà degli anni ’60 a Los Angeles, quando Robert Irwin dà inizio a un’indagine sistematica sulla percezione: come vediamo, cosa vediamo, che cosa comprendiamo vedendo. Sembrano fatti ovvi, ma quando si cerca di capirli nel loro svolgimento e nelle loro cause, diventano oscuri e confusi. La percezione non è un processo semplice come sembra, ma molto complesso. Crediamo di vedere le cose come sono, invece le vediamo come noi pensiamo debbano essere. In realtà noi non vediamo le cose, ma i nostri pensieri, la memoria è prevalente sulle informazioni che il nostro sistema nervoso ci trasmette dal mondo esterno. Questa era la constatazione di Irwin: la frontiera tra il reale e l’immaginazione è mutevole e indefinibile.

Il giudizio estetico, che è una sintesi della nostra personalità, dei nostri pensieri e dell’essere sconosciuto che è dentro di noi, che ci comanda determinate reazioni e imprevedibili stati di coscienza, sposta questo confine.

Un altro fatto importante avviene a Los Angeles nel 1968 con il programma Scienza Arte e Tecnologia promosso dal County Museum e coordinato da Maurice Tuchman. Molti artisti sono invitati a partecipare. Irwin e Turrell, che collaborano assieme, sono quelli che probabilmente ne traggono il maggior beneficio utilizzando la loro preparazione filosofica e scientifica.

Le prime opere di Turrell nelle quali la luce viene utilizzata per fare arte, risalgono al 1967 e vengono esposte nel museo di Pasadena, nello stesso anno. Turrell utilizza dei potenti proiettori usati nelle sale cinematografiche con lampade allo xenon, che emettono una luce bianca vicina a quella solare, per proiettare sul muro una forma di luce. I contorni di questa forma sono esattamente delineati con una maschera inserita nel proiettore, che la definisce con una netta divisione tra lo spazio illuminato e lo spazio in ombra.

La stanza deve naturalmente essere vuota e tutte le superfici bianche e lisce. L’ambiente deve essere buio, debolmente illuminato solo dalla riflessione della luce del proiettore. La superficie del muro illuminato acquista un volume, invece di essere piatta diventa tridimensionale, sembra una scultura di luce. Illusione, percezione, si combinano tra di loro e non sono separabili visivamente.

8. Una visione aerea del vulcano di Turrell.

la luce nell’arte

Successivi a questi lavori sono quelli che utilizzano delle sorgenti luminose artificiali o naturali, ma esistenti, non manipolate dall’artista. Questi esperimenti vengono realizzati nello studio di Turrell a Santa Monica e sono visibili nel 1973. Quelli realizzati usando delle luci notturne si chiamano Mendata Stoppage.

Lo studio dell’artista si trovava vicino all’oceano, all’angolo di un incrocio di strade con un semaforo al centro e altre case intorno e lampade della illuminazione pubblica sulla strada.

Turrell utilizza queste possibilità occasionali per ottenere effetti particolari. La stanza d’angolo è grande, senza aperture, buia, completamente bianca e neutra. Prima di vedere i lavori bisogna stare al buio per una decina di minuti per abituare la vista alla mancanza di luce, poi l’artista apre e chiude, in una successione programmata, per delle durate variabili, una serie di aperture poste sul muro di fondo, verso la strada: diversi tipi di luce vengono proiettati sul muro opposto e attraversano la stanza.

Aprendo una determinata apertura entra solo la luce del semaforo, situato a poca distanza, e riempie la stanza di rosso, di giallo, di verde in una successione abbastanza rapida. La stanza si riempie di colore come se fosse dipinta con tenui e delicate variazioni di toni, difficilmente ottenibili con un pigmento. La spazialità volumetrica del colore, nel quale si rimane immersi per alcuni minuti, è una esperienza singolare. Il condizionamento psichico, che ognuno sente, è un altro dato evidente. Le relazioni del verde, del rosso, del giallo con le sensazioni della vegetazione, del sangue, del sole, sono immediate.

Aprendo un’altra apertura posta più in basso entra la potente luce proveniente dai fari delle automobili che transitano sulla strada principale. Sono lampi che attraversano rapidamente lo spazio, abbaglianti, che rendono impossibile la percezione della stanza.

Aprendone un’altra posta su un altro lato si vedono solo i fari delle automobili che, ogni tanto, girano dalla strada secondaria su quella principale. Si rimane per alcuni minuti totalmente al buio, poi una luce tenue appare rapidamente, aumenta di intensità e poi scompare con un percorso laterale, spostandosi attraverso i muri bianchi della stanza.

Questi avvenimenti di luce, visti all’interno, appaiono slegati da ogni riferimento a ciò che avviene sulla strada e assumono un carattere irreale, stabiliscono relazioni di natura psichica collegandosi a ricordi lontani nel tempo, come la visita di una casa vuota in un luogo solitario.

Dopo la serie di immagini dinamiche comincia la serie statica.

Da un’altra apertura entra la luce di una lampada stradale, non quella più vicina, ma una lontana: entra molto inclinata e illumina parte del pavimento e del muro. Ha un colore che tende al blu, l’intenisità è debole, poco il riflesso nella stanza che rimane semibuia. È statica, tutto ciò che è attorno viene smaterializzato, perché quasi invisibile, solo con il tempo la vista percepisce delle forme indistinte.

In un’altra stanza dello studio di Turrell a Santa Monica era possibile vedere un altro lavoro completamente diverso, dove il materiale utilizzato non era la luce proveniente dall’esterno, ma il cielo con tutte le sue qua-

viii. incontri di luce con due artisti

lità naturali. In una stanza illuminata da un neon bianco, nascosto in una fessura tra i quattro muri e il pavimento, naturalmente vuoti e bianchi, vi era una sola apertura, verso l’esterno, posta in alto, attraverso la quale era visibile il cielo verso ovest, la direzione del tramonto.

L’apertura non ha finestra e non si vede lo spessore della parete perché vi è un angolo acuto di separazione. Dalla stanza si vede una superficie bianca perfettamente liscia, che perde l’apparenza di muro. Il colore del cielo appare come il proseguimento della medesima superficie. Questa sensazione è rafforzata dalla luce proveniente dal neon, riflessa su tutte le pareti e sul soffitto in modo omogeneo, bilanciando la luminosità intensa del cielo, che a prima vista sembra una superficie dipinta inserita nel muro. Questa sensazione svanisce subito perché ci si accorge che quel colore non è materiale, ma il dubbio rimane.

Questa sensazione ritorna e si accentua con il passare del tempo, cambiando l’intensità luminosa. Il processo è più rapido quando è prossima l’ora del tramonto. Questa lenta e continua mutazione di sensazioni opposte, fa pensare alla natura fisica della luce. È energia che non ha peso, ma scalda la nostra pelle, rende visibile il mondo, è inafferrabile, ma reale.

Un cambiamento radicale avviene quando inizia il tramonto. Siamo sempre colpiti dai suoi colori e siamo sempre invitati dalla natura a godere della bellezza di questo fenomeno. Quando viene visto in una stanza chiusa, bianca, attraverso una piccola apertura, i suoi colori sembrano diventare più intensi, acquistano una evidenza nuova. Il passaggio continuo dalla sensazione del pigmento solido steso su una superficie a quella del vuoto, di uno spazio infinito che si apre, con una prospettiva senza limiti, diventa più rapido.

In questo modo l’attenzione non viene distratta da altre cose, tutta la stanza è immobile, quel pezzo di cielo sembra statico, il cambiamento è lento ma continuo. Dal blu si passa al celeste, al rosso fuoco, al giallo, all’arancione, all’oro misto con il verde, al rosso scuro, al viola e infine al nero. Non si vedono stelle a causa della luce che viene dall’interno, il nero dell’apertura contrasta con il bianco intenso della stanza, acquista in modo più evidente l’effetto di materia solida, ma tale effetto sparisce appena l’osservazione si prolunga.

Guardando il cielo dall’apertura di Turrell si ha un senso di insufficienza di fronte ai tentativi della nostra mente di capire fenomeni naturali, dove la semplificazione diventa non comprensione per eccesso di riduzione.

Questo prototipo di Santa Monica è servito per altre realizzazioni, purtroppo tutte temporanee: le uniche permanenti si trovano a Varese nella villa di Biumo. Questi lavori sono anche il punto di partenza di una ricerca che ha per obiettivo un rapporto più ampio con la natura.

Abbiamo accennato a come Turrell raramente avesse la possibilità di vendere le sue opere d’arte. La descrizione che ne abbiamo fatto non lascia dubbi, non sono superfici dipinte da appendere al muro o forme tridimensionali da poter porre in un angolo di una stanza. Ciononostante viveva con la sua famiglia e preparava progetti ancora più ambiziosi, ma invendibili. La soluzione del problema economico consisteva, e tuttora consiste,

la luce nell’arte

nell’essere Turrell un pilota di aerei. Possiede un piccolo aeroplano con il quale fa servizi di taxi aereo.

Può atterrare e partire in poche decine di metri, può fare consegne di pezzi di ricambio per emergenze in luoghi remoti dove non esiste aeroporto, ma solo una strada in terra battuta o un terreno piano lungo 70 metri. Attività che comporta notevoli rischi, che affronta con serenità. È il prezzo della libertà di poter fare quello che pensa di dover fare senza compromessi o condizionamenti dovuti alla necessità di fornire un mercato che paga solo un determinato prodotto. Sono i compromessi che uccidono la creatività e l’arte, ai quali pochi sfuggono, a prezzo di gravi rischi e grandi sacrifici. Un’altra fonte di reddito consiste nel restauro di vecchi aeroplani che Turrell rimette a nuovo, con il lavoro delle proprie mani e la sua esperienza in ogni settore della tecnologia applicata non da ingegnere, ma da creativo. Macchine che devono essere affidabili, devono stare in aria, non sono oggetti da museo.

Questa passione per il volo e la tecnica probabilmente l’ha ereditata dal padre, un ingegnere aeronautico.

Da queste opere d’arte, che hanno come materiale il cielo, nasce un grande progetto. È una cosa praticamente attuabile in una casa di città la possibilità di vedere il cielo realizzando un’apertura in una stanza bianca e vuota, ma la porzione di cielo visibile è ovviamente molto limitata, un soffitto è necessariamente sopra le nostre teste, e anche se si può eliminare è sempre una porzione di cielo relativamente piccola.

A Turrell interessava avere una visione più ampia, percepire possibilmente l’esistenza dell’universo, la volta del cielo sopra la terra, l’integrazione dei due opposti, la presenza del finito e dell’infinito nella sua manifestazione più totale, per questa ragione era necessario cercare una soluzione dove la coercizione dello spazio potesse sparire. Realizzare un manufatto di tali dimensioni era economicamente impossibile, sarebbe stato necessario uno spazio circolare del diametro di circa 300 metri, con delle pareti concave alte circa 30 metri, in graduale raccordo verso il centro per formare una cavità perfettamente concava. Il terreno da muovere sarebbe stato una enorme quantità e quindi di un costo proibitivo. Ma nel West degli Stati Uniti, specialmente in Arizona e nel Nuovo Messico, vi sono delle formazioni naturali, i crateri dei vulcani, che hanno delle forme rispondenti allo scopo.

Bisognava trovare la struttura più vicina possibile alla forma ideale, per ridurre gli spostamenti di terreno, e ubicata in una località dove l’aria fosse particolarmente limpida, per consentire la massima visibilità del cielo.

Turrell a causa dei frequenti viaggi con il suo aereo, per prospezione fotografica per le ricerche geologiche e archeologiche, aveva avuto l’occasione di individuare delle condizioni possibilmente idonee.

Impossessarsi di una forma creata dalla natura per avere una visione più completa della medesima, senza alterarla: questo era l’intento. Le opere da fare dovevano rimanere invisibili dall’esterno, dovevano essere solo degli strumenti per migliorare l’osservazione. I territori degli stati dell’ovest del continente Nord Americano contengono delle bellezze naturali che sono tra le più spettacolari della terra. L’aspetto più interessante di questi territori per gli artisti che lavorano a Los Angeles, come Turrell, utilizzando lo spazio e la luce, era la possibilità di vedere questi elementi operanti senza nessun

viii. incontri di luce con due artisti

intervento umano. Queste regioni sono quasi completamente deserte a causa delle piogge molto scarse, non vi è vegetazione, salvo in alcune zone, il terreno è esposto all’azione di erosione del vento e degli altri agenti naturali. Sono visibili le stratificazioni avvenute nella storia della terra attraverso milioni di anni.

Il fondo dell’oceano ora si trova in cima alla montagna o è diventato un altopiano a 2000 metri di altezza. A causa della mancanza di umidità, l’aria è perfettamente limpida, sono visibili le catene di montagne, che si trovano a grandi distanze dall’osservatore e tra di loro, la visibilità verso l’orizzonte è sempre libera, non è chiusa da montagne vicine.

Sono territori disabitati, dove la presenza umana è minima e la natura è ancora visibile nella sua solitaria grandezza. Non vi sono erba e alberi che coprono il suolo nascondendo gli avvenimenti del passato. L’assenza di vegetazione, il terreno piano e vuoto, la luce limpida, non attenuata dall’umidità sospesa nell’aria, creano sensazioni percettive che soltanto in queste condizioni si possono trovare.

Nella visione della natura l’uomo ha sempre trovato la possibilità di un contatto con un’entità che è al di sopra di ogni cosa. Il nostro corpo e la nostra mente sono una creazione naturale che scopriamo riflettendo su noi stessi. Non siamo creatori: scopriamo ciò che esisteva prima. Se la vita è qualche cosa di bello, che è bene vivere, siamo debitori verso la natura da cui veniamo e che a sua volta viene da qualche cosa che sta dietro. Ma la cultura occidentale ha esaltato le qualità dell’«homo faber» che trasforma, che fa, non dell’uomo che contempla.

Sfruttare le risorse della natura, per dare a ciascuno una quantità di beni da consumare per il proprio comodo. Questa è la morale della società occidentale. Nelle domeniche di primavera gli umani inurbati sentono nostalgia della natura. Si mettono in coda sull’autostrada, per andare a vedere il panorama, di solito in un ristorante, qualche volta con una colazione sul prato o ai margini della strada, dimenticando la lattina della Coca Cola, la scatola di tonno vuota, il fazzoletto di carta tra l’erba.

Se un’improvvisa inondazione coprirà questi reperti, forse gli archeologi potranno sapere qualcosa della nostra epoca, che non lascia quasi nulla dietro di sé, perché consuma tutto, salvo le montagne di rifiuti che si accumulano alla periferia delle grandi città.

Il vulcano, con il cratere di forma concava, quasi perfetta, viene individuato nei pressi del Painted Desert, circa 100 km a sud del Grand Canyon, si chiama Roden Crater. È a circa 60 km da Flagstaf in Arizona, dietro vi è un grande vulcano e molti piccoli attorno. Quello prescelto si eleva circa 300 metri al di sopra dell’altopiano circostante, a sua volta a circa 2000 metri di altitudine.

Arrivando da lontano appare come una forma geometrica quasi perfetta, un cono con la cima tronca, dove vi è il cratere, anch’esso di forma circolare. Il diametro è di circa 300 metri. Si trova al margine del Deserto Dipinto dove l’erosione, con un lavoro antico di milioni di anni, ha portato alla luce gli strati sottostanti, ciascuno di colore diverso, rosso, viola, nero, bianco, grigio, ocra; per questa ragione si chiama Deserto Dipinto (Tav. 9).

la luce nell’arte

Il vulcano invece è fatto di cenere lavica nera. La vegetazione è quasi inesistente a causa dell’aridità dell’atmosfera, l’aria particolarmente limpida.

Turrell aveva bisogno di uno spazio concavo abbastanza grande da poter dare l’impressione di essere la parte inferiore di una immensa sfera dove la Terra era il cratere e il resto la volta celeste. Era necessario un taglio lineare orizzontale per separare nettamente, ma nello stesso tempo unire, terra e cielo.

Realizzare la cattedrale ideale. La distinzione e l’integrazione del terrestre e del divino. Il centro dello spazio concavo, il punto dove questa visione deve essere percepita. Per arrivare direttamente è necessario costruire un tunnel che dai piedi del vulcano arrivi al centro del cratere, con un percorso rettilineo, orientato secondo gli equinozi per avere i raggi solari all’interno due volte all’anno e la luna ogni 16 anni. Il tunnel deve essere lungo circa 300 metri ed è necessario rimuovere circa 100.000 metri cubi di terra per rendere perfettamente regolare il cerchio del cratere. Il terreno del vulcano e quello circostante sono stati acquistati alcuni anni fa dalla Dia Art Foundation che ha realizzato nel Nuovo Messico il Lighting Field di Walter De Maria, una gigantesca scultura, che occupa un miglio quadrato, composta da 750 pali di acciaio inossidabile perfettamente specchianti.

Invisibili da lontano, solo quando si è all’interno del perimetro diventano raggi di luce che escono dal terreno.

Rimane da realizzare la parte più impegnativa del progetto, la costruzione del tunnel, e reperire i fondi per la manutenzione dei manufatti, mediante il reddito di un capitale destinato a questo scopo. Il costo totale compresi i fondi di dotazione e le camere sotterranee presso l’inizio del tunnel, dove il pubblico può sostare per vedere fenomeni celesti e astronomici in condizioni particolari, è di 6.600.000 dollari. Oltre un milione di dollari è già stato speso.

Quando si è al centro del cratere nel tardo pomeriggio, poco prima dell’inizio del tramonto, si provano ingigantite le sensazioni avute nello studio di Turrell a Santa Monica o a Varese nella Villa di Biumo. Ma non vi è sopra la nostra testa il soffitto di una stanza, il cielo non è visto attraverso una piccola apertura, non siamo in città in mezzo a tante case.

Nel Roden Crater, quando giriamo intorno lo sguardo, vediamo la massa interna fatta di cenere di lava nera, piena di ombra opaca che aumenta in relazione alla discesa del sole verso l’orizzonte. Abbiamo un’impressione di oppressione e di smarrimento di fronte al buio e alla massa inerte della montagna, ma necessariamente dobbiamo alzare lo sguardo verso il cielo, che diventa visibile in tutta la sua estensione.

Abbiamo l’impressione di trovare la libertà, dal buio alla luce piena. Dal nero al blu infinito. Quest’ultima è l’impressione più forte, una vita più intensa circola nelle nostre vene, una speranza senza limiti ci riempie di una luce serena simile a quella che stiamo guardando, che viene da lontano. Il sole è ormai sceso dietro il margine del cratere, ma l’aria è piena di luce, comincia a diventare rossa, a prendere i riflessi del tramonto. Il cielo da blu intenso diventa celeste chiaro, sembra una superficie colorata stesa

viii. incontri di luce con due artisti

sopra di noi, fatta con un materiale che non si può toccare, che non ha peso pur essendo reale. Dal blu infinito al celeste tangibile, morbido, puro.

Quando il tramonto inizia, i colori si susseguono lentamente riempiendo tutta la volta celeste, le sensazioni di superficie solida e quelle di una dilatazione infinita delle percezioni si alterano.

Quando vi sono delle nubi, con grandi volumi verticali emergenti dall’orizzonte, il contrasto di aperto e chiuso diventa ancora più forte, le masse colorate assumono dimensioni immense. Quando il cielo comincia ad essere viola e poi blu profondo, appare la prima stella intensamente luminosa. Non bisogna attendere molto per vedere il cielo riempirsi. La luce del tramonto è scomparsa, è notte, ma il cratere non è buio, reso quasi luminoso dalla quantità di stelle. L’aria è particolarmente limpida e la visibilità molto superiore alle regioni umide. L’Universo vive perché è pieno di luce.

Da Ricordi di un collezionista, Jaca Book, Milano 2020

Siamo stati invitati da James Turrell a visitare la sua casa a Santa Monica, un sobborgo di Los Angeles vicino all’oceano, dove la luce è più limpida. Era una casa completamente diversa dalle altre. Tutta bianca, non vi erano mobili, salvo un tavolo con alcune sedie e un letto per dormire. Non vi erano porte; la luce doveva fluire da una stanza all’altra senza ostacoli. Chi entrava doveva vedere tutto. In realtà era la luce il vero abitante della casa, le persone un ingombro. Prendemmo un tè fatto con le erbe del deserto, un luogo che l’artista amava. Vi andava appena poteva con il suo aeroplano.

Scoprimmo che era anche un appassionato pilota. Le sue entrate non venivano dall’arte, ma dalla sua attività di pilota. Comprava i rottami di vecchi aerei, li restaurava, li rivendeva ai collezionisti di velivoli d’epoca, numerosi in California. Era molto competente in materia di tecnologia e di meccanica. I vecchi aerei li restaurava con le sue mani. I motori che non funzionavano da molti anni sapeva farli andare di nuovo, trovando o rifacendo i pezzi mancanti.

Anche la casa era stata sistemata dalle sue mani, con un ampio impiego di pannelli di gesso, materiale molto usato in America e facile da sistemare. La sua conversazione era interessante: si parlava di arte, di aerei, del deserto, che era il suo amore principale. Si avvicinava il tramonto, era il tardo pomeriggio.

Turrell ci chiese di entrare in un’altra stanza e di sederci in terra su cuscini. La stanza era quadrata, illuminata dal basso da un tubo al neon, nascosto in una fessura tra il pavimento e il muro. Il soffitto era molto alto; poco sotto vi era una apertura dove si vedeva il cielo. Non era una finestra, non si vedeva un serramento; l’apertura era a filo del muro come se fosse la sua continuazione e guardava verso ovest. Incominciava il tramonto: il cielo sembrava dipinto sopra la continuazione del muro, era un blu profondo, quasi fisico. Dopo qualche istante ci si accorgeva che era il vuoto, il vuoto infinito del cielo. Era una continua alternanza di due opposti, il fisico e il vuoto.

la luce nell’arte

L’esperienza più impressionante doveva venire poco dopo, quando l’apertura incominciò a colorarsi dei colori del tramonto. Fu una visione incredibile, una successione di emozioni una più intensa dell’altra. Era come se stessimo vedendo il tramonto per la prima volta. Ho sempre amato il tramonto; mi piace stare fermo a guardare fino a quando i colori spariscono e viene la notte. Nella stanza di Turrell il tramonto era un’altra cosa: non mi ero mai accorto che i suoi colori avessero un’intensità così grande. Un’idea semplicissima trasformava un’esperienza comune. L’idea era di illuminare la stanza dall’interno per ridurre la differenza di luminosità, riducendo l’abbagliamento. La seconda idea era la forma dell’apertura: spariva la finestra, sembrava la continuazione del muro.

Le emozioni non erano finite, ma continuarono la sera, dopo una cena frugale. Entrammo in una stanza semibuia, trovammo posto su comode sedie; la stanza era abbastanza grande, era in un angolo della casa, vicino a un crocevia con un semaforo. In fondo alla stanza vi erano due pareti chiuse, con aperture di piccole dimensioni che si potevano aprire. Eravamo seduti ma rivolti nella direzione opposta. Dopo qualche minuto la stanza diventò completamente buia. Dopo ancora alcuni minuti, forse per abituare la nostra vista alla mancanza di luce, Turrell aprì una delle aperture nella parete che era dietro di noi.

La stanza si riempì di una luce tenue, fredda, argentea, simile a quella della luna; dava la stessa sensazione di una realtà non più reale, la visione di un mondo di sogni, dove era piacevole essere immersi. Dopo altro tempo al buio completo, un altro buco venne aperto e la stanza si riempì di una luce intensa, abbagliante, qualcosa di trionfale; era limpida, chiara, forte. Dopo pochi secondi scomparve improvvisamente, ritornò il buio profondo di prima. Dopo un altro intervallo, un’altra novità: una luce verde riempiva la stanza, poi gialla per breve tempo e infine rossa, poi buio di nuovo, bellissimi colori, completamente inattesi.

L’ultimo spettacolo fu come un fuoco d’artificio: luci che all’inizio erano tenui diventavano improvvisamente fortissime, riempivano tutta la stanza abbagliando, improvvisamente sparivano. Tutto questo spettacolo era una grande scoperta. Turrell era il re della luce, la dominava in un modo assolutamente nuovo. Non conosco nessuno che in passato abbia fatto qualcosa di simile. I pittori hanno tentato di creare l’illusione della luce con il chiaroscuro. Il primo fu Leonardo, poi gli Impressionisti con i colori. Nessuno utilizzava la luce vera, del sole o dell’elettricità (Tavv. 10, 11).

La spiegazione di tutte queste esperienze così diverse era facile. La stanza era d’angolo a un incrocio con semaforo, con la luce rossa, gialla, verde; la luce intensa, un’auto in sosta con i fari accesi; quella lunare, la luce fredda del lampione; i bagliori tenui poi crescenti, le automobili che passavano in fretta quando il semaforo era verde. Io e mia moglie eravamo molto impressionati. Era necessario rivivere queste emozioni nella nostra casa di Biumo.

Sopra le scuderie vi erano locali liberi. Gli inquilini che li occupavano erano stati allontanati, in previsione di un possibile impiego per l’arte. Eravamo anche affascinati dall’artista aviatore, dai suoi voli sul deserto, un luogo per irreali incantesimi, dal suo interesse per la tecnica e la capacità di fare le cose. Un artista che sapeva essere anche un operaio, un operaio intelligente. Parlava di una ricerca specialissima che a noi sembrava molto utopistica, ma estremamente stimolante. Volava sui deserti dell’Arizona e del Nuovo Messico per cercare il cratere di un vulcano dove, quando ci si fosse trovati al centro, sarebbe stato possibile vedere il cielo in un modo speciale; la finestra della sua casa moltiplicata 1.000 volte. Aveva individuato un cratere in Arizona che aveva le caratteristiche adatte: una forma quasi perfettamente semisferica e la cresta lineare, una separazione netta tra terra e cielo. Voleva farcelo vedere, noi più che mai interessati.

Turrell aveva un aeroplano a quattro posti. L’invito era allettante e noi accettammo con entusiasmo. Mi dimenticavo di una cosa importante: il viaggio era stato organizzato da Helen Winkler, che ci accompagnava, assistente di Heiner Friedrich, un gallerista di Colonia che si era trasferito a New York, dal quale avevo comprato molta arte di Ryman, Flavin, Judd e Morris. Helen, una persona gentile, intelligente, competente, organizzava i nostri appuntamenti, cosa per me noiosa. In attesa di partire per il viaggio con Turrell, fu possibile vedere altri artisti; visitammo gli studi di Wheeler e Irwin, dove in quel momento non vi erano opere finite. Wheeler stava sperimentando uno spazio con tutti gli angoli arrotondati: con un’uniforme illuminazione spariva la distinzione tra sopra e sotto, tra destra e sinistra e lo spazio diventava continuo, come fosse senza fine.

Vivevano quasi tutti a Venice, un quartiere piuttosto degradato. Aveva questo nome perché vi era un canale con gondole e alcuni edifici povera imitazione della Venezia vera. Un rimpianto dell’Europa lontana. Los Angeles è piena di questi rimpianti. Tante case in mezzo a giardini lussureggianti, alberi e fiori tropicali, con imitazioni in stile inglese, coloniale spagnolo, fiorentino del Rinascimento, Luigi xv francese, tutte maldestre e di pessimo gusto. Le poche case belle sono in stile “Old America”, oppure moderne progettate da buoni architetti, ma sono poche. Il viaggio in Italia è ingannevole, non si può rifare una cosa che non esiste più. Il ricordo e il rimpianto della vecchia Europa sono sempre forti.

Los Angeles nel ’73 era una città piatta. Stavano costruendo a Downtown i primi grattacieli, il Municipio era l’unico edificio verticale. A ovest, vicino a Beverly Hills, il tempio dei Mormoni con in cima l’angelo con la tromba era visibile da lontano. Ora il paesaggio urbano è molto cambiato.

Arrivò il giorno del volo con l’aereo di Turrell. Avevo raramente viaggiato su un aereo di piccole dimensioni. La sua manovrabilità era impressionante, improvvise impennate per salire, strette virate attorno a una cosa da vedere; Turrell diceva che poteva atterrare in uno spazio di 70 metri, a una velocità molto bassa, perciò era un aeroplano sicuro. La prima tappa fu l’aeroporto di Las Vegas, una sosta breve per fare benzina. Anche all’aeroporto vi erano centinaia di «slot machines» dove si gioca con le monetine, ma non c’era il tempo per provare. D’altra parte non ho mai sentito nessuna attrazione per il gioco. Anzi una speciale antipatia. Non ho nessun interesse per il rischio. Quando si gioca sempre, si finisce inevitabilmente con una pesante perdita, il banco trattiene una forte percentuale. Nella vita

viii. incontri di luce con due artisti

la luce nell’arte viii. incontri di luce con due artisti

vi sono molte situazioni di rischio che bisogna subire; non è un piacere, è inevitabile. Non vedo perché aggiungerne altre per il piacere di arrischiare. Strano piacere.

Il viaggio proseguì per Overtone un piccolo aeroporto vicino al grande lago artificiale Mead, creato costruendo una grande diga sul fiume Colorado.

Il programma del viaggio consisteva non solo nel conoscere il progetto di Turrell, ma altre opere della Land Art di Michael Heizer e Walter De Maria. Al mattino successivo ci alzammo prima dell’alba per vedere il Double Negative, 1969-1970, di Heizer alle prime luci del giorno. Era necessario salire sopra una «Mesa». Strane formazioni geologiche provocate dall’innalzamento del fondo del mare a 2.000 metri d’altezza a causa della deriva della zolla continentale verso ovest. L’erosione aveva scavato i lati isolandola, un lavoro durato milioni di anni.

«Mesa» in spagnolo vuol dire tavola; infatti, il sopra è perfettamente piatto e si cammina su un suolo rimasto quasi intatto da milioni di anni. Si chiamava «Mormon Mesa», dal nome della setta che ha colonizzato molte località nel West.

Era difficile individuare la posizione del Double Negative, non si vedeva. Camminando lungo i margini della Mesa apparve all’improvviso, quasi sotto i piedi. Era proprio come dice il nome, un negativo, quasi invisibile, ma imponente quando lo si trova. Due scavi verticali fatti con una potente ruspa, larghi una decina di metri, lunghi circa 100, separati da un profondo canyon, largo circa 300 metri. Poteva sembrare una ferita inferta alla natura, invece si integrava nel paesaggio; vi sono molte frane lungo il fianco della Mesa, ma questa era diversa dalle altre per il suo taglio geometrico. È una caratteristica fondamentale della Land Art la sua integrazione con la natura. Questo scopo era perfettamente raggiunto.

È un’arte che pone l’uomo di fronte alla grandezza e alla bellezza della natura, un atteggiamento religioso.

Un’altra esperienza di simile qualità è stata la visita del Testing Lightning Field, di Walter De Maria. Era una prova per il progetto definitivo che sarebbe stato realizzato nel New Mexico nel 1977 con il finanziamento, molto generoso, della famiglia De Menil. Il Testing Field era costituito da una decina di pali in acciaio inossidabile, invece di 400 del progetto definitivo. Era collocato nel Ranch dei Tremaine, famosi collezionisti di New York, entrambi scomparsi e dispersa la loro bellissima collezione. Eravamo accompagnati dall’artista in persona che guidava un mezzo a quattro ruote motrici adatto per viaggiare nel deserto. Vedere i sottili pali d’acciaio, quasi invisibili, la cui superficie speculare riflette la luce è stata una grande esperienza, una prova della bellezza del lavoro definitivo, che ho visto alcuni anni dopo.

9. James Turrell, Virga, Varese 1976. JT 3. The Solomon R. Guggenheim Foundation, donazione Panza. Installazione: Villa Menafoglio Litta Panza, Varese.

la luce nell’arte

A fronte: 10. James Turrell, Sky space, 1976. JT 4. The Solomon R. Guggenheim Foundation, donazione Panza. Installazione: Villa Menafoglio Litta Panza, Varese.

11. James Turrell, Sky space, 1976. JT 4. The Solomon R. Guggenheim Foundation, donazione Panza. Installazione: Villa Menafoglio Litta Panza, Varese.

viii. incontri di luce con due artisti

NOTE

II. L’ILLUMINAZIONE DEL DEFUNTO COME IEROFANIA DELLA SUA DIVINIZZAZIONE NELL’ANTICO EGITTO 1 Cfr. l’articolo di R. Grieshammer, Licht, in Lexikon der Ägyptologie (LÃ), i, coll. 1033-1034; A. de Buck, De zegepraal van het licht, Amsterdam 1930. 2 È il caso della maggior parte dei templi a piloni, orientati secondo un asse nordsud; cfr. C. de Wift, Le rôle et le sens du lion dans l’Egypte ancienne, Leyde 1951, p. 73. Nel caso dei templi orientati secondo un asse ovest-est (come Karnak), i corpi dei piloni rappresenterebbero piuttosto le montagne dell’orizzonte orientale, in mezzo alle quali sorge il sole: cfr. S. Sauneron in Dictionnaire de la civilisation égyptienne, Hazan, Paris 19702, p. 236. 3Ricordiamo che il greco Zeus, il latino deus, il francese dieu, l’italiano dio sono imparentati con il termine sanscrito dyáuh che evoca il «cielo luminoso» e che si ritrova anche nel latino dies, «giorno» (presente ancora nei nomi dei giorni lunedi, martedi, mercoledi, ecc.). Il termine indoeuropeo ricostruito, *deiwos, «dio», proverrebbe da una radice *dei-, «brillare»; cfr. A. Meillet, Introduction à l’étude comparative des langues indo-européennes, 8a ed., Hachette, Paris 1937, pp. 400-401; B. Sergent, Les Indo-Européens. Histoire, langues, mythes, Bibliothèque historique Payot, Paris 1995, pp. 323-324. 4Sul concetto di nòr si veda il lavoro di S. Morenz, Aegyptische Religion, Verlag W. Kohlhammer, Stuttgart (tr. it. La religione egizia, Il Saggiatore, Milano 1968); E. Hornung, Der Eine und die Vielen, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1971 (tr. it. Gli dèi dell’antico Egitto, Salerno, Roma 1992); D. Meeks, Notion de ‘dieu’ et structure du panthéon dans l’Egypte ancienne, «Revue des l’histoire des religions» (rhr), ccv (1988), pp. 425-446; C. Traunecker, Les dieux de l’Egypte (coll. Que sais-je? 1194), puf, Paris 1992, pp. 33-35. 5 Giamblico affermava infatti che per gli Egiziani la luce era l’essenza stessa della divinità: cfr. i testi raccolti da Violet Mac Dermot, The cult of the seer in the ancient Middle East (Publ. of the Wellcome Institut of the History of Medecine, nuova serie, xxi), London 1971, pp. 221-222. 6 J.-M. Kruchten, Un sculpteur des images divines ramessides, in M. Broze-P. Talon (a cura di), L’atelier de L’Orfèvre. Mélanges offertes à Ph. Derchain, Peeters, Louvain 1992, pp. 107-118, in part. 116-117. 7 Cfr. l’articolo di E. Otto, Ach, in LÄ, i, col. 49-52. 8 C. Kuentz, Autour d’une conception égyptienne méconnue: l’Akhit ou soi-disant horizon, «Bulletin de l’institut français d’Archéologie orientale» (bifao), 17 (1920), pp. 185-188. 9 Si tratta più precisamente del Geronticus eremita, o «ibis eremita» degli ornitologi, presente allo stato selvaggio solo in Turchia e Marocco e in via d’estinzione. Gli ultimi esemplari di questa specie sono stati osservati in Egitto nel 1921, nella regione di Giza; cfr. P.F. Houlihan, The Birds of Ancient Egypt, The American University in Cairo Press, The Caire 1988, pp. 31-32. 10 È impossibile affermare se l’animale è stato scelto come geroglifico í perché il lessema significava fondamentalmente «luminoso» (H. Kees, Totenglauben Jenseitsvorstellung der alten Ägypter, AkademieVerlag, Berlin 1956, p. 37) o se la scelta dipende semplicemente da un’omofonia (F. Daumas, La civilisation de l’Egypte pharaonique, Arthaud, Paris-Grenoble 1965, p. 255). È interessante notare che nel periodo dell’Antico Impero l’immagine di quest’ibis veniva utilizzata per decorare i diademi, come quello ritrovato nella tomba di una principessa della iv dinastia: D. Dunham, An Egyptian Diadem of the Old Kingdom, «Bulletin of the Museum of Fine Arts», 44 (1946), Boston, pp. 23-29. 11 G. Englund, s Akh – une notion religieuse dans l’Egypte pharaonique (Acta Universitatis Upsaliensis Boreas), «Uppsala Studies in Ancient Mediterranean and Near Eastern Civilizations», 11, Uppsala 1978. 12 Vale a dire una «forza consustanziale», creatrice e distruttrice nello stesso tempo, che ha dei legami con la «magia» (h k w) di cui gli dèi sono detentori; cfr. J. Botghouts, Akhu and Heakhu. Two basic Notions of Ancient Egyptian Magic and the Concept of the Divine Creative World, in La magia in Egitto, Milano 1987, pp. 29-46; Y. Koenig, Magie et magiciens dans l’Egypte ancienne (Bibliothèque de l’Egypte ancienne), Pygmalion/Gérard Watelet, Paris 1994, pp. 289-303. 13 II nome dell’orizzonte in egiziano antico, í-t, originariamente – nei Testi delle piramidi – scritto con il segno dell’ibis con la cresta, è chiaramente legato al fatto che l’orizzonte è il «luogo in cui nasce la luce»; G. Englund, op. cit., pp. 41-42. Cfr. anche l’articolo di J. Assmann, Horizont, in LÄ, iii, col. 3-7. 14 P. Spencer, The Egyptian Temple, London 1984, pp. 110-111. 15 G. Englund, L’horizon et quoi encore?, in Sundries in honour of T. Säve-Söderbergh (Acta Universitatis Uppsaliensis, Boreas, 13), Uppsala 1984, in part. pp. 52-53. Questa visione dell’akhet concorda con quella espressa precedentemente da A. de Buck, Egyptische Godsdienst, in G. van der Leeuw, De Godsdiensten des Wereld, Amsterdam 1941, pp. 70-109. 16 P. Derchain, Divinité. Le problème du divin et des dieux dans l’Egypte ancienne, in Dictionnaire des mythologies, a cura di Y. Bonnefoy, Flammarion, Paris 1981, pp. 342-330; C. Cannuyer, Un théologien ‘structuraliste’ de l’ancienne Egypte, rhr, ccii-ii (1985), pp. 147-160. 17 «L’akh è per il cielo, il cadavere è per la terra» dicono i Testi delle piramidi (§ 474a). 18 Cfr. E. Otto, Die beiden vogelgestaltigen Seelenvorstellung der Aegypter, «Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde» (zäs), 77 (1942), pp. 87-91; si veda anche E. Edel, Zu einer Formel in der alten Reichs Texten, «Journal of Egyptian Archaeology» (jea), 25 (1939), p. 217. 19 Non possiamo non pensare al concetto cristiano di «trasfigurazione», di «corpo di luce» o «corpo glorioso», evocato soprattutto dalla liturgia romana dei funerali: «Fa brillare su di essi la luce senza fine» (cfr. C. Cannuyer, Lumière, in Dictionnaire Encyclopédique de la Bible, Brepols, Turnhout 1987, pp. 758-759, con bibliografia; M.M. Davy-J.-P. Renneteau, La lumière dans le christianisme, in Le thème de la lumière dans le judaïsme, le christianisme et l’IsIam, Paris 1976, pp. 137ss. 20 F. Friedman, The Root Meaning of í: Effectiveness or Luminosity, «Serapis», 8 (1985), pp. 82-97. 21 P. Derchain, Anthropologie. Egypte pharaonique, in Dictionnaire des mythologies, p. 49, scrive: «L’akh è la forma del defunto che possiede una potenza superiore, che viene invocata nel momento del bisogno, ma che può anche manifestarsi ai vivi spontaneamente e in modo sgradevole». 22 Massimo il Confessore scrive nel vii secolo: «Allora la natura (dei santi) risplende di una luce soprannaturale e viene trasportata da una sovrabbondanza di gloria al di sopra dei propri limiti», Ad Thalassium, 22, P.G., XC, 321 A, citato da J. Meyendorff, St Grégoire Palamas et la mystique orthodoxe (Microcosme - Maîtres spirituels, 20), Seuil, Paris 1959, p. 45. Non è ciò che, mutatis mutandis, accade al defunto egiziano che, «assolto», «giustificato» (m c -írw) accede alla condizione di í? Sul concetto della divinizzazione nell’Oriente cristiano si veda lo studio recente di J.-C. Larchet, La divinisation de l’homme selon saint Maxime le Confesseur, Coll. Cogitatio Fidei, Cerf, Paris 1996. 23 H. Bonnet, Reallexicon der ägyptischen Religionsgeschichte, Berlin 1952, p. 4; C.J. Bleeker, Egyptian Festivals (Studies in the History of Religions, Supplements to «Numen» xiii), Leiden 1967, pp. 21, 126, 139; J. Assmann, Ach, col. 49; P. Derchain, Anthropologie. Egypte pharaonique, in Dictionnaire des mythologies, p. 49; J. Berlandini, Akh, in P. Poupard (a cura di), Dictionnaire des Religions, i, puf, Paris 19933, p. 21 (tr. it. Grande Dizionario delle Religioni, i-ii, Cittadella, Assisi 1988); in ultima analisi, questo significato fondamentale di «luminoso» è riconosciuto pertinente nello studio di G. Englund, Akh..., cit., pp. 17-18. 24 J. Sainte Fare Garnot, Religions égyptiennes antiques. Bibliographie analytique (1939- 1943), puf, Paris 1952, pp. 191-192; Id., L’hommage aux dieux, Paris 1954, p. 37; E. Hornung, Licht und Finsternis in der Vorstellungswelt Altägyptischens, «Studium Generale», 18 anno/2 (1965), p. 77; J. Vergote, Immortalité conditionnée de l’âme ou survie inconditionnelle dans l’Egypte ancienne, in A. Théodoridès-P. Naster-J. Ries (a cura di), Vie et survie dans les civilisations orientales (aob, iii), Louvain 1983, p. 65. 25 «O padre mio, Osiride-il-re, tu sei í in í . t, stabile (ódti) in Djedit» (Testi delle piramidi, § 1046a-b). 26 «O re, possa tu essere potente per questo... in quanto tu sei colui che Osiride ha posto sul suo trono per guidare gli Occidentali e per essere í davanti agli dei» (Testi delle piramidi, § 1912a-d). 27 Cfr. le osservazioni di J.-M. Kruchten, art. cit., p. 117. 28 Cfr. Ibidem. 29 Questo termine è il causativo sostantivato formato dalla radice í ; fondamentalmente significa «ciò-che-rende-akh». 30 W. Barta, Aufbau und Bedeutung der altägyptischen Opferformel (Ägyptologische Forschungen, 24), Glückstadt 1968, pp. 59ss. 31 Uno degli innumerevoli esempi è la stele di Any (Il Cairo JE n. 15115), i. 3-4, G.A. Gaballa (a cura di), Three acephalous Steles, jea, 63 (1977), pp. 125-126. Se ne trovano anche altre versioni: si veda, ad esempio, nella stele di Pareherounemyef (xx dinastia), Il Cairo je 3299, menzionata da J. Berlandini, Varia Memphitica, vi, bifao, 85 (1985), p. 44, nota 3. 32 W. Barta, op. cit., p. 77; H.O. Lange-H.S. Schäfer, Grab- und Denkstein des Mittleren Reichs, i, Berlin 1902, p. 15. 33 J. Vergote, Immortalité conditionnée de l’âme ou survie inconditionnelle..., cit., pp. 64-71. 34 H. Brunner, Ma ‘a-cheru, in LÄ, iii, col. 1107-1110; R. Anthes, The Original Meaning of M c -írw, «Journal of Near Eastern Studies» (jnes), 13 (1954), pp. 21-51. 35 J. Assmann, Maat, l’Egypte pharaonique et l’idée de justice sociale (Conferenze, saggi e lezioni del Collège de France) Juillard, Paris 1989, in part. le lezioni iii e iv, pp. 57-114. 36 Le citazioni tra virgolette sono tratte da J. Assmann, ibid., pp. 72-73. 37 Sulla traduzione del termine wvr in questo contesto si veda C. Cannuyer, Le don de la girafe. Le verbe égyptien vr, heuristique du sens et recherche phylogénétique. Etude de lexicographie afroasiatique comparée, 1997. 38 Almeno dalla v dinastia, secondo S. Morenz, op. cit., pp. 172-177. Nei Testi delle piramidi Osiride è già chiamato «Signore della Maat», il che fa chiaramente pensare al suo ruolo di presidente del tribunale dell’aldilà. 39 Licht und Finsternis, in part. pp. 80-81; Id., Nacht, in LÄ, iv, 1982, col. 281-282. 40 Sull’uso del verbo íc, «apparire, sorgere» in questi contesti diversi si veda M. Schunk, Untersuchungen zum Wortstamm íc, Rudolf Habelt, Bonn 1985, passim. 41 F. Chabas, Notice sur le Pire-em-hrou, in Congrès International des Orientalistes. Compterendu de la Première Session. Paris-1873, Maisonneuve, Paris 1876, pp. 37ss. 42 Il s non sarebbe la preposizione locativa ma il «m d’identità». 43 [M. Heerma van Voss], Illustrations pour l’éternité. Peintures et dessins égyptiens provenant des collections nationales de Belgique et des Pays-Bas, Catalogo della mostra, Bruxelles, m.r.a.h., 28 ottobre-18 dicembre 1966, p. 11 (Libro dei morti di Kenna, xix dinastia, Leiden). 44 Chabas legge così il nome del defunto, anche se oggi viene trascritto piuttosto «Neb Qed». 45 Riportiamo l’opinione comune secondo la quale, durante la storia della religione egiziana, c’è stato un progressivo processo di «democratizzazione» o piuttosto di «demotizzazione» (cfr. J. Assmann, Maat..., cit., p. 73) del destino divino post mortem, appannaggio esclusivo del re nel periodo dell’Antico Impero (H. Kees, Totenglauben Jenseitsvorstellung der alten Ägypter, Akademie-Verlag, Berlin 1956, p. 177) poi esteso gradualmente all’élite della società durante il Medio Impero (Testi dei sarcofagi) e infine a un numero sempre più cospicuo di individui di ogni livello sociale dal periodo del Nuovo Impero in poi (Libro dei morti). J.P. Sørensen, Divine Access: The So-Called Democratization of Egyptian Funeräry Literature as a Socio-cultural Process, in G. Englund (a cura di), The Religion of Ancient Egyptians. Cognitive Structures and Popular Expressions. Proceedings of Symposia in Uppsala and Bergen 1987 and 1988 (Acta Universitatis Upsaliensis Boreas), «Uppsala Studies in Ancient Mediterranean and Near Eastern Civilizations», 20, Uppsala 1989, pp. 109-125, preferisce parlare di processo di secolarizzazione, tramite il quale le tradizioni religiose che erano specifiche dell’ideologia faraonica si sono infine estese alla massa. 46 Cfr. R.B. Finnestad, The Pharaon and the ‘Democratization’ of Post-mortem Life, in G. Englund, The Religion of Ancient Egyptians..., cit., pp. 89-94. 47 Sull’identità intrinseca tra «umanità» ed «egizianità» nel pensiero egiziano antico si veda S. Morenz, op. cit., pp. 75-77. 48 Si veda il catalogo di G. Englund, op. cit., pp. 29-30, 36-38, che li ha raccolti insieme. 49 La lista completa è data da W. Helck, Pyramidennamen, in LÄ, v, col. 4-9. 50 Il verbo utilizzato è íc, che si applica al sorgere del sole e delle stelle. Considero che il verbo è al vóm.f perfettivo, ma in questo caso, come nelle frasi verbali che seguono, si potrebbe vedere un prospettivo con valore modale e tradurre quindi «Possa Snefru apparire». 51 O forse «l’orizzonte di Cheope». 52 O anche «il firmamento di Djedefre». Preferisco adottare la traduzione proposta da W. Westendorf (cfr. Helck, art. cit., col. 5 in fine). 53 H. Wild, L’‘adresse aux visiteurs’ du tombeau de Ti, bifao, 58 (1959), pp. 104-106. 54 Già qui appare chiaramente l’aspetto «magico-ritualista» delle cerimonie funerarie che, ipso facto, comportano la glorificazione del defunto, come è ben dimostrato dal lavoro di Y. Koenig, op. cit., pp. 225241. 55 H. Wild, art. cit., p. 106, traduce «spiritualizzazione». 56 Variante: «colui che è giovane, maestro per l’eternità» (P. Barguet, Textes des Sarcophages égyptiens du Moyen Empire [Littératures Anciennes du Proche-Orient, 12], Cerf, Paris 1986). 57 Glossa di due sarcofagi di Assiut. 58 Designazione di Hathor. 59 Gioco di parole tra «dorata» (n b w. t) e «isole» (n b. w t). 60 È la tomba di una donna. 61 La parola utilizzata è iííw, «fine dell’alba». P. Barguet, Sarcophages, p. 502, nota 95. 62 Formula 643; P. Barguet, op. cit., p. 132. 63 Formula 570 (P. Barguet, Sarcophages, p. 134); formula 620 (ibid., p. 162); formula 645 (ibid., p. 132); formula 152 (ibid., p. 145). 64 s}`, il «Luminoso» (akhou): si tratta verosimilmente di una designazione di Atum o di Re, il sole creatore. Cfr. G. Englund, Akh..., cit., pp. 157-148. 65 Questo capitolo, come gli altri tre che seguono, fa parte del rituale funerario ed è illustrato da una vignetta che mostra effettivamente il disco solare con i raggi, che brilla sul sarcofago del defunto. 66 La testa del defunto ricoperta d’oro e scolpita sul sarcofago a volte domina, sul lato occidentale della tomba, l’immagine

del sole che sorge dal mondo inferiore, dove ha trionfato sul serpente Apophis. Uno degli esempi più belli è il sarcofago anonimo (x secolo a.C. circa?) del museo di Appenzell, di cui una fotografia si trova in E. Hornung, Der ägyptische Sarg im Heimatmuseum Appenzell, «Innerhoder Geschichtsfreund», 28 (1984), p. 7. 67 Ciò non vuol dire che la condizione di maa kheru, di «giustificato», non proponga un ideale etico, che oltre tutto è trasmesso dalla letteratura sapienziale. Su questo punto sono propenso ad attenuare l’accusa di «farisaismo» lanciata contro la religione egiziana da Y. Koenig, op. cit., pp. 239-242. La magia aggira forse, o piuttosto corto-circuita, l’imperativo etico ma non lo nega. 68 In effetti tutti i testi funerari della letteratura religiosa egiziana sono v í.w, come osserva J.A. Wilson, Funeral Services of the Egyptian Old Kingdom, jnes, 3 (1944), pp. 209-210. 69 W. Czermack, Zur Gliederung des 1. Kapitels des ägyptischen ‘Totenbuches‘, zas, 76 (1940), p. 20, traduce correttamente il termine con «illuminazione». Si tratta di un’illuminazione-divinizzazione, una «beatificazione» come dice J.C. Goyon, Rituels funéraires, p. 169. Si veda anche S. Morenz, Zur Vergöttlichung in Ägypten, zas, 84 (1959), pp. 132-143. 70 La mummia è un í, com’è testimoniato da numerosi passaggi del Libro dei morti (capitoli 100, 101, 130, 137, 156) dove si tratta di amuleti e formule magiche da recitare «su» o «per» l’ í, che può designare soltanto il corpo del defunto, il suo sarcofago o al massimo una statua (cfr. il capitolo 168 del Libro dei morti, dove il testo menziona continuamente sia la mummia sia la statua per descrivere la resurrezione e la divinizzazione del defunto operate dai riti funerari che lo rappresentano: E. Otto, Das ägyptische Mundöffnungsritual, Ägyptologische Abhandlungen 3, ii, Wiesbaden 1960, p. 27). L’identificazione della mummia con un akh è già attestata, ma una sola volta, nei Testi dei sarcofagi del Medio Impero (G. Englund, Akh..., cit., § iii B 1.3, pp. 150-151). 71 W. Czermack, op. cit., p. 16; E. Otto, Die beiden vogelgestaltigen Seelenvorstellung..., cit., p. 91; H. Bonnet, op. cit., 1952, p. 4; H. Kees, Totenglauben..., cit., 1956, p. 37; L.V. Zabkar, Herodotus and the Egyptian Idea of Immortality, jnes, xxii (1963), p. 61; G. Englund, op. cit., pp. 187-188. In un testo che identifica ogni Osiride-defunto al sole si legge che grazie al rituale «i raggi di Re brillano sul tuo cadavere e la sua luce dà respiro alla tua gola» (J.C. Goyon, Le cérémonial de la glorification d’Osiris du Papyrus du Louvre i. 3079, bifao, 65 [1967], p. 108). 72 D. Meeks, Notion de ‘dieu’ et structure du panthéon dans l’Egypte ancienne, rhr, ccv4 (1988), pp. 425-446. 75 S.G.F. Brandon, The Significance of Time in some Ancient Initiatory Rituals (Studies in the History of Religions, Supplement to «Numen», x, Initiation), Leiden 1965, p. 41; P. Barguet, Le Livre des deux chemins, «Revue d’Egyptologie», 21 (1969), p. 14. 74 G. Thausing-T. Kreszt-Kratschmann, Das grosse ägyptischen Totenbuch (Papyrus Reinisch) (Schriften des österreichischen Kulturinstituts Kairo), Kairo 1969, pp. 1014; G. Thau- sing-H. Goedicke, Nofretari (Monumenta Scriptorum), Graz 1971, p. 20; G. Englund, Akh..., cit., p. 20; W. Czermack, op. cit., p. 23; E. Otto, Die beiden vogelstaltigen Seelenvorstellung..., cit. p. 90. 75 H. Brunner, Der Tote als rechtsfähige Person, «Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft», 105 [n.f. 30] (1955), p. 27. 76 Una delle ultime attestazioni di questa composizione si trova in un papiro della xxi dinastia: E. Hornung, Die Tragweite der Bilder, «Eranos Jahrbuch», 48 (1979), pp. 215-217, ill. 40. 77 Tomba di Nefertari nella Valle delle Regine (regno di Ramses ii, 1290-1224 a.C.). Una riproduzione a colori si trova in G. Thausing-H. Goedicke, op. cit., p. 41, e in C. Desroches Noblecourt, Amours et fureurs de La Lointaine. Clés pour la compréhension de symboles égyptiens, Stock-Pernoud, Paris 1995, pl. xxiii. 78 «È Re che riposa in Osiride e viceversa». Cfr. E. Hornung, Das Buch der Anbetung des Re, i, p. 178 e ii, pp. 53, 99. 79 Cfr. J. Assmann, Liturgische Lieder an den Sonnengott (mäs, 19), Berlin 1969, pp. 101105. Si veda anche P. Derchain, Le papyrus Salt 825, rituel pour la conservation de la vie en Egypte, Bruxelles 1965, pp. 153ss. 80 ct i, 191 g-192 a (formula 45): «Questo N. è Osiride che appare in Re» (Wvir N pn ícj m Rc). 81 In effetti c’è un doppio movimento: il defunto-Osiride si unisce a Re perché quotidianamente (cfr. la Tomba tebana 290: R. Boulanger, Ägyptische und altorientalische Malerei, Weltgeschichte der Malerei, 2, Lausanne 1961, 28) Re, scendendo nel regno d’Occidente, «integra... il signore della morte nel sue essere in modo così profondo» che entrambi diventano una sola persona (E. Hornung, Der Eine und die Vielen, cit.). Si veda anche E. Hornung, Götterwort und Götterbild im alten Ägypten, in H.-J. Klimkeit (a cura di), Götterbild in Kunst und Schrift, Bonn 1984, pp. 48ss. 82 G. Englund, Akh..., cit., pp. 196-197. Lo stato di í designa la condizione liminale, quella del passaggio dalla virtualità all’attualità divina. 83 Alla pubblicazione di A. Piankoff, The Litany of Re (Bollingen Series, xl /4), New York 1964, è preferibile ora quella di E. Hornung, Das Buch der Anbetung des Re im Westen (Sonnenlitanei), 2 voll. (Aegyptica Helvetica, 2-3), Genève 1975-1976. 84 Qui seguo la versione delle tombe ramessidi (E. Hornung, Anbetung, i, pp. 1-3; trad. ii, p. 61). 85 Cioè di Re-Osiride riuniti (d m ó) in una sola entità divina alla quale viene assimilato il re defunto. Cfr. E. Hornung, Anbetung, ii, p. 97, nota 2. 86 Letteralmente la «giustificazione» (m c írw); cfr. ibid., p. 98, nota 8. 87 Per questa espressione si veda E. Hornung, Anbetung, ii, p. 125, nota 254. 88 Ibid., p. 110; trad. ii, p. 75. 89 Ibid., p. 99, nota 16 e p. 129, nota 304. 90 Ibid., i, p. 129; trad. ii, p. 78. 91 Ibid., pp. 148 e 150; trad. ii, p. 80. 92 Letteralmente «sono sulla mia perfezione»; nfr . w, che troppo spesso viene tradotto con «bellezza», ha un significato che va ben al di là della bellezza: designa infatti la «perfezione», cioè la «pienezza dell’essere». In breve, il testo afferma che lo splendore del sole, illuminando il defunto, gli permette di acquisire la pienezza di una vita nuova (cfr. E. Hornung, op. cit., ii, p. 136, nota 383). Si veda anche J. Assmann, Liturgische Lieder, p. 289, nota 8. 93 E. Hornung, op. cit., i, p. 165; trad. ii, p. 82. 94 Ibid., i, p. 186; trad. ii, p. 84. 95 Ibid., i, pp. 251-252; trad. ii, p. 94. 96 Ibid., i, pp. 223-224. Un passaggio della sesta divisione del Libro delle porte conferisce lo stato di í anche a Osiride (G. Englund, Akh..., cit., pp. 184-185); ma oltre all’aspetto luminoso che connota l’epiteto, la sesta divisione fa anche riferimento alla germinazione e alla crescita dei grani apparentemente morti che, piantati nella terra, diventano il simbolo di Osiride che rinasce. 97 Versione del Papiro Berlino 3008; cfr. R.O. Faulkner, The Lamentations of Isis and Nephtys, in Mélanges Maspero, i, 1934, pp. 337-348; M. Lichtheim, Ancient Egyptian Literature, iii, University of California Press, 1980, pp. 118-119. La stessa idea dell’identificazione dell’Osiride al sole la si ritrova anche nel Papiro Bremner-Rhind (R.O. Faulkner, The Papyrus Bremner-Rhind [Brit. Mus. N° 10188], Bibliotheca Aegyptica iii, Bruxelles 1933, pp. 1-32) e nelle «ore osiriche» dei templi di Edfu, di Dendera e di Philae pubblicate da H. Junker, Die Stundenwachen in den Osirismysteren, Wien 1919, p. 40: «Apro i tuoi occhi, apro le tue orecchie, che tu possa vedere rettamente come Re al mattino... Re si riunisce a te (Osiride), tu ti riunisci alla Luce di Colui che brilla all’orizzonte...». 98 T. Devéria, Note sur deux scarabées égyptiens communiqués par M. Bourquelot, in «Bulletin de la Société des Antiquaires de France» (1858), pp. 112-118. L’articolo è stato ripreso in Mémoires et Fragments, i (Bibliothèque Egyptologique, 4), Paris 1896. Si veda in part, la p. 30. 99 A. Wiedemann, Die ägyptischen Denkmäler des Provinzialmuseums zu Bonn und des Museums Wallraff-Richartz zu Köln, «Jahrbücher des Vereins für Freunde der Antike im Rheinland» (1884), p. 99. 100 H. Cüppers, in Der kleine Pauly, 5, München 1975, pp. 407ss. 101 La credenza nell’illuminazione/divinizzazione dei defunti si era diffusa nel mondo greco-orientale tramite i misteri iniziatici della religione isiaca: il mystes, dopo aver compiuto simbolicamente durante la notte un viaggio astrale e infernale, indossava dodici vesti che rappresentavano le costellazioni dello Zodiaco, portava in mano una fiaccola e una corona di palma che evocava i raggi del sole trionfante; cfr. R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Les Belles Lettres, Paris 1992, pp. 119-120. 102 T. Devéria, in Mémoires et fragments, t.i, p. 30. 103 Su questa formula si veda H.A. SchöglA. Brodbeck, Aegyptische Totenfiguren aus öffentlichen und privaten Sammlungen der Schweiz (Coll. Orbis Biblicus et Orientalis [obo], ser. archaeologica 7), Freiburg e Göttingen 1990, che concordano con la traduzione data qui, come J.F. e L. Aubert, Statuettes égyptiennes, Chaouahtis, Ouchebtis, Paris 1974, p. 43. Una traduzione simile e possibile è quella di E. Brunner-Traut e H. Brunner, Die Ägyptische Sammlung der Universität Tubingen, Mayence 1981, p. 226: «Osiride è illuminato». Esistono altre traduzioni, meno appropriate al contesto (J.-L. Chappaz, Les figurines funéraires égyptiennes du Musée d’Art et d’Histoire et de quelques collections privées, Genève 1984, pp. 10-11) ma che sono suggerite da qualche variante: «Osiride è l’illuminatore» (H.D. Schneider, Shabtis, Leiden 1977,1, p. 131); «Illuminazione di Osiride» (T. Devéria, loc. cit.), «Illumina Osiride!» (A. Wiedemann, loc. cit.) o ancora «Osiride, l’illuminato» (L. Speelers, Les figurines funéraires égyptiennes, Bruxelles 1923, p. 112) che farebbe riferimento all’accesso del defunto alla conoscenza superiore del mondo divino. 104 Pubblicato dal barone Carra de Vaux, L’Abrégé des Merveilles è tradotto dall’arabo in base ai manoscritti della Bibliothèque nationale de Paris, Paris 1898, xxxvi-415 pagine. La seconda parte di quest’opera è integralmente consacrata alla storia favolosa dell’Egitto. 105 G. Maspero, L’Abrégé des merveilles, in Journal des Savants, 1899, pp. 69-86 e 155-172; ripreso in G. Maspero, Etudes de mythologie et d’archéologie égyptiennes, vi (Bibliothèque Egyptologique, t. xxviii), Paris 1012, pp. 443-491. 106 E. Cerulli, Il libro etiopico dei miracoli di Maria, Roma 1943, p. 195; J. Doresse, Un rituel magique des gnostiques d’Egypte, «La Tour Saint-Jacques», n. 11/12 (1958), pp. 65-75; Id., Des hiéroglyphes à la croix. Ce que le passé pharaonique a légué au christianisme (Publications de l’Institut historique et archéologique néerlandais de Stamboul, vii), Istanbul 1960, p. 32; G. Viaud, Les pèlerinages coptes en Egypte (d’après les notes du Qommos Jacob Muyser) (Bibliothèque d’Etudes Coptes, xv), Institut Français d’Archéologie Orientale (ifao), Le Caire 1979, p. 10. 107 A. van Lantschoot, Révélations de Macaire et de Marc de Tarmaqâ sur le sort de l’âme après la mort, «Le Muséon», 63 (1950), p. 28. 108 M. Cramer, Die Totenklage bei den Kopten, Wien 1941, pp. 72-73. 109 Si veda, per esempio, «Journal Asiatique», (1905), i, 416. 110 Cioè Zeitun, alla periferia del Cairo. 111 S. Giovanni di Phanidjoit fu martirizzato sotto il regno del sultano ayyubide Malik al-Kamil (1218-1238); cfr. E. Amélineau, Un document copte du xiiie siècle, Martyre de Jean de Phanidjoit, «Journal Asiatique», 8e série, t. ix (1887), pp. 134-189. 112 I. Balestri-H. Hyvernat, Acta Martyrium, ii («Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium» [csco], 86, scr. coptici 6), Louvain 1953; trad. csco 43, p. 178. 113 Raphael Ava Mina, Pope Kyrillos vi and the Spiritual Leadership, Le Caire, s.d., pp. 28-29. 114 Credenza popolare registrata da S.-A. Naguib, Miroirs du passé (Cahiers de la Société d’Égyptologie, 2) Genève 1993, p. 20. 115 Sulle analogie tra le figure di Osiride e Cristo si veda l’articolo, interessante ma eccessivo, di V.A. Tobin, The Myth of Osiris, in «Papers for Discussion», Università Ebraica di Gerusalemme, ii, 1985, pp. 328348. 116 C. Cannuyer, Lumière, in Dictionnaire Encyclopédique de la Bible, Brepols, Turnhout 1987, pp. 758-759. 117 Alla fine di questa contribuzione mi riesce difficile non evocare almeno una delle tesi centrali della riflessione teologica di Eugen Drewermann. Osservando alcune strette analogie tra la speranza egiziana e la speranza cristiana, Drewermann ne deduce un’influenza dell’antico Egitto sulla meditazione e la rappresentazione cristiana della morte. Non mi è possibile in questa sede discutere la sua tesi e mi propongo di trattare il problema altrove. Diciamo almeno che, se le analogie rilevate da Drewermann sono pertinenti – benché percepite talvolta tramite una bibliografia sorpassata e senza preoccupazione di una prospettiva diacronica –, le conclusioni che ne trae suscitano numerose riserve. Dal solo punto di vista della storia delle religioni, si cercano vanamente i canali che avrebbero potuto permettere una trasmissione di idee tra la religione faraonica e il Cristianesimo dei primi secoli, del quale, del resto, tutto dimostra un profondo radicamento ebraico. Drewermann ignora, per esempio, l’influenza del mazdeismo iranico che, invece, deve essere presa in considerazione. III. L’ALONE DI LUCE ATTORNO AL BUDDHA NELL’ICONOGRAFIA E NEI TESTI CANONICI 1 Elena Cassin, La splendeur divine. Introduction à l’étude de la mentalité mésopotamienne. Ecole Pratique des Hautes Etudes, La Haye-Paris 1968. 2 A. Bareau, La legende de la jeunesse du Buddha dans les vinayapitaka anciens, Oriens Extremus, Wiesbaden 1962; La légende et la jeunesse du Buddha, befeo, 69, pp. 199-274; Recherches sur la biographie du Buddha dans les sutrapitaka et les vinayapitala anciens. i. De la quête de l’Eveil à la conversion de Sariputra et de Maudgalyana, efeo, Maisonneuve, Paris 1963; ii. Les derniers mois, le Parinirvana et les funérailles, t. i, Paris 1970, t. ii, Paris, 1971. In italiano si può consultare A. Bareau, Buddha: la vita, il pensiero, i testi esemplari, Accademia, Milano 1972. (ndt) 3 E. Lamotte, Histoire du bouddhisme indien des origines à l’ère Saka, Publications Universitaires, Institut Orientaliste, Louvain 1958, pp. 718-733. 4 Dighaniyaka, sutta 4. Il Dighaniyaka o Corpus des (suttas) longs contiene una parte dei discorsi (sutta) del Buddha. 5 Dighaniyaka, sutta 30 e 91. 6 Histoire de la vie de Hiouen Thsang et ses voyages dans l’Inde, tr. St. Julien, Paris 1853, p. 372. 7 Majjhimanikaya, sutta 36; il Majjhimanikaya o Corpus des (suttas) moyens contiene una parte dei discorsi (sutta) del Buddha. 8 A. Bareau, op. cit., p. 155. 9 C. Sivaramamurti, L’art en Inde, éd. Mazenod, 1974 (ill. 441). 10 A. Bareau, op. cit., p. 155. 11 Histoire de Satyakama et Upakosala: Chandogya Upanishad, iv,9,2 e iv,14,2. Tr. fr. E. Senart, Les Belles Lettres, Paris 1930. 12 A. Bareau, op. cit., 1970, pp. 282-295; 296-299. 13 A. Bareau, op. cit., 1970, p. 298. 14 Id., op. cit., 1963, p. 107. 15 Ibid., p. 156. 16 Le Traité de la Grande Vertu de sagesse de Nagarjuna, tr. Etienne Lamotte, T.I., Institut Orientaliste, Publications Universitaires, Louvain 1949, pp. 453-456.

IV. LUCI DI BISANZIO 1 Plotino, Sull’intelligibilità della bellezza, v, 8,1. 2 P.G. vol. 86, col. 2119-2158. 3 G. Duthuit, Le feu des signes, Skira, Genève 1962. 4 E. Troubetzkoï, Trois études sur l’icône (tr. dal russo), L’Echelle de Jacob, Paris 1986. 5 P. Evdokimov, L’art de l’icône: théologie de la beauté, Desclée de Brouwer, Paris 1980, p. 160 (tr. it. Teologia delle bellezza: l’arte dell’icona, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1996). 6 Giovanni Climaco, La scala del paradiso, (intr., tr. e note di C. Reggi), Città Nuova

Edizioni (Collana di testi patristici), Roma 1989; il manoscritto greco del xii secolo in cui compare la vignetta è riprodotto nell’opera citata di G. Duthuit alla p. 78.

V. LA TRASFIGURAZIONE NELL’ARTE MEDIEVALE IN OCCIDENTE (ix-xvi SECOLO) 1 Mt 17,1-9; Mc 9,2-10; Lc 9,21-36; 2 Pt 1,16-18. 2 G. De Jerphanion, Les Eglises rupestres de Cappadoce, t. 4, Paris 1925, 1926, 1936, 1942; G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Evangile, Paris 1960, pp. 216231; V. Lossky, La Transfiguration, in L. Ouspensky-V. Lossky, The Meaning of Icons, 1952, 1982, pp. 209ss., ripreso in «La vie spirituelle», n. 672, nov-dic. 1986, pp. 652-657; R. De Féraudy, L’icône de la Transfiguration, Abbaye de Bellefontaine, «Spiritualité orientale», n. 23, 1978; W. Weber, Symbolik in der abendländischen und byzantinischen Kunst. Von Sinn und Gestalt der Aureole, Bâle 1981, pp. 47-81; S. Dufrenne, La manifestation divine dans l’iconographie byzantine de la Transfiguration, in F. Boespflug-N. Lossky (a cura di), Nicée ii, 787-1987. Douze siècles d’images religieuses, Paris 1987, pp. 185-206. 3 I tre studi recenti di nostra conoscenza meglio documentati sono quelli di G. Schiller, Ikonographie der christlichen Kunst, t. 1, Gütersloh 1966, 19813, pp. 155-161; di W. Melczer, La porta di Bonanno nel Duomo di Pisa. Teologia ed Immagine, Ospedaletto 1988, pp. 183- 195; e di J. Kalinovska, Kaplica Jana Hinczy w katedrze na Wawelu ijeje malwidla scienne (La cappella di Jean Hincza nella cattedrale di Cracovia e i suoi dipinti murali), «Studia do Dziejow Wawelu», v (1991), pp. 133-234 (l’opera data a prima del 1465; si ispira al modello orientale, ma soprattutto alla Trasfigurazione della cappella di Gurk del xiii secolo). 4 Si veda J. Tomajean, La fête de la Trasfiguration, 6 août, «L’Orient syrien», 5 (1960) pp. 479-482; R. De Féraudy, op. cit., pp. 113-115. 5 Cfr. A. Guillou, Le Monastère de la Théotokos au Sïnai, in Mélanges d’archéologie et d’histoire, 67, 1955, pp. 217-258, che riproduce un’omelia di Anastasio il Sinaita, di cui alcuni passaggi («Oggi sul Tabor...») riflettono una celebrazione liturgica. Una traduzione francese di questo testo si trova in De Féraudy, op. cit., pp. 117ss. L’autore riporta inoltre un’omelia di Giovanni Damasceno su questa festa (pp. 147-184). Per il risultato delle ricerche si veda M. Aubinau, Une homélie inédite sur la Transfiguration, «Analecta Bollandiana», 85 (1967), pp. 402-427. 6 T. Klauser, Das römische Capitulare Evangeliarum. Texte und Untersuchungen zu seiner ältesten Geschichte, 1935, 19722, p. 20 (n. 61), 66 (n. 70), 108 (n. 66), 147 (n. 79); il testo scelto è invariabilmente quello di Matteo (Mt 17,1-9); A. Chavasse, Les lectionnaires romains de la messe au viie et au viiiesiècle. Sources et dérivés, t. 2, Fribourg 1993, p. 28. 7 P. Battifol, Histoire du Bréviaire, Paris 1893, p. 163; G. Schiller, op. cit., p. 156; De Féraudy, op. cit., pp. 115-116, cita un testo di Thomassin in cui si suggerisce una prima attestazione spagnola della festa in Occidente. 8 Si veda E. Bickersteth, Transfiguration and Church Dedications, «Studia Patristica», v (1962) pp. 3-7, e J. Kalinovska, op. cit. 9 L’unico articolo di riferimento sembra essere quello di J.B. Ferreres, La Transfiguration de Notre Seigneur. Histoire da sa fête et de sa messe, «Ephemerides Theologicae Lovanienses», 1982, pp. 630-643, che analizza i testi della diocesi di Vich, dove la festa veniva celebrata il 6 agosto (il papa Callisto iii, che visse a lungo nella diocesi di Lérida, non poteva ignorarla, cfr. p. 636). L’autore segnala anche numerosi riferimenti che attestano la celebrazione della festa prima del 1456 in Francia e in Italia (ma non a Roma). 10 R. De Féraudy, op. cit., p. 115. 11 Y. Christe, Les grands portails romans. Etudes sur l’iconologie des théophanies romanes, Genève 1969 (in particolare, ii. Les traductions iconographiques du thème de la vision de Dieu. 2. La Transfiguration, pp. 97-104), rinvia a J. Leclerq, Pierre le Vénérable, 1946, pp. 325ss. e 379ss., Tr. it. Pietro il Venerabile, Jaca Book, Milano 1991, pp. 279-287. 12 Per commemorare la vittoria delle armate cristiane, comandate dall’ungherese Jean Hunyadi, sui Turchi di Mehmet ii che assediava Belgrado (vittoria riportata il 22 luglio 1456 e la cui notizia giunse a Roma il 6 agosto), non senza l’intenzione di affermare così la divinità del Cristo all’incontro con l’IsIam. 13 In Mattheum homilia lvi-lvii, pg 58, col. 549-555. Non è possibile in questa sede evocare i commentari patristici della Trasfigurazione. Si veda a questo proposito G. Habra, La Transfiguration selon les Pères Grecs, Paris 1973; F. de’ Maffei, L’Unigenito consustanziale al Padre nel programma trinitario dei perduti mosaici del bema della Dormizione di Nicea e il Cristo trasfigurato del Sinai. ii, Storia dell’arte, t. 46, 1982, pp. 185-200; M.A. Vannier, La Transfiguration chez les Pères, «La vie spirituelle», n. 688 (1988), pp. 653-663; J.L. Gourdain, Jérôme exégète de la Transfiguration, «Revue des Etudes Augustiniennes», 40/2 (1995). 14 E. Dinkler, Das Apsismosaik von S. Apollinare in Classe, Köln 1964, pp. 87100; C. Müller, Das Apsismosaik von S. Apollinare in Classe, «Römische Quartalschrift», lxxxv pp. 11-50. Se l’iconografia di quest’opera non si ritrova altrove, il legame che essa stabilisce tra la Trasfigurazione e l’escatologia è spesso illustrato in Occidente, dal Salterio di Utrecht alla cappella della cattedrale di Cracovia. 15 G.H. Forsyth-K. Weirzmann, The Monastery of Sankt Catherine at Munt Sinai: the Church and Fortress of Justinian, Ann Arbor 1973, pp. 11-18; W.C. Loerke, Observations on the Represan- tation of the Doxa in the Mosaics of S. Maria Maggiore, and St. Catherine’s Sinai, «Gesta», xx/i, (1981), pp. 15-22; J. Miziolek, Transfiguratio Domini in the Apse at Mount Sinai and the Symbolism of Light, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», liii (1990), pp. 42-60; J.-M. Spieser, Remarques complémentaires sur la mosaïque de Osios David, in «Byzantinè Makedonia, 324-1430 ap. J.C.», Atti del colloquio di Tessalonica, ottobre 1992, Tessalonica 1995, pp. 295-306. 16 Quarta ode del Canone della Festa, citata da J. Myslivec, Verklärung Christi, in Lexicon der christlichen Ikonographie (=lci), t. 14, col. 416, 1972. 17 E. Diez-e O. Demus, Byzantine Mosaics in Greece. Hosios Lucas and Daphni, Cambridge (Mass.) 1931, pp. 60-62 e figg. 8991. 18 Costantinopoli, 1200 circa o inizi del xiii secolo. Si veda il catalogo della mostra Byzance. L’art byzantin dans les collections publiques françaises, Paris 1992, n. 279, pp. 368-369. La notizia precisa che il fondo anticamente era dorato. 19 Paris, bnf, ms. gr. 54, f. 213; su questo manoscritto si veda il catalogo della mostra Byzance. L’art byzantin dans les collections publiques françaises, Paris 1992, n. 345, p. 450. 20 Paris, bnf, ms. gr. 1242, f. 92v; si veda il catalogo della mostra Byzance. L’art byzantin dans les collections publiques françaises, Paris 1992, n. 355, p. 461. 21 W.C. Loerke, op. cit., p. 16. L’autore usa il termine «aureola» e non «mandorla». 22 Vi si precisa che il paesaggio è roccioso, con tre punte sulle quali sono appoggiati il Signore al centro, con Elia alla sua destra e Mosè alla sua sinistra che tiene in mano un libro; non ci sono piante perché sono vietate, ma solo piccoli cespugli d’erba. In primo piano i tre apostoli con Pietro alla sinistra dello spettatore, Giovanni al centro, Giacomo a destra; il Signore tiene in mano un rotolo (il libro dei Vangeli); benedice con la mano destra; dalla sua persona emana una grande luce a forma di rombo, e i raggi giungono fino ai profeti. Al centro del quadro, sotto le tre punte rocciose, un’altra roccia sotto la quale dormono i tre discepoli. Si vede anche il Signore che sale sulla montagna prima della Trasfigurazione e che dopo ridiscende. Secondo il Trattato della pittura, la scena del Signore che sale sulla montagna è chiamata «Annuncio del tradimento di Giuda» e quella del Signore che ridiscende «Professione d’amore di Pietro». 23 S. Dufrenne, La manifestation divine dans l’iconographie byzantine de la Transfiguration, in F. Boespflug-N. Lossky (a cura di), Nicée ii, 787-1987. Douze siècles d’images religieuses, Paris 1987, p. 193. 24 G. Melczer, op. cit., pp. 185-186, offre numerosi esempi; si veda anche quelli di S. Dufrenne, op. cit. 25 S. Dufrenne, op. cit., pp. 191-192, menziona il Paris bnf, ms. gr. 150, che rende la voce del Padre con una mano che esce dal cielo e sottolinea che si tratta di un’eccezione. «Il mondo medio e tardo bizantino rifiuta l’immagine della nube celeste e della mano divina». 26 E. Mâle, L’art religieux du xii siècle en France. Etude sur les origines de l’iconographie du Moyen Age, Paris 1928, p. 95. 27 Paris bnf, ms. Smith-Lesoüef 21, f. 15v. Tr. fr. A. Vril e M.-Th. Gousset (in collaborazione con C. Rabel), Manuscrits enluminés d’origine italienne, Bibliothèque Nationale, t. 2, xiii secolo, Paris 1984, n. 123. 28 Utrecht, ms 32, f. 83v (inizi del ix sec.); si veda E.T. De Wald, The Illustration of the Utrecht-Psalter, Princeton, s.d., pl. cxxx, 1; S. Dufrenne, Les illustrations du Psautier d’Utrecht. Sources et apport carolingien, Strasbourg 1978, p. 63. 29 Y. Christe, op. cit., p. 102. 30 J. Kalinowska, art. cit. 31 Oltre agli esempi qui citati, si veda anche la Bibbia Moralizzata di London (Londra, British Museum, cod. Harley 1527, f. 31 e 32v; A. De Laborde, La Bible moralisée illustrée conservée à Oxford, Paris et Londres, Paris 1921, t. 4, pl. 502 e 503). 32 E. Vergnolle, L’Art roman en France, Flammarion, Paris 1994, fig. 456, pp. 332334. 35 Y. Christe, op. cit., p. 103. 34 E. Vergnolle, op. cit., pp. 333-334. 35 Mâle pensava a un affresco di TchaouchIn (x secolo) in Cappadocia, che l’artista de La Carità avrebbe potuto conoscere attraverso un disegno o una miniatura; cfr. E. Mâle, op. cit., p. 96. 36 W. Melczer, op. cit., p. 189, dichiara che si tratta di un’iconografia rara, anche se il dettaglio si ritrova sul pannello del portale in bronzo di Pisa. 37 La segnalazione è fatta da Y. Christe, op. cit., p. 103. 38 Paris bnf, ms. lat. 8846, f. 132; tr. fr. A. Vril e M.-Th. Gousset (in collaborazione con C. Rabel), Manuscrits enluminés de la péninsule ibérique, Bibliothèque Nationale, Paris 1982, n. 108 e pl. l. 39 W. Melczer, op. cit., p. 187. 40 R.P. Bergman, The Salerno Ivories. Ars sacra from Medieval Amalfi, p. 26 e pp. 66-67. 41 L’iconografia di questo Battesimo è nettamente antichizzante e richiama un modello molto più antico (Giovanni Battista è in scala più grande rispetto a Cristo). 42 Un altro esempio, pressappoco contemporaneo, di rappresentazione congiunta di un Battesimo e di una Trasfigurazione è il rotolo di Exultet n. 2 di Bari (xi secolo) in cui è rappresentata una Pentecoste subito «dopo» (in ordine di svolgimento del rotolo) la Trasfigurazione 43 Vaticano, Ottob. lat. 79, f. 4v; Vaticana, n. 7, pp. 78-80 (viene precisato che la miniatura della Trasfigurazione è forse stata riportata verso l’anno Mille). 44 Parigi, Biblioteca dell’Arsenale, cod. 1184 (evangeliario del xii secolo); Die Zeit der Staufer, Stuttgart 1977, cat. n. 167, t. i, p. 485 (che segnala l’attribuzione, da parte di A. v. Euw, di questa immagine a Reiner de Huy, il maestro del fonte battesimale in bronzo di San Bartolomeo di Liegi); t. ii, fig. 428. 45 Nel pannello corrispondente del portale di Monreale, opera dello stesso artista, si osserva «una chiara tendenza alla normalizzazione iconografica» (W. Melczer, op. cit., p. 193), nella misura in cui il Cristo della Trasfigurazione, provvisto di un nimbo crucifero, è rappresentato all’interno di una mandorla a punte (W. Melczer, op. cit., fig. 192, fig. 134), e nella misura in cui i profeti sono disposti sullo stesso livello del Cristo. 46 Mosè non è più identificabile dal suo libro. Si può osservare lo stesso gesto dei due profeti nelle miniature ottoniane, Il Salterio di Ingeburge e la Bibbia di Floreffe (si veda infra). 47 W. Melczer, op. cit., p. 193, sembra dire che si tratta di una posizione tipicamente occidentale, ma nel mosaico di Santa Caterina del Sinai Pietro è al centro... 48 Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. lat. 4453 (Cim 58), f. 113r (si veda lci, t. 1, 1968, col. 117); F. Dressler-F. Mütherich-H. Beumann (a cura di), Das Evangeliar Ottos iii. Clm 4453 der Bayerischen Staatsbibliothek München, Frankfurt-MünchenStuttgart 1978. 49 G. Schiller, op. cit., p. 160. 50 W. Melczer, op. cit., p. 188. 51 W. Melczer, op. cit., pp. 188-189. L’anomalia segnalata risale al Salterio di Utrecht, si veda supra. 52 Cfr. E.G. Grimme, Das Evangeliar Kaiser Ottos iii im Domschatz zu Aachen, Fribourg- Bâle-Vienne 1984, pp. 35-36. 53 Wolfenblüttel, Cod. Guelf. 105, nov 2°, f. 21r; E. Klemme, Das Evangeliar Heinrich des Löweni, Frankfurt 1988, pl. 9 e pp. 89ss. Il commentario di questo autore (p. 90) cita, a torto, tra i discepoli Andrea, mentre invece costui non è menzionato da nessuno dei sinottici; la sua scomparsa dal gruppo dei quattro pone, tra l’altro, un problema esegetico. 54 Il Salterio è così chiamato dal nome della principessa Ingeburge di Danimarca, seconda moglie di Filippo Augusto (11801223); Chantilly, Musée Condé, Cod. 9 (1965), f. 20b; F. Deuchler (a cura di), Der Ingeborg Psalter, Berlin 1967, Graz 1985. 55 G. Schiller, op. cit., p. 160, n. 13, osserva che il Mosè dell’affresco di Santa Maria del Giglio a Colonia, considerato una prefigurazione della Trasfigurazione, ha anch’egli un viso d’oro. Per tale motivo i pittori hanno visto nel racconto d’Es 34,29ss., l’annuncio della trasformazione del viso di Cristo. 56 G. Schiller, op. cit., p. 160. 57 London, British Library, ms. Add. 17738, f. 4; W. Cahn, La Bible romane, Paris 1982, n. 46 e p. 197. G. Chapman, The Bible of Floreffe: Redating a Romanesque Manuscript, «Gesta», x/2 (1971), pp. 49-62, ha proposto una data più antica, e cioè il 1139. 58 J.-P. Deremble, Formes typologiques en pays de Rhin et de Meuse à l’époque romane, «Revue du Nord. Histoire et Archéologie», lxxiv (1992), pp. 729-747, parla della «scrittura simultanea della duplice natura del Cristo» a proposito di questa disposizione delle due scene sovrapposte. 59 Questo Trasfigurato seduto è attestato varie volte nella miniatura, per esempio nelle Ore di Giovanni di Navarra, Paris, bnf, nal. 3145, f. 29v, risalente al 1330-1340 circa. Un Evangeliario del xiii secolo (v. 1266; Cambrai, Bibl. municipale, ms. 189) presenta due miniature (f. 35 e 157v) con il Trasfigurato seduto (si veda Y. Zaluska-A. Granboulan, Corpus des Evangiles et Evangéliaires conservés en France, t. 1). 60 W. Melczer, op. cit., p. 187. 61 In nero: Seruat utramque Deus famulis quia servit egenus («Dio conserva luna e l’altra perché ha servito come un povero i suoi servitori»). In rosso: Ut forma tali ubi discant assimilari («Affinché essi imparino ad essere assimilati a una tale forma»). In nero sul lato destro: Se quoque transformat et eorum corda reformat («E si trasforma e riforma i loro cuori»). In rosso: Ut bona mansura cernant. Spernant peritura («Affinché essi vedano le cose buone che restano e disprezzino quelle che passano»). In nero: Partem de celis hanc speret quisque fidelis («E affinché ogni fedele aspiri a questa parte dei cieli»). In rosso: Si sua sit vita factis fidei redimita («Affinché la loro vita sia riscattata dai fatti della fede»); ugualmente la banderuola di Pietro al centro e l’iscrizione latina sotto la Cena: Haec divinorum docet abdita mysteriorum («Qui Egli insegna gli aspetti nascosti – segreti – dei misteri divini»). 62 Y. Christe, op. cit., p. 102, analizza i tre soli esempi che sussistono nella composizione di un portale: Santiago di Compostela, Charlieu e La Charité-sur-Loire. 63 Y. Christe, op. cit., p. 97. 64 L’Ospitalità di Abramo gli serve da prefigurazione nell’Antico Testamento (G. Schiller, op. cit., p. 160). 65 Esempi dati da Y. Christe, op. cit., p. 101. 66 Esempi dati da Y. Christe, op. cit., p. 102. L’autore segnala, tuttavia, per Tolosa e Saint-Nectaire, l’innovazione delle piccole torri quadrate, quei tabernacula che Pietro aveva voluto erigere sul monte Tabor.

67 E. Mâle, Hart religieux du xiii siècle en France, Paris 1986, p. 183, che rinvia a G. Durand, Rationale, vi, cap. 39. 68 Si veda Guillelmus Duranti, Rationale divinorum officiorum (i-vi); A. Avril-T. Thibodeau (a cura di), Brill, Leiden 1995; E. Mâle, Hart religieux du xiii siècle en France, Paris 1986, p. 22, che rinvia a G. Durand, Rationale, iv, capp. 4 e 5 e a Sicardo di Cremona, Mitrale, iii, 2 (pl 213). 69 Y. Christe, op. cit., pp. 102-104. Per questo concetto di «teofania-visione», si veda A. Grabar, Martyrium. Recherches sur le culte des reliques et l’art chrétien antique, t. ii, Paris 1946, pp. 132ss. (cap. 4: «Le immagini delle teofanie nei martyria dei luoghi santi»): «L’apparizione di una divinità, per un tempo limitato e generalmente molto breve, a un solo fedele o a un numero limitato di credenti». 70 Testo citato da B. Smalley, The Gospels and the Schools, c. 1100-c. 1280, London 1985, p. 72; si veda anche M. Zink, La prédication en langue romane avant 1300, «Nouvelle bibliothèque du Moyen Age», 4 (1976), pp. 222ss. e p. 281, n. 50, citato da R. Recht, Sculpture gothique et «théâtre de la mémoire», «Critique», marzo 1996. pp. 188-206. 71 J. Huizinga, Le déclin du Moyen Age, Payot, Paris, p. 159 (tr. it. Autunno del Medioevo, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1995). 72 A. Dupront, Du Sacré, Gallimard, Paris 1987, p. 140 (tr. it. Il sacro: crociate e pellegrinaggi, linguaggi e immagini, Bollati Boringhieri, Torino 1993); si veda anche W. Weber, op. cit., n. 2, pp. 82-88. 73 Si veda lo studio di J. Kalinowska, già citato. 74 J. Pope-Hennessy, Angelico, Firenze 1986, p. 38. L’autore pensa che (p. 30) il disegno e l’esecuzione di questo affresco, «il più magnifico», siano di Fra Angelico. 75 A. Hertz, Fra Angelico, Cerf, Paris 1984, p. 111. 76 Basilea, Kunsthistoriches Museum (Koch, 70); si veda M. Bernhard, Hans Baldung Grien, Handzeichnungen, Druckgraphik, München 1978, p. 120. 77 115 x 151, 5 cm; Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte. T. Pignatti, Tout l’oeuvre de Giovanni Bellini, Paris 1975, n. 100. 78 Venezia, Museo Correr, 134 x 88 cm; cfr. T. Pignatti, op. cit., n. 15; G. Schiller, op. cit., p. 161, rileva che «Giovanni Bellini ha abbandonato i raggi emananti dal Cristo e ha posto le tre figure davanti a un cielo chiaro. La nuvola chiara in forma di schiuma, che discende ad arco quasi piatto, ha lo stesso significato, nel simbolismo medievale, della mano di Dio o delle forme astratte di nuvole o di luce». 79E. Mâle, La Transfiguration de Raphael, «Atti Pont. Ac.», 33 (1960-61), pp. 225236; H. von Einem, Die ‘Verklärung Christi’ und die ‘Heilung des Besessenen’ von Raffael, Mayen- ce/Wiesbaden 1966. P. De Vecchi, Tout l’oeuvre peint de Raphaël, Paris, n. 153. L’autore dice che «gli attori della scena inferiore sono tesi verso la mandorla celeste» (sic). 80 Città di Castello, v. 1530; lci, col. 420. 81 Nancy, v. 1604; Chiesa del Gesù, Roma, v. 1600. 82 R. Marini, Tout l’oeuvre peint de Veronese, Paris 1970, n. 28. Si veda T. Pignatti-F. Perdrocco, Véronèse. Catalogue complet, Paris 1992, n. 32. 85 R. Marini, op. cit., n. 191. 84 Inv. n. 976. Cfr. S. Moschini Marconi, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Opere d’arte del secolo xvi, Venezia 1962, n. 138; alle pp. 85-86 l’autore segnala l’attribuzione errata a Veronese e propone Paolo Caliari; cfr. T. Pignatti-F. Perdrocco, op. cit., p. 335, n. 77 A («attribuibile a Benedetto»), 85 Si veda A. Pigler, Barockthemen. Eine Auswahl von Verzeichnissen zur Ikonographie des 17. und 18. Jahrhunderts, Budapest 1956.

VI. LA LUCE E L’ILLUMINAZIONE DELLE CHIESE DAL ROMANICO AL BAROCCO 1 P. de Clerk, L’intelligence de la liturgie, Paris 1995, p. 56. 2 A. Erlande-Brandenburg, Quand les cathédrales étaient peintes, Paris 1993. 3 P. Soulages, Le noir et la lumière, c’est tout un. Le noir c’est la couleur extrême. Il fait exister la lumière, in «La Croix», maggio 1996. 4 Sugero, Libellus de consecratione ecclesiae Sanctii Dionysii, 1144-1145. 5 G. de Bure, Retour au sacré, in «Beaux Arts» 144, aprile 1996, pp. 83-89.

VII. L'ALONE LUMINOSO: LA VISIONE E L’ESTASI 1 Fu lui stesso a confidare al suo primo biografo questa rivelazione. Vedere Acta Sanct., iul., t. vii, p. 675 e Analect. bolland., t. xxvii. p. 396. 2 Acta Sanct., loc. cit.; p. 676. 3 Ibid., p. 596. 4 Questa finestra si apre ora sopra un cortile, 5 Acta Sanct., maii, t. vi, pp. 523 524. 6 Ibid., p. 585. 7 Ibid., p. 584. 8 Si veda negli Acta Sanct., oct., t. vii, p. 445, l’elenco e la data delle traduzioni latine, francesi, italiane, fiamminghe, tedesche, inglesi, polacche delle opere di santa Teresa. 9 Castello Interiore, sesta dimora, cap. ix. 10 Nella sua Vita, scritta da lei stessa, cap.

xx. 11 Acta Sanct., maii, t. vi, pp. 196, 197 e 212. 12 Ibid., p. 236. 13 Ibid., p. 226. 14 Ibid., p. 236. 15 Ibid., p. 282. 16 Acta Sanct., sept., t. x, p. 1021. Una di queste estasi convertì al cattolicesimo un principe tedesco, che ne era stato testimone. 17 Al museo di Siviglia. 18 Si veda sull’argomento l’Imago primi saeculi, p. 73ss. Vi si dice che scrisse dictante Maria. Vedere anche Astrain, Historia de la Compania de Jesus, t. i. pp. 160-161, n. 6 e Ch. Clair, La Vie de Saint Ignace de Loyola, 1891, p. 70. 19 Il quadro è stato riprodotto in incisione da Bolswert, Parigi, Est. Ce 39 e Ec 66. 20 Il quadro è stato reso in incisione. Mignard lo eseguì su richiesta di p. Valois, vedere Piganiol de la Force, Description de Paris, 1765, t. vii, p. 302. 21 La tradizione dell’ordine collocava questa visione sulla via Cassia, nella chiesa della Storta, ultima tappa dei pellegrini prima di giungere a Roma. 22 Acta Sanct., iul., t. vii, p. 694. 23 Il dipinto è stato tradotto in incisione da Cornelis Bloemaert, Parigi, Est. Ec 40 b, f° 42. 24 Seconda cappella a sinistra. 25 La statua di san Pietro a Roma, opera di Rusconi, fu incisa da Frey. 26 Acta Sana, maii, t. vi, p. 548: «Qua re Patres permoti, eum deinde Philippi imago publicae venerationi exponenda esset, Deiparam ipsam illi omnimodis adjungendam curaverunt». 27 Il quadro è una copia dell’originale di Carlo Maratta, che si trova oggi a Palazzo Pitti, Firenze. 28 Pare proprio che Guido Reni nel suo quadro della Chiesa Nuova, abbia in un primo tempo rappresentato il santo solo, in estasi, e che in un secondo tempo abbia aggiunto la Vergine con il Bambino e gli angeli. È infatti strano che il santo pare non guardi la Vergine, ma il cielo. Questa aggiunta gli fu forse richiesta dai Padri dell’oratorio, dopo la canonizzazione, quando l’immagine di san Filippo Neri venne definitivamente fissata. 29 Questa immagine di san Filippo si ritrova ovunque. Conca la dipinse per l’Oratorio di Torino (incisa da Frey, Parigi, Est. Bc 13); Pedro de Mena la scolpì per gli stalli di Malaga. 30 Seconda cappella, a sinistra. 31 Acta Sanct., oct., t. vii, p. 188. 32 I quadri dedicati a santa Teresa non possono essere anteriori al 1610, data della sua beatificazione. La maggior parte è posteriore alla sua canonizzazione, vale a dire al 1622. 33 Malvasia, Felsina pittrice, t. ii, p. 199. 34 Guillet de Saint-Georges, Mém. inéd., t. i, p. 337. La stampa è di Boulanger, Roma, St. 37 H. 5, e Parigi, Est. Da 42, f. 58 e Ed 33. 35 Vita, Cap. xxix. 36 n° 243 Sappiamo che J.-B. de Champagne aveva dipinto a Versailles una santa Teresa per la cappella della regina (Mém. inéd., t. i. p. 348). Maria Teresa fece ripetere molte volte le immagini della sua patrona. 37 Lo stesso soggetto a Roma: affresco della cappella di santa Teresa a Santa Maria Traspontina. 38 Acta Sanct., oct., t. vii, p. 418. 39 Acta Sanct., oct., t. vii, p. 239. 40 Parigi, Est. Da 48. Ho ritrovato questo quadro a Saint Pierre-le-Puellier a Orléans. 41 Acta Sanct., loc. cit., p. 23942 Acta Sanct., loc. cit., p. 171. 43 Essa non dovette mai lottare contro le tentazioni e quando le sue religiose, ci informa il processo di canonizzazione, le raccontavano le loro, essa le rimandava al loro confessore, a causa della sua ignoranza in materia. 44 A Roma, a San Francesco a Ripa. 45 Acta Sanct., oct., t. vii. pp. 429-430. 46 Si veda negli Acta Sanct., loc. cit., p. 468, la dissertazione dei Bollandisti intitolata: Sancta Teresia inter doctores Ecclesiae universalis locari non potest. 47 Vita, cap. xxxviii. 48 Il dipinto del Velázquez e quello di Zurbaran si trovano nella raccolta di Casa Torres. 49 Statua a San Matias a Granada. 50 Quadro d’altare di santa Teresa, nella chiesa di Santa Maria della Scala, a Roma. 51 Il quadro del Le Brun è stato reso in incisione da Mariette. Questo quadro, eseguito per i Carmelitani del Faubourg Saint Jacques, si trova presso i Carmelitani della avenue de Saxe, a Parigi. 52 Inciso da Van Schuppen, Parigi, Est. Ec 76. 53 Acta Sanct., oct., t. vii. p. 469. 54 Acta Sanct., maii, t. vi. p. 194. 55 Ibid., p. 221. 56 Bassorilievo del coro, Acta Sanct., loc. cit., p. 195. 57 Bassorilievo del coro e quadro della navata., Ibid., p. 197. 58 Bassorilievo del coro. A San Giovanni dei Fiorentini, a Roma, dove numerose cappelle sono dedicate ai santi fiorentini, un quadro rappresenta Maria Maddalena de’ Pazzi, che riceve il velo dalle mani della Vergine. 59 Quadro della navata. 60 F. Andrea Mastelloni, carmelitano, La Prima chiesa dedicata a santa Maria Maddalena de’ Pazzi, Napoli, 1675. 61 Una serie di stampe di Diepenbeeck, incise da Lammelin, racconta tutta la vita di estasi di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, Parigi, Est. Rd 89. 62 Il quadro, opera del fiorentino Vincenzo Meticci, è del xviii secolo. 63 Acta Sanct., sept., t. v, p. 1021. 64 Una stampa di Bolzoni di Ferrara rappresenta ugualmente il beato Giuseppe da Copertino che vola verso la croce, Roma St. 31 H. 41. Un quadro di Nicola Lapiccola (1750 circa) rappresenta un altro mistico, il beato Martin de Porrès, che vola anch’egli verso la croce; è stato reso in incisione, Roma, St. 35 H. 11. 65 Il quadro, d’autore sconosciuto, sembra essere del xviii secolo. 66 Bernard Castle, Bowes museum. 67 Annales Minorum, t. ii, p. 85. 68 Al museo di Dresda. 69 Terza cappella a sinistra; l’opera è di Pietro Papaleo. 70 Accanto all’altare di santa Teresa. 71 Eppure possiamo ancora vedere nella chiesa del Gesù la predicazione agli uccelli, nella cappella di san Francesco; vi si vede anche, fatto curioso, l’episodio del lupo di Gubbio (fine del xvi secolo). Pietro Ricchi (1606-1675), pittore di Lucca, aveva anche lui rappresentato nel convento dei Francescani di Lucca san Francesco e il lupo di Gubbio. Baldinucci, Milano, 1812, t. xiii. p. 24. 72 Un quadro di Ribera, al museo del Prado, rappresenta questo soggetto. 73 P. 472. 74 Non saprei dire dove siano oggi. Il quadro del Guercino è stato tradotto in incisione da Pasqualino nel 1630, Parigi, Est. Bd 34, e da Bartolozzi. Il quadro di Lorenzo Lippi (1606-1664) ci è stato segnalato da Baldinucci, t. xiii, p. 270. Un dipinto anonimo rappresenta lo stesso soggetto nella sagrestia di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi. 75 Acta Sanct., oct., t. n. p. 756 e Wadding, Annal., Minor., t. ii, p. 110 (2a ed.). 76 Historiarum seraphicae religionis liber, a Pedro Radulphio Tossinianensi conv. Franc., Venezia, 1586. p. 21 v°. 77 Roma, St. 34 H. 6. Vanni ha rappresentato san Francesco con gli occhi riversi, quasi svenuto. 78 Inciso da Pozzi, Roma, St. 43 H. 79 Inciso da Pasqualino, Parigi. Est. Bd 34. 80 Dipinto di Filippo Lippi. 81 Il quadro di Murillo si trova all’Accademia di San Fernando a Madrid. 82 Wadding, Annal. Minor., t. ii, pp. 101 e 110, colloca la scena delle stigmate nel 1221 e l’apparizione dell’angelo musicante nel 1225. San Francesco è morto nel 1226; anche nel quadro di Morazzone a Palazzo Bianco a Genova, che rappresenta lo stesso soggetto, si vedono le piaghe. 83 Nel quadro di Luca Giordano presso i Cappuccini di Madrid, san Francesco mentre ascolta l’angelo musicante ha già le stigmate. 84 Wadding, t. i. p. 237. 85 Inciso da Giovanni Maria Viani, Roma, St. 46 H. 25. 86 Al museo dell’Ermitage. 87 Wadding, t. ii, p. 94. 88 Ibid., pp. 94-95. 89 Opera di Bartolomeo da Pisa, 1399. 90 Naturae prodigium, hoc est sanctii Francisci vita, a Pedro de Alva, Madrid, 1651. 91 I bollandisti hanno riunito tutti i testi: Acta Sanct., oct., t. ii, p. 648ss. San Bonaventura in particolare dice: «Disparens igitur visio mirabilem in corde ipsius reliquie ardorem, sed in carne non minus mirabilem signorum impressit effigiem. Statim namque in manibus ejus et pedibus apparere coeperunt signa clavorum...», p. 650. 92 Wadding, t. ii, p. 87. 93 Al museo Wallraf Richartz, a Colonia. 94 È del Boulanger, Parigi, Est. Da 40. 95 Il quadro ha partecipato dall’esposizione francescana di Madrid nel 1927. 96 P. de Alva, op. cit., p. cxliv. 97 A santa Chiara san Francesco riceve le stigmate attraverso una croce. Degli angeli nel cielo disturbano la maestà della solitudine. 98 Si veda Aug. L. Mayer, Domenico Theotocopouli el Greco, 1926, catal. n° 235. 99 Trevisani ha ripetuto il dipinto; lo vediamo a Modena, Cronache d’arte, t. i, p. 249. Queste raffigurazioni sono state moltiplicate dalle numerose confraternite delle stigmate di san Francesco che sorsero a partire dalla fine del xvi secolo. La più antica è quella di Firenze, datata 1590. Studi francescani, 1924. 100 Un’incisione di Chérubin Albertin datata 1599 ci mostra questa nuova formula, Roma, St. 34 H. 1. Esistono certamente esempi anteriori. 101 Frate Leone, in contrasto con i biografi del santo, è rappresentato mentre contempla il miracolo. È questa una libertà che gli artisti si erano presa ripetute volte dopo il xiv secolo. Ma essa non spiacque ai Francescani, poiché frate Leone appariva in veste di testimonio, ed essi l’ammisero sempre. 102 Acta Sanct., oct., t. ii, p. 650. San Bonaventura dice; «Manus etiam et pedes in ipso medio clavis confixi videbantur... Erantque clavorum capita in manibus et pedibus rotunda et nigra». 103 A Genova, a Palazzo Bianco, un dipinto anonimo del xvii secolo rappresenta san Francesco con le capocchie dei chiodi nelle mani. 104 A Santa Maria della Mercede. 105 Alla pinacoteca, quadro di Francesco Gessi. 106 Alla pinacoteca, quadro del Piazzetta. 107 Acta Sanct., iun., t. ii, p. 705 e Wadding, Annal. Minor., t. ii. p. 261. 108 Si veda C. de Mandach, Saint Antoine de Padoue dans l’art italien, Parigi, 1899. 109 Si trovano ancora, come diremo più innanzi, uno o due miracoli di sant’Antonio. 110 Il bel quadro del Vaccaro (1598-1670) al museo di Napoli rappresenta il Bambino, assiso sopra una nuvola, che scende da solo nella cella di sant’Antonio. 111 Roma, St. 46 H. 21. 112 Un quadro di Ciro Ferri è concepito come quello di Murillo, Roma, St. 44 H. 3. 113 È stato Roberto Longhi ad attribuire questo quadro al Caravaggio, L’Arte, 1913, p. 161ss.

114 Museo di Berlino. Bisogna ricordare il bel sant’Antonio di Padova che regge il Bambino in braccio scolpito da Pedro de Mena negli stalli di Malaga. 115 Statua di san Francesco a Ripa, a sinistra dell’altare. 116 Wadding, t.i, p. 180. 117 Quest’opera, che è stata fatta conoscere dall’esposizione dei maestri italiani del xvii secolo a Firenze nel 1922, si trova a Fabriano presso la famiglia Agabiti-Rosei. 118 Santa Maria della Concezione, seconda cappella a sinistra. 119 Acta Sanct., maii, t. iv. p. 237. 120 Turchi di Verona, detto l’Orbetto, morì nel 1648. 121 Il tema fu svolto un poco dappertutto alla stessa maniera, come dimostra il san Felice da Cantalice dei Cappuccini di Tolosa, oggi nel museo della città. È opera di un italiano itinerante, Antonio Verrio (16361707). La Vergine guarda teneramente il vecchio cappuccino che culla il Bambino fra le sue braccia. 122 Franceschini, galleria Davia-Bargellini, a Bologna; quadro della scuola del Guercino, al museo di Angers. 123 Dipinto di F. Vanni, inciso da Thomassin, Parigi, Est. Ba 17 d; incantevole disegno del Guercino, Parigi, Est. Bd 33; dipinto di Zoboli, galleria Corsini a Roma. 124 Quadro di Lazzaro Baldi alla Minerva a Roma; pannello delle tarsie del coro della chiesa domenicana di San Massimino (Var). 125 Quadro di Carlo Roncalli, tradotto in incisione, Roma, St. 36 H. 13. 126 Chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, a Firenze, quadro di Luca Giordano. 127 Statua all’ingresso della cappella del presepio a Santa Maria Maggiore; quadro nel braccio sinistro del transetto a Sant’Andrea della Valle; bella incisione di Claude Mellan. Parigi, Est. Ed 32. 128 Quadro di Lazzaro Baldi, inciso da Farjat, Parigi. Est. Ba 17c. 129 Disegno di Diepenbeeck, inciso da Corn. Galle, Parigi, Est. Bd 12. 130 Quadro di Gerard Seghers per la chiesa dei Gesuiti di Anversa, inciso da Pontius, Parigi, Est. Cc 39. 131 Quadro della sacrestia di San Giovanni a Porta Latina, a Roma; quadro di C. Maratta a Sant’Andrea al Quirinale, tradotto in incisione da Dorigny, Parigi, Est. Bb 19. 132 Acta Sanct., apr., t. iii, p. 907. 133 Sull’altare stesso della cappella di Santa Sabina, un quadro del Mainardi rappresentava il Bambino Gesù che poneva la corona di spine sulla fronte di santa Caterina. A Siena, nell’abitazione di santa Caterina, Gesù presenta alla santa le due corone. La si vede salire al cielo con la corona di spine in un bassorilievo della chiesa di Santa Caterina da Siena, in via Magnanapoli, a Roma. Il bel dipinto del Tiepolo ai Gesuati di Venezia rappresenta santa Caterina con la corona di spine (fig. 189). 134 Acta Sanct, apr., t. iii, p. 907. 135 Ibid., p. 914. 136 Acta Sanct., iun., t. iv, p. 193. 137 Acta Sanct., maii, t. vi, p. 230. 138 Acta Sanct., iun., t. iv, p. 579 e 626. 139 A Roma, vediamo Gesù dare il suo cuore a santa Luidgarda, in San Salvatore in lauro. Lo dà a santa Caterina da Siena in una cappella di Santa Prudenziana; la santa è sostenuta da un angelo. A Siena, nella casa di santa Caterina, Francesco Vanni ha ritratto la stessa scena. 140 Acta Sanct., apr., t. iii, p. 910. 141 G. Lopez, Quinta parte dell’istoria di san Domenico (trad. it.) 1652. p. 40. 142 Citiamo ancora il dipinto di Tiarini alla pinacoteca di Bologna. Il famoso affresco del Sodoma, a San Domenico di Siena, rappresenta, credo, la più antica scena di svenimento di santa Caterina; ma la santa non viene ancora sostenuta dagli angeli. 143 Acta Sanct. loc. cit., p. 891. 144 Uno dei due quadri si trova nella sacrestia, è del xvii secolo; l’altro sta sull’altare, è del xviii secolo. 145 Conferenza di Louis de Boullogne sullo sposalizio mistico di santa Caterina, Mém. inéd., t. i. p. 206. 146 Santa Rosa da Lima, santa Caterina de’ Ricci, il beato Joseph Herman, premostratense. Van Dyck raffigurò il fidanzamento della Vergine e del beato Herman per la casa professa dei Gesuiti di Anversa. Il quadro si trova in Austria, al museo di Vienna. È stato riprodotto in incisione da Paolo Pontius, Roma, St. 40 H. 31. 147 Sulpice-Sévère, Dialog., ii. 13. Fino a questi ultimi anni il catalogo del Louvre menzionava quest’opera sotto il titolo di L’apparition de sainte Scolastique à saint Benoit. M. Jamot le ha reso il suo vero titolo, che è La vision de saint Martin. 148 Sulpice-Sévère, Dialog., i. ii. Il testo dice: tre monaci. 149 «Venit dies in quo thalamus collacatus est, et, cantantibus organis, illa cordi suo soli Domino decantabat», Mombritius, t. i, p. 188. 150 Pinacoteca di Bologna. 151 Si vorrebbe che il colore avesse la stessa qualità del disegno. 152 Museo di Berlino. 153 Museo del Louvre. 154 Si trovano altre sfumature. A Roma, alla galleria Corsini, Orazio Gentileschi ha rappresentato santa Cecilia che suona la chitarra e alza gli occhi verso un angelo, che pare le insegni le leggi di una musica superiore. 155 Stengelius, Sanctae Mariae Magdalenae vitae histor., 1622. In visione di frate Elia che vi compare era già stata pubblicata da Surius, t. iv, p. 302. 156 Claude Cortez, Vie de Marie Madeleine, Aix, 16433 . 157 Al museo dell’Ermitage (verso il 1616). Gli angeli reggono la disciplina di Maria Maddalena e il vaso degli aromi, perché la si confonda con la Vergine. 158 Citiamo l’incisione di Schiaminosso (primi anni del xvii secolo). Maddalena viene portata in cielo vestita soltanto dei suoi lunghi capelli. 159 Parigi, Est. Da 8 e Roma, St. 48 11. 20. 160 La eseguì a Roma e la dedicò a Peirese, Parigi Est. Ed 32 e Roma St. 37 H. 4. 161 Al museo di Lilla. 162 ii Cor., xi, 24-28. 163 ii Cor., xii, 2-4. 164 La spada di san Paolo, che all’origine ricordava il suo supplizio, era diventata anche simbolo della sua eloquenza. 165 Luigi Serra, Il Domenichino, p. 14. Il quadro è oggi al Louvre. 166 Nella sagrestia. 167 Al museo di Berlino. 168 San Gaetano e san Sebastiano sono di Domenico Guidi; sant’Andrea Apostolo e sant’Andrea d’Avellino sono di Ercole Ferrata. 169 Vecchia pinacoteca di Monaco. 170 Louvre e galleria Liechtenstein a Vienna. 171 Genova, Palazzo Rosso, e Roma, Palazzo dei Conservatori al Campidoglio. 172 Ermitage. 173 Museo degli Uffizi, Firenze. 174 Baldinucci, op. cit., t. x, p. 338. 175 Museo degli Uffizi a Firenze. 176 La cupola dipinta da Lanfranco è crollata. 177 Harmonies, ii. 178 Citiamo anche, a San Clemente di Roma, l’apoteosi di san Clemente trasportato in cielo con l’ancora del suo martirio; a Santa Teresa dell’orto, l’Assunzione della Vergine ad opera di Calandrucci; a San Giovanni Calibito, la salita di san Giovanni di Dio in cielo di Corrado Giaquinto, e così via. 179 A Santa Cecilia in Trastevere, santa Cecilia incoronata di Conca; a Santa Maria in Trastevere, l’Assunta del Domenichino. 180 Nella cappella Avila, in Santa Maria in Trastevere, lo stesso Gherardi innalzò una cupola la cui lanterna sembra trasportata in cielo dagli angeli. 181 È espressione di cui si serve l’abate Bremond nella sua bella Histoire du sentiment religieux. 182 L’estasi di san Bruno di Mola è al museo del Louvre; il quadro di Jouvenet è al museo di Lione. 183 Nel museo di Aix-en Provence. 184 Al Louvre.

BIBLIOGRAFIA DI ORIENTAMENTO GENERALE

La presente bibliografia è stata raccolta da Thomas P. Osborne ed è tratta dalle seguenti opere: - Dictionnaire de la Bible, Brépols, Paris 1987 (art. Lumière). - Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament (voll. 9 e 10/2), Kohlhammer, Stuttgart 1938. - Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament, Kohlhammer, Stuttgart, Berlin, Köln, 1973. - Exegetisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Kohlhammer Verlag, Stuttgart 1992.

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Il testo di J. Ries è tratto dal volume Simbolo. Le costanti del sacro © 2008-2020 Jaca Book Srl, Milano tutti i diritti riservati

I testi di C. Cannuyer, M. Delahoutre, P. Somville e Fr. Bœspflug sono tratti da Symbolisme et expérience de la Lumière dans les grandes religions Atti del colloquio internazionale del Lussemburgo, 29-31 marzo 1996

Il testo di Émile Mâle è tratto da L’arte religiosa nel ’600 © 1984 Jaca Book Spa, Milano tutti i diritti riservati

I testi di Giuseppe Panza sono tratti da Ricordi di un collezionista © 2020 Jaca Book Srl, Milano tutti i diritti riservati; L’umana Avventura Anno 1, numero 2, settembre 1986 © 1986 Jaca Book Spa, Milano

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Traduzione di Alberta Paramico Schuler © 1997 Editoriale Jaca Book SpA Prima edizione novembre 1997

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Stampa e legatura Tipolitografia Pagani Srl Passirano (BS) ottobre 2021

ISBN 978-88-16-60663-0

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