Gente di Caposele

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PREFAZIONE di Alfonso Merola

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l periodico LA SORGENTE, nel corso della sua quarantennale (o forse più) pubblicazione si è imbattuto, sarebbe meglio dire ha intercettato le biografie di alcuni cittadini che per una ragione od un’altra sono stati ricordati. Sia nel caso in cui si sia trattato di vere e proprie “commemorazioni” in occasione di tristi eventi, sia che fossero delle occasioni celebrative, queste storie, a rileggerle oggi, dopo che il Tempo ha aggiunto del suo, ci sembrano un’ottima base di storia sociale locale. Chi ha curato la pubblicazione dei vari testi volutamente li ha catalogati secondo l’ordine di apparizione sul periodico caposelese per due motivi. Innanzitutto ha evitato di gerarchizzare i vari “soggetti “, come a dire che è stato il tempo e solo il tempo nella sua casualità a determinare la successione delle cose. In secondo luogo il rigido ordine cronologico, rispettando la successione degli eventi, agevola una lettura storica dei materiali che si offrono come uno spaccato della società caposelese durante il cosiddetto Secolo Breve. In fondo, e lo si capisce facilmente, questa ultima fatica di Nicola Conforti e dei suoi collaboratori sottintende il fine ultimo che resta sempre e comunque quello di “celebrare Caposele”. C’è, quindi, una storia che si cela nelle numerose microstorie riportate, utile a capire chi siamo veramente. Noi possiamo anche vantare presunte origini remote della nostra comunità, ma una cosa è certa: su di noi pesano soprattutto le scelte e gli errori, le buone abitudini ed i pessimi comportamenti ereditati dall’ultimo secolo. Il lettore che avrà la pazienza di sfogliare questo volume, noterà che mancheranno all’appello i ricordi di alcuni caposelesi che pure hanno dato lustro a Caposele. Questo non è dovuto alla malevola intenzione di chi ha curato il volume, ma solo al fatto che LA SORGENTE per le solite contingenze di paese non sempre ha potuto ospitare articoli che riguardassero tutti. Ricordando che il giornale caposelese non ha mai chiuso la porta a nessuno, è evidente che la mancanza è di chi non ha inteso bussare alla porta. In ogni caso è interessante notare come un’emozione alquanto datata conservi una vividezza nella descrizione di persone a tanti care. Si potrebbe dire che la retorica è sempre in agguato, ma come nelle etopee greche, descrivere il carattere e le qualità morali di qualcuno implica un rischio. Ed in questo caso è valsa la pena di correre questo rischio. Gente di Caposele

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Gente di Caposele AMMINISTRATORI COMUNALI DAL 1889 AD OGGI Si riporta in ordine di successione tutti coloro che hanno avuto l’onore e l’onere di guidare la vita amministrativa di questo comune a partire dal 1889, con le rispettive date di nomina: 1. 2.

15/02/1889 – Pizza Antonio (per tre anni) 14/12/1903 – Dott. Vincenzo Nisivoccia (dimessosi per emigrazione all’estero il 19/11/1903

3. 4. 5. 6. 7. 8. 9 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20.

14/12/4903 – Giuseppe Corona fu Federico 27/02/1905 – Dott. Lorenzo Corona fu Federico 08/05/1909 – Dott. Nicola Mattei Commissario Prefettizio 03/12/1909 – Sig. Raffaele De Rogatis fu Giuseppe 24/08/1911 – Giovanni Chierici Commissario Prefettizio 21/09/2011 – Dott. Lorenzo Corona fu Federico 07/07/1914 – Sig. Raffaele De Rogatis fu Giuseppe 20/11/1920 – Sig. De Rogatis Raffaele fu Giuseppe 25/03/1923 – Giovanni Baldassarre Commissario Prefettizio 15/03/1924 – Avv. Orazio Petrucci 16/07/1926 – Lorenzo Corona di Giuseppantonio – Podestà 09/08/1929 – Avv. Luigi Cozzarelli – Commissario Prefettizio 20/09/1929 – Dott. Vincenzo Nisivoccia – Podestà 07/02/1930 – Maggiore Nicola Piemonte – Commissario Pref. 08/06/1930 – Dott. Donato Nisivoccia – Podestà 12/08/1934 – Dott. Ferdinando Palladino – Podestà 15/10/1938 – Sig. Giuseppe Di Masi – Podestà 26/03/1939 – Dott. Paolo Maddalena – Commissario Prefettizio 14/10/1939 – Sig. Nicola Farina fu Michele – Commissario Pref. 24/02/1940 – Nicola Farina fu Michele – Podestà

Agli atti del Comune : 21/05/44 1. Geom. Pasquale Ilaria Sindaco 2. Benincasa Giovanni 3. Freda Angelo 4. Farina Gerardo fu Incoronato 5. Casale Gerardo 6. Malanga Salvatore di Gerardo 7. Gonnella Angelomaria Dal 22/09/45 /data trovata agli atti) 1. Dott. Amerigo Del Tufo Commissario Prefettizio

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Anno 1946 1. Dott. Amerigo Del Tufo – Sindaco 2. Russomanno Vincenzo 3. Farina Pasquale 4. Nisivoccia Rocco 5. Caruso Gerardo 6. Malanga Alfonso 7. Russomanno Angelo Dall’11/03/1951 (data trovata agli atti del Comune) 1. Vincenzo Russomanno fu Amato - Sindaco Elezioni del 26/05/1952 1. Avv. Michele Farina Sindaco 2. Del Guercio Gerardo 3. Curcio Donato 4. Sturchio Armando 5. Manganese Balduino 6. Russomanno Rocco 7. Cetrulo Pietro Elezioni del 27/05/1956 1. Avv. Michele Farina Sindaco 2. Russomanno Rocco 3. Merola Raffaele 4. Freda Tommaso 5. Mazzariello Donato 6. Russomanno Gerardo 7. Malanga Gerardo Decr. N. 8678/29 del 06/09/1957 1. Rag. Severino Freda – Commissario Elezioni del 06/11/1960 1. Ins. Donato D’Auria – Sindaco 2. Russomanno Eugenio 3. Malanga Antonio Gerardo 4. Iannuzzi Raffaele 5. Russomanno Vincenzo fu Rocco 6. Manente Pasquale 7. Malanga Francesco fu Gerardo Gente di Caposele

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Gente di Caposele Elezioni del 22/11/1964 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Francesco Caprio – Sindaco D’Auria ins. Donato Del Guercio Gerardo Sturchio Armando Malanga Francesco fu Gerardo Corona dott. Enrico

Elezioni del 07/06/1970 1. Francesco Caprio – Sindaco 2. Mazzariello Donato 3. Casillo Gennaro 4. Curcio Giuseppe 5. Caprio geom. Salvatore 6. Casale Alfonso 7. Testa Nicola Elezioni del 15/06/1975 1. Francesco Caprio - Sindaco fino al 20/01/79 2. Mazzariello Donato 3. Casillo Gennaro 4. Curcio Giuseppe 5. Merola ins. Alfonso 6. Iannuzzi Rocco 7. Testa Nicola Dal 20/01/79 Donato Mazzariello in sostituzione del Sindaco Caprio deceduto Seduta del 10/02/1979 1. Avv. Ferdinando Cozzarelli - Sindaco 2. Mazzariello Donato 3. Casillo Gennaro 4. Curcio Giuseppe 5. Merola Alfonso 6. Iannuzzi Rocco 7. Testa Nicola Elezioni dell’8 e 9 giugno 1980 1. Avv. Antonio Corona – Sindaco 2. Cione Rocco

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Gente di Caposele 3. 4. 5. 6. 7.

Ceres Michele Casale ing. Luigi Fabio Giovanni Battista Caruso Raffaele Sozio Gerardo

Elezioni del 12 e 13 giugno 1985 1. Ins. Alfonso Merola – Sindaco 2. Mazzarielo Donato 3. Testa Giuseppe 4. Casillo Gennaro fu Salvatore 5. Cetrulo Gerardo 6. Cirillo Gerardo 7. Raffaele ing. Monteverde Elezioni del 6 e 7 Maggio 1990 1. Ins. Alfonso Merola - Sindaco 2. Casillo Gennaro fu Salvatore 3. Cirillo Gerardo 4. Grasso avv. Giuseppe 5. Mattia Ferdinando 6. Mazzariello Donato 7. Testa Giuseppe Dal 10/11/92 al 22/06/93 (in sostituzione di Merola autosospeso) 1. Agostino Montanari - Sindaco 2. Pirozzi cav. Antimo Assessore esterno 3. Russomanno dott. Salvatore 4. Mazzariello Donato 5. Guarino Luigi 6. Mattia Ferdinando 7. Testa Giuseppe Delibera C.C. n. 40/1993 all’ 01/07/94 1. Ins. Alfonso Merola Sindaco 2. Russomanno dott. Salvatore 3. Mazzariello Donato 4. Guarino Luigi 5. Mattia Ferdinando 6. Ciccone Pietro 7. Testa Giuseppe

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Gente di Caposele Dal 2/07/94 al 23/04/95 1. Ins. Alfonso Merola Sindaco 2. Castello prof.ssa Teresa Assessore esterno 3. Russomanno prof. Rocco Assessore esterno 4. Russomanno dott. Salvatore 5. Guarino Luigi 6. Mattia Ferdinando 7. Testa Giuseppe Dal 24/04/95 al 13/06/99 1. Avv. Antonio Corona Sindaco 2. Melillo dott. Giuseppe 3. Chiaravallo avv. Antonio 4. Russomanno prof.ssa M. Rosaria 5. Russomanno Lorenzo 6. Vetromile Emidio 7. Donato Merola Dal 14/06/99 al 12/06/2004 1. Dott. Giuseppe Melillo Sindaco 2. Monteverde ing. Gerardo 3. Notaro dott. Michele 4. Grasso avv. Giuseppe 5. Russomanno prof.ssa M. Rosaria Dal 13/06/2004 al 09/10/2006 1. Dott. Giuseppe Melillo Sindaco 2. Monteverde ing. Gerardo 3. Zanca Vincenzo 4. Notaro dott. Michele 5. Russomanno prof. Rocco 6. Malanga geom. Vito 7. Merola Rocco Dal 21/10/06 a maggio 2007 1. Ing.Gerardo Monteverde Sindaco (in sostituzione di Melillo deceduto) 2. Zanca Vincenzo 3. Malanga geom. Vito 4. Russomanno Rocco 53 5. Russomanno Rocco 47 6. Merola Rocco

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Gente di Caposele Da Maggio 2007 a Giugno 2008 Dr. Amabile e dr. La Montagna Commissario Prefettizio Elezioni del 12 e 13 Maggio 2008 1. Dott. Pasquale Farina Sindaco 2. Rosania Alfonsina 3. Malanga geom. Vito 4. Pallante dott. Alfonso 5. Conforti arch. Salvatore 6. Ceres avv. Angelo 7. Russomanno dott. Salvatore (in sostituz. di Giannino Ciccone) Elezioni del maggio 2013 1. Dott. Pasquale Farina Sindaco (tuttora in carica) 2. Cifrodelli Donato 3. Conforti arch. Salvatore / Americo Malanga 4. Malanga geom. Vito / Katia Rosania ass. esterno 5. Russomanno dott. Salvatore 6. Cetrulo Pietro CONSIGLIERI PROVINCIALI Eletti nel Collegio Caposele – Bagnoli – Calabritto - Senerchia

Anno 1970 Ing. Nicola Conforti Eletto come indipendente di sinistra nelle liste del P.C.I – Voti presi a Caposele: n. 1219 Primo eletto nella Provincia di Avellino Anno 1980 Prof. Pino Spatola Eletto Consigliere Provinciale nelle liste della D.C. Voti presi a Caposele n.980 Anno 1985 Ing. Luigi Casale Eletto Consigliere Provinciale nelle liste del P.S.I Voti presi a Caposele: n.850 Anno 1990 Geom. Rocco Mattia Eletto Consigliere Provinciale nelle liste del P.C.I Voti presi a Caposele: n. 1115 Ha ricoperto il ruolo di Assessore Provinciale

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Gente di Caposele TUTTI I PRESIDI dalla fondazione della Scuola di Avviamento a tipo Agrario all’attuale Istituto Comprensivo “FRANCESCO DE SANCTIS” - dal 10/10/1937 al 25/10/1937 Biagio Colombini - dal 1/11/1937 al 15/10/1938 Ferdinando Palladino dal 16/10/1938 al 15/10/1939 Pellegrino Tarantino dal 16/10/1939 al 15/10/1940 Caprio Edmondo dal 16/10/1940 al 30/10/1942 Alfonso Corona dal 1/11/1942 al 28/9/1943 Girolamo Corona dal 29/9/1943 al 6/4/1946 Alfonso Corona dal 7/4/1946 al 15/12/1962 Edmondo Caprio dal 16/12/1962al 30/9/1963 Alfonso Corona dal 1/10/1963 al 30/9/1967 Ciro Guarracino Preside della subentrante Scuola Media dal 1/ 10/1968 al 6/12/1968 Elena Morra Barbaro dal 7/12/1968 al31/8/1994 Wanda Russomanno Pannuti dal 1/9/1994 al 31/8/1995 Elia D’Anna dal 1/9/1995 al.31/08/2007.. Silvano Granese dal 01/09/2007 al 31/08/2008 Guida Cinzia Lucia dal 01/09/2008 al 31/08/2014 Salvatore Di Napoli dal 1/09/2014 al 31/08/2015 Vito Alfredo Cerreta dal 1/8/2015 al 31/8/2016 Gerardo Cipriano dal 19/2016 a tutt’oggi Gerardo Vespucci

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Gente di Caposele PRESIDENTI DELLA PRO LOCO CAPOSELE Dal 1973 al 2017 Anno 1973 - 1978 Avv. Ferdinando Cozzarelli – Presidente Anno 1979 – 1989/ Ing. Nicola Conforti – Presidente Anno 1990 – 1994 e 1996 Geom. Rocco Mattia – Presidente Anno 1994 Ins. Alfonso Merola – Presidente Anno 1995 Sig. Emidio Alagia Presidente Anno 1997 – 2000 Cav. Antimo Pirozzi Presidente Anno 2001 – 2004 Arch. Salvatore Conforti Presidente Anno 2004 – 2011 Dott. Raffaele Russomanno Presidente Anno 2011-2017 Arch. Concetta Mattia Presidente - tuttora in carica

CITTADINI ONORARI DI CAPOSELE Avv. Vincenzo Caruso Anno 1970 Dacia Maraini Anno 2008 Vinicio Capossela Anno 2016

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Comune Caposele

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ERNESTO CAPRIO curriculum in breve Maturità classica, laurea in matematica, per molti anni insegna “Circolazione aerea e telecomunicazioni aeronautiche” nell’Istituto Tecnico Aeronautico di Roma, progettando ed allestendo laboratori di video-simulazione e radar simulazione di traffico aereo. A queste attività alterna quelle di regista cinematografico e filmmaker, realizzando cortometraggi a soggetto, documentari archeologici ed etnogrfici in Iran ed in Italia. Nel 1980 il suo film-inchiesta “Discoteca Continua”, finanziato dalla Regione Lazio, è selezionato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia alla sezione “Controcampo Italiano”. Nel 1981 pubblica il libro “Trasporto e Traffico Aereo” . Successivamente si dedica completamente alle attività audiovisive realizzando una serie televisiva sui bambini e poi una serie di video-inchieste, dal 2002 al 2015, finanziate dalla Provincia di Roma sul mondo giovanile in relazione a: gli ultras, la relazione ragazzo-ragazza, la cultura hip-hop (distribuito dalla rivista Ecole), il tuning, la moda, la musica, la rete; e poi sull’integrazione degli immigrati soprattutto dei giovani di 1° e 2° generazione. Realizza il film-inchiesta ”Per Strade Diverse” e numerosi cortometraggi a soggetto nelle scuole della Campania nell’ambito dei progetti PON. Tiene corsi di aggiornamento per insegnanti di scuola media superiore a Roma. Ha pubblicato articoli sul quotidiano “Paese Sera” e sui periodici “Occhio Critico” e “Diari di Cinema”, nonché poesie su “ Tempo Presente”, rivista fondata da Igna-zio Silone. Attualmente collabora al periodico “La Sorgente” di Caposele. E’ stato dal 1979 al 1981 segretario generale della FICC (Federazione Italiana Circoli del Cinema). E’ attualmente socio dell’ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinematografici).

Ernesto Caprio di Nicola Conforti

È

un Caposelese che vive a Roma. Insegna all’Istituto Tecnico Aeronautico. Ha scritto il libro “Trasporto e traffico aereo / Logiche operative e strutturali”. Siamo lieti di pubblicare la recensione del libro dì questo nostro concittadino residente a Roma. La recenziore è apparsa sulla “Rivista Aeronautica” (la rivista più importante del Settore). Il testo di cui l’autore ci ha fatto gradito omaggio, tratta argomenti di grande Gente di Caposele Oggi

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attualità, presenti nella cronaca giornalistica di tutti i giorni. L’autore offre inoltre, spunti per letture interessanti di cui si conosce in modo solo approssimativo il significato. Siamo grati ad Ernesto Caprio per il significativo quanto prestigioso omaggio che ha voluto fare alla Pro Loco e quindi del suo paese di origine. Ad majora!

Dalla Rivista Aeronautica di Massimo Blasi

L

’autore, Ernesto Caprio, ha un’esperienza nel campo dell’insegnamento che data da circa dieci anni presso l’Istituto tecnico aeronautico di Roma; la sua esperienza traspare nella impostazione del volume che ha di conseguenza uno spiccato orientamento didattico. Il libro pertanto può fornire a chi si avvicina al mondo aeronautico, non importa se nel campo civile o militare, un valido strumento nella preparazione di base costituendo altresì una forma di guida per ulteriori approfondimenti più specificamente orientati; esso è stato adottato da alcuni Istituti tecnici aeronautici. Dopo un orientamento e motivazione iniziale, vengono richiamati i concetti pratici e applicativi sulla natura delle onde elettromagnetiche, che sono alla base di sistemi internazionali di radioassistenze alla navigazione aerea e delle relative telecomunicazioni aeronautiche. Vengono quindi descritti i servizi relativi al traffico aereo, meteorologia,” soccorso, informazioni aeronautiche; segue l’esposizione degli attuali sistemi di radionavigazione con un saggio impiego di illustrazioni autoesplicative. Adeguatamente trattato l’argomento “regolazione altimetrica” che tanta importanza riveste ai fini della sicurezza del volo. Estesamente illustrata la parte infrastrutturale, cioè relativa a piste, vie di circolazione, segnalazioni al suolo, illuminazione e servizi al suolo. In appendice sono contenute normative come le regole dell’aria relative al volo a vista, istruzioni di compilazione dei piani di volo, un’utile guida alla fraseologia radio fra piloti e organi del traffico aereo e alcune liste di definizioni ICAO con traduzione, nonché abbreviazioni e sigle di terminologia prevalentemente inglese. In conclusione, il volume è particolarmente apprezzabile per la chiarezza dell’esposizione, il buon equilibrio fra teoria e pratica e il livello delle illustrazioni il cui “peso” nel libro è di circa il 20% dello spazio, ciò costituendo un valido aiuto alla comprensione dei concetti esposti.

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P. Antonio Di Masi il nuovo Padre Provinciale Padre Antonio di Masi è il nuovo Superiore Provinciale dei Redentoristi dell’Italia Meridionale. Sostituisce il padre Antonio Napoletano che aveva coperto l’incarico dal 1984 al 1990. La Provincia religiosa meridionale dei Padri Redentoristi comprende la Campania, la Puglia, la Calabria e la Basilicata. E’ dedita principalmente all’ apostolato missionario privilegiando, sull’esempio del fondatore Sant’Alfonso Maria De Liguori, le fasce sociali più povere e abbandonate. Sono presenti in 17 centri missionari, tra i quali spiccano, per apostolato e incisività d’azione, il santuario di san Gerardo Maiella in Materdomini e la Comunità parrocchiale di Sant’Alfonso sita nel rione San Tommaso di Avellino. I religiosi redentoristi che operano nell’Italia meridionale sono circa 150 di cui 5 ad Avellino. Il padre Di Masi è nato a Materdomìni 46 anni fa. E’ laureato in lingue orientali ed esperto studioso di Sacra Scrittura. E’ molto conosciuto negli ambienti ecclesiastici di Avellino essendo da molti anni l’animatore delle riunioni mensili delle suore presenti nella diocesi irpina. Il suo compito non è certamente facile. Egli dovrà guidare i redentoristi meridionali in un momento difficile in cui bisogna saper rispondere alle esigenze del tempo sapendo adeguare i propri stili di presenza e d’azione alla mutata mentalità della nostra società ormai largamente secolarizzata. Un grosso impulso lo si attende anche per il santuario di Materdomini che affida il futuro ruolo di centro spirituale dell’Irpinia e della Campania alla capacità di saper rispondere alle richieste sempre più esigenti e pressanti dei numerosissimi pellegrini.

Premio Caposele 1996

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nche quest’anno il Premio Caposele ha avuto un felice approdo. Esso va sempre più consolidandosi come appuntamento ferragostano che, nel riconoscere meriti e apprezzamenti a caposelesi che tengono alto il nome della loro terra natale, qualifica la Pro Loco e le sue iniziative. Quest’anno la scelta è opportunamente, ricaduta su Padre Antonio Di Masi, Padre Provinciale dei Redentoristi a capo delle Provincie napoletane e siciliane. Come ha tenuto ad affermare il Presidente della Pro Loco nella sua illustrazione del Premio” la prestigiosa guida spirituale di una congregazione religiosa fortemente radicata nel Sud d’Italia e nel mondo è meritevole quanto ogni altro impegno civile e sociale, soprattutto in un mondo pervaso da nuove ed antiche Gente di Caposele Oggi

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inquietudini in cui non sempre le modernità sanno dare risposte convincenti”. Il premio, è stato detto è un omaggio all’uomo, al sacerdote anche alla meritoria opera della congregazione fondata da S. Alfonso Maria de Liguori di cui in questi giorni ricorre il 250° anniversario della venuta a Caposele. La storia dei Redentoristi con la Fondazione del convento in Materdomini ha segnato la storia di Caposele e da quella scelta ha tratto benefici non solo spirituali, essendo Materdomini ormai meta consolidata di un pellegrinaggio cospicuo di devozioni alla tomba del Santo Gerardo tanto caro alle popolazioni meridionali. A conclusione della manifestazione, Padre Antonio Di Masi ha voluto ringraziare, non senza rilevare apprezzamento per un premio che egli ha voluto dedicare all’opera costante, spesso umile, di tanti “fratelli” che con il loro anonimo lavoro mantengono vivo e attuale l’insegnamento di Sant’Alfonso.

ALFONSO CASALE Primario Pediatra – Premio Caposele 1995 di Pietro Spatola Alfonso Casale, primario pediatra presso l’ospedale Civile dii Badia Polesine, si è affermato in giovanissima età come professionista di primissimo livello. Ha frequentato durante il corso di laurea il famosissimo laboratorio del Prof. Daniele Petrucci, partecipando agli studi ed alla realizzazione della fecondazione in vitro. Ama profondamente il suo Paese natio e non trascura di ritornarci periodicamente. “Sono sempre dell’idea che forse non merito di essere divulgato”. Sono queste le parole che l’amico Alfonso, il conterraneo Alfonso, il Dr. Alfonso Casale, primario pediatra dell’Ospedale Civile di Badia Polesine (Ro), mi ha detto quando gli ho esternato l’idea di scrivere un articolo su di lui su “La Sorgente”.Io credo, e ne sono convinto, che a tutti i Caposelesi, residenti e non, farà piacere conoscere come questo figlio della nostra terra, con la tenacia e l’intelligenza ereditate dai suoi avi e con lo studio e l’applicazione proprie della sua tempra, si è creato. Nato a Caposele nel luglio del 1937, ha studiato prima ad Avellino e poi a Salerno, dove ha conseguito la maturità classica nel 1955. Nello stesso anno si è iscritto alla facoltà di medicina e chirurgia dell’ Università degli Studi di Bologna dove si è laureato con 107/110 il 28/ 2/1962, discutendo la tesi sperimentale (ardita per l’epoca) “Lo studio del circolo periferico con sostanze coloranti a rapidissima diffusione”. Dal terzo al sesto anno del corso di laurea ha frequentato, sempre a Bologna, il Laboratorio del Prof. Daniele Petrucci partecipando agli studi ed alla realizzazio14

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ne della fecondazione in vitro. A laurea conseguita si è interrotto il sodalizio con il Prof. Petrucci per opposti interessi culturali. Infatti, dal 1962, ha frequentato la Clinica Pediatrica di Ferrara dove, nel luglio del 1964, ha conseguito la specializzazione con 70/ 70. Si è unito in matrimonio nel 1963 con la gentile Sig.ra Maria Rosaria, dalla quale ha avuto quattro figli. Già assistente di ruolo fin dal 1963 presso l’Ospedale di Badia Polesine, ha continuato a frequentare volontariamente la Clinica Pediatrica di Ferrara, acquisendo ancor più cultura ed esperienza pediatrica. Nel 1968, in seguito a concorso pubblico, è stato nominato aiuto Pediatra di ruolo. Nel 1970 ha conseguito l’idoneità nazionale a Primario Pediatra e, dal gennaio 1976, ha assunto la direzione della Divisione di Pediatria dell’Ospedale di Badia Polesine. Gli interessi scientifici li ha rivolti verso lo studio dell’anemia mediterranea, che nel Polesine raggiunge il 18,20%, della broncopneumologia e della gastroenterologia. Tutta la sua produzione scientifica riguarda queste tematiche e, da circa sette od otto anni, si sta occupando di epidemiologia delle linfoadeniti da graffio di gatto; patologia che negli ultimi tempi si è manifestata frequentemente nella popolazione del Polesine. Alfonso, oltre ad essere un compaesano, è un grande amico dei Caposelesi. Penso che nessuno possa dire di non aver ricevuto risposta ad una domanda; con il suo sigaro stampato sulle labbra, tra una partitina a briscola con lo “sfottò” ed una passeggiata alla Sanità, ha sempre mostrato, nei suoi ragionamenti e nelle sue riflessioni, un grande amore per il suo Paese ed una toccante nostalgia per doverne vivere lontano.

SALVATORE DAMIANO Un caposelese che ha collezionato prestigiosi riconoscimenti in italia ed all’estero

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iglio della nostra terra, fino a qualche tempo fa probabilmente sconosciuto ai più. Salvatore Damiano nato a Caposele il 5 marzo 1953. Ha frequentato nel suo paese natio le Scuole elementari e medie. Già in tenera età dimostra spiccate attitudini per la pittura tanto che, appena compiuti gli studi primari, si iscrive all’Istituto d’Arte di Salerno. Qui, purtroppo, per cause familiari, è costretto ad abbandonare gli studi per emigrare in Piemonte, prima, ed in Toscana, poi, dove si trattiene per lavoro per alcuni anni. L’amore per la pittura, però, non lo abbandona mai e cosi, quando per caso gli Gente di Caposele Oggi

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capita sotto gli occhi l’inserzione su di un giornale per corsi di pittura per corrispondenza, decide di iscriversi per aver modo di affinare le sue qualità tecniche ed artistiche. Da qui ha origine la vita artistica vera e propria di questo nostro giovane concittadino che, trasgredendo a stili o mode, rivela la sua pittura, fatta di immediatezza, nella spontaneità e vitalità dei soggetti. “Mi sforzo di far provare, nei miei colori, una sensazione di gioia, di libertà, di piacere.” E’ questo il filo conduttore di ogni opera di Salvatore Damiano, ed è a questi canoni che si ispira quando l’estro creativo lo porta a comporre. Nei suoi quadri si trova il verde lussureggiante delle nostre montagne; l’acqua chiara, tersa, spumeggiante e prorompente del nostro Sele; il cielo limpido e azzurro che sovrasta i nostri boschi; i prati scivolanti come ruscelli tra i sassi. La natura si esalta in tutta la sua pienezza e bellezza attraverso l’armonia dei colori, sia che essa venga rappresentata nel tenue volteggiare di una farfalla sospesa in un prato in un tenero”e palpitante trasporto di linee, sia nello zampillare di una fonte, come specchio di favola, azzurra e tersa”. Le sensazioni che riesce a suscitare sono sempre quelle di un sogno ad occhi aperti dove è ancora possibile trovare un mondo da raccogliere e preservare nella mente, dove è ancora possibile l’estasi di uno sguardo sorpreso e nel quale ti senti trasportato. La capacità e la valenza artistica di Salvatore Damiano sono ormai riconosciute unanimamente, tanto che non vi è manifestazione culturale in cui egli non sia presente e le sue personali, tantissime, hanno riscosso e riscuotono plausi e consensi da parte di critici e di pubblico. Sarebbe impossibile elencare, qui, le innumerevoli premiazioni ricevute a testimonianza della sua capacità pittorica, poiché dal 1975,anno in cui è iniziata la sua attività artistica, ha collezionato prestigiosi riconoscimenti sia in Italia che all’estero; non ultime le sue partecipazioni alla Prima Mostra Collettiva “Italian Pavilion Tokyo” ed alla “Maison de Loisir et Culture” di Montmorency a Parigi. Cosa dire, ancora, di questo illustre figlio che fa onore e vanto a tutti noi: che la sua arte possa portarlo a raggiungere le vette più alte ed ai traguardi più ambiti.

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ING.GIOVANNI CAPRIO Premio Caposele 1998 Di Giuseppe Palmieri Sono tanti i meriti di questo illustre nostro concittadino. Molti lo ricorderanno come “la voce del Ferragosto Caposelese”, sempre presente e sempre disponibile, da grande speaker ha saputo mettere in bella evidenza le cose belle e buone del nostro paese.

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o accettato di buon grado l’invito del Presidente della Pro Loco, arch. Salvatore Conforti, di presentare il vincitore del PREMIO CAPOSELE 1998 : l’ing. Giovanni Caprio; ed anzi, di tanto, sono profondamente lusingato. Sia per l’importanza della manifestazione, sia per l’importanza del premiato. In una società nella quale vanno sempre più scemando i valori veri e forti quali l’attaccamento alle proprie radici, l’amore per la propria gente, la propria terra, la solidarietà ai meno fortunati, questo premio, nel suo piccolo, è un segnale in controtendenza. E’ un premio ai Caposelesi che si sono distinti ed hanno avuto successo fuori dalle mura amiche. A quei Caposelesi che nonostante il successo ed una esistenza ormai ben radicata altrove, non dimenticano, né smettono di amare il loro Paese. Un premio che, se volete, affonda le radici in una concezione romantica della vita ma che sicuramente è un indiretto riconoscimento a tutti quelli che, per scelta o per necessità, hanno dovuto realizzare le proprie aspirazioni altrove. Anche a quelli (e sono tanti) che per necessità di sopravvivenza, nella umiltà dei lavori che andavano a svolgere, hanno testimoniato fuori dagli angusti confini comunali, l’onestà, la laboriosità e serietà del popolo Caposelese. Non un premio al conseguimento dì un singolo risultato o ad una singola prestazione. Nemmeno un premio che implica una valutazione finale e non più suscettibile di miglioramento, o peggio a conclusione di una carriera. E’ invece il premio, il riconoscimento di un Paese, sia pure attraverso una istituzione, ad un proprio figlio. Il personaggio che premiamo quest’anno non avrebbe bisogno di alcuna presentazione. Tale è la sua notorietà e la sua più che giusta fama. L’ing. Giovanni Caprio è nato nel 1943. Si è laureato a Napoli in Ingegneria il 28.6.1968. Ha vinto il concorso per Ispettore delle Ferrovie dello Stato nello stesso anno ed è stato assunto a Roma l’1.10.1968. Ha svolto il suo primo incarico a Napoli come capo reparto di esercizio con giurisdizione sulla linea Napoli/ Battipaglia - Battipaglia/Potenza e Sicignano/Lagonegro. Nel 1976 è promosso Ispettore Capo - Capo Sezione di impianti di Sicurezza e segnalamento del compartimento ferroviario di Napoli. Gente di Caposele Oggi

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Nel settembre del 1978 viene promosso a Primo Dirigente ed è trasferito a Roma presso la Direzione Generale delle F.S. - Capo Divisione degli impianti di sicurezza e segnalamento con giurisdizione sull’intero territorio nazionale. Nel 1981 viene chiamalo nello staff del Direttore Generale delle F.S. per coordinare la gestione del piano straordinario degli investimenti (circa 12.450 miliardi di lire). Nel 1985 promosso Dirigente Superiore, assume l’incarico di Capo Ufficiò Pianificazione servizio impianti elettrici, curando la stesura del nuovo piano regolatore” nazionale degli impianti elettrici. Nell’agosto del 1987 viene promosso Dirigente Generale con incarico di Direttore del compartimento F.S. di Torino. Nell’aprile del 1989 viene chiamato a Roma per ricoprire dapprima l’incarico di Direttore del Dipartimento Organizzazione e poi dipartimento potenziamento e sviluppo. Nel novembre del 1990 viene nominato Direttore del Compartimento di Roma. Nel luglio 1993 a seguito della trasformazione delle F.S. in S.p.A. ha assunto l’attuale incarico di Direttore della Zona Tirrenica Sud (ex compartimento di Roma - Napoli - Reggio Calabria). Nel 1996 in vista del Giubileo del 2000 gli è stato affidato anche l’incarico di Direttore Generale della S.p.A. ROMA DUEMILA di cui a partire dal marzo c.a. ha assunto la responsabilità di Amministratore Delegato. Nel 1985 è stato insignito dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. E’ autore di numerosi articoli scientifici pubblicati da riviste specializzate e negli alti dei convegni nazionali ed internazionali in cui sono stati presentati. E l’elenco potrebbe continuare. La cosa che a mio avviso rende singolare il personaggio Giovanni Caprio, al di là delle indiscutibili ed indiscusse doti umane e capacità professionali, è la qualità dell’attaccamento al Nostro Paese. Non è solo quella sorta di affezione e amore per una determinata località che ci porta a preferirla rispetto ad altre .In Giovanni (e mi piace pensare anche nella graziosa, amabile e gentile consorte che sempre lo accompagna nei frequenti rientri) c’è qualcosa in più. E’ radicato in lui quel senso dell’appartenenza e della coesistenza che non lo fa apparire estraneo al contesto paesano anche quando è lontano dal Paese, che lo fa essere un tutt’uno con la realtà locale. E’ un figlio del Nostro Paese in tutti i sensi. Un figlio che per quanto le vicende della vita lo hanno portato a vivere altrove appartiene ed apparterrà sempre alla Storia di Caposele. Nessuno vede in lui il concittadino che più o meno periodicamente fa ritorno al Paese di origine per salutare amici e parenti. E’ invece considerato a tutti gli effetti uno del posto. Uno che sa e vive le vicende del Paese come chi ci vive 365 giorni l’anno. Uno che le vicende locali, i nostri problemi, le nostre ansie, i nostri drammi li vive proprio come uno di noi.

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ANTONIO RUGLIO Antonio Ruglio è nato in Acarigua (Venezuela). Risiede a Caposele. Nel 1998 ha pubblicato “Vorrei ma non posso “edito dalla Editrice Letteraria Internazionale”; nel 2000 è uscito “Quel che rimane” edito dalla Firenze libri e, infine “Sulle tracce di un sogno” edito dalla “Albatros –Il filo” . Collabora con diverse testate giornalistiche locali tra cui “La Sorgente” di Caposele. Ha diretto l’Associazione culturale “Sorgenti di Sapere” coinvolgendo, in vari convegni, personaggi di grande prestigio come Dacia Maraini (cittadina onoraria), Paola Gassman, Gherardo Colombo, Pino Aprile e altri grandi autori della Letteratura italiana contemporanea. “Vorrei ma non posso”. uesto breve quaderno di appunti - scrive l’autore - vuole essere innanzitutto un invito, uno stimolo alla riflessione nel momento in cui c’è grande bisogno di capirci e di capire se stessi. In secondo luogo, c’è in queste pagine il desiderio di risvegliare l’orgoglio di ciascuno di noi attraverso un’inutile provocazione. E’ venuto meno, a parere dell’autore il senso civile dello Stato a scapito dei cittadini. Dello sfascio che ne è seguito siamo noi i primi responsabili e solo attraverso la consapevolezza dei nostri demeriti sarà possibile evitare gli errori del passato. L’autore si ripromette in un prossimo quaderno, di capire se esistono le condizioni per potere uscire allo scoperto, per poter fare quel salto di qualità che consenta una partecipazione più diretta alle scelte democratiche di un Paese moderno.

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Sulle tracce di un sogno i seguito riportiamo alcuni capitoli particolarmente significativi desunti dal libro. Storie autentiche, che l’autore affida a chi ancora ha un sogno e che lotta perché si avveri. Un sogno per due Due amici sinceri che dopo aver condiviso molte cose a un certo punto delle loro esistenze si dividono e non si ritrovano più. Cionondimeno, del tutto inconsapevolmente, rimangono uniti in un modo assolutamente speciale e unico. Non avranno più la possibilità di parlarsi ma alimenteranno ciascuno all’insaputa dell’altro lo stesso sogno, lo stesso irrefrenabile desiderio: fare qualcosa di concreto per gli altri, per la gente che soffre. In nome di questa stella polare perderanno entrambi la vita prima ancora di vedere i risultati del proprio impegno e del proprio lavoro. Per fortuna, il loro sogno non s’interrompe e dieci anni dopo verrà ripreso dai loro figli che, raccogliendone il testimone, ripercorreranno lo stesso itinerario e si

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approprieranno finalmente di quell’idea. È così che molto brevemente può essere riassunto il contenuto di queste pagine. Ma c’è di più. C’è il tentativo di mettere al centro dell’attenzione l’uomo con le sue debolezze, i suoi slanci, le sue speranze a scapito della dimensione spaziotemporale. Per intenderci, il lettore non troverà descrizioni minuziose di ambienti e paesaggi tanto meno una dettagliata sequenza di situazioni, ma troverà a seconda dei casi la rabbia, la delusione, l’impotenza, la gioia, la speranza. È una scelta ben precisa. Persino l’Afghanistan rientra in questa logica. È solo un punto dell’Universo come ce ne sono tanti, poteva benissimo essere il Sudan piuttosto che l’Iraq, la Sierra Leone piuttosto che la Somalia, sono tutti luoghi di sofferenza e il vero tratto comune è che si muore ogni giorno senza distinzioni anche quando si è portatori di una parola di conforto. L’aver immaginato l’Afghanistan interamente ricostruito e in pace con se stesso a distanza di dieci anni è più che altro un auspicio per il futuro, una speranza, un messaggio forte contro la guerra e l’odio di qualunque colore essi siano.La vita senza sogni non ha alcun senso, basta averne uno, uno soltanto, perché il grande prodigio della vita possa manifestarsi in tutto il suo splendore dentro ciascuno di noi. Un altro uomo nche in questo caso il motivo dominante della breve storia è il raggiungimento, la realizzazione di un sogno. Un sogno che avrebbe dovuto concretizzarsi molto prima condividendolo con altri ma la vita spesso non fa di questi regali anzi, complica le cose rendendo tutto più difficile. Pierino, dopo aver vissuto una vita intera nel suo piccolo guscio, trova il coraggio di uscirne per una volta e di lasciarsi andare. Ha sempre pensato che ci fosse un mondo migliore e diverso dal suo ma questo suo convincimento è rimasto chiuso nella testa e nel cuore come se avesse paura di svelarlo. In realtà, la gita nella splendida Ischia diventa l’occasione, l’opportunità attesa per anni, la meraviglia, la scoperta di un mondo fantastico. Averne colto fino in fondo il senso, averne assaporato il gusto autentico rappresenta la svolta della sua esistenza, finalmente la sua voglia di viaggiare e di scoprire il mondo nuovo trova uno sbocco credibile e ciò che più importa, diventa realtà. L’incontro è talmente devastante e sconvolgente, l’innamoramento così forte e autentico da indurlo a restare. Pierino, dopo quel viaggio non è più lo stesso, inizia una nuova vita, si ritrova giovane senza acciacchi e senza angosce. Sarà la gente, l’aria, il sole, il mare di Ischia ma lui realizza se stesso, realizza il sogno di una vita, quello coltivato per settant’anni e poco più.

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Appena in tempo ppena in tempo è il racconto fedele di una confidenza ricevuta da un signore garbato e gentile della Napoli perbene, quella dignitosa e umile, di cui troppo poco si parla in televisione. Non è anziano ma un uomo malato, di una malattia seria e devastante. Anche lui, come molti di noi, ha un sogno da realizzare. Prima di passare a miglior vita vorrebbe tornare indietro nel tempo, rivedere qualcuno, riassaporare qualcosa che ha dato un senso profondo alla sua vita. In particolare, Caterina che ha sconvolto la sua esistenza, Renzo l’amico di mille battaglie e Procida il simbolo dei suoi giorni migliori e forse anche per questo il luogo prescelto per morire. Una notte di primavera, nel pieno del sonno, lui riesce a fare tutto questo, ritrova per intero quello che aveva temuto di non poter più riconoscere. In quelle poche ore riesce a capire tante cose, a farsene una ragione, ad apprezzarne il senso autentico, quello vero. Una misteriosa voce narrante l’accompagna lungo questo suo percorso a ritroso e il mattino seguente, avendo vissuto come fosse vera la sua dipartita, si ritrova sconvolto ancora sveglio. Qualche settimana più tardi, raccontandomi il suo sogno, mi disse di aver avuto la percezione che tutto fosse vero e che proprio quella notte aveva capito l’importanza della vita, il valore che essa ha e il dovere che ciascun essere umano ha di difenderla fino in fondo. Tutto quello che lui non aveva fatto fino a quel momento. Il 13 ottobre, proprio come nel sogno, Ninetto morirà non a Procida ma a casa sua. È una fortuna, una vera fortuna, che quella notte di primavera ci sia stata e ci sia stata quella voce narrante; è solo grazie a loro che ha potuto rivivere le emozioni di una vita troppo breve. Ricordandolo, penso che sia morto sereno e questo mi fa star bene.

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Ultimo libro uscito a dicembre 2016, attualmente in rete della Cavimato Editore l libro s’intitola “IL VUOTO DIETRO LE SPALLE”.E’ la storia di un uomo normale come ce ne sono tanti che vive in maniera intensa e per certi versi traumatica le varie fasi della propria esistenza. In particolare, il passaggio dalla certezza del posto di lavoro alla precarietà più assoluta, dalla disperazione al successo attraverso la valorizzazione del proprio talento. Dopo aver vissuto per anni nella serenità di un posto di lavoro sicuro e dignitoso, conosce suo malgrado la dolorosissima esperienza della cassa integrazione e del successivo licenziamento per poi scoprire del tutto casualmente di avere un talento nascosto, la pittura,

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che in breve tempo lo porterà al successo facendolo entrare in un mondo nuovo troppo diverso da lui e dalla sua storia.Ma nel fare tutto questo commette un grave errore, lasciandosi cullare completamente dalle lusinghe del nuovo mondo perde di vista la propria dimensione, le proprie origini, le persone care, gli amici veri quelli dei momenti difficili. Quando si accorgerà dell’errore sarà ormai troppo tardi e voltandosi indietro non ritroverà più nessuno, nemmeno se stesso.Da quel momento in poi, passerà le giornate dipingendo i ritratti delle persone che hanno fatto parte della sua vita e che non ha più ritrovato quasi a voler testimoniare al mondo intero di aver avuto anche lui un’esistenza vera, un’esistenza degna di questo nome. A un certo punto andrà via ma nessuno saprà mai in quale direzione e per fare che cosa ammesso e non concesso che abbia deciso di continuare a vivere.Il messaggio è chiaro ed inequivocabile: Qualunque cosa la vita ci riservi, mai dimenticare le proprie origini, la propria storia e le persone che hanno fatto parte della nostra vita.

DONATO GERVASIO Donato Gervasio nasce a Caposele nel 1985. Musicista, è da sempre appassionato di scrittura e letteratura. Ha collaborato per quattro anni con un importante quotidiano irpino, oltre che per un giornale locale “La Sorgente”, scoprendo piuttosto in fretta la verve per i racconti ed i romanzi. “Polvere alla luna” è per lui la sua prima pubblicazione. Di seguito riportiamo il Prologo dell’autore e la prefazione del libro a cura dell’on. Francesco D’Ercole.

Polvere alla luna Prologo

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a polvere la vedo ancora tutt’intorno, sospesa nell’aria. La sento ancora turarmi il naso, quella puzza di calce e cemento sbriciolato. Oh sì, non la dimenticherò mai! Una nebbia puzzolente che ti tappava le narici e ti sbarrava gli occhi. Come fosse stata mandata apposta per impedirti di vedere e odorare il dramma e la morte che ti circondavano. Poi si alzò pian piano, come fosse un sipario utile a svelare moderatamente ciò che ti circondava: le macerie, le case squarciate, i pali della luce inclinati, i fili dell’elettricità piombati a terra. Sentii giungere pian piano, da lontano, nell’oscurità, i mugolìi della gente, i lamenti, i brusii dei feriti, intrappolati, doloranti. Allora fu come se accendessero una grossa lampadina nel mio cervello, illuminando tutto in ogni dettaglio. Mi apparve tutto così terribilmente chiaro. Ed ancora adesso, quando ci penso, la pelle la sento indurirsi e gli occhi li sento scaldarsi e cacciar fuori gocce di lacrime. 22

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Quegli attimi cancellarono sogni, prospettive. Ci ritrovammo improvvisamente a vivere spogli, ignari, smarriti. Come un bambino appena nato, che della vita non sa cosa gli aspetta. Il viaggio su quell’unica gamba fu interminabile. Mi condusse dove tutti gli altri, nello stesso dolore. Come dentro un calderone colmo di brodaglia bollente, in cui tutti eravamo a cuocere sull’impietoso fuoco della sofferenza. Chi più, chi meno; chi con un dolore diretto, chi indiretto. Ma quella danza della terra sovrumana fece le sue vittime. Uccidendole sia fuori che dentro. E così fummo tutti vittime. Ciononostante riuscimmo a trovare una forza straordinaria per aiutarci l’un l’altro meravigliosamente. Ed ognuno diede la forza di continuare a chi si trainava dietro un fardello davvero troppo grande, altrimenti, forse, impossibile da trainare. La società civile acquisì una solidarietà primordiale. Tutti si strinsero in un unico grande abbraccio d’affetto, d’amore, di partecipazione. Ognuno amò il suo prossimo, come nelle parabole più famose, come nelle favole più belle. Ed ognuno si sentì vittima come tutti gli altri, anche se non lo era. Solo così riuscimmo ad avanzare di nuovo, riconoscendo solo negli anni, molto lentamente, la nostra destinazione. Prefazione On. Francesco d’Ercole

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uando ho iniziato a leggere il romanzo di Donato Gervasio, non immaginavo che sarei arrivato alla fine senza interrompere neppure per un attimo. Anche volendo, non sarei stato capace di staccarmi dal racconto, dalle evocazioni, dai sentimenti, dai contesti che vi sono descritti. La trama è semplice ed avvincente, di una naturalezza disarmante. Non sono un critico letterario, ma credo di sapere come si usa la parola e qui la parola non è mai abusata, traduce mirabilmente non solo il pensiero ma, soprattutto, i sentimenti. Ammetto che in alcuni passaggi mi sono commosso, ho avvertito tutta la forza del profondo sentire di cui Gervasio si è fatto carico. E’ stato capace di farmi rivivere quei terribili momenti riproducendo le immagini del prima e del dopo le 19 e 35 del terribile 23 novembre 1980. Da buon tifoso interista, anch’io guardavo alla tv la partita Juve-Inter, era registrata ed avevo diligentemente evitato, come credo avesse fatto anche Davide, il protagonista, di conoscere il risultato attraverso la radio. Poi il tremendo boato, la fuga, il portone che non si apre perché la corrente si è interrotta, la gente che ti travolge, la sensazione che tutto sia finito, sono emozioni che ho rivissuto con forte partecipazione. Nella notte tragica del terremoto fa capolino, discretamente, quasi sottovoce, senza enfasi, il flebile raggio di luce che scaturisce dai cuori dei due giovani protagonisti e la grande vittoria che il loro amore riesce a conseguire sul male terribile Gente di Caposele Oggi

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da cui è affetta Ely. Ma dalle righe emerge la forte denuncia dei ritardi nei soccorsi. Quel terremoto fu di una violenza e di una vastità inaudite, ma lo Stato mostrò tutta la sua impreparazione di fronte alla calamità. Molte vite potevano essere salvate se i soccorsi fossero arrivati più tempestivamente. Possiamo trovare qualche consolazione in quel disastroso nulla in cui si concretizzò l’intervento emergenziale soltanto riconoscendo che da quel momento si mise mano alla costruzione del sistema di protezione civile, che in tante sciagure successive ha dimostrato di saper intervenire con efficienza e tempestività, non solo in Italia ma anche in tante altre parti del mondo. Poi c’è il contesto, il paese, Caposele, con i suoi personaggi e, ancora di più, con i suoi paesaggi. Conosco bene quel centro dell’Alta Irpinia, lo frequento da molti anni, vuoi per ragioni politiche, vuoi per ragioni religiose, in quanto sede del grandissimo santuario di Materdomini dedicato a San Gerardo. La descrizione che ne fa Gervasio è puntuale ed accorta, senza fronzoli, capace di produrre l’immagine dettagliata di una località splendida nel paesaggio ed orgogliosa della sua ricchezza naturale: l’acqua delle sue sorgenti. La scena in cui si svolge la storia, vera come la storia stessa, rimosse le macerie del terremoto e ricostruite le case, è rimasta immutata, ma non così i rapporti umani. La precarietà della vita, sperimentata sulla propria pelle, ha cancellato anche una buona parte dei sentimenti che prima univano la comunità: Franco, l’amico fraterno di Davide, è partito per Roma, in tanti anni è tornato una sola volta. Molto significativo. Purtroppo questa metamorfosi ha riguardato una grande massa di coloro che hanno vissuto la tragedia e forse è essa stessa una delle cause per cui, negli anni successivi al terremoto, molti hanno cinicamente pensato unicamente ad approfittare delle provvidenze che dovevano essere utilizzate per la ricostruzione, senza alcuna attenzione per le finalità nobili per le quali quei finanziamenti venivano erogati. Ma questa è un’altra storia che Gervasio, munendosi di una penna un po’ più ruvida, potrebbe certamente raccontarci.

CARMELA CUOZZO campionessa nazionale di Pasquale Cozzarelli

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uccessi a ripetizione per le giovanissime ondine della Società Ambrosiano Nuoto, che gestisce la piscina comunale di Caposele. E’ riconferma ad altissimi livelli per Carmela Cuozzo, 12 anni da compiere nel prossimo mese di settembre e per le altre tre ragazze della staffetta 4 per 100 24

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stile libero nuoto pinnato. In provincia di Torino, negli impianti sportivi di Chieri e Moncalieri, hanno riportato prestigiose affermazioni. Nella classe 83/84, Carmela Cuozzo ha conquistato due secondi posti, nei Campionati Italiani assoluti nei 50 e 100 metri specialità nuoto pinnato. Per una incollatura è stata battuta da atlete più grandi di parecchi mesi. Un altro secondo posto Carmela Cuozzo l’ha ottenuto insieme a Maria e Carmela Di Masi di Materdomini e Manuela Cosentino di Lioni nella staffetta. Ottimi i tempi riportati da Carmela Cuozzo: 26 secondi e 5 decimi nei 50 metri e 57 secondi e I decimo nei 100 metri. Manuela Cosentino poi è giunta terza nella gara dei 100 metri. Dunque tre medaglie d’argento e una di bronzo per le validissime nuotatrici della Società Ambrosiano Nuoto, che in base a questi notevoli risultati è riuscita a piazzarsi settima nella graduatoria assoluta delle 41 società giunte da ogni parte d’Italia. Carmela Cuozzo non è nuova a questi traguardi. Già l’anno scorso acciuffò brillanti risultati. A Lido di Camaiore vinse, infatti, le gare sui 50 e l00 metri, sempre di nuoto pinnato, e diventò così campionessa italiana. Poi ancora un secondo piazzamento nella staffetta. Quest’anno ha risentito poco o nulla del salto di categoria. Frutto di una autentica passione sportiva e dei faticosi allenamenti cui si sottopone diversi giorni alla settimana. Senza tralasciare la scuola che frequenta con soddisfacente profitto. L’ex campionessa italiana ha partecipato, tra l’altro, nello scorso mese di aprile al campionato nazionale assoluto di salvamento svoltosi a Chianciano e su 160 atleti di 47 sodalizi ha ottenuto un lusinghiero piazzamento. Dice il padre della forte atleta, Giuseppe Cuozzo: “Ci vogliono tanti e tanti sacrifici per venire incontro alle esigenze sportive di nostra figlia, soprattutto economici e di tempo quando deve essere accompagnata alle manifestazioni. Però siamo più che felici e intendo ringraziare la società che ci ha offerto questa possibilità“. Ormai si può parlare di tradizione consolidata per la gestione del presidente Antonio Zarra. Non si contano più i successi riportati dal sodalizio caposelese che, pur tra mille difficoltà finanziarie, si sta barcamenando da anni con perizia e capacità nel settore natatorio. La riprova viene anche dalle numerose medaglie vinte a livello interregionale. Allenati dagli istruttori capitanati dal professore Antonio Molinara gli atleti hanno mietuto fior di vittorie in tutti gli incontri sportivi a cui hanno partecipato. La piscina di Caposele, in vasca da 25 metri, dotata di tutti i comfort,è diventata una possibile fucina di giovani campioni insomma. E i corsi di nuoto che si tengono durante tutto l’arco dell’anno, estate esclusa, Gente di Caposele Oggi

CARMELA CUOZZO

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richiamano centinaia di partecipanti da molti centri vicini. In un futuro non molto lontano, non è affatto da escludere che possano venir fuori campioni in grado di competere a livello internazionale e rappresentare l’italia ai Campionati Europei e Mondiali o addirittura alle Olimpiadi. Un sogno per ora, ma che potrebbe comodamente avverarsi. Nella penuria di impianti sportivi che si registra nel Mezzogiorno d’ltalia, la struttura ospitata in località Piani rappresenta un fiore all’occhiello, che va aiutato a crescere e si pone all’attenzione generale per la capacità organizzativa e per i consistenti e prestigiosi trionfi fin qui conseguiti. Merito di una conduzione societaria attenta e accorta, condotta con piglio manageriale senza nulla tralasciare al caso. Altri prestigiosi successi per CARMELA CUOZZO Continua inarrestabile la marcia della nostra CAMPIONESSA verso traguardi sempre più alti e sempre più prestigiosi. CARMELA CUOZZO nei campionati italiani di nuoto pinnato svoltisi a Piacenza qualche giorno fa ha conquistato tre medaglie d’oro e due d’argento e precisamente: 200 metri MEDAGLIA D’ORO 400 metri MEDAGLIA D’ORO Staffetta MEDAGLIA D’ORO 50 metri MED AGLI A D’ARG. 100 metri MEDAGLIA D’ARGENTO

GIUSEPPE CASTELLO Premio Caposele 2000 di Armando Sturchio

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ermettetemi, innanzitutto, di ringraziare la Pro Loco, ed in modo particolare il suo Presidente, l’architetto Salvatore Conforti, che mi danno il privilegio questa sera, di essere portavoce di un sentimento che accomuna tutti i caposelesi: un sentimento insieme di stima ed affetto nei confronti di un uomo, il dottor Giuseppe Castello, che con il suo lavoro e la sua disponibilità è diventato ormai patrimonio comune di questo paese, che lui onora quotidianamente con il suo impegno professionale; un paese che oggi, con orgoglio, ne richiama l’appartenenza, celebrandolo con il “Premio Caposele”. Questo riconoscimento, in passato già conferito ai concittadini che fuori dai nostri confini si sono distinti in diversi campi – imprenditoriale, militare, manageriale, ecclesiastico – quest’anno, e non nascondo una certa soddisfazione nel dirlo, 26

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viene attribuito ad un medico. In realtà, la personalità del dottor Castello va ben oltre la già prestigiosa figura di medico, in quanto egli racchiude in sé i ruoli di: Professore presso la Scuola di Specializzazione in Dermatologìa e Venerologìa della facoltà di Medicina e Chirurgia della Seconda Università di Napoli per l’insegnamento di “Tumori Cutanei correlati ad attività professionali”; Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori, sempre a Napoli – la “Fondazione Giovanni Pascale” – ed è inoltre componente di numerose commissioni nazionali ed internazionali di studio per la prevenzione e la cura dei tumori e dell’AIDS, in ragione delle sue specializzazioni in “Allergologia e Immunologia Clinica”, in “Oncologia”, ed in virtù degli studi perfezionati presso l’autorevole New York Medical College. A tal proposito, potrei dire che il mio ruolo qui, questa sera, è giustificato non solo dal fatto di essere un giovane socio della Pro Loco allo stesso tempo interessato al mondo medico, ma anche per essere io stesso, (tutti i giorni), testimone diretto della risonanza che ha il nome di Castello nelle istituzioni mediche ed accademiche napoletane, e l’eco che da lì si diffonde sull’intero territorio nazionale. A questo punto, consentitemi un ricordo personale, per spiegare quanto sono profonde le radici della stima che nutro nei confronti del professor Castello. Ho ancora chiare nella mente, le parole di estremo rispetto che mio nonno Armando pronunciava nei riguardi di suo padre, Generoso Castello, amico di cui ne esaltava la serietà, l’intraprendenza e la grande inventiva. Conservo ancora - con amorevole premura - l’orologio da tasca che mio nonno mi ha lasciato, il quale sulla custodia riporta inciso il nome dell’amico Generoso che glielo aveva donato in una circostanza particolare. Posso immaginare, anzi, sono certo, che se oggi ritroviamo nel dottor Castello quella grande dedizione al lavoro e quello spirito di iniziativa e di ricerca che ho appena accennato, in parte ciò gli deriva sicuramente dalle qualità del padre. E lo dico senza voler con questo scomodare i numerosi e complicati studi sulla “genetica” di cui tanto, oggi, ci si occupa. Ma, dicevo, questo premio viene attribuito questa sera ad un medico. Ed è un fatto importante poiché esalta indirettamente una professione tra le più impegnative, che richiede forti motivazioni, disponibilità, spirito di sacrificio, razionalità. Sono questi fattori, uniti all’esperienza, alla competenza, all’avere il senso immediato, pronto, per ciò che è decisivo e la capacità di includerlo in ogni riflessione diagnostica - e non solamente quindi la “mera erudizione” - che distinguono il buon medico. La sua capacità di giudizio è determinante per una decisione a favore o a danno del paziente, e spesso sarà inevitabile per il medico perdere il freddo distacco, la “sacra imparzialità” dell’uomo di scienza, e lasciarsi coinvolgere personalmente. Sia detto per inciso, se la professione, l’arte medica, è tra le più impegnative, lo è ancora di più essere la moglie di un medico che con la sua pazienza, le sue cure, gli incoraggiamenti e i preziosi consigli non fa altro che confermare un detto Gente di Caposele Oggi

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della cultura americana secondo il quale non vi è uomo di successo senza vicino una donna che abbia altrettante capacità. Ma il premio oggi assegnato al dottor Castello è anche un fatto intelligente; perché, in un Paese in cui troppo spesso, e con troppa superficialità, fanno notizia i casi della cosiddetta “malasanità”, evidenzia, attraverso la figura del suo direttore scientifico, un esempio positivo ed illuminante di come può e deve funzionare la Sanità pubblica in Italia, quando questa viene guidata da persone preparate, che amano il proprio lavoro. Stiamo chiaramente parlando dell’Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei tumori: la “Fondazione Giovanni Pascale”, polo oncologico di rilievo nazionale la cui efficacia è presa a modello anche dalle strutture private, dove, Giuseppe Castello, oltre ad essere apprezzato come direttore dai più autorevoli esponenti del Ministero di competenza, ha la capacità - vi assicuro non comune tra i personaggi che hanno raggiunto tali vertici – di essere amato dai suoi collaboratori, stimato dai colleghi e, possiamo dire, “venerato” dai suoi pazienti. Il riconoscimento di questa sera trova le sue ragioni anche al di fuori dei tanti successi professionali del dottor Castello e degli importanti progetti; come ad esempio il Centro di Ricerche in Oncologìa Pediatrica che sta sorgendo a Mercogliano grazie al suo tenace interessamento ed alle energie spese per ricercare i finanziamenti necessari (anche a livello europeo), ad allacciare i contatti giusti, ed a visionare i diversi programmi. Sarà questo un polo oncologico pediatrico di rilievo internazionale - di cui, sono sicuro, vorrà parlarci tra breve - che nascerà nella nostra provincia grazie al suo entusiasmo ed al suo impegno costante nel raggiungere questo ambizioso traguardo, e che lo legherà ancora di più, se ce n’era bisogno, alla nostra terra. Questo premio, dicevo, trova le sue motivazioni anche nell’attaccamento intenso che egli sente per Caposele, e che dimostra non solo tornando spesso al suo paese di origine, dove l’attendono amorevolmente la madre Gina ed i suoi familiari, ma anche attraverso importanti iniziative concrete. Molti di voi ricorderanno quando, in occasione della festa della donna di qualche anno fa, per la prima volta, grazie soprattutto alla perseveranza della sorella - la professoressa Teresa Castello, sempre vitale ed efficace nella vita sociale del nostro paese – è approdato a Caposele il camper per la prevenzione del tumore mammario; un vero e proprio ambulatorio mobile dotato di attrezzature diagnostiche, all’interno del quale medici specialisti provenienti dal Policlinico di Napoli, gratuitamente visitavano e facevano opera di informazione e prevenzione alle signore che in massa l’hanno frequentato e fortemente apprezzato. Questa iniziativa, fortunatamente, non è rimasta un episodio isolato, ma, sempre per merito del dottor Castello, si è potuta ripetere negli anni successivi in maniera ancora più ampia, e non limitandosi esclusivamente alle sindromi più propriamente femminili. A tal proposito, credo già di poter affermare che l’appuntamento di quest’anno è per il mese di settembre, quando l’equipe di medici, questa volta, sarà formata 28

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da specialisti in diverse altre patologie. La grande importanza di questo tipo di iniziativa viene meglio compresa se si considera che la prevenzione, unita ad un lavoro di ricerca a volte poco visibile, per anni senza riconoscimenti, fatto anche di momenti scoraggianti quando non vengono raggiunti risultati immediati, esercitato senza clamori da medici come Castello – autore tra l’altro di più di 400 pubblicazioni su riviste specializzate e di 15 libri, alcuni dei quali validi testi universitari – questo tipo di lavoro, dicevo, ha fatto sì che oggi, sono stati raggiunti risultati reali: l’aspettativa di vita si è allungata e, (clinicamente) c’è finalmente una netta inversione di tendenza nel rapporto tra diagnosi precoci e guarigioni: chirurgicamente non si hanno più degli interventi mutilanti, e miglioramenti continui ci sono anche nella terapia farmacologica che è sempre più mirata; per cui, per la nostra generazione, è ancora più concreta la speranza di vittoria su un male che ha mietuto fin troppe vittime in ogni famiglia. In conclusione, prima di lasciare la parola al dottor Giuseppe Castello – e penso a questo punto di parlare a nome di tutti gli amici presenti questa sera – desidero ringraziarlo vivamente per quanto ha fatto finora, per la disponibilità mostrata nei riguardi di tutti i caposelesi che a lui si sono rivolti nei momenti particolarmente delicati della propria esistenza, quando la presenza di un medico che sia anche amico è impagabile, ed augurargli che tutti i progetti che ha creato vedano presto la luce, grazie alla sua caparbietà ed alla sua intelligenza, e che in futuro - se gli impegni glielo renderanno possibile - possa sedere ancora più spesso, lui e la sua famiglia, in mezzo a noi.

GERARDINO CALABRESE Ha creato dal nulla un’industria di grande prestigio, portando a compimento grandi progetti con tenacia e intelligenza. Nonostante quella che lui stesso definisce “una vita tutta in salita”, ha saputo continuare con ostinazione sempre e comunque. Gerardo Calabrese è un uomo che si è saputo inventare e reinventare sempre, ogni giorno, senza mai darsi per vinto, anche quando le battaglie sembravano essere troppo più grandi, troppo impegnative.

Premio Caposele 2001 di Nicola Conforti

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bbiamo voluto che il conferimento di questo Premio coincidesse con una data significativa per tutti noi: la Madonna della Sanità “per richiamare tutti”, è

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scritto nel regolamento del Premio, “a quelle radici che di Caposele offrono i valori della generosità e della solidarietà e che lo fanno amare da chiunque lo conosca”. Questa sera sono molto emozionato, ma particolarmente felice, di parlare di Gerardino Calabrese. La nostra amicizia risale ad oltre quarant’anni fa quando, poco più che ventenne, nel corso delle mie giornate di studio a Materdomini, parlavamo di tutto ed in particolare dei nostri progetti per l’avvenire. Mi piace, a tal proposito, riferire di un episodio, apparentemente insignificante, ma che, in un certo senso, determinò una svolta decisiva nella vita di Gerardino e che creò le premesse per quella sua straordinaria, meravigliosa, quanto rischiosa e difficile avventura in campo industriale. “Accadde in settembre”, a metà degli anni ’50. Io studente universitario, lui tipografo presso la Tipografa S. Gerardo (erano i tempi della composizione a mano con maestri dell’arte tipografica come il Cav. Fortunato e Costantino Carpentieri). Decidemmo di “marinare la scuola e il lavoro” per recarci a Bari in visita alla Fiera del Levante. Passammo l’intera giornata a curiosare da uno stand all’altro, desiderosi di apprendere tutto ciò che la tecnologia più avanzata presentava in anteprima in quella rassegna fieristica. Una giornata indimenticabile; non solo per l’entusiasmo che le novità fieristiche avevano suscitato in noi, ma principalmente per le conseguenze che quella “innocente impertinenza” aveva provocato. Gerardino perse il lavoro: me lo riferì lui stesso con le lacrime agli occhi. Nei giorni successivi mi adoperai per sostenerlo ed incoraggiarlo; mi sentivo un po’ responsabile di quanto era accaduto. La delusione e l’amarezza durò solo qualche giorno: mi resi subito conto che erano nati in lui grandi progetti e che, con tenacia ed intelligenza, li avrebbe portati a compimento. Nasce all’indomani di quella memorabile giornata la sua grande avventura. Parte alla volta di Lioni per iniziare l’attività di artigiano tipografo. Compra a rate dei macchinari usati e comincia a stampare bigliettini da visita, manifestini e locandine per Lioni e paesi limitrofi. La piccola bottega cresce rapidamente e presto diventa un’azienda di tutto rispetto. Nel 1960 la prima svolta importante: vince una gara di appalto per gli stampati dell’INAM di Avellino, poi di Napoli e, quindi, di tutta Italia. Nel 1970 inizia la stampa della carta bollata per lo Stato Venezuelano, blocchetti di assegni in lingua araba per la Libia e i primi giornali in quadricromia che poi erano venduti nelle edicole della Grecia. Il successo in campo nazionale ed internazionale lo ottiene anche grazie alla invenzione di un brevetto industriale per la stampa-numerazione ed intercalazione contemporanea di carta a più copie. Nel 1978 impianta una libera e potente Stazione Radio per scopi culturali e come punto di riferimento per i giovani chiamandola “Radio Giovane Lioni”. Nel 1979 gli studi diventano anche televisivi con un ponte di trasferimento a Nusco ed un altro a Benevento. 30

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Il 20 novembre del 1980, con il Presidente dei Radioamatori della provincia di Avellino, che gli aveva messo a disposizione la concessione per l’installazione di un traliccio per le antenne, effettua un sopralluogo a Montevergine per ampliare fino a Napoli la ricezione dei programmi messi in onda a Lioni. Il terremoto di qualche giorno dopo fa svanire l’ambizioso progetto. Il 23 novembre 1980, con la sua stazione di radioamatore, è il primo e l’unico a lanciare all’Italia intera ed al resto del mondo il grido disperato di aiuto per l’immane disastro che aveva colpito queste povere terre. Il suo prodigarsi nell’incitare a “fare presto” fu riportato nella stampa nazionale e dalla televisione che elogiarono il comportamento dei “radioamatori di Lioni”. Ai primi di dicembre del 1980, in mezzo a mille difficoltà e con grande coraggio, inizia i lavori di ripristino dell’azienda riprendendo l’attività tipografica nei locali meno danneggiati pur di non venir meno alle commesse acquisite. Consigliere comunale di Lioni dal 1978, gli viene affidata la delega per i “ripristini urgenti”; successivamente, per la sua imparzialità e per la sua abilità di mediatore, è nominato Presidente della Commissione per l’assegnazione dei prefabbricati ai senzatetto. Nel 1981 riprende in pieno l’attività dopo aver sistemato i danni del sisma e, nonostante i numerosi impegni, nella qualità di Presidente della Polisportiva riesce a risanare il bilancio dell’Associazione ed a sistemare lo stadio, reso inagibile dal sisma, coinvolgendo gli amici ed il Comitato Regionale della F.I.G.C. Nel 1988 entra in funzione il nuovo stabilimento. Tra l’altro stampa: - Elenco telefonico per la Libia- Orario di volo per l’ATI- Schedine Enalotto per il CONI- Ricettari ed altri stampati per il Poligrafico e Zecca dello Stato -Forniture all’INPS per la Direzione Generale e per la Sede Nazionale -Blocchi ed assegni per la Banca di Tripoli. Da circa sette anni ha dato inizio alla stampa di quotidiani con: Il Mezzogiorno di Salerno- Cronache- L’Opinione Irpina Oggi. Attualmente stampa sette quotidiani: - La Provincia di Frosinone- Il Giornale di Caserta - Il Quotidiano di Campobasso- Il Quotidiano di Benevento -Otto Pagine -Il Corriere-Il Giornale di Avellino Molti sono, inoltre, i periodici attualmente stampati e, tra essi, “Fiera Città” di Napoli. Io credo che questa enorme mole di lavoro e questa, per molti versi, eclettica e multiforme attività, Gerardino l’abbia potuta realizzare anche grazie alla presenza al suo fianco di una donna straordinaria come la Sig.ra Rosa alla quale va il nostro affettuoso saluto. Nessuno dei figli ha voluto seguire le orme del padre. Ma buon sangue non mente: gli stessi hanno raggiunto ugualmente livelli di alto prestigio. Uno nel campo della Magistratura come Giudice a S. Angelo dei Lombardi, l’altro nella carriera militare come Questore aggiunto. Ai due figli presenti in sala, Gente di Caposele Oggi

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va il nostro deferente ossequio. Ieri, per ricordare questo avvenimento, Gianni Festa, fondatore e direttore del Corriere, ha dedicato a Gerardino un’intera pagina del suo quotidiano. A me piace chiudere questa breve presentazione con le stesse parole con cui Gianni Festa ha chiuso il suo articolo. “… Domenica a Gerardino, la sua Caposele consegnerà un premio che ha un odore particolare: quello di una terra che lui ama profondamente, di un santo di cui porta il nome, di un luogo da cui andò via da ragazzo per dimostrare che c’è un SUD diverso, nel quale si può essere competitivi con i NORD del mondo. Lui ce l’ha fatta” .

UNA VITA TUTTA IN SALITA di Gianni Festa

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ella seconda metà degli anni Settanta, inviato speciale del Mattino di Napoli, feci un lungo viaggio nel Mezzogiorno d’Italia per un’inchiesta sullo stato di salute, economico-sociale, delle regioni meridionali. L’obiettivo era di testimoniare il cambiamento avvenuto in quelle realtà nell’ultimo decennio, facendo emergere, attraverso interviste con i protagonisti, il modo di proporsi delle classi dirigenti meridionali e del ceto produttivo. Fu quella una straordinaria esperienza, pubblicata sul giornale, con più puntate, e che suscitò un dibattito interessante. Quell’inchiesta mi è tornata alla mente leggendo le pagine del racconto di vita di don Gerardo Calabrese, Maestro Tipografo, ma, soprattutto, imprenditore delle zone interne di una provincia meridionale, l’Irpinia. Che cosa hanno in comune, oltre la territorialità, quell’inchiesta e don Gerardo? Anzitutto l’ostinazione a continuare, sempre e comunque, nonostante le difficoltà che di volta in volta si presentano dinanzi a chi esercita un’attività imprenditoriale nel Sud. Problema infrastrutturale, come ad esempio l’energia elettrica ad intermittenza. Basta un po’ di vento forte, un acquazzone di maggiore intensità, per non parlare delle nevicate che in Alta Irpinia d’inverno sono frequenti, che il processo produttivo si blocca, a volte per intere ore. C’è poi la difficoltà di accedere alle risorse bancarie. In realtà, l’ apertura di credito al Sud, nonostante i proclami, è tutt’altro che problema risolto. Il danaro qui costa molto più del nord e le garanzie richieste imprigionano l’imprenditore, talvolta costringendolo a prestiti con elevati tassi di interesse. Questi due esempi, ma tanti altri si potrebbero fare, danno il senso a quella vita tutta in salita che don Gerardo, vestendo gli abiti dell’umiltà, a lui congeniali, descrive in questo suo mestiere di vivere. Il racconto che egli propone al lettore è una biografia ragionata che muovendo dalle origini familiari giunge fino ad oggi, senza mai allontanarsi dalla realtà. I fatti sono descritti con una semplicità straor32

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dinaria e diventano, man mano che si presentano, un monito, un insegnamento, soprattutto per i più giovani. Il filo conduttore, nelle pagine che seguono, è nella testimonianza dei valori che l’autore conserva come bene primario di vita, individuale e collettivo, e l’auspicio che essi possano ritrovare momento di riflessione nella società. E sono i valori a condurre don Gerardo all’impegno per le cose che ha realizzato, o lo hanno visto rappresentante della propria comunità. Ne parla con grande passione civile. Così quando racconta del desiderio di possedere, in tempi difficili, una bicicletta e di soddisfare questo desiderio costruendola pezzo dopo pezzo. O della sua scelta di imprenditore, e ancora dell’esperienza della Radio Giovani Lioni, per non parlare dell’impresa televisiva che oggi sta per rinascere. Sono tutti momenti di vita costruiti con il desiderio di credere ad una impagabile forza di volontà. Certo, quando egli descrive quella malanotte del terremoto del 23 novembre 1980 e i giorni successivi, le pagine diventano intense e fortemente partecipative. Il racconto di quella drammatica sera che fece tremare per novanta secondi la terra e che vide don Gerardo protagonista nel dare informazioni dell’Alta Irpinia è ormai consegnato alle cronache del tempo e alla storia della ricostruzione dell’evento. I soccorsi, le difficoltà di agire, storie e personaggi diventano un encomiabile reportage di uno straordinario protagonista che parla della sua azienda come l’ultimo presidio di una speranza che sembrava ormai morta. C’è un dato che mi ha fatto molto riflettere. E’ quando don Gerardo parla del suo ruolo di consigliere comunale di opposizione e del modo in cui lo svolse in quei giorni delle macerie e della rabbia. Qui l’umanità sovrasta la politica, le appartenenze si sciolgono dentro la necessità di portare aiuto, la solidarietà diventa il riferimento dell’agire, ben lontano dalle piccole questioni che agitano il civico consenso. E’ una stupenda lezione di vita che andrebbe recuperata oggi nel momento in cui le forze politiche litigano senza motivazioni credibili. Vorrei, però, non dimenticare quella parte che mi ha fatto conoscere sempre meglio e di più don Gerardo Calabrese. Credo che il nostro incontro avvenne negli anni settanta. Qualcuno mi aveva parlato di una tipografia in Alta Irpinia che si era affermata per la grande qualità del lavoro. Il mio viaggio a Lioni mi fece scoprire un personaggio straordinario. Amante delle nuove tecnologie, moderno nella visione imprenditoriale, con un ottimismo della volontà che appariva come un miracolo in quelle zone deserte (L’Ofantina ancora non era stata costruita). Da allora il sodalizio si è sempre più consolidato ed esso fa riferimento alla stima, al rispetto, alla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un marito esemplare, ad un genitore che oggi vede nella grande professionalità dei suoi figli un sogno che egli ha reso possibile. Nessuna adulazione, solo la certezza di un’amicizia tra persone che si integrano nella costruzione di un processo produttivo- culturale. E le pagine che seguono sono la testimonianza di tutto questo. Gente di Caposele Oggi

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MARIA DI MASI campionessa nazionale di Pasquale Cozzarelli

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ramai si può parlare di tradizione consolidata. Anche quest’anno, infatti gli atleti della piscina di Caposele si sono fatti onore ai campionati di nuoto italiani. A salire sul gradino più alto, nella categoria dei 50 metri e fissando il record italiano, già all’età di 14 anni, è stata l’ondina Maria Di Masi che ha sbaragliato le avversarie provenienti da città come Roma, Bologna, Torino. Alla solita Carmela Cuozzo, alla quale abbiamo già dedicato un ampio servizio nei numeri precedenti de La Sorgente, si affianca un’altra campionessa a mantenere alto il prestigio della società di nuoto caposelese. E’ un risultato di grande valore che si associa ad altri risultati ottimi di atleti caposelesi in questo campo. Maria Di Masi, con forza e costanza, ha inanellato successi a ripetizione costruendo, vittoria dopo vittoria, un’immagine di forza e organizzazione mentale che proietta il nuoto caposelese ad alti livelli di agonismo. A questo proposito dobbiamo complimentarci con tutti quelli che hanno preparato e costruito intorno agli atleti questa grande vittoria. E lo hanno fatto con enorme sacrificio e con passione mantenendo, con costanza, un gruppo atletico a livelli forti e competitivi. Al Presidente della società Antonio Zarra e a tutti i preparatori atletici un sentito grazie da tutti noi della redazione. Con convinzione e con un pizzico di orgoglio da noi l’augurio a proseguire in questa direzione, nonostante, come avviene spesso in questo Paese, ci siano critiche, spesso ingiuste, e tentativi di ricambio forzato dell’organico. Ma la regola è “SQUADRA CHE VINCE NON SI CAMBIA”. Avanti tutta ragazzi!

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CESARE PATRONE Ispettore Generale C.F.S Premio Caposele 2002 di Agostino Montanari

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’stato, per me, un immenso piacere quest’estate presentare e consegnare il “Premio Caposelese dell’Anno”, un riconoscimento che la Pro Loco, come oramai da consuetudine, a chiusura delle attività per il Ferragosto, attribuisce ad un nostro compaesano emigrato e distintosi nel campo sociale e professionale. Il premio quest’anno è stato attribuito a Cesare Patrone, per i grandi riconoscimenti professionali che sta ottenendo nel settore delle attività forestali. Prima ancora che un professionista serio ed estremamente competente, Cesare è, per me, e per tutti noi della Pro Loco di Caposele, un vecchio amico, una persona amabile, la cui vita merita certamente di essere presa a modello, soprattutto dai più giovani, specie in un periodo incerto e difficile come quello che stiamo vivendo. La prima parte della vita di Cesare è stata un continuo viaggiare insieme ai genitori, il papà Michele e la mamma Sisina, a suo fratello Amato ed alle sue due sorelle Enza ed Olimpia. Cesare nacque, infatti, a Buenos Aires, alla fine degli anni ’50, in una terra, l’Argentina, allora meta di sogni e di speranze ed oggi terra di fame e di miseria per molti nostri sfortunati connazionali. Ma la famiglia di Cesare, dopo pochi anni rientrò in patria, trasferendosi a Caposele, dove Cesare trascorse la sua infanzia ed i primi anni dell’adolescenza. In questo periodo, molti di noi, suoi coetanei, hanno avuto modo di conoscerlo, divenendo suoi amici, gli amici d’infanzia, quelli che inevitabilmente ti rimangono sempre nel cuore. Poi, in età adolescenziale, Cesare è emigrato una seconda volta, spostandosi con la sua famiglia a Roma. Credo che per nessuno, men che meno che per un ragazzino, sia stato facile riambientarsi per una seconda volta, nel giro di pochi anni, passando da una realtà ad un’altra e poi ad un’altra ancora, l’una completamente diversa dall’altra, senza trovare alcuna difficoltà. Eppure Cesare, con un carattere forte e con una grande perseveranza, è riuscito ad eliminare in breve tempo il gap ambientale, tuffandosi a pieno nella sua nuova vita. A 25 anni Cesare era già brillantemente laureato in ingegneria idraulica, dopo qualche anno ha vinto il concorso in Forestale, dove nell’arco di poco più di un decennio ha letteralmente bruciato le tappe, alcune fra le tante dirigente del Parco regionale della Maiella e Comandante della Scuola Allievi della regione meridionale, divenendo uno dei massimi graduati del corpo Forestale, nonché consulente del Ministro per le Politiche Agricole e Forestali, Alemanno. Una grande carriera, non c’è che dire, impreziosita e resa ancora più importante dal grande bagaglio di esperienza e di umanità che Cesare porta con sé. Perciò, come ho ribadito all’inizio, credo che il premio di quest’anno dato a Cesare Gente di Caposele Oggi

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Patrone debba essere un modello, un esempio di vita e di abnegazione per i nostri giovani, nel momento in cui essi dovranno cimentarsi con le importanti sfide che il futuro gli riserva. Dalla redazione de La Sorgente: Ill.mo Dott. Ing. Cesare Patrone Ispettorato Generale C.F.S. ROMA nterpretando unitariamente i sinceri sentimenti della Comunità Caposelese, Le esprimo vivo compiacimento per la sua nomina a Direttore Generale che inorgoglisce il Paese il quale l’ha sempre ritenuta un Suo figlio. Appartenere, poi, ad una famiglia che non ha mai reciso i suoi legami con Caposele, aggiunge gioia all’orgoglio. Noi tutti siamo convinti che i rapidi risultati fin qui conseguiti ci fanno ben sperare in un prosieguo brillante della Sua carriera, avendoLe sempre riconosciuto una notevole professionalità e doti indiscutibili. E’, quindi, con amicizia e stima che, a nome della redazione de “ La Sorgente” e dei soci della Pro Loco, Le auguro buon lavoro al servizio dello Stato. Ing.Nicola Conforti

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Altri riconoscimenti: l giorno 5 ottobre u.s. la commissione per la valutazione delle proposte per il conferimento delle benemerenze in materia ambientale e relative medaglie d’oro, riunita presso la sala riunioni del Ministero, presieduta dal Ministro dell’Ambiente e della tutela del Territorio e del Mare On. Stefania Prestigiacomo, ha conferito al Capo del Corpo Forestale dello Stato, Dirigente Generale Ing. Cesare Patrone Il diploma di benemerenza di prima classe e relativa medaglia d’oro. Alla base del conferimento della proposta di conferimento del diploma di benemerenza e relativa medaglia d’oro sono illustrate le motivazioni che attengono “alla innata, straordinaria sensibilità e l’incessante impegno da sempre profuso nell’affermazione del ruolo del Corpo Forestale dello stato di primario referente nel campo della tutela e conservazione dell’ambiente, nonché per l’essenziale impulso impresso all’elevazione, ai massimi livelli qualitativi, delle capacità operative di tutte le componenti del Corpo stesso costantemente impegnate nella preservazione delle componenti ambientali. L’eccezionale ed illuminata opera posta in essere dall’ing. Cesare Patrone, ha determinato una decisiva svolta nella lotta ad ogni forma di aggressione all’ambiente, al territorio ed alla fauna e flora, contribuendo al pieno raggiungimento degli obiettivi fissati dal Ministero dell’Ambiente nell’ambito delle proprie missioni istituzionali, altresì favorendo l’esaltazione, ai massimi livelli istituzionali, del prestigio del Corpo.

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GERARDO LARDIERI Premio Caposele 2003

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erardo Lardieri è nato a Caposele (AV) il 13.04.1964, arruolato nell’Armadei Carabinieri nell’anno 1984. A conclusione del corso Sottufficiali frequentato nel biennio 1984/1986 veniva trasferito al Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Partinico (PA). Nel settembre dell’anno 1989 veniva trasferito al Reparto Operativo del Comando Gruppo Carabinieri Palermo 2 in Monreale. Nel settembre dell’anno 1990 veniva trasferito al Comando Regione Carabinieri Calabria dove gli veniva affidato il Comando della Stazione di San Ferdinando di Rosarno (RC) in sostituzione del Brig. MARINO, ucciso in un agguato mafioso nel Comune di Bovalino. Nell’anno 1991 veniva trasferito al Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri -Sezione Anticrimine di Catanzaro - fino al Novembre 2000, anno in cui vinceva il concorso per Ufficiali frequentando a Roma, presso la Scuola Ufficiali Carabinieri, - Sezione Anticrimine di Reggio Calabria - ove tuttora presta servizio quale Ufficiale addetto. Nel corso della sua carriera ha ottenuto svariati riconoscimenti per operazioni di servizio, in particolare: -nel gennaio 1988, ELOGIO rilasciato dall’allora Legione Carabinieri di Palermo per aver, con spiccata capacità professionale e sprezzo del pericolo, intercettato dopo movimentato inseguimento continuato anche a piedi, 4 malviventi in fuga dopo la consumazione di una rapina presso un ufficio postale. L’operazione si concludeva con l’arresto degli stessi ed il recupero dell’intera refurtiva; - nel 1995-1996-1999 rispettivamente ENCOMIO, ELOGIO,ENCOMIO rilasciati dal Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri per aver, in zona caratterizzata da alto indice di criminalità mafiosa, dimostrando elevata professionalità e dedizione al dovere fuori dal comune, contribuito a complesse attività investigative nei confronti di temibili consorterie ‘ndranghetiste operanti in territorio nazionale ed estero che portavano altresì al sequestro di ingenti quantitativi di sostanza stupefacente nonchè di armi e munizioni anche del tipo da guerra; -nel 1998, ENCOMIO rilasciato dalla Divisione Unità Speciali Carabinieri per aver, in un territorio ad alto indice di criminalità mafiosa evidenziando elevatissima professionalità ed esponendosi a grave rischio per la propria incolumità personale unitamente ad altro personale, a conclusione di un’articolata attività investigativa riusciva a localizzare e quindi a catturare un pericolosissimo capo cosca ricercatoda diversi anni perchè responsabile di numerosi omicidi e svariati altri reati tra cui l’associazione per delinquere; -nel 2001 ENCOMIO SOLENNE rilasciato dalla Divisione Unità Speciali Carabinieri per aver, in zona aspromontana e quindi ad altissimo indice di criminalità mafiosa evidenziando spiccata professionalità, abnegazione fuori dal comune ed elevatissimo rischio per la propria incolumità personale condotto un attività investigativa che portava all’arresto di nr. 3 ricercati, di cui uno inserito nei primi 30 catturandi dell’intero territorio nazionale, perchè responsabili di numerosi omicidi e sequestri di persona. Gente di Caposele Oggi

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NICOLA CONFORTI Laurea in ingegneria civile, libero professionista e professore di Costruzioni. Nel 1973 ha fondato la Pro Loco Caposele ed il giornale “La Sorgente”. E’ stato Consigliere Provinciale nel 1970. In pensione da alcuni anni, si dedica con passione al giornale, che dirige ininterrottamente fin dalla sua fondazione, e ad altre attività culturali tutte finalizzate al progresso civile e sociale del suo paese natio. Ha ideato e diretto quattro documentari le cui riprese sono state eseguite con grande maestria dal cugino omonimo di Sorrento: “Un Anno a Caposele” del 1979, “Caposele, ricordi e pensieri” del 1981, “Caposele, città di sorgente” del 2008 e “Amare Caposele” del 2016. In collaborazione con Alfonso Merola ha curato la pubblicazione del libro “Caposele, una citta di sorgente” – editore Elio Sellino del 1994. I ritagli di tempo li dedica al disegno ed alla musica

La Capacità e l’ingegno di Vincenzo Di Masi

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on posso esimermi, se veramente voglio esaltare la figura di nostri compaesani, di accennare alla capacità e all’impegno che da molti anni ha profuso, mediante anche notevole sacrificio di tempo - sottratto alla professione e alla famiglia - l’Ing. NICOLA CONFORTI, del quale tutti, anche i compaesani che vivono all’estero, conoscono le doti eccezionali e polivalenti della Sua personalità e di rappresentazione degli avvenimenti di Caposele, a mezzo del periodico “ LA SORGENTE”, che da moltissimi lustri porta avanti, con grande competenza e determinazione insieme a suo figlio Arch. Salvatore, al Presidente ed ai componenti della PRO LOCO del luogo. creare il detto giornale non è stato soltanto Lui, ma lo furono anche altri concittadini, verso i quali non posso che nutrire ammirazione e rispetto. Parimenti, non posso sottacere anche il fatto che senza l’apporto determinante di Nicola Conforti il periodico di cui parlo sarebbe passato come una meteora e si sarebbe perso nel silenzio del tempo. Giorni addietro, in occasione di uno dei tanti incontri, confidai a Nicola il mio disappunto, perché nessuno, tra Autorità locali e concittadini di cultura, aveva preso l’iniziativa di parlare e scrivere dei grandi meriti del direttore de “LA SORGENTE”, nel diffondere nel mondo e ravvivare il ricordo del nostro paese tra le famiglie di emigranti e loro congiunti conviventi a parlare di Te. Per questo, di conseguenza, Egli più di qualsiasi altro compaesano che si sia finora distinto, è da annoverare tra i “benemeriti” caposelesi. So altresì che talvolta i contrasti, soprattutto ideologici, offuscano i sentimenti delle persone di un piccolo centro come è appunto Caposele, ma è certamente doveroso e giusto che quelli

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che hanno la capacità e la forza di farlo lascino traccia del loro passaggio nei ricordi e nella storia del paese, specie quando si vogliano esaltare i meriti, le qualità e le doti personali di un concittadino. Io, caro Nicola, sono anche consapevole di non essere il più qualificato a parlare di Te. Altre persone che sono state più di me presenti dove vivi e svolgi prevalentemente la Tua attività professionale e familiare, potrebbero riferire del Tuo valore personale ed encomiabile impegno sociale svolgi prevalentemente la Tua attività professionale e familiare, potrebbero riferire del Tuo valore personale ed encomiabile impegno sociale. Da me, invece, potrà giungerTi unicamente l’apprezzamento di ciò che fai per Caposele, insieme con i sentimenti della mia più affettuosa amicizia ed alta considerazione. Ho finito. Altro non voglio dire per evitare malintesi. La circostanza mi è però favorevole per pregarTi di inserire nel prossimo numero de “LA SORGENTE” - che so uscirà nella ricorrenza del Santo Natale e Nuovo Anno - questo mio modesto scritto, affnché coloro che lo leggono sappiano ciò che penso di Te.

Nicola, il docente che non sapeva bocciare di Ulderico Porciello (omissis) …La giustizia viene applicata in tutti i settori di vita sociale, come pure nel mondo della scuola che è considerata come l’ente sociale capace di diffondere nella società la consapevolezza di valori intrinseci al mondo della cultura, considerata l’espressione più avanzata delle potenzialità dell’intelletto umano e che fa sviluppare nel discente tutte quelle componenti che serviranno, giovane adulto, a distinguerlo dagli altri per le sue capacità critico-analitiche, ma anche professionali. Per questo il docente esercita una giustizia fatta di giudizi e di voti. E’ un compito delicato la funzione del docente, perché egli non fa ricorso a leggi scritte, ma alla sua sensibilità e capacità di trovare un suo giusto equilibrio psichico, prima di emettere giudizi e, quindi, di esercitare la giustizia. Il docente deve spogliarsi dei panni del despota, del giudice di tribunale, deve associare in sé le vesti del giudice e lo spirito dell’uomo saggio, anzi spesso deve far prevalere la saggezza. Ricordo un mio amico, Nicola, che nei consigli di classe faceva riferimento solo alle componenti giustificative dello scarso profitto degli alunni, senza mai tentare d’inquadrarli nell’ottica del giudizio scolastico. Quando bisognava varare un caso difficile o negativo, Nicola tamburellava con la sua biro sui fogli che teneva davanti e su cui erano riportati tutti i giudizi redatti sugli alunni della classe. Quando il presidente del consiglio invitava Nicola ad esprimere il suo giudizio, si sentiva rispondere: Ma…..vediamo...credo…non mi pare che sia il caso di bocciarlo….. verifichiamo di nuovo tutti gli elementi in nostro possesso, nella speranza che qualche elemento positivo fosse sfuggito all’analisi dei docenti, ed intanto si guardava intorno per sperare nell’aiuto di qualche collega, che potesse sostenerlo nel Gente di Caposele Oggi

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suo tentativo di salvare l’alunno dalla bocciatura. Purtroppo la sua speranza era vana, perché tutti gli altri docenti erano d’opinione opposta. Tutti sapevano che Nicola era un uomo buono, giudicava spesso sollecitato dalle componenti umane ed affettive. Nicola, insomma, era il docente che non sapeva bocciare. La sua voce era fievole, dolce, appena percepibile, il suo volto sereno, mai offuscato da preoccupazioni, che pur lo assillavano. Illustrava la materia d’insegnamento in modo lineare, comprensivo, semplice, doti e capacità acquisite da tanti anni di attività professionale e di continuo insegnamento. Nessuno osava contrariarlo, né richiedere nuove spiegazioni. Eppure anche Nicola incontrava alunni disinteressati e riluttanti allo studio della sua materia. Egli non li ammoniva, anzi li guardava col volto faceto e benevolo, talvolta li sollecitava allo studio colpendoli con leggere pacche sulle spalle e cercando di comprendere i loro disagi, di scrutare il loro animo, di conoscere i motivi del loro disamore dallo studio. I giovani allievi si confidavano con lui più che con gli altri insegnanti e Nicola nella classe impartiva spesso lezioni di vita per tutti, oltre all’illustrazione della materia. C’erano sempre dei casi particolari, dei giovani dai profitti negativi che toccavano la sensibilità di Nicola, che era costretto a cercare di giustificarli. Ora Nicola è in pensione, dirige il periodico “La Sorgente”, gli alunni hanno un dolce ricordo di lui, ne parlano con passione, con stima, con rispetto. “Nicola,” dicono, “il docente di Costruzioni, era l’insegnante più preparato, più umano, più affettuoso”. Il suo ricordo di scuola è rimasto impresso nella loro mente, il suo insegnamento modello di vita scolastica.

Presentazione IV Volume de “La Sorgente” di Raffaele Russomanno - Presidente della Pro Loco Caposele

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n un’epoca caratterizzata da una vita che scorre con ritmi frenetici, spesso si finisce per non dare la giusta valenza e la dovuta attenzione agli avvenimenti che costituiscono la nostra quotidianità. Fortunatamente c’è una persona che ha saputo registrare con temporale cadenza gli eventi per poi donarceli con sapiente maestria in un’opera. Questa quarta (e ci auguriamo niente affatto ultima) raccolta de “La Sorgente” di Nicola Conforti personalmente non mi coglie di sorpresa, il suo amore per il nostro paese, per la nostra Caposele, non poteva fermarsi con le precedenti edizioni. Il volume raccoglie gli ultimi dieci anni del giornale “La Sorgente”, ed attraverso esso ci parla di Caposele, della sua storia e della sua cronaca. Basta sfogliarlo

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per rivivere, come in un film, grazie alla forza delle immagini in esso racchiuse, tutti gli avvenimenti succedutisi in quest’arco di tempo. L’amico Nicola ci ha sempre parlato attraverso le immagini, immagini semplici, “fotografie di vita” che comunicano un messaggio diretto ed intenso, sia che si tratti dell’atmosfera gioiosa di famiglia, sia dello splendore di una valle tra i monti in un pomeriggio sereno, oppure della spensieratezza dipinta sui volti in una festosa serata d’agosto. Ma “La Sorgente” non è solo immagini, è anche cronaca, poiché affida, come tutti i migliori giornali, al commento dei suoi redattori la rappresentazione degli accadimenti di una comunità, il ricordo di vicende personali, la descrizione di eventi che altrimenti andrebbero perduti. Suo punto di forza è che chi vi scrive spesso racconta di eventi vissuti in prima persona, cosa che per un qualunque giornale forse rappresenterebbe un limite, mentre per un giornale locale ciò diventa un pregio in quanto chi scrive vi infonde passione e sentimento e la nostra microstoria è da sempre intrisa di sentimento, di passione. Tutto questo è “La Sorgente” e a ragione dieci anni raccolti in un unico volume sono un tesoro da custodire gelosamente perché in esso è racchiusa la nostra storia, la nostra identità, il nostro essere cittadini di una terra depredata della sua più grande ricchezza, l’acqua. È importante che le nostre comunità conservino memoria del passato e che da esso facciano scaturire il proprio futuro; ecco dunque che il suo recupero, attraverso opere come quella presente, diviene un valore inestimabile per i nostri giovani, per i nostri figli. Nicola, prima attraverso “La Sorgente”, poi attraverso la sua raccolta, suggerisce il recupero di quella che potremmo definire la “nostra vita vissuta” e questa sua ultima fatica è un nuovo tributo d’amore per la sua terra e la sua gente; pertanto è con quest’animo che dobbiamo avvicinarci ad essa, perché quanto racchiude è per noi un grande dono.

UN PREMIO IMPORTANTE di Luigi Fungaroli

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l V Convegno nazionale dei giornali editi dalle Pro Loco a Cimitile, nello splendido scenario delle Basiliche Paleocristiane, dove il nostro giornale e l’esperienza del suo direttore, Nicola Conforti è stato Premiato quale esempio di Pubblicazione, sono soddisfazioni che Vogliamo condividere con tutta la nostra Comunità. Ad majora a la Sorgente, motivo di vanto Per tutti noi! Sabato, 4 Giugno 2016. È una giornata di sole. Arriviamo davanti casa dell’ingegnere Conforti. Busso alla porta. Ecco uscire un emozionato ingegnere vestito da grande occasione. Gente di Caposele Oggi

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Eh sì, oggi è davvero una grande occasione: lui e la sua invenzione “La Sorgente”, il nostro giornale, ricevono un importante premio al V convegno Nazionale dei giornali editi dalle Pro Loco. Raggiungiamo poi, insieme a Concetta Mattia e Michele Cuozzo lo splendido scenario delle basiliche paleocristiane di Cimitile, posto scelto quest’anno come location per il ritiro del premio. Subito l’ingegnere e “La Sorgente” vengono onorati con parole bellissime. Ma è soprattutto la grande fama a “stupirci”: “La Sorgente” viene vista come simbolo e punto di riferimento da tutti i giornali delle Pro Loco d’Italia vista la sua longevità e il suo particolare stile che da tempo racconta Caposele, diventando archivio storico-sociale di grandiosa bellezza! Nel momento della premiazione ho provato una forte commozione... Ho visto la passione, i sogni di un uomo che ha superato le montagne del menefreghismo e della passività. La passione di chi da oltre quarant’anni con tenacia non smette di credere ai propri sogni. Dopo la premiazione, percorriamo, sottobraccio, il percorso che ci conduce alla macchina. Sono momenti belli, fatti di parole sentite e vere, dette da un uomo che deve essere esempio per noi giovani generazioni! Esempio di chi, riesce, con la forza delle idee e del cuore, a credere nelle proprie passioni e a vederle sempre realizzate così belle, colorate, e persino “sfogliabili”! È questo un valido motivo (tra i tanti) che mi lega a questo giornale, un giornale che ho amato, amo e che, come dico sempre, continuerò ad amare... Grazie direttore, fiero di poter dire “ io c’ero!”.

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ALFONSO MEROLA Alfonso Merola è nato a Caposele nel 1951. Ha conseguito il 1969 il diploma magistrale. Nel 1970 viene dichiarato vincitore di cattedra. Mel 1992 consegue la specializzazione all’insegnamento della lingua inglese. Per ben due volte è stato scelto dalla comunità di Caposele come Sindaco in un periodo difficile e delicato quale quello relativo alla ricostruzione. E’ stato vice presidente presso la Comunità Montana Alto e Medio Sele e consigliere di amministrazione prima dell’ente Acquedotto Pugliese e poi dell’ATO Calore. Ha scritto diversi saggi letterari e di politica, diverse poesie in dialetto e racconti che lui ama chiamare “Acquerelli Caposelesi”. E’ autore di ricerche storiche sul dialetto di Caposele, sui cognomi e sui nomi delle strade di Caposele. In collaborazione con Nicola Conforti ha scritto il libro “Caposele, una città di Sorgente’, che tuttora rimane una delle poche storie attualmente edite di Caposele. UNA VITA DEDICATA ALLA SCUOLA

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gni persona che va in pensione meriterebbe di essere ricordata sulle pagine di questo giornale: questa tappa, infatti, è il degno coronamento di una vita fatta di sacrifici, di sudori, insomma, di duro lavoro Apprendere che una persona va in pensione suscita istintivamente in ognuno di noi un sentimento di gratitudine e di ammirazione per quanto quella persona ha detto e fatto. Spesso si pensa alla pensione come ad una messa a riposo, ad uno stop di attività. Essa, di contro, è un trampolino di lancio per altri impegni che il maggior tempo libero permette di realizzare; è un consistente carnet di giorni da vivere in pienezza. Questa meta è stata raggiunta anche dal nostro amico e concittadino Alfonso Merola. Conosciamo la sua modestia e la sua particolare ritrosia ad essere “celebrato”, per cui ci limiteremo ad offrire ai lettori de “La Sorgente”, per punti salienti, il suo ben più corposo percorso umano e professionale. Ti chiediamo perdono perciò, caro Alfonso, se abbiamo deciso di onorarti così, svelando agli altri qualcosa della tua vita: ci muove nel far questo non solo una tenera amicizia, ma anche il desiderio di tanti caposelesi che si uniscono al nostro plauso per questa tua meta raggiunta. Conseguito nel 1969 il diploma magistrale presso l’ Istituto “Confalonieri” di Campagna (SA), Alfonso Merola partecipa, lo stesso anno, al concorso per titoli ed esami relativo all’insegnamento, superandolo brillantemente. Nel 1970 viene perciò dichiarato vincitore di cattedra ed il 1° ottobre 1971 assume servizio di ruolo soprannumerario a Buoninventre II; l’anno successivo a Bairano ed infine a Pasano II. Superato il biennio di prova, nel 1974 assume servizio a Caposele Gente di Caposele Oggi

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capoluogo, alternando brevi periodi di insegnamento a Materdomini. Nel 1975 sperimenta, in collaborazione col gruppo didattico di “Vittoria Arslan”, l’insegnamento della lingua inglese nella scuola elementare. Nell’anno 1992, poi, consegue la specializzazione all’insegnamento della lingua inglese, e per tre anni consecutivi insegna da specialista nelle classi di Caposele e di Materdomini. Successivamente, collabora in qualità di esperto ai corsi di aggiornamento riservati agli insegnanti di scuola elementare del Circolo didattico di Calabritto, relativi alla formazione dei docenti di lingua inglese. Questo, dunque, per sommi capi, il curriculum di Alfonso Merola come insegnante. Curriculum che tace, però, tutto l’impegno che il Nostro ha profuso nel porre in atto la sua attività di docenza; tutta la sua passione, lunga ben trentotto anni, di voler comunicare alle generazioni di bambini caposelesi l’amore e l’importanza della formazione, l’attaccamento ai valori, il tenero e mai assopito affetto verso la propria terra. La carriera di Alfonso come docente acquisterebbe la sua vera identità più profonda solo se fosse in qualche modo possibile mettere su carta la voce ed i volti delle centinaia e centinaia di bambini che hanno potuto averlo come maestro. La sua costante ricerca metodologica, il suo approccio didattico con gli alunni e la valorizzazione dei contenuti culturali inerenti la tradizione locale, hanno reso Alfonso Merola sempre apprezzato sia dagli alunni che dalle famiglie di questi. Alfonso Merola, inoltre, è stato scelto dalla comunità caposelese anche per importanti mandati istituzionali. Sindaco di Caposele in un periodo difficile e delicato quale quello relativo alla ricostruzione del nostro paese, distrutto dall’immane catastrofe del terremoto del 1980, in questa veste ha cercato sempre di curare gli interessi del bene comune, meritando la fiducia dei caposelesi i quali lo hanno rieletto una seconda volta come guida della comunità civile. Oltre a questo onorevole impegno istituzionale egli è stato anche vice presidente presso la Comunità Montana Alto e Medio Sele e consigliere di amministrazione prima all’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese e poi all’ATO Calore Irpino. Nonostante questi lodevoli impegni, Alfonso non ha mai dimenticato che prima di tutto era un docente, e difatti è sempre riuscito a conciliare la sua attività politica con la scuola, mostrando così che l’insegnamento, prima che un lavoro, è una vocazione che pulsa nel sangue. Dotato altresì di una grande cultura umanistica, ha scritto diversi saggi letterari e di politica, diverse poesie in dialetto caposelese e racconti che lui ama chiamare “acquerelli caposelesi”. È anche autore di ricerche storiche sui cognomi e sui nomi delle strade di Caposele. Sul nostro paese, poi, in collaborazione con Nicola Conforti, ha scritto il libro “Caposele, una città di sorgente”, che tuttora rimane l’unica storia attualmente edita di Caposele. Consci di tanto impegno profuso nella tua vita lavorativa e della tua preparazione culturale, la Redazione, caro Alfonso, gioisce dunque per il tuo meritato riposo, guardando però con particolare avidità al tuo tempo libero che da oggi in poi ti è dato di vivere; sicura che potrà,

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ora più che mai, contare sulla tua già lodevole disponibilità nel portare avanti il gravoso compito di offrire ai caposelesi pagine ricche di pennellate sulla propria identità. Fieri di essere, come appunto dici tu, cittadini di “una città di sorgente”. Auguri, dunque e, più che buon riposo, buon lavoro! DIALOGANDO CON... ALFONSO MEROLA, IL “MAESTRO-SINDACO” di Luigi Fungaroli

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crivere è sempre un momento che permette di capirsi meglio, un ascolto interiore che si trasforma in parole... Ho voluto alternare a un mio articolo un’ intervista, inizio di una una lunga serie di dialoghi che ha lo scopo di conoscersi meglio, di ricostruire Caposele tramite persone, volti, storie che l’hanno vista cambiare ed evolversi... Ad inaugurare questa mia nuova rubrica su questo giornale che amavo, amo e penso proprio che continuerò ad amare, è il nostro caro Alfonso Merola, il “maestro-sindaco” come potremmo definirlo. Perché ho scelto lui? Il tema di fondo di questa prima intervista è il tanto affrontato binomio “GIOVANI e POLITICA” e Alfonso sicuramente può rispondere a questi quesiti, essendo diventato sindaco a soli 34 anni. Persona che con la sua profonda cultura e grande attivismo politico, è sempre stato in prima linea nella vita della nostra comunità. DOMANDE IDENTIKIT Colore preferito : Blu. Film preferito: Un maledetto imbroglio (di Pietro Germi) Libro preferito: Ulisse (di James Joyce) Dolce o salato: salato Quale personaggio del passato ti piacerebbe incontrare: Martin Lutero. 1) D. Si sostiene che i giovani non abbiano nessun interesse per la Politica. Tu che sei stato sindaco a 34 anni e militante in un partito ancora diciottenne, assieme a tanti altri, mi sai dire a cosa sia riconducibile questo disinteresse? R. Stiamo parlando di due periodi ormai distanti anni luce, nel senso che allora l’appartenenza e la militanza ti rendeva orgoglioso del tuo partito di riferimento e dei suoi pilastri etici. Oggi la società è più complessa, i riferimenti etici sono congelati e quel che è più grave, i cosiddetti “nuovi” altri non sono che il peggio di tanti anni fa, un peggio non candidabile nemmeno a fare l’usciere. Non sono, quindi, i giovani a non credere nella Politica ma la Politica a non aprirsi ai giovani. Ecco perché i giovani oggi scaricano il loro potenziale di contestazione contro questi contenitori acritici che sono i partiti attuali. Apparentemente sconquassano, ma per ricostruire. Non avendo orme dignitose da seguire, perché cancellate dai gattopardi, si muovono in autonomia ed purtroppo a loro rischio e pericolo... ma qualcosa di buono prima o poi verrà fuori. 2) D. : Il tuo orientamento politico è ben chiaro: eri e sei di sinistra. Come si è Gente di Caposele Oggi

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trasformato negli anni questo senso di appartenenza? Inoltre, quanto c’è di sinistra nell’attuale Sinistra italiana? R. : Io ero e resto di sinistra, anche se non ti so dire che fine ha fatto la Sinistra. Per così dire, mi sento un apolide che non può sentirsi fedele a qualcosa che non esiste più. La Sinistra, moderata o radicale che sia, ha prodotto una specie di disastro ontologico, grazie a dirigenti di scarso spessore culturale. Abbiamo macellato la memoria storica senza approdare a nulla, in quanto incapaci di decrittare la realtà. Stiamo destrutturando la democrazia inseguendo un pensiero liberale fiacco. Infatti soffriamo di una malinconia per un socialismo deficiente che accetta di distruggere le conquiste sociali acquisite. Sarà sempre così? Io credo di no. Il vecchio Marx ci ricorda che non ci si può disfare del bisogno di sinistra anche se la Sinistra è cancellata. Come a dire che essa rinascerà quando ci libereremo di certo tribalismo ideologico, dell’opacità valoriale e della frantumazione culturale. Quando accadrà ? Questo non so dirtelo, ma accadrà. 3) D. Se potessi scegliere di rivivere una giornata del tuo passato che ti suscita un senso di soddisfazione quale sceglieresti di rivivere? Il momento della storica vittoria dove Caposele ti acclamava sindaco nel 1985 o quando vedesti leggere per la prima volta un tuo alunno? R. Non ho dubbi. Scelgo senz’altro il successo scolastico rispetto a quello politico. Sia ben inteso, sia la Scuola che un Comune sono due luoghi in cui ci si deve sentire al servizio di un progetto non autoreferenziale, ma il progetto educativo è qualcosa di straordinario. Innanzitutto ti cimenti con dei bambini che vedi crescere e maturare giorno dopo giorno nella speranza di corazzarli, sia costruendo saperi stabili, sia abituandoli ad esercitare con convinzione i diritti ed i doveri di cittadinanza. Il mio giorno più bello? Quando ho sentito leggere una bambina su cui molti non scommettevano un centesimo. E la bambina, sentendo certi responsi, aveva interiorizzato la sconfitta. Immaginarsi la sua gioia, quando dopo mesi di duro lavoro, si rese conto di cominciare a sillabare. Mi abbraccio’ e mi sorrise. C’è una soddisfazione analoga che può riservarti la Politica? 4 ) D. Sono in tanti ad apprezzare i tuoi scritti sempre profondi ed a tratti poetici. Quando hai compreso che scrivere poteva essere un tuo talento e chi o cosa ti ha spinto a non smettere? R. Ho riscoperto la scrittura quando ho cominciato ad apprezzare la solitudine. Ho letto da qualche parte: “A stare troppo tempo da soli, ci si innamora della libertà “ ... ed io aggiungerei della scrittura che ti fa compagnia. La scrittura per me ha qualcosa di magico perché ti guida ad intrecciare fantasia e realtà, finzione e

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sentimenti. Ti aiuta a riordinare idee, sensazioni ed emozione, insomma, a riprendere contatto con te stesso. È una terapia a ben pensarci. 5) D. Chi ti conosce sa che ami viaggiare molto e che sei uno dei tanti cittadini del mondo affascinato da Parigi. Che idea ti sei fatto dell’attentato terroristico del 13 novembre scorso? Siamo davvero davanti ad un attacco all’Europa e alla libertà? R. Il giovedì precedente l’attacco ero a Parigi, una metropoli calma e per niente consapevole di quello che stava per accadere. Io credo che tutti dobbiamo uscire da un certo torpore ed abituarci all’idea che la violenza post-moderna ha i suoi atti eroi e simbolici quasi da tragedia greca. In effetti l’attacco a Parigi, è l’attacco ad un simbolo, ad una città che ha metabolizzato libertà, laicità e tolleranza. Noi, però, facciamo un regalo inatteso ai terroristi, fregiandoli del titolo di islamici, perché gli riconosciamo il ruolo di controparte in un mondo dominato dalla Geopolitica del Caos. Non bisogna mai scagliarsi contro le religioni, altrimenti apriamo confitti nelle coscienze ed è proprio ciò che vogliono quei fanatici assassini e psicopatici. Per loro le religioni sono dei mezzi e non dei fini. Non serve perciò opporre violenza alla violenza,è più utile combatterli con l’intelligenza. In fondo essi sono l’AIDS e l’AIDS lo combatti meglio se lo isoli e se lo isoli, è più facile sconfiggerlo. 6) D. Insieme a Nicola Conforti, ma anche con i compianti maestro Cenzino Malanga ed ingegnere Daddino Monteverde ti sei spesso dedicato a riscoprire e a valorizzare Caposele con i tuoi scritti e le tue ricerche. Come ti immagini la Caposele di domani? R. Intanto, al di là dell’attuale congiuntura politica che è figlia di una crisi più generale in assenza di robusti modelli etici di riferimento, io vedo Caposele ancora vitale sia per la presenza di molti giovani, sia per la resistenza di tante associazioni di vario genere. Però, Caposele è ancora gelosamente abbarbicata ad un passato nostalgico da nobiltà decaduta che la isola dal territorio circostante. Per così dire, è attraversata da una recalcitranza ad aprirsi alle novità e a far tesoro del positivo potenziale di contestazione che è il sale della democrazia. Eppure io sono sicuro che saranno i nostri giovani, che oggi la crisi espelle da Caposele, a dare prima o poi la risposta giusta. Quando ritorneranno e se ritorneranno, contaminati dal mondo, porteranno aria nuova, capace di spazzare via incertezze, doppiogiochismi, contraddizioni ed inerzia che allo stato attuale ci dominano e ci condizionano. 7) D. Se dovessi regalare ad un giovane un libro, quale sceglieresti? R. Sceglierei IL GIOVANE HOLDEN di Jerome David Salinger. È un romanzo di formazione che dovrebbero leggere innanzitutto i post-sessantottini, il quale scandaglia la solitudine, il cinismo, l’ipocrisia e le tante altre difficoltà con cui un giovane è costretto a confrontarsi. Gente di Caposele Oggi

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8) D. Il Natale è alle porte. Cosa ti auguri e cosa ci auguri? R. Innanzitutto mi auguro di vivere per un tempo sufficiente a compensare quello perduto appresso a cose certamente non vili, ma nemmeno esaltanti. Ad esempio da qualche anno sono ritornato alla lettura riflessiva per leggere e scrutare il mondo da tutte le angolature, accantonando il mio punto di vista. A tutti gli altri, invece, auguro lunga vita ed ovviamente un lavoro sicuro e stabile, perché senza di essi i sogni restano sogni e le prospettive senza vie d’uscita a lungo andare producono disastri I RINTOCCHI DEL TEMPO Prefazione di Nicola Conforti “I rintocchi del tempo” è una raccolta di racconti, “nati per caso”, nel senso che è il frutto di una lunga e costante collaborazione di Alfonso Merola alla rivista caposelese de “La Sorgente”. Questi racconti, fedeli alla linea editoriale del Direttore del giornale, non si allontanano di un solo centimetro dalla terra natia, nell’intento di catturare immagini, eventi, tradizioni e quant’altro hanno modellato nel tempo la piccola comunità locale. L’autore, in fondo, registrando microstorie, ha cercato di percorrere, ora con sfumature autobiografiche, ora con riflessioni storico-sociali, un passato che cattura vizi e virtù di un paese dell’Appennino Meridionale aperto alle contaminazioni positive dell’esterno ma, nello stesso tempo, geloso della sua “Seletudine”. Apparentemente non traspare nei racconti una fiducia nel domani ma, a ben rileggerli, si coglie un messaggio tutt’altro che negativo: “Non c’è speranza nel futuro, se il presente non si fa carico di un passato in cui errori e lanci di riscatto hanno un valore pedagogico”. Dal libro “I rintocchi del tempo” riportiamo il racconto che dà il titolo al libro stesso. “Mannaggia chi lu sona matutinu li pozza carè ‘ncapu lu battagliu”

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ra il rintocco solido e cadenzato del bronzo del “Mattutino” che risvegliava alle prime luci dell’alba Caposele. In fondo un invito ad apprestarsi per dare inizio alla giornata lavorativa. Ancor buio pesto d‘inverno s‘accendevano a catena lumi qua e là, a mo’ di presepe. Il forno, già in piena attività, in attesa di massaie per la prima cottura; battere di porte e cigolii di chiavistelli. E lungo la strada, lastricata di pietre, i colpi secchi e ritmati degli zoccoli degli asini portati alla briglia dai contadini che chiacchieravano a bassa voce, l’ abbaiare di qualche cane che spingeva la capra dietro il padrone.

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Mattutino, segno sacro e civile in un tempo stesso. C’era già chi aspettava i rintocchi della prima messa: persone anziane e devote, già pronte a sentire il Verbo alle sei del mattino. V’era qualcosa di impietoso a trascinare nella gelida Chiesa di S. Lorenzo bambini ancora sonnolenti o infreddoliti, affdati in custodia dai genitori già impegnati nel lavoro. Non accorrere alle campane della seconda messa, alle ore sette, se era un oltraggio al Signore , quantomeno era un sentirsi incapaci di rinunzie e di sacrifici. La seconda messa, quella della Congrega, per lo più era riservata a “famiglie d’artisti’ “ commercianti e artigiani che, frettolosamente, consumavano quell’ora prima d’aprire i battenti delle loro botteghe. Era pure l’occasione, complici di sguardi fugaci tra giovanette e i loro spasimanti. Non era un caso che quell’ ora era scelta spesso per la fuga degli innamorati, cui seguiva il matrimonio riparatore. Un terzo dell’anno, registrano le cronache, le mattinate, e non solo le mattinate, erano rattristate dai lugubri suoni dell’ Agonia: era l’ appello cristiano dell’ Arciprete rivolto ai fedeli pietosi ad accorrere in chiesa per portare il viatico; qualcuno stava morendo e consuetudine voleva che ci si dovesse recare per amministrare il Sacramento dell‘Estrema Unzione”. Era un momento corale per salutare mestamente il trapasso. Più tardi le campane, che spandevano il loro suono in lontananza, avrebbero rivelato a chi ascoltava le condizioni sociali del defunto i rintocchi brevi o prolungati, a seconda dell’obolo versato dai parenti del deceduto. Era il penultimo segno, seppure cristiano, per ricordare la divisione in questo mondo tra benestanti ed indigenti. “L’ora di scuola” era, poi inconfondibile: era lo scampanìo solito delle messe susseguito da pulsazioni più rapide e acute. Le strade si inondavano di bambini e ragazzi in corsa verso il Castello; qua e là bambini s’attardavano a fare gli ultimi compiti sui muretti e parapetti che fungevano da leggii. Alle nove le strade diventavano un deserto. Alle undici suonava “il Segno”, una sorta di preavviso del mezzodì. I rintocchi di Mezzogiorno, eguali a quelli del “Mattutino”, erano forse i più attesi: essi segnavano una breve pausa pei contadini impegnati nei campi, invitavano a tavola i caposelesi che lavoravano in paese e rammentavano a scolari e insegnanti che entro un’ ora sarebbero fnite le lezioni. Di tanto in tanto al Piano si scorgeva qualche alunno venuto a controllare l’orario e a stamparsi nella mente i numeri indicati dalle sfere dell’ orologio comunale per poi correre in classe e riferire all’insegnante ansiosa. Le ore tredici non erano battute se non dalla campanella della scuola, puntualmente azionata’ da Franciscu il campanaro, quasi a significare la scarsa rilevanza esterna di quel momento in cui gli scolari in ordine sparso e senza trepidazione correvano a casa ove li attendeva un piatto e conservato al tepore della’ ‘fornacella”, sottratto alla “buffetta” del mezzogiorno. ‘’A Ventun’ ora la panza fa rumore” dicevano i contadini sentendo i rintocchi Gente di Caposele Oggi

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delle quindici per ricordare a se stessi che al massimo avrebbero lavorato ancora alcune ore e poi sarebbero tornati a casa a mangiare. A ‘ventun’ ora” le donne si affrettavano a ritornare dalla campagna: non era un privilegio per loro, ma l’obbligo imperioso di preparare la cena per “gli uomini”. Ventun’ ora perché mai se poi erano solo le quindici? Un errore antico, lì a testimoniare che il calcolo italico del tempo mediante la meridiana si effettuava dalla sola alba al tramonto e a ricordare che la notte è senza tempo e senza confini. Ventun’ ora! Antico modo di dire, che costò cara ad un contadino locale, accusato di infanticidio per un alibi che non reggeva, a dire di un maresciallo piemontese, il quale evidentemente per le sue ascendenze francesi sapeva che il il giorno era di ventiquattro ore e che puntualmente non si curò di capire che Nord e Sud erano divisi pure sul conteggio “ popolare” del tempo. Una campanella dal suono insistente, poco dopo le quindici, chiamava ragazzi e ragazze alla “Cronella”. Era l’ora del Catechismo e della preparazione alla Comunione, quasi un rito. A quell’ ora usciva sul sagrato il Prete per accogliere in portamento solenne i comunicandi che si rincorrevano qua e là per il Piano e il Piazzino. Si sedevano composti ai primi banchi della navata centrale a discutere di “cose di Dio” e a rispondere meccanicamente a domande di fede. Un battito di mani atteso scioglieva, poi l’assemblea e tutti in piazza a consumare in giochi le ultime ore del giorno. Là, sul sagrato, sostavano già donne anziane in attesa dell’ “Ora di Chiesa” che di lì a poco sarebbe suonata. Memoria antica, medioevale, dell’ ora collettiva di preghiera che i frati antoniani dedicavano al Santo in quel luogo ch’era antica sede di convento; pratica religiosa trasmessa in eredità alla chiesa di S. Lorenzo. Erano lunghe, cantilenanti litanie recitate in un latino storpiato da un italiano incerto; una sorta di summa cristiana concentrata nel tempo di un’ora, sotto la distratta vigilanza del prete intento a seguire con lo sguardo il lavoro del sagrestano che si trascinava tra i colonnati a rimuovere la polvere e a riordinare gli altarini gentilizi. Il buio che iniziava a piombare dai finestroni, dando vigore alla foca luce delle candele sull’ altare maggiore, segnava l’improvvisa interruzione delle preghiere: era, a quel punto, sufficiente che la madre superiora delle suore si levasse dall’inginocchiatoio perché tutte le presenti, dopo un convinto segno di croce, si riversassero nella navata centrale per guadagnare l’uscita. Le strade, frattanto, si ripopolavano prima che giungesse il buio; persone affollavano i negozi e nelle cantine iniziava a levarsi il fumo salato del baccalà fritto e l’odore aspro del vino aglianico in attesa degli abituali avventori notturni. Il caffè Romualdo accoglieva l’élite del tempo: lì, discussioni interminabili fra una partita e l‘altra. A quell’ ora aveva inizio una cadenzata processione di contadini che ritornavano dalle campagne col loro pesante fardello. Asini caricati all’inverosimile e anzia-

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ni che si lasciavano trascinare attaccati con le mani alla coda delle loro giumente lungo la salita lastricata di Via Imbriani che scintillava, talvolta, per lo scivolare degli zoccoli ferrati. Il rintocco delle ventiquattro ore coglieva questa gente in mezzo alla strada e in questi locali abituali, invitandoli ad un rapido ritorno a casa. Alle sei rintoccava “Ventiquattore”, a rammentare che il giorno e la luce s’erano spenti e che a breve la porta di casa andava sbarrata. Invero la vita continuava nell’intimità della famiglia e della casa, accanto alla tavola e al fuoco. Si riassumevano allora il senso e il valore di una giornata, i fatti accaduti e le cose da farsi nel giorno a venire. “L’ora di notte” sarebbe stata battuta di lì a poco: e allora tutti a letto, innanzitutto i bambini. L’ora r’ nott’ l’angiulu a la porta Maria a la casa lu bruttu ess ‘ e lu bbuonu tras ‘! Un tempo scandito dal bronzo sacro al quale la società civile s’uniformava e che, talvolta, contrastava. Uno strumento formidabile che dava il senso cronologico, giusto per quanto serviva all’uomo umile, goccia per goccia, a dettare un ritmo di vita fatta di fatica, sudore e preghiera. In fondo l’orologio era privilegio di pochi: serviva alle notti insonni di chi si consumava nell’ozio e confondeva la notte e il giorno, usando la notte per capitalizzare il giorno! (Nun dorm’ la nott’ p‘ bb‘rè cumm’à dd’àfott’ lu iuornu). Tempo scandito da altri, il giorno; tempo indistinto e negato, la notte. In ogni caso tempo imposto per regnare sul popolo. La divisione del tempo-giorno era funzionale e congeniale ad un concetto di lavoro programmato per la massima produttività, per molti aspetti non differente da quell’ orario legale che puntualmente ci propinano durante la stagione estiva.

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CLAUDIO RUSSOMANNO di Salvatore Conforti

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on decreto del Capo del Servizio IV datato primo agosto 2007, viene disposto il collocamento a riposo dell’ispettore superiore scelto RUSSOMANNO Claudio, per sopraggiunti limiti di età, a decorrere dal 12 marzo 2008. A decorrere dal giorno successivo alla cessazione dal servizio l’ispettore superiore scelto RUSSOMANNO Claudio, consegue, a titolo onorifico, la qualifica di commissario forestale del ruolo direttivo speciale del Corpo forestale dello Stato. Il Gran Cancelliere del Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, in data 10/06/1992 con decreto n. 7626, conferiva al sottufficiale Russomanno la “Croce con spade dell’Ordine al merito Melitense”. Ci complimentiamo con il nostro illustre concittadino per la brillante carriera e per le numerose onorificenze conquistate e gli auguriamo, quale giusta ricompensa per il lavoro svolto, un lungo periodo di meritato riposo.

VINCENZO CASALE un grande talento da La Sorgente n.78

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n grande talento e un grande sogno nel cassetto: diventare un tennista grintoso e determinato come il suo idolo Nadal, il numero 1 del tennis mondiale. Vincenzo Casale, 10 anni da poco compiuti, un concentrato di determinazione, forza d’animo e amore per il tennis. Vincenzo ha cominciato a giocare a tennis a 7 anni, un po’ per diletto, un po’ spinto dall’interesse per uno sport che il suo papà ha praticato ed amato da giovane e che “da buona tradizione” ha trasmesso al figlio; oggi è tesserato al “TC S. Caterina “ di Avellino dove si allena con i maestri Leone e Nazzaro ma nella sua favola c’è l’impegno sapiente dell’istruttore Mascolini Pio di Grottaminarda che ha dedicato al piccolo “sognatore” tempo ed esperienza facendogli raggiungere, in pochi anni, risultati sorprendenti ed inattesi. Questa stagione tennistica, vissuta intensamente e con determinazione, ha visto Vincenzo alzare al cielo la sua prima coppa da n° 1 nel Torneo Nazionale “TROFEO TOPOLINO cat. Under 10 maschile”, tenutosi a Salerno, sbaragliando i concorrenti di pari età provenienti da tutta Italia. Non solo, il piccolo tennista di Caposele ha contribuito a far aggiudicare un meritato secondo posto alla squadra dell’ Avellino, per la prima volta nella storia, 52

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nella finale nella Coppa delle Province della Campania 2009, disputata contro un agguerrito Napoli. Numerose sono state le sue partecipazioni a tornei nazionali e internazionali che lo hanno visto raggiungere sempre ottimi traguardi permettendogli di trionfare nei primi posti dei tabelloni e di conquistare stabilmente i gradini più alti del Ranking Regionale maschile under 10.

ANNA RITA DE VITA Anna Rita De Vita ha conseguito a Nizza il “Baccalaureat de l’inseignement du second grade” con indirizzo di Dottore Commercialista che tuttora svolge. In collaborazione con Linda Candela, Pietro Masi e Vitina Maioriello ha scritto il libro ”Comunicare: dialogo cittadino-istituzione”, curando in particolare la parte riguardante i “Principi e strumenti della comunicazione nella Pubblica Amministrazione”. Il libro è stato dato alla stampa il 2009. Di seguito riportiamo la presentazione dell’on. Gianfranco Valiante.

Comunicare: dialogo cittadino-istituzione Presentazione: On. Gianfranco Valiante

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a crescita e la diffusione del benessere nel corso degli ultimi trent’anni, l’aumento del livello di istruzione ed informazione, l’esercizio della libertà spinto fino alla licenza nel comportamento sociale e nell’ambito dei consumi privati, sono i tre fattori che hanno modificato profondamente la cultura degli italiani ed in modo forse altrettanto significativo anche il loro ethos, cioè la cultura intesa come insieme di valori, aspirazioni e norme di comportamento. Infatti, il miglioramento del benessere economico e del tenore di vita è solo l’aspetto macroscopico e superficiale di processi di mutamento intervenuti con i termini di modernizzazione e scolarizzazione. Processi che presentano aspetti positivi e negativi che sono stati sottolineati con professionalità di contenuto. Il lavoro è stato condotto nella convinzione che l’adozione di strumenti quali: la Carta dei servizi, la comunicazione, il marketing ed infine TU.R.P., possono essere delle colonne portanti per sopperire ad un’esigenza sempre più impellente per tutte le organizzazioni e tra queste anche per le pubbliche amministrazioni. Tutto può avere inizio con una ridifinizione del ruolo del cittadino ed una riconfigurazione del rapporto con la Pubblica Amministrazione, ad una organizzazione gestionale degli apparati istituzionali che contribuiscono in maniera significativa allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.Inoltre è utile fare alcuni cenni al dibattito dottrinale ed ai contributi giurisprudenziali relativi alla qualificazione del diritto alla salute in relazione sia alle disposizioni con Gente di Caposele Oggi

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le quali è stato disciplinato nel tempo il rapporto fra servizio sanitario e cittadino utente dello stesso e qualificata la posizione soggettiva di quest’ultimo all’interno del servizio stesso. Concludo sottolineando che il problema della qualificazione del diritto alla salute si pone in relazione alle disposizioni contenute nell’art. 32 della Costituzione, ove si stabilisce che: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dalla persona umana”.

ELISEO DAMIANO Un cittadino che fa onore a Caposele di Alfonso Merola Il nostro amico e concittadino Eliseo Damiano dal 14 settembre 2013 riveste il prestigioso ruolo di responsabile della Polizia Giudiziaria presso la Procura della Repubblica di Avellino. Un altro nostro concittadino che dà lustro a Caposele. Auguri della Redazione de La Sorgente

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’ sempre una gran soddisfazione poter riempire le pagine del nostro giornale con notizie positive... Lo scorso 29.05.2008 nel salone di rappresentanza della Prefettura, alla presenza del Prefetto, dott. Ennio Blasco è stata celebrata un’importante cerimonia per la consegna delle onorificenze dell’Ordine “al merito della Repubblica Italiana” a cittadini dei comuni della provincia di Avellino. Insieme ad altri 26 “irpini illustri”, per il Comune di Caposele, è stato insignito del titolo di UFFICIALE della Repubblica, con decreto del Presidente della Repubblica, il nostro concittadino, il Luogotenente dott. Eliseo Damiano, che aggiunge questo ulteriore traguardo all’onorificenza di CAVALIERE della Repubblica già ricevuta qualche anno fa. Il suo lavoro in seno all’Arma dei Carabinieri lo ha reso, da sempre, presente e socialmente impegnato in termini di riferimento positivo, di esempio costruttivo, di merito, di attaccamento e costante attenzione ai problemi del proprio territorio e del proprio paese, un impegno il suo, sempre a disposizione della nostra comunità che speriamo possa essere d’esempio in modo particolare per le giovani generazioni. A lui e a tutta la sua famiglia, vanno i nostri più sinceri e sentiti complimenti oltre all’augurio di un futuro sempre pieno di maggiori successi che contribuiscano a dare lustro al nostro paese. 54

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Premio Caposele 2014 di Concetta Mattia

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ra da qualche edizione che avevamo dovuto rinunciare all’assegnazione del Premio Caposele, e dico subito a nome di tutta la Pro Loco Caposele, che non è stato certo per mancanza di personalità cittadine da premiare, ma per una serie di impedimenti logistici riguardanti impegni lavorativi o familiari degli interessati. Quest’anno però, lo scorso 21 agosto, in pieno palinsesto estivo, siamo riusciti a ripristinare questo appuntamento al quale abbiamo sempre tenuto molto, soprattutto per le motivazioni legate alla sua istituzione, trattandosi di un premio destinato (cito testualmente dalle motivazioni) “ ai Caposelesi che si affermano positivamente nella società, affinché contribuiscano alla valorizzazione del territorio e al miglioramento della qualità della vita nel nostro paese, mantenendo viva la memoria delle tradizioni locali, cercando contemporaneamente spunti per la loro evoluzione futura”. E così, in una sala gremita da parenti e amici e alla presenza del sindaco di Caposele (suo amico e compagno di scuola) abbiamo insignito per il 2014, il Dott. Eliseo Damiano, Luogotenente dei Carabinieri, responsabile della Sezione di Polizia Giudiziaria Carabinieri della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Avellino, nostro stimato concittadino che, da sempre, ha dimostrato interesse, attaccamento e dedizione verso le iniziative di valorizzazione sociale, culturale e turistica del nostro territorio. Infatti, nei diversi interventi di testimonianza che si sono succeduti, hanno evidenziato quanto sia affezionato alla sua terra e quanto abbia sempre messo a disposizione della collettività la sua esperienza e le sue conoscenze cercando di costruire nuove opportunità con l’obiettivo ultimo di migliorare la qualità della vita nel suo/nostro paese, e la concreta collaborazione per l’istallazione del Museo delle macchine di Leonardo a Caposele ne sono solo l’esempio più recente. Anche dalle pagine de “La Sorgente” ci teniamo pertanto a ringraziare nuovamente Eliseo, augurandogli sempre maggiori successi, con la nostra speranza dichiarata, stampata anche sulla targa ricordo del premio, che con il suo esempio e la sua collaborazione, si possa sensibilizzare la nostra Comunità a fare sempre meglio, a fare di più, a fare insieme.

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ALFONSO CERES Una Storia Italiana di un’altra Italia di Gerardo Ceres

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er fondamento costituzionale si è affermato che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Tuttavia se osserviamo l’evoluzione sociale e culturale degli ultimi venti anni potremmo verosimilmente sostenere che viviamo, invece, in una Repubblica televisiva fondata sull’aspirazione a divenire velina, letterina, famoso sull’isola o nel salotto del grande fratello. Con un denominatore comune per tutti: l’ignoranza più raccapricciante e la frenesia raggiungere il guadagno e il successo facile. Questi sono i modelli cui guardano gran parte dei giovani. Sulle ragioni ci sarebbe da discutere e riflettere per lungo tempo. Ma ragionando con l’accetta, possiamo convenire sul fatto che il lavoro, o meglio l’etica del lavoro (che è fatica, sudore, impegno, ma anche emancipazione dal bisogno), hanno perduto valore nella nostra società. Pensavo a questo il giorno in cui mi è stata comunicata la notizia che, con Decreto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e su proposta della sua storica azienda, mio fratello, Alfonso Ceres, era stato insignito della Stella di Maestro del lavoro. In pochi secondi ho ripercorso la sua storia professionale e lavorativa, tutta trascorsa all’interno del gruppo Fiat. Una storia a mio vedere (spogliandomi del sentimento fraterno, che pure provo in modo forte) esemplare e paradigmatica di una certa cultura di valori. Nella seconda metà degli anni sessanta, appena conclusa la scuola di avviamento professionale, egli giunge a Torino, ancora ragazzo. Torino aveva bisogno come non mai di braccia operaie. Viene assunto in una piccola fabbrica, guidata da un generoso pugliese, emigrato nell’immediato dopo guerra, che ben presto riconosce la buona volontà di Alfonso e comincia a volergli bene. Al punto che nel giro di uno-due anni gli accorda la possibilità di far salire, uno dopo l’altro, anche gli altri due fratelli e nostro padre. Tutti e quattro dipendenti dell’Officina Meccanica di Domenico Rosati, che produceva semi lavorati per la Fiat. Poi fu lo stesso Cavalier Rosati, che nel frattempo mise loro a disposizione una bella casa, di sua proprietà, in modo che potessimo salire anche mia madre ed io, a consigliare loro di cogliere le opportunità di lavorare nelle aziende del Gruppo guidato da Giovanni Agnelli. Mio padre invece rimase a lavorare con lui, per tutti gli anni a venire, fino al definitivo ritorno a Caposele. Alfonso prese a lavorare presso la stabilimento della Fiat Centro (Antonio il suo personale rapporto di fidelizzazione con la società che non ha più lasciato fno al pensionamento. Inizia un legame con tutto ciò che ha a che fare, direttamente o indirettamente, con la Fiat. Potremmo dire un legame di 56

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vero amore, complice la sua juventitudine (non a caso da ragazzo a Caposele era stato soprannominato Sivori, anche per una particolare attitudine all’emulazione del dribbling dell’oriundo argentino). Nei primi anni parte delle sue vacanze estive le trascorreva a Villar Perosa, seguendo il ritiro precampionato della Vecchia Signora, divenendo amico di diversi giocatori come Furino, Viola, Causio, Anastasi, Haller. Riuscì persino ad entrare come socio dell’esclusivo club “Juventus primo amore”. Ma questo è solo un corollario pittoresco. Al centro della storia rimane l’operaio che aspira a qualificarsi sempre di più, mostrando diligenza ed impegno senza pari. Come vedremo successivamente, senza mai assentarsi. Senza mai aderire, a differenza di Mario ed Antonio, né al sindacato né ad uno sciopero. Dunque, solo e soltanto l’azienda, la Juve e poi venne il tempo di metter anche su famiglia. Questa è stata da allora la triangolazione perfetta intorno a cui ha ruotato sempre l’interesse preminente, se non proprio esclusivo, di Alfonso. Ne deve essere stato di certo consapevole quel dirigente aziendale incaricato, quando si trattò di definire gli assetti organizzativi del nuovo stabilimento Iveco di Grottaminarda, di selezionare il personale per la fase di avvio. Alfonso fu energicamente forzato ad accettare il trasferimento, certo perché avellinese di provenienza ma anche perché rispondeva al modello organizzativo che lì si doveva affermare. Gli sarebbe mancata la Juve e il vecchio stadio comunale. Ma pazienza. Era il 1979. Sarebbe passato poco più di un anno e Caposele e l’irpinia subivano la tragedia del terremoto. Casa distrutta, le tende dei primi giorni, le roulotte, poi il prefabbricato, tre bimbe piccole. Nonostante ciò, tutte le mattine, (sabato compreso, con pioggia, neve, intemperie di tutti i generi) Alfonso non ha mai fatto mancare il suo impegno e il suo apporto all’azienda, maturando una progressione professionale nel delicato reparto per il controllo della qualità, dive-nendone col tempo il responsabile. Si è accennato alle limitatissime assenze dal lavoro che ne delineano una certa propensione allo stakanovismo. Non vorrò eccedere nel dato numerico, ma credo che in 40 anni circa di lavoro in Fiat non deve aver superato i 30 giorni di assenza per malattia (comprensivi di una degenza per infortunio non sul lavoro). E deve averlo fatto con un tatto che ne ha escluso la superbia, se è vero che le testimonianze dei suoi colleghi e sottoposti sono state sempre all’insegna del rispetto e dell’amicizia. Per quanto siamo di diversa generazione e retroterra culturale, esperienze lavorative differenti (ma alla fine non contrapposte), ho provato fierezza ad avere un fratello con una storia come quella che Alfonso può raccontare. Una fierezza che ho letto negli occhi della moglie Dina, delle figlie Teresa Marì, Isabella, Francesca e l’ultimogenito Alessandro. In quegli occhi c’era la consapevolezza che tutti i traguardi raggiunti nello studio, e poi nel lavoro, sono stati possibili anche grazie ai sacrifici del padre. Perché questo è il senso di una storia di lavoro come quella che sopra ho cercato di sintetizzare a modo mio. Il sacrificio e l’abnegazione, l’idea che attraverso Gente di Caposele Oggi

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il lavoro si possano raggiungere livelli di gratificazione professionale, di benessere economico (l’emancipazione dal bisogno che fa di un uomo un cittadino libero) e la possibilità di assicurare un futuro di serenità per sé ma soprattutto per i propri figli. I quali lo hanno voluto ringraziare preparandogli una sorpresa per lui inattesa. Dopo la cerimonia di premiazione, avvenuta a Napoli alla presenza del sottosegretario al Lavoro, del nuovo Presidente della Giunta Regionale, del Prefetto Pansa e di tutte le autorità militari operanti nella nostra regione, gli hanno organizzato una festa alla presenza di familiari, amici più stretti e di tanti colleghi di lavoro.Non si è voluto fare in questo modo nessuna operazione agiografica o ruffiana. Non ce ne sarebbe stato motivo. Abbiamo detto che la storia di Alfonso Ceres dovrebbe essere, in qualche modo, paradigmatica per una cultura del lavoro che oggi in Italia è andata smarrendosi. Ce ne sono stati tanti e tanti continuano ad essercene in Italia di figure così. Ma oggi il modello culturale imposto soprattutto dalla televisione è di ben altro profilo.Chi me lo fa fare a studiare o a lavorare! Meglio passare le giornate a fare casting per trasmissioni televisive e spettacoli di dubbia qualità. Un secondo di notorietà, almeno, poi se si la botta di… fortuna. Questi sono gli eroi (incapaci di gesta, quindi di cartapesta) che ci vengono propinati come modello.La storia di Alfonso Ceres (maestro del lavoro) e di tanti come lui è, fortunatamente, agli antipodi. Per questo motivo, solo per questo motivo, l’ho voluta raccontare ai nostri amici.

ALFONSO ILARIA Ho 60 anni e sono sposato con Giuseppina Gonnella. Sono emigrato a San Remo nel lontano 1971 Esercito a San Remo il mestiere di muratore piastrellista. Sono molto legato a Caposele dove mi reco almeno due volte all’anno oltre che per vedere i miei, ma anche perchè attratto dalle bellezze del nostro Paese. Mio figlio è nato a Caposele; all’età di 7 anni ha lasciato anche lui il paese natio per approdare a San Remo. Avevo 17 anni quando emigrai in Svizzera dove vi restai per tre anni. Rientrai a Caposele per ragioni di leva militare e dopo un anno circa emigrai definitivamente a San Remo, dove ho comprato casa e dove mi sono perfettamente inserito. Nutro da anni un gran desiderio: poter fare una rimpatriata con tutti i miei compagni di scuola di cui ricordoin particolare il dott. Salvatore Russomanno che saluto caramente. Mi auguro che gli altri compagni si facciano sentire per poter realizzare con loro questo iacevole incontro.

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MARIO ALBANO Vive al Nord da quando aveva 3 anni. E’ stato una promessa del calcio: purtroppo un brutto incidente ha stroncato sul nascere i suoi sogni di calciatore. Non conosce Caposele, ma desidera tornarci per vedere le cose belle del paese natio.

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i chiamo Mario Albano e sono nato a Caposele il 2 luglio 1944. Avevo tre anni quando mio padre Michele, scalpellino, primo di undici figli, ci trasferì al Nord vicino a San Remo. Purtroppo non ho mai visto il mio paese. Qualche giorno fa un mio amico di Calabritto mi ha regalato il giornale “La Sorgente”. Con le lacrime agli occhi per la commozione ho visto, unitamente alle mie sorelle Carmelina e Alfonsina, tante cose del mio Paese. La mia vita è stata molto dura: perdetti mio padre che aveva solo 52 anni. A otto anni incominciai a lavorare, a tredici anni ero già una promessa del calcio ed a 15 anni approdai nella giovanile del Milan. Però, quando a 18 anni dovevo debuttare nella prima squadra, mi ruppi tibia e perone più la caviglia. Si infrangeva così il mio sogno di calciatore. Dopo un anno ripresi a giocare in serie C1 con la Sanremese. Successivamente ho fatto l’allenatore fino al 2004 vincendo il campionato ligure regionale battendo Genoa e Sampdoria. Adesso, all’età di 67 anni sono nel direttivo tecnico in C2. E’ con vero piacere che ho visto la foto dei ragazzi dell’Olimpia Allievi. Io ho avuto una ditta di Marmi di arte funeraria che ho dovuto cedere per ragioni di salute mia e di mia moglie. Ma per grazia di Dio sono ancora in vita e, se ne avrò la forza, in primavera verrò insieme a mio figlio, scienziato e fisico nucleare in America, a vedere il paese dove sono nato.… Adesso termino questi pochi righi inviandovi un po’ di foto del mio calcio con gli auguri per i migliori traguardi e vittorie per tutti i giocatori caposelesi. Vi invierò pure 10 palloni biancocelesti della Sanremese con la foto di C2.

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ono Michele Russo “Lu scigliatu”. Risiedo da molti anni a Limone sul Garda. Qui mi occupo di trasporti (noleggio auto con conducente), Auto blu per VIP e turisti. La Tour- Garda- Service di cui faccio parte, nasce da un’unione di imprese di trasporto pubblico. Le quali, dopo anni di servizio hanno capito la forza di un’ unione di intendi e di mezzi distribuiti su tutto il territorio del Garda Trentino-Bresciano e Veronese, legando così Lombardia, Veneto e Trentino con lo scopo di offrire all’utente una tempestività e qualità di servizio. Disponiamo di autisti capaci e preparati: ognuno di loro proviene dal settore di trasporti professionali, dotati di patenti professionali e superiori e, con serietà e competenza, sono in grado di offrire un viaggio nel massimo confort e sicurezza. Gradirei che vi ricordaste che sono ancora un Caposelese. Vi mando i miei saluti da un posto meraviglioso e cioè dal “Lago di Garda”. Gente di Caposele Oggi

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MICHELE CERES Note biografiche Docente di laboratorio di chimica e successivamente di materie letterarie negli istituti professionali e tecnici. È in pensione dal 2006. Pubblicista non professionale collabora con testate giornalistiche locali e provinciali. Autore di saggi storici, ha pubblicato: Il Sud, un problema aperto, di cui è coautore; La donna nella storia (domi mansit, domum servavit, lanam fecit); Il re è morto, viva il re (il Sud dai Borbone ai Savoia); La notte del Risorgimento (cause e sviluppo del brigantaggio postunitario); Breve storia della scuola italiana; Dalla neviera al frigorifero (viaggio negli anni del dopoguerra e del miracolo economico); Le vie dell’acqua (i grandi trasferimenti idrici dell’Appennino Meridionale); Viaggio nell’Irpinia del terremoto e dei nostri giorni (il dramma, i pregiudizi, la rinascita). Nel 2011 ha partecipato al concorso letterario bandito dalla rivista “Silarus” con il saggio L’unità di’Italia e i pregiudizi antimeridionali, classificandosi al primo posto ex aequo. Ha partecipato sin dagli anni giovanili alla vita politica locale e provinciale nelle vesti di segretario politico della sezione di Caposele e di componente del Comitato Provinciale di Avellino della Democrazia Cristiana, caratterizzandosi per la tendenza al dialogo e alla collaborazione con le altre formazioni politiche locali con l’obiettivo di perseguire interessi comuni; obiettivo che si è concretizzato nella istituzione del locale liceo scientifico e nel finanziamento di opere pubbliche. Eletto due volte consigliere comunale, ha rivestito la carica di vicesindaco di Caposele dal 1980 al 1985 e di assessore presso le Comunità Montane Alto e medio Sele di Oliveto Citra e Terminio Cervialto di Montella. Dal 1987 al 1991 ha rivolto i suoi interessi alla politica sanitaria come componente del Comitato di Gestione della USL n. 2 di Sant’Angelo dei Lombardi. Attualmente si dedica alla promozione di iniziative di carattere culturale, organizzando convegni, presentazione di libri e manifestazioni che mirano alla formazione dei nostri giovani e alla crescita della nostra Terra. ci piace mettere in risalto, perché particolarmente significativi, rispettivamente 1. La premiazione al concorso letterario 2. la prefazione di Giuseppe Acone del libro “La donna nella storia” 3. la presentazione di Ivana Picariello del libro “Il Sud un problema aperto” Michele Ceres Nella sala consiliare del Comune di Battipaglia, il 26 giugno scorso si è proceduto, nel corso della cerimonia di premiazione della XLIII edizione del premio nazionale “Sìlarus”, alla consegna delle medaglie d’oro ai primi classificati. Sìlarus

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è una rivista ideata e condotta dal poeta ed umanista Italo Rocco e si prefigge di far conoscere in campo nazionale ed internazionale artisti, poeti e scrittori emergenti. Abbiamo il piacere di annunciare che il primo premio, per la saggistica, è stato assegnato ex aequo al prof. Michele Ceres con il saggio “L’antimeridionalismo, una questione da approfondire”.. Di seguito riportiamo la motivazione della premiazione: SEZIONE SAGGISTICA: 1° premio assegnato a Michele Ceres “L’Unità e i pregiudizi antimeridionali “ Motivazione del premio: “Michele Ceres con una lucida analisi critica offre un quadro completo e documentato dei pregiudizi antimeridionalisti, dall’ Unità d’Italia ai giorni nostri. Lo studioso individua le cause da un lato nelle opinioni negative delle classi dirigenti, dall’altro nel complesso d’inferiorità e di subordinazione psicologica del meridionale nei confronti del settentrionale. Con notevoli capacità di sintesi, Ceres passa in rassegna le “deliranti” tesi della scuola antropologica come quelle moderate del Negri. In un’analisi storica puntuale, che giunge all’età giolittiana e al fenomeno della Lega nord, da Mìglio ai giorni nostri”.

La Donna nella storia Prefazione di Giuseppe Acone (Professore ordinario di Pedagogia generale dell’università di Salerno direttore del dipartimento di Scienze dell’educazione)

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ichele Ceres regala ai possibili lettori un racconto di stupendo e singolare fascino. Ricostruisce, in un aureo “libretto”, la vicenda dell’altra metà del cielo, ossia della figura femminile nella storia dell’Occidente. Lo fa con lucentezza impressionante e con uno stile davvero ammirevole. L’Autore procede attraverso un duplice registro di lettura e un corrispondente duplice dispositivo narrativo: quello della ricostruzione storica e quello della galleria di ritratti capaci di rendere onore al genere di appartenenza femminile e, per conseguenza, all’umanità intera, che in qualche modo ne esce potenziata nell’immagine e nell’assunzione di una ragione sacrificale che garantisce la prosecuzione della vita umana. Michele Ceres è un professore della scuola secondaria, ma è anche una figura di intellettuale polivalente, in grado di cogliere lucidamente la complessità del contesto storico in cui la questione femminile si è posta a partire dalla modernità. Condizione umana, quella della donna, a lungo negata attraverso i secoli (quelli premoderni antecedenti alla scoperta della figura universale della persona e dell’umanità intesa come coniugazione di libertà e uguaglianza), essa emerge Gente di Caposele Oggi

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nella pienezza della modernità e ne contrassegna l’anima profonda. Il libro di Ceres fornisce ai lettori anche squarci inediti sulle vicende, tragiche e tormentose, della lenta, progressiva liberazione femminile. Ad esempio, mostra come alcune stereotipie, nel rappresentare la condizione femminile nel Medioevo, siano in contrasto con le risultanze storiche, le quali vedono nei secoli successivi l’avvento catastrofico di vere e proprie regressioni (basti pensare alla tragedia della caccia alle streghe). L’altro registro (quello dei ritratti di donne celebri) è, anch’esso, un approccio di sicura e originale fascinazione. Mostra il sacrificio delle donne italiane e di tante altre donne in altri paesi per la conquista non solo della loro sacrosanta parità in quanto persone a pieno titolo, ma anche della loro centralità in vicende storiche e in eventi di enorme portata (dalle figure femminili insigni del Risorgimento italiano a quelle della Repubblica partenopea, alle donne della Rivoluzione francese a quelle della Resistenza in Italia e in Europa). Michele Ceres mostra acutamente anche alcune storture di linee storiografiche che sovrappongono vettori progressisti a dispetto dei fatti: ad esempio, fa vedere come la Rivoluzione francese non mette nelle mani delle donne risorse che possano essere riconosciute quali forme di cittadinanza politica compiuta. Il libro è bello. Scritto con stile impeccabile. È aperto anche a una pedagogia umanistica e civile importante. È un libro che rende omaggio a più di metà dell’umanità, che oggi emerge sotto il cielo in tutta la sua bellezza intelligente. Oggi, specie nei paesi avanzati dell’Occidente, c’è sicuramente una compatta umanizzazione e realizzazione della condizione femminile in molteplici campi (ad esempio, in Italia ci sono più laureate che laureati). Resta un gap da colmare in campo imprenditoriale e, soprattutto, politico; sono settori in cui si registra una vera e propria insufficienza di rappresentanza democratica e istituzionale. Le nostre sorelle più giovani e le nostre figlie, comunque, ce la faranno. E non solo perché noi tutti (genere umano maschile) siamo comunque i loro figli. Michele Ceres va letto, quindi, per questo libretto aureo anche nella scuola italiana. Lo dico da pedagogista. La sua è pedagogia umanistica e civile di grande nobiltà. Ed è la nobiltà dello spirito. Presentazione di Dora Garofalo Preside “Quando la donna ha preso coscienza della inviolabilità dei propri diritti? Quando sono cominciate a cadere le incomprensioni e gli ostacoli al suo riconoscimento di soggetto pensante alla pari dell’uomo? In che misura le donne hanno contribuito allo sviluppo dell’umanità? Michele Ceres risponde a questi interrogativi su una materia complessa con padronanza linguistica e stilistica che ha il suo esito più felice in una scrittura, limpida, essenziale, senza stridori. l’analisi del ruolo della donna nella società delle diverse epoche storiche, dall’età del fuoco ai giorni nostri, che spazia nel più ampio panorama intercontinentale, senza essere ancorata soltanto nei confini della patria di appartenenza,

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obbedisce ad una logica narrativa rigorosa che si sviluppa organicamente senza imporre a chi legge acrobazie fastidiose di tempi e di luoghi. I personaggi noti e meno noti risultano connotati concretamente, non prettamente dal punto di vista etico ma da quello storico –sociologico, e catalogati in una inedita galleria di ritratti quali pedine di una tremenda partita umana che giocano sulla scacchiera della storia. una storia fatta non più da grandi protagonisti, bensì da inermi creature che hanno spinto ad agire per combattere, ancora nel presente, le ingiustizie perpetuate attraverso i secoli. le eroine di ogni tempo, con le loro passioni, le proprie speranze e il proprio dramma, costituiscono il tema delle “ donne nella storia”.la casta lucrezia, l’eroica Clelia, Caterina Sforza, lucrezia Corner, Arcangela Tarabotti, e-milj dickinson, George Sand, Camille Claudel, eleonora de Fonseca Pimentel, Anita Garibaldi, Cristina di Belgjoioso, Anna maria mozzoni, Anna Kuliscioff, solo per citarne alcune, nonché le varie donne martiri della resistenza e le parlamentari della Costituente, come Nilde Jotti, sono figure talvolta rapidamente schizzate, altre volte particolarmente tratteggiate che si ritrovano nell’unico alveo del tempo. e, forse, è proprio il tempo il vero motivo conduttore del prezioso lavoro di sintesi di michele Ceres, sorretto da una profondità di pensiero e da una ricerca ad ampio respiro. Parlare di donne e di relative rivendicazioni sociali, gridate da tempi immemori, non è cosa facile. l’autore è riuscito egregiamente nel suo intento. Seguendo l’evoluzione storica di un tema poco trattato, è giunto a suggerire anche ipotesi di politiche sociali e soluzioni ai confitti tra i ruoli che continuano, ancora oggi, a mantenere asimmetrie di potere nella famiglia, nel lavoro e nella politica. Il lavoro di Ceres scuote la coscienze e rende consapevoli dell’ineffcienza delle politiche di pari opportunità soprattutto nel mezzogiorno d’Italia, dove si avverte di più l’ansia di cambiare, di rivendicare la propria dignità, dove purtroppo le speranze per concretizzarsi hanno ancora bisogno delle decisioni degli uomini, dove mancano urgenti misure che siano forze trainanti dello sviluppo territoriale, dove, ancor più, le donne esprimono l’anelito di vincere le tenebre che accecano la ragione ed iscuriscono il cuore.

Il Sud, un problema aperto di Ivana Picariello dal Corriere dell’Irpinia Si interrogano sulle origini della questione meridionale gli studiosi irpini Michele Ceres e Dora Garofalo. Lo fanno in un volume “Il Sud, un problema aperto”, Edizione Altirpinia, che è stato presentato il 31 ottobre, alle 16.30, a Palazzo Pisapia, a Gesualdo. La consapevolezza da cui muove il volume è il legame forte tra la questione meridionale e l’Unità nazionale, a partire dalle celebri lettere di Pasquale Villari che, fin dal 1861, denunciò le condizioni di vita delle province meridionali. La scommessa è quella di fare chiarezza su un tema sul quale si continua a scrivere tanto, senza che ci siano contributi decisivi sul problema Principali destiGente di Caposele Oggi

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natari gli studenti, con l’obiettivo di promuovere la conoscenza delle contraddizioni del Mezzogiorno ma al tempo stesso delle radici di una rifessione sul mancato sviluppo del territorio. Un percorso, quello di Ceres e Garofalo, che passa in rassegna l’evoluzione dello Stato meridionale dai Normanni agli aragonesi fino alle denunce dei riformisti partenopei del XVIII secolo, dal ruolo del Sud nel per corso di unificazione alla Cassa per il Mezzogiorno. Un percorso che ci racconta della piaga del latifondo, della mancata costituzione e una borghesia imprenditoriale ma anche di fatto, geografici e politici che hanno contribuito a rafforzare la frattura tra Nord e Sud. Nessun dubbio, infatti ci ricordano gli autori, che la radice della questione meridionale vada individuata in condizioni preesistenti al processo di unificazione nazionale. Il risultato non è una semplice rievocazione storica ma tentativo di comprendere le ragioni di un decollo mai avvenuto, a partire dalle cause che hanno determinato l’interruzione del circolo virtuoso avviato negli anni ‘50, condizionata non poco dal clientelismo da scelte politiche poco efficaci, fino a proporre anche prospettive di rilancio dello sviluppo per il Mezzogiorno, circa “La rinuncia ad una concezione unitaria e ad una permanente azione di slancio politico ed economico ha finito, a partire dalla crisi petrolifera degli anni ‘70, per esaurire la spinta meridionalista. Si è giunti così’ al paradosso che la questione settentrionale ha sostituito la questione meridionale fino al punto di renderla, come ha scritto un acuto meridionalista, Gianfranco Visti, perfino noiosa e inattuale. La conseguenza è stata l’assenza per oltre un ventennio di qualsiasi politica meridionalista, con effetti che solo oggi cominciano ad essere percepiti come negativi non solo per il Sud ma per l’intero Paese”. Ad impreziosire la pubblicazione un‘accurata trattazione dei pensatori che nei secoli hanno dedicato le loro riflessioni al Sud, da Gaetano Salvemini a Guido Dorso, da Francesco Saverio Nitti ad Antonio Gramsci, da Francesco Saverio Nitti a Francesco Compagna.

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GIUSEPPE MALANGA

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iuseppe Malanga, nato il 04.11.1980 ad Avellino, 19 giorni prima del terremoto. Ha frequentato il Liceo a Caposele, ricoprendo per un anno la carica di Presidente dell’Assemblea d’istituto. Nel 1999 si è trasferito a Milano per studiare in Bocconi, dove si è laureato nel 2004 al Corso di Laurea Economia Aziendale, Specializzandosi in Finanza aziendale. Durante il periodo universitario ha frequentato un corso estivo presso l’università di La Habana – Cuba e ha svolto vari studi sulla new economy. Un anno prima della laurea, ha iniziato a lavorare al Servizio Clienti di Banca Mediolanum, facendo il “Consulente di sede” con la gestione dei Top Clienti e delle Campagne Pubblicitarie. Dal 2005 ha l’abilitazione per l’iscrizione all’albo dei Promotori Finanziari presso la Camera di Commercio. Dal Settembre 2005 ha svolto l’attività di Revisore dei conti presso Ernst & Young (big 4), occupandosi di aziende industriali e di servizi. Ha avuto una breve esperienza a Roma, col ruolo di Financial Controller presso L’hotel Melià Roma Aurelia Antica. Nel Luglio 2009 ha conseguito il Master in Amministrazione, Finanza e Controllo di Gestione presso il Sole 24 ore. Dal Marzo 2008 ricopre la carica di Responsabile finanziario Italia presso Temmler Italia, facente parte di un gruppo farmaceutico tedesco. Associato all’area Finance di Assolombarda. Ha collaborato con la rivista locale La Sorgente scrivendo articoli di grande innteresse locale.

UMBERTO GERARDO MALANGA (CORRISPONDENTE DAL BRASILE) di Nicola Conforti

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o vivo sereno a San Paolo, colmo di affetto della famiglia. Giornalmente faccio presenza alla cinquantenaria “Alpes” rilassandomi e borbottando la mitica frase “ ech’buòfa!”. Ricevo una visita semestrale di un ospite illustre: il giornale La Sorgente, che mi inebria con immagini, storie... sempre online con parenti, amici del paesetto .. è un cuore italiano che palpita forte, in questo grande e amabile paese: Brasile! Questa è la mia vita. Per me, una grande Storia d’Amore. Gente di Caposele Oggi

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Gente di Caposele Affettuosi RICORDI E Teneri PENSIERI

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mberto Malanga ancora una volta ci ha stupito con una pubblicazione, ed è la terza, che fa onore a chi, avendo lasciato l’Italia oltre cinquant’anni fa, riesce ancora ad esprimere “Affettuosi RICORDI e Teneri PENSIERI” in una lingua che ha imparato da piccolo e che non ha mai dimenticato. I ricordi ed i pensieri scorrono come in un romanzo d’amore, tanto è il sentimento che traspare e trasuda da ogni verso di poesia e da ogni sua “nostalgica reminiscenza”: ricordare è vivere, ci ricorda l’autore. “indimenticabile culla della mia infanzia” quando parla del paese natio, “parola mistica colma di magia” quando ne ricorda il nome. Tante poesie e tanti componimenti poetici fanno di questa pubblicazione un’ antologia ricca di preziosismi fatti di epigrammi, lettere, ritratti, riflessioni. Basta elencare alcuni titoli dei vari paragrafi per comprendere il significato di tutto il libro: Caposele dei miei sogni – Ode per una rosa- Caro amico: l’usignolo – Vicoli del mio paese – un dolce rimpianto – e tanti altri. Il libro apre con una meravigliosa lode alla “mamma”: un libro tutto da leggere! Ricordiamo inoltre altre pubblicazioni della serie : Una strada piena di vita Ciao mamma! Vacanze in Italia Una Storia d’Amore L’ultimo emigrante

Un ospite illustre: il giornale La Sorgente

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a Metropoli Paulistana non si ferma mai! Sono le sei, gente e veicoli sembrano impazziti, in un competere allucinante, lo, in attesa dell’autobus che mi condurrà al mio posto di lavoro, osservo, perplesso e penso cos’è, chi li spinge a questa sordida confusione. Vi sembrerà strano, ma io vado di collettivo alla mia A/pes (tipografia) e vi spiego: con la macchina impiego il doppio del tempo e con l’aggravante di fare qualche scontro: lascio la vettura in garage cinque giorni alla settimana, poi il governo municipale di San Paolo, ci offre il passaggio gratis, per chi ha compiuto sessantanni, quindi faccio l’utile al gradevole. Resto in tipografia sino a mezzogiorno, allora ripeto il percorso inverso, per recarmi a casa e masticare qualcosa, con la famiglia. Un pranzo ben equilibrato, preparato con la massima igiene e cura, fuggendo dai tanti fast foods, seri pencoli in agguato, che infestano la città: una insalata mista alla caprese, un piatto di riso e fagioli, un arrosto con spinaci, verdura abbondante, frutta e... un bicchiere di vino rosso, prodotto dal versante sud del Brasile. Una breve siesta, poi ritorno al mio traballio (lavoro). Quivi, il postino, tra le tante mi consegna una speciale corrispondenza: è il giornale “La Sorgente”, fonte inesauribile di sentimenti umani, di tanti ricordi d’un gradevole passato, mirare e

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rivivere le bellezze del luogo, i paesani, gli innumeri articoli. Allora, rientro a casa prima del solito, ansioso di ascoltare, con più serenità, le novità che l’illustre Amico mi racconterà. L’amabile Ospite inizia il dialogo sentimentale con immagini spettacolari, delle ineguagliabili acque del fiume Sele. Poi, le innumeri lettere in redazione, di lettori lontani, avidi di informazioni di ringraziamenti per le opportunità di osservare, colmi di nostalgia del caro paese. Frammenti di storia del luogo, eventi, mostre... e non solo, una spessa folla di gente, con gran voglia di vivere. Modelle sfilando moda del Jeans Street. Una piccola ma intensa cronica, la giornata della solidarietà, la terapia del dolore, interessanti discussioni sui nostri amici animali, 40 anni di storia caposelese. Una giusta lapide alla memoria del trentennale, dedicata alle vittime del sisma del 1980. Il sempre presente sorriso festoso delle forze dell’ordine. Il campo base delle tende del soccorso e della speranza. Personalità unite durante la commemorazione. L’intervista col Sindaco, al quale ci si affida il futuro del nostro paese. Una battaglia di civiltà, ben osservato, avvolgente, incentivando, e che si usi il buon senso. Si spera che l’acqua sarà, di nuovo, caposelese? Un fiume di informazioni, di dati storici sul prezioso liquido che irriga, anche, le nostri menti, una ricca raccolta del passato. È vero, l’amato giornale, La Sorgente, è un compagno che ci accompagna ovunque, ci fa sentire di stare in casa. Un eccezionale recital per una avida, gremita platea. Il libro “Una vita tutta in salita”, di Gerardino Calabrese, è una vera lezione di vita. Me sono testimone del suo meritato successo. Ancor trentanni dopo... storia di Napoleone ed i mulini di Caposele, si commenta, ancora, sulle sorgenti. Una nostalgica storiella di Zio Antonio, il suo grande amore per Caposele, per l’lrpinia, per l’Italia: fu un convivio fantastico, meraviglioso, un viaggio indimenticabile. Il conterraneo Giuseppe, racconta la saga degli italiani in Australia, come digeriscono la indigesta arroganza anglo. Foto ricordi di innumeri compaesani che, tra i tanti, modesto, io, appaio e alcuni già partirono. Mi parli dei perenni e gravi problemi del sud Italia, i grandi va-lori del carabiniere, meritatamente e che tutti noi ne siamo fieri. La nonna Gaetanina con la nipotina, preparando i fusilli, cavatielli, hum! Anche tu trovi giusto sorreggere “viecch’, pur’ca so rus’caturi”. lo confermo, cosi espressandomi: “ech’buò fa!” La didattica del fare, il ratto delle caposelesi, la squadra di calcio, storie di caposelesi. Il racconto d’un terremotato, polemiche, il fervente ferragosto, con una vibrante e simpatica gioventù, i beni della chiesa di Materdomini nel 1580. Speriamo che non si avverino le previsioni di un compaesano, il quale dice che Caposele, lentamente, muore!. Memorie, immagini, ricordi di giorni lieti, visi caratteristici. Ancora, la convenzione con l’AQP Mirasi tanti cari volti nostalgici, che creano un vuoto in noi. Infine, con un fascino straordinario, l’Oasi della Madonnina, montaggio spettacolare che fa sognare e volare ivi, con la fantasia. Giornale amico, in questa memorabile edizione (81), ti sei superato, m’hai raccontato tante cose, m’hai trasportato a quella gioventù spensierata, lontana dai dolori fisici, salutando tra i sentieri a me cosi cari, attraversando candidi ruscelli, Gente di Caposele Oggi

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campi fioriti, profumati, vistosi, che solo da te sono autentici. Le gite in montagna a raccogliere l’aromatico oregano, procurare funghi, asparagi silvestri e, irresponsabile, andare con amici alla caccia del cinghiale, delle beccacce, storni... In estate, tuffarsi in una toma del fiume 5e/e per un bagno, poi gettare l’amo, ingannando qualche trota inavveduta. Le storiche camminate, pedone, calare dal mio colle, per approdare a Caposele, addolcirmi del suo balsamico dialetto locale, con vecchi colleghi di scuola, sorseggiare un caffè, in via Roma, al bar omonimo, mirare le ragazze, le genti, nel loro passeggio domenicale, serale, ed ad ogni incontro il mitico saluto: “bona sera’! Ubriacarmi di malinconia tra i tanti stretti vicoli, mitici scorci, testimoni di infiammabili antiche storie d’amore! Amico, io, particolarmente, sono orgoglioso di riceverti nella mia casa: è stato e sarà, sempre, un dialogo emozionante. Complimenti al tuo Direttore, Ing, Nicola Conforti e staff, alla ProLoco Caposele, che tanto s’impegnano per farci sentire vicini. Ti hanno adornato d’un moderno design: 48 pagine di emozioni, compilate con passione, ricche di cultura, di storie, di luoghi, mostrando un presente vivo, espressivo, che tanto ci trascinano al passato e invogliano di fare una presenza più frequente per rivivere dolci momenti e abbracciare, personalmente, coloro che vi sono coinvolti in questa straordinaria intraprendenza, compresa tutta la comunità locale. M’hai ravvivato tutto, però, consapevole della tua lunga assenza, mi rattrista, mi mancherai. Con tanta saudade (nostalgia). A sentirci presto!

GIOVANNI CHIARAVALLO (note autibiografiche)

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ono onorato ed orgogliosissimo di essere un figlio di Caposele: nonostante le difficoltà che il quotidiano ci offre, un fIlo invisibile ci lega alla nostra meravigliosa terra natia; non si può sopravvivere a lungo senza ritornarci (chi può) a ossigenarsi anche per tempi molto limitati. “Amato Caposele”! località bellissima; ecco perché e non per caso, le tue colline diedero i Natali allo scrivente ed a gran parte dei suoi familiari, in tempi e circostanze molto difficili, da tutti affrontati con spirito di rassegnazione, ma in certe situazioni bisogna affrontare i problemi facendo prevalere la forza, il coraggio, il rischio. Non siamo stati i primi e non saremo gli ultimi ad aver tentato la sorte dell’emigrazione; ma non per arricchirsi ma per sopravvivere dignitosamente. Il tempo scorre; a volte sembra fermarsi; a volte va veloce oltre l’immaginario. Abbiamo vissuto il periodo della guerra: le piaghe da essa provocate furono ampie, dolorose, profonde. All’alba del 27 giugno 1957 affrontai un viaggio che mi portò a lasciare la mia 68

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stupenda valle per la Svizzera tedesca. Quivi ho vissuto una esperienza unica che mi ha insegnato tonto sia nella gioia sia nel dolore. In Svizzera mi sono formato come uomo, acquisendo una esperienza unica ed irripetibile; ho fatto proprio un modo di comportarsi: dare per ottenere, rispettare per essere rispettato, lavorare perché ti venga concesso il diritto al lavoro e tante altre cose che qui non è il caso di elencare. Avevo vent’anni, malgrado le cose positive e le esperienze maturate, decido di rientrare. Si affaccia la possibilità di ricongiungere la famiglia in terra toscana. Siamo alla fine dell’anno 1958: da Caposele, con tante speranze nel cassetto,i miei non si fecero intimidire dagli ostacoli, ma con decisione ferrea caricano tutto sull’autocarro di Alfonso (di Murieta) e via verso Orentano. Quivi si aprono nuovi orizzonti, nuove speranze, nuove prospettive. Sembra che i problemi siano finiti, ma sono solo all’inizio: in un tessuto sociale completamente diverso dove tutti ti vogliono insegnare qualcosa ma che, spesso, hanno bisogno che qualcosa sia insegnata a loro. L’incomprensione fa lievitare i problemi a vista d’occhio. Tante le vicissitudini in oltre mezzo secolo di vita vissuta: giorni felici, giorni meno felici Quanti avvenimenti! Tanti ne ho vissuto da solo, tanti con le nostre famiglie. Mio padre ha raggiunto il magnifico traguardo di quinta generazione alla bellissima età di novantacinque anni. Tanti altri avvenimenti mi ritornano in mente: un filo invisibile ci lega l’un l’altro amici e parenti. Non c’è cesoia che possa separare Caposele dai figli Caposelesi. Anche per questo motivo ci troviamo a Caposele in questi giorni, sia pure per poche ore: siamo onorati di partecipare alle nozze dei nostri pronipoti Lina e Umberto Sista e vedere le loro famiglie, i paesani e parenti tutti. E’ un vero disagio incontrarsi per strada e non riconoscersi reciprocamente. Nonostante tutto, essere diventato cittadino del mondo sono e siamo figli di Caposele e viviamo le medesime difficoltà dei Caposelesi.

DON VINCENZO MALGIERI Premio Caposele 2015 - 50 anni di attività Pastorale a Caposele Insieme al nostro parroco di Alfonso Malgieri aro Don Vincenzo, Oggi abbiamo l’occasione e la fortuna di stare vicino a te per festeggiare un significativo traguardo della tua carriera sacerdotale lunga e intensamente vissuta alla luce dell’incrollabile fede e della chiamata ad esercitare

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il ministero ecclesiastico. Di quella chiamata io rappresento la testimonianza più attendibile nonché affascinante. Mi riferisco ai ricordi d’infanzia, ai primi anni della nostra vita trascorsi nella serenità delle pareti domestiche, quando i tuoi giuochi consistevano nel mettere insieme, con cura e attenzione particolare, su sgabelli, tante immagini e fgurine di santi innanzi ai quali ti esercitavi a celebrare le tue prime messe, mentre io giocavo a fare il sindaco o il maestro. Mi par di vedere qui oggi, tra la gente di Caposele che ti vuol bene e che tu ami intensamente l’indimenticabile e indimenticata presenza di mamma e papà che il signore ha reso meritevoli del suo regno premiandoli per il loro spirito di sacrifcio e di vicinanza alla famiglia cresciuta con la forza dei loro insegnamenti, con il loro esempio di dedizione e di coraggio nel superare, per amor nostro, i problemi anche di sopravvivenza, in quei bui anni del loro tempo. Ebbene cara mamma, caro papà, in questo solenne e commovente momento, i vostri fgli Alfonso, Vincenzo, Giuliana ed Ermanno, stringendosi in un abbraccio affettuoso, vi dicono grazie per aver loro indicato i giusti percorsi di vita. Dunque, mamma e papà sono presenti in mezzo a noi e, in particolare all’intera Comunità di Caposele per esternare e testimoniare la gratitudine per essere stati accolti ed amati e innanzitutto per essere stati aiutati a integrarsi in un contesto sociale sano e sincero fatto di piccoli grandi slanci affettivi. Caro nostro Vincenzino, così noi familiari preferiamo chiamarti, forse perché il diminutivo rende più esplicito il signifcato della tua personalità, in quanto evidenzia le tue doti umane e cioè la schiettezza, la sincerità, la bontà, l’amore per il prossimo. Il Signore ti ha dato tanto, ma non ti sono mancate le sofferenze, le ansie e le preoccupazioni che segnano l’esistenza di tutti i mortali, che, tuttavia, hai saputo accettare sorretto sempre da quella fede e da quella potenza divina che porti in te. Concludo con le parole del poeta che servono a chiarire il concetto: A. Manzoni scrisse: Nui chiniam la fronte al massimo Fattor che volle In lui, del creator suo Spirto più vasta orma stampar. A tutti un caloroso saluto e grazie di essere qui. RICONOSCIMENTI

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on Bolla Pontificia del 22 settembre scorso Sua Santità Papa Giovanni Paolo II ha annoverato fra i suoi cappellani d’onore Monsignor Vincenzo Malgieri La cittadinanza tutta ha accolto la notizia con gioia ed entusiasmo. L’alta onorificenza Pontificia è un giusto riconoscimento all’impegno pastorale, all’opera umile, costante, silenziosa, dell’uomo e del parroco a favore della comunità caposelese. La redazione, interprete dei sentimenti della popolazione tutta. 70

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CAPOSELE HA LA SUA NUOVA CHIESA di Don Vincenzo Malgieri

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inalmente il tempo si è fatto breve, la lunga attesa sta per terminare, il sogno si è avverato, l’utopia è diventata realtà! La nostra Chiesa Parrocchiale è ricostruita e ci accoglierà molto probabilmente subito dopo la S. Pasqua. Cesserà il lungo esodo di un popolo senza tempio, invece con esso acquisteremo la pienezza della nostra identità cristiana e sociale insieme alla ricchezza e bellezza delle nostre tradizioni. Perché la nostra gioia sia piena quando entreremo, nel Tempio del Signore, ritengo utile la conoscenza dettagliata della descrizione architettonica dell’opera, fatta a suo tempo dal progettista ing. Vittorio Gigliotti e del tormentato iter burocratico per la sua realizzazione. Ispirazione e genesi del progetto: Caposele è un antico centro abitato dell’Appenino, a 500 metri sul livello del mare, situato nell’Irpinia. Nel centro urbano, in una galleria sotterranea, c’è la sorgente del fiume Sele, che scorrendo verso occidente, sfocia nel Mare Tirreno, presso l’antica Paestum. La sorgente alimenta anche l’acquedotto più lungo del mondo, che con le sue ramificazioni si sviluppa verso oriente, per dissetare le popolazioni della Regione Puglia, lungo il Mare Adriatico. La visione della spettacolare galleria sotterranea, costruita da un secolo per la captazione dell’acqua sorgente con le sue numerose polle d’acqua pura, suggerisce l’idea che il “Genius loci” (lo spirito del luogo) di Caposele è “l’acqua sorgente”, vorticosa del Sele che da un lato in piccola quantità si versa nell’alveo del fiume e dall’altro alimenta, con 4000 litri d’acqua al secondo l’Acquedotto Pugliese. L’architettura della Chiesa di San Lorenzo Martire trae ispirazione dallo spettacolo impressionante della galleria sotterranea di captazione della sorgente e con l’acqua che scorre tumultuosamente: come il flusso di acqua della sorgente del Sele disseta e ristora fisicamente gli uomini delle lontane Puglie, così l’architettura del tempio intende rievocare con le sue strutture la “fonte dell’acqua viva che zampilla per la vita eterna” (Vangelo di S. Giovanni-Incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Giacobbe). E l’architettura della Chiesa, in particolare la struttura della copertura e del soffitto, richiama l’immagine del flusso di acqua evocando con le sue linee e le sue ombre i filetti liquidi ed i vortici dell’acqua.

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Gente di Caposele La configurazione dello spazio.

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a Chiesa di San Lorenzo a Caposele rientra nel filone della ricerca architettonica che Vittorio Gigliotti ha sistematicamente sviluppato in progetti ed opere architettoniche, insieme al Prof. Arch Paolo Portoghesi,di fama internazionale. Lo spazio architettonico, concepito come un ”sistema di luoghi”, non è di ordine astratto, ma è uno spazio concreto, esistenziale, condizionato dalle funzioni che in esso si svolgono. Ogni luogo costituisce un “centro”, che è immaginato come un “polo’ di un campo magnetico” da cui partono “le onde”; e la configurazione ed organizzazione dello spazio avviene mediante la definizione geometrica di tali “centri” (poli primari), che non sono arbitrari, ma individuano particolari funzioni, quali, per la Chiesa di San Lorenzo, il luogo in cui il sacerdote svolge il rito della Messa, quello del Battesimo e di altre funzioni. Altro polo primario è il “centro” ove è conservato come memoria storica un angolo della Chiesa distrutta dal terremoto ed è collocato l’artistico tabernacolo del 1700 per la custodia e adorazione della SS. Eucaristia. La descrizione architettonica con i grafici e il plastico già evidenziava la grandiosità dell’opera, ma la burocrazia e soprattutto il pregiudizio hanno ostacolato e ritardato a lungo la costruzione. Indico in modo sintetico il tormentato percorso: 1984 - La Curia Arcivescovile affida l’incarico della progettazione della nuova Chiesa all’Ing. Vittorio Gigliotti. - 25.9.85 – L’ing. Gigliotti presenta la prima bozza del progetto e ascolta i suggerimenti dell’Arcivescovo, del Sindaco, della Giunta, dell’arch. Scirè e del Parroco. - 11.4.87 - Il progetto con il relativo plastico viene illustrato dal medesimo ingegnere ad un pubblico numeroso di cittadini, presenti il sindaco, l’arch. Scire e i tecnici locali. - 3.11.87 - Il progetto viene presentato nella sede di Salerno al Soprintendente Arch. De Cunzo, il quale immediatamente lo rigetta. - 25.9.88 - L’Arcivescovo Antonio Nuzzi inoltra il Ricorso Gerarchico al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. - 24.12.88 - Il ricorso è accolto e viene data la prima approvazione del progetto con lettera ministeriale Prot.n.13324. - 13.3.89 - La nota ministeriale non è ritenuta vincolante dal Soprintendente De Cunzo, quindi fa seguito da parte del Ministero una seconda Nota Prot.n.2504. - 20.9.90 - L’ostilità preconcetta dell’arch. De Cunzo continua e il Ministero emette l’approvazione definitiva con la Nota Prot.n.9118. - 6.6.91 - Finalmente il nuovo Soprintendente Elio Garzillo concede la vidimazione richiesta. Da questa data il progetto approvato è affidato per la sua realizzazione al Povveditorato alle Opere Pubbliche di Napoli, Sezione di Avellino. Trascorrono sei lunghi anni fino al 5.12.96 quando i lavori di ricostruzione ven-

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gono appaltati alla Ditta F.E.N.O.D.E.L., che apre il cantiere il giorno 4 giugno 1997 con l’impegno di terminare il primo lotto entro il 3.3.98. Invece il 26.6.2000 viene firmata la rescissione del contratto da parte della Ditta FENODEL, lasciando il cantiere nel più completo abbandono. Passano altri due anni di dimenticanza e soltanto nel mese di luglio 2002 il Provveditorato assegna il nuovo appalto alla Ditta EDIL DISA di Cercola (Napoli), la quale nel mese di ottobre riapre il cantiere con competenza e la buona volontà di portare a termine la costruzione non facile della Chiesa. L’esecuzione dei lavori è eseguita da operai nostri concittadini e anche il materiale edile è fornito dai commercianti locali, portando così un contributo all’ occupazione e alla nostra economia. La costruzione è stata soltanto una goccia economica, ma il Tempio oltre la funzione propria di luogo di culto, di grazia e preghiera, per il suo particolare stile architettonico e le pregiate opere artistiche contenute quali battistero, altare, ambone e Crocifisso, deve anche costituire un polo di attrazione culturale e turistico. Non è una chimera, ma una realtà territoriale che va considerata e valorizzata: Materdomini - Acquedotto - Chiesa Parrocchiale S. Lorenzo: questo il percorso anche geografico per lo sviluppo culturale, turistico ed economico del nostro centro abitativo; sarà sufficiente un’adeguata pubblicità e un comodo servizio di collegamento tra Materdomini e Caposele. Questo è possibile se tutti siamo spinti da un amore vero e gratuito verso questo nostro Paese.

NICOLA CIRILLO (PREMIO CAPOSELE 2016) dalla rivista DENT ALL

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icola è cresciuto in un piccolo paese dell’Italia Meridionale chiamato Caposele, ove ha frequentato il liceo e si è diplomato con distinzione. Tra i suoi hobby c’era lo sport e la musica e all’epoca suonava in rock band locali. Nicola ha frequentato l’Università di Napoli, dove si è laureato in odontoiatria con lode e menzione accademica nel 2004. Appena dopo la laurea ricevette il “PremioValerio Margiotta” dalla Società Italiana di Patologia e Medicina Orale (SIPMO), un premio conferito alla migliore tesi dell’anno in patologia e medicina orale. In questi primi anni il suo mentore, prof. Fernando Gombos – il padre della medicina orale in Italia – lo ispirò a perseguire una carriera in immonupatologia orale. “Nicola è stato lo studente migliore che abbia mai avuto in 40 anni di carriera accademica ”soleva dire Gombos sia pubblicamente che in lettere di referenza. Gente di Caposele Oggi

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Fresco laureato, il dott. Cirillo fu ammesso al dottorato di ricerca in Biomedicina e Scienze Orali presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Napoli, in stretta connessione con il premio Nobel Luis Ignarro, acquisendo così fermi principi di ricerca scientifica. Successivamente ha iniziato a viaggiare e da allora non si è più fermato. Dopo aver completato il percorso di formazione clinica in medicina orale in Italia ( Napoli, Firenze, Palermo), Stati Uniti (UCSF, San Francisco) e India (TATA Memorial Centre/ACTREC, Munbai, Centro Oncologico Regionale, Trivandrum), nel 2008 iniziò a lavorare alla Dental School dell’Università di Bristol, Inghilterra, come Clinical Lecturer (docente/ricercatore) in Medicina Orale. Il suo mentore prof. Stephen Prime ebbe a descrivere Nicola come “la persona più talentuosa con la quale abbia lavorato in 25 anni di vita accademica”. All’inizio del 2012 il Associate Professor Cirillo andò in visita annuale in Arabia Saudita (Damman) come professore e Primario, un’esperienza che ha lasciato un segno nella sua vita. La voglia di ampliare le sue capacità accademiche non si è mai estinta e, dopo il dottorato, Nicola ha acquisito ulteriori qualifiche in diversi campi accademici, che includono: Certificato in Strategia e Competizione nell’Università ad Harvarded in Executive Coaching a Cambridge; Master in Sanità Pubblica a Manchester, oltre a un Certificato in insegnamento universitario a Melbourne. E non ha intenzione di fermarsi. Cirillo è autore di più di 60 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali, più di 20 atti congressuali, ha scritto 2 libri e vari capitoli di libro di malattie autoimmuni e cancro ed ha tenuto relazioni e seminari su invito a più di 20 conferenze e incontri in tutto il mondo. E’ impegnato anche nella disseminazione di scienza e medicina , essendo il direttore capo di una rivista internazionale di medicina orale e membro del comitato editoriale di riviste scientifiche nel campo dell’odontoiatria, dermatologia, biochimica, immunologia, biologia cellulare; inoltre funge da revisore per più di 30 riviste e istituti di ricerca. E’ Presidente dell’Accademia Italiana di Stomatologia Sperimentale (AISS). Nicola è al momento il più giovane professore universitario (Livello D/E ed equivalente in (UK/US) nelle migliori 10 facoltà mediche del mondo (classifica QS) e il più giovane nel suo campo in Australia.

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GIUSEPPE PALMIERI Biografia desunta dal libro”Il citadino e la legge” Giuseppe Palmieri è nato a Caposele il 9 settembre 1958. Si è laureato in Giurisprudenza presso l’ Università degli Studi di Napoli Federico II in data 21.7.1982. Iscritto all’Albo degli Avvocati presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di S.Angelo dei Lombardi a far data dal 23.04.1991, è Cassazionista dal mese di giugno 1997. Membro del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati dall’anno 1995, è stato prima Consigliere Tesoriere ed attualmente è Consigliere Segretario. Cultore di Diritto Processuale Civile presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università di Salerno, dall’anno accademico 1985/86, attualmente collabora con le cattedre rette dai ch.mi Proff. Modestino Acone e Giuseppe -presso la predetta Facoltà Ha pubblicato su Giurisprudenza di merito, Giuffrè Editore, anno XXVII, Fase. 4-5 - 1995 un lavoro su “Provvedimento cautelare di rigetto e liquidazione delle spese tra opposizione e reclamo”. Da oltre dieci anni cura una rubrica “I consigli dell’Avvocato” sul mensile “In cammino con San Gerardo” da cui sono tratti gli elzeviri, oggetto del libro : il cittadino e la legge.

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a una straordinaria raccolta di molti anni di intensa collaborazione con il giornale “San Gerardo” su problemi di vita quotidiana legata al complicato mondo delle leggi italiane, scaturisce la realizzazione di un libro di grande effcacia sociale:“IL CITTADINO E LA LEGGE” La presentazione avvenuta nella sala convegni della Basilica San Gerardo il giorno 7 ottobre 2000, ha visto la partecipazione di tantissima gente e non solo di addetti ai lavori che hanno potuto ascoltare ed apprezzare le parole dell’autore e quelle degli intervenuti al convegno sulla giustizia. Per molti anni ha scritto interessanti articoli di attualità sul giornale locale “La Sorgente”. Si è occupato di politica locale e di problemi culturali: svolge con impegno la professione di avvocato cogliendo notevoli successi. Di seguito riportiamo la prefazione al libro”Il cittadino e la legge”del prof. avv. Modestino Acone.

Il cittadino e la legge Prefazione a cura del prof. Avv. Modestino Acone

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uesti brevi elzeviri sono il frutto di una instancabile collaborazione giornalistica, svoltasi nell ‘arco di un decennio. L’avv. Giuseppe Palmieri dimostra come si possa, ancorché in punta di penna, fornire un vasto panorama di problemi di diritto sostanziale e processuale che si agitano, nella materia civile e penale, Gente di Caposele Oggi

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nella pratica quotidiana dei giudiziL’intelligente scelta dei “casi” di più viva attualità non ha impedito una loro sistemazione secondo gli schemi tradizionali di ripartizione delle materie, ed anzi li ha arricchiti di nuovi ed interessanti profili. L’andamento colloquiale conferito alle risposte che il Palmieri dà ai cittadini che lo interrogano rende agevole e piacevole la lettura. Dal libro “il cittadino e la legge” riportiamo un capitolo sui “consigli dell’Avvocato”

La responsabilità dei genitori

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’art. 2048 del codice civile recita: “Il padre e la madre... sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi... Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”. La responsabilità dei genitori per i fatti illeciti dei figli si fonda su una presunzione di colpa in vigilando e/o in educando. In altri termini, i genitori sono tenuti non solo a vigilare i propri figli ma anche ad impartirgli una corretta educazione. Per liberarsi dalla predetta responsabilità i genitori devono provare di non aver potuto impedire il fatto con riferimento sia alla culpa in vigilando che a quella in educando. È stata affermata la responsabilità del genitore per colpa in educando nel caso di un alunno di prima media il quale in presenza dell’insegnante aveva ferito ad un occhio il compagno con la stecca di una carta geografica. I giudici nel caso in esame hanno fatto risalire alla mancanza di educazione il comportamento dannoso del minore piuttosto che alla mancanza di vigilanza (non addebitabile al genitore, dal momento che il minore si trovava a scuola). Per liberarsi da questa presunzione di responsabilità, pertanto, i genitori devono provare non solo di aver esercitato sul minore la vigilanza necessaria ma di avergli impartito una adeguata educazione. In genere tale prova si concreta nella dimostrazione di aver impartito al minore una educazione conforme alle proprie condizioni familiari e sociali e di aver esercitato una vigilanza adeguata all’età, al carattere e all’indole del minore. Al risarcimento del danno cagionato dal minore sono coobbligati tanto il padre quanto la madre, giacché deve intendersi solidale la responsabilità di entrambi i genitori nel caso in cui, per mancanza di tempestivo intervento o dell’uso di mezzi appropriati, derivi dal fatto del minore medesimo un ingiusto danno a terzi.

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EUGENIO RUSSOMANNO

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i chiamo Eugenio Russomanno; sono figlio di Pietro Russomanno, di Caposele, e di Maria Giovanna Montesarchio, di Acerra. Ho un fratello, Ignazio. Sono nato nel 1968 quindi ho 42 anni. Nel mio curriculum studiorum ho seguito 2 strade parallele ma convergenti: da una parte il Liceo Classico e poi la Laurea in Lettere con una Tesi sulla filosofia della musica, dall’altra il conseguimento del Diploma di Pianoforte. Dopo aver vissuto ed insegnato 15 anni nella provincia di Viterbo, dal corrente anno scolastico abito a Caposele ed insegno materie letterarie nella scuola media statale di Lioni. Ho tendenza alla creatività: fin da giovane da autodidatta mi sono cimentato con la composizione musicale e la pittura. Ho pubblicato: un volumetto sui Santi di Viterbo, un volumetto sui Santi Patroni di Acerra, un volumetto sul Pianoforte ed un volume “I grandi Papi”, Edizioni Segno. Coltivo la passione del giornalismo: tra le varie testate ricordo una settennale collaborazione con «L’Osservatore Romano». Sono di Comunione e Liberazione, il movimento cattolico fondato da Mons. Luigi Giussani. Ho espresso al responsabile di CL di Napoli e della Campania il desiderio di formare un gruppo intitolato a San Gerardo Maiella.

I GRANDI PAPI Introduzione

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uesto volume raccoglie i miei articoli sui grandi Papi della storia della Chiesa pubblicati su Tracce.it (il sito web di Tracce, la rivista internazionale di Comunione e Liberazione) e sul Giornale del Popolo della Svizzera italiana. L’articolo iniziale, su San Pietro, è inedito. L’articolo finale, sul nuovo Papa Francesco, è di proprietà della Libreria Editrice Vaticana. I titoli e i sottotitoli degli articoli sono di Tracce.it e del Giornale del Popolo. La cosa è nata in un modo molto semplice e avvincente alcuni anni fa. Preso, come al solito, dalla mia passione per il giornalismo, stavo proponendo a testate giornalistiche la mia ultima idea: una rubrica sui Papi. Mi dicevo infatti: non solo i Santi - di solito nelle mie collaborazioni giornalistiche mi sono occupato di Santi - ma anche i Papi hanno fatto la storia della Chiesa e del mondo.Mentre i giornali non rispondevano, mi giunge la telefonata del Direttore di Tracce (il mensile di Comunione e Liberazione), il Dott. Davide Perillo, che si dice interessato alla cosa. Gaudium magnum. Egli però pone alcune condizioni: in primo luogo, non trattare tutti i Papi ma solo i maggiori; in secondo luogo, non trattare i Papi del Gente di Caposele Oggi

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Novecento, perché essi non appartengono ancora alla storia propriamente detta; in terzo luogo, non trattare San Pietro, perché è una figura così grande che non può essere esaurita in un articolo. Mi metto all’opera. Per quanto riguarda la scelta dei Papi maggiori, pur avendo sostenuto all’università esami di Storia del Cristianesimo e di Storia della Chiesa antica, non mi sentivo all’altezza di tale compito; allora chiesi aiuto ad un carissimo amico professore di Storia della Chiesa, il padre giuseppino Giovenale Dotta. Il quale mi propone un elenco dei Papi secondo lui degni di nota e mi suggerisce anche i testi di riferimento: il «Grande Dizionario Illustrato dei Papi» di John N.D. Kelly, Edizioni Piemme e la «Breve storia della Chiesa» di August Franzen, Edizioni Queriniana. In verità il professore Dotta mi rimanda anche alla grande «Enciclopedia dei Papi» dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Ma io fin da subito dichiaro nel mio cuore di non volere fare riferimento all’Enciclopedia dei Papi non essendone all’altezza. Un fatto importante per la realizzazione del volume è il contatto con il Dott. Eugenio Dal Pane, Amministratore Unico di ItacaLibri. Il quale fa un discorso diverso dal Direttore di Tracce: un libro sui grandi Papi che non contenesse San Pietro e che non contenesse i Papi del Novecento non sarebbe un buon libro sui grandi Papi. Io accetto il suggerimento. Questa Introduzione porta la data del 22 aprile 2013: è l’anniversario della morte di mio fratello, Ignazio Russomanno. Lo ricordo con una frase di don Giussani: “«Venga il Tuo regno»; alla fine del mondo vedremo come si è cambiato in bene anche il suicidio”.

FRANCO COPPOLA Premio Fedeltà 1998

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rancesco detto Franco sono nato a Varese il 19/10/1953. Vivo a Vicenza da più di 50 anni. Laureato in Giurisprudenza oggi ricopro il ruolo di responsabile alle vendite dell’azienda fondata da mio padre Lorenzo nel 1964 di cui sono socio. Sono sposato dal 1985 con Mariarosa che mi ha regalato due splendidi e bravi figli MariaVittoria di 23 anni e Lorenzo di 19. Come penso tutti sappiano, anche se nato a Varese 58 anni fa, il ceppo nativo è di Caposele da parte di mia madre Rosa Cozzarelli e di San Sossio Baronia da parte di mio padre Lorenzo Coppola, la cui madre (nonna Livia Cozzarelli), è comunque nata e vissuta per molti anni a Caposele. Fin da bambino, con mamma Rosa e le mie due sorelle Livia - oggi vice prima78

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rio di Anestesia all’ospedale di Vicenza - e Maria Luisa detta Isi, oggi Assessore all’industria e sviluppo della Regione Veneto, trascorrevo il mese di agosto tra le mura del Palazzo Cozzarelli e le piccole stradine di Caposele di cui ancor oggi serbo ricordi indelebili. L’azzurro del cielo, le stellate notturne, la freschissima acqua delle fontane del paese, l’odore dei “paparulicchi fritti, delle “prummarole” della “pizza” di Lellina e Ze peppa sono per me ricordi indimenticabili e cari come un abbraccio pieno d’amore. La tragedia del terremoto mi ha tenuto per qualche anno lontano dal paese ,anche se con il cuore ero e sono stato sempre vicino alle vostre drammatiche esperienze. Fino al 1990, estate in cui sistemato “Palazzo Cozzarelli”, sono tornato a Caposele con mia moglie Mariarosa e la piccola Maria Vittoria nata nel 1988. Dopo qualche anno anche Lorenzo nato nel 1992 ha potuto assaporare e respirare l’aria salubre di Caposele. E’ un grande piacere scrivere su Caposele; tutta la nuova generazione è entusiasta della zona. Grazie per quello che avete costruito per portare il paese alla conoscenza di chi vive lontano da anni ma non ha mai dimenticato le origini. Per i Caposelesi lontani l’attaccamento alle tradizioni ,vita di paese tranquilla sicura, quasi dormente che si risveglia con un grande ruggito alla sera e’ una cosa meravigliosa difficile da spiegare. Da quel 1990 a parte qualche anno per motivi famigliari non sono mai mancato al “Ferragosto Caposelese” e spero di poterlo fare per tanti anni ancora. Fortunatamente anche mia moglie e i miei figli condividono con me questa gioia e dai numerosi parenti e amici sono stati accolti con affetto e amicizia come pochi oggi sanno fare. Affetto che naturalmente ricambiamo con tutto il cuore. Venire a Caposele per noi significa immergersi nelle tradizioni, nel piacere di stare insieme a persone vere, di godere delle piccole grandi cose……Spero quindi di rivedervi tutti a Ferragosto e, augurando alla “SORGENTE” lunga vita, vi stringo in un fraterno abbraccio. Franco.

MARIO SISTA Note biografiche a cura dell’Autore

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e mie radici provengono dalla verde Irpinia, precisamente da Caposele (Av), dove sono nato il 19-4-1938 e dove ho trascorso la mia infanzia, che ricordo con nostalgia. Un paese ricco di tante cose importanti, a partire dal grande Acquedotto Pugliese, uno dei più grandi del mondo. Il fiume Sele, che nasce dal paese, percorre tutta l’omonima valle e sbocca nel mare di Salerno. Il Santuario di S. Gerardo Maiella, visitato da migliaia di fedeli provenienti da tutte le parti del mondo. Gli Gente di Caposele Oggi

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amici d’infanzia con i quali, quando ci incontriamo, parliamo sempre delle nostre imprese di ragazzi. Eravamo tutti ragazzi che hanno vissuto a cavallo della II guerra mondiale, con tanta povertà, ma con tanta voglia di andare avanti. Periodo che ci ha forgiati tutti, rendendoci più forti e tenaci per raggiungere i nostri obiettivi sempre con dignità e perseveranza. Principi che mi sono rimasti attaccati addosso per tutta la vita come si può evincere anche dai miei scritti. Come tanti giovani, in quel periodo del dopoguerra, anch’io, con tanti sogni nel cassetto, sono andato via dal paese. Alla fine del 1957 sono andato a lavorare a Salerno presso uno dei migliori sarti, dove per un anno ho potuto raffinare il mio mestiere di sarto. Alla fine del 1958 sono venuto a Roma, dove ho esercitato fino a pochi anni fa, con dedizione e soddisfazione, il mio mestiere e dove vivo tutt’ora. Sono amante delle espressioni più alte dell’Arte, come: Pittura, Canto, Teatro, Poesia, che pratico a livello amatoriale. Queste forme d’Arte esaltano la mia fantasia e creatività: qualità del resto, fondamentali nel mio mestiere. Quanto alla mia produzione poetica, vorrei annotare che alcune poesie sono titolate volutamente con una sola parola, perché, per me, può avere mille significati, più di un discorso intero. Infine vorrei auspicare che i miei pensieri, le mie riflessioni trascritti sulla carta, quando il lettore li leggerà, possano suscitare quelle stesse emozioni che ho provato io. Potrei scrivere molte altre cose sulla mia vita, ma penso che al lettore interessi di più conoscermi attraverso i miei versi. DOPO LA CURVA LA STRADA CONTINUA Poesie e prose inedite Introduzione Prof.ssa Maura Bettini “Una poesia non deve significare, ma essere”. Questo è il primo dettato di ogni ars poetica, e la miscellanea qui presentata sembra chiaramente raffigurarlo. In ogni immagine, sia essa poetica o narrativa, si avverte, infatti, la prorompente vocazione dell’autore a calarsi nell’essere, per capirne i più segreti ed incessanti moti, i più segreti ed incessanti misteri. Egli, nonostante l’intimo, suo “lutto”, vuole arrivare a dimostrare il convinto teorema che “dopo la notte c’è sempre l’aurora” e che “dietro la cur-va la strada continua”. Amore, angoscia, tormento, dignità, felicità, illusione, delusione, sono tutte estrinsecazioni di quell’essere mutevole che è l’uomo. Che si nutre delle sue esperienze, delle sue emozioni, delle sue sensazioni, sempre e ovunque, perché esse sono. Forti e presentì.

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È così che il linguaggio e i contenuti assumono ritmi e colori diversi: quello della metrica rimata, quasi a scandire il dolente canto di una litania, come nelle poesie: “Tristezza”, “Una sola parola”, “Mi manchi”, “Solitudine”, fino alle più lievi “Il sarto” e “Montevideo”, dove, dietro un impianto espositivo, apparentemente meno meditato, si ritrova il tema centrale caro all’autore: l’uomo, soggetto “confuso” di fisicità e di spiritualità. Pittoresco ed incalzante è il verso, in vernacolo romano e napoletano, che troviamo in “Un po’ di dubbio”, “Cumm’aggia fa”, “Il grande Edoardo”. Degna di nota risulta quest’ultima composizione, dove compare un efficace duetto dialettale romano-partenopeo, per celebrare il grande autore attore napoletano. E, particolarmente vividi, si rilevano i colori della tavolozza dialettale romana, quando, del mito viene dipinta la umana, ripugnante corporalità: quella dei “calzini puzzolenti”, dell’improvvida ‘”mbriacatura”, del “pisciarsi sotto”. È solo un passaggio, perché subito dopo, il Grande si staglia in tutta la sua imponenza: “appena m’ha guardato, anziché maestro gli ho detto maestà”. Altro linguaggio, infine, è quello discorsivo e confidenziale dei brani in prosa, come “Campa e lassa campa”, “Notte e giorno”, “Quella rosa”, dove chi scrive, cerca con l’apparente pacatezza della parola, conferme al tema dell’amore, ai mille, variegati suoi volti e ai mille interni conflitti. Miscellanea presentata, per la quale ci piace affermare, come recita Dylan Thomas, che “il mondo non è più lo stesso, dopo che gli si è aggiunta una bella poesia”. L’ULTIMA FOGLIA (dedicata a mia madre) Come l’ultima foglia anche tu sei cascata. Ti ho visto in primavera giovane, rigogliosa, poi in estate laboriosa e festosa. Hai superato tante avversità, pioggia, grandine, bufera, aridità, sempre attaccata all’albero della vita. Hai visto cadere tante foglie, girare le lancette della vita, la pelle s’è aggrinzita, è bastato un soffio e anche tu sei volata a miglior vita. Un giorno lo farò anch’io Mamma, addio!

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tutte le pubblicazioni SULLA “SELETECA”

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DOMENICO PATRONE note biografiche

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omenico Patrone nasce a Caposele nel 1931, ottavo figlio di famiglia numerosa. Terminata la quinta elementare, come è in uso a quei tempi, apprende il mestiere di sarto, che lo terrà impegnato per i tre anni successivi. A 14 anni, spinto dal suo orgoglio, con il sacrificio della sua famiglia, supera gli esami di ammissione e, con il supporto dei fratelli emigrati in Argentina, conseguirà la Licenza Media a Lioni. Dopo un anno “sabbatico”, in cui il suo destino di sarto sembra ormai inevitabile, grazie all’intervento ancora una volta dei suoi fratelli, potrà proseguire gli studi. Il desiderio di conoscenza e riscatto lo condurranno fino a Salerno, dove si diplomerà geometra nel 1954. Nei mesi estivi, da sportivo dilettante, diventa portiere “inamovibile” della gloriosa squadra di calcio di Caposele. Convocato anche dalle squadre di paesi limitrofi, ricorda ancora oggi con vivido entusiasmo la sua carriera sportiva. Svolge il servizio militare a Riva del Garda, specialità artiglieria contraerea nell’Esercito Italiano. Nel 1956 vince il concorso come geometra coadiutore nel Corpo Forestale dello Stato e si trasferisce a Roma. Da geometra lavora come Direttore dei Lavori nei cantieri di rimboschimento, progetta e dirige la costruzione di strade, briglie idrauliche e caserme forestali. Nel 1959, lavorando come topografo in Emilia Romagna, nell’acquisto di terreni per il Demanio, conosce la sua futura moglie che sposerà nel 1961. Nel 1962 e nel 1964 nascono i figli Amato e Rosa. Dopo diversi anni di permanenza all’Ispettorato provinciale forestale di Roma, viene richiamato alla Direzione Generale ove ricopre il ruolo di Capo della Segreteria del Direttore generale. Su richiesta del ministro dell’Agricoltura, viene insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana. Tre anni dopo diventa Cavaliere Ufficiale. Nel 1998 va in pensione con la qualifica di Primo Dirigente. In tutti questi anni, per la mai sopita affezione alle lettere, si diletta a scrivere poesie che nel 1964 vengono menzionate nella raccolta “Poesie in TV” a cura di Arnoldo Foà. Le sue poesie sono poi raccolte in un “libercolo” presentato negli anni scorsi durante le giornate del Libro nella sala convegno del Comune di Caposele.Recentemente, ha avuto inoltre il piacere di vedere alcune di esse pubblicate nel giornale locale “La Sorgente”. Poesie in cui con affetto, amore e nostalgia ricorda il suo Paese natio e intatto conserva e tramanda i suoi pensieri alle generazioni future, fonti di ispirazione ed emozione. 82

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Con gli occhi del ricordo di Nicola Conforti

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n una sala gremita all’inverosimile il giorno 23 Aprile 2012 è stato presentato il libro di poesie di Domenico Patrone intitolato “Con gli occhi del ricordo”. “Alcune di queste poesie, dedicate a Caposele,(dice Cesarina Alagia in un suo articolo) mi hanno riconsegnato per un breve lasso di tempo il paese di un volta; un paese intatto nelle sue voci, nei suoi antichi sapori, nella sua umanità. “Era il paese visto dall’Osservatorio di una persona partita troppo presto ed alla quale è stata risparmiata la visione di una realtà diversa, una realtà che quotidianamente e inesorabilmente ci impone la fine di un tessuto sociale chiamato Comunità; una realtà nella quale le vicinanze, le condivisioni sono talmente precarie che basta un colpo di vento per farle saltare, per farle esplodere”. Dalle poesie di Domenico, lette magistralmente da Manuel Patrone, traspare un grande amore per il paese di origine, una grande nostalgia per gli amici di un tempo, per le stradine del paese, il ricordo per l’incanto dolce delle serate estive, il gioioso ritrovarsi dei giorni di festa all’uscita della messa, gli anni belli della dolce età. Abbiamo rivissuto uno spaccato di vita “antica”, piena di ricordi nostalgici di un passato mai dimenticato. Accogliendo il suggerimento dell’autore del libro, dedicheremo un’altra serata alla “poesia”, alternando la lettura dei brani poetici alla visione di scene tratte dal filmato “Caposele, città di sorgente”. Ed a proposito di ricordi nostalgici riportiamo due poesie tratte dal libro:

NOSTALGIA Viene così, all’improvviso, con dolce carezza, con fremiti d’ali: immagini care, dolci sospiri, strette furtive di mani, desideri appagati. Corre il pensiero in una nube dorata: tutto è presente e ... il cuore muore NOVEMBRE Quanto piove! Quanta tristezza! La corta giornata è finita! finite son le speranze, l’attesa! La sera che avvolge il mio andare! Accompagna la mia amarezza, la pioggia che bagna il mio viso colma di lacrime amare il dolore. Vado senza meta, senza forza.

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SULLA “SELETECA”

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DONATELLA MALANGA Premio Caposele 2017 di Concetta Mattia

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o già scritto di quanto, e non solo formalmente, mi faccia piacere assegnare il premio Caposele, di quanto mi prenda la sensazione di condividerlo ogni qual volta lo assegno e pertanto, potete immaginare cosa sia stato assegnare lo scorso 19 Agosto, in una sala polifunzionale piena di amici e parenti, il premio di quest’anno alla cara Donatella Malanga. Un’altra bella emozione, certo, ma soprattutto una particolare empatia rispetto alla sua storia di donna che si è distinta in un settore strategico ma ostico e non particolarmente supportato come quello della ricerca scientifica, in un modo del lavoro in cui, è dato ufficiale che la parità di genere non è assolutamente garantita e/o praticata. Una donna che quindi ha dovuto fare e ancora fa, maggiori sacrifici, anche se, da quello che ci ha raccontato, fatti sempre con abnegazione, col supporto fondamentale di alcuni soggetti e dell’affetto dei familiari ma soprattutto, con tanta passione e dedizione. Uno dei sacrifici è rappresentato proprio dal voler fortemente mantenere i legami col suo paese, e pertanto, pur lavorando in Calabria, rientra sempre a Caposele, a casa, dalla sua famiglia ma anche dalla sua gente, dagli amici, dai suoi interessi e dai suoi luoghi d’elezione. Donatella è stata pertanto scelta quale persona giusta per aiutare quel radicamento di valori positivi nel nostro paese auspicato dal nostro premio, un premio da lei ampiamente meritato, così come recita la motivazione associata “per la sua stimata e appassionata attività di Docente Ricercatore nel settore impor-tante e strategico della Patologia Generale, affinché con la sua opera, aiuti a sensibilizzare la nostra comunità a fare sempre meglio, a fare di più e soprattutto, a fare insieme”. Riportiamo dunque, anche in questa sede, alcuni riferimenti del suo interessante quanto prestigio-so curriculum: Nel 2001 si laurea col massimo dei voti in Scienze Biologiche, presso l’Università Federico II di Napoli Dal 2006 è Dottore di Ricerca in Biologia Avanzata, indirizzo di Sistematica Molecolare, facendo anche esperienza presso il Laboratorio di Oncologia Molecolare, BioGem, Ariano Irpino (AV). Dal 2007 collabora col Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università Magna Grecia di Catanzaro di cui, dal 2012 è Ricercatore in Patologia Generale, presso il quale segue queste importanti linee di ricerca: Caratterizzazione fisiopatogenetica di una mutazione somatica di AKT1 nel tumore al polmone; Generazione e caratterizzazione di modelli murini rilevanti nella ricerca oncologica polmonare, mammaria e tiroidea; 84

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• Caratterizzazione di cellule staminali tumorali derivanti da tumori polmonari e ruolo del pathway PI3K/ AKT nel loro mantenimento; • Identificazione di signature molecolari dipendenti dal pathway PI3K/PTEN/ AKT nei tumori polmonari. Come associazione che assegna il premio Caposele, siamo orgogliosi del percorso di segnalazione fatto ad oggi e ringraziamo sin d’ora Donatella per la costruttiva presenza nella nostra comunità e per quanto saprà essere un valido supporto in questo senso, continuando ad essere l’ottimo professionista e la bella persona che è sempre stata. Ad majora cara!

GIUSEPPE CARUSO di Nicola Conforti Il curriculum in breve: Classe 1994, si diploma ragioniere perito commerciale e programmatore con 100/100. Nel 2013 intraprende gli studi di giurisprudenza Membro del Coordinamento Provinciale dei Forum della provincia di Avellino 2010/2012 Presidente di Istituto “I.I.S.S. L.Vanvitelli” 2011/2012 Consigliere di Istituto “I.I.S.S. L.Vanvitelli” 2012/2013 Delegato al Forum Regionale dei Giovani 2015/2016 Attualmente: - Presidente del Forum Regionale dei Giovani (dal 27 febbraio 2016 ad oggi)

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n ogni sua apparizione in pubblico ha sempre suscitato interesse e curiosità. Ha presentato l’ultimo numero de La Sorgente (il n. 95) in maniera impeccabile, riscuotendo il plauso di tutta l’assemblea. E’ stato preciso nella esposizione degli argomenti, obiettivo nella analisi critica degli stessi, disinvolto e spigliato nella sintesi e nella evidenziazione dei dettagli più significativi di ogni articolo. Una piacevole sorpresa ma che, stando al curriculum che precede, è solo una conferma delle sue notevoli doti di saper trattare argomenti e situazioni diverse con impegno, discrezione ed equilibrio. Da alcuni anni scrive per La Sorgente. Tra i vari articoli ci piace riportare, in estrema sintesi, l’ultimo in ordine di tempo e, per intero, l’articolo che ci appare più significativo stando almeno alle tematiche affrontate. Nei suoi scritti emerge sempre il suo grande attaccamento al Paese natio. Gente di Caposele Oggi

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“Vi è la necessità di raccogliere tutte le forze democratiche migliori che il paese possa offrire unite da un progetto comune, da una visione di Caposele, logicamente tenendo conto delle posizioni assunte nel corso del tempo (non tutti sono incolpevoli dello stato delle cose, dove la responsabilità deriva anche dal semplice aver taciuto), e ricominciare a coordinare, costruire, superare definitivamente il passato per volgere lo sguardo verso un futuro migliore e prosperoso”

Cogliendo le opportunità si potrà rinascere di Giuseppe Caruso

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a mia riflessione, per questa occasione, tratterà un tema fondamentale per il rilancio della nostra terra: quello delle opportunità. È un tema tanto importante quanto poco conosciuto. Sarebbe bello se proprio il Comune, così come fatto in altri territori, creasse uno sportello informativo che illustri le varie opportunità e le seguisse nel loro sviluppo interpersonale. Ma, per ora come tante altre cose, questo non c’è. Proprio da questa mancanza vorrei partire nella prima parte del mio scritto, responsabilizzando gli attuali amministratori (per quel che si può, ormai) e portando alla conoscenza dei miei giovani concittadini due opportunità, appena varate dal governo nazionale, per i GIOVANI appunto. - RESTO AL SUD: è un incentivo che sostiene la nascita di nuove attività imprenditoriali … - BANCA DELLE TERRE INCOLTE: la misura ha l’obiettivo di promuovere la valorizzazione e riqualificazione dei beni non utilizzati nelle regioni del Mezzogiorno, di rafforzare le opportunità occupazionali dei giovani … CAPOSELE PUO’ RINASCERE CON LA FORZA DELLE IDEE di Giuseppe Caruso

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n caro saluto a tutti i lettori del “La sorgente” ed un particolare ringraziamento a chi porta avanti con entusiasmo il progetto di questo periodico. La mia riflessione, per questa occasione, tratterà un tema centrale che ci chiama ad essere attivi e partecipi: le prossime elezioni amministrative. Premettendo che negli anni passati si è assistito ad una gestione disastrosa della cosa pubblica; non si è riusciti a far fronte nemmeno alla cosiddetta ordinaria amministrazione. E’ ora di ripartire, di ricostruire sulle macerie. Gli anni che verranno saranno anni cruciali per il nostro territorio, ci attendono scadenze importanti tra le quali la chiusura dei lavori della Pavoncelli bis, la centrale idroelettrica, la ciclovia, la questione acqua in tutte le sue sfumature, i tanti milioni dei fondi di sviluppo europeo da DOVER e SAPER sfruttare (FSE 20142020); e molto altro ancora.

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I prossimi anni saranno fondamentali per il futuro del nostro paese, in un contesto dove lo spopolamento, la crisi economica, la disoccupazione di vecchie e nuove generazioni ci attanagliano senza sosta. Questa sfida la potrà vincere solo chi avrà una visione nel tempo, accompagnata da idee e progetti. Bisogna far rinascere Caposele, proiettarla nel futuro; immaginandola tra 10/20 anni ed agire di conseguenza, altrimenti cambieranno i nomi ma si riproporrà sempre la gestione del “tirare a campare”. In questi mesi, attraverso la mia piccola esperienza regionale, ho avuto modo di conoscere tanti comuni della nostra regione, Caposele, pur essendo piccolissimo rapportato agli altri, ha delle qualità senza eguali, ma qualità che bisogna coltivare con duro lavoro, non possimo continuare a credere che tutto ci sia dovuto per un diritto divino, o meglio le fortune che Dio ci ha donato dobbiamo con orgoglio valorizzare mettendo in gioco tutto ciò che possiamo. In ultimo, credo che ci sia la necessità di raccogliere tutte le forze democratiche migliori che il paese possa offrire, logicamente tenendo conto delle posizioni assunte nel corso del tempo (non tutti sono incolpevoli dello stato delle cose!), e ricominciare a coordinare, costruire, superare definitivamente il passato per svolgere lo sguardo verso un futuro migliore e prosperoso. Con la forza delle idee Caposele può RINASCERE.

ROSY PATRONE il curriculum in breve:

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asce a Roma e lì vive da 54 anni. Infanzia e adolescenza impegnati nello studio e nello sport: la pallacanestro a livello agonistico ha militato in serie Bla danza ed il nuoto per puro diletto. Dopo la maturità scientifica e la Laurea in Giurisprudenza, consegue l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato. Contestualmente, nel marzo del ‘94 supera la selezione per l’ingresso nel ruolo degli Ufficiali amministrativi del Corpo Forestale dello Stato, seguendo le orme del papà Domenico in compagnia dei cugini Amato e Cesare. Sin dal suo ingresso nell’amministrazione forestale, il suo impegno è stato nel settore della gestione delle Risorse Umane; Esordisce come Collaboratore e, con la promozione a primo Dirigente – cioè Colonnello - a 38 anni conquista il ruolo di Capo dell’Ufficio del personale che dirige per altri 10 anni. Presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione consegue il” MaGente di Caposele Oggi

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ster in diritto del lavoro nelle amministrazioni pubbliche e sulla gestione del personale” e si specializza ne: - la gestione dei procedimenti disciplinari; -il controllo interno nelle amministrazioni pubbliche; - tecniche di comunicazione scritta; - la disciplina dei concorsi nella P.A.; - il controllo di gestione e il sistema di valutazione dei dirigenti nella P.A.; - le assunzioni obbligatorie nelle amministrazioni pubbliche e diritti dei lavoratori disabili; - la gestione del contenzioso. - i reati contro la pubblica amministrazione. Il Nucleo di Psicologia Applicata alle Forze Armate del Ministero della Difesa le conferisce la qualifica di “Perito Selettore Attitudinale”. Specializzata in “Cooperazione civile e militare” con esperienza all’estero in teatro di guerra (Sarajevo). Il 13 dicembre 2011, a 47 anni, arriva la promozione a Dirigente Superiore, oggi Generale. La qualifica comporta la guida di una Regione; le viene assegnato, così, il ruolo di Comandante Regionale del Molise dove permane fino al 2016 quando l’incarico cambia e diventa Comandante Regionale del Lazio e della Sardegna. Per la prima volta una donna al comando della Capitale. Voce e volto per i collegamenti video con RAIUTILE per gli aggiornamenti quotidiani delle attività del CFS. Dal 1 Gennaio 2017, per effetto della riforma Madia ha smesso i panni di Forestale e indossa quelli di Carabiniere Forestale con il grado di Generale di Brigata, ed è “tornata” ad essere Capo Ufficio Personale, Capo di 7000 Carabinieri Forestali.

DIALOGANDO CON… ROSY PATRONE, “LA MIA VITA IN… GENERALE!”

di Luigi Nerio Fungaroli

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crivere è sempre un momento che permette di capirsi meglio, un ascolto interiore che si trasforma in parole... Una lunga serie di dialoghi, questa, che ha lo scopo di ricostruire Caposele tramite persone, volti, storie che l’hanno vista cambiare ed evolversi... Protagonista di questo “dialogo”, è la Generale dell’Arma dei Carabinieri Rosy Patrone, la più giovane Generale tra le tre Generali donna in Italia. Per me, però, prima del grado, è semplicemente Rosy. “GIOIA”. Questa è la parola che, per diversi motivi, associo a lei. La prima volta che la incontrai, mi salutò proprio così, con un forte abbraccio, uno degli abbracci più forti che abbia mai ricevuto esclamando un “GIOIA!” e così continua a fare. Una “gioia” che mi pervade, un piccolo istante di felicità, la felicità di chi condivide con te le proprie radici. Sì, è proprio “Gioia” la sua parola. La gioia di chi conosce nuovi pezzi di famiglia, di chi comprende quanto, credendoci, si può volare alto nella vita. Di strada Rosy, la Generale Patrone, ne ha fatta tanta, ha sempre guardato fisso l’orizzonte, senza

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dimenticare mai la terra da dove era partita. Rosy, però, che ho potuto scoprire meglio nelle dinamiche di questa intervista, è esattamente un vulcano di idee, vitalità, progetti, sogni, esperienze, ricordi. Sono e dobbiamo essere fieri e orgogliosi di condividere con lei le origini e il senso di famiglia che, insieme, dobbiamo sempre più veder crescere, come mi ha detto. Cara Rosy, sarà fatto! Signorsì, Signora Generale! DOMANDE IDENTIKIT • COLORE PREFERITO: Il colore amato è il lilla, né rosa, né viola: lilla. Lilla è la mia camera da letto, lilla è il mio bagno, lilla è il colore della mia penna… ed anche dell’inchiostro. • FILM PREFERITO E PERSONAGGIO DEL PASSATO CHE TI PIACEREBBE INCONTRARE: I film mi piacciono tutti perché non ne vedo nessuno… Mi addormento sempre prima della fine. Rivedo volentieri, se capita, “La vita è bella”, “Balla coi lupi”, “Pretty woman”, “Qualunquemente”. Insomma…preferisco tutto. Mi incanto davanti a Brancaleone. “Brancaleone alle crociate”, una maestria unica nei dialoghi, esaltato dal personaggio del recente passato che mi piacerebbe incontrare ma da lontano, solo per ascoltarlo dal vivo; non reggerei il confronto nel dialogo con Vittorio Gassman. • CANZONE/CANTANTI PREFERITA/I: Liguabue, Vasco Rossi, Stadio: tutte le canzoni ma urlo quando la radio passa “Piccola stella senza cielo”, “Anima fragile”, “C’è”. • LIBRO PREFERITO: Tutto ciò che scrive Luca Goldoni e, naturalmente, “Un grande avvenire dietro le spalle” di Vittorio Gassman. • DOLCE O SALATO: Salato tutta la vita! Al dolce non sono stata abituata da piccola. Mi piace esagerare dipingendo la mia infanzia “triste: senza Nutella!”. Da molto grande, per caso, ho scoperto le barrette Kinder; ogni volta maledico quel caso che mi ha “drogato” senza via di salvezza. Domande: 1. Cara Rosy, zio Minguccio, tuo padre, nella poesia “Con gli occhi del ricordo”, scrive “Con gli occhi del ricordo son tornato, con gli occhi del ricordo t’ho guardato, paese mio, mio paese…”. Non possiamo non iniziare da qui, da dove tutto ebbe inizio. Al nome “Caposele” qual è la prima immagine che ti viene in mente? R. Caposele è nonna Cesaria; nonna Cesaria e il suo eterno fazzoletto in testa, nonna Cesaria e i tre scalini della sua casa, nonna Cesaria e le sue gonne (chissà quante ne portava tutte insieme! Chissà com’era veramente nonna Cesaria: magra, magrissima o larga quanto le sue gonne?) e le tasche di quelle gonne dove infilava le sue mani per tirare fuori manciatine di piccole caramelle Mou (la mia prima “droga”, poi, quella delle barrette Kinder). 2. I tuoi genitori sono partiti da paesi di montagna per poi approdare a Roma, dove tuttora vivi, realizzando aspirazioni e sogni, armati di spirito decisionista e forza di volontà. Potresti descriverli? Cosa ti hanno trasmesso e per cosa, in parGente di Caposele Oggi

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ticolare, ti senti di ringraziarli? R. Mia madre aveva un fidanzatino adolescenziale dal nome assai bizzarro, tale Morgan; da piccola, ma neanche tanto, io, con decisione e quasi spaventata da questo tipo dal nome di un pirata, sgrammaticata, con forza, sostenevo: “Se mammina sposava Morgan, io andavo con papà!”. Ecco, di questo li ringrazio, di essersi incontrati per incontrare me e per incontrare mio fratello. Ringrazio mia madre per aver chiesto all’allora sconosciuto mio padre, il belloccio forestiero capitato, per lavoro, al suo paese: “Cosa vuol dire CFS?” [la targa della macchina di servizio del Corpo Forestale dello Stato] e ringrazio mio padre per aver fatto scoccare quella scintilla, che dura da quarantasei anni, con la sua prontissima risposta: “Cosa fai stasera?”. E lì tutto ebbe inizio: i loro sogni, le loro ambizioni, l’unione della loro forza, le loro delusioni, la loro felicità. 3. Torniamo indietro nel tempo. Cosa sognava di fare da “grande” la Generale Patrone? R. I sogni nel cassetto sono ancora sogni; quel cassetto ogni tanto lo apro per mentire, sorridendo, a me stessa, convinta che “Sì! Non è detto! È ancora possibile! Potrò fare il direttore d’orchestra, che ci vuole! Mi metto sul piedistallo e agito le mani con la bacchetta! Ma che ci vuole!!!” 4. Jack London diceva: “L’adolescenza è l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi.”. Che tipa eri da adolescente e quale esperienza di quegli anni, in particolare, ti ha aiutato a crescere? R. Se Jack London diceva: “L’adolescenza è l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi.” qualcun altro scrive “L’esperienza è il tipo di insegnante più difficile: prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione”. Ecco, questa è l’esperienza delle mie esperienze. Ho fatto diversi esami e, a volte, la lezione non l’ho ancora imparata. È per questo che, ancora dopo tanti anni, continuo ad adorare FF che, da un po’ più in là dell’adolescenza, non smette di insegnarmi i passi per crescere. 5. Prima di diventare Generale dei Carabinieri sei stata Comandante Regionale del Corpo dello Stato del Molise. Cosa ci racconti di questa impor-tante esperienza? R. Quasi cinque anni in Molise. Una parte della mia vita, una parte della mia famiglia. Indimenticabile; i viaggi di andata il lunedì mattina, quelli di ritorno il venerdì sera, in mezzo, tanta vita; la casetta a Bojano, essenziale ed essenzialmente mia, l’ufficio a Campobasso, me lo hanno “consegnato” di color lilla; persone di rara umanità, i colleghi, le istituzioni, le conoscenze per caso. Tutti ringrazio per avermi supportato e per avermi insegnato quanto mai avrei potuto comprendere da dietro una scrivania. Fuori, il territorio è diverso; la carta scritta non potrà mai dire il colore, il sapore, il profumo, il dolore, la felicità, il bisogno, la ricerca d’aiuto che nascondono poche righe su un foglio. Non è banale, è proprio così… Si piange quando si lascia il Sud; ho pianto quando ho trovato i “miei forestali” in staffetta, con il saluto alla visiera, lungo la strada dell’ultimo venerdì di ritorno; ho pianto, commossa e senza parole, alla festa di saluto che, a sorpresa, hanno voluto dedicarmi tutti i forestali del Molise. Rarità pura.

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Emozione pura. 6. A poche ore dal terremoto di Amatrice eri lì a dare il tuo aiuto insieme a tanti altri forestali. Le immagini del lavoro del Corpo hanno fatto il giro del mondo inorgogliendoci. Cosa ricordi di quei giorni? R. Il terremoto del Centro Italia mi ha visto protagonista come Comandante Regionale del Lazio. Alle cinque del mattino, del 24 Agosto, poco ore dopo la scossa, la prima scossa, eravamo tutti in ufficio; alle 10:00 riuscivo a raggiungere Amatrice, via elicottero. Da quel momento e fino alla domenica successiva sono stata lì con i miei uomini, accanto a loro e a tutti quegli “angeli” intervenuti per cercare di salvare vite umane. Lo strazio sta nelle parole dei primi intervenuti: “Dottorè, una cosa così non si era mai vista”; ci siamo abbracciati forte, oltre il grado, oltre il ruolo, oltre il vincolo e le nostre mimetiche erano bagnate di lacrime. 7. Con la legge Madia il Corpo Forestale dello Stato è stato accorpato nell’Arma dei Carabinieri. Quali sono i sostanziali cambiamenti di questa dibattuta scelta? R. Un amico americano al quale raccontavo il D. Lgs n. 177/2016 che ha disciplinato l’assorbimento del Corpo Forestale dello Stato nell’Arma dei Carabinieri ha serenamente e lapidariamente sentenziato: “Normal! It’s Normal! È una fusione di aziende”. È decisamente ancora troppo presto per fare valutazioni e per tirare somme. Di certo, di sostanziale innegabilmente è cambiato il fatto che è un altro il “condominio”, altri è “l’amministratore del condominio”, sostanzialmente è diverso il “regolamento del condominio”, tutti nuovi i vicini di casa, i vicini di questa nuova, solida, grande casa. 8. Sei diventata una delle prime tre donne Generali dell’Arma dei Carabinieri rivestendo l’incarico, delicato e di rilievo, di Capo Ufficio del Personale, settore nel quale avevi lavorato per 18 anni e che ti fa gestire i 7000 forestali che sono transitati nell’Arma dei Carabinieri, numeri da capogiro. Come riesci a gestire un tale fardello di responsabilità e come si rapportano i tuoi sottoposti di sesso maschile nei riguardi di una Generale? R. Permettetemi il vanto di sottolineare di essere la più giovane donna Generale. Il ruolo di Capo Ufficio Personale dei carabinieri forestali che gestisce circa 7000 uomini non mi spaventa. Come allora, come prima di partire per il Molise, faccio il mio lavoro con dedizione e con passione e soprattutto con l’umiltà sia nei confronti del personale che, disorientato dal cambiamento, cerca conforto, cerca un faro, cerca risposte; come allora non mi sottraggo e non mi sottrarrei mai ad una richiesta di aiuto, una richiesta di consiglio o di indirizzo. E la mia grande fortuna sta nel personale che lavora con me, preparato, professionale, competente, pronto a non tirarsi indietro; se io “funziono” è perché ci sono loro, senza se e senza ma, senza distinzione di sesso, razza o religione! Io sarei nulla senza di loro, senza il loro apporto, senza il loro appoggio che non mi fanno mai mancare e li ringrazio. 9. Nel weekend la Generale Patrone chiude la porta dell’ufficio per godersi i suoi momenti privati, come spero tu faccia. Hai passioni che ami coltivare al di là del lavoro e come ti descriveresti nel privato? Gente di Caposele Oggi

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R. Dopo l’ufficio restano il sabato e la domenica e, con loro, l’amore, gli affetti, la famiglia, una tranquilla serata SKY o una cena in compagnia; di certo non manca l’attività fisica… l’età non fa sconti. 10. Il Natale è alle porte. Come trascorrerai le feste? Cosa ti auguri e cosa ci auguri? R. Il Natale è casa, da sempre; il Natale è casa mia, da tanto. Il Natale è io e mia madre, romagnola, in cucina: cappelletti in brodo per tutti. Li voglio tutti qua, tutti insieme, anche il mio miciogatto. E spero, grazie a te, Luigi, cugino caro, che mi hai cercato come non ci siamo mai cercati troppo noi cugini, lontani e un po’ dispersi ognuno con le proprie parallele strade, di rincontrarci, di ritrovarci, forti di quel legame che niente può cancellare.

GERARDO CERES

eletto nuovo segretario generale della CISL Salerno da la Sorgente n. 94

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i sa che ci fa sempre piacere quando possiamo dare notizia e condividere i successi dei nostri compaesani, ma ci fa particolarmente piacere quando questi sono amici storici e preziosi redattori di questo giornale. Siamo pertanto molto felici di informare della recente elezione del “nostro” Gerardo Ceres a segretario generale della CISL di Salerno. Tutto si è svolto durante il X congresso della Cisl di Salerno, che si è tenuto lo scorso marzo presso la sala convegni della Colonia San Giuseppe a Salerno, che ha impegnato 122 delegati, in rappresentanza di circa 50.000 iscritti e ha visto dibattere il tema “Per la persona, per il lavoro: obiettivo crescita”. Gerardo arriva a questo ennesimo e meritato traguardo dopo un impegno trentennale all’interno del sindacato! E da parte di tutta la redazione, ancora congratulazioni e i migliori auspici per il futuro. A questo punto è d’obbligo parlare di Gerardo per le sue attività extra professionali: una persona eclettica che coltiva molti interessi, dalla politica al giornalismo, dalla organizzazione di feste popolari, alla presentazione di manifestazioni culturali o sportive. Cura per il giornale La Sorgente la pagina culturale e lo fa con notevole maestria mettendo in grande evidenza “quadretti paesani” ovvero personaggi che hanno riscosso in vita un certo interesse per le loro simpatiche avventure o disavventure. Ha presentato libri, giornali e manifestazioni di ogni tipo. Spesso leggiamo su detto periodico articoli di fondo che evidenziano riflessioni molto interessanti sulla politica e sul sociale. Per la Sorgente Gerardo Ceres rappresenta un pilastro della comunicazione insostituibile. 92

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GIUSEPPE CERES Corrispondente dall’Australia di Nicola Conforti Emigrato in Australia da oltre quarant’anni, non ha mai dimenticato il suo paese natio. Si è inserito con facilità in un ambiente lontano, difficile e diverso dal nostro, grazie alla sua caparbietà ed al suo lodevole impegno . Lo ricordo, con ammirazione, impegnato da autodidatta negli studi di italiano, di matematica e fisica. E, grazie alle conoscenze diligentemente acquisite in anni di studio, è riuscito ad affermarsi all’estero. Ha mantenuto sempre rapporti di cordialità ed amicizia con gli amici di un tempo. Ha scritto un libro sulla storia degli “Italiani emigrati in Australia”i cui capitoli sono stati trasmessi via mail a “La Sorgente” per la pubblicazione. Riportiamo di seguito una lettera scritta all’inizio della sua collaborazione con il nostro giornale. IMPRESSIONI SU L’AUSTRALIA E GLI AUSTRALIANI

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aro direttore Quando decisi dì andare in Australia ero convinto che l’Australia avesse ereditato dall’Inghilterra gli stessi usi e costumi e la stessa organizzazione del lavoro e cose simili, essendo stata essa ed in certo qual modo continuava ad esserlo, una colonia inglese, invece mi sbagliavo. La prima cosa diversa e che mi rimase impressa, accadde quando con mio cognato Raffaele sdoganai i bagagli presso il porto di Sydney. Su ciascuno dei bagagli, casse in legno, avevo posto l’elenco di tutti gli oggetti contenutivi e ciascuna cassa era stata assicurata da due nastri metallici da un operaio del reparto doganale dei controlli bagagli per i passaggi assistiti di Salerno. Ciò, però, non fu sufficiente a dissipare il sospetto del doganiere, il quale, afferrata una leva tira chiodi ed infilata l’estremità, quella a forma di scalpello a forcella, sotto uno dei due nastri di una delle casse, si preparava a spezzarlo: “Ehi Signore! Gli gridai in inglese - Tu non puoi danneggiare i miei bagagli così. L’arnese che stai usando per rompere i nastri non é quello adatto; scusami, ma io desidererei che tu usassi l’arnese appropriato”. Al mio grido il doganiere rimase di stucco e mi guardò con un fare interrogativo, come dire: “ Chi é costui così sicuro da osare tanto?” Intanto mio cognato con voce bassa mi disse:” Molliamogli sotto-sotto dieci dollari e vediamo se ce li fa passare senza aprirle”. Sei matto? Questi ci possono denunciare per ‘Corruzione di Pubblico Ufficiale’, in Inghilterra si può finire perGente di Caposele Oggi

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fino in galera”. Ma Raffaele, detto fatto, estratta dalla tasca una banconota da dieci dollari e mentre la teneva nascosta nel pugno furbamente tenuto mezzo aperto, tese quella mano nera al doganiere che contraccambiò; Raffaele, ciò facendo, gli disse, sempre in inglese: “Sai mio cognato é nuovo dell’Australia e non si azzarda a far passare cose proibite... “. Intanto il doganiere notata la banconota, abboccò e, convinto della nostra buona fede ed anche perché dieci dollari nel marzo del 1971 valevano una scarsa paga di una giornata di lavoro di un manovale e perciò facevano gola, non si lasciò sfuggire l’occasione. “Capisco“ commentò e col gesso bianco segnò una’ X ‘ (= passati) su tutti i bagagli e se ne andò allegro e contento. A questo punto commentai ad alta voce: “ Sydney non come Dover (Inghilterra), ma come Napoli... “. Rimasi contento, ma anche un po’ deluso e perplesso. “ Sorpresa, sorpresa! L’Australia mi sorprende! Pensai tra me e me.

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ANTONIO CONFORTI Antonio Conforti “il poeta delle immagini”, vero appassionato di arte fotografica, con il suo inseparabile strumento ha fermato tutti i più significativi avvenimenti caposelesi per decenni: occasioni civili, sociali, familiari memorabili, mettendo insieme, nella sua lunga attività, una involontaria storia Sociale di Caposele. Le sue foto si catalogano quali espressioni dell’arte per conservare, preservare e tramandare situazioni, paesaggi, figure.

Un triste ricordo (deceduto nel novembre del 1973) di Vincenzo Malanga

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vvertiamo il triste dovere di ricordare nelle pagine di questo primo numero la figura di Antonio Conforti socio fondatore della Pro Loco. Egli, colpito da male inesorabile, è passato a miglior vita con la serenità dei martiri, lasciando eredità di affetti a quanti gli vollero bene e patrimonio di stima incondizionata a quanti gli furono amici. Già minato nella salute, abbandonò la sua attività di fotografo, capace e scrupoloso, solo quando le forze fisiche gli vennero del tutto meno. Ha amato Caposele partecipando con entusiasmo e trasporto di figlio devoto a tutte le iniziative tese al bene della sua terra e, a volte, anche con atti personali. Il suo ricordo di cittadino onesto e laborioso ci è sicuramente di sprone a sempre meglio operare per il benessere della nostra cittadina e l’eco della sua parola calda e giudiziosa ci riempie il cuore di sentimento a concretizzare, con impegno profondo, le iniziative programmate dalla nostra nascente organizzazione.

Il “Poeta” delle immagini di Pasquale Cozzarelli

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a pochissimi giorni ha chiuso i battenti il pezzo forte dell’Estate caposelese programmata dalla Pro Loco guidata dall’ex sindaco Alfonso Merola. Mostra Fotografica dedicata ad Antonio Conforti, il poeta delle immagini scomparso nei primi anni 70. Antonio Conforti era un vero appassionato che con il suo inseparabile strumento ha fermato tutti i più significativi avvenimenti caposelesi per decenni Un personaggio che in paese tutti rammentano quando andava in giro con la macchina a tracolla. Un mago dei ricordi, in alcuni casi autentiche gemme incastonate nella miriade di sentimenti, rimembranze e spaccati di vita quotidiana che si affastellano nella

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memoria di ognuno. Del resto le foto si catalogano quali espressioni dell’arte per conservare, preservare e tramandare situazioni, paesaggi, figure. Tornano a far rivivere il passato e servono a far conoscere alle nuove generazioni frammenti di storia del nostro paese. Le fotografie esposte erano 152; la più antica risalente al 1880-90, suddivise in varie sezioni dedicate alle scuole, alla captazione delle Sorgenti del Sele da parte dell ‘ Acquedotto Pugliese, allo sport, al periodo fascista, ai gruppi familiari. L’ultima sezione infine ha riguardato la firma della Convenzione del 1970 con l’Ente Acquedotto. Una sorta dunque di cammino nelle antiche vicende di Caposele, immaginando il futuro. Ad Antonio Conforti tutto questo è riuscito pressocchè alla perfezione nel corso della sua ultraquarantennale carriera, sbocciata sulle orme del fratello Nicola. Sacrosanta, perciò, l’esigenza di commemorarlo degnamente. E Caposele ha risposto alla grande. In 10 giorni di esposizione centinaia di persone si sono accalcate nei locali di via Roma, sede dell’Ente di Promozione turistica. Una folla superiore alle più rosee aspettative ha onorato e rinfrescato un ricordo che resta comunque ancora vivo nella mente di tanti. L’esposizione è stata fortemente voluta da un nipote dell’Artista, l’ingegnere Nicola Conforti, per lunghi anni Presidente della Pro Loco, che da sempre dirige il periodico “La Sorgente”, giornale che l’anno prossimo festeggerà le nozze d’argento con i propri lettori. Mostra fotografica dedicata ad Antonio Conforti di Emilia Cirillo

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a mostra è una rivisitazione fotografica di vita, storia e costumi locali, anche attraverso manifestazioni significative che hanno segnato le tappe fondamentali di questo secolo. La sera di San Lorenzo, santo patrono di Caposele , tutore dei cieli attraversati dalle stelle, è stata inaugurata nella locale sede della Pro loco la mostra “La foto dei ricordi”, che è stata visitata fino al 20 agosto. Instancabili nel rintracciare continui legami tra il passato e il divenire del loro paese, gli organizzatori della mostra, Nicola Conforti, Salvatore Conforti, Donato Conforti, Alfonso Merola, con la collaborazione di Concetta Mattia, hanno raccolto, calalogato ed esposto un centinaio di fotografie di Caposele, dal 1890 al 1970. Parte del materiale è stato fornito dall’archivio de “La Sorgente”, giornale diretto da Nicola Conforti, la restante parte è costituita dalle foto scattate da uno dei primi fotografi professionisti di Caposele, Antonio Conforti, detto “l’artista”, cui la mostra e’ dedicata. Con l’artista, nella parlata di Caposele, ha dettò Alfonso Merola, presidente della Pro loco, era denominato chiunque facesse lavori artigianali. Artista era il ricamatrice, e quindi artista era anche Antonio Conforti, nel senso di artigiano

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dell’immagine. Colla sua macchina fotografica sempre al fianco, Conforti ha fermato nella immagine occasioni civili, sociali, familiari memorabili, mettendo insieme, nella sua lunga attività, una involontaria storia Sociale di Caposele, di cui la mostra risulta essere la riuscita immagine finale. Il senso dell’iniziativa, ha detto Alfonso Merola, è quello di conoscere e riconoscere in maniera documentaria le tappe della trasformazione politica, sociale, urbana di Caposele. Non a caso la mostra si apre con una antichissima immagine del fiume Sele e della chiesa della Sanità prima che i lavori dell’Acquedotto Pugliese sottraendo risorse non solo a Caposele ma a tutta la Provincia, trasformassero irreversibilmente l’orografia del paese di sorgente. “Una delle testimonianze del modo in cui il Sud ha conosciuto una travagliata ma intensa e indubbia trasformazione” è scritto nelle didascalie a commento delle immagini. Usata abilmente dal Conforti, la foto dei ricordi ha catturato nella sua “camera chiara” le immagini della grande guerra, le sfilate e i raduni del fascismo, le processioni di San Rocco con le donne devote che portano in testa “le mezzette” (contenitori di grano addobbati con tele di lino, fiori e immagini votive) momenti di gloria sportiva, partite di calcio, la nuova vita amministrativa dopo la guerra, l’accoglienza all’americano paesano danaroso che prometteva interventi nel paese, la costruzione dell’edificio scolastico, l’arrivo dei pacchi UNNR dall’America, le scolaresche riunite per l’annuale foto di fine anno, gli incontri tra amici, le “serenate” tra fisarmonica e marsala che accompagnano fino a notte fonda l’amico che partiva emigrante, la prima scuola Borletti per il ricamo a macchina. Ma è nel “ritratto” che l’artigiano Conforti rivela la sua arte. Il ritratto, preferibilmente in abito da festa, le scarpe buone ai piedi, in posa, davanti la porta di casa, con la famiglia, in atteggiamenti statuari, il ritratto è il solo tramite visivo che ha unito chi è partito dal paese con chi è restato, è la forma del tempo trascorso che si sovrappone al ricordo del viso che si è lasciato. Furono i ritratti “che inondarono ogni angolo del mondo dove un caposelese si era spinto per lavoro, per rendere partecipe chi era lontano di emozioni altrimenti non descrivibili.” A guardar bene la mostra non illustra solo le vicende sociali di Caposele, ma di tutta l’Irpinia, perchè tutta l’Irpinia è stata segnata dagli stessi fenomeni di emigrazione di sottrazione di risorse senza compenso, di trasformazioni senza sviluppo. Meriterebbe di essere visitata da tutta la provincia e allestita anche ad Avellino, per problemi politici che essa pone. Riflettere insieme, uscire dall’isolamento del Paese costruire una nuova storia sociale partendo da sé, mi è sembrato il desiderio degli organizzatori. Un desiderio che ha attraversato, come una stella, il cielo della notte di San Lorenzo.

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FRANCESCO CAPRIO Eletto per tre volte consecutive Sindaco di Caposele, amato e stimato da amici e da avversari politici. Uomo sereno e rassicurante, refrattario alle parole inutili e ridondanti, attento a trasmettere tranquillità e speranze. Insomma, un galantuomo, capace di gestire al meglio i doveri di padre e gli oneri e gli onori derivanti dalle cariche e dalle funzioni pubbliche. Deceduto il 21 gennaio del 1979.

Nel trigesimo della morte dal numero speciale n.19 de La Sorgente di Nicola Conforti

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a Sorgente, con questo numero speciale, intende rendere un particolare omaggio commemorativo all’indimenticabile Sindaco Francesco Caprio, riportando le notizie e le immagini più significative della sua vita, stroncata quando ancora era nel vigore delle sue forze nonostante l’età. Quest’omaggio serve a dare a tutti ed in particolare a chi è lontano da Caposele la possibilità di conservare, sensibilmente, fra i suoi ricordi più cari anche quello di Don Ciccio, il Sindaco, che portava tutti nel cuore e nella mente ed in particola¬re tutti gli emigrati, tutti i concittadini lontani che lo consideravano l’alfiere, il portabandiera del progresso civile e sociale del paese, che lo ritenevano il simbolo di Caposele, “il vecchio del paese”, profondo conoscitore di uomini e cose che costituiscono il lungo periodo storico locale da cinquant’anni ad oggi. Egli fu propugnatore e sostenitore di questo giornale, ritenendo la sua realizzazione una promozione culturale che avrebbe dato spazio a tutti coloro i quali avessero inteso esprimere i loro sentimenti, le loro idee, i loro giudizi critici in ordine a fatti locali ed in ordine a problemi di pubblico interesse. Non mancarono mai le sue sollecitazioni, a volte anche accorate, quando si tardava a dare alla stampa il giornale, perché conosceva l’ansia di coloro che attraverso questa pubblicazione stabiliscono contatti di amore e di fratellanza con Caposele, che Egli soleva definire “il paese più bello del mondo”, non tanto per le sue bellezze naturali, non tanto per la sua riconosciuta generosità, ma anche per la cordialità della sua gente vicina e lontana, per la bontà dei suoi figli protesi a conquiste sempre più encomiabili nel lavoro e nella cultura e che non dimenticheranno mai Lui, Don Ciccio, il Sindaco.

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La sua vita in breve di Vincenzo Malanga

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acque a Caposele il 10 novembre 1904 dal geom. Rocco e da Donna Giuseppina Orciuoli, maestra elementare. Frequentò le scuole elementari del paese; ad Avellino città di residenza dei nonni materni, continuò gli studi, frequentando il ginnasio e i tre anni di liceo classico presso l’Istituto “P. Colletta”, conseguendo la licenza liceale quando ancora non aveva compiuto 17 anni. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Napoli. A circa vent’anni era brillante ufficiale di fanteria. In seguito, entrò a far parte di una compagnia di assicurazioni, svolgendo a favore di questa efficace attività. Giovanissimo aveva partecipato alle manifestazioni politiche dell’epoca, assumendo ruoli di primo ordine. Ma, cambiati i tempi, dopo gli anni del regime, aveva accettato con spirito sereno tutto ciò che il soffio democratico dei tempi nuovi aveva portato. Nel 1927 partecipò al concorso pubblico per Segretario Comu¬nale, risultando vincitore e gli venne assegnato, come prima sede, il Comune di Grottolella. Poi fu a Valmozzola (Parma) per circa un anno. Nel 1930 venne assegnato a Caposele ove rimase fino al 10 giugno 1957. In questi anni svolse intensa opera, dando chiaro segno di capacità professionali spiccate, ma ancor più si distinse per la perspicacia organizzativa nella soluzione dei vari problemi che riguardavano il paese, con un apporto sempre risolutivo sulle varie questioni e facilitando il compito agli amministratori unici, allora di nomina prefettizia e politica. Per alcuni periodi prestò pure servizio a scavalco nei Comuni di Calabritto e Senerchia, guadagnando anche in quei paesi la stima e la simpatia delle popolazioni. Nel 1945 venne epurato dal suo ufficio per tema di sommosse dei Caposelesi e di rappresaglie contro la sua persona, avendo Egli, come già detto, assunto in passato ruoli di prim’ordine’. Ma i Caposelesi non pensavano nemmeno lontanamente a tanto, stimando il Segretario Caprio a cuore aperto, dispiaciuti anzi per il suo allontanamento. Nel 1947 venne richiamato in servizio attivo senza subire alcun processo. Si era in epoca di ricostruzione ed Egli riprese il suo lavoro con lo stesso impegno di sempre, con lo stesso zelo e con più lena, sfruttando, per accelerare i tempi e realizzare le opere, anche le amicizie personali che aveva un pò dovunque e la carica di simpatia che, quasi come dono divino, sapeva infondere in chi ascoltava la sua parola semplice, dolce, penetrante. Sono di questi anni (1947 - 1957) la costruzione dell’edificio scolastico, la costruzione di 20 case rurali per gli abitanti di Buoninventre “che vivevano in case di paglia, la costruzione di importanti tratti di strade interpoderali, la istituzione di 10 posti di scuola pubblica nelle zone montane, la inclusione del territorio di Caposele nel comprensorio di bonifica ApuloGente di Caposele ieri

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Lucano, per cui gli abitanti della contrada Buoninventre poterono fruire di notevoli miglioramenti di ordine sociale. - Il 1957 fu un brutto anno per Don Ciccio, come affettuosamente tutti lo chiamavano in paese. Infatti, con provvedimento dell’allora Ministro degli Interni on.le Tambroni, venne trasferito d’ufficio a Craco (MT). Si seppe che il provvedimento veniva adottato perché il Segretario Comunale aveva influito, in maniera determinante, sul risultato delle elezioni amministrative del 1956. Non era vero. Il provvedimento per Craco fu revocato, ma, ugualmente, il Segretario Caprio venne trasferito a Nusco e poi, a domanda, ad Aiello del Sabato ove rimase fino al 1969 anno in cui venne collocato a riposo per raggiunti limiti di età. Sia che fosse a Nusco, sia che fosse ad Aiello del Sabato non sapeva resistere lontano dal suo paese natale, che Egli, con orgoglio ed entusiasmo, soleva definire il paese più bello del mondo: ogni sabato era presente per ripartire il lunedì con le tasche gonfie di pratiche che i cittadini gli consegnavano, pregandolo di risolvere i loro piccoli grandi problemi presso questo o quell’ufficio del capoluogo ove aveva la propria abitazione. E Lui non sapeva esprimere diniego a nessuno. Nel 1964, ancora in servizio attivo, i Caposelesi vollero richiamarlo nella madre terra e lo elessero Sindaco. Nel 1970 e nel 1975 lo vollero ancora Sindaco, Sindaco a vita dunque! Negli anni del suo sindacato la sua vita fu ancora una completa dedizione alla sua gente, alla quale si sentiva legato da affetto profondo e disinteressato, ed alla soluzione di un problema vitale per il paese: la vertenza con l’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese, insorta nel lontano 1939. In proposito Egli, dopo aver rotto il clima di freddezza stabilitosi fra l’Ente ed il Comune di Caposele con vero acume diplomatico e dopo aver raggiunto i preliminari accordi di massima, stese di proprio pugno la bozza di convenzione fra l’Ente ed il Comune, dimostrando, e questa volta più di tutte, le sue peculiari capacità tecniche, amministrative ed umane, tese, innanzitutto, a contemperare le esigenze delle parti in contesa, esaltando, cosi, anche il suo alto senso dell’equilibrio. E i benefici che il paese trasse da questa convenzione furono notevoli. Ad altri il nutrito elenco di opere da Lui volute e realizzate a favore di Caposele durante il quindicennio della sua attività di Sindaco. Fu da sempre il papà dei Caposelesi, come ebbe ad affermare un giovane subito dopo il suo inatteso ed insospettato trapasso. Non disse mai male di alcuno; per tutti, nelle avversità, ebbe parole di fiducia, mostrò aiuto concreto, invitando alla speranza. Schivò le lusinghe e le morbidezze, fu tetragono nel sentimento del Giusto e dell’Onesto. Guidato dalla luce del Vero e da autentico cristiano spirito di amore verso la famiglia e di fratellanza verso il prossimo, entrò con eguale animo sia

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nella casa del ricco che nel tugurio del povero. Si spense serenamente all’alba del 21 gennaio 1979.

Il Sindaco galantuomo da La Sorgente n. 79 di Alfonso Merola

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rent’anni fa, nella notte tra il venti ed il ventuno gennaio 1979 si spegneva Francesco Caprio, il più amato tra tutti i Sindaci che hanno finora avuto i Caposelesi. Io credo che sia giunto il momento che l’Amministrazione Comunale ne onori la memoria, intitolandogli un angolo di questa terra che egli tanto amò e tanto bene servì. La memoria, è utile ricordarlo, è un’operazione della mente che ha un valore pedagogico, perché conservando tracce di un percorso umano e radici identitarie spiana il cammino verso il futuro. Ciò vale ancora di più in una stagione politica in cui si naviga a vista, Francesco Caprio, ad esempio, nell’attuale congiuntura di fibrillazione istituzionale ci avrebbe suggerito di reagire con ottimismo alla crudezza della realtà, ammonendo a destra e a manca che, “quando si distruggono i monumenti, bisogna salvare i piedistalli, in quanto questi ultimi possono sempre tornare utili”. Io conservo di lui l’immagine di un uomo sorridente e pensoso, sereno e rassicurante, refrattario alle parole inutili e ridondanti, attento a trasmettere tranquillità e speranze. Insomma, un galantuomo, capace di gestire alla meglio i doveri di padre e gli oneri e gli oneri derivanti dalle cariche e dalle funzioni pubbliche. La sua nitidezza intellettuale, la sua schiettezza dialogica e la sua dedizione all’onestà gli consentirono di non recriminare niente del suo passato e allo stesso tempo di continuarsi a sentire a disposizione della collettività, senza sgomitamenti e senza imboscate, forte delle sole formidabili doti umane che possedeva. Non molti sono, per così dire, approdati dal Fascismo alla Repubblica, conservando intatta la stima dei loro concittadini. A lui questo è riuscito perché come ieri non aveva mai abusato del potere di cui poteva disporre, successivamente non usò strumentalmente le occasioni che gli si presentarono. Per dirla con Friedrich Hoderlin, “Là dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva” e Francesco Caprio è uscito adamantino dal Fascismo, Oggi gli dovrebbero le scusa quanti tentarono di elevarlo a eroe negativo e poi, comodamente, dalla D.C. transitarono nel P.S.I, per poi approdare in A.N., F.I e, dulcis in fundo, nel P.D.L., volendoci convincere che destra o sinistra “pari sono”. Nessuno avrebbe potuto impedire a Francesco Caprio di salire sul carro della Balena Bianca che all’epoca dispensava cariche e onori nell’opera di sostituirsi “burocraticamente” al Fascismo. Ciccio Caprio scelse, invece, il Fronte Popolare. L’alleanza PSI e PCI, che in Irpinia aveva la strada lastricata di pietre taglienti e spine. Gente di Caposele ieri

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Egli pagò umanamente e professionalmente quella sua scelta: fu trasferito, come segretario comunale, dalla sera alla mattina, a Craco in Lucania. Perché, all’epoca dei governi Tambroni, si andava pesanti contro chi non era muto ed obbediente ai desiderata del potere. Egli, però, con quel suo atto di coraggio, trasmise a tanti giovani e a tanti contadini una certezza: in democrazia le libertà personali sono inviolabili e disobbedire ad ordini sbagliati, oltre che possibile, è doveroso. Questa era la forza morale di Francesco Caprio che unita alla sua speciale umanità, al suo sconfinato amore per Caposele e la sua competenza, gli consentì nel 1965 di essere salutato Sindaco di Caposele. Collaborato da Gennaro Majorana, in un’epoca in cui i segretari comunali non erano delle “colf”, impermeabile a rancori verso chi gli aveva preparato trappole, egli amministrò con la sensibilità unica di chi ama la pace e l’unità della sua comunità, sempre attento a coltivare la tolleranza ed il rispetto. Non amava, ad esempio, accanirsi contro gli avversari politici che gli avevano votato contro: il giorno dopo le elezioni, puntualmente lo vedevi a tavolino giocare a carte con loro. Non ti meravigliavi, allora, se nelle successive tornate elettorali essi ingrossavano le file dei suoi sostenitori o addirittura te li trovavi in lista. I suoi non erano “inciuci”, ma operazioni alla luce del sole, sempre condivisi dal suo alleato di sempre, il P.C.I del vice sindaco Mazzariello, una sezione che nella “bianca” Irpinia veleggiava con il suo 40%. E fu sua l’intuizione di aprire la “Stretta di mano” al dialogo con la D.C. in nome del progresso di Caposele. La sua Stretta di Mano, d’altronde, non era un cartello politico di partiti ossessionato dalla spartizione, ma una ”proposta laica” che non consentiva a nessuno di bivaccare a danno della comunità; non vi albergava, infatti, nessuna concezione privatistica dell’istituzione. Questa sua concezione autorevole ma democratica del governo locale lo faceva apprezzare in ogni angolo dell’Irpinia: Caposele era divenuto “il paese di Ciccio Caprio”. Egli sapeva, inoltre, irrobustire il tessuto sociale di Caposele e, perciò, incoraggiava ogni iniziativa: la Pro Loco, La cooperativa agricola, la Polisportiva, il Circolo Caccia e Pesca, la comunità parrocchiale, le comunità evangeliche etc. Un paese, insomma, tutto immerso in un sociale che rendeva più collaborativa e meno noiosa la vita di un Comune di quattromila anime. “Questo è il paese più bello del mondo“ era solito dire, aggiungendo il suo programma racchiuso in uno slogan “ Caposele ha due Santuari da valorizzare: quello del Santo della collina e quello delle acque!” E su questi due obiettivi egli vi lavorò alacremente fino agli ultimi giorni, convinto com’era che la fortuna di un paese sta nelle sue forze e nelle sue opportunità. Avendo maturato, da segretario comunale, esperienze e conoscenze umane, con una maestria diplomatica ed il supporto congiunto di autorevoli dirigenti na102 FRANCESCO CAPRIO

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zionali della D.C. e del P.C.I., portò all’incasso l’annosa vertenza del Comune contro l’EAAP con la stipula di una convenzione molto vantaggiosa per Caposele. Quel metodo collaborativo, inoltre, gli aprì le porte della CASMEZ. La qual cosa consentì a Caposele di realizzare una fitta rete di strade interpoderali, di acquedotti e di edilizia scolastica rurale ed urbana. Anni di fervore che si conclusero con l’istituzione del Liceo Scientifico che ha contribuire a elevare le condizioni culturali in un paese in cui le professioni, prima, erano, per così dire, fatalisticamente ereditarie. Egli si trovò a dover cimentarsi anche con il boom economico degli anni 60 con un comune sprovvisto di strumenti urbanistici generali, mentre la domanda edilizia e quella turistico-religiosa di Materdomini cresceva impressionantemente. Stretto tra l’obbligo di imboccare la via di un P.R.G. (le cui maglie burocratiche si presentavano realisticamente non percorribili nell’immediato) e le esigenze di dare, in via breve, sfogo ad una domanda crescente, optò per quest’ultima, assumendosi una pesante responsabilità sul fronte dell’abusivismo di necessità. A constatare, oggi, che un governo, seguito a ruota dalle regioni,legifera sulle “ rottamazioni” edilizie, anche nei centri storici con la concessione di volumetrie in aumento, se Francesco Caprio fosse vivo, direbbe di aver conseguito una vittoria “postuma” ma al riparo da scempi e speculazioni edilizie. Ma la vera scommessa egli la vinse a Materdomini quando agevolò la trasformazione del piccolo centro da rurale in turistico e per giunta a ridosso del complesso religioso dei Liguorini. Si dirà, oggi, che tutto è avvenuto a danno di una vera programmazione territoriale …C’è da chiedersi quale robustezza economica diffusa avrebbe avuto la frazione se il tutto fosse avvenuto alquanto distante dal nucleo centrale dei pellegrinaggi. In fondo egli riteneva che dovesse essere sconfitto ogni modello monopolistico, in modo da dare opportunità a tutti. La controprova, d’altronde, ci è data da trent’anni di amministrazioni successive, le quali hanno sempre parlato di un turismo diverso, ma puntualmente si sono inchiodate a ciò che Francesco Caprio aveva creato dal nulla, caricandosi responsabilità solitarie in nome di una rete produttiva e commerciale che ancora regge e regge bene. Io credo che, oggi, gli debbano gratitudine e riconoscenza in tanti e gli debbano “l’onore delle armi” chi, non essendo in grado di batterlo sul campo della democrazia, imboccò la via giudiziaria, avvelenandogli gli ultimi giorni della sua preziosa vita. Di fatto egli è ancora vivo in chi lo ha veramente conosciuto e talvolta lo ha invocato come un Nume speciale nelle ore di avversità che pure sono suonate per Caposele, a partire dagli anni duri del terremoto, dell’emergenza e della ricostruzione. A trent’anni dalla sua scomparsa, onorandolo oggi e ringraziando la sua famiglia per averlo condiviso con tutti noi, noi tentiamo di mantenere accesa una speranza per chi crede che governare con onesta e con bontà è una missione laica che è possibile … Gente di Caposele ieri

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Se davvero esiste un lassù, egli è certamente là e vigila su tutti noi, ricordandoci che i Capo-selesi non sognano lune nei pozzi, ma umili amministratori, attaccati alla loro terra e che si impegnano nella lotta per un progresso realistico, di cui il lavoro, e non l’affarismo, è il perno principale L’ultima sera della sua vita, i Caposelesi lo ricordano inchiodato nelle prime file del cine-teatro di Materdomini a salutare la partenza dalla Diocesi del suo amico arcivescovo: nonostante non stesse bene, non volle disertare quell’appuntamento. A chi tentava di dissuaderlo egli rispose:” I doveri nella vita sono come i progetti; essi vanno portati a termine, a prescindere dalle poche o molte forze che ti restano. Questo vuol dire vivere e saper vivere i propri giorni ed io, credimi, li ho vissuti intensamente”. Un uomo straordinario da La Sorgente n. 74 di Vincenzo Di Masi

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ontinuo la rubrica “l’Angolo dei Ricordi”, mediante la descrizione di una persona veramente eccezionale, appartenente al recente passato di Caposele, di cui fu oltre che segretario comunale, anche benemerito Sindaco per oltre 15 anni. Di Lui, della Sua eccezionale personalità, unanimemente riconosciuta in ogni luogo dell’Irpinia e dell’Alto Sele e, persino, in U.S.A., Australia, Canadà, Brasile, Argentina e altri Paesi del mondo ove i nostri connazionali emigrarono in cerca di fortuna, ha diffusamente parlato, in un numero speciale, il periodico “La Sorgente” del gennaio-marzo ’79, nel trigesimo della morte, avvenuta all’alba del 21 gennaio 1979. Francesco Caprio nacque a Caposele il 10 novembre 1904 e sin dai primi anni della Sua vita diede prova di singolare intelligenza, generosità, altruismo, onestà e rettitudine. Per quel che dicevano i Suoi coetanei e insegnanti, primeggiava negli studi e malgrado non avesse conseguito alcun titolo accademico (era iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli), tuttavia possedeva cultura umanistica, giuridica e amministrativa di altissimo livello, invidiata da plurilaureati ed apprezzata da docenti universitari e uomini di cultura. Di Franco Caprio - così veniva conosciuto dalla generalità delle persone e dai suoi concittadini – non racconterò e non richiamerò alla memoria le vicende, ancorché encomiabili, della Sua esistenza, perché di esse molto e meglio di me hanno parlato i Caposelesi di ogni estrazione e le più alte Autorità civili, politiche e religiose che lo conobbero ed apprezzarono. Di Lui dirò soltanto delle qualità interiori, personali e morali, della Sua intelligenza, del Suo immenso amore per i concittadini e per il paese in cui nacque e visse.

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La consapevolezza di se stesso, del destino dell’uomo assegnato dal Creatore, la forza e la capacità di interpretare le Sue attività preminenti, costituivano anche la base per affrontare e risolvere i più grandi ma altresì i più piccoli problemi delle vita professionale e della collettività sociale in cui si era volontariamente inserito Egli, a mio giudizio, per quel tanto che ebbi modo di conoscere, possedeva in sommo grado due peculiari qualità: la capacità di prevedere, organizzare, dirigere, coordinare e controllare, senza farsene accorgere, gli altri e la capacità, alla stregua dei condottieri, di guidare, ossia di comandare, anche con l’esempio, che risulta essere una molla potente per tutti. Egli aveva un’abilità innata per affrontare e superare gli ostacoli della vita, rendendosi conto, razionalmente, di tutto ciò che la realtà delle cose ed il modo di essere gli presentava.. Anche nei momenti più duri e difficili della Sua esistenza - e chi su questa terra non ne ha avuti ? – Franco Caprio, per quanto mi risulta, non si scoraggiò, ma seppe affrontarli con determinazione e con misura, mai lamentandosi con chi sapeva di averglieli ingiustamente procurati. Nessuna vera realizzazione è, infatti, possibile se l‘uomo non possiede la cognizione esatta delle forze da impiegare per costruire il suo avvenire! Vivere per i propri simili e per la famiglia, significava per il Sindaco Caprio rendersi conto di tutto ciò che sentiva e gli appariva dentro di sé. Il monito delfico del “nosce te ipsum” vuol dire appunto questo: “ Interroga te stesso, procedi oltre la tua individualità empirica, oltre le tue opinioni e le tue passioni, scendi nel tuo spirito, sino a ritrovare l’universale VERITA’ che abita in te “. In tal guisa visse Francesco Caprio, le cui sembianze mi si presentano ogni volta che mi reco al Cimitero di Caposele, per rendere omaggio ai miei genitori e congiunti, i cui resti sono nella tomba di famiglia. Là, passando lungo il viale anche dinanzi alla tomba dei Caprio che racchiude le spoglie mortali di tanti Suoi famigliari (Edmondo, la moglie Teresa, Dina, Vittoria, Clelia Orciuoli e di altri) non manco di fermarmi un istante, pensando appunto al Sindaco di Caposele, Francesco Caprio, nel cui ricordo, con ammirazione, abbasso la testa e prego per la Sua anima, dicendo dentro di me: che UOMO straordinario!

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ALFONSO LA MANNA La musica del silenzio di Vincenzo Malanga

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ella piazza F. Tedesco, si radunò una piccola folla che, a poco a poco, crebbe sempre di più. Da qualche giorno erano cessate le piogge insistenti benché fosse già primavera inoltrata, ma il cielo non era del tutto sereno. Sul volto dei presenti si leggeva la mestizia mentre si diffondeva un leggero brusio. Le campane ancora più mestamente sonavano a rintocchi. La folla conversa in un sol punto, si raccolse rimanendo muta. Molti avevano gli occhi lucidi di pianto. Grida di dolore squarciarono la maestà del Silenzio nell’aria afosa. La bara fu sollevata dopo essere stata coperta. Uomini forti se la posero sulle spalle. La fanfara intonò una musica dalle note strazianti. In quel complesso di note mancava la più significativa, mancava il suono strumentale di ALFONSO LA MANNA. Era proprio Lui che, dopo una breve ed improvvisa malattia, era passato a miglior vita. Egli apparteneva a quella sparuta schiera di piccoli-grandi Uomini che pur sanno scrivere una pagina di storia in un ambiente e in una certa epoca, che pur fanno parlare di se stessi, delle loro cose semplici, del loro agire lineare, limpido, corretto, estremamente onesto, cristallino, coerente come un diamante, improntato al sentimento di religiosità primitiva e genuina. Egli, era fra questi. Dalla sua bocca mai un’espressione sconcia, mai un’invettiva, mai una maldicenza. La sua ragione di vita era stata il lavoro, la sua delizia la MUSICA. Da oltre quarant’anni, suonava il “bombardino tenore” nella fanfara S. Gerardo, quella stessa fanfara che ora suonava per Lui. Nel suo ruolo era insostituibile: se mancava Lui mancava a tutto il complesso la parte migliore, mancava il brio, la gioia alle allegre marcette, mancava la commozione. Egli sonava con sentimento, con passione, era capace di inventare variazioni personali durante l’esecuzione dei brani; il suono del suo bombardino, forte e dolce al tempo stesso, copriva anche le stonature dei principianti. Da lontano primeggiavano le note del suo strumento, col quale, sonando, formava un corpo solo, un’anima sola. Egli quasi voleva che quelle note raggiungessero i confini del mondo, sicuramente per ricordare agli Uomini che le vibrazioni musicali sono le stesse dei sentimenti sublimi, per dire a tutti che i palpiti stessi dei cuori umani sono MUSICA, MUSICA DIVINA, che le note musicali, come ogni altra espressione artistica sanno ad un tempo infondere alla vita la purezza dell’ermellino, il ver-miglio delle passioni come certe qualità di gerani, la speranza intensa come 106

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il verde della felce, la dolcezza come il glauco del fiordaliso, così che in tutta l’armonia del creato la materia diventa luce. Davanti alla Chiesa Madre la fanfara tacque. Cessò anche il leggero brusìo della gente. Cadevano “silenziose” gocce di pioggia minute e rade. Dal suo nuovo nido una rondine, di tanto in tanto, faceva capolino, perplessa, incredula per la dolcezza e la tristezza che diffondevano le note di quel linguaggio nuovo, eterno: LA MUSICA DEL SILENZIO.

NONNA GILDA di Nannina Cuozzo Te ne stai presso l’uscio di casa tra il verde del bel tuo giardino o dietro vetri appannati quand’ei spoglio, in letargo soggiace al rigor di gennaio. Nelle ore di meritato riposo le tue mani son sempre operose, un gomitol di filo, un piccolo uncino formando arabeschi e cerchietti crei graziosi merletti. E’ hobbi, relax, passione questo tuo paziente lavoro? Alfin, paga, lo ammiri, lo pieghi, lo poni, sognando di farne dono prezioso a Gildina che un giorno va sposa.

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Gente di Caposele Per la piccola Emma Merola PREGHIERA PER UN ANGELO

di Vincenzo Malanga Ti prego, Signore, per quell’angelo di bimba che raccoglieva margherite, che sorrìdeva al giubilo dei giorni quando l’avvolsero lingue di fuoco e in un baleno fu come torcia al vento. Pianse Ella senza un grido, chiamò la mamma finché visse ancora e se ne venne in volo da Te, Signore, recando in mano margherite in fascio; e nella casa rimase solo l’eco del suo frullo d’ali.

Ti prego, Signore, ora che con Te si trova serbale un posto a parte, falla restare sola per un poco ancora, finché sfogli e margherite che ha portato in dono... ad una ad una, e l’ultimo petalo le faccia dire; m’ama... giacché d’amore è il frutto del suo dono Signore, per tutti, non per Te solo.

GIUSEPPE DI CIONE

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n caposelese che onorato il suo Paese interra straniera E’ il primo italiano che in Venezuela ha ricevuto un importante riconoscimento dal capo dello Stato per aver contribuito, in 33 anni di permanenza in quella nazione, in maniera notevole, allo sviluppo tecnologico dell’industria calzaturiera. MOTIVAZIONE DELLA PREMIAZIONE Giuseppe Di Cione emigrò in Venezuela circa 35 anni fa. Arrivò in questa Nazione con una gran voglia di lavorare e di contribuire con le sue conoscenze allo sviluppo dell’industria che alla nostra Nazione serviva in quel momento. Installò la prima modesta industria di sua proprietà che servì di slancio per le future industrie del Venezuela. 108

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Diventò in poco tempo uno dei più dinamici industriali nel ramo, riuscendo ad aprirsi le porte dei crediti per tutte le materie prime. Oggi gode la stima e l’affetto del mondo industriale. Giuseppe Di Cione ha contribuito ad incrementare in tutta la Nazione l’industria delle scarpe, rappresentando attualmente in Vene¬zuela una delle industrie più conosciute nel ramo delle macchine per la fabbricazione delle scarpe. Gli amici di Caposele, i soci della Pro Loco ed i redattori de “La Sorgente” si congratulano con Giuseppe Di Cione, per le sue prestigiose affermazioni in campo industriale e gli augurano successi sempre più lusinghieri e traguardi sempre più ambiti. LA PRO LOCO CAPOSELE HA CONFERITO A GIUSEPPE DI CIONE IL PREMIO CAPOSELE 1995

GERARDO ESPOSITO Santandrianu lu Capussulesu di Vincenzo Malanga

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ra nato a S. Andrea di Gonza, ma era cresciuto a Caposele, si era sposato a Caposele e qui viveva. Quando andava a S. Andrea lo chiamavano Gerardo “lu capussulesu” a Caposele lo chiamavano Gerardo “lu sandandrianu”. Il suo mestiere era quello di scalpellino, e si vantava di essere un “artista”. Se vuoi - soleva dire a qualcuno che intendeva “prenderlo per il naso” ti faccio così come sei. Ma, a proposito di naso. il suo era come il naso di mastro Ciliegia: una protuberanza tondeggiante e prominente cosparsa di butteri quasi sempre rossa come un peperone all’aceto. E aveva imparato, forse da sempre, la strofa di una canzone che soleva ripetere molto spesso: “Averlo grosso, no, non è difetto, si può chiamare naso calamita: la donna guarda al naso e non al petto per giudicare l’uomo che cos’è”. Faceva parte della compagnia dei suonatori dell’orchestrina, come venivano detti i “complessi” di altri tempi, compagnia che veniva chiamata in occasione dei matrimoni contadini; si suonava dall’inizio del pranzo nuziale fino a tarda sera quando gli sposi andavano a coricarsi, e poi, ancora, si portava loro la serenata. Gerardo il “sandandriano”, con la sua dodici corde d’accompagnamento finito un pezzo, una polca, una mazurca, invocava un bicchiere di vino buono dei nostri vigneti, la richiesta era un colpo alla cassa armonica della chitarra. Quando la festa finiva “lu sandandrianu” non si reggeva più in piedi, tornando a casa compassava tutta la larghezza delle strade, si fermava per lo meno cento volte davanti alle porGente di Caposele ieri

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te poggiandovisi esausto e senza mai lasciare la sua dodici corde. Fino al tardo pomeriggio non saggiava vino, ma dopo era capace di trangugiarne un barile. Si vantava anche di essere compositore; infatti aveva composto “Mastu Briscu”. una serie di strofe con ritornello dedicato ad un altro personaggio locale che, per motivi di opportunità, non va nominato, ma è un personaggio ben individuabile specie da chi è sulla cinquantina. Una sera, in tempo di guerra quando c’era l’oscuramento, era andato a... mietere il grano in campo altrui, cadde da una loggetta e si ruppe una gamba. perciò era rimasto con una gamba più corta dell’altra. Negli ultimi anni, non potendo più efficacemente lavorare, si era improvvisato “lapidario” di cimiteri, e per lo più questa attività la svolgeva a Calabritto. Ogni pomeriggio si metteva sul pullman per quel paese e andava a contattare clienti e a concludere affari, ma più per ritrovarsi in cantina con gli amici. Tornava a sera con mezzi di fortuna. A tarda ora. specie d’estate, lo si poteva incontrare sui gradini dell’edificio scolastico in piazza Dante, luogo di riunione dei soliti amici. Bastava dare il tono alla canzone a lui prediletta; “Con te, soli soli nella notte” perché subito mandasse a prendere la “dodici corde”; quando questa gli veniva portata cominciava ad accordarla e non si cantava più, perché l’accordo, continuamente interrotto da lazzi, scherzi e “pernaccchie” degli amici, durava ore intere. Ma lui non se la prendeva e la sua simpatia veniva proprio dal suo tratto gentile, cordiale, aperto. Gli era stata conferita una medaglia al merito per fedeltà al Partito in cui militava da sempre e un altro suo vanto era quando ricordava di essere stato in galera per otto giorni e per motivi politici nel carcere di Potenza. Fu egli il compagno e l’amico di serate indimenticabili ed irripetibili. Poi venne il terremoto e ci perdemmo di vista. Dopo qualche anno lo incontrai alle Fornaci dove gli era stato assegnato il prefabbricato. Era assai cambiato: il suo carattere allegro e gioviale aveva perduto di smalto e di freschezza, quando parlava non lo si capiva più, si trascinava, la sua claudicatio si era accentuata. il suo viso e le sue mani erano di un bianco ce-reo, e farfugliando agitava la mano sinistra con il mignolo storto. M’invase l’onda dei ricordi, avvertii strane sensazioni; lo salutai e tornai sui miei passi.Erano trascorsi pochi giorni da quell’incontro quando giunse in paese la notizia che “lu sandandrianu era passato a miglior vita”. Mi recai a Materdomini dove i familiari ricevevano la visita di condoglianze. Non ero ancora giunto quando il carro funebre che lo portava all’estrema dimora mi passò davanti; lo seguii con lo sguardo fino a quando il carro sparì dietro una curva. Un altro personaggio che aveva caratterizzato un’epoca nel nostro paese che, con tanti altri, aveva dato una nota di colore al nostro ambiente se ne andava tanto lontano, portando con sé un altro pezzo della nostra vita giovanile. Elevai per lui inni d’addio.

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ANGELO PETRUCCI di Nicola Conforti Dopo tanti anni spesi a servizio del Comune di Caposele, Angelo Petrucci, per raggiunti limiti di età, è stato collocato a riposo. Il suo è un riposo meritato, dopo tanto lodevole impegno, tanta dedizione e dopo le tante avversità che hanno caratterizzato il corso della sua esistenza. Gli amici gli sono stati sempre affettuosamente vicino e non dimenticheranno la sua disponibilità e il suo attaccamento al lavoro. Angelo è stato un uomo forte e lo è tuttora a dispetto dell’età e malgrado gli acciacchi che la stessa età comporta. I suoi anni migliori li ha dedicati al servizio di una comunità che lo ha sempre stimato e voluto bene per il modo affabile e cordiale che lui ha saputo instaurare nell’assolvimento dei suoi compiti. Lascia il suo “posto di combattimento” per un più che meritato riposo. Gli auguriamo tutto il bene del mondo.

Il 20 settembre 2010 muore all’età di 67 anni Il ricordo di Alfonso Merola

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uesta volta Angelo non ce l’ha fatta: l’altra sera si è dovuto arrendere ad un nemico inesorabile, dopo aver combattuto con convinzione e coraggio la sua battaglia in nome della vita. Poco più che bambino egli vide con i suoi occhi la morte che tragicamente non risparmiò un suo compagno che gli era accanto. Quell’evento lo segnò e gli fece amare la vita come un dono divino accordato ad una persona rinata. Non è stato così due giorni orsono: egli si è allontanato dai suoi cari, quando ancora non aveva varcato la soglia dei suoi settant’anni. Seguendo il suo feretro, mi sono commosso all’applauso in lacrime tributatogli dai dipendenti comunali, al passaggio della sua bara. Quell’applauso prima ed il commosso saluto, poi, della sua collega Gelsomina Frannicola in una chiesa affollata racchiudevano il riconoscimento fraterno di un sincero sodalizio, nonché la gratitudine corale verso un uomo che aveva speso bene più di quarant’anni di lavoro al servizio di Caposele. Bene accolto, non aveva mai staccato la spina col Comune nemmeno da pensionato e da sofferente. Egli era il “decano” dei dipendenti comunali, la memoria della vita amministrativa ed era (e resta) l’Ufficiale dello stato civile per antonomasia. Poteva sembrare ossessiva la sua accurata conduzione dell’Ufficio, ma era fondata la sua intima convinzione derivata dai suoi maestri predecessori, che i dati sensibili vanno custoditi, in nome dello Stato, con riservatezza e scrupolosità. Questa speciale “missione” lo rendeva inquieto, tutte le volte che qualcuno debordava da questo principio e quando gli amministratori stabilivano traslochi d’ufGente di Caposele ieri

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ficio o trasferimenti dalla sede principale. “Io custodisco roba seria con cui non si può scherzare” diceva. Lo lo vedo ancora, a via Caprio, nel suo ufficetto pieno come un uovo, di registroni ben allineati, mentre si arrampicava sui muri per prendere tutta quella documentazione polverosa da cui estrarre certificati … Lo rivedo attivo e indaffarato nella sede municipale di via Castello fino al 22 novembre 1980 e poi il 24 successivo, tra le macerie, per verificare la fne delle sue carte dopo il sisma: scatoloni di carte trasferite nei baracconi in piazza Sanità, poi in via Imbriani ed infine a piazza Dante … Angelo era sempre là, come una sentinella, con i netturbini che lo aiutavano, con Mario che vigilava e con Pietro, Cenzino, Carla che lo sostenevano nel suo delicato compito. Angelo Petrucci ha saputo governare normalità, emergenze e rinascite in cui, per un vizio tutto italico, le certificazioni non sono mai mancate, sorretto da una pazienza proverbiale nel soddisfare richieste e pretese, talvolta, di una popolazione abituata al “tutto e subito” ad ogni costo. Siamo in tantissimi a dovergliene essere grati, fosse pure per il semplice motivo che egli è stato cronista e notaio di tante nascite, promesse di matrimonio, nozze, di variazioni anagrafiche, censimenti ed elezioni e non ultimo di decessi … Si è saputo che, qualche giorno fa, opportunamente l’Amministrazione Comunale ha consegnato ad Angelo Petrucci una targa di encomio che lo ha commosso e fatto felice: Caposele ha apprezzato unitariamente questo atto. A noi che lo abbiamo annoverato tra gli amici, non resta che rinnovare i nostri sentimenti di cordoglio a Paola, Nellina, Olivia ed Olimpia, sapendo con quale e quanta premura ed affetto lo hanno accompagnato nel suo Calvario, fino all’ultimo istante.

Il Ricordo di un caro collega di Mimina Frannicola

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o e mia sorella lo conoscevamo dapprima che diventasse nostro collega, ovvero conoscevamo più che altro la sua storia, raccontataci da nostro padre . Era da poco finita la guerra e due bambini mentre giocavano in un campo, nei pressi delle proprie abitazioni, scovarono qualcosa simile ad una palla che, con la curiosità tipica dei bambini, cercarono di aprirla con un sasso. Quell’arnese altro non era che un ordigno residuato della guerra appena trascorsa, che all’impatto coi sassi, subito deflagrò, inondando di schegge i bambini e tutt’intorno. Mio padre all’epoca ventenne, sentito lo scoppio da una vicina bottega dove apprendeva il mestiere di fabbro ferraio, si precipitò subito in strada e scorse da lontano due corpi di bimbi a terra, uno dei quali da subito, capì che era morto, mente l’altro si lamentava. Prese in braccio il bambino ferito, che con voce flebile

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sì fece riconoscere da subito, diceva a cantilena, sicuramente a causa dello schok subito: “mi chiamo Angelo Petrucci”, mi chiamo Angelo Petrucci e così di seguito senza mai smettere , anche se con un filo di voce, appena percettibile. Fu così trasportato in un vicino ospedale e da lì trasferito a Napoli, dove fu sottoposto a più interventi per estrarre le numerose schegge che si erano conficcate nel suo corpo di bambino minuto e vi rimase per diverso tempo. E quel bambino eri tu. Poco tempo dopo fosti accolto in un collegio a Rimini, per i mutilati e gli orfani di guerra, dove studiasti per conseguire un diploma che ti permise poi di essere assunto presso il municipio del paese natio, quale Ufficiale di anagrafe e stato civile, incarico che hai ininterrottamente ricoperto per quarant’anni e più. Rimanesti sempre riconoscente a mio padre e hai avuto sempre nei nostri confronti un particolare rispetto. Poco prima del terremoto fui assunta presso lo stesso municipio e da subito fui collocata nel tuo ufficio, l’uffcio anagrafe, dove tutt’ora presto servizio , da trenta anni, di cui ventotto trascorsi al tuo fianco. Sono entrata in quell’ufficio non ancora ventenne ed ho trascorso praticamente insieme a te gran parte della mia vita. Poiché noi abbiamo perso il padre troppo presto, tu per me e per mia sorella, sei stato oltre che un collega, un padre, una guida. Avevi a volte un carattere non facile, che veniva smussato dal mio Per cui io intervenivo con prontezza ogni volta che c’era qualche piccola frizione. Ancora oggi ricordo con commozione la sera che chiamasti al telefono per far sentire un’ultima volta la tua voce che perdesti a causa dell’ intervento chirurgico in seguito al quale ti fu compromesso l’uso delle corde vocali, per cui da quel momento, nonostante la riabilitazione e tutti gli sforzi che tu facevi era difficile comprenderti soprattutto da dietro lo sportello, ecco che io ero attenta a non far pesare il tuo handicap, ti capivo a volo, appena tu muovevi le labbra, ancor prima che tu parlassi. Ed ero sempre io che rispondevo al telefono, che stavo allo sportello mentre tu continuavi ad occuparti del disbrigo di tutte le pratiche d’ufficio. E hai continuato ad occupartene fino a pochi mesi or sono, nonostante fossi in pensione da circa due anni; ogni mattina dopo essere stato dal medico passavi per l’ufficio anagrafe, anche quando tornavi da Avellino dopo aver fatto la chemioterapia, ad aiutare la tua collega. Sei venuto fino a quando le forze te l’hanno permesso, fino a quel giorno di giugno, quando per l’ultima volta ti sei affacciato nel tuo ufficio e non trovando me sei andato nell’ufficio di mia sorella, ed è stato allora che lei ha capito che il male che tu hai combattuto come un leone per tanti tantissimi anni, aveva iniziato a minare pesantemente il tuo già debilitato fsico. Non ce la facevi neanche a stare in piedi dal dolore che traspariva tutto dal tuo volto. Ti ha detto di sederti facendo apparentemente finta di niente. Non hai voluto neppure aspettare che io ritornassi in ufficio. Mia sorella ha riferito la sua impressione agli altri colleghi, soltanto io non ho voluto mai accettare la realtà e cioè che tu te ne stavi andando e che sebbene facevi finta di niente con noi altri, eri perfettamente consapevole della tua sorte. Gente di Caposele ieri

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Anche l’altro giorno, dal tuo letto di dolore mi hai detto che non appena ti saresti rimesso, saresti di nuovo venuto ad aiutarmi. Pure stamattina sei passato davanti all’ufficio, ma questa volta non sei entrato, e mai lo farai più, però sarai sempre nel mio cuore e in quello dei tuoi colleghi e noi continueremo a pensarti dietro un’altra scrivania dalla quale continuerai a guidarci e a vegliare su di noi, e noi a pregare per te.

DANIELE PETRUCCI Illustre Caposelese Nella rassegna sugli uomini illustri di Caposele non poteva mancare Daniele Petrucci, biologo di fama mondiale, assurto agli onori della cronaca internazionale il 1961, quando rese noti i risultati nel suo singolare esperimento sulla fecondazione artificiale. In questo numero riportiamo alcuni articoli apparsi sulla stampa nazionale subito dopo la sua morte.

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l professor Petrucci balzò agli onori della cronaca, non solo negli ambienti scientifici, allorché nel 1961 rese noti i risultati del suo singolare esperimento senza precedenti: la realizzazione di quello che fu chiamato il “figlio della provetta”. Insieme con alcuni collaboratori della sua città preparò e ottenne una fecondazione umana “in vitro». Pose a contatto del seme maschile un ovulo femminile allo scoperto, o meglio in un ambiente preparato alla bisogna che venne definito «culla biologica». Il «feto», tale poteva essere considerato anche se concepito al di fuori di un grembo materno naturale, prese a svilupparsi e a vivere. Il prodotto di quell’unione in provetta con un suo normale accrescimento sollevò una serie di problemi dei quali si discusse a lungo su tutta la stampa del mondo. Ciò che stava formandosi doveva essere considerato un uomo? Fino a quale età sarebbe stato possibile portare avanti lo sviluppo? La interruzione di quella che era senz’altro una vita cominciata avrebbe dovuto essere considerata un aborto? I problemi scientifici si accavallavano con quelli morali. Si era, oltre tutto, in un’epoca in cui il costume non aveva subito l’attuale evoluzione. L’esperimento fu giudicato scandaloso. Anche la medicina ufficiale si dimostrò molto cauta e avara di giudizi positivi nei confronti dell’intraprendente é-quipe del professor Petrucci. Quest’ultimo aveva dato notizia della sua singolarissima esperienza dopo la sua interruzione. Aveva tuttavia cinematografato a colori lo straordinario evento ed il film si dimostrò di grande interesse scientifico. Lusinghieri gli apprezzamenti che vennero da parte della scienza sovietica. L’interruzione del «figlio della provetta», che dapprima 114

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sembrò essere stata compiuta volutamente dal biologo bolognese, stava per procurare a lui e ai suoi collaboratori una incriminazione per voluto aborto. Si seppe successivamente che l’interruzione era stata spontanea e che essa aveva rappresentato proprio il limite invalicabile dell’esperimento. Nella «culla biologica» era possibile fornire all’ovulo fecondato ciò che egli era necessario per sviluppare il processo vitale solo nei primi giorni. Insuperabili si erano dimostrati, invece, anche in esperienze successive, i problemi di una più complessa alimentazione indispensabile al feto in crescita fuori del grembo materno. E nessuno tentò più da allora di portare «alla luce» un figlio da una provetta. Il professor Petrucci fu invitato a riferire delle sue esperienze all’Accademia delle Scienze a Mosca. I sovieiici apprezzarono soprattutto la tecnica della fotografia al buio impiegata per cinematografare il primo sviluppo del feto «in vitro». Infruttuosi erano apparsi, invece, i tentativi di esplorare le fonti della vita, neppure per una precoce determinazione del sesso di un nascituro.

Il Padre della “Provetta” Bologna, 15 ottobre

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I prof. Daniele Petrucci, il biologo che guadagnò notorietà internazionale nel ‘61 quando annunciò di aver ottenuto numerosi casi di fecondazione artificiale in vitro (e ne presentò le prove con un film di 45 minuti in bianco e nero sugli esperimenti) è morto a Bologna d’infarto a 50 anni. Lascia la moglie e due figli. Petrucci può essere considerato il « padre dei figli della provetta » perché è stato il primo - in precedenza gli esperimenti erano riusciti soltanto sugli animali - a realizzare in laboratorio, appunto dodici anni fa, la fecondazione di un ovulo femminile al di Inori dell’alveo materno. Ma c’è di più. A tre anni di distanza dalla clamorosa notizia e dalle conseguenti polemiche che vide la Chiesa schierarsi contro questi esperimenti considerati immorali in guanto innaturali, Petrucci dichiarò a Glasgow che 27 embrioni erano stati concepiti in vitro, «allevati» in un utero artificiale ed infine «trapiantati» negli alvei femminili fino alla nascita dei bambini. Poi Petrucci, che era cattolico osservante e quindi sensibile alla condanna pronunciata dalla Chiesa contro chi usasse la provetta per esercizi di questo tipo. cessò di eseguire gli esperimenti e praticamente rientrò nell’ombra. Le sue esperienze vennero però raccolte da altri scienziati, specialmente dal biologo inglese Edwards che nel ‘69 a Cambridge rese noto di aver ottenuto diciotto embrioni di avanzata maturazione al di fuori dei corpi umani. Gente di Caposele ieri

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Il traguardo dei «figli in provetta» diventava a quel punto più vicino anche se la prospettiva della «fabbricazione» di esseri umani in laboratorio continuava a dividere in due fronti gli ambienti scientifici. I sostenitori della fecondazione in laboratorio affermavano che centinaia di migliaia di donne sterili avrebbero potuto provare la gioia di avere bambini: gli oppositori insistevano invece sui rischi di un processo che avrebbe affidato agli uomini in camice la «gestione» della vita. Ma, nonostante le polemiche, le tecniche sono state aggiornate e migliorate in parecchi laboratori di tutto il mondo. Petrucci, come si è detto, si era ritirato da Questa «corsa»: negli ultimi anni, infatti, si era dedicato soprattuto alla professione medica. Dopo aver annunciato la sua decisione di interrompere gli esperimenti non aveva voluto più nemmeno parlare di questo difficile ma appassionante problema.

Ha dato la vita a “25 Figli impossibili” di Maurizio Polverini

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’ morto Daniele Petrucci, docente all’università di Bologna: era il medico dei «figli in provetta». Aveva 51 anni, ed è stato stroncato da un infarto. Gli infarti, è risaputo, possono essere conseguenza di preoccupazioni e di dubbi che logorano il fisico, di polemiche che distruggono la sicurezza in se stessi. E preoccupazioni, dubbi e polemiche non mancarono al professor Petrucci. Nel 1955 aveva iniziato una serie di impressionanti esperimenti: aveva disposto su vetrini da microscopio ovuli femminili e li aveva fecondati con sperma maschile. Ottenne embrioni che sarebbero diventati neonati se lui stesso non avesse interrotto tutti gli esperimenti. Nell’ultimo, finito nel settembre del ‘64, lo strano embrione era vissuto 59 giorni nel « ventre » di un laboratorio. Il mondo scientifico si sgomentò. Se era possibile ottenere un bambino « in provetta » si stava avvicinando il tempo della profezia di Aldous Huxley, che nel 1932 aveva immaginato un mondo dominato da biochimici pazzi. Questi avrebbero creato uomini schiavi, con cervelli programmati in modo da agire secondo i loro desideri. Allo sgomento subentrarono le polemiche, che si scatenarono feroci. Petrucci, scienziato serio e responsabile, e uomo profondamente religioso, capì il pericolo dei suoi esperimenti e li interruppe. Spiegò: « I miei esperimenti non sono completamente nuovi. Sia pure su uova di mammifero, e non di uomo, essi furono iniziati da pincus, il creatore della “pil-

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lola”, nel lontano 1932. La profezia di Huxley sul pericolo di creare uomini soggetti al desiderio dei potenti è suggestiva, ma romanzesca. In realtà è più facile plagiare gli adulti con un’opportuna propaganda che preparare dei mostri che potranno servire vent’anni dopo. Basti pensare come Hitler trasformò in “mostri” milioni di pacifici tedeschi nati da madri amorose». Perché così parlava Petrucci: sarcastico, vivace, provocatorio, talvolta persino strafottente. Ma era solo una copertura alla sua timidezza, datagli da una grande sensibilità. In effetti lo scienziato bolognese voleva soltanto aiutare le donne. Pincus aveva studiato l’ovulazione e la formazione dell’embrione per evitare le gravidanze indesiderate; lui voleva invece mettere in grado di procreare anche quelle donne a cui la natura sembrava negarlo. Il «rivoluzionario esperimento» tendeva in realtà a dimostrare che le cellule genitali potevano vivere, senza danneggiarsi, anche fuori del grembo materno. E a questo punto, Petrucci era pronto per creare una specie di «banca dello sperma», al quale avrebbero potuto rivolgersi le donne desiderose di essere fecondate. Lo sperma sarebbe stato conservato con surgelazione e «attivato» al momento dell’impiego. Subito si disse che Petrucci creava degli illegittimi, che sconvolgeva la società e la morale. Ma erano accuse grossolane e ignoranti. Molte coppie non possono avere figli per malformazioni che non consentono l’accoppiamento, pur avendo l’uomo la capacità di produrre sanissimo sperma, e la donna quella di creare un perfetto ovulo fecondabile: erano le coppie che lo scienziato voleva aiutare.

«Soltanto Dio sa che ho ragione »

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urono ventotto i «figli della provetta» (anche se le loro generalità rimasero sconosciute: Petrucci rispettava il segreto professionale). Per averli, i loro genitori spesero circa mezzo milione di lire: una cifra non certo esorbitante, se si considerano le complessità tecniche. Nel grembo di 28 donne che altrimenti non avrebbero mai potuto diventare madri, Petrucci rimise i loro ovuli già fecondati: e questi «figli impossibili», sani e felici, oggi dicono grazie all’uomo che ha compiuto il miracolo. All’uomo Petrucci fecero male soprattutto le accuse dei cattolici, che lo accusavano di sopraffare la natura, profanando un compito che spettava solo alla natura. A loro rispondeva: “ Dio sa che sono nel giusto *. Questo era il grande medico, il luminare sicuro delle sue opinioni. Ma chi era Petrucci uomo? Nato a Lovere, sul lago d’Iseo, da padre meridionale e da madre bergamasca, Daniele prese la licenza liceale a 16 anni, in Inghilterra. Si laureò in medicina a Milano e si perfezionò in chirurgia negli Stati Uniti. Non ancora trentenne, sposò Elena Venco che gli diede due figli: Giovanni e Angiola Maria (oggi, rispettivamente, di 22 e 18 anni). «Proprio l’amore che porto ai miei figli », disse una volta Petrucci, «mi ha spinto Gente di Caposele ieri

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a occuparmi del problema di quelle coppie che non possono averne». La moglie Elena fu sempre al suo fianco, solidale e coraggiosa. Petrucci era un uomo eclettico: si occupava di biologia, di chirurgia, di medicina generale, di anestesiologia, di elettronica, di fotografia e di cinematografia scientifica. Tutti questi interessi gli consentirono comunque di giungere dove altri non erano arrivati: anche la fotografia e la cinematografia gli servirono, per seguire lo sviluppo dei «feti in provetta». Nelle sue ricerche lo aiutarono la dottoressa in chimica Laura De Pauli Santandrea e l’anestesista Raffaele Bernabeo. Gli esperimenti, come spesso capita nel mondo scientifico, erano nati da una osservazione casuale. Petrucci ne intuì subito l’importanza. A chi lo accusava di voler « creare » la vita sostituendosi a Dio, rispondeva: «La vita nasce da un atto d’amore: e questo atto si è già compiuto, quando intervengo io. Il mistero della creazione, di quella scintilla da cui ha origine la vita, resta e resterà sempre nelle mani di Dio». L’accusa di voler creare dei «mostri» fu quella che lo ferì maggiormente e lo spinse ad abbandonare tutto. Le sue ultime parole sono state: «Spero che Dio mi perdoni per non aver avuto il coraggio di fare tutto il bene che avrei voluto».

DOMENICO CAPRIO e sig.ra Maria

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l tempo non fa dimenticare le persone che hanno ben operato e che sono state esempio di “amore” per i propri congiunti e di “cordialità e familiarità” nei confronti di chi chiedeva il loro supporto nelle tante circostanze legate alla vita. Parliamo dei compianti gen. Domenico Caprio e della sua adorata consorte Maria Caprio, la cui dipartita risale al novembre di 15 e 5 anni or sono. Il gen. Caprio, un figlio di Caposele, già combattente nella 1° guerra mondiale, con il grado di sottotenente, decorato con medaglia di bronzo, e comandante di reggimento, nella 2° guerra mondiale, della roccaforte di Bardia (Bengasi) ove meritò la Croce al Valor Militare. Dopo un breve periodo di prigionia, ritornato in Italia, fu, per breve periodo, da colonnello in servizio presso il Distretto Militare di Avellino per, poi, da Generale di Brigata, Presidente dell’UNUCI e dei Fanti d’Italia nonché membro dell’Associazione Nazionale del Nastro Azzurro, meritando la promozione a Generale di Divisione. Viene ricordato come il PADRE dei Fanti Irpini per avere aperto la “Sezione del Fante” in quasi tutti i paesi della provincia. Dobbiamo, per questo, sentire il dovere di ricordarlo e commemorarlo, per essere stato d’esempio, in trent’anni di Presidenza dell’ Ass. Naz. del Fante di Avellino, di sentimenti patriottici, inculcan118

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do nei vecchi combattenti e nei giovani soldati un profondo senso di unità sociale, perché apolitico, con nell’animo un solo fine: LA PATRIA! Esempio di correttezza, onestà e affetto lo fu anche per i suoi figli e nipoti, che si sono sempre sentiti legati a Lui, come pure alla loro carissima mamma e nonna, esempio, pur essa, di AMORE e signorilità che la fa ricordare, nel nostro paese, come Donna Maria. Noi di Caposele, figli, nipoti, parenti, amici e conoscenti, sentiamo il dovere di manifestare, a distanza di anni, nell’anniversario della loro morte, il 13 novembre 1975 ed il 25 novembre 1985, il cordoglio e lo smisurato dolore di chi, come i parenti, alimentano il ricordo dei genitori, sentendosi orgogliosi e compiaciuti perché essi vissero sempre degnamente, profondendo, a piene mani, affetto verso la propria famiglia e gesti di bontà e generosità verso i compaesani e altri che ebbero il piacere di conoscerli lasciando, in loro, un vuoto nell’animo. Nel dolce ricordo di un tempo felice va il pensiero dei familiari che porta a dire “grazie” a Dio per avere permesso, negli anni addietro, un Paradiso nel quale ha racchiuso certamente le loro anime; un paradiso fatto di luce: beatitudine terrena prima, splendore divino ora. All’alba del 6.11 1994, I FANTI di Avellino, Cesinali, Pago Vallo Lauro, S.Martino V.C. e Serino, si sono recati a Caposele ed in corteo con in testa il Medagliere della Federazione del Fante e corona d’alloro si sono portati al cimitero iniziando la cerimonia con deposizione di una corona d’alloro, donata dalla Federazione del fante di Avellino, sulla tomba del Gen. Domenico Caprio in presenza di tutti i suoi familiari. Il Prof. Carmine Fernando Venezia, decano della Federazione, ha portato il saluto dei Fanti e delle altre associazioni combattentistiche e d’armi. E’ stata poi celebrata una messa nella chiesa della Sanità, ove con vibranti e significative parole è stato ricordato il cittadino di Caposele Generale Domenico Caprio, cosa che è stata ripetuta con il saluto del Sindaco di Caposele Ins. Alfonso Merola, dal Presidente degli Ufficiali in congedo di Avellino Prof. Llenino Manganelli e dal Dr. Carmine Scianguetta per la Federazione del Fante di Avellino. La commemorazione è stata effettuata dal Col. Carmine Galasso che ha tracciato la vita militare del Generale ricordando che è stato cittadino esemplare di Caposele e della QUI NACQUE IL GENERALE DOMENICO CAPRIO città di Avellino FULGIDO ESEMPIO Il corteo con il Medagliere del FanDEGLI IDEALI DI PATRIA te, di tutte le bandiere delle associaCOMBATTENTE PLURIDECORATO PAPA- DEI FANTI IRPINI zioni combattistiche d’Armi citate in NEL CENTENARIO DELLA NASCITA precedenza con i labari del comune A RICORDO IMPERITURO di Caposele ed Avellino si è recato LA FEDERAZIONE DEL FANTE DI AVELLINO, LA SEZIONE UFFICIALI nei pressi della casa natale del Gen. IN CONGEDO DI AVELLINO. Caprio ed è stata scoperta la lapide CAPOSELE 6.11.1994. in suo onore con la seguente dicitura: Gente di Caposele ieri

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DON ALFONSO FARINA (1918-1990)

di Nicola Conforti

Da La Sorgente n. 42 del 1990

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naspettata è arrivata la triste notizia della morte di Don Alfonso Farina. La sua scomparsa colpisce tutti coloro che, come me, avevano avuto il privilegio di conoscerlo e di apprezzarne le doti di grande umanità e di profonda cultura. Oggi, ripercorrendo a ritroso tutti i momenti più significativi del suo grande impegno culturale, mi assale un forte senso di vuoto. Esso diventa ancora più grande quando subentra la consapevolezza di aver perduto un saldo punto di riferimento, una fonte inesauribile di conoscenze, un infaticabile ricercatore e critico di documenti storici, un pozzo di saggezza. Don Alfonso Farina era nato a Caposele il 16 giugno 1918 da Pasquale Farina e Peccatiello Adelina. Passò la sua prima fanciullezza a Caposele poi, per ragioni di studio. si trasferì a Cava e quindi a Salerno. Nel 1942 fu ordinato sacerdote e celebrò la sua prima Messa a Castellabate, suo paese di adozione, dove visse fino al 17 ottobre scorso, giorno della sua morte. Don Alfonso dedicò gran parte della sua vita alla ricerca storica, consultando, trascrivendo e vagliando tutto quanto era possibile reperire nei vari archivi diocesani, parrocchiali e di stato. Grande studioso delle opere di Nicola Santorelli, seppe riportare alla luce saggi e scritti in gran parte dimenticati. Il suo ricordo suscita sentimenti ed emozioni difficilmente descrivibili. “La Sorgente” perde, con la sua scomparsa, un collaboratore di grande prestigio. Caposele lo ricorderà come uno dei suoi figli migliori Dal suo libro “Gente della mia terra” abbiamo attinto tantissime notizie relative a personaggi storici del nostro Paese, alcuni dei quali morti in concetto di santità come Padre Andrea Morza, Padre Donato Antonio Del Guercio e Padre Salvatore Grasso. La sua introduzione al libro recita testualmente: “Io che scrivo, sono un caposelese. Vivo, per ragioni di ministero, lungi dal suol natio, ma non dimentico né la terra, che mi diede i natali, né i conterranei. Anzi, proprio per la lontananza fisica, il mio amore per la “piccola patria” genera dolcezze, che intendere non può chi non le prova. Scrivo, dunque, con e per amore, attingendo a documenti storici. E scrivo per 120

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voi, soprattutto per voi, o Gente della mia terra”. Profondo conoscitore delle opere e della vita di Nicola Santorelli, Don Alfonso Farina, nell’agosto del 1989, in occasione della presentazione, a cura del prof. Lorenzo Malanga, di una ristampa anastatica del libro “Il fiume Sele ed i suoi dintorni”, fece una descrizione dettagliata e particolareggiata della vita, delle opere e dell’impegno culturale e scientifico di Nicola Santorelli. Apprendemmo in quell’ occasione che il nostro “genius loci” nelle sue opere aveva illustrato le origini e le glorie del Sele, sacro fiume dell’antichità, con tutti i dintorni. Lo stesso nel maggio 1832 scoprì ed illustrò una lapide del Collegio Silvano dell’anno 81 dell’era volgare, di notevole importanza storica, tanto che valenti archeologi come Momsen , Corcia, Guarino ed altri ne scrissero a lungo. Dai “Canti del padre”, sonetti editi a Salerno nel 1950 dall’Unione Universale Poeti e Scrittori cattolici ci piace riportare il sonetto dal titolo “Congedo” inserito a chiusura del suo libro e dedicato al suo Paese natio. CONGEDO Te, fra le doglie, che mi serba il mondo, Pervaso di lusinghe e di follie, Rimembro spesso, tepido, giocondo, O nido mio, cestello di malie. Dei sogni e dell’amor, sempre fecondo, Le recondite, arcane melodie, I tuoi tesori agli uomini diffondo Con le parole mie, con l’opre mie. Oh! Tornare, tornar tutti fanciulli, Sedere accanto ai focolari, or spenti, Ricoltivare i campi, or fatti brulli. I cuori tornerebbero innocenti, Le fatiche sarebbero trastulli, E i giorni della vita più clementi.

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LEUCCIO CUOZZO La storia di una tragedia di Alfonso Merola

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edeva immobile su una panca di marmo dietro una vetrata fumé, quasi a confondersi all’interno di quel luogo in penombra anche a mezzogiorno. Se avesse potuto, avrebbe spento anche quei lumini sospesi nell’aria, che di bagliori proprio non ne emanavano Quei lumi, racchiusi in un cristallo spesso, dovevano restare li come tarli della memoria che le rodevano dentro e le davano la forza di vivere. Quelle fiammelle stanche, consumando la cera, le segnavano lo scorrere del tempo e le rammentavano, ove fosse stato necessario, che lì erano stipati tutti i suoi affetti. Una donna minuta, invecchiata prima del tempo, nonostante i suoi cinquant’anni, un viso scavato come l’alveo di un torrente, occhi di ghiaccio, volutamente spenti: capelli bianchi e composti come marmo statuario. La sua testa era pressocchè piegata in avanti e il suo mento affondava sul nero del suo vestito su cui si stagliavano le sole mani abbandonate nervosamente in atteggiamento di preghiera nel suo grembo. Sulle nere scarpe uno schizzo qua e là di fango. Si levava dal letto alle sette e trenta in punto. Rassettava velocemente il suo angusto prefabbricato e con una puntualità ossessiva si presentava all’albergo. Qui, c’era sempre qualcuno che, non appena la vedeva in un angolo della hall, subito si precipitava ad accompagnarla in macchina verso l’unico posto che avrebbe voluto raggiungere. Alle dodici in punto qualcuno l’avrebbe riportata a casa e poi di nuovo li per tutto il pomeriggio, fino all’ultima luce del giorno. Consumava, cosi, le sue giornate senza emozioni. Eppure si sentiva esplodere dentro un vulcano che a fatica tratteneva: una forza distruttiva che ella accaniva contro di lei e che non voleva esternare perchè rifiutava di sentirsi oggetto di pietà. Le pesava non poco quella solidarietà e quell’affetto, seppure sinceri, che la circondavano. Quel dolore era tutto suo e non intendeva dividerlo con nessuno, nemmeno con sua madre. Il suo dolore era incommensurabile e la sua situazione, frutto di una molteplicità di coincidenze, ormai catalogata come orchestrata congiura di un mondo a lei ostile. Sembrava assopita su quello scanno di marmo; invece arrovellava la sua mente a ricostruire la sua tragedia, ad imprigionarla in una trama perfetta al di sopra di ogni ragionevole confutazione. Quelle ore solitarie trascorrevano, giorno dopo giorno, anno dopo anno, come repliche di drammi teatrali in cui l’autore e l’attore ad ogni spettacolo successivo affinavano la loro monotonia tematica ed artistica. F., allora, le appariva Leo che era sul ballatoio a guardare quel cielo rossastro di novembre, mentre calava il sole. 122

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Era stata una giornata particolarmente calda, tutt’altro che autunnale. La piazza era ancora affollata dalla gente riversatasi a passeggiare. F.lla era in cucina a preparare le ultime cose per la cena. Guardava nervosamente l’orologio, pensando che il marito, a breve, le avrebbe formalmente chiesto perchè mai Enzo non fosse ancora ritornato da Lioni. Non passò qualche minuto che suo marito, sbottò chiedendo qualcosa che già sapeva. Fu un’autentica fatica esigere che le figlie si mettessero in macchina e raggiungessero i! fratello a Lioni. La grande era rassegnata a non discutere l’ordine e sapeva che erano inutili le proteste della sorella che voleva trattenersi con le compagne a Caposele in quella serata calda e piacevole. Carmela sapeva che mai e poi mai le sarebbe stato consentito viaggiare da sola. La infastidiva, però, il fatto che sua sorella fosse stata costretta ad un ruolo che disdegnava e che, comunque, avrebbe dovuto recitare. Quella sera, poi, era andata oltre il dovuto: era stata capace, lei che non discuteva mai gli ordini del padre, di dire no, e no per poi soccombere in lacrime ed obbedire. Se solo avesse avuto la forza di resistere! Partite, infine, ritornò la calma. E con la calma, l’ansia di un’attesa, le continue occhiate all’orologio, uno sguardo oltre il muro di cinta ad ogni rombo di motore. Per un momento tutto sembrò fermarsi, l’aria diventò pesante. Ad un ceno punto si levò un vento caldo e polveroso e s’avvertì un senso di leggerezza. Poi, un boato, quello cupo e assordante di un treno in galleria. La terra si mise a tremare, a roteare, a sussultare, a ondeggiare Si sentivano i rumori più disparati in lontananza: grida, lamenti, scrosci. Era il terremoto. Distruzioni dovunque. La gente si precipitò nel cantiere, lontano da case squarciate e da muri pericolanti. La terra continuava a tremare e ad ogni sussulto pianti e clamori. Leo e sua moglie, nonostante fossero stati assaliti da tutta quella gente, s’erano isolati in loro stessi, ammutoliti e inebetiti dall’assenza dei loro figli. S’erano fermati sul muro che fa angolo colla via di Diomartino e di lì controllavano le confluenze stradali che sfociavano in piazza. Era decisamente un’impresa distinguere al solo chiarore della luna le figure frettolose che s’avvicendavano in quei luoghi. Erano degli sbandati che vagavano senza meta alla ricerca di questo o quel parente e che nel momento in cui si ritrovavano si avvinghiavano in segno di gioia e di soddisfazione, come se quello fosse un incontro festoso, incontro stridente con tutto quel trascinare in quel trambusto corpi sanguinanti o senza vita, quei corpi che si superava a fatica saltando o inciampando. Tutto ciò sembrava non interessarli e più passavano le ore, più i loro sguardi s’impietrivano e a nulla valevano notizie inventate là per là su Lioni risparmiata dal terremoto. “La mala nova, la porla lu viendu” si sentì di dire una donna nel tentativo di Gente di Caposele ieri

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rincuorarli. Avvertivano, all’unisono, che s’era consumata una tragedia; quei figli che amavano fino all’ossessione, che avrebbero strettamente protetti fino a soffocarli, non sarebbero più ritornati vivi a Caposele. Era un segno poco incoraggiante il fatto che da Diomartino non una macchina scendesse verso Caposele: tutto faceva presagire che Lioni fosse un’immensa rovina. Già si organizzavano i primi soccorsi, si componevano i morti alla meglio e si dava assistenza ai bambini e agli anziani, intirizziti da brividi di paura, più che dalla umidità che saliva dal fiume ingrossato e spremuto dalle sue viscere benché non fosse piovuto. Un fiume fangoso e minaccioso che strideva con quell’aria calda e calma. C’era chi, vinta la paura, si offriva volontario per raggiungere il più vicino ospedale a trasportarvi i feriti gravi. L’incolonnamento di macchine verso la Valle del Sele faceva presagire che quest’ultimo lembo d’Irpinia aveva reciso ogni contatto con la Valle dell’ Ofanto. Risultavano percorribili le strade per Materdomini e quella lungo il fiume che si collegava con la statale. Tutte le altre erano un enorme ammasso di macerie che celavano nel loro ventre cadaveri o corpi che ancora si dibattevano. Don Amerigo, coadiuvato da alcuni giovani improvvisatisi infermieri, e, più in là il dottor Melillo visitavano alla svelta i feriti a loro sottoposti e con una rapidità eccezionale imposta dalla necessità del momento, come Minosse nel girone dantesco, allontanavano i meno bisognosi di cure, trattenendo i casi più preoccu-panti cui era assicurata una cura immediata per poi affidarli a qualche volenteroso che li dirottasse in ospedale. Si ricomponevano, frattanto, le famiglie, gli amici, i conoscenti: più passava il tempo e più si assottigliavano le file di coloro che disperatamente ricercavano i propri cari. Meno erano questi sfortunati, più acuti erano i lamenti che lanciavano alla luna, sentendosi esclusi da quella gioia di ritrovarsi che pervadeva la maggior parte dei presenti. Non tardò molto ed ecco arrivare un giovane da Lioni, e dopo qualche minuto altri ancora: furono letteralmente assaliti perchè raccontassero di Lioni. Si riuscì ad avere la sola notizia che lì era stato un disastro, un massacro, soprattutto dove le case erano più recenti. Fu questo il secondo colpo mortale per quei due disgraziati dai cui occhi non scorreva una lacrima. Chissà se addirittura comprendevano il senso di quel racconto terribile. Non ci fu verso di convincerli a rientrare nel cantiere Solo all’una di notte, quando la terra riprese a tremare, si avviarono istintivamente verso casa Suo marito avanti e lei qualche passo dietro; muti ed assenti, l’uno estraneo al l’altra, tra l’assordante vociare di quella notte in cui nessuno avrebbe dormito o riposato Non una volta si udì pronunciare il nome dei figli; quei nomi rimbombavano dentro e li distruggeva, attimo dopo attimo, un rimorso che non sentivano di confessarsi. Si faceva strada nella loro disperazione l’idea di aver mandato al ma-

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cello due figli; di averli uniti al tragico destino dell’altro. Avevano sacrificato ed immolato la loro ragione di esistere. Com’era devastante la parabola del buon pastore che lascia l’ovile per andare alla ricerca della pecorella smarrita. Passò la notte. La radio già dava notizie del disastro in Irpinia e Lucania: elencava 1 Comuni, parlava di una chiesa lucana che aveva seppellito una comunità, di un palazzo popolare a Napoli e poi di Lioni, S. Angelo, Laviano. già erette a capitali-simbolo di un terremoto. Parlava di migliaia di morti e di tantissimi feriti. Il sole non sorse quella mattina: dalla notte si passò ad un giorno plumbeo, l’n cielo giallastro come il fiume limaccioso. Una fastidiosa pioggerella che impastava la polvere sul volto degli scampati. Le ispezioni ufficiali delle autorità del luogo incominciavano a dare le prime direttive di organizzazione di una vita collettiva che sarebbe durata per qualche tempo. Sembravano spante le divisioni e i rancori di un tempo; in tutti, o quasi, si rafforzava l’idea che solo se uniti si sarebbe superata ogni difficoltà. Tra quelle rovine si faceva largo l’idea di una città del sole che qualche settimana più tardi sarebbe stata cancellata dalle memorie. Le prime squadre di soccorso organizzate alla meglio, scavavano ovunque vi fosse indizio di qualche corpo: prima i vivi, si disse, poi i morti. E c’era già chi inchiodava quattro tavole per approntare una bara, chi scavava fosse nel cimitero. Don Vincenzo, tutt’altro che stanco di una notte trascorsa tra case in rovina alla ricerca di voci flebili o invocanti, era già all’opera, a dare coraggio tra il suo popolo che stava piombando nella disperazione. Si seppe a mezzogiorno dei tre ragazzi di Caposele morti a Lioni nei crolli di palazzi che avevano ingoiato tante famiglie e fra queste tanti Caposelesi. Leo e sua moglie non seppero mai del recupero dei corpi dei loro figli. Quando la loro morte fu certa, la moglie di Leo uscì dalla sua pietrificata solitudine: sentì che sarebbe dovuta diventare compagna e madre di Leo, avvertiva che sarebbe stato fatale abbandonarlo al suo dolore incapace di esplodere. Sapeva, pure, che quel ruolo spettava a lei e non ad altri perchè solo lei sapeva leggere pazientemente nella mente di lui, solo lei poteva decifrare quell’apparente calma di uomo forte e inflessibile. Non l’avrebbe lasciato nemmeno per un momento solo: doveva reprimere il dolore che la corrodeva dentro e rimandarlo a tempi più sereni. Ora non era tempo di piangere e disperarsi. Le sembrò una liberazione e un sollievo la notizia del fratello venuto per portarli lontano da Caposele. Comunicò subito la notizia al marito e non le sembrò che si opponesse. Certo aveva perduto la capacità di decisione che in passato non delegava a nessuno. La donna, allora, quasi ad anticipare i tempi per staccarsi da un posto familiare e carico di ricordi che poteva essere pericoloso per il marito, già nel primo pomeriggio aveva riempito valigie e pacchi. Gente di Caposele ieri

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Li aveva posati nell’androne per convincere se stessa e Leo di una decisione ormai assunta dalla quale non era più possibile ritrarsi. Non le era, però, servito a niente affrettarsi, prima che calasse il sole. Le rimaneva ancora qualche ora e queste inevitabilmente le consumò vagando in quelle due stanze che pure aveva serrato per vietarle a suo marito. Stanze chiuse che già risentivano di una assenza. Ogni cosa era al suo posto; la scrivania con libri e quaderni aperti, come il fotogramma di un film interrotto da uno spot, l’armadio socchiuso, la maglia rossa sulla spalliera di una sedia. Nella penombra di quelle stanze, la donna esplose in lacrime soffocando ogni lamento: un pianto abbondante tratteneva da giorni e che le aveva inondato tutto il viso. Non appena sentì il rumore di passi familiari, corse nel bagno, tacendosi cogliere nell’atto di lavare la faccia. Indugiò, vedendolo sulla porta, prima nell’asciugarsi e poi nel pettinarsi. Scesero entrambi giù nel cortile. Trascorsero un’altra notte in macchina avvolti tra coperte di lana. La donna non chiuse occhio pensando al viaggio: fu la stessa sensazione della prima partenza da Caposele. quand’aveva vent’anni ed era combattuta tra il desiderio di andare e quello di restare. Suo fratello arrivò puntualmente, caricò le valigie e i pacchi in macchina. Giusto il tempo per i convenevoli tra amici e parenti lì convenuti per salutarli. Leo sembrava aver riacquistato una rassegnazione, se non proprio la serenità, ed era lì appoggiato alla macchina ad ascoltare sua moglie che discuteva con i vicini. Si era li per mettersi in macchina, dopo un momento di indecisione, Leo corse su per le scale dicendo che aveva dimenticato la sua carta d’identità La donna ebbe appena il tempo di dire a suo fratello di raggiungere in fretta suo marito in casa, che si senti un forte sparo di fucile e dopo qualche secondo un grido. Le si rizzarono i capelli in testa e un brivido l’attraversò tutta. Ora era veramente sola: non era stata capace di salvare il suo uomo e il suo uomo non le aveva permesso di condividere la sua scelta di morte. Le ritornarono nella mente questi pensieri, stretta li tra la vetrata fumé e i loculi di marmo, quando senti qualcuno tossire. Non si curò nemmeno di sollevare la testa, si alzò, lanciò uno sguardo alle lapidi, fece un segno di croce e usci sul vialetto. Il cielo era quello di sempre, l’aria alquanto più fredda del solito. Sperava in cuor suo che l’indomani non piovesse; la tristezza della pioggia avrebbe attutito la sua voglia di sofferenza.

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LEUCCIO CUOZZO

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FERDINANDO PALLADINO Un Caposelese di adozione di Alfonso Farina

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entenziavano ì latini: “Nomen est omen”, il nome è un presagio. Ferdinando deriva dal gotico e significa “ardito nella pace” e il nostro Ferdinando confermò nella sua vita tale presagio, perché, come è stato testimoniato da quanti lo conobbero, “passò amando tutti e nessuno odiando”! Operando nella nostra Caposele, riferiva mio padre, aveva una predilezione per la Chiesetta di S. Lucia, perché il 13 dicembre, “memoria” della Vergine e Martire siracusana, coincideva col suo compleanno, essendo nato in tale giorno dello stesso mese del 1897. Chissà quale dolore avrebbe provato se fosse sopravvissuto al sisma del 1980, che distrusse la Chiesetta. Fu battezzato il giorno dopo la sua nascita e, in omaggio a S. Lucia, i suoi genitori gli imposero un secondo nome: Lucio. Nacque a Rutino, nel Cilento, la regione delimitata, secondo alcuni studiosi, da due fiumi: il Sele e l’Alento, formando il toponimo Sdento, poi mutato in Cilento. Compiuti i regolari studi preparatori, si scrisse alla Facoltà di Portici, dove conseguì la laurea in Agraria a pieni voti. Subito dopo insegnò alla Scuola Media Agraria di Marsala. Trentenne, vincitore di concorso, resse per un decennio la sezione di Caposele della Cattedra ambulante di agricoltura di Avellino e mio padre, che seguì con passione le sue lezioni teoriche e pratiche, parlava di lui con venerazione per il suo impareggiabile magistero. Dal 12 agosto 1934 al 15 ottobre 1938 fu anche capo dell’amministrazione comunale di Caposele, riscuotendo la stima dei concittadini, perché si prodigò per il bene del nostro paese, come sua patria adottiva. Ne fa fede il telegramma, che inviò alla Vedova il Sindaco Avv. Michele Farina, quando apprese la notizia inopinata della fulminea morte: “Scomparsa uomo così caro a questa gente commuove et addolora Caposele tutta che stringesi intorno alla salma esternando inconsolabile dolore”. Dimostrò pubblicamente il suo amore a Caposele in due circostanze: il 27 gennaio 1938 sulle colonne de “Il giornale d’Italia” con un suo lungo articolo, i cui scrisse: “Non ci siamo mai stancati di chiedere la valorizzazione turistica di questa vallata che nulla ha da invidiare alle zone turistiche di fama mondiale” e, nel 1940, quando l’Arcivescovo Aniello Calcara diede alle stampe le sue liriche irpine, intitolate “La mia corona”. Infatti, leggendo il sonetto dedicato a Caposele: “Fonti di grazia”, si commosse sino alle lagrime e ricordò a se stesso e agli amici che anche a lui “l’acqua saliente nella vita eterna” lustrò la fronte col Battesimo e la fede, allora ricevuta, confermata col sacro crisma l’11 settembre 1905, “deve Gente di Caposele ieri

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risplendere nell’adamantina purezza della coscienza come in urna trasparente d’alabastro”! Sposò la N.D. Ernesta Terracciano, la “sua Titina”, che, arieggiando il Siracide (26,16), definiva “ornamento” della sua casa. Con la istituzione degli Ispettorati Agrari prestò la sua opera feconda prima ad Avellino e poi a Messina. Con la istituzione della Direzione generale dell’Alimentazione al Ministero dell’Agricoltura e Foreste fu chiamato a Roma, dove si distinse per le sue capacità di ottimo funzionario ed organizzatore. Soppresso tale servizio, passò alla Direzione generale Miglioramenti fondiari, dimostrando doti non comuni. Nel settembre 1952 fu nominato Capo dell’Ispettorato Provinciale Agrario di Avellino. Scrisse molto su numerosi periodici tecnici. Nell’Organo dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura di Napoli, nell’ottobre 1956, pubblicò: “Nuove prospettive per l’Agricoltura nell’Alta Irpinia”, che ebbe vasta risonanza. Nello stesso anno 1956, per il “Centro studi del Cilento e del Vallo di Diano”, seguì: “Aspetti e problemi dell’Agricoltura cilentana”: Volle e impostò il primo esperimento cooperativistico, la “Cantina del Cilento”, con sede nella natia Rutino; ideò gli acquedotti allo Scalo dello stesso Comune e a Moio di Agropoli; promosse strade interpoderali in diverse località e case rurali. Fu visto per l’ultima volta, nel 1957, alla Fiera dell’Agricoltura di Foggia, dove intervenne efficacemente nella discussione, riscuotendo l’unanime consenso dei convegnisti. E fu il suo “canto del cigno”, perché, all’alba del 5 giugno di quello stesso anno, colpito da infarto cardiaco, improvvisamente e immaturamente, morì ad Avellino. Vasto fu il cordoglio di tutti gli ambienti, specie quando la salma raggiunse Rutino, accolta da una folla strabocchevole, accorsa da vicino e da lontano, che tributò onoranze solenni allo Scomparso. Fra le innumeri testimonianze di cordoglio, segnalo quella dell’On. Fiorentino Sullo che rimpiangeva “immatura perdita funzionario impareggiabile per coscienza civica et valore morale tanto prezioso nella difesa degli interessi dell’Agricoltura et tanto amico contadini irpini”. E, difatti, amò gli agricoltori come fratelli e compagni di lavoro. Ligio al suo dovere, che fu costante norma di vita, umile, pronto a tendere la mano al fratello bisognoso, prodigo di consigli, fu caro a tutti. Quanto profitto trasse mio padre dalle lezioni, teoriche e pratiche, del Dr. Prof. Ferdinando Palladino lo dimostra il fatto che, parlandomene negli anni dell’adolescenza e, successivamente, quando nell’estate del 1934 feci ritorno a Caposele, dopo aver compiuto gli studi ginnasiali, mi entusiasmai a tal punto che, ispirandomi al virgiliano: “O fortunosus nimium sua si bona norit agricola”, composi il “Trittico della terra”, che inserii nel 1949 nei miei “I canti del padre”.

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FERDINANDO PALLADINO

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In morte di MANLIO DI MASI (Maliuccio) Un idolo per i Caposelesi di Nicola Conforti aro Manlio, la tua prematura scomparsa ci lascia increduli, sorpresi, addolorati. La nostra mente torna lontano nel tempo, ai ricordi della prima giovinezza, ai rapporti di grande affettuosa amicizia che sapevi intrattenere con tutti. Compagni di scuola e di gioco, non abbiamo mai dimenticato le “piccole grandi cose” che riuscivi a fare sul campo di gara e fuori. Eri l’idolo di tutti noi. Le vicende della vita ti portarono lontano dal paese natio, ma immutati rimasero in noi l’affetto ed il ricordo. Pur sofferente, hai continuato nel tuo lavoro sacrificandoti nel rispetto dell’amicizia e della famiglia. L’intero paese ha pianto per la tua scomparsa. I tuoi amici di Caposele non ti dimenticheranno mai.

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L’OMINO DELLA STRADA (L’AUSTRIACO) di Antonello Malanga

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ra il più povero del paese. Ma non chiedeva mai niente a nessuno. Batteva giornalmente tutte le strade ed i vicoli del Paese e si accontenteva di quel poco che la popolazione gli offriva:gli bastava un pezzo di pane o qualche avanzo di cucina. Era felice se gli si offriva una vecchia giacca o solo una cravatta. Lo incontravo, spesso, nei meriggi secchi di fine primavera, dalle parti dell’ “Occhiaro”: ad un tratto, dopo una curva ed un’altra ancora, l’apparizione. Scorgevo in lontananza “sto figuro”, o meglio, la figura di un involucro di materiale pannaceo, di tinta non bene unita e di forma non meglio definita, da cui, all’estremità superiore, si protraeva grezza una tesa di cappellaccio tanto tetro, bizzarro, quanto elegante, loquace; all ‘estremità inferiore dell’involucro che, con l’avvicinarmi, lasciava intravedere un abbondan-emente lungo mantellaccio rigonfio alle spalle e quivi avvoltolato, serrato sul davanti, cadente a fiotti e rivoli al polpaccio, notavansi due piedini ermeticamente chiusi da fibbie, anfibi, e stringhe, e serragli tutti annessi e connessi, il tutto creante due grossi coturni in stile tardo etrusco. Tutta l’apparizione, in fine, era di colorazione fortemente bigiastra con apertura a toni palude e crèmisi. Man mano lo avvicinavo, lo sbigottimento iniziale si chetava e, affiancatolo, lo riconoscevo sospirando, per l’ennesima volta, come gendarme che sorprende il “fiur”, come alba sorprende la notte, e lui era lì, a rubare briciole di vita, per la Gente di Caposele ieri

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strada, e lo salutavo felice lasciandolo dietro già nascosto dalle prime scarpate d’erba e di ciliegi, sicuro di ritrovarlo sempre li, viandante. Gerardo Castagno, “l’austriaco”, al passare dell’auto che lo sorprendeva al suono del clacson, aveva un attimo di sussulto: si bloccava nell ‘incedere eterno, semiclaudicante ma sicuro nel suo trascinarsi, e la sua prima reazione sembrava di sdegno, irata, come cavaliere fermatosi innanzi al pericolo della foresta; poi, però, il più delle volte riconosceva l’interlocutore transeunte, ricurvava il cappello sulla strada e continuava il passeggio, contento che i suoi conti gli tornavano di nuovo lucidi alla mente: era infatti, da sempre, intento alla questua incessante di indumenti nuovi e vecchi di tutti i tipi e misure, da altri smessi e che egli alacremente adattava riciclandoli al suo corpicciolo, ancor più piccolo sotto la coltre di vestiario, con maestria e classe; così creava moda nel suo continuo aggirarsi per le strade del territorio comunale; raramente extra moenia. Il suo volto, questuante maglieria e bijoutteria, tra il brontolio di qualche frase bofonchiata ed il “grisare” delle sue occhiate, era segnato dal tempo e dalla guerra, l’ennesima inutile, che lo aveva visto davvero cavaliere, templare della vita. Egli segnava l’incedere delle stagioni con piglio e orgoglio propri dell’orologio: tra le colline di vigne e uliveti antichi annunziava perentorio la rondine di primavera; laggiù, dove una volta il Sele si faceva mare e nel cui letto i pesci erano scoiattoli scherzosi, riceveva l’estate e ne cantava gli stornelli, gran mecenate; e là, poi, sulle panche del palazzo scolastico guardava, lontano, tra le foglie cadenti verso la foce del fiume, gli ultimi uccelli migrare, aspettando mesto l’autunno, ma contento di salutare l’inverno sulla seggiola impagliata di intarsi accanto all’amico fuoco di patate e più felice, perchè avrebbe potuto finalmente indossare i vestiti nuovi confezionatisi già da aprile... Così lo ricordo, altro genius loci, l’omino della strada; “... tre pantaloni, due cappotti, una giacca dal collo arrotolato, maglie multicolori...”, con le chiavi della saggezza in mano e una bigoncia di pezzi di tempo sulle spalle. Poi, un giorno, proprio una macchina del tempo decise di richiamarlo a casa; gli suggerì che forse era giunta l’ora di riposarsi un po’ poiché poteva essere stanco di tutto quel peregrinare; lo bloccò proprio ai calzari e così lo fermò: ma lui, ne sono certo, avrebbe voluto continuare, e andare, e continuare, e andare. Una volta l’ho anche sentito cantare e l’ultima volta che l’ho visto mi ha “chiesto” quell’impermeabile bianco di mio padre che gli piaceva molto, da molto. Non ho fatto in tempo a regalarglielo perchè se n’è partito, con la nuova primavera, per l’ultimo suo viaggio: ha lasciato detto che sarebbe andato a cercare il Tempo, l’Assoluto, che doveva per forza ritrovarlo, fermarlo come non mai e che sarebbe stato via a lungo. Invece qui da noi, ora, il tempo, l’altro, scorre scorrevole, uguale, a volte mobile nella sua staticità, a volte noioso nella sua estaticità: non so, non lo capisco più; forse mi manca il punto di riferimento dell’omino della strada; forse il tempo non torna più, o forse... Il dubbio grande che mi resta è non sapere se là dov’ è adesso lui, l’omino, piova o sia sereno.

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GERARDO L’AUSTRIACO

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FERDINANDO COZZARELLI di Vincenzo Di Masi Primo Presidente della Pro Loco Caposele, Ferdinando Cozzarelli non è più. Egli lascia a chi lo ha veramente conosciuto ed apprezzato un grande vuoto, ma anche l’esempio di una personalità forte, leale e sincera al servizio di Caposele. E Caposele ricorderà, con gratitudine il suo ingegno ed il suo impegno professionale di avvocato, le sue appassionate battaglie civili di Sindaco e Consigliere Comunale e il suo immenso amore di cittadino per la sua terra natia.

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uando mi reco, almeno una volta al mese, al mio paese natio, seguendo la strada provinciale che conduce al cimitero di Caposele , ove riposano i miei cari, hanno inizio i ricordi più vivi della mia fanciullezza e giovinezza, in cui si inseriscono vicende e fatti legati ad amici e parenti, purtroppo in massima parte non più viventi, ma pur sempre fermi in me, nel mio animo e nel mio affetto. Tra i tanti cari ricordi, vi è quello di Ferdinando Cozzarelli - per molti compaesani meglio noto col nome di Fernando - già Sindaco di Caposele e tanto apprezzato non solo per le sue qualità umane, per la sua cultura e per l’amore per il paese ma anche per le sue capacità di avvocato civilista, professione che svolgeva in molti paesi dell’Alta Irpinia, ma più ancora a Napoli, dove aveva casa e dove conduceva un importante studio professionale. Fernando, permettetemi di ricordarlo, apparteneva a una delle famiglie più antiche e prestigiose della zona e particolarmente di Caposele. La sua casa avita è, come tutti sanno, sullo sfondo della piazza intitolata al grande Francesco Tedesco, casa che i Cozzarelli dividono con l’altro ramo parentale del carissimo Lorenzino Cozzarelli, da poco deceduto, insegnante presso il Liceo Scientifico del luogo. Ma non posso ricordare il caro amico e coetaneo Fernando, se non parlassi, sia pure brevemente, dei componenti la Sua famiglia, che ho quasi tutti conosciuti, a partire dal padre avvocato Luigi, dal fisico prestante e uomo autoritario e severo; della madre Dora Caprio, insegnante, gentile e buona: delle sorelle Rosa detta Rosuccia e Gelsomina chiamata Mimì e per ultimo di Francesco detto Franco, attualmente dirigente assicurativo a Napoli. Per completezza espositiva, non posso tacere la gentile consorte di Fernando e soprattutto la figlia Dora, che egli tanto amava, ma che io non ho avuto il piacere di conoscere e che spero di poter fare al più presto. Riprendendo però l’argomento principale di questo mio scritto e parlando di Fernando e della fraterna amicizia che fin dall’infanzia ci legava, non posso tacere alcuni episodi che ci videro insieme, come ad esempio quando decidemmo con altri amici compaesani di recarci, attraversando impervie strade di montagna, a Lago Laceno situato in territorio del comune di Bagnoli Irpino,e che all’epoca (parlo dell’anno 1945, quasi al termine della Seconda Guerra Mondiale) era ancora in gran parte invaso di acqua, che affascinava noi giovanissimi, desiGente di Caposele ieri

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derosi di fare un bagno in un luogo d’alta montagna e lì prepararci il pasto a base di patate, trote e selvaggina cacciata in luogo. In merito rammento anche che per convincere Don Luigi ad autorizzare il figlio Fernando ad accompagnarci, ci volle tutta la mia personale opera di persuasione, perché l’avvocato mi voleva molto bene e si fidava di me. Partimmo la sera inoltrata con lampade da carrettiere e alcuni che erano maggiorenni armati di fucile da caccia.Tra i tanti amici che ci affiancarono ed indirizzarono ricordo Leuccio Cuozzo, Pellicano, Salvatore Peccatiello ed un altro che incrociammo alla “castagneta”, di cui non ricordo il nome e che da allora non ho più incontrato, ma che se non erro era fratello di un compaesano che aveva subito l’amputazione della mano destra e che aveva frequentato la quarta classe elementare, il cui insegnante era Don Giovanni Benincasa. Ricordo che frequentava la mia stessa classe, scriveva con la mano sinistra, ma con una grafia talmente perfetta, da destare l’ammirazione di tutti i compagni e dello stesso insegnante, che lo additava come esempio per tutti. Il fratello, come ho prima precisato, incontrato alla “castagneta”, si unì al gruppo e noi lo accogliemmo con grande piacere. Il suo ricordo è per me tuttora tanto vivo, perché era armato di un rudimentale fucile, che aveva realizzato lui stesso, con le sue mani, su un sostegno di legno, sul quale aveva collocato una canna di un vecchio fucile ed un grilletto, non so dire in che modo. Molti dei presenti che di armi se ne intendevano, rimasero meravigliati e, al tempo stesso, preoccupati di quell’arma, per cui lo invitarono a non usarla. E in questo lo stesso Fernando con uno strappo rapido glielo tolse di mano e ricordo che gli disse a nome anche di noi tutti che lo avrebbe tenuto lui, fno al ritorno a Caposele. E così fu, alternandoci a turno nella custodia della pericolosa arma, che a mio giudizio se usata poteva provocare il ferimento e addirittura la morte del proprietario ed eventualmente di qualcuno dei gitanti. Una volta ritornati a Caposele, l’arma in questione venne eliminata, se non ricordo male, da Leuccio Cuozzo e di essa in seguito non se ne seppe più nulla, né mai se ne parlò più, anche per evitare pregiudizio al costruttore del pericoloso arnese, qualora ne fossero venuti a conoscenza i Carabinieri del luogo. Ma di episodi più o meno simili ne potrei citare tanti e tra essi quello riguardante il viaggio effettuato a bordo dell’autovettura da noleggio di Vittorio Nesta, in Calabria, per fare in modo che Fernando potesse incontrare una collega universitaria conosciuta a Napoli. Rammento che sull’auto, oltre che Fernando e il conducente Nesta, prese posto Ercolino Corona, all’epoca ancora fidanzato e poi marito di Mimì, sorella come prima accennato di Fernando. Ad essi mi unii anch’io, perché essendo da oltre due anni arruolato nell’Arma dei Carabinieri e trovandomi in licenza breve a Caposele, in divisa, col grado di

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Vice Brigadiere, dovevo raggiungere Nicastro (provincia di Catanzaro) per riprendere servizio presso la locale Compagnia. Sfruttando l’occasione, su gentile offerta di Fernando ed Ercolino, li accompagnai per quasi l’intero itinerario, felice di trovarmi in compagnia anche del caro amico Vittorio. Lungo il percorso, che per vero non fu affatto agevole, in quanto le strade erano in parte ancora in terra battuta, ci divertimmo moltissimo. In più circostanze, abusando della mia uniforme e provocando l’ilarità dei compagni di viaggio, facendoci passare tutti per tutori dell’ordine, ingenerammo timori e preoccupazione in ignari cittadini e utenti della strada. Tra l’altro Fernando venne fatto passare per un Ufficiale dell’Arma di alto grado in borghese, ed egli in tale ruolo si disimpegnò così bene da apparire quasi vero. Dopo molte ore, raggiungemmo Nicastro e là lasciai, con vero dispiacere, i miei amici, che proseguirono per Locri (Reggio Calabria), dove erano diretti. Tornando ai miei ricordo, quando affrontiamo le curve della strada provinciale che da Ponte Sele porta a Caposele, passando per la località detta “rena janca”,mi sovvengono tanti episodi della fanciullezza, che mi videro in compagnia di amici coetanei, quando correvamo su quella strada col fondo sconnesso e ancora in terra battuta, gareggiando con “lu ruotiello”, il quale non era altro che una ruota senza raggi né gomma di una vecchia bicicletta oppure la parte superiore in ferro di una caldaia casalinga in disuso, che opportunamente saldata alle estremità, consentiva di ruotare velocemente, sospinta da un’asta, anch’essa di ferro. Tra i molti amici c’era spesso anche Fernando Cozzarelli, nonché Gigino Corona, fratello minore di Ercolino, di cui con vero rammarico si perse la presenza dopo la sua partenza, in servizio militare di leva, in Africa credo in Libia, allorché ne venne affidato all’Italia il controllo temporaneo. Egli poi, dopo la guerra, si sposò e si trasferì a Roma, dove si ammalò e poco dopo vi morì. Anche di Gigino, che era di qualche anno più anziano, non posso dimenticare la vivacità e l’intelligenza. Egli, prima di partire militare aveva conseguito il diploma magistrale, ma non effettuò mai l’insegnamento, né mai ritornò stabilmente - non so dirne il motivo - a Caposele. Termino a questo punto, impegnandoni di riprendere l’argomento nel prossimo bimestre, all’uscita del successivo numero de “La Sorgente”, sempre che i miei scritti siano bene accetti dai miei compaesani e da chiunque altro riceverà il periodico. Saluto tutti affettuosamente.

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Gente di Caposele Un esempio di vita giusta onesta e operosa

di Alfonso Merola

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ignori Soci della Pro Loco, Signora Maria Cozzarelli, parenti tutti del compianto Fernando,ora che l’emozione dolorosa si è sopita e l’animo si è rasserenato, non potevamo non unirci a quanti l’hanno già fatto ed esternare tutta la gratitudine ad un uomo che è mancato a tutti noi un mese fa, sentendone ancora la sua presenza in un locale che ci parla tuttora di lui e che ci è più caro ed apprezzato proprio perché a lui amico e familiare. Sapevamo essere questa sala angusta per commemorare Fernando Cozzarelli, ma significativamente abbiamo voluto rimanere qui, perché questa è una creatura che egli fermamente volle e seppe degnamente avviare nei suoi primi e difficili passi e non era giusto trasferire altrove una cerimonia che noi tutti sentiamo con orgoglio. Chi vi parla, vedete, ancora a stento riesce a convincersi della sua immatura e imprevista dipartita terrena. E spesso gli accade di muovere i suoi passi verso quella Piazza Tedesco che lo inorgogliva, di dirigersi verso il suo palazzo che vigila da almeno 200 anni sulla storia di Caposele. Gli accade pure di volgere lo sguardo verso finestre che vorrebbe illuminate o di comporre meccanicamente un numero telefonico per sentire una voce forte, ferma e rassicurante. Segno è che non siamo convintamente abituati ed assuefatti ad un destino che ci è parso ingiusto. E non è un rito, o quanto meno solo un rito, ritrovarci, al dì là delle nostre irrinunciabili idee, tutti qui, perchè siamo convinti che l’omaggio, la gratitudine, la riconoscenza, la devozione e l’affetto che dobbiamo a quest’uomo, ci offrono anche un’intima riflessione utile a tutti quelli che lo conobbero e che da diverse sponde lo apprezzarono. Fernando Cozzarelli nasce qui a Caposele, terra cui si è sentita legata la sua famiglia. Nasce, dicevo, da genitori che tutti noi ricordiamo quali esempio di vita giusta, onesta e dedita al lavoro. Erano i tempi du-ri di un’epoca incerta, in cui la stessa possibilità di agiatezza non era assunta a modello di vita; tempi difficili cui l’educazione alla serietà, al sacrificio e al lavoro valeva più d’ogni altro linguaggio. E furono quei genitori a fargli capire che la virtù dell’intelletto e quelle dell’animo sono le uniche speranze su cui fondare e costruire la vita familiare, l’impegno civile e politico, l’esercizio professionale. Ferdinando Cozzarelli, sia da giovane che in età più matura, da studente e da professionista affermato, coltivò l’amicizia, superando ogni genere di steccato, ogni limite di età, ogni convinzione politica. E questo lo sanno bene quanti gli sono stati a fianco nella sua esuberante giovinezza, quanti hanno avuto modo di richiederlo come avvocato, quanti assieme a lui condussero battaglie per il riscatto di Caposele.

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Era sicuramente nemico dell’ipocrisia e delle verità di comodo e in quei momenti sapeva essere implacabilmente ed inequivocabilmente sincero. Grande sincerità, dicevo, pari almeno alla generosità e all’altruismo che praticava, anche se, per sua scelta, non riteneva di esternarla. Egli fu il primo Presidente della Pro Loco, la volle e la coltivò come luogo ed occasione di valorizzazione di questo suo e nostro paese che amò profondamente. Lo abbiamo visto consigliere comunale per la prima volta, dopo quell’aspra e civilissima campagna elettorale del 1978 che riportò il suo stimato zio alla rielezione a Sindaco di Caposele. Ferdinando Cozzarelli seppe essere in quegli anni di grande speranza un autentico consigliere di Francesco Caprio. Capì comprese e trasmise ad altri il suo profonde rispetto per una persona che, al di là della parentela, sentiva essere il meglio che la Comunità Civile di Caposele sapesse mettere in campo. Egli ammirava, di quel Sindaco, ebbi più volte a dirlo, la competenza, la dedizione, il coraggio, l’affabilità e la carica di umanità, dubitando che altri potessero possedere, per rispondere alle domande esigenti, spesso eccessive, del popolo caposelese. Seppe essere in quegli anni fattivo e presente, discreto e disincantato a medesimo tempo, sempre comunque pronto ad intervenire a difesa di una coalizione, della compattezza d’un gruppo di maggioranza che egli avvertiva come unica ed originale formula di governo locale Furono, quelli, gli anni della chiusura dell’annoso contenzioso con l’Acquedottio Pugliese ed egli ne fu, assieme a tutte le forze politiche locali, discreto artefice tessendo e ritessendo con abile mediazione rapporti umani e relazioni pubbliche che avrebbero potuto dare, come in effetti diedero, i loro frutti. Fu, però, anche di duttilità politica, dote ormai più unica che rara, non si innamorò mai eccessivamente delle sue idee e dei risultati maturati. E allora non fu un caso che proprio egli fu pronto e lucido a denunciare la inapplicazione e la violazione della Convenzione del 1970 ed in un recente passato il sostenitore più convinto sulla necessità di rivedere quell’accordo con impegni più favorevoli e vantaggiosi per il Comune. Tra i diritti di Caposele e quelli degli altri Enti non ebbe dubbi; scelse i primi, indipendentemente da chi li propugnava, convinto com’era, che una battaglia intrapresa per Caposele, dovesse essere una battaglia da vincere ad ogni costo. Ed è anche a lui, vedete, che dobbiamo se si riapre la speranza di restituire i diritti violati al Sele e a Caposele. Lo abbiamo conosciuto direttamente come uomo impegnato nell’agone civile negli anni 75-80. Conducemmo su sponde opposte, ancorché nella stessa maggioranza consiliare, battaglie leali, ricevendo da lui una lezione utile a valutare l’importanza dell’unità e delle regole del consenso. Di Fernando avevamo un giudizio fortemente sbagliato e quegli anni servirono a ricrederci. Gente di Caposele ieri

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Ci colpì particolarmente il suo alto senso di responsabilità, quando su di lui cadde la scelta unanime di eleggerlo Sindaco, ricalcando le orme del suo compianto zio, Francesco Caprio. Quella fu una scelta faticosa, alla quale, “nonostante i suoi numerosi impegni professionali lo richiedevano altrove, non intese sottrarsi. E in quegli anni, seppure tra grandi difficoltà, seppe essere all’altezza del compito prodigandosi a risolvere problemi che ci sembravano insormontabili e senza via d’uscita. Erano i giorni dei sequestri di alcuni cantieri edilizi, ma anche quelli in cui seppe dare impulso ad una stesura di P.R.G. che andava avanti stancamente. Ci piace ricordare ancora la sua dedizione alla cosa pubblica, l’impulso al lavoro collegiale di Giunta, ma soprattutto il senso di serena unità che seppe riportare tra noi. Ingiustamente volle caricarsi di una responsabilità per una sconfitta elettorale, anche se non gli spettasse e non gli competesse. E sorrideva con superiorità quando altri, che pure gli erano amici, cercavano verità politiche che erano a portata di mano. Perchè era a portata di mano la vera ed unica spiegazione e non si chiamava Fernando Cozzarelli. S’era esaurita un’esperienza politica che era stata esaltante per decenni e che era giunta a compimento, senza essere stati in grado di dare gambe ad un rinnovamento nella comunità. Questa verità scomoda la rimuovevamo e ci rifugiavamo in quella più farisaica del capro espiatorio. Anche di questo dobbiamo chiedergli scusa! Allo stesso modo di come dobbiamo essergli grati di quegli anni di sana, robusta, leale e fattiva opposizione esercitata nel Consiglio Comunale degli anni 80-85.Anni durissimi per chi doveva reggere le sorti di un comune prostrato da un terremoto luttuoso; tempi egualmente duri per chi doveva svolgere un ruolo di minoranza. Da quei banchi ci insegnò che non sono le fredde ragioni di partito, né il calcolo personale e meno che mai l’odio, il rancore e la rabbia a dover guidare un consigliere comunale. Egli seguì solo ed esclusivamente la sua coscienza, lasciando a casa interessi ed opportunità inconciliabili anche dai banchi dell’opposizione. Come è attuale la sua lezione in una Caposele che ha smarrito le regole e le norme della civile convivenza politica! E le sue generose battaglie per una Caposele a misura d’uomo e rispettosa delle sue memorie, furono un contributo sincero e disinteressato per un paese che sentiva suo e al quale non voleva che nessuno sottraesse la sua identità. E seppe condurre quelle battaglie con convinzione e spesso anche in solitudine, salvo a rallegrarsi quando percepì che le sue idee trovavano consenso tra la gente. E non era e non fu uno spregio ed irriverenza nemmeno la sua battaglia di vedere risorgere l’antica Chiesa Madre, senza ardimentose, per quanto originali, fatture architettoniche estranee a Caposele. Risuona ancora questa sala del suo severo richiamo alla realtà e della premo136

FERDINANDO COZZARELLI

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nitrice constatazione che a forza di chiedere il meglio e il massimo, si rischiava di rimanere con un pugno di mosche. Questo fu il Fernando prestato alla politica che non amava quando diveniva fredda, astrusa, bizantina nelle sue tattiche e strategie. Un uomo in linea con i tempi, direte. E’ vero! Ma non vi parlerò di Fernando Cozzarelli avvocato, altri lo hanno fatto in modo egregio e compiuto. Dell’avvocato vogliamo conservare l’idea nell’intimo, senza che alcuno possa scavare nelle parole e nelle coscienze. Vogliamo serbare in noi l’immagine trepidante, rassicurante, l’immagine amica e sincera di chi sente la sua professione come servigio e soccorso di chi chiede aiuto vogliamo tenere per noi quei ricordi che al solo pensare ci commuovono, ma con un augurio: chi da figlia ed allieva eredita i sacrifici di tanto padre, voglia e sappia calcare degnamente quelle orme che hanno onorato Caposele e chi lo ha avuto vero amico. Noi continueremo ad illuderci e ad immaginarlo qui assieme a tutti noi, tra gente sobria, umile, tra amici sinceri che non conoscono cosa sia il male e la disonestà intellettuale. E non ci abbandoneranno mai, perchè hanno amato troppo questo paese e non possono permettersi il lusso, al di là della loro vita immaturamente recisa, di non continuare a vegliare su questa comunità che ha sete di pace e di serenità, stima e di affetto con tutta la mia famiglia. Non ho capacità oratorie che mi permettano di esternare quanto nell’animo sento, ma sono certo di interpretare il sentimento comune di tutti i presenti, affermando che una parte del nostro essere amici, uomini e cittadini, se n’è andata con Fernando. Abbiamo tutti perso una personalità che sapeva interpretare, con affetto e sincerità esasperata, i fatti della vita e permetteva a tantissimi di noi di non perdere i contatti con la realtà ed i fatti veri dell’essere cittadini e Caposelesi. Quella che poteva essere scambiata per “brutalità” era per Fernando l’esternazione conseguenziale della sincerità di ogni suo atto; non era l’uomo delle risposte articolate e compiacenti, era l’uomo che, nonostante la sua professione di avvocato, aveva sulle labbra quello che aveva in cuore. Per me e per tanti di noi era la vera coscienza critica, mai avara di consigli e mai istituzionalizzata. Una passeggiata, lo scambio di un caffè, erano l’occasione per discutere, per avere consigli e consulenze mai pagate. Fernando è stato forse uomo di parte, ma era talmente al di sopra delle piccole beghe di paese da essere ritenuto da tutti la vera coscienza critica della nostra comunità. Primo Cittadino, primo Presidente, lo ricordiamo tutti come un vero protagonista della storia di Caposele. Interprete di un sentimento generale, assicuro che il rispetto, l’affetto, la stima per Fernando, per intero, li riversiamo su Dora e Maria alle quali va, da parte di tutti, un fortissimo abbraccio. Gente di Caposele ieri

FERDINANDO COZZARELLI

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LORENZO CAPRIO L’uomo-fanciullo costretto a diventare adulto di Vania Palmieri Un personaggio semplice e simpatico, un fanciullone sempre presente e sempre informato su tutti gli eventi, belli o brutti, che accadevano intorno a lui. Amava il suo Paese e se allontanava con grande tristezza. A suo modo prendeva parte alla vita sociale con interesse e partecipazione. Era benvoluto da tutti.

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orenzo chiuse gli occhi mentre, costretto ad entrare in macchina. lasciava ancora una volta Caposele. Chiuse quegli occhi quasi spenti che fino a qualche istante prima avevano versato tante lacrime. Di gioia per aver rivisto il suo paese e gli amici carissimi, di dolore perchè nella sua mente di eterno bambino erano penetrate l’angoscia e la certezza di dover andare via. “Ginnarì,so’ turnatu”, “Adduvè Savatoru “, “Ch’bbella machina ca t’e fattu! “Amma je’ a Matirdommini?” c’hi s’è spusatu?”. Tante parole per non pensare o per convincersi e per convincerci che forse non era più uno di loro. Le vicissitudini, la morte, il destino gli avevano imposto nuove regole che, purtroppo, erano diventate la sua vita. Con lui piansero gli amici consapevoli che uno spaccato di vita caposelese si era ormai chiuso per sempre. Anche io ho conosciuto Lorenzo. Era un mio amico, mi voleva bene. Mi correva incontro quando arrivavo a Caposele e strizzando un occhio diventava mio complice. Lo rivedo ancora mentre scendeva dalla Sanità alla piazzetta. Si fermava con tutti e raccontava a tutti, a suo modo e con una mimica particolare, la vita del paese. Gennarino, Angelo, Nicola, Salvatore, Girolamo, Gerardo lo trattavano con simpatia ed amicizia. E Lorenzo era orgoglioso, felice. Svago, programmazioni, lavoro, sport, vacanze, politica erano interpretate dall’eterno fanciullo e trasmessi a tutta la collettività. Quando la radio o la televisione trasmettevano le notizie, Lorenzo le ascoltava attentamente. Nella sua mente scattava una molla che gli permetteva di trasformare e rendere folkloristiche anche quelle più drammatiche. Lo si incontrava spesso a ridosso di una finestra, o sotto un balcone di questa o quell’altra abitazione. Non per curiosare o spettegolare, ma per inserirsi nella famiglia e partecipare, con umiltà, alle gioie o ai dolori. I rumori, le parole captate, gli facevano intuire la vita e l’andamento della “casa spiata”. Ma era un modo per sentirsi meno solo. Per allontanare quella monotonia che avvizzisce i sentimenti. 138

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Le vicende liete o tristi di ciascuno erano vissute, dall’intera comunità, grazie a Lorenzo che le trasmetteva con estrema semplicità ed allegria. Alto, magro, dinoccolato con le mani enormi e un’eterna “coppola” in testa nel suo mondo immensamente piccolo era capace di suscitare sentimenti immensamente grandi. In lui c’era sempre il desiderio, il bisogno di elargire a tutti la sua disponibilità. Gli occhi innocenti, sereni, fiduciosi a volte diventavano interrogativi quando subiva qualche delusione. Uomo-fanciullo protagonista di un sogno. Portabandiera di ingenuità e fiducia, scopriva in tutte le cose, apparentemente comuni, l’essenza misteriosa per cui esse si trasformavano o si trasfiguravano. La lunga strada di Lorenzo è una strada in cui cammina ancora un bambino, una strada nella quale, a volte, ci sono anche tenebrosi alberi e ombre nere. Come nel giorno del ritorno. La sua voce è stata un pianto del cuore. Forse ha capito che la vita è diventata un mistero senza speranza, un dolore sommerso, un rimpianto struggente. Forse Lorenzo è diventato adulto pur conservando il ricordo della sua eterna fanciullezza vissuta al paese e un grande amore pieno di smarrimento racchiuso nel suo grande cuore che quel giorno in cui ha dovuto lasciare Caposele, batteva all’impazzata. Oggi il sogno volto al tentativo di svelare il mistero delle cose, degli avvenimenti, delle situazioni è diventato inutile. Vive l’angoscia dell’ignoto. Sì, sempre e comunque tra di noi, sia che passeggi lungo la sua Via Roma, sia che segga su una panca di legno davanti a questo locale a discutere animatamente di tutto o di niente. Ci pare di vederlo li, in quell’angolo accanto alla porta, attorno ad un tavolo da gioco, insieme ai suoi usuali ospiti. Egli è qui, ne sono certo; come gli antichi spiriti omerici s’aggira assieme a personaggi grandi che hanno voluto bene a Caposele.

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LORENZO CAPRIO

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VINCENZO MALANGA di Nicola Conforti Vincenzo Malanga è prematuramente scomparso il 28 settembre 1988. L’intero paese, commosso, gli ha tributato una grande attestazione di affetto e di stima. Cenzino, come usavamo affettuosamente chiamarlo, ha fatto di tutto: ha svolto con dedizione ed impegno il ruolo di insegnante, dedicandosi contemporaneamente alla poesia ed alla ricerca storica. Ha pubblicato due volumetti di poesie dal titolo “Desideri di Verde” e “Gocce di Tempo”. Ha scritto e pubblicato un saggio storico dal titolo: “Caposele: Dissertazione storico-critica fino al 1800”. Con la Sua scomparsa “La Sorgente” perde una presenza assidua ed operosa, una collaborazione prestigiosa ed appassionata. La Redazione si inchina alla Sua memoria e con profonda commozione gli porge l’estremo saluto.

Gente di Caposele di Antonio Sena

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l “Genius loci” è una forza portatrice di valori culturali e storici strettamente legati al sito (urbano e territoriale), come luogo dove interagiscono l’intelligenza dell’uomo e la forma del territorio. Il riferimento al luogo è, quindi, una componente permanente dell’immaginario collettivo, è un rifiuto delle espressioni e dei gesti appiattiti su modelli consumati voracemente davanti ai video, è un’affermazione del diritto all’autenticità degli individui contro la massificazione del linguaggio che investe, oramai, come processo irreversibile, l’intera umanità. Troppo importanti sono allora quei personaggi che hanno esercitato, e che esercitano ancora, in forma quasi sacrale, la custodia del “Genius loci”. Cenzino è sicuramente uno di questi custodi, nel senso che si rendeva continuamente interprete dell’immaginario collettivo caposelese e lo traduceva in versi, racconti, musiche, imitazioni, quadri e in tutto quanto faceva linguaggio tematizzato sulla base dell’ambiente e della “ratio” storica. Cenzino aveva esperito ogni forma espressiva e figurativa per dare corpo a tutte le suggestioni e a tutti gli stimoli che quotidianamente lo colpivano incontrando la gente di Caposele, o visitando i luoghi di Caposele, o leggendo cose di Caposele. Cenzino aveva fatto il poeta, il narratore, il cantante, il musicista, il pittore, l’architetto, il mimo, l’attore ed aveva trovato anche il tempo di praticare l’agricoltura, l’artigianato, il calcio giocato, la ricerca storica, il giornalismo, la politica ed intervenire, sempre, in qualsiasi celebrazione, dibattito o avvenimento culturale. Si può dire che nella sua esistenza aveva consumato, al tempo stesso, il mito 140

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di Prometeo e quello di Orfeo, eroi “civilizzatori” dell’umanità. Ogni segmento della sua produzione intellettuale è un tentativo linguistico per trasferire i simbolismi e gli archetipi strapaesani su un livello di comunicazione più immediata ed universale. Un solo esempio, forse il più manifesto: lo scenario paesaggistico, che si impatta salendo per Corso Europa, da qualche tempo non è più il semplice ed austero Campanile della Sanità, che si impenna sul bacino delle sorgenti del Sele e si immerge nel verde delle pendici del monte Paflagone, ma è diventato per tutti i Caposelesi il “Campanile d’acqua”. Campanile d’acqua, oltre che il titolo di una poesia, è una parola/ immagine che sintetizza in sé una parte corposa di quella storia trasparente ed alla portata di tutti, che, al tempo stesso, svela passato e futuro. Campanile d’acqua è una parola/immagine ambigua e totalizzante perché contiene il presente e l’assente, la realtà ed il concetto, la descrizione ma anche la suggestione di una possibile descrizione. Campanile d’acqua è, dunque, una parola/immagine che aderisce completamente al “Genius loci” e dalla quale sarà molto difficile prescindere sia che ci si trovi sul versante della Conservazione che su quello della Mutazione. Ogni adattamento al “Genius loci” è un riconoscimento supremo a quanti hanno contribuito a custodirlo.

Vincenzo Malanga Maestro unico di Alfonso Merola

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ent’anni fa, il 28 settembre 1988, si spegneva Vincenzo Malanga. Caposele, che noi amiamo tanto, è un paese bello ma bizzarro: raramente apprezza i suoi figli migliori in vita, salvo, poi, a sentirne la mancanza quando non ci sono più. Il maestro Cenzino, come eravamo abituati in tanti a chiamarlo, non era semplicemente un maestro elementare, ma un uomo dal carattere forte che non amava i giochetti politici ed allora era sempre pronto a sparigliare le carte, non essendo un cultore del “politically correct “ ad ogni costo. Raramente, poi rinunciava ai suoi punti di vista che sapeva ancorare su solide argomentazioni, il che lo portava a scontrarsi con quanti si trinceravano dietro quell’antico vizio tutto italiano del “quieto vivere”. In politica era puntiglioso e severo come il suo maestro di vita che era Ugo La Malfa, convinto come lui che la democrazia non vive solo coi partiti di massa, ma anche con “piccole formazioni” politiche condannate a restare tali per lo scomodo compito di dire “pane al pane e vino al vino”. Era tutt’altro il Vincenzo Malanga “malato di Caposele” che cantava da genius loci il suo villaggio che, a suo dire, non aveva pari al mondo. Gente di Caposele ieri

VINCENZO MALANGA

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Si, perché Cenzino va ricordato come il moderno poeta della terra che sta “a capo della Valle Antica”… Caposele lo inebriava, lo caricava di emozioni, gli ispirava i sentimenti delicati ed irripetibili, infusi nella nitidezza di versi liberi e sciolti da preoccupazioni stilistiche “classiche”, dove pure la ricerca rigorosa delle parole non era casuale. Per dirla tecnicamente, nelle poesie che desiderano il verde ogni significante è l’anima del significato. Il Verde era il canovaccio delle composizioni di Cenzino, quasi a trasmetterci un messaggio di speranza contro i vortici di una modernità inevitabile che, malgrado le resistenze umane, deve avanzare. Egli sembra quasi dirci che, fino a quando questo verde riuscirà a prevalere con le sue tonalità pittoriche, la memoria di Caposele è salva. La natura che qui lussureggia e si scatena con fantasia, in fondo, si personifica, quasi a denunciare un antico scippo ma anche a sfidare e a resistere, malgrado tutto, contro questa mutilazione. Quel verde è lì a pietrificare la laicità religiosa e non violenta di una Madre Terra che protegge, prima della nascita il figlio fiume che non si nega agli uomini, buoni e meno buoni che siano. Egli sembra avere una certezza: Caposele vivrà a dispetto di tutto e di tutti, perché, inoltre, da una collina, vigila su di esso un Santo, nume taumaturgo, che anch’egli protegge madri gestanti e piccoli pargoli e soprattutto i poveri delle terre che chiedono giustizia e misericordia e non una fastidiosa compassione. La curiosità “storica” di Vincenzo Malanga si iscrive nello stesso alveo di amore per Caposele, nel senso che egli ha ricercato per tutta la vita e per come ha potuto, la riconferma di una “peculiarità” di questo paese nei secoli. In tal modo ha salvato “pezzi di storia locale”, tasselli di un mosaico ancora incompleto di cui altri, egli diceva, soprattutto i giovani avrebbero dovuto farsi carico … Ma è Cenzino Malanga, maestro elementare, di cui voglio parlare a conclusione di questa riflessione. In questi giorni di bufera e di attacchi ingenerosi contro la scuola italiana, che si sono spinti fino ad offendere la dignità dei docenti, io mi chiedo spesso che cosa avrebbe detto il maestro unico per eccellenza … Sicuramente non avrebbe compreso la deriva della Istruzione Pubblica causata da continui e sostanziali tagli di risorse finanziarie e si sarebbe arrabbiato per certi tentativi maldestri di definire riforme delle evidenti operazioni di puro contenimento della spesa pubblica. Né avrebbe mai abboccato alle polpette mediatiche di grembiulini e voti di condotta. La scuola, avrebbe detto, non è una caserma ma una palestra in cui si apprende la libertà … ed i voti in condotta andrebbero appioppati a genitori e a docenti che non aiutano i bambini ad “uscire dal disagio”.

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Egli era ancorato, infatti, ad una concezione della scuola, dove senso di responsabilità dei genitori e rigorose professionalità dei docenti devono saper dialogare e negoziare un percorso formativo. Egli era, inoltre, solito dire che “un maestro unico o trino che fosse, era un vero maestro per i risultati raggiunti con i più svantaggiati e non con quelli meglio dotati. E la scuola non la facevano i soli libri, ma l’ambiente nel suo insieme, la curiosità di apprendere e la magistrale capacità di suscitare interesse … perché nei libri non c’è tutto, e se un libro o un insegnante non spiega il valore e l’utilità pratica di una nozione, quella nozione scivola via come l’acqua sull’olio La sua era una strategia metodologica, come si vede, più che moderna, da servizio pubblico che non si sottrae né alla trasparenza, né alla misurazione dei risultati. Io lo sento ancora, quando cantava con i suoi alunni, quando recitava solennemente le sue e altrui poesie o leggeva brani e gli alunni lo emulavano. Lo vedo mentre li conduceva in palestra o si attardava a giocare a pallone nel cortile delle scuole Norvegesi e, di lì, poi, guidarli nelle escursioni di tutti gli angoli di Caposele. Non si stancava mai di rispondere alle torrenziali domande dei suoi allievi, convinto come era che la scuola erano loro e che bisognava innanzitutto ascoltarli se si voleva educarli all’idea che solo chi sa ascoltare i punti di vista degli altri è in grado di non avere paura di questo mondo. Le sue composizioni distanza di oltre venti anni dalla prima pubblicazione, è stato ristampato, a cura di Antonello e Franco Malanga e Gerardo Ilaria tutto ciò che Vincenzo Malanga aveva scritto e pubblicato. Il volume comprende una dissertazione storico-critica su Caposele fino al 1800: due raccolte di liriche intitolate “Desideri di verde” e “Gocce di tempo”, alcuni ritratti in prosa, delle poesie inedite e. infine, l’ultima parte del commento al film “Un anno a Caposele”.Le sue liriche, i suoi racconti, i ritratti di tanti personaggi, hanno sempre trovato ospitalità sulle pagine de “La Sorgente”. In questa occasione vogliamo ricordare la meravigliosa lirica “Mia terra, mio paese” che apre il film “Un anno a Capasele” e la stupenda prosa “Caposele sotto la neve” che chiude lo stesso film. Ancora una prosa toccante e commovente Vincenzo Malanga la scrisse per commentare un documentario girato nell’immediato dopo terremoto dal titolo “Caposele: ricordi e pensieri”. Il volume, stampato a cura della Poligrafica Irpina si presenta in bella veste tipografica con una copertina che riproduce un dipinto dell’autore.

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GERARDO ALFONSO GRASSO un caposelese che ha dato onore e prestigo al suo paese

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aposele sente l’onore e l’orgoglio di avere avuto, tra i propri figli, l’Autore della musica dell’inno nazionale dell’Uruguay. Gerardo Alfonso Grasso lasciò da giovane il proprio paese, Caposele, nel secolo scorso, senza più farvi ritorno. Oggi, lo ricordiamo per onorarne la figura eminente, celebre in Sud-America ed, in particolare, nel Paese che Gli ha dato - in vita - lavoro e gloria, e cioè l’Uruguay. Ma, attraverso Lui, vogliamo rendere onore alle tante migliaia di Caposelesi, emigrati nel secolo scorso ed in questo, che hanno saputo affermarsi con sacrifìcio ed intelligenza, lontani dalla loro terra di origine. Cogliamo l’occasione anche per fare arrivare il nostro saluto ai tanti Caposelesi delle ultime generazioni - ormai affermati - che vivono e lavorano all’estero senza avere perso il ricordo e l’amore per il proprio paese ed affermando il buon nome dell’Italia. Il mio personale auspicio è che tutti, anche quelli che non conosciamo e che hanno portato in alto il nome di Caposele, trovino l’occasione per ristabilire un contatto con il paese di origine che desidera solo di poter rendere noti ed onorare i tanti ed altri esempi di impegno e capacità dimostrati. Avv. Antonio Corona Sindaco di Caposele

Una carriera prestigiosa di compositore da “Campania nel mondo” di A. Giordano

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iamo nel 1860: l’Italia vive pienamente il suo processo di unificazione al quale dedica un intero secolo di lotta e di sangue. C’è molta miseria in quel doloroso Sud della Penisola, che aumenta con la tragedia provocata da fenomeni naturali come i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le alluvioni. In questo contesto nasce, a Caposele, il 3 agosto 1860 Gerardo Alfonso Grasso.I suoi genitori di lì a qualche anno vanno ad incrementare la carovana di emigranti diretti verso terre lontane che possano offrire loro migliori condizioni di vita. Il loro animo, anche se elevato per l’idea di un nuovo mondo di pace e di progresso e, ciononostante, pieno di tristezza perché, oltre che lasciare la terra natia, hanno dato l’addio a parenti ed amici ed all’unico figliolo, il piccolo Gerardo di appena otto anni. Lasciano Caposele che, anche se povero, è carico di vecchie e amate tradizio144

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ni ed è capace di esercitare un grande fascino su tutti i suoi Figli. Sei anni più tardi Gerardo raggiunge i genitori a Montevideo. Qui ha inizio la sua lunga e prestigiosa carriera di compositore. Il 1875 entra come musico nella banda del Reggimento di Artiglieria; contemporaneamente continua i suoi studi di composizione, pianoforte e strumentazione. Gerardo diventa in breve tempo un virtuoso del flauto, conteso da numerose bande e gruppi orchestrali come quello del Teatro Solis. “ Il giuramento”, una delle più importanti testate di critica locale, assicura profeticamente che il giovane Gerardo Grasso occuperà ben presto un posto di rilievo tra i musicisti più distinti della città. E non sbagliò. Nel 1879 la Banda di Musica del la Scuola d’Arte dell’Uruguay si vanta, legittimamente, di avere due ottimi musici: Stanislao Grasso, clarinetto e Gerardo suo figlio. Gerardo continua come maestro di musica e solfeggio, riuscendo a formare, poco dopo, una Banda di valore tale che per i successivi sei anni viene considerata la migliore del Rio de la Piata, cioè di Montevideo e Buenos Aires. Gerardo Grasso ha appena 19 anni. Nel 1882 la Banda, ormai famosa ed arricchita col potente coro della scuola composto da 140 persone, si presenta alla Esposizione Continentale Sud Americana a Buenos Aires. Il successo è totale. Il Presidente uruguaiano Massimo Santos è profondamente entusiasta ed orgoglioso, come pure il grande Presidente argentino Domingo Faustino Sarniento. Nel febbraio del 1883 fa il suo debutto una nuova grande orchestra, intestata a Domingo Sarniento, organizzata a diretta da Gerardo Grasso. L’orchestra è conosciutissima a Montevideo e, condotta abilmente dal maestro Grasso, si presenta in tutti gli eventi importanti facendo sentire marce militari, tarantelle e canzoni, suscitando simpatia ed entusiasmo popolare. L’intero popolo uruguaiano rende omaggio al bravo maestro italiano. A 26 anni, ottenuti già un prestigio ed una posizione invidiabili, sposa la sedicenne Luisa Morelli, con la quale formerà una felicissima famiglia. Siamo, ormai, nel 1886. A questo punto Gerardo compone il suo “Pericon”. Tutto un popolo vi si identifica fino al punto che verrà ricosciuto non come un “Pericon” qualsiasi, ma come il “Pericon Nazionale” non solo in Uruguay ma anche in Argentina. Nessuno come lui era riuscito a riunire in un sol canto l’espressione della semplicità contadina attraverso i suoni lentamente compassati e calmi dei guachos. Il “Pericon Nazionale”, fu composto dall’artista in meno di un mese e registrato in partitura per pianoforte. Il nuovo pezzo acquista di giorno in giorno la più grande diffusione. Successivamente Gerardo Grasso arrangiò l’inno nazionale uruguaiano per canto e pianoforte e, questa versione, fu dichiarata l’unica ufficiale. Il Conservatorio “La Lira” lo onorò con medaglia d’oro come maestro di flauto. Fu maestro di molti musici di grande rinomanza. Ebbe la cattedra di musica al Conservatorio La Lira ed alla Scuola Italiana di Montevideo. E così arriviamo all’anno 1937, quando Montevideo si dispone a celebrare i 50 anni del Pericon Nazionale: Gente di Caposele ieri

GERARDO ALFONSO GRASSO

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l’inconfondibile opera, la più genuina delle composizioni native, la carta d’identità del popolo uruguaiano, aveva raggiunto l’esito pieno e assoluto. Gerardo Grasso si spense il 18 giugno 1937, poco prima di compiere 77 anni. Esattamente un mese dopo, nella Chiesa Italiana dei Cappuccini di Montevideo, durante la Messa offerta in suffragio, un gruppo di otto professori scelti fra i suoi migliori amici e colleghi, in mezzo al più profondo e rispettoso silenzio, fa sentire gli accordi della sua “Marcia Funebre”. Questo fu Gerardo Grasso: un grande musico, un valore eccezionale, uno dei tanti italiani che contribuirono in modo così decisivo e vitale allo sviluppo della musica in Uruguay.

DONATO MAZZARIELLO il manifesto del comune di caposele

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venuto a mancare Donato Mazzarielllo. Il Sindaco, la giunta, l’amministrazione Comunale, il segretario ed i dipendenti comunali si uniscono alla famiglia in questo momento di dolore. E’ nostro dovere, non solo come rappresentanti delle istituzioni locali, ma come cittadini di una società civile, ricordare una persona che ha speso la propria vita per la comunità. Tutti ricordano il suo impegno civile e politico al servizio del paese. La sua storia di umile ed onesto cittadino sarà di esempio a tutti per l’impegno appassionato ed intenso profuso per il progresso civile di Caposele. Tutto il paese è in lutto e ricorderà sempre con affetto un uomo che ha dedicato molti anni della sua vita a Caposele sia come amministratore sia come uomo di partito occupandosi, con impegno e competenza, delle vicende locali. Caposele renderà tutti gli onori dovuti ad un grande amministratore rispettato dai rappresentanti locali del suo partito, ma anche dai consiglieri di opposizione.

Donato Mazzariello di Vincenzo Caruso

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ono un entusiasta ammiratore di “Donato”, instancabile amministratore, fedele servitore, particolarmente dell’incallito e generoso Caposelese, egli stesso contadino, allevatore, operaio, sindacalista, socialista dell’idealità sociale più adamantina. L’ho visto in ogni mattino di ogni santo giorno, sulle vie e vicoli, disceso dalla sua modesta casa colonica in altura, sempre la stessa da sempre, al suo lavoro, e contestualmente dispensatore verso chiunque, amico od avversario, di confor146

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to, di fraterni consigli, di aiuto, e poi presente ovunque e sul Comune per adempiere alle sue funzioni nell’interesse generale della sua comunità. Giovanissimo affronta una preziosa esperienza nella Federterra, anche da lui diretta, e contemporaneamente lo svolgersi della prima Amministrazione democratica insorta nel 1946 con il Sindaco dottor Amerigo Del Tufo, seguendone le vicissitudini, e così nel 1952 non esita a partecipare alla competizione elettorale ed indi acquisire cognizioni come consigliere di maggioranza nell’Amministrazione Sindaco avvocato Michele Farina, e nel 1956 essere collaboratore dello stesso Sindaco Farina in Giunta, quale delegato all’Agricoltura, e tale confermato nella successiva Amministrazione del 1960 con il solertissimo e perspicace professore Donato D’Auria, primo suo maestro di dirittura politica. La lista cìvica “Stretta di Mano” vince nelle elezioni del 1964 e Primo Cittadino diviene l’ indimenticabile Francesco Caprio, tanto navigato nella sua umanità, e Donato Mazzariello completa la sua già matura pratica politico-sindacale e di governo locale, Vice Sindaco e sempre Assessore all’Agricoltura, anche nelle successive Amministrazioni Caprio del 1970 e 1975. Donato, sempre assiduo collaboratore, sostiene, come del resto fanno tutti gli Amministratori di maggioranza e di minoranza, il Sindaco Francesco Caprio nella definizione della pluridecennale conflittualità tra il Comune e l’Ente Autonomo per 1’ acquedotto pugliese che si trascinava dal 1939 con l’espropriazione della riserva di acqua sorgentizia. Con la morte di Francesco Caprio, il 21 gennaio 1979, Donato Mazzariello, Vice Sindaco, può ben assurgere a successore del suo secondo maestro di vita politico-amministrativa, ma vuole che Caposele abbia una guida nell’avvocato Fernando Cozzarelli, un preparato e valente professionista Caposelese, non un autodidatta come lui, e così preferisce rimanere al suo posto, vicario e nel settore a lui congeniale dell’ Agricoltura. Alle elezioni del 1980 deve però passare all’ opposizione, perchè vince la lista civica guidata dall’avvocato Antonio Corona e, quando la tremenda iattura del terremoto del 23 novembre 1980 si abbatte tragicamente anche su Caposele, Donato Mazzariello, capo della minoranza, non lesina la sua fattiva e sincera collaborazione all’Amministrazione Corona, senza mai trascendere, come taluni avvoltoi, a villania e diffamazione contro il Sindaco Antonio Corona, che egli vedeva dedito fino a compromettere la sua salute per lenire le sofferenze della popolazione caposelese tutta. Nel 1985 e nel 1990 con il professore Alfonso Merola Sindaco, Donato Mazzariello ritorna nuovamente all’Assessorato all’Agricoltura ed alle sue funzioni vicarie, sempre convinto di lasciare ad un giovane di cultura la prestigiosa guida del governo cittadino, ed identica valutazione e suo comportamento impone nel 1992 con il Sindaco professore Agostino Montanari. Da un tale sintetico profilo ultraquarantennale balza il “Caposelese” dinamico e generoso, quanto la sua terra dalle abbondanti acque cerulee delle sue SorGente di Caposele ieri

DONATO MAZZARIELLO

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genti della Sanità, dispensatrice di progresso della Puglia, una volta “sitibonda”, Terra Caposelese che ha visto succedersi valenti galantuomini della generazione dei primissimi anni del Secolo, e Donato Mazzariello ora lascia l’impegno diretto non meno valente esponente della successiva generazione degli anni Venti. Ed egli lascia rammaricato di non essere riuscito a contenere quelle maldicenze del 1980, che tramano nell’ombra ai danni oltretutto della Città e dei Caposelesi. Caposele è privilegiata dalla Provvidenza nel vanto del Santuario di San Gerardo Maiella dei Redentoristi, nell’Altura di Materdomini frazione ospitale nell’accogliere Pellegrini da ogni contrada italiana, ma vanta anche un secondo Santuario quello delle fresche e copiose Sorgenti Madonna della Sanità, pure portato ad accogliere “visitatori” di ogni contrada dell’Italia e del Mondo, caposaldo del primo più grande Acquedotto della Terra. Caposele abbisogna di una sua tranquillità interna, di quella serena pace cittadina, che nella democratica alternanza di governi sappia rendere il Paese Perla dell‘ Irpinia.

DONATO MAZZARIELLO IL LEGGENDARIO di Alfonso Merola

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o avuto modo di visitare Donato Mazzariello, non più di 15 giorni fa, insieme ad alcuni compagni, nella sua casa di sempre a Montemaggiore. Una visita del tutto eccezionale perché non lo si vedeva in paese solo da qualche mese; egli era invecchiato molto lentamente, quasi non te ne accorgevi, se non fosse stato per quei capelli sempre più bianchi. Per il resto dominavano i suoi occhi azzurri su quel volto calmo e sorridente verso tutti, perché, sfido chiunque a dire il contrario, tutti si sentivano amici di Donato. Lo trovammo ancora a letto, quasi a scusarsi per il fatto che solo da qualche minuto aveva concluso una terapia e, quindi, s’era concesso un minuto di riposo. I tratti del suo corpo minuto ci raccontavano l’avanzare della malattia, ma al tempo stesso la sua voce espressiva e sicura ci comunicava una vitalità ed una voglia di discutere di passato, presente e futuro, come mai te lo aspetti da chi è minato dentro. Ci congedò con un sorriso e una stretta di mano, dopo averci promesso che nel giro di qualche settimana ci saremmo rivisti a Caposele. Ne era convinto; nondimeno ci consegnò, quasi come un testamento, la sua nozione di Politica. Ci disse: “La Politica è innanzitutto volersi bene”. E, poi ,aggiunse: “Non fate mai prevalere ad ogni costo le vostre ragioni su quelle degli altri, perché la verità non è mai da una sola parte!”. Una lezione di vita sicuramente cristiana e significativamente molto preziosa perché proveniente dalla sponda di un politico di grande esperienza umana, il quale sa quanto è difficile mantenere diritto e saldo il timone della coscienza nel mondo dell’impegno civile e sociale. Egli, per davvero, sapeva amare ed avere rispetto del prossimo suo, per giunta. In un paese al quale,

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DONATO MAZZARIELLO

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talvolta, piace dividersi e farsi del male. Donato non si è mai curato troppo delle ideologie, e pure ha creduto fermamente in un mondo in cui tutti avevano diritto a progredire, convinto, però, che il riscatto e l’ascensione sociale passino attraverso l’esercizio del dovere, il rigore etico, il paziente spirito di servizio alla comunità ed il dialogo con tutti. Egli si è sempre adoperato per un’idea di partito forte, democratico e di massa ma ha sempre ritenuto che il partito non è tutto, se non ha un’anima da spendere all’esterno per gli altri sia attraverso la condivisione di progetti che di realizzazioni. La sua filosofia era, in fondo, molto semplice e diretta: non inseguire il superfluo, fintanto che a tutti non è assicurato il necessario, a partire dal lavoro. A questo punto, non è banale ripercorrere brevemente le tappe significative della sua vita … Egli non è stato solo il costruttore convinto in sede locale di una grande sezione di partito, ma anche l’organizzatore del suo mondo contadino per il tramite della Federterra, della CGIL, della sua formidabile INCA, tutta tesa ad assistere quotidianamente braccianti e mezzadri, compartecipanti e pensionati. Era, ancora, in prima fila ad animare cooperative agricole per contrastare mediatori e speculatori; non si sottraeva nemmeno al gravoso compito di costruire, presiedere e dirigere società agricole finalizzate alla costruzione di strade interpoderali e ad opere di miglioria fondiaria. Ma è pure come uomo delle istituzioni che abbiamo potuto apprezzarlo, anche perché ci era invidiato nei paesi vicini e nella provincia, per le sue battaglie a favore dell’umanizzazione delle campagne. Assessore competente all’agricoltura, indimenticabile vice-sindaco , consigliere alla Comunità Montana, dovunque ha lasciato la sua impronta con strade interpoderali, acquedotti rurali, opere di elettrificazione e di telefonia, scuole rurali, quotizzazione di terre incolte e di demani da assicurare alla pastorizia. Settori che oggi possono sembrare marginali, ma che un tempo erano decisivi per l’economia in un paese in cui l’agricoltura era “quasi tutto”. Ascoltare la voce del territorio era la sua regola d’oro, ecco perché correva in lungo ed in largo le contrade, a vigilare sulle manutenzioni e sulle riparazioni, a raccogliere consigli e lamentele, a dirimere controversie private tra frontisti e confinanti, a suggerire perfino ai tecnici le linee per una equa valutazione dei fondi in caso di divisioni bonarie. Lo vedevi di buon mattino raggiungere Caposele per distribuire a domicilio il latte della sua stalla, poi andare a disbrigare le tante pratiche nella Camera del Lavoro ed in seguito salire le scale del Municipio, organizzare lavori e sopralluoghi ed. infine, mettersi alla testa delle guardie campestri e raggiungere le contrade dove era atteso. Non mancava mai alle riunioni di partito, alle assemblee sindacali e nemmeno alle sedute di giunta Municipale e di Consiglio Comunale, sempre puntuale, pronto a mediare, a smussare gli animi, a mitigare gli interventi, rispettoso delle minoranze e rispettato dalle maggioranze, al di là del ruolo che ricopriva. Egli non è stato mai sindaco di Caposele, ma per sua scelta: se solo l’avesse Gente di Caposele ieri

DONATO MAZZARIELLO

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voluto, sarebbero stati in molti a cedergli il passo. Non di meno tutti lo abbiamo sentito come tale, per i suoi consigli, le lezioni di stile, di educazione e di saggezza che ci ha impartito. Ci mancherà Donato, molto a tutti noi ma ancor più alla sua famiglia, alla quale spesso l’abbiamo sottratto, in modo particolare alla sua Rosina. Noi tutti perdiamo un amico ed un solido punto di riferimento, ma sono convinto che se l’abbiamo apprezzato, come lo abbiamo apprezzato, tenendo viva la sua memoria, noi non solo onoriamo lui, ma operiamo una scelta utile anche per questo paese … perché si sappia che c’è un modo nuovo, anzi antico, di fare politica e di sentirsi umanità di cui si può andare feri, quando si è guidati dall’onestà, dalla nobiltà interiore e dallo spirito di servizio verso gli altri. Donato, cari Caposelesi, è stato tutto questo!

PADRE ROCCO DI MASI di Giuseppe Palmieri

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ueste brevi riflessioni non vogliono essere un vero e proprio elogio funebre; né un panegirico per zio Rocco, Padre Rocco; e però non si possono sottacere alcuni aspetti della sua personalità che hanno caratterizzato la sua vita. Ne parlo con assoluta serenità: la stessa con la quale ha aspettato questo momento. L’ho conosciuto in occasione della festa che i confratelli gli organizzarono in occasione dei 25 anni di sacerdozio. Una festa sobria come era nella personalità di Padre Rocco. Incuriosito volli sapere da mio suocero come era da ragazzo, prima che fosse chiamato dal Signore. Mi disse che era un ragazzo normale. Quelli erano anni in cui si cominciava a lavorare e duramente da ragazzino. Un giovane come tanti; che di certo non preferiva il lavoro nei campi ad una dolce dormita. Poi d’improvviso la chiamata. E nulla fu più come prima. Quando tornava dal seminario non era più lo stesso. Completamente votato alla preghiera. E loro, i fratelli, faticavano a riconoscerlo. Pretendeva da loro la stessa fede. Ricordo che mio suocero ne parlava con grande ammirazione. La possanza della sua figura tradiva una cordialità e gentilezza di comportamento. Sempre sorridente, non lasciava trasparire mai lo sconforto e la sofferenza per i tanti mali patiti. E’ come se il Signore avesse continuativamente messo a dura prova la sua incrollabile fede. Ha accettato sempre con serenità gli accadimenti della sua vita. 150

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La sua immensa fede gli ha fatto vivere serenamente i tanti eventi luttuosi della sua famiglia: la morte della mamma, del papà, dei fratelli più giovani. Una fede vissuta con semplicità ma con grande rigore nel segno della castità, povertà e obbedienza. Rigore che veniva fuori nelle sue prediche, fatte di certezze e di amore infinito nei confronti di Maria. Rigore e semplicità che conservava anche nelle occasioni vissute in famiglia. Amava la sua terra. Era solito fare lunghe passeggiate anche in montagna, fino a quando il fisico glie lo ha consentito. Una volta, lo accompagnai in macchina in montagna. La natura, il creato lo avvicinava al Signore. E questo nel solco di Sant’Alfonso che era innamorato della bellezza. Ci lascia un grande insegnamento, una grande eredità: la serenità nell’affrontare le cose della vita, anche quelle più amare; la semplicità dell’essere come regola di vita; la fede come certezza inconfutabile. Grazie, zio Rocco per tutto questo. Sei stato un dono di grazia, per noi. E di questo non smetteremo mai di ringraziare il Signore.

DON GIOVANNI BENINCASA di Nannina Cuozzo

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olti a Caposele si ricordano di don Giovanni, il maestro burbero ma buono, originale ed estroso, strano nell’abbigliamento, ma con tanto buon senso e con tanto amore per l’insegnamento. Passando a caso in via Castello noto con piacere il restauro della vecchia scuola. Mi fermo dinanzi al cancello chiuso non per curiosità; un intimo moto dell’animo mi richiama a cose lontane e, improvviso, il ricordo della fanciullezza si fa innanzi. La mia scuola, la sola per me (nonostante la buona volontà per molti, allora, si chiuse alle elementari il ciclo di studi). Quanto baccano nel piccolo cortile con disperazione del povero Francesco quando gli mettevamo a soqquadro tutti gli arnesi; aveva, egli, diverse mansioni a carico: bidello, campanaro, messo, lucernaio ecc. Al piano di sopra la mia aula, la centrale, ove nelle ricorrenze nazionali al balcone si esponeva il Tricolore, m’appare com’era quaranta anni fa, fredda e disadorna. Alla parete di fronte il crocifisso, l’effigie dei reali, il calendario, a lato la mia Italia geografica, sciupata e ingiallita dall’uso perchè, all’occorrenza, passava di aula in aula. Quante volte il mio sguardo l’ha percorsa in cerca di monti, di fiumi, Gente di Caposele ieri

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città e confini. Il mio banco di vecchia fattura, macchiato d’inchiostro e inciso di nomi dai temperini, vittima paziente della mia irrequietezza. I miei compagni di classe, oggi sparsi un po’ ovunque per le vie del mondo: Maria, Alessandro, Italia e il povero caro Riccardo son qui tutti con me. Ed eccolo là il mio Maestro, alto oltre il normale, dallo strano modo di vestire, quel viso magro e olivastro -dove spiccavano imponenti baffi - lo rivedo in cattedra tra il registro, i compiti da correggere, le matite da appuntire e ogni comune oggetto diventar nelle sue mani materiale didattico. Quando ci guardava di sopra gli occhiali sembrava leggerci nella mente. Non so se il suo metodo seguiva la prassi, però ne lasciava il segno. Aveva appiccicato a ognuno di noi un nomignolo e quando, ritiratosi in pensione e sofferente, andavo a casa a fargli visita ne restava contento e continuò a chiamarmi alla stessa maniera; quanti i consigli e quanto buon senso, per me che l’ascoltavo era sempre una lezione. Son tanti i ricordi che tornano. Un giorno marinai la scuola, per il semplice gusto di vantarmene come di tanto in tanto faceva qualcuno. Vagai nei dintorni nascondendomi nei posti più impensati, temevo che qualcuno vedendomi l’avrebbe riferito ai miei. Mi rifugiai finanche in Chiesa, sentivo su di me gli occhi delle statue come un rimprovero ed ebbi paura. L’orologio del Comune così lento nel battere i quarti, sentii vive le parole che avevo letto in un racconto del Collodi “... e l’ore, l’ore non passavan mai...” Fu quella per me una stupida, deludente trovata. Mente e cuore, depositari preziosi di ciò che il tempo appanna ma non cancella, io vi ringrazio d’avermi fatto rivivere per un attimo il felice tempo della scuola.

CAMILLO CAPRIO Generale ispettore del Corpo Tecnico dell’Esercito

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roveniente dai Corsi regolari dell’Accademia di Artiglieria e Genio di Torino, l’ing. Camillo Caprio fu nominato Tenente di Artiglieria in S.P.E. nel 1929. Laureato in ingegneria ed in chimica. Insignito delle onorificenze di: Cavaliere - Cavaliere Ufficiale - Commendatore - Grande Ufficiale dell’Ordine della R.l. e della Medaglia Mauriziana (Croce d’Oro). Decorato della Croce di Guerra al Valor Militare. Dopo un periodo di servizio prestato presso il 3° Reggimento di Artiglieria P.C., e presso la Scuola Allievi Sottufficiali di Nocera Inferiore, partecipò al concorso speciale per l’ammissione al Corso biennale di alta specializzazione tecnica presso l’Istituto Superiore Tecnico di Artiglieria di Roma, per 6 posti di Ufficiali laureati destinati a transitare, dopo il compimento di detto Corso, nel Servizio Tecnico di 152

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Artiglieria. Superato brillantemente detto Corso e, promosso Capitano nel 1935, entrò nel Servizio Tecnico di Artiglieria ed assegnato al Polverificio di Fontana Liri con la carica di Capo Sezione delle Lavorazioni Chimiche e meccaniche dei propellenti che venivano prodotti in quella fabbrica, e che erano polveri del tipo BALISTITE, alla nitroglicerina. Promosso Maggiore, nel 1940, viene trasferito a Roma presso la Direzione Superiore del Servizio Tecnico di Artiglieria, con la nomina a Capo dell’Ufficio Nuovi Impianti e, successivamente. a Capo dell’Ufficio Studi Esperienze e Normativa Tecnica dei nuovi esplosivi che, in quel periodo della nostra entrata in guerra, venivano studiati, sperimentati e adottati in servizio. Furono realizzati gli esplosivi detti autarchici perchè sostituirono quelli allora in servizio, per i quali mancavano in Italia le materie prime per la loro fabbricazione. Furono sperimentati e definiti circa un centinaio di nuovi sistemi di caricamento, studiati e realizzati i proiettili a “carica cava” e i nuovi potenti esplosivi denominati PENTRITE eT4. In data 1-1-1942, all’età di 34 anni, promosso a scelta speciale al grado di Tenente Colonnello, conservando gli stessi compiti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si rifiutò di aderire alla R.S.I. e, sottrattosi alla cattura, si trasferì in Ciociaria, aderendo ai Gruppi di “Patrioti” che in quella zona andavano organizzandosi partecipando attivamente alla lotta clandestina, meritandosi il conferimento della Croce di Guerra al Valor Militare. Rientrato in servizio dopo la liberazione di Roma, viene nominato rappresentante dell’E.I. nella Commissione Tecnica di controllo per l’accertamento dei danni subiti all’industria del Nord per eventi bellici, istituita dal Comando Supremo Americano con sede a Chianciano, dove fu assegnato, alle dipendenze del suddetto Comando. Al termine di detta missione, fu nominato Capo Ufficio Munizioni ed Esplosivi presso l’Ispettorato dell’Arma di Artiglieria. Nel 1951 viene nominato Direttore del Polverificio dell’Esercito di Fonta¬na Liri, con il compito di progettare e ricostruire la fabbrica completamente distrutta dai bombardamenti e dalle mine. Tale compito venne assolto con brillanti risultati, pienamente riconosciuti dalle Alte Autorità responsabili, che, in ripetute occasioni espressero lusinghieri giudizi di compiacimento, per il realizzatore della complessa ed impegnativa opera svolta, vivamente apprezzata anche in campo internazionale. In questo periodo viene promosso colonnello. Promosso Magg. Generale nel 1963, gli vengono conferiti i seguenti importanti ed impegnativi incarichi e cioè: -Vice Direttore Generale della Direzione Generale Armi ed Armamenti Terrestri. -Capo del Reparto Regolamenti e Controllo lavorazione della Direzione del Servizio Tecnico di Artiglieria, che controllava la produzione dei materiali di armamento sia degli Stabilimenti Statali, che dell’Industria Privata. Gente di Caposele ieri

CAMILLO CAPRIO

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Direttore Centrale dell’Ufficio Centrale Allestimenti Militari, organo Interforze alla dipendenza del Ministro della Difesa. Nel 1969 viene promosso a scelta al grado superiore, e nominato CAPO del Servizio Tecnico di Artiglieria, raggiungendo il vertice della scala gerarchica del Corpo di appartenenza. ALTRE ATTIVITÀ’ SVOLTE Didattiche: Insegnante titolare di Chimica e fabbricazione degli esplosivi Ai Corsi superiori Tecnici di Artiglieria per 20 anni Al Corso per Ufficiali di Balistica Superiore - Al Corso Superiore Tecnico del Genio Ai Corsi Tecnici per Ufficiali di Artiglieria sul munizionamento inglese ed americano Corsi Antisabotaggio Direttore dei Corsi Superiori tecnici e Balistici. ATTIVITÀ’ SCIENTIFICA -Pubblicazione di un testo sulla CHIMICA e FABBRICAZIONE degli ESPLOSIVI, che ha avuto molta diffusione ed apprezzamenti in Italia e all’Estero -Collaborazione a Riviste Tecniche e conferenze, fra le quali anche una al Centro Alti Studi Militari. ATTIVITÀ’ INTERNAZIONALI Presso la NATO: Membro del Gruppo Esperti Balistica Interna Esplosivi e Propellenti dal 1951 al 1968. Membro del Gruppo “ad Hoc” sui propellenti solidi per razzi e missili. Presidente del Gruppo Esperti sulla Missilistica ed Elettronica del Comitato di Collaborazione Tecnica Italo-Inglese. ATTIVITÀ • COLLATERALI -Membro di numerose Commissioni interministeriali tecnicamente qualificate quali: Commissione Consultiva Centrale per il controllo degli Esplosivi ed Infiammabili del Ministero dell’interno. -Commissione permanente per gas compressi liquefatti e disciolti. Attualmente, ottobre 1997, fa ancora parte della sopracitata Commissione del Ministero dell’interno. Roma 16/10/1997

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ROCCO COLATRELLA di Donato Gervasio

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’amore è un sentimento intrinseco della vita. Si ama sempre, si ama anche senza accorgersene. Si ama una donna, un uomo. Si ama la propria ragazza, i propri genitori, gli amici. Si ama non necessariamente dicendosi “ti amo”. Si ama semplicemente sentendo una necessità affettiva, accorgendosi di non poter fare a meno di quel qualcuno o qualcosa. Si ama anche la vita. Eccome che si ama. Proprio quella cosa di cui l’amore è parte integrante. E forse è per questo che vita ed amore muoiono insieme. Come è successo in quella tragica domenica di inizio estate che sarebbe dovuta passare alla cronaca solo per le temperature che i meteorologi annunciavano in continuazione “superiori alla media”. E invece è successo che quel tranquillo pomeriggio afoso e spensierato venisse squassato da una notizia tragica che ha rotto quella calma fin troppo piatta. La notizia di una morte drammatica. Una moto, un rettilineo, un muro, l’alta velocità. Poi il tragico epilogo. Una morte che giunge così, all’improvviso, dal nulla. Questa volta ad esserne vittima è stato Rocco Colatrella, appena 31enne. Un incidente che per dinamica e punto d’impatto non gli ha lasciato scampo. Ed ha così strappato all’amore un’altra esistenza, ed alla vita un altro amore. Per monsignor Vincenzo Malgieri, il nostro parroco, è stato il tempo di celebrare un altro funerale. Un altro addio ad un ragazzo giovane, un ragazzo buono. Funerali, addii, lacrime, sconforto. Una tragica routine a cui stiamo ancor più tragicamente abituandoci. Forse, sì, “la vita è fatta anche di funerali, di addii”, come mi disse saggiamente in quei giorni proprio don Vincenzo Malgieri. Ma è pur sempre una logica dura da digerire, seppure reale. Durante l’omelia del funerale di Rocco, don Vincenzo ha esortato più volte tutti i giovani a prendere come monito la sua tragica fine. Li ha esortati proprio ad amare la vita. Rocco era un ragazzo senz’altro attaccato alla sua vita. Di essa era innamorato, come dei suoi cari. Ed è successo così per tutti quelli che hanno perso la vita in circostanze tragiche. Ed è così che la vita si è vista strappare, ogni volta, dalle braccia l’amore e l’amore ha visto svanire la vita. In un attimo, quello che basta, quel che è necessario per morire. Ma questa pazza logica è diventata davvero insopportabile e fa tanta rabbia . Questo è il momento, per noi uomini, nessuno escluso, di fare davvero una lunga e profonda riflessione. Noi che sappiamo bruciare la nostra esistenza tanto semplicemente, a volte senza nemmeno accorgercene. Noi che ci priviamo della vita, e priviamo del nostro amore la vita premendo semplicemente un pochino in più il piede sull’acceleratore. Che ci priviamo della massima cosa di cui possiamo disporre, e ne priviamo anche i nostri cari. Un atteggiamento piuttosto arrogante, a pensarci bene. Ognuno di noi della vita deve esserne innamorato, perché nascere è già un miracolo. Gente di Caposele ieri

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E non può bastare della superficialità, della disattenzione per permettere che davanti ai nostri occhi cali il buio per sempre, che un miracolo tanto bello ci sfugga così stupidamente dalle mani. Mi viene in mente il titolo di quella bella pubblicazione del compianto ed indimenticabile Vincenzo Malanga: dobbiamo chiuderci nell’amore. E dobbiamo farlo al più presto.

DON PASQUALE ILARIA Un Caposelese da riscoprire di Michele Ceres Uomo estroso e sotto certi aspetti unico per carattere e per spirito di attacamento al paese e alle sue sorgenti. Molti lo ricordano per un motto che soleva pronunciare, gridare e imporlo in ogni occasione:” NON SI VENDE!, NON SI VENDE!”

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o avuto modo, ultimamente, di approfondire alcuni aspetti degli avvenimenti concernenti la giornata del 27 maggio 1939, quando i Caposelesi, guidati da don Pasquale Ilaria, gridarono all’unisono “L’acqua non si vende”; ho avuto modo, altresì, di leggere con attenzione le suppliche rivolte da don Pasquale al Re d’Italia, con le quali chiedeva che fossero tutelati i legittimi ed inalienabili diritti della popolazione caposelese, in merito alla rapina delle acque che in quel lontano 27 maggio 1939 si stava perpetrando a danno permanente dei Caposelesi. Mi sono soffermato, allora, a riflettere sulla persona di don Pasquale Ilaria che di quell’indimenticabile giornata fu l’animatore e dei diritti di Caposele fu l’alfiere, tanto che per essi patì duramente la pena del domicilio coatto alle isole Tremiti. Oggi, le Tremiti sono un ricercato luogo di villeggiatura, ma allora erano soltanto una meta desolata per confinati politici, un carcere a cielo aperto per gli oppositori del fascismo. Caduto il fascismo don Pasquale rientrò a Caposele e ne fu, per qualche tempo, Sindaco su nomina prefettizia. Con alto senso di responsabilità decise di rinviare a guerra terminata la definizione della vertenza con l’Acquedotto Pugliese: maiora premebant. Ben presto fu eretta intorno a Lui una cortina di emarginazione e di avversione. Di don Pasquale ricordo la figura altera e dignitosa che a passo svelto, nonostante l’età, percorreva la salita di Corso Garibaldi e ricordo, anche, che di Lui si diceva che facesse ogni mattina la doccia con l’acqua fredda, per mantenersi in perfetta forma. Don Pasquale amava Caposele, ma dai suoi concittadini non era molto corrisposto in tale sentimento. Forse a tanto i Caposelesi erano spinti, per motivi di 156

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prestigio, anche dal notabilato locale. Egli viveva la sua vita in solitudine, sempre pronto, comunque, a dare, disinteressatamente, consigli e suggerimenti a chiunque. Il rispetto che nutriva per la dignità di ogni persona, gli faceva sostenere che ognuno, al disopra di se stesso, non avrebbe dovuto riconoscere altra autorità che quella della “Maestà della Legge”. Era un comunista, ma un comunista strano per il contesto locale, perché soleva definirsi “Comunista integrale cristiano”, suscitando in qualche sprovveduto un sorriso di sufficienza. Eppure, c’era poco da ironizzare sulla sua posizione politica, perché, probabilmente, se don Pasquale fosse vissuto in un ambiente caratterizzato da vivaci dibattiti culturali e politici, sarebbe stato un “cattocomunista”; avrebbe fatto parte, cioè, di quella schiera di cattolici che politicamente si riconoscevano nel partito comunista e al cui pensiero ricorse Enrico Berlinguer per l’elaborazione teorica del “compromesso storico”. Don Pasquale sembrava uno stravagante e la gente, forse anche per le sue apparenti stravaganze, non lo stimava nel modo dovuto. Ma, Egli stravagante non era; era un uomo che aveva solo improntato il suo stile di vita al rispetto delle regole in un mondo di furbetti sempre pronti ad eluderle. Don Pasquale, ormai vecchio, si trasferì in una casa di riposo a Roma ed a Roma morì in solitudine il 7 ottobre 1983. Ricordo che quando un Caposelese, residente nella capitale, telefonò al Comune per annunciare che l’indomani la salma di don Pasquale sarebbe giunta al cimitero di Caposele per esservi tumulata, un funzionario del Comune ebbe a lamentarsi dicendo che “Ha dato fastidio da vivo e continua a darlo da morto”. La giunta Comunale del tempo dispose, viceversa, che la salma di don Pasquale fosse ufficialmente ricevuta con gli onori dovuti ad un ex sindaco e, ancor di più, ad una persona che, in vita, aveva patito l’amore per la sua Terra. Eppure, ciò nonostante, non vi fu molta gente al cimitero. Ancora una volta i Caposelesi dimostrarono d’essere ingrati verso chi per loro tanto aveva sofferto. Molto tempo ormai è trascorso e, come comunemente usa dirsi, molta acqua è passata sotto i ponti. La realtà caposelese di oggi è molto diversa da quella dei tempi di don Pasquale Ilaria. È tempo, allora, che si faccia giustizia del pregiudizio diffuso tra i Caposelesi che ha accompagnato don Pasquale in vita e in morte. Lo richiedono la Verità e la giustizia. Nella prossima primavera Caposele sarà interessata dalle elezioni amministrative. giustizia e Verità esigono che chiunque vinca le elezioni si faccia promotore di un’iniziativa finalizzata al recupero storico dell’operato di don Pasquale e ad attribuirgli i meriti che fin qui, in vita e in morte, gli sono stati negati. Ma, perché aspettare la prossima primavera? Perché tale iniziativa non l’assume, adesso, la Pro Loco?

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Gente di Caposele Non si vende, non si vende

di Alfonso Merola

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on s’erano mai viste dispiegate tante forze dell’ordine a Caposele, nemmeno nel giorno in cui il Principe ereditario s’era recato a visitare il Santuario di Materdomini. Il paese era sott’assedio; non era difficile bloccare gli accessi al borgo costruito nel budello di una valle stretta tra il fiume e il monte. Erano state sbarrate con veri e propri posti di blocco anche tutte le stradine rurali che, a ragnatela, stringevano il centro fino a qualche giorno prima sonnacchioso ed indifferente. Quel che più si temeva era un’improbabile calata di contadini dalle campagne circostanti e dai paesi viciniori. Sfuggiva alle autorità il fatto che il problema dell’acqua era avvertito dai soli abitanti del capoluogo, ove essa sgorgava un tempo copiosa. Certo la notizia s’era sparsa un po’ dovunque e tutti, nei dintorni, erano incuriositi dall’epilogo di una vicenda che diventava di giorno in giorno più preoccupante e che avrebbe potuto avere anche sbocchi drammatici. S’era in pieno periodo fascista e in quel lembo d’Irpinia, come d’altro canto in quasi tutta l’Italia meridionale, il regime era percepito come governo amico e prodigo verso regioni che avevano atteso invano da troppo tempo il loro riscatto e la loro rinascita. Nessuno avrebbe mai osato immaginare che il Duce e il suo apparato avrebbero usato la mano forte verso un paese generoso che aveva già rinunciato a gran parte del suo futuro e che, in fondo, difendeva il suo diritto alla sopravvivenza. Certo, anche lì giungeva l’eco di episodi di violenza scatenati nel Nord Italia, ma, per atto di fede, ogni azione di repressione era giustificata come risposta inevitabile contro comunisti e socialisti sabotatori di una nuova Era che s’apprestava a costruire un futuro radioso per tutti gli italiani. La stessa avventura bellica, in cui si stava cacciando l’Italia, nonostante non fosse stato dimenticato il tributo di sangue pagato alla IV guerra d’Indipendenza, era vissuta enfaticamente come coraggiosa ed orgogliosa ribellione di una Nazione che chiedeva un giusto riconoscimento nel panorama politico internazionale. E allora la fiducia nell’imparzialità fascista, piuttosto che spegnere gli ardori, finiva per dare esca alla protesta. Non appena, un giorno d’aprile, era circolata la notizia che l’Acquedotto Pugliese s’apprestava a captare le ultime acque del Sele già destinate agli usi civici, il paese sembrò ribollire e ritrovare un’unità d’intenti e di vedute sconosciuta in passato. A nulla erano valse le rassicurazioni del Podestà e del segretario del Fascio e il loro invito alla calma. Tutti, o quasi, ritenevano che l’ulteriore captazione fosse stato l’atto finale di resa ai Pugliesi. L’atteggiamento di cautela delle autorità locali era bollato come ambiguo e fuorviante, stanti le circostanze che le trattative andavano avanti in gran segreto da qualche mese e che nessuno aveva avuto il coraggio di renderle pubbliche in tutti i dettagli. Invero, almeno il Podestà, persona affabile e cortese,

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celava i propositi del Regime per sola prudenza, attento e preoccupato a non provocare incidenti irreparabili, facilmente strumentalizzabili dai grossi calibri che ormai erano scesi in campo. Qualche settimana prima s’era visto convocare a Roma da Storace, lui, un Podestà di uno sconosciuto Comunello Irpino. Storace era stato categorico: Caposele avrebbe dovuto cedere le acque residuali alla Puglia senza battere ciglio e tutti i passaggi burocratici erano delegati al Prefetto di Avellino. A nulla erano valsi i dubbi e le rispettose osservazioni esternate dal Podestà, al quale si ricordava che gli interessi della comunità locale erano cura esclusiva dello Stato Fascista e non di altri, tenuti semplicemente ad obbedire. I primi contatti con la Prefettura, seguiti all’incontro romano, non avevano smosso le posizioni divaricate, fino al punto che il Podestà era addirittura apostrofato come un silenzioso sabotatore di un accordo che stava molto a cuore a Roma. II fatto, poi, che si parlasse di lauti indennizzi per quell’ulteriore prelievo, non faceva altro che confermare i timori dei più pessimisti, memori di altre vicende poco chiare in cui i comportamenti di passate amministrazioni non avevano certo brillato per trasparenza. “La storia si ripete” andava dicendo in giro Don Pasquale Ilaria, “e gli attori sono sempre gli stessi. Spero che questa volta almeno i Caposelesi abbiano sangue nelle vene e non acqua. Se è necessario, come credo sia necessario, questa volta tutta Caposele deve scendere in piazza ed insorgere, bloccando questa operazione vergognosa con la quale si decreta la morte di Caposele”. Il monito del giovane ufficiale dell’Esercito Italiano, però, non raccoglieva grandi consensi. Per il fatto che fosse l’unico antifascista dichiarato e che le sue idee erano vagamente comuniste, Don Pasquale veniva accusato d’essere un pericoloso agitatore visionario. E, come tutte le Cassandre, finiva per non essere creduto. Era facile, infatti, per il solito stuolo di benpensanti, creargli tutt’intorno il vuoto. E collaborava ad isolarlo la locale stazione dei Carabinieri che puntualmente lo convocava in Caserma per trattenerlo qualche ora e poi rimandarlo a casa, ogni qualvolta che si riscaldava in strada. Ma Don Pasquale non si scoraggiava più di tanto: non appena metteva piede fuori dalla Caserma, riprendeva la sua predicazione apostolare soprattutto coi tanti giovani che sembravano interessati a capire cosa stesse succedendo. “Io parlo soprattutto per voi, era solito dire, perché i vostri padri e i vostri nonni non v’hanno raccontato o non hanno voluto raccontarvi cos’era questo paese. E non l’hanno fatto perché oggi si sentono responsabili per il coraggio che non hanno avuto ieri, perché sanno e non osano confessarvi che furono strumentalizzati… Caposele era un paese di favola e unico in Italia Meridionale, aveva una ricchezza incommensurabile. Non esiste paese al mondo, infatti, un solo paese che navighi sull’acqua e che non sia al tempo stesso ricco ed industrioso, Voi l’avete studiato a scuola; la civiltà ha camminato sull’acqua e sull’acqua ha camminato anche il progresso. Per il controllo di queste sorgenti ci sono state guerre nell’anGente di Caposele ieri

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tichità, ma in un modo o nell’altro le popolazioni sono sopravvissute. Anche quella parte del Nord Italia ricchissima deve le sue fortune alle acque… Qui, invece, la storia si è fermata. Vi dicevo Caposele era un paese di favola: industrie, molini, gualchiere, tintorie, opifici… tutta un’economia costruita sull’acqua e grazie all’acqua. Qui affluivano da tanti paesi dell’Irpinia, del Salernitano, del Potentino, aree in cui la natura era stata un pò matrigna. Pensate ancora alla pesca e a tutta una serie di attività mercantili nate per soddisfare il bisogno dei forestieri che venivano qua per molire le olive, per macinare il grano, per battere i tessuti, per tingerli. Era un paese industrioso che piano piano avrebbe costruito la sua fortuna su un bene che gli apparteneva per legge, essendo assegnato dalla legge alle disponibilità di un Comune. Ma quando si hanno amministratori poco accorti e poco lungimiranti, può accadere che anche un bene si trasformi in un male. E noi avemmo, alla fine dello scorso secolo, amministratori sciagurati che, abbacinati dal soldo dell’oggi, si vendettero la ricchezza del domani. Pensavano, all’epoca, di aver fatto un affare vendendo le Sorgenti della Sanità al primo avventuriero che si presentò, e oggi ci ritroviamo con un rigagnolo che del fiume ha solo il ricordo nelle carte geografiche. Divennero tutti buoni, in quei giorni, tutti più cristiani: dar da bere agli assetati, dare l’acqua alla sitibonda Puglia! Facevano a gara, ma nessuno si chiedeva perché altri paesi più accorti sbattevano la porta in faccia a quei mercanti. Vendettero Caposele per 30 denari e non ci fu verso di farli ragionare; isolarono i più avveduti, promettevano la luna nel pozzo, fecero addirittura festa il giorno in cui fu firmato l’atto di vendita delle acque. A chi contestava quella scelta sciagurata, ricordavano che il Comune s’era riservato i diritti sulle acque residue necessarie alla cittadinanza e che far scorrere tanta acqua gratuitamente non aveva senso. E quest’ubriacatura non passò subito; durò fino almeno a quando non terminarono il lavori della galleria di valico. Furono anni di piena occupazione: servivano muratori, operai, manovali, donne e bambini che trasportavano pietre e mattoni. Sembrò una stagione indimenticabile, salvo che, finiti i lavori, Caposele piombò in una crisi pesantissima dalla quale non è uscita più. Si presero tutte, o quasi, le acque e ci lasciarono solo le frane che oggi divorano il paese e tutte le campagne circostanti. Quella è una pagina vergognosa ed oscura della storia di Caposele, mai chiarita del tutto in cui se hanno guadagnato i Pugliesi e qualche nostro innominato da un lato, sicuramente chi ci ha rimesso è Caposele… Ora quella storia si potrebbe ripetere… Attenti, Caposelesi, questa volta ci giochiamo il poco che ci resta…” Non aveva bisogno d’andare oltre, Don Pasquale, e gli animi si infiammavano al punto da dimenticare d’essere in un periodo in cui certe escandescenze non erano tollerate. Un risultato s’era raggiunto in quei giorni e non per merito di Don Pasquale: le autorità locali, sebbene con gran fatica e a malincuore, davanti al diktat di federali e prefetti si erano impaludate nell’indecisione, sbrindellate a destra e a manca da

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una cerchia ristretta di borghesucci interessati in vario modo alla vicenda, certamente non per spirito di equanimità e di giustizia sociale. Questo sodalizio, ufficialmente prono all’apoteosi del Fascismo e ai suoi desiderata, non usciva mai allo scoperto, ma attraverso canali sotterranei era impegnato a lavorare su un duplice fronte: bloccare ogni decisione amministrativa in sede locale e nel contempo alimentare nella discrezione e nell’anonimato il malcontento popolare, almeno fino a quando la trattativa in corso non avesse avuto uno sbocco ad esso favorevole. Questi abili burattinai che si fregiavano di una dubbia nobiltà per dei non ben precisati meriti, questa volta rischiavano d’essere intaccati pesantemente nei loro interessi. Non di meno, per aver sperimentato in passato la convenienza di cambiare casacca e bandiera, non osavano esporsi. Erano mimetizzati tra proprietari di molini, oleifici, e per 10 più tra i titolari di una serie di attività mercantili il cui fulcro era l’acqua la cui sottrazione avrebbe determinato l’affossamento dei loro negozi e dei loro profitti. Per dirla in breve: sarebbe stata una vera sciagura chiudere bottega e ritornare alla sola speculazione agraria. Davano, allora, in pasto alla gente comune la loro rassegnazione di dover tutto d’un colpo soccombere a ragioni superiori il cui costo sarebbe consistito nel chiudere i battenti di mulini, gualchiere, tintorie e “trappeti” con grave danno per i poveri Caposelesi che sarebbero dovuti emigrare altrove per attendere alle loro necessità. Ma questo atteggiamento di rinuncia finiva per essere percepito dai malpensanti come un ennesimo affare sottobanco di questi signorotti e da molti ingenui contadini come la riprova che solo una forte agitazione di piazza avrebbe scongiurato una iattura per la maggior parte della popolazione.Il loro fatalismo era, quindi, una ragione in più per ascoltare i moniti del visionario Don Pasquale e di ciò s’era convinto anche quel piccolo stuolo di frequentatori di casa Sturchio, del salotto bene, che tutti i pomeriggi si riuniva da Don Camillo e Donn’Ersilia. Era gente perbene questo drappello di galantuomini e gentildonne che amava serrarsi nel salotto che s’affacciava sulla piazzetta principale del borgo e che da quella torre d’avvistamento scrutava lo scorrere lento e quasi impercettibile della vita caposelese con civetteria, talvolta, ma anche con tanta bonomia. Esso era, forse, l’ultimo fortino romantico-risorgimentale di una piccola borghesia che registrava stagioni e fortune politiche, rifiutando, però, di contaminarsi. Erano imbevuti di un cattolicesimo neutralista, ligio ad un ossequio clericale che li voleva lontani dal frastuono della politica e dell’affarismo post-unitario, tutti tesi a difendere un’idea di popolo militante e praticante assediato da un modernismo pericoloso. Essi esercitavano per lo più la loro egemonia sociale nelle scuole comunali e sentivano l’insegnamento come missione, come avanguardia delle coscienze contro pericoli passati e futuri che avrebbero potuto minacciare la comunità locale. Lì, più che altrove, era confermata l’ipotesi che il prelievo provvisorio delle acque residuali altro non era che una manovra dell’Acquedotto Pugliese e dei Gente di Caposele ieri

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potenti parlamentari ed agrari di quella regione per depredare definitivamente Caposele. Quel pericolo incombente riapriva in loro vecchie ferite e dischiudeva antiche certezze: i Pugliesi, con le solite complicità locali, stavano per regolare definitivamente i conti con Caposele. Nel chiuso di quel salotto e al riparo da orecchie indiscrete si riesaminava, tassello dopo tassello, il mosaico bizantino di una vicenda durata almeno sessant’anni. Ercole Antico, Zampari, il Consorzio delle Province Pugliesi, la sarabanda di imprese settentrionali e il loro intreccio con parlamentari irpini e pugliesi, i foraggiamenti locali per comprare il silenzio e le complicità. Qualcuno si spingeva a far notare come le fortune di talune famiglie fossero improvvisamente mutate in meglio dopo la firma del famigerato contratto… Altri facevano, poi, notare come certi personaggi si ergessero pregiudizialmente a difensori unilaterali della regione pugliese, accreditando addirittura la legittimazione e la convinzione, di fatto, che Caposele fosse una sorta di “enclave” della Capitanata. Su tutti dominava forte il pensiero di Don Camillo al quale, da fine lettore dei fatti, erano lasciate le conclusioni. “Don Pasquale sarà un visionario, un anarchico o un comunistoide, ma questa volta delle verità le dice ed è stupido contrastarlo nella sua generosa foga oratoria, perché quella che i più chiamano pazzia, oggi è utile. Egli oggi è l’unico che, pur sapendo a cosa si espone, dice cose che molti di noi pensano ma non hanno il coraggio di dire in pubblico. E allora, io credo che non dobbiamo contraddirlo con quanti ci chiedono una nostra opinione in merito. Vedete, sarà molto diffcile che Caposele la spunterà questa volta. Noi possiamo avere dalla nostra parte leggi e ragione, ma, almeno qui possiamo dircelo, il Fascismo non sa che farsene di leggi e ragioni. Ognuno resti della sua convinzione sul Duce e sulla sua storica missione, ma questo regime non scherza, non ammette discussioni, esso chiede solo d’essere ascoltato ed ubbidito, tutto il resto non conta. L’atto di forza popolare è l’unica via d’uscita, non ci sono alternative. Noi dobbiamo sapere che dopo di esso, vada bene o vada male, il peggio non è finito…Se i Caposelesi subiranno questa prepotenza senza battere ciglio, non meravigliamoci, poi, se i Pugliesi oseranno oltre. E tutti noi sappiamo che cosa hanno in testa quelli lì… Un paese che naviga sulle acque è un intoppo alla captazione di tutte le sorgenti che sgorgano a Caposele. Vi ricordate di discorsi più o meno bisbigliati circa il trasferimento totale del centro abitato, a causa di frane che, a loro dire, non sono risanabili e di come l’Acquedotto si sia offerto in passato di ricostruire una nuova Caposele verso Palmenta… Vi ricorderete, pure, come con la complicità del Genio Civile e della Prefettura essi scoraggino ogni nuova edificazione e perfino la riparazione di case malandate… E poi la suffcienza e il disprezzo, il fastidio con cui essi guardano al nostro paese… un paese che ha rinunciato al meglio che aveva, a loro favore; trattato, se non proprio come un nemico, come un fastidioso ospite in casa propria.

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Noi dobbiamo assecondare il malcontento che serpeggia oggi e che ha antiche radici e ciascuno, per quello che può, deve alimentare la protesta che cova sotto la cenere. Ora, o mai più, Caposele potrà rialzare la testa…” Donn’Ersilia annuiva e confermava la sua identità di veduta col marito. Quella donna mite e timorata di Dio, dalla voce dolce ma ferma e persuasiva… aveva già da qualche tempo interpretato il pensiero dominante e non lasciava cadere occasione nel parlare a tante altre donne del pericolo incombente. Le sue parole, alle ricorrenti motivazioni, aggiungevano anche la ferma convinzione di non lasciare soli gli uomini in quella difficile battaglia, consapevole del fatto che solo le donne, con la loro irruenza, avrebbero potuto evitare di esporre i mariti e i figli in una vicenda rischiosa. Ella era solita ricordare che le rivolte e le proteste condotte dai soli uomini in passato avevano sempre avuto esiti disastrosi: la legge sapeva essere dura e poco conciliante con gli uomini e sbandava quando a scendere in campo erano le donne. Coltivava in sé, inoltre, la speranza che la proverbiale combattività delle donne di Caposele, già messa alla prova in più di un’occasione, anche questa volta sarebbe stata utile e decisiva. E, così, auspicava che fossero le donne innanzitutto a scendere in prima linea e in forma massiccia infischiandosene delle intimidazioni delle forze dell’ordine, del fatalismo di certi benpensanti e delle tiepidezze del clero locale. Quel giorno d’aprile era atteso l’arrivo del prefetto Tamburrini. Quella venuta era vissuta e sentita come la presa di posizione finale dello Stato, che di fronte al tentennamento delle autorità locali, assumeva ufficialmente la decisione di sostenere le ragioni dell’Acquedotto Pugliese. Un vero e proprio atto di pressione avrebbe dovuto piegare le ultime resistenze. Piazza Plebiscito, già dalle prime ore del mattino, andava affollandosi. Ai primi capannelli di anziani che si assiepavano lungo le mura della Chiesa Madre, man mano si univano tanti giovani. Apparentemente dominava la calma e le discussioni di tanto in tanto erano smorzate dall’intervento dei carabinieri della locale stazione, capeggiati dal brigadiere Pappacena. Nel frattempo si riversavano in piazza e nei vicoli circostanti altri carabinieri spediti dalle stazioni viciniori e tra loro spiccava la presenza di agenti in borghese. Verso le 9.30 scesero in piazza Don Camillo, Donn’Ersilia, Antonio Farina, Rocco Iannuzzi e dopo di loro alcuni contadini combattivi… Come se si fossero dati appuntamento, ecco verso le 10.00, schiere di donne giungere da ogni dove; venivano da Capodifiume, dal Castello, dai Casali, dalla Portella. Sembravano assediare una piazza già carica di nervosismo e di tensione, il loro vociare insistente ormai surclassava tutti gli altri convenuti. La piazza, verso le 11.00, era ormai stipata e surriscaldata all’inverosimile: bastava l’arrivo di qualche sconosciuto dal fare sospetto che si levavano, ad ondate, mugugni e grida. Fino a quell’ora Don Pasquale non s’era visto in piazza; furono alcune donne Gente di Caposele ieri

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combattive ad accorgersi della sua assenza e si precipitarono per invitarlo a salire in piazza con loro. Egli, dopo qualche attimo di esitazione, le seguì, noncurante del divieto notificatogli dai Carabinieri di non farsi vedere in giro quella mattina. Non appena su via Zampari apparve la sagoma nera di una “Balilla” scortata da camionette dei carabinieri, la piazza sembrò infiammarsi ed esplodere. Le forze dell’ordine presenti cominciarono a constatare la loro impotenza e a convincersi della sottovalutazione di una sommossa che si sarebbe potuta sollevare ad ogni minimo atto di provocazione. Si trattava, allora, di scegliere tra la vigilanza attiva in mezzo alla gente per scoraggiare intemperanze e tra la tutela delle autorità provinciali ormai giunte al Piano. Si scelse, allora, di aprire un varco tra la folla mediante un servizio d’ordine a catena per garantire al prefetto un sicuro accesso verso via Caprio. Non si poteva sperare, d’altra parte, in un intervento collaborativo degli squadroni dei giovani fascisti Caposelesi, schierati lungo via Zampari in atteggiamento più caricaturale che intimidatorio.

AMATO MATTIA da Direttore generale de l’Unita’ a editore Amato Mattia, caposelese purosangue, Direttore Generale de L’UNITA’, il manager che ha risanato il giornale del PDS partendo da un deficit di 40 miliardi, compra una testata gloriosa “TUTTOSPORT” e fonda la casa editrice “ROSABELLA”.Gli articoli riportati in questo servizio sono stati tratti dalle riviste “PRIMA COMUNICAZIONE” e “IL VENERDÌ di REPUBBLICA”. Siamo lieti ed orgogliosi di ospitare nelle pagine del nostro giornale questo illustre caposelese che con i suoi successi onora il Paese di origine.

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profondato nel grande divano damascato che occupa quasi tutta una parete della sua nuova editrice Rosabella, Amato Mattia sembra molto compiaciuto del camino, delle grandi finestre e del suo ufficio che dà sull‘alberato viale Giulio Cesare, a Roma. Sul grande terrazzo che prende tutta l’area della palazzina dove hanno sede gli uffici di Rosabella, lunedì 20 maggio, industriali ed editori della carta stampata e politici del Pds hanno salutato Amato Mattia che lascia l’incarico di amministratore delegato dell’ Unità (ma resta nel consiglio di amministrazione) e muove i primi passi come editore indipendente. In un clima di doppio festeggiamento (quello per Mattia e quello per l’arrivo al governo del Pds) amici di affari e amici di ideolo164

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gia hanno augurato ad Amato Mattia lunga vita felice tra giornali e cassette, rese e fatture, abbonamenti che non funzionano e pubblicità che scalchigna, giornalisti inamovibili. Il meglio insomma del mondo editoriale moderno. Alla festa c’erano Lorenzo Niccolini, amministratore delegato della Marco e socio di minoranza diTuttosport; Riccardo Beretta con il figlio Roberto (stampatore dell’ Unità a Bologna); Marco Benedetto, amministratore delegato dell’Editoriale L’Espresso; Alfredo Roma, amministratore dell’Ansa. Naturalmente c’erano anche i due direttori dei giornali che, ciascuno a suo modo, devono a Mattia la poltrona: Giuseppe Caldarola dell’ Unità e Gianni Mina diTuttosport, accompagnato da una giovane e robusta signora che con un certo brivido veniva indicata come “la figlia del Che” (cioè di Che Guevara, il mitico guerrigliero cubano). A testimoniare amicizia e riconoscenza a Mattia (che dall’87 si è dedicato anima e corpo all’Unità: nel ‘94 ha continuato a lavorare mentre si curava per un tumore a una gamba) alla festa di Rosabella erano presenti molti importanti dirigenti del Pds tutti di ottimo umore. C’era il segretario Massimo D’Alema con Linda, la giovane moglie, Fabio Mussi, Piero Fassino, Giorgio Macciotta, Vincenzo Vita. C’erano Cito Maselli e Ettore Scola, in rappresentanza del mondo del cinema; Miriam Mafai, che dopo una breve esperienza da parlamentare è tornata al giornalismo e ai libri (è appena uscito da Mondadori il suo “Botteghe oscure addio”) e i cugini Simona e Alfio Marchini. Assente giustificato Walter Veltroni, impegnato come vice presidente del Consiglio nella riunione per le nomine dei sottosegretari. Mattia debutta come editore a fine dicembre ‘95 acquistando la maggioranza - il 79% poi sceso al 57,5% - di Tuttosport, per poi mettere in piedi nell’aprile ‘96 Rosabella, che decolla con il contratto di gestione delle testate della Juventus, si garantisce i diritti per l’italia delle guide di Time out e tratta l’acquisto di Italia Radio. Per un comunista ingraiano che sembrava votato alla politica un bel cambiamento esistenziale: “Qualsiasi scelta Amato faccia, la fa in maniera totale e appassionata”, racconta il fratello Rocco che lo ha aiutato a ristrutturare i nuovi uffici (dotati anche di cucina, viste le ore che Mattia passerà lì dentro). Nella carta stampata Mattia ha cominciato a lavorare per caso (lui dice “per fame”) quando è stato assunto all’Unità come capo del personale nell’87, dopo essere stato uno scatenato attivista di base, responsabile per dieci anni della segreteria del sindaco di Roma, funzionario della federazione del Pei ad Avellino. Nato nel 1951 a Caposele nell’Altalrpinia, dove il padre gestiva il mulino e il frantoio (ancora di proprietà della famiglia), Mattia nasce e cresce comunista, ma per fare il liceo classico è costretto ad andare in seminario, come spesso succedeva ai ragazzi di quei paesi isolati: “Il ginnasio più vicino era a due ore di corriera”, ricorda. “Così sono andato al piccolo seminario di Sant’ Andrea di Conza. Ed è stata una vera fortuna perchè quegli anni mi hanno insegnato cosa significa vivere e lavorare in comunità”. Gente di Caposele ieri

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I due anni e mezzo passati nel piccolo seminario di tono francescano sono nel ricordo di Mattia eccezionali: l’intensa vita collettiva della minuscola comunità riempie a tal punto la fame sociale del giovane che arriverà a confonderla con la motivazione religiosa fino a sfiorare l’idea di prendere i voti. Ma basta il trasferimento al più importante istituto di Sant’Angelo dei Lombardi, dove le regole sono schematiche e rigide e le gerarchie clericali, perchè la vocazione iniziale del giovane seminarista evapori di colpo. Grazie all’interessamento del vescovo locale (che gli invia persino 50mila lire in regalo, accompagnate dal biglietto ‘Semper melius abundare quam deficere’), Mattia viene spedito a Bologna, presso la comunità Onarmo (Opera nazionale di assistenza religiosa e morale operai), organizzazione antesignana di preti operai: “I preti sono sempre stati molto tolleranti nei miei confronti”, ricorda Mattia, che a Bologna frequentò il liceo e si butta nell’attività politica e sociale. Ed è proprio a Bologna che fa la sua prima esperienza in campo editoriale come venditore esclusivo per un vecchio professore che edita un libro (con la copertina fatta di specchio) di massime filosofiche per imparare a vivere meglio. Stessa vita all’insegna della precarietà (dormire e mangiare dove capita, pochi soldi in tasca) anche a Roma dove Mattia si iscrive a giurisprudenza e continua a fare attività politica nel Pei. Insofferente, resiste pochi giorni alla mitica scuola di partito che forma la classe dirigente comunista. “Era di una noia infernale: la battuta che girava era che ci preparavano non per la dittatura, ma per la dettatura al proletariato”. L’intollerante Amato preferi-sce lavorare alla federazione romana del Pei e fare attività politica tra gli studenti dove diventa vice presidente dell’Opera universitaria. Nel 1975, quando i comunisti vincono le elezioni amministrative a Roma, Luigi Petroselli, allora segretario regionale del Pei, segnala Mattia per il posto di capo della segreteria del futuro sindaco, lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan. Mattia riceve la proposta dell’ incarico mentre è a Lecce ospite dei suoi amici Gianni e Cesare Saivi. Parte in fretta e furia e quando arriva a Roma si rende conto di non avere le chiavi di casa e di non potersi cambiare d’abito per l’incontro con Argan. Si presenta, dunque, in Campidoglio in jeans e maglietta. Il sindaco non fa una piega, mentre allibiscono i compagni comunisti della giunta. Argan stabilisce un rapporto molto stretto con l’intemperante Mattia che diventa il suo consigliere politico. Mattia decifra per Argan metodi e trucchi della politica; Argan insegna a Mattia regole e modi della buona educazione oltre al cerimoniale del Campidoglio, dove in quegli anni passano personaggi importanti della politica e della cultura internazionali. In Campidoglio Mattia lavora dieci anni: dopo Argan collabora con Petroselli e poi con Ugo Vetere (con cui non ci sarà mai feeling). Prima delle amministrative dell’ 85 decide di cambiare vita e di tornare al partito e alla sua gente. Nell’86, in occasione del 17° congresso del Pei, Mattia, ingraiano, si dà da fare per i suoi compagni in Irpinia.

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Ci riesce, ma non gli porterà buono: alla federazione di Avellino questo giovanotto poco più che trentenne, di grande attivismo e un po’ insofferente suscita sospetti e malumori. Mattia - che soffre ancora oggi quella esperienza - abbandona e nell’87 torna a Roma senza un lavoro, senza soldi. L’amico Ingrao gli affida un lavoretto al Crs, il Centro riforma dello Stato, dove un giorno Mattia incontrando Piero Sansonetti, giornalista dell’Unità, viene a sapere che al quotidiano cercano un segretario di redazione. Si candida, ma per quel posto è necessaria la qualifica di giornalista professionista. Emanuele Macaluso, direttore del giornale, insiste con l’editore, Armando Sarti, per trovare un ruolo a Mattia. Sarti gli offre quello di vice capo del personale, Mattia chiede la piena responsabilità. E la spunta. Nel 1987 incomincia, così, la sua carriera nel mondo dei giornali con la spinosa trattativa per la chiusura della tipografia del quotidiano comunista già allora sfiancato dai debiti. In un mese e mezzo arriva all’accordo. Da capo del personale diventa responsabile dell’organizzazione, poi direttore generale e consigliere di amministrazione e nel ‘93 amministratore delegato. Alla direzione, dopo Macaluso si succedono Massimo D’Alema, Renzo Foa e Walter Veltroni. Il giornale cerca di distinguersi sempre più dal foglio di partito, lancia alcune brillanti iniziative promozionali come le figurine dei calciatori e soprattutto i film in videocassetta. Intanto vanno avanti il taglio dei costi e la riduzione dei debiti. Nel ‘94 Mattia porta a segno il trasferimento della gestione della testata a una nuova società, l’Arca, lasciando i debiti pregressi, circa 40 miliardi, all’ Unità spa. La gestione dei rapporti con le banche creditrici, tra cui c’è la Banca di Roma, fanno di Mattia un esperto del sistema creditizio.

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o appreso con grande dolore della scomparsa di Amato Mattia. Ricordo che solo poco tempo fa venne a trovarmi nel mio ufficio. Ormai erano visibili i segni della sua lotta contro il male. Eppure Amato non smetteva di sorridere, di scherzare, trasmettendo una carica vitale impensabile per un uomo nelle sue condizioni. In questa sua capacità c’era un tratto distintivo della sua personalità, la sua grande forza. Non ha mai smesso di combattere contro la malattia, cercando di far pesare il meno possibile, a se stesso e agli altri, la sua drammatica condizione. Amato Mattia ha fatto molte cose nella sua vita, tutte animate dalla tenacia e dalla passione politica, sempre ispirato da un ‘interpretazione moderna Gente di Caposele ieri

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del ruolo della sinistra nel nostro Paese. E’ stato dirigente di partito, collaboratore prezioso di Argan e Petroselli a Roma, dirigente de “l’Unità” impegnato nel risanamento e il rilancio del giornale. E’ stato imprenditore privato, abile e fantasioso, che ha costruito importanti iniziative editoriali. Tutto questo lo ha fatto convivendo a lungo con la malattia, affrontandola con la stessa intelligenza, la stessa tenacia e la stessa serenità con la quale ha affrontato tutte le sfide della sua vita, compresa l’ultima, la più terribile. Questo suo modo di essere trasmetteva fiducia a chi lo circondava, agli amici, ai familiari, ai suoi colaboratori. Ora lo abbiamo perso. Ci mancherà molto, a tutti noi che lo abbiamo conosciuto, al suo partito che gli ha voluto bene, ai suoi cari e anche a me che ho avuto la fortuna, poco tempo fa, di vederlo sorridere un‘ultima volta. Amato Mattia di Antonio Sena

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mato Mattia diceva sempre, citando B. Brecht, che la differenza tra le classi subalterne e quelle dominanti consiste sostanzialmente nella conoscenza e nell’uso appropriato delle parole: un contadino, un operaio, un artigiano può, al massimo, arrivare a conoscere nel corso della sua esistenza un centinaio di parole legate, per lo più, al proprio specifico contesto ambientale e lavorativo; viceversa, un capitalista e tutti coloro che esercitano il potere sicuramente ne arrivano a conoscere più di mille. Amato Mattia, giovane virgulto e organizzatore della prima F.G.C.I. di Capasele, ragionava spesso intorno a questo argomento e, citando A. Gramsci, aggiungeva che uno dei compiti più specifici ed ardui degli intellettuali meridionali fosse quello di imparare quante più parole possibili e, tramite loro, saper stabilire un rapporto di comunicazione con le classi subalterne, riuscire ad interpetrarne i bisogni, inseriti in una strategia di emancipazione e costruire insieme una linea coerente di condotta politica. Nel corso dei nostri incontri giovanili, quando anche a Caposele si parlava serratamente di tutte queste cose, quando si riconosceva palesemente il primato della “politica”, quando si avvertiva in ogni dove che stesse per succedere “qualcosa”, quando si discuteva appassionatamente sul “che fare”, Amato Mattia era solito fare ardere una candela a simboleggiare la luce delle idee che dovevano rischiarare i discorsi, le parole e le azioni, che, in quel particolare periodo, tutti amavano profondere in grande libertà. Questo rito propiziatorio, importato chissà da dove, era oggetto di bonaria, ma feroce, celia per l’inconsueto, in quei tempi, accostamento del leninismo ad una sorta di tardoplatonismo. E’ nel carattere dei Caposelesi la connaturata predisposizione alla battuta allusiva, eufemistica, sdrammatizzante. Amato Mattia non si scomponeva più di tanto, accettava di buon grado e lui per

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primo era pronto a riderci sopra. Amato Mattia era convinto che alla chiarezza ed alla bontà delle idee doveva seguire un’altrettanta chiarezza e bontà delle parole, tanto che, per esorcizzare i vari settarismi alla moda, non disdegnava di esporre le proprie tesi nel campo degli avversari politici; sosteneva infatti con sicurezza che alla fine di un qualsiasi incontro, dibattito o assemblea gli sarebbe stato sufficiente, come risultato minimo, riuscire a strappare il consenso di un solo ascoltatore e a farne restare nel dubbio un altro paio; e questo, a suo parere, lo si poteva ottenere solo con un’esposizione chiara e rigorosa delle proprie tesi, mettendo le parole giuste al posto giusto. Amato Mattia, già in quegli anni, si era allontanato da Caposele, ma interveniva comunque con assiduità ed impegno nelle vicende della locale Sezione del Partito Comunista ; nelle assemblee organizzate, come pure in qualsiasi riunione improvvisata, dimostrava che ormai di parole ne conosceva già più di mille ; ma il fatto importante è che dietro le parole c’era un discorso strutturato, mediante il quale veniva comunicato agli astanti una lucida organizzazione strategica che legava continuamente i problemi locali all’evoluzione della politica nazionale. Affabulazione e vis oratoria: il passo per salire su di un palco fu breve. Alla fine degli anni settanta un comizio di Amato Mattia a Caposele era già un evento : “Muserà parla Matucciu”. Durante le campagne elettorali, sia in quelle perse che in quelle vinte, infondeva nei compagni baldanza e sicurezza. Le parole che riusciva a mettere una dietro l’altra erano più di diecimila. Negli anni seguenti, quando svolgeva un ruolo importante e di prestigio all’interno della vita politica capitolina Amato Mattia aveva bisogno continuamente di incrementare, nel senso brechtiano, il suo patrimonio linguìstico per far fronte ad un sistema di relazioni e di poteri sempre più complesso. Nel suo prorompente attivismo ed efficientismo trovava il modo di dare un valido contributo anche alle vicende, che in quegli anni segnarono la storia postsisma del suo paese natio, senza, peraltro, cadere nel “clichè” dell’interessato dispensatore di posti e di favori. Nella sua, seppur discontinua, presenza politica caposelese. Amato Mattia ha mostrato talento di attivista e di dirigente, capace, come pochi, di trasmettere una sorta di “unio mystìca” tra militanti comunisti e Partito, prima della trasformazionedissoluzione-scomparsa di quest ‘ultimo; all’apertura di un Congresso nella seconda metà degli anni ottanta, in seguito a speciose montature di parte, non esitò a dichiarare che i compagni e gli amici vanno difesi sempre e comunque, perché la relazione di “appartenenza” a quel Partito era la prima garanzia di una dirittura morale e politica. Per molti caposelesi resta un rammarico: la sua non assidua partecipazione alla vita amministrativa di Caposele dopo che fu eletto a consigliere comunale. Questo, a suo parere, lo si poteva ottenere solo con un’esposizione chiara e rigorosa delle proprie tesi, mettendo le parole giuste al posto giusto. Qualche anno fa (n°57 de “La Sorgente”) abbiamo avuto l’occasione di mettere Gente di Caposele ieri

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l’accento sulla specificità caratteriale dei caposelesi : gente di fiume ; quel fiume Sete una volta copioso ed impetuoso. All’acqua che scorre ed al suo amaro invito al viaggio senza ritorno i caposelesi debbono una loro piena cognizione del divenire, a volte carico di spavento, di precarietà, di irrevocabilità. L’acqua che scorre è anche portatrice di eufemismi che smussano le avversità. Amato Mattia sembrava essere consapevole di queste impronte caratte-riali : alzava il tono dello “scherzo” strapaesano o goliardico solo per provocare scenari di bonario divertimento; a sua volta accettava con autoironìa anche di esserne vittima; trascinava i coetanei in situazioni al limite del buon senso comune, siautoproponeva al confronto con il sacro e l’ineffabile nel tentativo di svelarne la vera natura. La drammatizzazione dell’acqua che scorre e l’opera umana che ne immunizza gli effetti devastanti è la metafora che più lega Amato Mattia alla gente di Caposele. Tra le cose che più provava gusto a raccontare c’era l’episodio del “verderame”, realmente accaduto nella sezione del P.C.I. di Caposele, che qui, purtroppo, sarebbe troppo lungo rievocare nelle sue sfumature più surreali e divertenti. L’ultima volta che vidi Amato Mattia fu, qualche anno fa, in occasione di una cerimonia funebre a Caposele; mi disse, ricordandomi anche dell’occasione precedente, che doveva succedere un evento funesto per farci incontrare. Avemmo tuttavia modo di parlare per pochi minuti, articolando insieme un breve ragionamento su come il supporto sociale durante tali tristi circostanze venisse spontaneamente in soccorso per far fronte alla rottura della rete di relazioni di cui la persona scomparsa era nodo; commentammo, se ben ricordo, come l’insieme dei convenuti tendesse ad autorappresentarsi come comunità, al pari di un qualsiasi altro evento festivo. Anche quell’ultima volta il discorso non era stato formalmente banale o scontato né era mancata la solita connaturata ironia. Dopo di allora dagli altri e dalla stampa ho appreso come Amato Mattia avesse continuato a trovare affermazione e consenso in ambienti dirigenziali a livello nazionale.

Un passo indietro di circa 35 anni.

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ravamo alle soglie delle scuole superiori. Andavamo io ed Amato Mattia, in orari diversi, a ripetizione per gli esami di riparazione di settembre presso la casa di una assai brava e preparata professoressa. Ci incontrammo una mattina, come spesso accadeva, sotto l’ampio e fresco androne di ingresso di quella nostra scuola estiva. Io avevo finito il mio turno, lui iniziava quello successivo. Quella volta Amato Mattia aveva un’aria stranamente preoccupata. Mi trattenne per un braccio e mi fece sedere su una soglia di pietra lisciata, aprì un libro di grammatica latina con delle frasi sottolineate e puntò il dito sulla parola “Mirmidoni” e me ne chiese concitatamente il significato. Di sicuro negli ultimi anni della

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sua vita Amato Mattia di parole ne conosceva quasi centomila. A me fa piacere pensare che quella mattina Amato Mattia abbia imparato la sua centounesimaparola.

Un amico perduto di Gerardo Ceres

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mato Mattia prima di ogni cosa credo possa essere ricordato il suo forte amore per la goliardia. il gioco, il sorriso e l’amicizia. Che poi é come dire amore per la vita e per gli uomini.Di Amato Mattia, ora che non c’è più, ora che una morte infame lo ha sottratto alla vita e ai suoi sconfinati progetti di lavoro e di impegno, non può non essere rispolverato qualche sprazzo di ricordo di quel tempo breve e tuttavia intenso che molti di noi hanno con lui condiviso a metà degli anni ottanta, quelli successivi al terremoto che colpì Caposele e larga parte dell’Irpinia. In questi ricordi c’è Amato che diede un impulso prezioso all’azione politica della Federazione irpina dei comunisti italiani, con quella tenacia della quale erano capaci i funzionari forgiati alla scuola quotidiana del partito, ma con una dose di fantasia del tutto sconosciuta nelle stanze fumose e grigie di Via del Balzo. In questi ricordi c’è Amato che lavora a riannodare i n modo più sistematico la rete della Federazione con le sezioni locali e tra queste e i tanti militanti impegnali coraggiosamente a gestire le fasi successive alla prima emergenza che seguì al terremoto del 1980. La metafora di questo suo generoso sforzo è stata, in quegli anni, una sbuffante e stanca Renault 2 CV, letteralmente massacrata lungo le strade polverose dell’Alta Irpinia. In questi ricordi, pensando ad Amato, è facile rincontrare i volti di tante persone; quelle di Calitri, di Aquilonia. Sant’Andrea, Andretta e di tanti altri comuni con i quali egli, appunto, non perdeva occasione per motivarli alle iniziative politiche di cui si faceva il naturale promotore. Sarebbe stato del tutto naturale se in occasione del congresso provinciale di Grottaminarda del 1986 fosse stato eletto alla massima responsabilità politica della Federazione. Pesarono allora gli intrighi di vertice e vinsero le paure dì chi soffriva e guardava con sospetto il protagonismo di questo dirigente. Amato, venuto da Roma, anche se dai natali irpini. Tuttavia l’amarezza è sempre dietro l’angolo per chi è impegnato in politica ricoprire altri incarichi. In questi ricordi c’è l’appassionato oratore della campagna elettorale per le comunali di Caposele del 1985 in cui rifacendo il verso - in lui certamente sincero - a Giorgio Amendola, a conclusione dei comizi, accoratamente invitava “al lavoro e alla lotta” tutti i compagni ed i militanti. Tanto acclarata è stata questa sua grande capacità comunicativa, peraltro tanto temuta dagli avversari, che, tornato già a Roma, gli fu chiesto di tornare ancora, Gente di Caposele ieri

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come in occasione delle comunali del 1990 e per il ballottaggio alle elezioni provinciali del 1995, a contribuire al successo del suo partito e dei compagni. In questi ricordi c’è la soddisfazione di tanti di noi nel vederlo direttamente impegnato nel rilancio editoriale de “L’Unità”, il giornale del suo partito, prima come direttore del personale, poi come direttore generale ed infine come amministratore delegato. Anche in questa occasione si è potuto apprezzare il grande slancio creativo di Amato che con lo staff del giornale e con l’ allora direttore editoriale, Walter Veltroni, lanciarono l’idea di allegare a “L’Unità” prima delle collane di libri, poi delle audio cassette e infine le collane tematiche di grandi film. E’ anche colpa sua, per esempio, se i miei scaffali sono ricolmi disordinatamente di questo preziosissimo materiale che gelosamente custodisco tra la polvere. E’ anche colpa sua se quell’idea, poi copiata da tanti altri giornali, è degenerata in un fenomeno incontrollato di overdose da gadget di cui è oggi malata la stampa italiana. In questi ricordi, terminata l’esperienza appassionante de “L’Unità”, lo si ritrova azionista di controllo di “Tutto sport”, giornale torinese, pronto a rischiare tutto in un impegno diretto come editore. In tale veste è facile comprendere l’emozione di saperlo, io juventino da sempre, editore addirittura dell’organo ufficiale della Juventus, con l’esclusiva sulle immagini della Vecchia Signora. E che avrebbero detto Togliatti, Berlinguer e Lama, grandi comunisti e grandi juventini? Eppure un imprenditore non può mai cullarsi su ciò che già è acquisito, deve necessariamente mettere in cantiere nuove idee e realizzare nuovi progetti. In questo senso nascono pregevoli iniziative come “Time out”. mensile sugli avvenimenti culturali romani, e “Il Diario della settimana”, che resta ancora oggi trai migliori strumenti informativi del panorama della carta stampata italiana. In più, come se non bastasse, volle assumersi anche l’onere di rilanciare Italia Radio, l’emittente del Pds, da tempo in crisi di risorse finanziarie. Nel turbinio di queste sue appassionanti vicende politiche ed imprenditoriali fu una mazzata incredibile sapere, da timide voci sussurranti, che Amato stava, tra le altre cose, combattendo una battaglia cruciale e cosciente contro il tumore. Eravamo in tanti arrivati a credere che ce l’avrebbe fatta: perché, per uno come Amato non poteva essere diversamente. Nel turbinio di questi ricordi, solo in parte qui riproposti, ci sono gli ultimi ed amari di una serata allegra di festa, quest’estate, interrotta dalla notizia della sua morte, dei giorni di attesa per il ritorno della salma dagli Stati Uniti, la camera ardente nel salone de “L’Unità”, la commemorazione di Walter Veltroni nella sala della Promototeca del Campidoglio, la presenza di tanti uomini noti e non del mondo della cultura e dello spettacolo, della politica e del sindacato, i funerali di Caposele sotto gli scrosci di un acquazzone agostano (mi è parso di vederlo, Amato, da qualche parte, che se la rideva per quel suo ultimo scherzo gioioso). 172 AMATO MATTIA

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Alcuni di noi lo ricorderanno poi per particolarissimi ed intimi episodi di vita quotidiana dove prevalevano, in Amalo, le doti di grande affabulatore ed inventore di giochi e di scherzi indicibili. Anche per questo e per tanti altri motivi, non ultimo quello di aver sempre “gettato il cuore oltre gli ostacoli”, spero che ad Amato, così come auspicalo da Veltroni a conclusione della commemorazione capitolina, sia davvero “lieve” la terra del cimitero di Caposele sotto cui riposa, quello stesso cimitero che quando ci passava in automobile era solito, laicamente con la mano, salutare -diceva - “i miei amici di Caposele”.

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ANGELINO MEO di Vania Palmieri

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i lui resta il ricordo unito alla esortazione di non abbandonare chi soffre la solitudine. Di lui restano la cordialità, la simpatia, l’ingenuità dell’eterno ragazzo che, per sembrare adulto, guardava il mondo con finta aria spavalda, con l’eterna sigaretta tra le labbra, aggrappato a quel bicchiere, unico suo nemico. Angelo ha capito la favola della vita. Ha attraversato con semplicità l’esistenza annullando il contrasto tra il corpo e la mente, tra il bene e il male. Ha sfidato perbenismo, classi sociali, indifferenza, emarginazione. Aspetti di una cosiddetta cultura che sta morendo, di una “civiltà” che è in crisi per mancanza di ideali, di speranze, di sogni. ‘Ngiulino era idealista, ottimista, sognatore.

‘Nghilinu di Antonello Malanga

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utt’a un tratto, mentre ci si accingeva alla rituale passeggiata in Via Roma, un famelico urlo ci scuoteva: era Lui che sghignazzando compiaciuto si presentava, rodomonte, prendendosi gioco di noi, supponente, supponendo di farci paura; ripeteva poi più volte lo stesso rito ai danni di altri od altre passanti ... Lui era ’Ngiulinu Papusciu, ’Nghilinu per la maggior parte; gli ho contato una buona dozzina di ”sturtinomi”(tutti meritati) con cui veniva scherzosamente chiamato in paese: uno per tutti Kempes, del quale ricordava a tratti il gesto atletico piuttosto che la capigliatura fluente. Ho cominciato a sentir parlare di ’Nghillo più o meno verso la metà degli anni ’70, quando pare si impossessò di una macchina a caso che guidò, narrano, lungo tutto il paese senza patente e in prima marcia, fino a fonderle letteralmente il motore (!), scusandosi con il proprietario di non averlo fatto apposta! Fatto il militare, dove potè sfogare la sua indole di persona libera da tutto e tutti librandosi e liberandosi nell’aria attraverso ripetuti lanci col paracadute dei quali, smargiasso, si vantava, ritornò definitivamente a Caposele prima del terremoto, non dopo qualche altra peripezia. Raccontano di lui che fosse un tipo burbero, permaloso, manesco, sempre incline alla legge della percossa che fermamente dava (poco) e riceveva (spesso): erano altri tempi quelli! Il dopo terremoto, come per tutti, gli aveva cambiato un po’ la vita e lo aveva indirizzato definitivamente ad una strada senza ritorno ... Gli piacevano le donne e la birra Peroni, ma ben presto abbandonò le prime per la seconda: beveva ad libitum dalle prime luci dell’alba fino al crepuscolo, quando stanco a dir poco ti chiedeva il passaggio sino a casa nella quale sempre, ringraziandoti cordialmente per averlo accompagnato, ti invitava per poterti offrire 174

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un bicchierino ... Il suo fare, spaccamonte, a taluni non troppo era gradito; molestamente simpatico, tronfiamente rodomonte, machiavellicamente e bellamente servizievole, elegantemente vanitoso, candidamente arrogante, saccentemente umile: ignorante. Non aveva ”scuole alte” ma nascondeva benissimo dietro i suoi occhiali da intellettuale basco il non saper affatto leggere e far di conto. Troppo presto si era infatti trovato a dover far di conto con le cose ”pratiche” della vita, tanto che tempo (e voglia) per studiare non ce n’era ... Capivi che voleva a volte ”spiccare” l’italiano da quella leggera e strascicata inflessione musicale che egli conferiva all’ultima sillaba della parola pronunciata comunque in dialetto, il tutto accompagnato da gesti di piglio guappesco e da pose alla ”yuppi du” (tono rudemente dolce o sigaretta biascicata tra pollice ed indice). Famosissimo il suo improprio uso degli ausiliari dialettali, quelli che non si studiano a scuola: ”so dittu” anzichè ”aggiu rittu”(ho detto) (notare il cambio di consonante da ”rittu” a ”dittu”, che esiste si in dialetto, ma solo alla terza persona del passato prossimo); oppure il famoso ” so pa’atu” anziche ”aggiu pa’atu (ho pagato), finissimamente passiveggiante ... Sovente ti fermava per strada propinandoti uno dei suoi arcinoti e mo¬lesti aneddoti-indovinello; non potevi assolutamente esimerti dal partecipare al gioco, pena minacce. Uno famosissimo del quale riteneva essere Lui unico depositario della soluzione (!?) era il seguente (testuali parole): ” ’Na gaddina, probbiu ’ngimma a la ponta r’ la mundagna, fa l’uovuuu???! (in italiano) . Addu car’ l’uovu, ... a nord o a sud? ” – E rideva schiamazzando compiaciuto di sè. Ma c’era poco da ridere, poichè commetteva sempre l’errore di mettere la gallina al posto del gallo nell’indovinello! ...Ah, ’Nghillo, ’Nghillo!! Altre volte per stare al suo gioco gli ponevamo noi quesiti tra i più vari, come il seguente: ” ’Ngiuli’, la mamma dà 1.500 lire alla figlia e la manda a comprare la frutta. Se le pesche vanno a 1.000 lire al chilo, a quanto vanno le mele? Pensaci bene prima di rispondere! ” – Lui, dopo aver pensato un po’, mani ai fianchi, poi aiutandosi col suo proverbiale dito indice a mo’ di calcolatrice, rispondeva più che sicuro: ” Vann’a 450 a testa!! ” – Risate generali. Io me lo ricordo cosi; burbero e benefico, guascone, dal cuore buono e dall’indole in fondo generosa. Ma ora non c’è più. Un piccolo pezzo di un piccolo paese non c’è più. Una mattina freddissima di questo freddissimo inverno ci ha definitivamente lasciati. No, non lo rivedremo più, mai più seduto sugli angoli di questo paese, il vecchio paese. Anzi no. Lo abbiamo visto ancora, una sera qualunque e anticipandolo gli abbiamo chiesto a bruciapelo, caduti nel suo ennesimo ”tranello” lì all’angolo, quanto esattamente valesse un Euro!? Lui ha subito posato l’ennesima Gente di Caposele ieri

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bottiglia di Peroni vuota si è letteralmente rimboccato le maniche del giubbotto ha preso tempo ... pensando... pensando e poi ci ha risposto: ”... Accumm’ sacciu ìu ’p’mmè val’ ...: Ciendu lir’!!!!! ”– E sghignazzando, sicuro, convinto di averci dato l’esatta risposta anche questa volta, cantando un suo ritornello che fa ”... E tu ... e noi ... e la vedi in un sogno ...” è sparito là, in fondo alla strada, un’altra volta e per l’ultima volta … questa volta.

VINCENZO CETRULO di Antimo Pirozzi

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incenzo CETRULO, il giorno 8 settembre 2002, ha cessato la sua esistenza in conseguenza di un male inesorabile. Il suo ricordo è sempre presente in noi soprattutto per il suo modo d’essere: Schietto e gioviale. Lo ricordiamo particolarmente perché teneva un linguaggio simpatico e appropriato. Non aveva mai abbandonato quelle espressioni di “vecchio e autentico carabiniere” che accompagnano l’esistenza. Viene ricordato dai suoi commilitoni come un ottimo carabiniere e un distinto operatore stradale delle Provincia. La sua linea di condotta era improntata nel segno della signorilità. Era schietto, simpatico ed intelligente; sapeva relazionarsi con gli amici anche di ceto sociale elevato. Attento e fedele socio della Pro Loco fin dalla sua istituzione. Era scevro da cariche od incarichi, desiderava essere solo un socio fedele e rispettoso. Il Parroco don Vincenzo, nella sua omelia ne ha tracciato un profilo reale, elogiandolo anche come figura fedele non distaccandolo dal motto dei Carabinieri “NEI SECOLI FEDELE” come era suo costume esprimersi in circostanze di rilievo.Per noi, caro Vincenzo, la tua dipartita crea un vuoto incolmabile, come del resto, il tuo trapasso non è passato inosservato all’intera comunità. Ti ricordiamo sempre con il tuo vestito particolare da “cacciatore” di velluto color bleu che indossavi nei giorni particolari anche per evidenziare la tua grande passione di “cacciatore molto raffinato”.

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LA GRANDE TRAGEDIA Nicola Conforti

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n anno triste L’anno che sta per concludersi lascia una traccia profonda ed indelebile nell’animo dei Caposelesi e segna un brutto momento nella storia del nostro Paese: una immane tragedia ha ferito a morte quattro famiglie e ha sconvolto e addolorato l’intera cittadinanza. Un anno triste, una storia di dolore e di fragilità umana: quattro giovani hanno perduto la vita in un incidente d’auto alle porte di Caposele. Quattro vite spezzate in così giovane età hanno gettato nel lutto, nel dolore e nella disperazione l’intera comunità. E’ stata, dopo quella del terremoto, la più grave sciagura verificatasi nel nostro Paese, la più crudele delle disgrazie capitata a quattro nostri giovani e promettenti concittadini. Il Paese tutto, unito e solidale come non mai, si è stretto intorno ai familiari delle vittime ed ha pianto con loro la scomparsa di tante giovani vite.

Maurizio Corona Lorenzo Viscido Donato Sozio Alfonso Sozio

resteranno sempre nel nostro cuore e nei nostri ricordi

La grande tragedia

di Vania Palmieri

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na corsa nella notte, come in un gioco a rimpiattino con la morte. Poi lo schianto! La dea vestita di nero, mai sazia, ha preteso le sue vittime. Ancora una volta ha colpito. In quella notte di allegria, le risate si sono trasformate in lamenti, in singhiozzi. L’alba per i quattro giovani di Caposele non è mai spuntata. Sull’erba e sull’asfalto, brandelli di corpi, lamiere contorte, silenzi senza più speranze di voci e di vita. Sbigottimento, incredulità, angoscia hanno avvolto Caposele e l’Irpinia. La notizia della dipartita di MAURIZIO Corona, LORENZO Viscido, DONATO Sozio e ALFONSO Sozio ha colpito le orecchie ed è scesa dolorosamente fin nella parte più intima del cuore. La dea vestita di nero ha ghermito senza pietà quattro esistenze che programmavano lunga e felice la linea del futuro. Per loro non ci saranno più. stagioni, albe, emozioni, sogni. C’è stato solo un unico tragico tramonto che ha inghiottito il breve giorno spalancando la porta ad una notte infinita. Noi tutti ci siamo fermati per un attimo a rivivere le sensazioni, ripercorrere le emozioni, a meditare. E con noi i tanti giovani che spesso percorrono le strade con l’incoscienza dell’età, senza rendersi conto che il piede pigiato sull’acceleratore dell’auto può essere l’inizio Gente di Caposele ieri

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di una tragedia e la fine della spensieratezza, della felicità, del futuro. Domenica 1° giugno, nella chiesa della Sanità di Caposele, insieme alla Madonna hanno pianto quattro mamme sulla sorte dei loro quattro figli crocefissi. Quattro croci sono cadute sulle spalle di quei genitori che le trascineranno all’inifinito. Il pianto silenzioso dei presenti si è trasformato in una nenia malinconica che ha accompagnato l’ultimo viaggio di Maurizio,Lorenzo, Donato e Alfonso.Dei quattro amici sempre insieme, anche nella morte. Quando è calata la sera, i ricordi tenuti fino a quel momento lontani, nascosti nelle pieghe di una veste nera, sono tornati, per accarezzare la fronte di chi non ha più lacrime. Piange Caposele, ancora legata a quelle quattro meravigliose piante sradicate, recise. I quattro giovani dormono il sonno eterno in un altro giardino . Nelle loro case, trasformate in piccoli santuari, la gente mormora l’ultima preghiera. Poi il silenzio! Ma nel silenzio, all’improvviso, uno schianto ed un grido disperato: MAMMA!. In quattromila per l’addio ai ragazzi

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’ durata quasi due ore la cerimonia funebre per la tragedia che ha colpito Caposele. In piazza Sanità, che si è trasformata in una Chiesa all’aperto, padre Salvatore Nunnari, arcivescovo di S. Angelo dei Lombardi, ha voluto offciare una celebrazione che è stata un susseguirsi di lacrime, accompagnate da grida di dolore. “Siamo stati feriti al cuore - ha detto Nunnari -. Quattro giovani, quattro lavoratori, quattro speranze di questa terra se ne sono andate”. Anche l’arcivescovo non può trattenere la commozione. Il pathos, l’emozione, la tragedia sono troppo grandi. “Diffcile, in questi momenti andare avanti - dice l’arcivescovo con voce rotta dalla commozione, ma è proprio ora che dobbiamo essere saldi, è proprio ora che la nostra fede deve essere più forte”. “Un pensiero anche per le famiglie che stanno affrontando con grande dignità l’immane tragedia dalla quale usciranno con l’aiuto di Dio”, dice Nunnari. Non manca però, da parte del prelato, anche un monito per i giovani. “Da questa vicenda - ha spiegato - dobbiamo capire ancora di più quanto sia importante e forte il senso della vita. Questa triste vicenda, queste quattro vite distrutte siano per tutti i giovani di Caposele una motivazione a non lasciarsi andare e ad apprezzare quanto già hanno”. Dopo l’omelia dell’arcivescovo, è toccato al sindaco di Caposele, Giuseppe Melillo, tracciare un ricordo dei giovani. “In questo momento - ha detto con le lacrime agli occhi Melillo - mi sento piccolo, perché non ci sono parole, non ci sono discorsi che tengano e che possano lenire l’immenso dolore di queste quattro famiglie”. “Perdiamo, ha aggiunto Melillo, quattro onesti lavoratori, quattro giovani che erano stati compagni di giochi dei nostri figli. Spero solo che il grande sentimento di comune commozione che ha unito questa comunità possa da adesso in poi aiutare questi genitori e questi fratelli affranti per la morte dei loro cari a rendere meno dura e meno amara la loro esistenza”.

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In ricordo di DONATO CONFORTI Un eterno ragazzo di Vania Palmieri

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e rose foriscono a maggio. Profumano e colorano la vita della gente del mondo. La vita di Donato Conforti si è spenta, a dispetto della natura, proprio in una giornata di maggio. L’eterno ragazzo, dagli occhi profondi e spalancati sull’universo, in silenzio, chiedendo scusa ai suoi cari per il dolore che avrebbe procurato, ha interrotto il cammino. Ha spento la linfa che alimentava la pianta. Ha fatto appassire la rosa che profumava l’esistenza di tutti coloro che gli volevano bene. Compresa la mia. Ricordo ancora quando, ancora ragazzo, incontrai Donato per la prima volta in un’aula dell’Istituto Professionale di Lioni. Egli alunno, io novella insegnante. I nostri sguardi si incrociarono e fu subito affetto, amicizia, stima reciproca. Nei suoi occhi limpidi, sinceri, colmi di dolcezza, captai mille domande. Nei miei un po’ più apprensivi e preoccupati, egli lesse, forse, timore per quel lavoro che stavo iniziando. Con semplicità cercò di rendermi quel lavoro meno traumatico il primo giorno di insegnamento. Quando terminai l’appello, ci guardammo. Sorridemmo entrambi e, senza tante parole, siglammo il patto di amicizia, stima e affetto. Patto che, negli anni ci ha sempre unito. Anche quando, coinvolti e distrutti da tante vicissitudini, percorrevamo strade diverse. Donato amava la vita. Amava la musica. Ogni momento per lui era una melodia. Suonata con la fisarmonica o a pianoforte. Suonata spesso con i meravigliosi sentimenti che custodiva nel cuore. Tanti. Tutti belli e coinvolgenti. Tutti legati alla spontaneità, alla speranza. Alla gioia di svegliarsi la mattina ed assaporare la magia di un nuovo giorno. Di addormentarsi la sera, cullato dall’amore dei suoi cari, felice dell’affetto degli amici, riconoscente a Dio per avergli regalato una giornata di serenità. Le strade, le piazze, la gente di Caposele erano il suo mondo. Il periodico “La Sorgente” era il suo orgoglio, la sua passione, il suo affettuoso impegno. Ne curava l’impaginazione. Catalogava articoli e foto. Voleva che ai Caposelesi sparsi nel mondo arrivassero notizie e ricordi della terra natia. Alla chiusura di ogni numero, tirava un sospiro di sollievo e di soddisfazione. Poi, dopo averlo sfogliato, accarezzato, lo lasciava partire e, con la sua aria di eterno ragazzo diceva al fratello; “Nicola, ce l’abbiamo fatta. Il nostro è proprio un bel foglio. Perché in ogni riga c’è la nostra anima, c’è il nostro cuore”. Quel tuo cuore, caro Donato, che in un giorno di maggio, ha preteso il riposo. Tu, malgrado gli affetti ed il dolore, hai dovuto cedergli la chiave dell’esistenza. Del giardino in cui fioriva la tua rosa profumata. E’ calato il silenzio. Si è spenta la luce. Il buio ti ha avvolto. Ma solo per un attimo. Gente di Caposele ieri

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Ti sei subito ritrovato in una meravigliosa, eterna luce. In un giardino in cui la tua rosa fiorirà per sempre. Perché alimentata dalla sorgente della fede. La tua. Quella dei tuoi cari, dei tuoi amici, di chi ti è vissuto accanto. Mentre scrivo questo pensiero, rivedo il ragazzo che, in un giorno di ottobre del 60, mi aiutò ad affrontare il mio primo giorno di scuola da insegnante. Rivedo i tuoi occhi. Sento la musica della fisarmonica. Ascolto commossa l’allegro e spensierato vocio di voi alunni di allora. Poi arriva prepotente il silenzio. La lezione è finita. La tua vita si è spenta. Tutto sembra l’immagine triste e lontana di un istante. Ma nel giardino dell’Eternità la tua rosa è forita. Bella, rigogliosa, profumata, dolce, senza età. Come è stata la tua vita terrena tu, oggi, fai parte dei ricordi. Fai parte di un tassello di vita vissuta ed affrontata con coraggio. Ti sei trasformato in un pensiero. In uno di quegli attimi in cui ci rifugiamo per non morire dentro. Per ascoltare la melodia della speranza. Per abbracciare un raggio di sole. Per essere certi che “la vita oltre la vita” è il vero traguardo della gente del mondo.

L’ultimo racconto di Alfonso Merola

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n una stanza bianca ed angusta, era serenamente assopito sotto il peso silenzioso delle lacrime dei suoi cari. Pietrificato? Non direi. Il suo viso non era ancora vinto dal pallore; giurerei che sorrideva ancora, sembrava che sfidasse beffardo la morte. Che brutti scherzi ti fa l’amicizia! Fuori splendeva un sole tanto atteso, dopo giorni e giorni di una uggiosa pioggia incessante che aveva annacquato la primavera.... L’ultima volta che l’avevo visto, Donato mi aveva parlato, appunto, di una stagione che s’era presa gioco di noi tutti, mentre incombeva una campagna elettorale. Lo vedo ancora là, seduto dietro la sua scrivania che, all’occorrenza, si trasformava in laboratorio “tipografico”, stretto tra scaffali ed il suo computer, con un occhio intendo a sbirciare sul cortile chiassoso, dove, in genere, i bimbi giocano e le donne, sedute su scanni, ragionano. E lì a farsi in quattro tra montagne di carte, pressato dalle scadenze e dai committenti che riceve cordialmente e pazientemente nello studio. “Chiedi a Donato!” dice Nicola”.Parla con mio Zio”! gli fa eco Salvatore. Si, perché Donato, in fondo, è l’anima di quello studio, è il testimone muto e laborioso di tante vicende che si sono sgranate come un rosario, in questi ultimi trent’anni... Ha fretta Donato in questi giorni: è come se non voglia concedere più tempo al tempo. Eppure è sempre calmo ed imperturbabile, per niente nervoso, non ti nega l’ascolto e meno che il suo inconfondibile sorriso. Si intuisce, però, che tenta di accelerare il corso delle cose. Discutiamo di tutto partendo dal nulla e alla fine si affastellano idee, timori, ricordi e progetti futuri. Ripercorriamo assieme, come solo sanno fare due vecchi

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amici, gli anni del terremoto, i primi vagiti de “La Sorgente” ormai adulta che reclama di esistere. Mettiamo alla prova la comune passione per l’Inglese. E, alla fine, il discorso va sempre a cadere su un libro di “acquerelli Caposelesi” che pure reclama di vedere la luce. “Me lo prometti una buona volta di incollarti a quella sedia e di discutere seriamente di questo progetto? In fondo, tutto è pronto, si tratta solo di dare ordine cronologico ai racconti e poi per il resto sarà cura mia?” Io gli dico per l’ennesima volte si ed egli prontamente mi risponde: “Speriamo che sia la volta buona!”. Tento di mollargli istintivamente una sigaretta, dicendogli che Nicola non c’è.... Declina gentilmente e mi ricorda che ormai non fuma più da mesi. Aggiunge:”Non posso più scherzare col fuoco, la cosa è diventata tremendamente seria e non mi posso permettere il lusso di trasgredire”: Avverto che si sente appeso ad un filo: è il suo prolungato silenzio a farmelo capire. Gli chiedo come stanno a casa. E come un fiume in piena, ritrova vigore e parla di Rosetta, della figlia lontana di cui sente nostalgia, dell’altra così premurosa, del suo adorato ometto e dell’ altra ancora che lo ha reso nonno per la prima volta. Ritorna a sorridere e non sta più nella pelle: non è cosa da niente essere nonno quando si deve sentirsi ancora necessariamente padri. Lasciamo lo studio per andare a bere un caffè al solito bar; si rientra e si lavora duro sulle bozze di un altro racconto che egli ha corretto meticolosamente e con discrezione. Ormai è tardi e decide di rientrare a Petazze. Lo attende la sua casa; a guardarla bene, sembra un cottage inglese, immerso in un giardino lussureggiante su una collina brulla e frustata incessantemente dal vento. Quel giardino è curato nei minimi particolari tanto da apparire artificiale... Sarà vero? Ad un tratto mi sovviene che Donato è un Conforti e allora mi convinco che quello è un miracolo verde che solo chi ama la natura, come i Conforti, sa fare.

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Ricordo di ANTONIO SENA di Gerardo Ceres

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uanto m’è costato il pensarti così scrivere pensandoti così... Chi l’avrebbe mai detto martedì alle quattro del mattino, quando mi chiamasti perché corressi da te, che quei lancinanti dolori erano solo il prologo dei tre giorni più lunghi e disperati, ma anche gli ultimi, della tua vita? Abbiamo vissuto attoniti ogni fase di questa tua corsa, durante la quale sempre più ostacoli, rivelatisi poi insuperabili, si sono frapposti tra te e il traguardo. Abbiamo colto incredulità negli occhi della gente che chiedeva delle tue condizioni. Abbiamo colto occhi lucidi di pianto anche quando da Roma rimbalzavano notizie solo appena rassicuranti. Seppure preparati all’epilogo più drammatico, la tua morte ci ha sopraffatto, ci ha ammutolito, ci ha trasferito, per la prima volta, l’idea che tanti aspetti del nostro vivere vadano davvero relativizzati. E oggi ti piangiamo col senso di quella amicizia serena e leggera che tu ci hai insegnato in ogni momento trascorso insieme. Oggi ti piangiamo nel modo in cui tu avresti voluto. E lo facciamo ricordando soprattutto l’uomo e l’amico. Lo facciamo ricordando alcune istantanee che tu ci lasci di momenti vissuti insieme e che resteranno sempre chiare nella nostra memoria. Ci piace intanto pensare come tu abbia attraversato questa vita librandoti sempre in volo, sì, proprio come fanno gli uccelli, tanto che mai soprannome è risultato tanto aderente quanto inoffensivo come quello col quale venivi comunemente evocato. Volavi, appunto, portandoci con te, quando con la spitfire verde scorazzava¬mo per i paesi della valle del Sele. Volavi come un condor quando scalasti la cima del Machu Pichu e mi inviasti una cartolina postale che conservo gelosamente da ventidue anni tra le cose più care. Volavi quando giocavamo a pallone. Volavi quando ballavamo il rock che con te abbiamo scoperto ed amato. Volavi sul monte Calvello nelle aurore dei tanti 24 giugno trascorsi ad attendere il sole che si levava ad est. Volavi quando ci arrancavamo sul versante nord del monte Cervialto, con lo spirito di chi stesse conquistando l’Everest. Volavi tra un falò e l’altro la sera di ogni 13 giugno. Volavi quando solcavamo le onde del golfo di Salerno e tu, al timone di un piccolo motoscafo, sembravi il comandante di un grande veliero. Volavi quando ci invitavi a viaggiare con te e di quel viaggio, dicevi, non contava tanto la méta quanto il modo di arrivarci. Dei tuoi voli goliardici ne possono essere fedeli testimoni i coetanei del 1951, cioè i tanti che hanno vissuto con te gli anni dell’infanzia e poi gli anni delle scuole medie a Calabritto, poi al convitto nazionale di Salerno, gli anni dell’università, a Napoli, dove ti sei laureato con lode. Dei tuoi voli politici lo possono testimoniare i tanti, ed io tra questi, che con te hanno condiviso l’impegno civile negli anni dopo il terremoto del 1980, quando ci 182

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animò l’idea che quella frattura radicale dovesse almeno servire a rafforzare e a rilanciare l’identità di una comunità ferita. Lo facemmo con quello spirito forte e determinato che è tipico della militanza politica. Lo facemmo animando, tu più di ogni altro, il comitato popolare e le battaglie per la ricostruzione di un paese che mantenesse il suo assetto urbanistico ma che nel contempo (coniasti proprio tu questa definizione) fosse modernamente attrezzato. Lo facemmo animando la redazione di quello che è stato ed è rimasto il nostro artigianale gioiello di comunicazione. Rosso Rinascita, infatti, periodico dilatato in un tempo mai definibile e che tu volesti fosse di agitazione culturale, è stato certo dissacrante e, a volte, corrosivo, ma scritto con passione e pensato da te sempre con acuta intelligenza. Lo facemmo, ancora, inventandoci, attraverso Radio Caposele, autentiche chicche di genere, portando ai microfoni le persone che capitava per caso di incontrare per strada la sera, così da fare su due piedi un Guitar bar che sottraesse tanti ragazzi alla solitudine dei villaggi prefabbricati. In ogni cosa vissuta con te ci trasferivi l’essenza stessa della curiosità che si ap¬prossima alla conoscenza e alla ricchezza mai defnitiva ed esaustiva del sapere. Restavamo infatti incantati dal tuo eclettico sapere, frutto non tanto degli studi classici, ma di una ricerca continua che tu hai sempre sviluppato e che ha riguardato gli uomini e il mondo. Nell’ultimo racconto che hai scritto per il numero di Rosso Rinascita che doveva essere pronto per ieri, e che dal letto dell’ospedale di Oliveto Citra hai insistito che io andassi a prendere a casa tua perché non se ne bloccasse l’impaginazione e la stampa, emerge una grande e per te naturale capacità affabulatrice; emerge, ancora con grande evidenza, questa profonda conoscenza, tratteggiata da una visione autenticamente cosmopolita; ne emerge, poi, il senso di una religiosità che intreccia la genuinità del Corano dei primordi a quella, altrettanto genuina, della Regola di Francesco d’Assisi. Ma che scherzo, però, ci hai fatto! Quel racconto si interrompe ad un certo punto, quando il giovane emiro afgano si converte al francescanesimo, con la promessa che per il seguito del racconto avremmo dovuto aspettare il numero successivo. Tu ci hai incantato anche con gli articoli e i racconti scritti per La Sorgente, cui non facevi mai mancare l’acutezza per quelle storie fantastiche che riuscivi a costruire partendo da semplici fatti storici o da consolidate usanze locali o da personaggi considerati minori ma cui tu attribuivi la stessa importanza riconosciuta a quelli più noti. Tu sei stato un intellettuale, certo mai organico a niente e a nessuno, che ha speso spazi del proprio tempo per questa terra. Infatti tutta la produzione di articoli, racconti, storie hanno sempre al centro Caposele, il suo fiume, la valle e le montagne a noi prossime. Tu sei stato, e così ti ricorderemo sempre, un grande contaminatore di idee ed intuizioni. Solo a te veniva facile mettere in relazione persone diverse tra loro, non badando mai, mai, alla scolarizzazione, alla professione, allo status sociale o, si sarebbe detto una volta, di censo. Solo a te riusciva di provocare discussioni che Gente di Caposele ieri

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aggregavano decine di persone, tanto per fare notte, sugli scalini del vecchio Palazzo scolastico. Anche, ma non solo per questo, io credo, alla notizia della tua scomparsa, con moto spontaneo, si sono interrotti l’altra sera i comizi di questa stagione elettorale. Tu sei stato un grande animatore. Fare una semplice cena o fare solo una festa con te acquistava un altro sapore. Quante volte, dopo un invito, abbiamo sentito chiedere ma ci sarà Antonio? La tua presenza, infatti, faceva diventare tutto più accattivante ed interessante, come ad esempio giocare addirittura a dei banali e fanciulleschi giochi di società. Come dire, con te tutto diventava un’altra storia e ciascuno non perdeva occasione per esserci. Già solo questo ci porta a dire e a convincerci che da oggi saremo più soli. Immaginiamo già le panchine di questa piazza, nelle giornate d’estate, vuote di te. Già solo questo ci porta a dire che ci mancherai davvero, Antonio. Mancherai ad Elena, che con caparbietà in queste ore ha combattuto con te per strapparti alla morte, dando prova, e non ce n’era assoluto bisogno di conferma, di quanto intensamente ti amasse e della disperazione che sta provando ad immaginare un futuro senza te. Mancherai ad Esmeralda, la tua Esmeralda, che con il suo muto dolore ti è stata vicina nelle ore che trascorrevano drammaticamente, vivendo da adulta e matura la lacerazione più forte che si potesse per lei consumare. Mancherai alle tue sorelle per le quali sei sempre stato molto più di un fratello, seppure minore.Ma siine certo: Elena ed Esmeralda godranno della fraterna e fedele tutela dei tuoi amici e ne potranno disporre per qualunque bisogno e necessità. Non ti sia, dunque, lieve solo la terra sotto la quale riposerai, ma anche questa naturale preoccupazione di marito e di padre. Tu pensa al viaggio e poi riposa. Per questo viaggio vogliamo accompagnarti con le parole finali di un romanzo che molto hai amato e che noi abbiamo scoperto grazie a te. Sono le parole finali del Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline. Lui è crollato là, finalmente, tra enormi sospiri e gli odori. Ha dormito. Lontano, il rimorchiatore ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano... Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, e che non se ne parli più. Dunque, oggi ti onoriamo con l’affetto semplice di chi ti è stato amico e ha potuto godere della tua amicizia. Ti onoreremo anche in futuro, pensandoti con immutato affetto e coltivando il solco dei ricordi belli, di quando la tua risata ci rallegrava con il mondo e ci faceva amare la vita. Ti abbracciamo, qui, oggi, pubblicamente e lo fa una comunità intera che tu hai amato. Addio, Antonio, amico nostro carissimo.

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ALFREDO ALAGIA di Nicola Conforti Alfredo Alagia era rientrato a Caposele, dopo molti anni di vita all’estero, per godere dell’affetto dei suoi genitori e di tanti amici che gli volevano bene. Un tragico incidente non gli ha consentito di vivere nel paese natio gli ultimi anni della sua vita. La stessa sorte è toccata a Tina, sua adorata sposa, tradita da un male incurabile e costretta a consumarsi nel dolore per chi l’ha lasciata troppo prematuramente.

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arlare della tragica, incredibile ed immatura scomparsa di Alfredo Alagia, riempie il nostro animo di commozione, di dolore e sgomento, tanto familiare, intima e affettuosa era la sua presenza tra noi, tanto intenso era il rapporto che aveva saputo instaurare con tutti gli amici. La sua scomparsa ci lascia increduli, sorpresi, sgomenti, profondamente addolorati. Oggi, ripercorrendo tutti i momenti che hanno legato la vita di Alfredo al suo Paese, alla sua famiglia ed ai suoi amici, ci assale un forte senso di vuoto. Tanti i ricordi che si affollano nella nostra mente, tanti gli episodi di generosità e di abnegazione che vorremmo raccontare. Era un uomo tenace, volitivo, forte, sempre pronto, sempre disponibile alla lotta ed all’impegno sociale, profondamente legato alla sua famiglia che tanto adorava. Dopo una vita di lavoro e di sacrifici in terre lontane, era tornato definitivamente al suo Paese natio per godere dell’affetto dei suoi genitori e dell’amicizia di tanti amici di infanzia. Un tragico incidente lo ha strappato agli affetti dei suoi cari, lo ha sottratto alle tante persone che gli volevano bene. Difficilmente dimenticheremo il buio e lo sconforto di questi momenti. Il ricordo di Alfredo resterà per sempre impresso nei nostri cuori.

TINA E ALFREDO di Alfonso Merola Ho visto una delle figlie di Tina stringere a sé una minuscola urna cineraria, la stringeva con orgoglio ed amore, quell’amore che è l’unica forza che gli esseri umani possono opporre al mistero della vita e della morte. In quell’esatto momento mi è venuto in mente e mi è stato veramente chiaro il pensiero di Edgar Morin sulla straordinarietà della natura umana: “Non si nasce mai per davvero perché già si esiste nei gameti di chi ci ha generati e non si muore mai perché si continua ad esistere nei propri figli e nelle idee che si riesce a trasmettere a Gente di Caposele ieri

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loro”. Tina non ha avuto il tempo, né la voglia di piangere per sé, per un destino che l’ha costretta a consumarsi nel dolore per chi l’ha lasciata troppo prematuramente. In fondo tutti noi siamo inchiodati al nostro programma genetico e alle accelerazioni che il contesto ci im-pone. Tina ha accettato con coraggio questo paradosso e ci ha dato una lezione magistrale di empatia, di senso della comunità e della comunione. Ha ritrovato un antico paradigma perduto in una umanità che spesso si agita troppo per nulla ed inutilmente. Tanti di noi immaginiamo che riposi serena accanto a chi non avrebbe mai voluto, nella buona e nella cattiva sorte, abbandonarla.

PASQUALE ALBANO di Romolo Ricciardiello

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reò fin dal 1945 il movimento Evangelico a Caposele: Presto divenne il fulcro della comunità locale, di quelle limitrofe e successivamente anche dei paesi dell’Alta Irpinia. Tanti gli insegnamenti che ha impartito alle tante comunità che si spinse a visitare e a curare con grande sacrificio. Dopo una densa attività ministeriale, fece ritorno al Signore, promosso ad incarico più alto, il 15 settembre 1970, dopo circa un anno di dura infermità. Sono tali e tante le parole che vengono alla mente e gli insegnamenti che passano nello spirito nostro che, quasi, ora, non sappiamo come esprimerci per l’edificazione nostra e della fratellanza che ci legge, in questo primo decennale della “chiamata a casa” del nostro amato fratello ALBANO Pasquale, o Pasqualino, come registrato allo Stato Civile. Consapevoli dell’insufficienza delle nostre parole pure a delineare i tratti spirituali salienti di un uomo di Dio, il cui ministero è di lunga e vasta portata sopratutto nelle Comunità Evangeliche della Valle del Sele, dove esso nacque, crebbe e si sviluppò nell’arco di un trentennio circa, ma anche in quelle del Piemonte, Lombardia, Toscana, Calabria e Sicilia, ove fu concessa l’occasione di godere alla luce di tale lampada, benché per breve tempo (Giovanni 5:35), abbiamo chiesto al Signore l’aiuto e la guida per onorarne il ricordo con questo scritto, tornando, prima di tutto, a quel giorno che, dieci anni fa, ci vide smarriti intorno al suo feretro. Venne quinto in una famiglia di undici figli, nascendo a Caposele il 4 aprile 1918 da genitori di modeste condizioni che furono costretti a mandarlo, ancora bam186

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bino, a servizio, come “garzone”, presso una delle aziende agricole della zona. Non ancora ventenne volle avere una famiglia propria e sposò la sua coetanea Giovannina Cibellis, che gli fu poi compagna anche nel servizio divino; ma per servire in armi la patria, ben presto fu strappato alla sua famiglia e, per circa sei anni, ne restò lontano. Al rientro trovò la moglie divenuta evangelica e dovette far fronte alla nuova situazione religiosa in famiglia col rendersi conto di persona della sincerità della nuova maniera di adorare Dio, e della fedeltà all’insegnamento del Vangelo da parte di quel piccolo nucleo di fedeli. Appena se ne fu personalmente accertato, cominciò a leggere il Vangelo alla sua famiglia, in casa sua, ove si formò una riunione di adorazione, senza alcun contatto con i fratelli del posto. Successivamente un intervento diretto del Signore lo spinse ad avvicinarsi alla nascente comunità. Dopo aver fatta l’esperienza del battesimo con lo Spirito Santo un giorno in cui, in un fondo isolato nelle montagne dell’Appennino Caposelese, Gesù lo incontrò personalmente e lo vinse, e chiese ai fratelli di essere battezzato in acqua, secondo Il comandamento evangelico e ciò fu fatto dopo alcuni mesi: aveva circa 27 anni. Da quel giorno, nella sua vita vi fu un continuo susseguirsi di avvenimenti: infermità e prove lo andavano temperando, dopo le fatiche e gli stenti già patiti nel lungo servizio militare, mentre la luce divina cresceva e la rivelazione celeste andava allargandosi. Né gli mancarono denunce dalle autorità e conseguenti comparse in questura ed in pretura per giustificare e spiegare il movimento evangelico che si andava costituendo; ma questi avvenimenti non lo intimorirono, anzi, preso da una irrefrenabile ansia, cominciò ad annunziare ovunque la salvezza tramite la Pura Grazia del Signore, quasi intimamente sapesse tutto il lavoro che era condensato per lui in un corso così breve di vita! Presto divenne il fulcro della comunità di Caposele sparsa nelle campagne limitrofe e, successivamente, anche delle altre comunità vicine. Per prima cosa notò il vuoto dottrinale nei fedeli che gli capitava d’incontrare, e volle perciò una riunione mensile per tutti quelli che avevano la cura e la responsabilità dei vari gruppi. La prima sede di tale incontro fu a Lioni: erano i tempi dei Comitati per le costituende Assemblee di Dio in Italia ed egli, in armonia con questi, si spinse a visitare e curare, con grande sacrificio, varie comunità dell’Alta Irpinia. Successivamente, non potendo aderire alle costituite Assemblee di Dio, volle restarne fuori, dopo aver doverosamente dichiarato come, a suo sentire, la Chiesa, organismo vivente e dinamico sotto la guida diretta dello Spirito Santo, non è un’organizzazione umana che possa essere sottoposta a statuti; per questo dovette subire l’ostracismo, lo scherno ed il disprezzo da parte dei “figliuoli della madre” Gente di Caposele ieri

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(Cantico dei Cantici 1:6-8). Ebbe, frattanto, rivelazione di un nuovo campo e, consideratolo, si adoperò per l’evangelizzazione prima alle altre contrade di Caposele e poi ad altri centri dell’Alta Irpinia. Fu in questo periodo che si avvicinò al ministero del fr. Giuseppe Petrelli, col quale, sebbene non si conoscesse mai in carne, tenne una corrispondenza. epistolare molto intensa ed ebbe l’occasione di leggere ed assimilare molti scritti di quell’uomo del Dio. Non gli mancarono visite da parte di servi collaboratori del menzionato fr. Petrelli, primo fra tutti il fr. Michele Giorgio e, successivamente, il di lui fratello Pietro che, visitandolo più d’una volta nelle sue venute al paese nativo, lo Introdusse anche nella fratellanza dl Foggia. Fu visitato, in seguito, dal fr. Paolo Verna, dal fr. Angelo Benvenuti, dal fr. Francesco laropoli, dalla sor. Elisabetta Patti, dal fr. Giuseppe Pagano e da altri fratelli a cui egli volentieri apriva la porta ricevendo con rispetto ed umiltà tutto il sano insegnamento che il Signore gli metteva a disposizione per mezzo di loro. Più volte ricevette le visite del fr. Salvatore Garippa, originario di Contursi, anch’egli collaboratore dei fr. Petrelli e proveniente dagli U.S.A., il quale nella sua prima venuta aveva già iniziato una singolare evangelizzazione nel paese nativo. Ed allorché il fr. Albano ebbe modo d’incontrarsi con lui, fu confermato innanzi tutto nel suo personale ministero e fu lieto di prendere cura diretta non solo della nascente comunità di Contursi, ma, con animo sincero e nello spirito di fraterna collaborazione, di iniziare col fr. Garippa anche una proficua evangelizzazione nelle campagne di Oliveto Citra che portò a vedere il campo del Signore allargato per il sorgere di altre comunità sull’una e sull’altra sponda del Sele. Di esse egli ebbe la costante cura spirituale per tutta la sua vita. Nel frattempo stabilì ovunque anziani del posto, i quali prendessero cura dei popolo in sua assenza e, per consentire il loro ammaestramento ed indottrinamento, trasferì a Contursi quel culto mensile già iniziato anni addietro; questo incontro che, in un primo tempo era ristretto ai soli anziani dell’opera, fu successivamente allargato a tutto il popolo, il quale, con la sua massiccia partecipazione, poteva così porre dei quesiti, riceverne delucidazioni e godere nel contempo delle benedizioni nell’insieme per il personale avanzamento. Dovette prendere cura anche di quei fratelli emigrati per lavoro in Lombardia e in Toscana e poi di quelli espatriati nella Svizzera, che mal si adattavano alle maniere verbose della fratellanza di quei posti: sorsero così le comunità di Clivio (Varese), Altopascio (Lucca), ecc... Fu introdotto nella fratellanza di Mesoraca (Catanzaro), sorta a cura del fr. Giovanni Ferrazzo, e nella fratellanza di Timparello di Luzzi (Cosenza), Sorta a cura del fr. Angelo Benvenuti ed, in uno scambio di vedute spirituali, volle visitare il fr. Salvatore Spinella a Giarre (Catania) e la fratellanza sotto la sua cura. Visitò anche la sorella Aida Chauvie a Torre Pellice (Torino), responsabile del periodico “II

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Regno di Dio” su cui scriveva il fr. Petrelli. Giunse, per altre vie misteriose della Provvidenza, a dare man forte, nelle sue brevi ma fruttuose visite, al fr. Lucio Tomasello, che ha tuttora cura della fratellanza di Palermo e circondario e di Termini Imerese, e,successivamente, anche al fr. PietroTomasello in Bagheria. Visitò anche alcune comunità nel Napoletano, nel Materano ed in altri centri ove veniva chiesto aiuto e consiglio sul modo di portare avanti l’opera del Signore. Dopo una così densa attività ministeriale, fece ritorno al Signore che ce l’aveva dato, promosso ad incarico più alto, a ministerio migliore, il 15 settembre 1970, dopo circa un anno di dura infermità. Ci piace riportare quanto fu detto di lui dal fr. Pietro Giorgio, quella volta in cui il fr. Luciano Martino, anch’egli da oltre 17 anni nel “Riposo”, gli chiedeva notizie intorno al fr. Petrelli: “Voi avete qui davanti, nella persona del fr. Albano, un’immagine viva, benché minore, di un tale servo: certo, gli manca la vasta cultura del fr. Petrelli, ma, per il resto, la sua forte personalità è identica nell’esplicare il ministero affidatogli dal Signore “. Ed aggiungeva: “Questo vostro Sele, che ha origine qui, è stato creato dal medesimo Signore che poi vi ha donato il fr. Albano “, quasi a significare che, come queste sorgenti alimentano vari acquedotti e dissetano alcune aride regioni dell’Italia meridionale, così il servizio del fr. Albano avrebbe alimentato vari corsi ministeriali per dissetare, spiritualmente, le contrade della nostra nazione. Il fr. Garippa, da parte sua, si spingeva ben più oltre quando ci incoraggiava col dire che da questa Valle sarebbero sorti, in futuro, ministeri da varcare perfino i confini della nazione e da solcare gli oceani per portare anche all’estero la parola del Signore.

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AMERIGO DEL TUFO di Nicola Conforti

Commemorazione nella sede della Pro Loco

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edico Chirurgo molto apprezzato e amato. Persona di grande prestigio e valore morale, sociale, culturale e professionale. L’intera vita di Amerigo, attesa altresì la Sua eccezionale e singolare intelligenza, fu un susseguirsi di successi in ogni campo: professionale e socio-politico.Un uomo buono, benvoluto da tutti. Rendendomi interprete dei sentimenti dei soci della Pro Loco, con profondo dolore e con grande commozione, mi accingo a rivolgere queste mie parole di estremo saluto ad un uomo che tutta una vita dedicò al miglioramento delle condizioni di vita della nostra popolazione, ad un amico che seppe con il suo senso profondo di umanità dar forza e lustro al suo paese, ad un professionista che con onestà e saggezza seppe onorare la sua terra. Amerigo Del Tufo, nostro indimenticabile amico, con me e pochi altri fondatore della Pro Loco, sostenitore appassionato de “La Sorgente”, ci lascia nella desolazione più completa, nello sconforto più profondo. In questa sala risuona ancora l’eco della sua voce calda e penetrante, si avverte ancora il calore della sua presenza, si percepisce ancora l’atmosfera cordiale e allegra che il suo tono suadente, pacato, scherzoso e bonario sapeva infondere. Ci mancherà per sempre la sua parola di incoraggiamento, il suo esempio di Caposelese modello dedito al suo paese, la figura di cittadino integerrimo, la sicurezza del professionista affermato ed esperto, l’uomo buono. Ci mancherà nelle consuete passeggiate serali, dove con piglio giovanile e con entusiasmo sempre nuovo tracciava idealmente i programmi di ricostruzione del nostro paese, nel rispetto del disegno originario e del significato storico di ogni casa, di ogni piazza, di ogni angolo, di ogni pietra. E in quelle passeggiate alternava a momenti di scoraggiamento e di sgomento per le lentezze della ricostruzione, momenti di autentica esaltazione in cui tutto vedeva più facile, più semplice, più accessibile, purché prevalesse il buonsenso, la volontà, l’attaccamento al Paese, il cambiamento, il rinnovamento. Profondamente legato a Caposele, se ne allontanava di rado, avvertendo il disagio della distanza dalla sua terra e dalla sua gente con cui condivideva ansie, angosce e tormenti. La sua eloquenza era profondamente suggestiva. La sua voce, che pareva addolcita da un rimpianto interiore, incantava e affascinava. Mi ritorna, dolce nella memoria, quella sua parola penetrante, quel suo gesto parco che pareva disegnare il pensiero, quella sua narrazione semplice e chiara, quelle sue citazioni latine sempre nuove e sempre calzanti, i suoi aneddoti, le sue affermazioni di principio. 190

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La sua vita non conobbe pause ‘o soste: si logorò in un costante bisogno di donazione. La sua professionalità, guidata da un intuito particolare, sorretta da una lunga esperienza, sospinta da un’ansia instancabile di alleviare le sofferenze, non si piegava né indietreggiava di fronte alle difficoltà. Ricordiamo Amerigo Del Tufo soprattutto negli anni bui del dopoterremoto, tra i disagi e le sofferenze, pronto ad ogni chiamata, nei casolari più sperduti, nelle baracche più disagiate, accorrere ad ogni chiamata, di giorno, di notte, sempre infaticabile, in ogni direzione, in ogni contrada del nostro territorio, sospinto non da prospettive di guadagno ma da un biso-gno pre¬potente di aiutare il prossimo, di sconfiggere il male, di portare la sua parola di incoraggiamento e di aiuto. Sapeva infondere fiducia negli ammalati, sapeva risollevarli e tranquillizzarli, sapeva sdrammatizzare i casi difficili con semplicità e con spontaneità, sapeva riconciliare l’uomo con la vita. Il suo impegno sociale lo portava spesso in prima linea a lottare, a spingere, a proporre con coraggio la soluzione dei problemi. “Chi vuole realmente il progresso - soleva dire - non deve coprirsi la faccia e recitare preghiere, ma deve affrontare coraggiosamente la realtà e combatterla per trasformarla”. “Absit iniuria verbis” avrebbe aggiunto a questo punto. Sono tanti gli insegnamenti che ha voluto trasmettere a tutti noi in tantissimi anni di amicizia leale e fraterna, in tante occasioni di confronto di posizioni anche diverse in cui consensi e dissensi si esprimevano liberamente al di fuori di schemi prefissati o prefabbricati. La sua vita si è spenta immaturamente e inaspettatamente. Amerigo Del Tufo non risponderà più all’appello delle nostre assemblee. Se n’è andato in silenzio, in umiltà, in armonia con il suo stile di vita. Un’altra luce si è spenta in questo nostro piccolo, amabile e martoriato paese. Un’altra stella è caduta dal firmamento caposelese; “ma anche le buone stelle - dice un vecchio adagio - seguono il cammino degli astri: salgono lentamente nel cielo, splendono per qualche ora e poi tramontano, cosi come è nell’ordine naturale delle cose”. Ma la morte non potrà attenuare o cancellare la comunione di affetti che ha saputo stabilire con gli amici e con quanti lo conobbero e gli vollero bene. Lascia in noi l’esempio della sua modestia, della sua rettitudine, della sua onestà professionale. Addio Amerigo, quelli che oggi piangono la tua immatura scomparsa ti porteranno sempre nel cuore e ti ricorderanno come uno dei figli migliori della nostra terra.

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Gente di Caposele Ricordo di un “Magister Medicinae” di Gerardo Ceres

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ensare a lui durante queste serate invernali è come pensare all’uomo che nelle ore del dolce far niente potevi incontrare per le vie che ambedue amavamo, dove ogni angolo stimolava in lui un racconto ad aneddoti sui personaggi - pochi esclusi! - che hanno scritto la storia del paese che lui amava e del quale (orgogliosamente lo ricordava) fu sindaco, “il primo dopo la proclamazione della Repubblica”. Non conosco, se non appunto attraverso i racconti di coloro che c’erano, quell’epoca di Amerigo Del Tufo, impegnato professionalmente e politicamente nella crescita democratica di Caposele. Di lui conosco invece gli ultimi due anni della sua vita, in cui ho avuto la possibilità di scoprire questo personaggio amato da alcuni e odiato da altri. C’era gente che nei suoi confronti ha usato sempre l’arma della denigrazione, ed io ritengo a torto, anche perché non ho mai badato molto alle voci di alcuni non tanto oscuri detrattori: io incontravo l’uomo angosciato e preoccupato del destino della terra, che riteneva soprattutto gli americani i veri responsabili della corsa al riarmo nucleare e con sguardo amareggiato guardava le Olimpiadi di Los Angeles divenute - secondo lui - una grande kermesse commerciale in cui il fattore sportivo passava in secondo piano. Non posso dimenticare quel giorno di settembre in cui con palese orgoglio mi mostrò una lettera inviatagli dall’Associazione di Amicizia Italia-URSS, e alla fine disse: “prima di morire questo paese straordinario devo visitarlo”. Ancora viva in me poi è l’atmosfera che trovavo entrando nel suo studio dove sinceramente mi sentivo accolto e dove ogni volta lo vedevo offrire un pacchetto di Pack ad un mio amico: insieme poi si parlava di Maradona e del suo Napoli, di malattie stagionali e della situazione politica locale. Passai un giorno di metà dicembre e qualcuno mi disse che trovandosi a Napoli e non sentendosi bene aveva pensato fosse opportuno entrare in ospedale per dei controlli. Mi venne alla mente allora quel viso che nell’ultimo periodo avevo visto lentamente affilarsi e diventare sempre più spigoloso. Pregai sinceramente per lui, forse anche per dimenticare in me stesso la speranza di rivederlo presto. Purtroppo cosi non è stato. L’ho atteso con molta altra gente piangente in una mattinata domenicale carica di pioggia. Eravamo i suoi amici e i suoi pazienti - tutti uniti ad accogliere sulla sua terra la salma di Amerigo Del Tufo per l’estremo congedo. Ora passeggiando la sera per Caposele so con certezza che mancherà a me ed ai miei amici quell’uomo che esprimeva tutta la sua saggezza in famose, ma pur sempre originali, locuzioni latine. Con la tua morte, caro “mièrucu”, Caposele ha perduto un Maestro di vita e di professione, noi - semplicemente - il nostro Magister Medicinae. 192

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Un passato da non dimenicare di Vincenzo Di Masi

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iprendo la trattazione della rubrica “l’Angolo dei Ricordi”, spinto oltre che dal cortese invito dall’amico Nicola Conforti, anche per dare concreto valore a ciò che ritenni di affermare nel mio scritto precedente, ossia che il ricordo del passato costituisce un coerente fattore dell’agire e che senza la memoria di fatti, avvenimenti e persone nulla siamo, restandoci soltanto l’amnesia fnale, la quale cancella non solo la nostra vita intera, ma anche tutto ciò che di più caro appartiene alla storia di ieri e di oggi del nostro amato paese. Il concittadino che mi permetto ricordare e portare all’attenzione delle attuali generazioni, fu persona di grande prestigio e valore morale, sociale, culturale e professionale, che il tempo - sempre inesorabile nel distruggere le cose buone, belle ed importanti - non può assolutamente cancellare nella memoria di coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo. Egli appartiene infatti alla nostra storia, alla storia del nostro paese, insieme con tanti altri personaggi illustri. Il dott. Amerigo Del Tufo, medico-chirurgo, illustre pediatra, apparteneva a una famiglia di esemplare dignità comportamentale e prestigio, così come peraltro erano quasi tutti i caposelesi contemporanei. La madre Concetta, donna religiosa e buona, la sorella di nome Marietta, sposata con Tobia Caprio, avevano dedicato la loro esistenza all’affermazione negli studi di Amerigo, il cui papà, Salvatore, emigrato negli U.S.A., assicurava col suo lavoro, con l’abnegazione ed il sacrifcio, il sostentamento economico e fnanziario della famiglia e, segnatamente, del fglio. Del padre Salvatore ricordo con vivo piacere il ritorno a Caposele, dopo la seconda guerra mondiale, cosa che procurò ad Amerigo, già da tempo laureato, gioia indescrivibile, pur se per breve tempo in quanto la morte colse dopo appena qualche anno l’esistenza del caro genitore. L’intera vita di Amerigo, attesa altresì la Sua eccezionale e singolare intelligenza, fu un susseguirsi di successi in ogni campo: professionale e socio - politico. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale venne eletto alla carica di Sindaco del paese, succedendo in tale impegno, al Geom.Pasquale Ilaria, oppositore integerrimo del Regime Fascista e severissimo amministratore comunale. Fu quello un periodo di grande risveglio cittadino, durante il quale la ricostruzione e le opere pubbliche furono incentivate al massimo, pur nei limiti della modesta ripresa nazionale e col supporto del famoso Piano Marshall (nome preso dal segretario di stato americano G.C. Marshall) rivolto al risanamento economico dei Paesi dell’Europa dopo le distruzioni provocate dalla guerra. Infatti, ebbe luogo tra l’altro proprio in quel tempo la costruzione del campo sportivo, voluto dal Sindaco Del Tufo mediante l’utilizzazione dei c.d. “campo Gente di Caposele ieri

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scuola”, in cui trovavano lavoro, ancorchè per tempo limitato, i numerosi disoccupati e nullatenenti del paese. In merito, giova precisare che prima della realizzazione del detto campo sportivo, il gioco del calcio si praticava sul piazzale della Sanità, attraversato generalmente da asini e muli e da qualche autoveicolo. Ciò determinava una situazione di oggettiva precarietà, poiché il fondo del piazzale all’epoca era acciottolato, talchè l’accidentale caduta del calciatore nel corso della partita poteva provocare lesioni personali, talvolta anche di rilevante gravità. Di ciò il lungimirante Sindaco Del Tufo - che peraltro praticava anch’egli con ammirevole destrezza e capacità il gioco del calcio - si rese conto e, sapendo anche, per essere medico, che la pratica sportiva avrebbe potuto giovare alla salute fsica e morale della gioventù del luogo da poco uscita dai disastrosi effetti di una guerra perduta, si impegnò con ammirevole coraggio e senso di responsabilità personale ad avviare i lavori di spianamento dell’area situata a ridosso del fume, a tutti nota col nome di “lavanghe”. Nel corso della realizzazione di tale opera, accadde però che un imprevisto ed improvviso smottamento di terra seppelliva un operaio, tale Liloia Antonio - grande lavoratore ma anche bevitore senza limite - il quale riportava lesioni mortali. Fu una tragedia di immane proporzione per gli effetti che ne derivarono ma che il Sindaco Del Tufo si trovò ad affrontare da solo, in tal guisa dando prova di ammirevole attaccamento al paese capacità amministrativa, serenità d’animo e spirito di sacrifcio personale anche sotto il proflo economico, onde risolvere gli annosi problemi che di volta in volta si presentavano, taluni molto gravi, come ad esempio quello che riguardava l’assistenza e il risarcimento della famiglia del morto. Ma fare la biografa del dottore Amerigo Del Tufo e citare ciò che Egli con grande umanità e generosità profuse per i suoi concittadini e per la ripresa economica del paese, è sicuramente cosa ardua se non addirittura impossibile, richiedendo tanto tempo, approfondimento della personalità, indagine retrospettiva, capacità di analisi e valutazione di fatti e situazione afferenti la vita dell’interessato; talchè sento di dovere limitare questo mio modesto impegno a quel poco che mi sovviene, tenuto conto anche che, a causa della mia professione, sono stato costretto a vivere lontano dal mio amato paese, al quale mi legano, attualmente, non certamente i beni materiali, che non ho più, ma la memoria del passato, insieme con le cose e le carissime persone che vi sono rimaste e che vi vivono. Di Amerigo, del mio amico e, come si suole dire a Caposele quando si parla delle persone care,“del mio compare” citerò soltanto alcuni aspetti della Sua multiforme e al tempo stesso singolare personalità, lasciando ad altri il compito di evidenziare e descrivere con maggiore effcacia le qualità morali di questo nostro grande concittadino, sviluppandone in scritti più adeguati la Sua biografa. L’amore per la famiglia originaria, ma anche di quella acquisita, per i due fgli Salvatore e Cettina, la Sua deontologia professionale, al pari della Sua fede po194

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litica - sempre coerente e profondamente convinta sin dal tempo della proclamazione della Repubblica e dell’affermazione dello Stato democratico - il Suo sentimento religioso contenuto, mai istrionico od eclatante nella pratica quotidiana, col quale intimamente conviveva, sia nell’operare che nell’agire, costituiscono i caratteri essenziali della Sua condotta di vita, che dev’essere indicata di esempio per le nuove e future generazioni, e molla potente, da cui tutti - ed anch’io, personalmente - dovremmo trarre forza trainante. L’indole quasi sempre allegra, gioviale ed ottimista, che alcune volte si proiettava anche in atteggiamenti faceti, la si vedeva poi quando, con amici di ogni estrazione sociale ed età si intratteneva, spesso al Caffè di Romualdo, per giocare a bigliardo, per bere, ma sempre con moderazione, birra durante il gioco delle carte del cd.“ Padrone e Sotto”ovvero per fare“scherzi”, che destavano l’ilarità dei presenti, in ciò trovando compiacente supporto in Nicola Vetromile, altro caro amico di cui è sempre vivo il ricordo. Ad Americo Del Tufo si deve altresì la realizzazione di un’altra opera pubblica di Caposele, in quel tempo sicuramente straordinaria (infatti,il bilancio e le risorse fnanziarie del Comune erano molto precarie, con scarse entrate e molto indebitamento), ossia la pavimentazione, con mattoni calcarei della piazza principale del paese, allora piazza Plebiscito, oggi piazza Vincenzo Di Masi ( tengo a sottolinearlo ancora una volta, che essa non si chiama “ Vincenzo Masi”, persona che peraltro non è mai nata o vissuta a Caposele), antistante la Chiesa Madre di San Lorenzo, piazza realizzata in economia mediante l’impiego di straordinari e valenti artigiani (scalpellini e muratori del posto), ma interamente fnanziata, appunto, da Vincenzo Di Masi, mio omonimo zio paterno, caposelese di vecchio stampo, emigrato all’inizio del secolo scorso in U.S.A., al quale venne intitolata l’opera, mediante collocazione sul muro, all’altezza dell’attuale studio dei medici Russomanno, dell’epigrafe e busto in basso rilievo, andati distrutti dal terremoto del 1980 e mai più ricostruiti (attualmente, infatti, la piazza, non si sa perché, è senza nome). Questa breve biografa afferente la mitica figura del dott. Amerigo del Tufo sarebbe monca se non facessi accenno al periodo del terremoto del 23 novembre 1980, durante il quale il paese, con la frazione di Materdomini e Santuario omonimo di San Gerardo Maiella, rimase quasi interamente distrutto e la popolazione gravemente decimata dalla violenza del sisma. In tale luttuosa circostanza (se non erro, era Sindaco l’Avv. Antonio Corona, meglio noto come “Tonuccio”) l’intera popolazione, abbandonate le case pericolanti o distrutte, trovò rifugio, in massima parte, nel campo sportivo o nelle campagne circonvicine. Le scosse sismiche, di tale violenza, da far saltare i pennini dei sismograf degli osservatori, vennero percepite in tutta Italia, dalla Sicilia all’Alto Adige, e si ripeterono per circa due ore, una trentina di volte, in particolare in Campania e Basilicata. Fu una terribile frustata - affermarono i sismologi di tutto il mondo - paragonabiGente di Caposele ieri

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le ad un’esplosione di un milione di tonnellate di tritolo ovvero a quella di quindici bombe atomiche del tipo di Hiroshima scoppiate contemporaneamente, a trenta chilometri di profondità. I morti ed i feriti di Caposele e di altri comuni dell’Alta Irpinia non si contarono. In quel gravissimo contesto, la solidarietà umana proveniva da tutte le parti e si manifestò sotto ogni forma e maniera. Tutti cercavano aiuto e di aiutarsi, più di tutti ovviamente il medico Del Tufo, che rimasto miracolosamente illeso, in conseguenza della professione svolta e del fatto che era all’epoca anche medico-condotto e quindi direttamente responsabile della salute dei propri concittadini, sin dai primi istanti successivi al terremoto, con il consueto suo vivissimo senso del dovere, spirito di sacrifcio ed abnegazione, si prodigò per fornire assistenza medica, in ogni luogo ad a favore di tutti coloro che la chiedevano. Caposele oggi è interamente ricostruito, al pari della frazione Materdomini che ha acquistato, anche per merito dei Padri Redentoristi, i caratteri di uno dei centri religiosi più belli ed importanti d’Italia e oserei dire dell’intera Europa. Le famiglie, anche delle borgate rurali, attualmente vivono in case decorose e moderne, dotate di quasi tutti i conforti che la vita giustamente riserva e senza più distinzione di classi sociali. Ma di chi è il merito? Certamente, in gran parte anche di coloro che oggi non sono più presenti in mezzo a noi, che vissero di stenti e sacrifci immani, per la ricostruzione del Paese e per assicurarci agio e piacere di vivere. Ecco perché di essi non ci si deve dimenticare, ma è giusto che siano sempre tenuti presenti nel ricordo di tutti noi! In un’epoca dominata dall’urgenza, dalla fretta, dalla frenesia, dall’attivismo, ma anche dal materialismo più accentuato, è vero, da un canto, che non ci si deve mai fermare, ma è anche fondamentale che si viva nel rispetto dei valori che ci hanno indicati i nostri antenati. Amerigo Del Tufo è stato un uomo che arricchisce ognuno di noi caposele-si, per la Sua straordinaria personalità, che si vestiva senza apparenze di una profonda umanità, capace di fornire, insieme con la vasta capacità professionale di medico , quello di cittadino onesto, forte di tanta idealità e amore verso il prossimo. La Sua presenza in mezzo a noi fu “una benedizione di Dio” che conforta le persone, umanizza le istituzioni, trasforma la cultura e la società.

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FERDINANDO MATTIA di Alfonso Merola Un uomo buono e assennato. Si è occupato di politica e di sindacato con molta discrezione e con molto equilibrio. Amato anche dagli avversari politici, tanto era misurato, attento e rispettoso delle idee e delle posizioni degli altri. Lascia un bel ricordo di persona affabile, paziente e seria.

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’ partito silenziosamente da noi nel perfetto stile che lo ha sempre contraddistinto: egli era maestro di discrezione. Il percorso del suo Calvario gli era ben noto da almeno tre anni, eppure i suoi passi verso un nemico impari non sono stati mai incerti. Io credo che egli abbia lottato strenuamente fino alla fine, senza mai farsi vincere dalla disperazione, insegnandoci che la vita è il più prezioso dei valori che l’Uomo ha a disposizione. Egli non ha sprecato nemmeno un attimo del tempo che gli rimaneva. Egli era fatto così. Nonostante il fardello pesante che si portava addosso, sorretto dall’affetto dei suoi cari, e dei suoi amici, ha dato aneliti al suo cuore e alla sua mente. Egli ha vissuto, così, i suoi ultimi anni, come sempre, spendendoli per gli altri. Ci aveva abituato a vederlo sparire di tanto in tanto per i suoi pellegrinaggi nei santuari ospedalieri della Campania, ma poi, ritornava ricaricato in mezzo a noi al suo lavoro quotidiano. Che forza aveva Ferdinando! Chi non lo ricorda nelle riunioni in sezione, nelle assemblee congressuali, nelle feste de L’Unità o della Pro Loco, dietro una scrivania al Sindacato. Ferdinando assessore o segretario in tempi duri, con la sua pazienza sconfinata, il suo sorriso costante, la sua capacità di risolvere conflitti e le sue arrabbiature che non lasciavano traccia un minuto dopo. Questo era Ferdinando che ci mancherà. Era nato incendiario (per le sue idee inossidabili su una sinistra che non doveva mai colorirsi di un “ rosso relativo”), eppure era costretto in molte circostanze a fare il pompiere. Egli non era stato mai un problema per nessuno: ci risolse molti problemi… Io sono convinto che non ci sia, in un paese inquieto come Caposele, un solo avversario politico che non abbia apprezzato il suo equilibrio e la sua capacità di mediare in situazioni di conflitto e questo patrimonio ci è stato trasferito da lui esemplarmente affinché nessuno si senta depositario di verità assolute. Nella sua scelta di vita non c’era spazio per gli opportunismi politici: egli ha sempre dato e non ha mai nulla ricevuto o preteso. Da lui abbiamo imparato che la Politica è il prodotto di una intelligenza collettiva che non può tradire le attese dei più deboli ai quali bisogna sentirsi uniti in spirito di servizio per una sana convivenza democratica. Di tutto questo dobbiamo essere grati a Ferdinando, assicurando alla sua Elvira, ai suoi Antonio, Nunzia, Gelsomina e Stefania che noi lo continueremo ad amare anche ora che non è più tra noi. Gente di Caposele ieri

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GIUSEPPE MELILLO l’annuncio della morte di Nicola Conforti

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a morte del Sindaco Giuseppe Melillo ha destato in tutti grande commozione e sgomento. Lo ricorderemo per l’amore e la competenza con cui ha svolto la sua missione di medico, per l’attaccamento al suo Paese per il quale ha speso tutte le sue migliori energie per farlo progredire sul piano della crescita civile e morale, ma soprattutto per le sue doti di uomo buono e sensibile, capace di grandi sacrifici, rispettoso delle idee altrui: un uomo di grande cultura e saggezza. I Caposelesi hanno partecipato in massa alle esequie, rendendo così un doveroso e sentito omaggio al Medico, all’Uomo, al Politico.

Un sindaco per amico di Alfonso Sturchio

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i sia consentito, per una volta, di scrivere di fatti assolutamente personali. Una mattina di ventisette anni fa, al mio risveglio, mia madre mi accolse con uno sguardo insolitamente solenne. Non attese molto per dirmi “E’ morto il sindaco” e ricordo ancora adesso la mia reazione insieme di stupore e dispiacere. La notizia inizialmente mi sorprese perchè, nella mia concezione di bambino di otto anni, la figura del sindaco andava al di là del comune essere umano sfiorando quasi l’immortale. Era come se quella carica lo rendesse immune da ogni male e lo obbligasse a conservarsi energico fino alla scadenza del mandato. Inoltre Don Ciccio, come ero abituato a sentirlo chiamare, era l’unico sindaco che avessi mai conosciuto e – sempre nella mia visione di bambino – ero persuaso che quel contesto dovesse durare in eterno. In questo ero ingannato anche dal fatto che gli anni dell’infanzia, al contrario degli anni successivi alla maturità, si avvicendano molto lentamente, ed ogni situazione sembra immodificabile. Ma, come dicevo, ero anche molto dispiaciuto perchè il sindaco era il nonno della mia cara compagna di scuola e del mio amico Franco, con il quale passavo intere giornate sotto casa. Lo immaginavo assai triste in quel momento e ripensavo a quella volta che il sindaco ci fermò mentre bighellonavamo “ammondu” e ci diede cento lire ciascuno. La qual cosa mi sorprese perchè all’epoca, dai grandi per strada, al massimo potevi buscarti una sgridata. Ma per Franco quello era un comportamento del tutto usuale da parte del nonno, che ai miei occhi divenne ancora più simpatico. Dopo quasi trent’anni, purtroppo, si è ripetuta una situazione analoga: la morte 198

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del sindaco. E il segno che il tempo passa, e che i bambini di allora sono gli adulti di oggi, è dato dal fatto che a darmi la notizia, questa volta, è stato mio fratello, e la persona che se ne è andata non era il nonno ma il padre di un mio amico. Questa volta, naturalmente, non ho provato la stessa sensazione di stupore di quando ero bambino, perchè la vita ti porta ad avere molte prove della mortalità dell’uomo, ma non nascondo di avere provato un enorme dolore ed un enorme senso di perdita. Penso che molti abbiano provato ed avvertano tuttora lo stessa sensazione. Perchè il sindaco non era esattamente un uomo comune: per la sua capacità di parlare a tutte le persone indistintamente, di saperle ascoltare, di coinvolgerle e persuaderle senza necessariamente alzare la voce e senza mai parlare di sé, dei suoi successi, della sua popolarità e della stima riconosciuta di medico. Penso proprio che il dottore, per questo ed altro ancora, mancherà a tanti amici, a tanti caposelesi, ed a tanti che, come me, hanno avuto solo pochi anni per conoscerlo davvero. Sono certo che ognuno tra quelli che mi stanno leggendo, avrà memoria di almeno un episodio che lo lega a lui. Io ricordo esattamente il primo giorno che l’ho visto, o almeno, la prima volta che l’ho guardato per davvero. Era la mattina successiva al terremoto e la mia famiglia, come molte altre, aveva trovato riparo nel campo sportivo. Il terreno di gioco era stato invaso dalle automobili dove avevamo trascorso la notte, ma sotto una delle porte, la più vicina all’entrata, si era messo questo giovane medico, su una sedia, che con caparbietà suturava ferite e somministrava bendaggi e cure urgenti. Rimasi a guardarlo per un poco ed ebbi, quindi, il primo segno che, nonostante tutto, la vita continuava, ed ognuno doveva tirare fuori le proprie capacità per far ripartire il paese. Il secondo episodio che mi viene in mente non è molto differente. Quasi dieci anni dopo, una caduta al campo sportivo mi aveva aperto tutto il gomito sinistro ed il buon Cenzo Biondi mi portò sanguinante dal dottore, che all’epoca aveva lo studio in Corso Europa. Senza proferire parola prese ago e filo e, mentre il buon macellaio mi teneva fermo come un agnello, a caldo mi cucì un rattoppo lungo dieci centimetri che, naturalmente, porto tuttora con me. Ma chi non è passato dal suo studio? Per fortuna, i ricordi successivi hanno a che fare con la sua esperienza di sindaco, e sono quelli che maggiormente mi hanno permesso di conoscerlo, di apprezzarlo e di esserne conquistato. Durante il suo secondo anno da sindaco, stavo seguendo una specializzazione a Napoli dove avevo trovato temporanea dimora. Una mattina mi chiama il centralinista del comune e mi invita a recarmi d’urgenza a Caposele perchè avevo avuto la nomina a difensore in un procedimento che aveva tempi molto stretti. Non nascondo di essermene meravigliato perchè l’anno precedente non avevo appoggiato quella amministrazione alle elezioni ma, per un giovane avvocato, quella era una buona opportunità e l’afferrai al volo. Gente di Caposele ieri

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Cominciai a dover salire e scendere più volte le scale del municipio per una firma, un documento, un chiarimento, e tutte le volte ne approfittavo per restare qualche minuto in più nella stanza del sindaco per osservarlo - così come avevo fatto la mattina successiva al terremoto - e studiarlo mentre interagiva con i dipendenti, parlava con gli assessori, risolveva i problemi che quotidianamente si presentavano, strigliava per telefono coloro che intralciavano col burocratese la macchina amministrativa. Una volta mi disse che, dopo il liceo, si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza, ma, mentre scendeva le scale della segreteria se ne era già pentito, aveva stracciato tutto e si era iscritto a medicina. La causa che mi avevano affidato si risolse felicemente per il comune e mi confermarono la fiducia per un secondo procedimento molto delicato. Le mie presenze nella stanza del sindaco si fecero più intense. Devo confessare che, quando mi restava un pò di tempo alla fine della ordinaria mattinata in tribunale, passavo dal sindaco anche solo per salutarlo, commentare i titoli dei giornali che comprava in gran quantità, e soprattutto assorbire quanto più possibile della sua naturale capacità di trattare con le persone. Col tempo ebbi la conferma di quanto avevo supposto sin dalle prime volte che lo avevo frequentato: aveva un coraggio da leone. Un coraggio che non ho mai riscontrato in altri individui che abbiano una qualche responsabilità. Nella vita ti capita di avere a che fare con tante persone le quali hanno il potere di decidere sulla sorte degli altri, sulla loro libertà, sulla loro proprietà, sul loro posto di lavoro, o solo sul rilascio di un misero certificato. Il più delle volte ti rendi conto che nessuno ha il coraggio di fare un passo al di fuori dell’ordinario, nessuno rischia qualcosa di suo per il prossimo, nessuno muove una foglia per aiutarti se ritiene che la cosa sia minimamente azzardata. Il dottore Melillo, invece, aveva coraggio da vendere. Quando riteneva che un’azione, un progetto, una sua idea, andavano a vantaggio della comunità, non c’era verso di fermarlo. Credo che avesse dalla sua parte la convinzione che quando si agisce onestamente, per il bene del paese e dei suoi cittadini, non ci sia nulla da temere. Ma in più aveva la forza che gli derivava dall’essere un bravo medico, sindaco Melillo.

In memoria di Peppino Melillo di Antonio Corona

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o avuto con Peppino Melillo un rapporto durato quaranta anni e vissuto con reciproca intensa e, per lunghi tratti, quasi fraterna assiduità e compartecipazione. Ora, a poche settimane dalla Sua morte,

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alla quale ancora non riesco ad abituarmi, avverto fisicamente la Sua mancanza, quasi un vuoto che non mi permette di ricordarne la figura e l’opera, come merita e come spero avrò occasione di fare. - Nel vuoto si affollano, tutti insieme, i ricordi e gli affetti di una vita intera, a cominciare da quelli familiari e privati che ora si colorano della luce vivida e lontana della giovinezza e che, in questo momento di mestizia, sono certo di sapere affidati, per sempre, alla custodia amorevole di Franca, sua meravigliosa compagna di una vita, ed, insieme a lei, alla memoria dei loro quattro magnifici figli Angela, Nicola, Lorenzo e Marco. - E ritornano pure i ricordi di una forte e coerente passione civile che, a partire dagli anni della prima giovinezza, ha animato un impegno umano, professionale e politico mai interrotto e che ha portato Peppino ad intrecciare le Sua attività di medico ed operatore sanitario, esercitata sempre con profondo senso di umanità e dedizione, con le esperienze più propriamente politiche ed amministrative che lo hanno visto presente sulla scena della vita pubblica di Caposele, con grande vivacità ma anche con compostezza e con la Sua naturale apertura al dialogo, sempre in posizioni di primo piano e negli ultimi sette anni al vertice della Amministrazione Comunale. Era impegnato a dare corpo alle idee ed ai sogni della Sua giovinezza ed a completare, così, la Sua opera di amministratore, già ricca di tante concrete e significative realizzazioni, ma negli ultimi e brevissimi mesi della Sua vita si è manifestato il morbo insidioso ed incurabile che ne ha segnato la fine e del quale è stato pienamente consapevole. Ricordo una luminosa giornata estiva ed una chiesetta posta in alto sulla montagna di Calabritto. Si era appena celebrato il matrimonio religioso di Nicola con Bianca, e nell’accostarmi a Lui e nell’abbracciarlo ho colto sul Suo viso un segno di commozione e di turbamento. Da qualche giorno – mi disse - Gli era stato diagnosticato un tumore ed era già stato programmato il Suo ricovero presso un ospedale specializzato di Torino, ma non era ancora partito per non mancare al matrimonio di Nicola. Era chiaro il perché della Sua commozione che nasceva dalla coscienza della grave insidia che irrompeva, a tradimento, nella Sua vita e veniva a turbare persino quel momento di profonda gioia familiare. Ma non ebbi il tempo di dire qualche parola, in ogni caso insufficiente; fu solo un momento e subito si riprese, come Lui sapeva fare nei momenti difficili. Il seguito è noto e purtroppo assai doloroso ma esso ha dimostrato la volontà ferma di Peppino di combattere fino in fondo la Sua più difficile battaglia, senza arrendersi. Così è stato, e così Lo ricordo, nel Suo attaccamento alla famiglia, sorretto e quasi protetto dalla infaticabile tenacia di Franca, circondato dall’affetto dei suoi ragazzi che sapeva ancora tenere raccolti intorno a sé in una stanza di ospedale come tante volte mi era capitato di osservare all’interno della Sua casa, confortato dalla presenza di Gerardo ed Ernestina, sostenuto dalla testimonianza degli amici ammessi al Suo capezzale e dalla partecipazione discreta e commossa manifestataGli, da lontano, da una intera popolazione. Gente di Caposele ieri

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Lo ricordo così, fino alla fine, con la mestizia del Suo sguardo consapevole che all’improvviso si rianimava, nella discussione, e ritrovava l’umore abituale e l’interesse alla vita. Così anche ha voluto resistere fino alla fine, nel Suo ufficio di Sindaco di Caposele. Ai Suoi assessori e consiglieri, che sempre ne hanno riconosciuto il ruolo, istituzionale ma anche politico e morale, di guida ed animatore delle attività municipali e che con affettuosa partecipazione hanno seguito la Sua vicenda umana, avrebbe potuto certamente chiedere di essere liberato dalla posizione e dai vincoli che Gli derivavano dalla carica ma non lo ha fatto. Non lo ha fatto perché non si è arreso alla Sua malattia e ha voluto testimoniare, fino alla fine, il Suo attaccamento al mandato ricevuto per ben due volte ed in condizioni certamente non facili dal popolo di Caposele. Si può dire perciò, senza retorica, che è morto sulla breccia e che anche nella morte ha manifestato il Suo amore per il proprio paese e per i suoi concittadini. - Della Sua eredità forse è prematuro parlare, ma, come tanti segni del Suo lavoro e della Sua opera resteranno a lungo sul territorio e nel tessuto sociale di Caposele, così il patrimonio delle Sue idee, mai abbandonate o barattate nel volgere delle più generali vicende politiche, sono certo costituirà un punto di riferimento per quanti vorranno partecipare alla vita pubblica del proprio paese con spirito di libertà e di giustizia. Di ciò Gli sono grato e Lo ringrazio pubblicamente.

Carissimo Sindaco di Gerardo Montevede

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occa a me tuo vice, rivolgerti un breve ma affettuosissimo saluto quale portavoce dell’Amministrazione comunale e dei tanti caposelesi qui convenuti. Tutti qui davanti a questa bara che racchiude il tuo corpo, ci sentiamo privati di qualcosa: chi si sente privo del sindaco, chi si sente privo del medico, chi si sente privo dell’amico ed i familiari attoniti si sentono privi del marito, del padre del fratello. E’ questo senso di mancanza improvvisa ci attanaglia togliendoci la verve di fare o pensare qualsiasi cosa. Questa morsa, per me si allenta pensando al quel tuo senso fatalistico che avevi degli avvenimenti che coinvolgono l’uomo: per te solevi ripetere, è tutto scritto se una cosa deve succedere non c’è cosa che possa impedirla. E questo pensiero ti faceva essere positivo in qualsiasi occasione di difficoltà. E oggi anche io seppur con un moto, sopito a forza di ribellione per il destino che così presto ha voluto portarti via dalla tua famiglia carnale e da quella dei caposelesi dico che tutto è nel naturale ordine delle cose.

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Più di sette anni fa insieme iniziammo l’avventura politica che ti ha visto eletto nostro Sindaco per due mandati consecutivi. E devo dire che anche se le nostre strade fino a quel momento non si erano mai incontrate ben presto ci accorgemmo di avere molte cose in comune che furono il cemento per la costruzione della piattaforma amministrativa e dei programmi per lo sviluppo di Caposele. Il tuo altruismo ed il tuo entusiasmo nel credere possibile la realizzazione di progetti che la mia mente più radicata alla razionalità faceva fatica a immaginare mi ha contagiato positivamente più volte, ed alcuni successi amministrativi si sono realizzati grazie a questo. Il nostro progetto ancorato allo sviluppo possibile e sostenibile del territorio si è basato e si basa sulle risorse più importanti del territorio: turismo e ricchezza dell’acqua. Il tutto che crescesse insieme ad una comunità che si sentisse perfettamente ed armoniosamente integrata con la consapevolezza di esseri tutti trattati allo stesso modo sia nei diritti che nei propri doveri. Poteva sembrare utopia all’inizio ma le tante lotte affrontate insieme ci hanno fatto fare un bel pezzo di strada,tale da iniziare a vedere l’obiettivo finale. Sindaco, come adesso ti sento vicino a me ti sentirò presente nei giorni a venire allorquando, insieme agli altri consiglieri, lotterò e farò fatica per percorrere quest’ultimo pezzo di strada che abbiamo individuato e condiviso insieme. Ci lasci un grosso peso, una grossa responsabilità e un grande vuoto ma insieme a te tante vittorie sono state possibili e per te io con gli altri conquisterò tante altre mete per il progresso ed il benessere della nostra comunità tanto amata da te e da noi. Non posso lasciarti senza spendere una parola sull’uomo e sul medico. La tua grande capacità di diagnosticare le malattie abbinata ad un forte senso di adesione al giuramento di Ippocrate hanno fatto sì che hai sempre operato con spirito missionario :la tua ricompensa era nel vedere alleviate le sofferenze dell’ammalato. E di questo siamo testimoni tutti noi caposelesi. Infatti da uomo equilibrato e saggio quale sei stato avevi un rapporto molto distaccato col denaro, non hai mai deciso o operato per denaro. Ti sei sempre alimentato di idee e sentimenti preoccupandoti sempre del bene comune: per te il denaro era solo un mezzo di sostentamento per condurre una vita parca. Tutto questo è stato uno stile di vita che certamente ha avuto le basi nel passaggio degli studi liceali alla Badia di Cava. Il tuo modo di sentire era impregnato dal messaggio evangelico e per quanto non più assiduo praticante non hai smesso di vivere i valori cristiani e del credere. Ti ricordo e mi ricordo di quando nella basilica di S. Gerardo durante una messa io andai a prendere la comunione al ritorno guardandomi mi hai chiesto se anche senza la confessione una persona poteva cibarsi dell’ostia, velando un forte desiderio di farlo; ed io ti risposi sindaco se sei in pace con la tua anima puoi farlo. Gente di Caposele ieri

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La tua risposta fu uno di quei tuoi sorrisi che comunicavano un gioioso grazie Sindaco, in questi ultimi giorni hai scritto le ultime pagine del libro della tua vita intingendo il pennino in quel grosso calamaio che hai riempito nella tua non lunga ma intensa esistenza: quando venivo a renderti visita con grande dignità e mostrando un’altrettanta tranquillità e sicurezza si conversava delle cose politiche e di quelle della vita cercando per ognuna di esse una spiegazione ed una soluzione, come se per te il male che ti consumava non ti appartenesse come se tu avessi scisso dal tuo spirito quel corpo che continuava a deperire. E’ questa una conquista di solo quegli uomini che hanno saputo vivere e che hanno vissuto interrogandosi e cercando continuamente il senso di questa vita terrena. Allorquando ti stringevo la mano per andare via i tuoi occhi che al mio arrivo mi avevano comunicato la tua gioia di incontrarmi di poterti intrattenere un po’ con me, tornavano a comunicarmi con dolcezza e serenità quello che non mi hai mai detto a parole: sono in compagnia di questo terribile male di cui come medico conosco la sua portata devastatrice, è una lotta senza speranza ma lotto per comunicare il mio amore a mia moglie ed ai miei figli che mi vogliono vedere lottare contro questo nemico che ha messo radici nel mio corpo. Che grande lezione di umanità e coraggio hai voluto impartire a me e a quanti ti sono stati vicini, lezioni di vita che senza rumore entrano in noi per trasformarci in uomini che sanno vivere bene ma che sanno altrettanto morire bene, accettando la morte come ultimo atto della vita senza grossi traumi e senza grande rumore avendola riconosciuta come parte integrante della natura delle cose che ci circondano. Sindaco grazie per tutto questo, grazie per l’impegno civile che hai speso per il bene della nostra comunità, grazie per l’amore e la comprensione verso l’altro che accompagnava sempre la tua opera di medico: tutta questa affettuosa ed indimenticabile riconoscenza che ti viene dal popolo di Caposele possa esserti di conforto in questo misterioso viaggio , ma altrettanto pieno di speranza per chi crede, come te e me. Ciao Sindaco Giuseppe Melillo.

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PIETRO PALLANTE di Alfonso Merola

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nche Pietro Pallante, in quest’anno che affastella lutti come legna da ardere, ci ha lasciato prematuramente. La notizia si sparse in un baleno. E’ stato, anche in questo caso, il fiume amico, a lui tanto caro, a prenderselo. Pietro amava veramente il Sele e passava tanto tempo lungo i suoi argini: diventava triste quando guardava le ferite che l’uomo procurava al suo fiume che ormai si nascondeva sotto i ciottoli bianchi per poi respirare in profondità in qualche slargo. Viveva la sua vita di pensionato con la soddisfazione di chi sa di aver fatto il suo dovere in anni di lavoro al Comune. Portava impresso sul volto il sorriso, di quelli che non sono di facciata, e sapeva unirlo alla pazienza del pubblico dipendente che sa d’essere pagato per assicurare risposte cortesi e non invettive ai cittadini. Dedicava le sue mattinate, in genere, coi nipotini che erano il suo orgoglio. Di pomeriggio una visita veloce a Dio Martino e, poi, se il tempo lo permetteva, … a pescare. Pietro non nascondeva le sue idee politiche: era tutto di un pezzo e questo lo rendeva rispettabile agli avversari. La sua è stata sempre una presenza discreta, eppure, mancherà a tanti, soprattutto a quanti hanno imparato da lui che la famiglia, in una comunità, è uno dei beni più preziosi.

MARIA CORONA

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a notte chiara di agosto si è fatta buia quando Tu ci hai lasciato, in un istante, leggera come il tuo respiro. Ritornano ora, non sfumati nella luce abbagliante del giorno, i fatti che hanno intessuto la tela della tua vita, lunga un secolo e ormai racchiusa nel breve spazio della memoria: gli anni lontani e felici della infanzia e della giovinezza; l’afflizione dei tanti colpi subiti, addolcita nella mestizia silente del ricordo; il calore degli affetti tenuti al riparo della cerchia familiare; la dolce carezza di un sorriso. Stenteremo a colmare il tuo vuoto, ma l’esempio che ci hai dato non verrà meno con la tua persona. Sarà di guida, per noi, il tuo amore per la vita, il rispetto del prossimo, l’attaccamento alla famiglia. I tuoi fìgli Nellina, Tonuccio, Gianfranco e Giuseppina nel ricordo anche degli indimenticabili Pinuzzo e Federico. Caposele. 5 agosto 2012 Gente di Caposele ieri

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GERARDO SISTA di Mario Sista

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a notizia mi giunse inaspettata nel cuore della notte. Solo qualche ora prima ero stato ad Oliveto Citra da te, a trovarti: ero stato informato del fatto che le tue condizioni destavano preoccupazione perciò, presa la macchina, mi ero diretto da Sarno alla volta della Valle del Sele. In ospedale trovai tua mamma Pia e le altre mie cugine Donatella e Lucia. Soprattutto trovai te, seduto sul letto, in pigiama, con accanto il tuo compianto nonno, da poco scomparso. Eri affaticato, ma non lasciavi certo trasparire uno stato di prostrazione fisica tale da poter immaginare l’imminente decesso che di lì a poco si sarebbe purtroppo verificato. Rimasi con te più di un’ora. Parlammo di diverse cose: eri una miniera di informazioni sul paese e i suoi abitanti; conoscevi soprannomi e fatti di tanta di quella gente che ascoltarti era un piacere. Ad un certo punto, cambiando bruscamente discorso, ricordo che mi dicesti che eri preparato a tutto, che la mattina ti eri confessato da don Vincenzo Malgieri che, di passaggio per Oliveto, si era fermato all’ospedale; e che se Dio lo voleva, ti sentivi pronto: “Si Dìu mi vòl quà sò, ì sò prontu”, proprio così mi dicesti. Io rimasi colpito da queste tue parole e ti dissi di non pensare affatto a queste cose, ma di pensare a stare bene e a tornare quanto prima a Caposele. Giunto il tempo di ritornare a Sarno in seminario (che proprio in quello stesso anno poi lasciai), ti salutai e mi rimisi in macchina. Mai avrei immaginato che la mattina dopo avrei dovuto rifare la strada per Caposele per portarti il mio ultimo saluto. Ricordo che saputa la notizia la mattina dopo, appena giunto a Materdomini ancora stupito per la tua morte andai alla tomba di San Gerardo per raccomandarti a lui. Fratello Gerardo Savino ‘l’anziano’, in quel momento stava sistemando delle cose all’altare maggiore della Madonnina. Vedendomi scese piano piano i gradini al lato sinistro della tomba di San Gerardo e venendomi incontro mi disse: “Io lo so perché sei venuto qui per Gerardo ho saputo che è morto”. Io annuii. Lui proseguì: “Non temere per lui perché gli hanno preparato un bel posto...” e alzata leggermente una mano indicò il cielo. Poi voltatosi tornò alle sue cose. Caro Gerardo fratel Gerardo buonanima aveva ragione: se i Santi non hanno preparato per te un bel posto lassù in Cielo, beh, allora non so proprio a chi potrebbero farlo... Ti ricordi quando, piccolino, a Temete e a Ponte Sele durante i lavori dei campi, dovevamo guardarti a vista, sempre pronto com’eri a combinare qualche scungiértu? E quando poi arrivò tua sorella Maria, com’eri contento!, ma soprattutto

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che complicità poi nel mettere in atto i vostri giochi e le vostre puerili malefatte. Ricordo i rimproveri di mamma e di nonna Nicolina, ma anche i loro teneri abbracci e baci da te così profondamente ricambiati. “Fratellini, fratellini!”, così chiamavi me, i miei due altri gemelli Gerardo e Raffaele e mio fratello maggiore Angelo. E veramente ci sentivamo tali. Che anni, ricchi di lavoro e di spensieratezza, che bei momenti, specie quelli trascorsi a Pasano. Poi la vita giustamente ci ha portato a dividerci: tu sei cresciuto, io sono andato via dal paese. Ma non mancavamo mai di salutarci. Quelle poche volte in cui ci incontravamo per le strade di Caposele rimanevo colpito dal fatto che tutti ti salutavano. Eri popolare e benvoluto da tutti. Ma qual era il tuo segreto? Semplice: il buon cuore che tenevi. Quel cuore malato che alla giovane età di venticinque anni non ce l’ha fatta più a far pulsare la vita nelle tue vene, ebbene proprio quel cuore era capace di voler bene tutti. Ti sentivi libero di amare, senza barriere sociali o quella discrezione troppo umana che spesso soffoca un saluto o un gesto di bene. La tua libertà ti portava ad entrare nelle case delle signore per fare due chiacchiere o semplicemente per andare a trovarle; ti portava a unirti alla compagnia dei tuoi amici, magari per partire, spensierato, alla volta della Calabria per dieci giorni (dopo aver istruito tua sorella circa il silenzio e la segretezza della cosa) senza avvertire tua mamma se non quando eri già lì, e lei non poteva far altro che rassegnarsi ed aspettare, ansiosa, il tuo ritorno. Eri talmente libero da riuscire addirittura a recitare in un film di importanza nazionale (E dopo cadde la neve...) ed io ancora adesso non so come cavolo sei riuscito ad entrare su un set cinematografico, privilegio unico concesso dal destino solo a te, qui a Caposele: ma tu eri così, stupivi e basta, nella tua spontaneità, nella tua semplicità. Soprattutto, ricordo la tua premura nel visitare le persone anziane o ammalate. La tua attenzione, poi, per chi partiva per l’ultimo viaggio da questa vita era encomiabile: chissà se immaginavi che di lì a poco anche tu avresti spiccato il volo per il Cielo... Te ne sei andato nel sonno. Avevi paura della morte, come tutti in questo mondo, e non volevi affrontarla di petto. Ti è stato concesso ciò che desideravi: prima ti sei addormentato e poi sei volato via. Anche questo mi fa riflettere... Hai lasciato un grande vuoto nel cuore di noi caposelesi. Manca la tua giovialità per le strade del paese, la tua ammuìna, il tuo essere... poeta, proprio come nel film! Il giorno in cui dalla porta della chiesetta della Sanità tua mamma ti diede, in un dolore straziante, l’ultimo saluto, piangevamo tutti. Anche il cielo. Pioveva infatti a dirotto e, nonostante questo, c’era una folla enorme che era venuta per salutarti l’ultima volta. Permettimi di firmare questo mio articolo in tua memoria non solo con il mio nome, ma anche con quello di tutta la gente di Caposele, che ti ha amato e ti ha stimato, come tu l’hai amata e voluta bene. Sono sicuro che nessuno si lamenGente di Caposele ieri

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terà di questo mio azzardo, e se anche ci dovesse essere qualcuno che volesse dissentire, beh, credo che lo farebbe per un unico motivo: semplicemente perché non ti ha conosciuto. Concludo facendo mie le parole di Sant’Agostino: “Signore, non ti chiediamo perché ce l’hai tolto, ma ti ringraziamo perché ce l’hai donato...”. Ci mancherai, caro ed indimenticabile Gerardo...

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ostra Madre ci ha insegnato che: - saper amare è uno dei doni più belli della vita - l’umiltà, unita ad una bella intelligenza, disarma la cattiveria popolare...ma per combattere le grandi cattiverie occorre ben altro: - l’esibizionismo e la prepotenza caratterizzano le persone illuse di essere dei vincenti; - l’ingratitudine è una forma di debolezza e mediocrità (anche quella di alcune figure più rappresentative delle scuole per cui ha lavorato, umanamente assenti in questo triste evento); - un amico fedele vale più di diecimila parenti; - costruirsi senza compromessi, ma con il coraggio di vivere onestamente, permette di afferrare il vero senso della vita... e coloro che non sono in grado di farlo saranno sempre pronti ad esprimere giudizi gratuiti e negativi, perché pervasi dall’ invidia, dal bigottismo e dal falso moralismo; - gli errori umani si pagano con la sofferenza, ma sono rimediabili se si gode di buona salute mentale, di pazienza e di tempo; - la morte è vita e le belle parole solo dopo la morte non servono a nulla Ringraziamo la partecipazione di tutti al nostro dolore, ma ringraziamo di vero cuore solo coloro che le hanno voluto veramente bene in vita... Con la speranza, Cara Mamma, che anche ora ci sarai da guida nel contesto ipocrita in cui hai vissuto e per il quale noi figli Ti chiediamo scusa in nome della Tua autenticità e delle persone come Te! Grazie per i Tuoi SORRISI che per noi non si sono mai spenti... Giovanni, Carmela e Gerardo

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VINCENZO CARUSO Cittadino Onorario di Caposele di Francesco Caprio Vincenzo Caruso, cittadino onorario di Caposele, uomo politico di fede socialista, Sindaco di Trani, avvocato giunto nella stima generale alla “Toga d’oro”, era amato stimato per la sua generosità e per il suo impegno nel campo politico e sociale. E’ stato determinante nella risoluzione dei problemi relativi ai rapporti con l’Acquedotto Pugliese.

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’avvocato Vincenzo Caruso, avendo conosciuto nei minimi particolari la grandiosità e l’importanza dell’Acquedotto pugliese - opera di cui il mondo non ricorda l’eguale - ha voluto onorare con sentimenti filiali la « generosa» Caposele, come il Santuario delle Acque, che scorrono verso la Puglia non più sitibonda. Le sue espressioni hanno un alto valore morale, che commuovono noi di Caposele e tutta l’Irpinia per il riconoscimento più genuino che proviene da questo Compendiario, frutto di una vasta e tenace esperienza. Nella mia lunga attività amministrativa al servizio di questa ridente cittadina ho vissuto anni di ansia e di trepidazione per le acque perennemente in viaggio dalle sorgenti Madonna della Sanità nella più schietta consapevo lezza che i sacrifici di Caposele valevano per la gioia e per il progresso delle città e contrade pugliesi. Oggi il «Compendiario sugli Acquedotti pugliesi e lucani» si presenta come un’opera ricca di notizie e di dati, che dovrebbe essere conosciuta da tutti, specialmente dalle popolazioni beneficiate, affinché si possano rendere conto delle ragioni e delle cause antiche e recenti che hanno consentito il loro attuale stato di benessere sociale ed economico. Nel lontano marzo 1905 la transazione tra il Comune di Caposele e lo Stato sulla demanialità delle acque di «Madonna della Sanità» fu l’avvio più propiziatorio, nel maggio 1970 la convenzione sui buoni rapporti tra il Comune di Caposele e l’Ente Autonomo per l’Acquedotto Pugliese ha cementato una realtà di bisogni primari da non mai sottovalutare, e perciò noi riconosciamo a questo Compendiario finalità sociali, che travalicano i confini delle nostre Regioni - Campania, Basilicata e Puglia - nei primordiali problemi degli Acquedotti

Il multiforme ingegno di Vincenzo Caruso di Domenico Di Palo

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ra che anch’egli, all’età di 84 anni, se n’e andato, non è facile ricordare la multiforme attività di Vincenzo Caruso e, per il grande impegno da lui profuso in ciascuna di queste attività, per la generosità la serietà che l’hanno sempre caratterizzato, mi sembra davvero di fargli torto se di esse se ne trascura una sola: Avvocato del Foro di Trani giunto, nella stima generale, alla “Toga d’oro”; uomo Gente di Caposele ieri

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politico di coerente fede socialista fin dall’età giovanile; consigliere comunale eletto ininterrottamente dal 1952 al 1990; assessore, in diversi turni amministrativi, alla Polizia urbana ed Annona, alle finanze e al Bilancio, ai Lavori Pubblici e all’Urbanistica; presidente dell’Assemblea generale della USL BA4 dal 1982 al 1984, sindaco della città dal 7 agosto del 1985 al 22 novembre del 1986; componente, per molti anni e per nomina del Ministero dei Lavori pubblici, del Consiglio di amministrazione dell’Acquedotto pugliese, un ente nel quale maturò un’esperienza così ricca che gli valse, insieme alla pubblicazione di un voluminoso Compendiarlo degli Acquedotti pugliesi e lucani e un più recente lavoro su Acquedotto Pugliese. L’illusorio assalto alla realtà idrica ultrasecolare del Mezzogiorno, la ferma convinzione della ricchezza delle risorse idriche del Sud Italia e, nel 1970, “per l’azione e l’opera da lui svolta tenacemente a favore dell’affermazione dei diritti civili e morali del Comune”, la stessa cittadinanza onoraria di Caposele. E, infine, appassionato studioso di storia locale, un’attività, questa, intrapresa quasi a coronamento del suo lungo e operoso dialogo con la città natale, e che si tradusse nella pubblicazione di una ponderosa opera in tre volumi e sei tomi, “Meridione Puglia Trani nella storia universale”, nella quale le vicende di Trani e della Puglia vengono collocate nel più vasto contesto degli avvenimenti mondiali; de Il Castello di Trani, bene demaniale comunale; e La Repubblica Napoletana del 1799 docet, un lavoro, quest’ultimo, già annunciato in corso di stampa ma purtroppo tuttora inedito. A me, che ai tempi di Singola/plurale ebbi l’onore della sua preziosa collaborazione, piace naturalmente ricordare anche i suoi numerosi interventi sul mio giornale, ma fu la sua calda e schietta umanità che, insieme alla sua profonda conoscenza dei problemi cittadini, me lo resero alfine non solo punto di riferimento nella conduzione di una vita amministrativa coerentemente tesa al progresso di Trani e al benessere di tutti, ma simpatico e amico sincero. Per questo, ancora oggi, mi resta scolpita nella mente l’immagine di lui che, nel grigiore di certe sedute consiliari, parlava, parlava, argomentava con cognizione di causa le sue proposte; si accendeva d’entusiasmo nei suoi suggerimenti e che, di tanto in tanto, con una delle sue classiche impennate, apostrofando con ironia quei consiglieri comunali che, inconsapevoli del loro ruolo. mostravano indifferenza al dibattito in corso, rinfacciava ad essi l’indegnità del comportamento.

RICORDO DELL’AVV. CARUSO di Nino Chiaravallo

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oche parole per ricordare il compianto avvocato Vincenzo Caruso, che ho avuto modo di conoscere personalmente. Toga d’oro del Foro di Trani, ove era nato il 7 agosto 1922, uomo di grande spessore culturale, persona schietta e coraggiosa, di squisita gentilezza ed impa-

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gabile ospitalità, era legato al nostro paese da un profondo affetto. Il suo attaccamento era di antica data. Aveva conosciuto Caposele perché era stato componente, per nomina del ministro dei Lavori Pubblici, del Consiglio di Amministrazione dell’Acquedotto Pugliese. E durante l’espletamento di tale incarico, nel 1970, fu insignito della cittadinanza onoraria di Caposele per “l’azione e l’opera da lui tenacemente svolta per l’affermazione dei diritti civili e morali di Caposele nei confronti dell’Acquedotto Pugliese e di tutta la Regione Puglia dissetata dalle acque del Sele”. Da allora il suo legame con il nostro paese si è andato consolidando e nel corso del tempo si è trasformato in affetto sincero verso persone e luoghi. Da quando i suoi impegni professionali erano diventati meno pressanti, aveva preso l’abitudine di trascorrere ogni anno alcuni giorni qui a Caposele, solitamente in estate, portando con sé i nipotini, cui evidentemente intendeva trasmettere il suo attaccamento. Vi è tornato per l’ultima volta lo scorso anno, poco prima della sua morte avvenuta il 16 agosto, quando il suo fisico era vistosamente segnato da una inguaribile malattia, dando prova, oltre che del suo fortissimo legame per il nostro paese, di grande vitalità e di una non comune forza di volontà. E’ stato in quella occasione che l’avvocato Caruso ha donato due copie della sua “Storia del meridione” al nostro Istituto Comprensivo, una destinata alla biblioteca della scuola, l’altra da consegnare all’alunno più meritevole. Egli ha scritto altre opere tra cui un Compendiario sugli Acquedotti Pugliesi e Lucani, ma certamente “Meridione, Puglia, Trani nella storia universale”, è quella che lo inorgogliva di più. Pubblicata nel 1999, dopo 14 anni di studi e di ricerche, fu presentata presso l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici di Napoli, con la partecipazione del prof. De Martino, cui era stato molto legato durante gli anni del suo impegno politico che lo aveva portato a ricoprire la carica, per circa 40 anni, di consigliere comunale a Trani, oltre a quella di assessore e Sindaco dello stesso Comune, nonché di presidente dell’assemblea della ASL di Bari. Oggi, nel ricordare l’avvocato Caruso, lo ringrazio a nome di tutti del suo pensiero per la nostra comunità scolastica e v’invito a salutarlo con un caloroso applauso.

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CELESTINO CIFRODELLI di Raffaele Russomanno

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aro Celestino, non riesco a pensare a te se non in termini presenti, perché sento viva la tua presenza in mezzo a tutti noi. Sono tra coloro che hanno avuto il piacere di esserti stato amico crescendo insieme, ma sono anche fra i molti che ti hanno conosciuto ed apprezzato professionalmente. Essere qui a scriverti mi riempie di rabbia, rabbia contro un destino che ti ha strappato non solo ai tuoi affetti più cari ma anche a tutti noi, ad un’intera comunità, perché tu sei una di quelle persone che hanno sempre dato molto per il proprio paese, ed il merito più grande è che lo hai fatto senza clamori, senza mostrarti, con estrema disponibilità ed educazione verso tutti, accompagnando sempre ogni tuo gesto con un sorriso. Oggi posso scriverti al presente perché tutto ciò che tu hai rappresentato lo ritrovo nei tuoi figli. Vederli mi riporta alla mente la nostra infanzia e la nostra gioventù, entrambi periodi felici della nostra vita, quando il dolore non aveva ancora scavato solchi profondi nei nostri cuori. Da padre posso solo dire che puoi essere orgoglioso di come sono cresciuti i tuoi figli, perché ti rassomigliano, e per un padre non c’è gioia più grande. Tutto ciò che noi facciamo, ogni nostro sforzo è proteso verso di loro, alla loro crescita sia fisica che morale, ed io credo che tu ci sia riuscito pienamente. Certo nulla potrà mai compensare l’enorme vuoto lasciato dal loro papà, in particolare per la piccola Michela. Non si è mai grandi abbastanza per fare a meno di un genitore, ma essi sanno che il tuo amore per loro non verrà mai meno, perché lo portano impresso, come un marchio incandescente, nei loro cuori, esattamente come tua moglie sa di non essere sola, perché l’amore e l’affetto che tu hai nutrito per lei non verranno mai meno, perché solo su sentimenti puri e granitici si edificano famiglie come la tua, famiglie che stanno a ricordare a tutti noi il concetto di amore. Ho incontrato tuo padre e nel suo sguardo vi ho letto tutto il dolore di un padre che ha la sventura di sopravvivere al proprio figlio, dolore portato con compostezza e dignità, quella dignità che è propria dei nostri anziani. Infine voglio dirti che il ricordo che noi tutti abbiamo di te è un ricordo forte, un ricordo che non svanirà, che non si affievolirà col tempo, perché vivo e ben radicato in noi, ma anche perché una comunità ha il dovere di ricordare chi l’ha amata e tu l’hai amata. Ciao Celestino.

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GIOVANNI DAMIANO Agosto 2010 muore Giovanni Damiano Il Ricordo di Alfonso Merola

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iovanni Damiano si è spento all’età di 90 anni, nel mese di agosto: è un altro pezzo di storia locale che se n’è andato. Chi ha avuto modo di conoscerlo da guardia municipale prima e da comandante dei vigili urbani dopo, non può non convenire sullo spiccato senso del dovere e dell’attaccamento al servizio che lo contraddistingueva. Abbiamo sicuramente sbagliato a percepirlo come esagerato nell’adempimento del suo ufficio, ma ai suoi tempi il valore di un impiego pubblico e la riconoscenza verso le istituzioni non erano un dettaglio banale. Essere dipendente, ad esempio, di un comune che doveva farsi in quattro per far quadrare i conti dell’Ente, caricava di una più robusta responsabilità e Giovanni era in linea con quella tendenza d’epoca. Con Giovanni Damiano, in effetti, non si parlava mai di turnazioni, ferie e congedi, straordinari e riposi festivi, di progetto obiettivo e nemmeno di contratti ed indennità aggiuntive. Giovanni era interessato solo ad un lavoro funzionale all’aspettative di un Comune che amministra per il tramite di regolamenti che “se vogliono veramente regolare” devono essere osservati. Eccolo, allora, attento alla circolazione delle auto, al loro corretto parcheggio, ai bambini che sfrecciavano come bolidi sulle biciclette o trasformavano ogni angolo del paese in campo di calcetto … Egli era anche puntigliosamente attento alla pulizia del paese: ne sentivano il fiatone i netturbini, i commercianti “indisciplinati”, i proprietari di stalle in area urbana, qualche massaia che faceva uso “estemporaneo” dei fontanini pubblici e dei lavatoi. Te lo trovavi dovunque a proteggere il patrimonio comunale, sul municipio ad organizzare la giornata con sindaci e segretari comunali, a vigilare dentro e fuori gli edifici scolastici ad accompagnare con la macchina gli amministratori ad Avellino. Il suo rapporto fu eccezionale con un Sindaco altrettanto eccezionale, Don Ciccio Caprio, ma quelli che lo seguirono non ebbero mai a lamentarsi. Sapeva trovare anche il tempo per la sua famiglia che educò anch’essa al senso del dovere. Era orgoglioso del suo Gerardo, dipendente EAAP, del suo Eliseo che aveva fatto carriera senza sgomitare nella giungla della burocrazia italiana. Quando andò in pensione, preferì ritirarsi, come un Coriolano, nella sua casa di campagna, lontano dai frastuoni, accanto a sua moglie e suo figlio Giuseppe, con cui condivise pazientemente la sofferenza propria di una malattia perniciosa, di quelle che costringono un giovane a riformulare il senso ed il percorso della vita. Gente di Caposele ieri

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Era molto legato a Salvatore, Davide, Rocchino e alle sue figlie Beniamina e Sanità. Io mi sentivo legato a Giovanni, non solo e non tanto per la fattiva collaborazione datami quando ero sindaco, ma anche perché in lui intravvedevo anche la figura del mio “leggendario” nonno, guardia campestre, di cui di tanto in tanto sento ancora parlare. Gente di altri tempi, le cui storie umili sono degne d’essere ricordate perché se ne sente nostalgia in giorni in cui sembra che in tanti abbiamo smarrito il valore della missione civica.

PINUCCIO SPATOLA Consigliere Provinciale da La Sorgente n. 29

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aro Pinuccio, sei immaturamente scomparso lasciando in noi sgomento e sconforto. Ti ricorderemo per la linearità politica e morale, per la correttezza dei tuoi comportamenti. Eri un uomo buono e generoso, sempre pronto a trovare il giusto equilibrio nelle tormentate e difficili vicende politiche del nostro paese. Ci mancherà anche il tuo equilibrio: hai lottato per l’unità e la concordia: ed è l’ultimo insegnamento che hai lasciato a tutti noi. Addio. Nicola Conforti Caposele, 30.05.84

Lettera postuma a Pinuccio Spatola di Michele Ceres

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aro Pinuccio, sono ormai ventiquattro anni che non ci sei più. Molto è cambiato in quest’arco di tempo, ma non sempre le cose sono mutate per il meglio. Certo vi è stato un generale progresso tecnologico che ha permesso alla gente di utilizzare strumenti utili nella vita di ogni giorno, impensabili quando ancora eri in vita. Tramite, per esempio, un minuscolo telefono tascabile, che noi chiamiamo cellulare, siamo in grado di comunicare con altri in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo; tramite quello strumento che ancora giovani chiamavano calcolatore oppure cervello elettronico e che oggi viene detto più semplicemente computer, da tavolo o portatile, siamo in grado di fare operazioni di scrittura, calcolo, grafica etc. inimmaginabili ancora negli anni Ottanta, quando ci hai lasciato. Sono sicuro che sapere queste cose ti farà piacere, ma sono anche certo che 214

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sarà angosciante per te sapere che in questi 24 anni, dal punto di vista politico e sociale, le condizioni generali non sono migliorate granché. Anzi! La Democrazia Cristiana, in cui con tanto orgoglio mostravi di militare, il Partito Socialista e tanti altri partiti ormai non esistono più da circa 15 anni, spazzati via da un’ondata di processi giudiziari per corruzione e concussione. Non esiste più nemmeno il vecchio Partito Comunista, messo in crisi, a sua volta, dal crollo del comunismo in campo internazionale, anche se suoi importanti rappresentanti occupano alte cariche istituzionali, sebbene siano stati espressione di idee politiche condannate dalla storia. Lo scenario politico è, oggi, dominato da nuove formazioni partitiche che, quantunque nuove, hanno molto da invidiare ai partiti del tuo tempo. La società è, oggi, dominata da un materialismo ed un relativismo pervasivi, che sono sicuro avresti combattuto con la passione che ha caratterizzato la tua breve esistenza e che ti animava anche da ragazzo. Eravamo ragazzi quando nel 1953 con tuo fratello Giannino e Salvatore Caprio fummo messi in collegio a Campagna per frequentare la scuola media e, quindi, per continuare negli studi fino al conseguimento di un titolo di studio superiore. Provenivamo tutti dalla stessa quinta elementare. Una classe costituita da poco più di venti 20 alunni, dei quali in circa dieci sostenemmo gli esami di ammissione alla scuola media, grazie all’ottimo maestro Donato D’Auria al quale debbo molto. Si trattava di una rivoluzione sociale vera e propria. Per la prima volta un gruppo nutrito di ragazzi, figli di artigiani e di piccoli commercianti, veniva in massa avviato agli studi. Del periodo in cui siamo stati in collegio a Campagna ricordo che, sebbene talvolta entravamo in competizione per motivi futili, propri dell’età, sempre dimostravi di essere un vero amico non solo verso di me, ma verso tutti. Oggi, del gruppo dei quattro sono rimasto solo: anche Giannino e Salvatore non ci sono più. Ma probabilmente questo già lo sai, forse tutti e tre state assieme e talvolta volgete lo sguardo su di noi ancora in vita. Dopo Campagna ci siamo divisi per un anno o due, ma presto ci siamo ritrovati a frequentare la stessa scuola a Napoli. E, a Napoli abbiamo vissuto un periodo ricco di esperienze, maturate nell’ambito di un progresso economico che era tanto manifesto che quasi lo si poteva toccare concretamente con le mani. Erano gli anni del boom economico che proiettarono l’Italia nel concerto dei paesi più ricchi del mondo, nonostante le disparità geopolitiche con cui tale progresso fu realizzato. Conseguito il diploma, la ricerca del posto di lavoro non durò a lungo per entrambi ed iniziò, per te un po’ prima, il percorso politico, nell’ambito della Democrazia Cristiana. Alle elezioni amministrative del 1964 fosti candidato con la lista capeggiata da Gerardino Malanga in contrapposizione all’altra guidata Ciccio Caprio, che era destinato a reggere le sorti del Comune per un quindicennio, cioè fino alla sua morte. Gente di Caposele ieri

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Perdemmo le elezioni, ma l’esperienza che maturasti ti servì per dare un senso e un obiettivo alla tua attività politica. Il senso era costituito dalla vicinanza ai problemi della gente; l’obiettivo era rappresentato dalla possibilità di dare un carattere politico all’amministrazione comunale, che si era sempre mantenuto nei limiti di un civismo la cui efficacia non oltrepassava i limiti territoriali del Comune. Per perseguire queste finalità le istituzioni e le sedi politiche della provincia erano quasi diventati la tua nuova casa. Memorabili furono anche le battaglie che conducemmo all’interno della sezione della DC per scalzare una granitica maggioranza che si riconosceva nelle posizioni dell’on. Fiorentino Sullo. Ci riuscimmo nel congresso del 1967. Fosti, quindi, segretario di sezione per un anno, poi io presi il tuo posto, perché tu fosti nominato segretario di zona. Non è questa la sede opportuna per una ricostruzione storica delle vicende politiche che ci videro coinvolti in prima persona. Tuttavia, non posso non ricordare le tue candidature al Consiglio Provinciale: la prima finita non bene nel 1974, la seconda nel 1980 la quale, anche se non seguita dall’elezione immediata al parlamentino provinciale, costituì un grande successo poiché, in un collegio vietato per un candidato DC, più voti di quanti ne prendesti era quasi impossibile prenderne. Ed infatti, risultasti il primo dei non eletti, ma ben presto fosti chiamato alla carica di consigliere provinciale. Poi venne il terremoto. Una sera, di fronte allo scenario surreale e spettrale delle macerie, promettemmo di intensificare la nostra attività politica per contribuire positivamente alla ricostruzione del nostro paese. Seguirono incontri e colloqui con autorità appartenenti a tutti i livelli istituzionali per sollecitare la realizzazione di interventi tendenti a promuovere lo sviluppo della martoriata Caposele. Se in vita, oggi saresti stato un gigante in un contesto dominato dalla mediocrità e dal nanismo politico. Traguardi prestigiosi ti stavano, infatti, aspettando, che ti avrebbero consentito di privilegiare in modo significativo la nostra Comunità a cui eri tanto affezionato, ma la morte, inaspettata, ti colse in quella triste alba del 30 maggio 1984.

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GERARDO MONTEVERDE Nato a Caposele, laureato in ingegneria Elettronica presso l’Università degli studi di Napoli. Partecipa come volontario in Senegal ad un programma di missione per Comunità Promozione e Sviluppo dal 1979 al 1981. Insegnante di elettronica in diversi Istituti Professionali. Assessore, Vice Sindaco, Sindaco pro tempore e Consigliere di minoranza (1999-2010). Coautore del libro “Fantasticando alle Sorgenti del Sele” (2006). Autore di una ricerca storica “Le Sorgenti del Sele e il suo acquedotto”. Autore di “Semplici pensieri di un uomo in cerca di Dio”. Autore di “Terra di Caposele” libro stampato postumo. IL VANVITELLI RENDE OMAGGIO AL PROF. GERARDO MONTEVERDE di Catia Multari

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n un’atmosfera densa di commozione sincera e silenziosa si è svolta sabato 21 gennaio 2012 alle ore 10 presso la sede IPSIA di Via Torino a Lioni la cerimonia commemorativa a ricordo del Prof. Gerardo Monteverde, nel trigesimo della sua prematura e dolorosa scomparsa. L’intera Comunità Scolastica del Vanvitelli, su proposta del Consiglio di Istituto, ha voluto dedicargli a perenne memoria l’intitolazione del Laboratorio di Elettronica dove il prof. Ing. Monteverde ha svolto, con competenza, passione ed assoluta discrezione, la sua apprezzata attività per circa un ventennio. Presenti alla celebrazione la moglie Maria, i figli, il fratello Ing. Raffaele Monteverde, anch’egli docente dell’IPSIA, alcuni familiari più stretti, Monsignor Tarcisio Gambalonga, il Dirigente Scolastico del Vanvitelli, Prof. Vincenzo Lucido, la Collaboratrice del Dirigente, Professoressa Nicla Popoli, il Presidente del Consiglio di Istituto, Sig. Emilio Cozzolino, molti docenti dei vari plessi e tutti gli alunni dell’IPSIA. Dopo la benedizione di Don Tarcisio, la Sig.ra Monteverde ha scoperto la targa all’ingresso del laboratorio di elettronica dove suo marito era solito far esercitare gli alunni e che ora porterà il suo nome. Il Dirigente, Prof. Lucido, visibilmente commosso, ha speso parole sentite di riconoscimento umano e professionale per il Prof. Monteverde, descrivendolo così: - “una persona discreta, mite, dal sorriso appena abbozzato, dai toni sempre garbati, rispettosa nei confronti di tutti, capace come poche di ascoltare l’interlocutore, seria e allo stesso tempo vicina alle esigenze formative dei ragazzi, i suoi tanti alunni. In un mondo così devoto all’apparire, lui aveva scelto invece di essere. Semplicemente.” E proprio alcuni dei “suoi” ragazzi hanno voluto, a nome di tutti, Gente di Caposele ieri

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leggere pensieri e ricordi a testimonianza del rammarico per aver perso il loro “maestro” così presto: Se insegnare è lasciare il segno, tu hai lasciato un segno in tutti noi. Grazie Professore” hanno concluso, emozionati. La famiglia ha voluto condividere con la scuola un aspetto molto personale, che pochi conoscevano: la sua profonda fede cristiana, che lo ha guidato con serenità nel lungo e difficile percorso della malattia e che lo ha spinto a scrivere brevi preghiere, pensieri, riflessioni, raccolte ora insieme e intitolate Semplici Pensieri di un uomo in cerca di Dio. E’ stato uno dei suoi colleghi di sempre dell’IPSIA, il Prof. Di Popolo, con voce rotta, a leggerne uno: Fermati, nel silenzio ascolta la voce dell’eternità. Non farti sballottare dal vento ingannevole dell’apparenza. A concludere la commossa e partecipata cerimonia, il Preside, Prof. Lucido, che ha ringraziato la famiglia, sottolineando che il testamento spirituale che Gerardo Monteverde ha lasciato a tutti quelli che lo hanno incontrato nel loro percorso di vita resterà sempre nella scuola attraverso la testimonianza del suo valore umano e pedagogico. Tra i suoi scritti, molti i passi veramente toccanti e che ne tracciano un profilo di grande rilievo: Il mio inverno m’imprigiona la freschezza dei sentimenti gli slanci d’amore sono là li vedo ma non riesco più a raggiungerli Prego, incessantemente, il Signore di concedermi un altro giorno di primavera.

Gerardo Monteverde: uomo di fede e di cultura di Rodolfo Cozzarelli

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ingrazio “La Sorgente” e il suo Direttore di avermi dato l’opportunità di scrivere qualche rigo su Gerardo Monteverde, persona umanamente e spiritualmente completa che manca a tutti. In un tempo di crisi di valori umani e morali, l’esempio che ci ha offerto di dignità e coerenza acquista maggiore rilievo e lo fa crescere nella nostra considerazione e nel nostro affetto. Uomo integro, incapace di offendere anche se provocato, ha risposto alle malignità e all’ipocrisia impegnandosi con i fatti e con i suoi scritti nel perseguire la

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crescita umana, culturale e politica di Caposele sempre con spirito di servizio. Convinto cattolico, vero uomo di fede, ha manifestato l suo amore verso gli altri recandosi come volontario in Senegal per assistere ed aiutare chi ne aveva e ne ha bisogno. L’adesione alla fondazione “AMRE ONLUS”, che raccoglie fondi e va in soccorso di chi è in difficoltà, esprime compiutamente l’esigenza di Gerardo di rendersi utile al prossimo in modo continuo, duraturo ed intelligente. Lo scopo che si propone non è, infatti, quello di arrecare un sollievo economico momentaneo, ma di dare impulso al progresso del popolo senegalese, nella loro stessa terra, attraverso l’insegnamento di arti e mestieri che promuovano il lavoro e la creatività. Anche nei suoi scritti, Gerardo, esprime e manifesta il suo amore verso Dio, verso Caposele e verso tutti. La sua ultima fatica letteraria, dal titolo “Terra di Caposele”, ispirata dall’amata terra natia, dedicata alla moglie ed ai fgli e curata in modo impeccabile dalla prof.ssa Teresa Castello testimonia il valore del passato e un intenso sentimento di affetto nei confronti delle proprie radici umane e culturali. Il libro inizia con una “cronistoria di Caposele” che offre un panorama storico che va dal 71 a.c. al 1980 e che riporta in vita un tempo lontano altrimenti dimenticato. Prosegue descrivendo Caposele e le sue origini, l’evoluzione della sua comunità e le sue attività. Cita il Castello che risale all’XI secolo e che, ampliato da Federico D’Aragona, conobbe momenti di splendore per cadere in rovina in seguito al terremoto verificatosi nel 1694. Nelle “note di approfondimento” vengono elencati i nomi delle chiese, dei sacerdoti e delle famiglie vissute a Caposele alla fine del 1600. Un supporto informatico consente, ad ogni nostro concittadino, di rintracciare le linee della propria discendenza. In “Cenni Storici” scrive della prodigiosa immagine di Maria SS della Sanità e descrive le vicende vissute nel tempo dalla Chiesa a Lei dedicata. La portata delle sorgenti Sanità, l’etimologia del nome Sele introducono l’argomento che tratta la realizzazione dell’AQP e dei difficili rapporti tra questo ente e la comunità caposelese. Nel Capitolo intitolato “Stagioni di vita” Gerardo ricorda gli eventi che hanno segnato la vita del nostro Paese dal medioevo al 1980. Si tratta spesso di vicende tragiche e dolorose che narrano di peste e terremoti sofferti dai nostri antenati ma che ora, accompagnate da un senso di pietà, risultano essere preziose informazioni per il presente ed il futuro. “Terra di Caposele” narra la nostra storia ritrovata in archivi civili e religiosi in testi passati e recenti grazie ad una ricerca difficile e paziente che viene messa al servizio di tutti. Si tratta di una miniera di informazioni frutto di un lavoro tenace e meticoloso che, col trascorrere del tempo, diventerà un’eredità sempre più preziosa. Stimato e benvoluto nel suo ambiente di lavoro ha partecipato attivamente alla vita politica locale ricoprendo il ruolo di assessore ed in seguito la carica di Sindaco f.f. Gente di Caposele ieri

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Gente di Caposele Terra di Caposele La nostra storia come non è stata mai raccontata

di Alfonso Sturchio

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a curiosità e la sete di conoscenza riguardo alle proprie origini è umana. E per origini non intendo semplicemente la ricerca genealogica dei propri ascendenti, ma anche la ricerca delle proprie radici culturali, di come gli eventi storici hanno forgiato il territorio ed il carattere della comunità in cui si vive. Chi ama Caposele e vuole provare a conoscere ed approfondire gli elementi che lo hanno reso, nel corso dei secoli, il paese che oggi si presenta ai nostri occhi, non può prescindere dal libro “Terra di Caposele” di Gerardo Monteverde. Il volume, pubblicato postumo quest’anno, colpisce subito per la cura dei dati raccolti e per l’enorme lavoro di ricerca che si intravede dietro la miriade di notizie ed osservazioni riportate. Si resta letteralmente sbalorditi dalla quantità di informazioni inedite trascritte sin dalle prime pagine e dall’estrema accuratezza con la quale si esaminano fonti fnora ritenute attendibili, per sottoporle alla puntuale analisi della critica storica. Il libro si apre con un’ampia ricostruzione degli eventi che hanno caratterizzato il nostro territorio sin dall’epoca romana, approfondendo i fatti a mano a mano che ci avviciniamo alla nostra epoca grazie alla maggiore disponibilità di fonti scritte. Si apprende della prima diffusione degli opifici azionati con la forza dell’acqua sin dall’anno 1000 e della successiva presenza dei cavalieri normanni nelle nostre terre a ridosso della fine del periodo longobardo. Vengono individuati i Balbano (o Balvano) come i primi feudatari delle terre di Caposele dopo il periodo longobardo e la nostra appartenenza al Ducato di Puglia. Per la prima volta, per quanto mi è dato sapere, si afferma la partecipazione di militi caposelesi alle crociate, a seguito dell’invio in Terra Santa nel 1187, da parte del conte Filippo di Balbano, di uomini armati e fanti provenienti da Caposele. La precisione della narrazione è supportata da dati e fonti incontrovertibili, recuperate nei labirinti degli Archivi di Stato di Napoli e Salerno. Apprendiamo, per esempio, della condanna comminata nel 1416 dalla Gran Corte della Vicaria all’università di Caposele al pagamento di 100 once d’oro, ed al pagamento di 60 once d’oro per alcuni cittadini che avevano illecitamente occupato le terre di Pasano. Vengono, altresì, elencati i signori che nel corso dei secoli sono entrati in possesso delle terre di Caposele e lo sviluppo della popolazione ed il suo decremento a seguito di malattie e catastrofi naturali. I circa 600 abitanti del 1494, diventavano 728 nel 1545, 1012 nel 1545 e 1284 nel 1561. La peste tuttavia colpì la nostra terra nel 1656, quando la popolazione aveva raggiunto il numero di 1200 abitanti, e ben 642 caposelesi ne perirono. Si legge che l’anno successivo, quando l’epidemia ebbe termine, i 500 super-

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stiti eressero su un basamento una colonnina di pietra sormontata da una croce viaria in pietra: la Croce dell’Angelo che ancora oggi si trova in via Ogliara. Ma la vita ricomincia e, nonostante i vari terremoti, pestilenze e carestie puntualmente descritti (la carestia del 1764 provocò ben 329 morti), Caposele nel 1789 – l’anno della Rivoluzione Francese – contava ben 3512 abitanti. Molto interessante è anche la parte centrale del volume, quando l’autore – attraverso un’analisi delle fonti storiche – ricostruisce in maniera meticolosa le origini di Caposele, del suo nome e dei suoi simboli. Le attività dei suoi abitanti, la presenza dei greci sul territorio, l’evoluzione della comunità con la costruzione delle prime case nella zona Capo di fiume e la prima lavorazione delle stoffe, la presenza dei primi pellegrini ed il miracoloso sviluppo di Materdomini. Chi è interessato massimamente alle origini della propria famiglia troverà nel libro una ricerca ed un’esposizione dei nomi e cognomi dei caposelesi iscritti nei registri parrocchiali ed in quelli dell’anagrafe civile dal 1748 al 1900 a dir poco eccezionale. Solo con un lavoro ciclopico si potevano sfogliare uno ad uno questi antichi registri, estrarne le singole informazioni riguardanti tutti gli iscritti e farne una statistica sui ceppi familiari. Qual era il nome femminile più diffuso a Caposele in quegli anni? Naturalmente Maria, il cui nome è stato attribuito alle neonate caposelesi – senza contare le sue numerose variazioni – 1912 volte. Con il nome del nostro Santo Patrono, Lorenzo, sono stati invece battezzati in quell’arco temporale ben 1308 caposelesi. Quali erano le famiglie caposelesi con più componenti in quei 250 anni? Ebbene dal 1748 al 1900, 571 neonati furono iscritti con il cognome Ceres, 573 Lo scopo che si è proposto è stato la ricerca del bene di tutti attraverso le idee ed i programmi di sviluppo da realizzare a Caposele rifuggendo dalle false promesse tese ad ingannare i cittadini. La vita di Gerardo è un esempio di altruismo e dedizione da seguire, gli scritti un dono per tutti ma in particolare per le nuove generazioni che ritroveranno in essi la storia del loro Paese, storia che grazie a Gerardo, non andrà più sicuramente perduta.

SULLA “SELETECA”

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ROSA CURATOLO

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ia Rosa, fa male non vederti, ma molto di pù il non vederti sorridere. Il tuo sorriso ci riempiva di felicità. Eri una donna speciale, con una grande voglia di vivere, immensamente bella nella tua semplicità e spontaneità. Ed è così che noi ti ricorderemo: come una piccola stella pulsante di vita che splenderà per sempre nei nostri cuori.

CONCETTA CIBELLIS

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i fronte a un dolore cosi grande, ogni parola può sembrare inutile, vuota, perché in queste occasioni non si sa mai cosa dire! Ma noi sentiamo ugualmente la voglia di ricordarti.. e con noi ti ricorderanno tutti, perché chi non conosceva “La Furnara”!!! Non abbiamo avuto nemmeno il tempo di capire che cosa ti stesse succedendo… La tua malattia ha sconvolto tutti, come un fulmine a ciel sereno. Ma purtroppo la vita è beffarda, la vita è ingiusta. Purtroppo succede e succede alle persone migliori o a quelle persone che nella vita avevano tanto bene, tanto amore da donare. A tutti! E tu cosi sei sempre stata: una donna che ha fatto del lavoro e della famiglia i pilastri portanti della propria vita… una vita che ti ha chiesto di combattere fino all’ultimo respiro, ma che allo stesso tempo ha saputo donarti un compagno meraviglioso, che ti ha sostenuta ed amata fino alla fine.

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GENNARO MAJORANA Umanità, competenza, rigore morale di Alfonso Merola

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nche se con un ingiustificato ritardo, sentiamo di porre riparo ad una mancanza, sicuri che la famiglia del caro compianto Gennaro Majorana ci vorrà perdonare. Il 22 dicembre 2012 veniva a mancare a tutti noi il segretario comunale Majorana, caposelese di adozione che attraverso la sua preziosa ed unanimemente apprezzata funzione di dirigente pubblico è stato testimone ed ha accompagnato la vita amministrativa della nostra comunità per oltre 5 decenni Io ero poco più che ragazzo quando per la prima volta ne sentii parlare con ammirazione e rispetto da parte di mio padre: di lui apprezzava l’immagine di pubblico funzionario che dava compiutezza al suo ruolo, innanzitutto esaltando il senso dello Stato ed il valore dei servigi doverosi da garantire La mia ammirazione e il mio rispetto nei suoi riguardi non sono mai venuti meno, né sono stati delusi, soprattutto quando da sindaco ho potuto constatare di persona la sua umanità, la competenza, il rigore morale, lo stile personale e l‘amore per il lavoro. So di parlare di qualcosa di iperuranio in quest ‘Italia che si spappola in assenza di ogni pudore e di ogni senso di rigore intellettuale e morale, ma vero é che quell ‘ Italia fece grandi progressi anche grazie ad uomini come Majorana, i quali da instancabili servitori dello Stato sudarono sette camicie per tenere a bada sindaci abbacinati dal “tutto e subito e a prescindere “ e mantenerli nel solco della legalità. Oggi, senza CORECO, consigli e giunte comunali, forti di una malintesa legittimazione di derivazione popolare, i segretari non sono più tali ....al massimo li percepiamo come maggiordomi e colfs sotto ricatto di sindaci ed assessori. Dicevamo che il segretario Majorana ha vissuto almeno 50 anni della sua vita qui a Caposele, radicando la sua presenza in mezzo a noi con una discrezione e una riservatezza che gli erano naturali e che si sono rivelate decisive nel suo inappuntabile ufficio di funzionario pubblico Era un giovane funzionario pubblico, appunto, quando, per ordinanza del Ministro agli Interni, fu destinato nel 1957 a reggere la segreteria comunale di Caposele per tre mesi, a seguito del trasferimento d ‘uffcio del titolare Francesco Caprio e del quasi contemporaneo arrivo del commissario prefettizio dottor Severino Freda. Da pochi giorni era stata disarcionata l‘amministrazione del giovane e compianto sindaco avvocato Michele Farina, per una perniciosa quanto strumentale decisione di annullare i risultati di voto in una sezione elettorale, il che portò dritto dritto il paese a dover rinunciare obtorto collo al suo amatissimo sindaco. Fatto sta che Majorana catapultato da mattina a sera a Caposele si ritrovò a fianco di un commissario prefettizio, spedito in missione speciale, in un comune rosso di Gente di Caposele ieri

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un una provincia monotonamente tutta candida, dove il districarsi era alquanto problematico; ma egli ne seppe uscire bene grazie ad un’altra sua indubbia dote: la pazienza diplomatica. Egli sapeva smussare con autorevolezza e convinzione le difficoltà e mediare tra contendenti, sempre geloso ed accorto nell‘essere e nell‘apparire imparziale. E così i suoi tre mesi si tramutarono in cinque decenni o forse più di permanenza nel comune città di sorgente che per certi aspetti rassomigliava tanto alla sua Cassano Irpino, fosse pure solo per il fatto che ambedue i centri avevano un comune destino che li legava all’ EAAP. Erano anni di una durezza economica inusitata che solo chi aveva vissuto il dopoguerra poteva comprendere: gli interventi statali per la ricostruzione postbellica andavano ad innestarsi su un tessuto sociale martoriato dalla povertà di lunga data che solo allora emergeva nella sua drammaticità, essendo caduto il Fascismo e tutto il suo apparato propagandistico che creava illusioni e suggestioni. L’emigrazione addirittura era considerata una misura economica per lo sviluppo, per cui numerosi furono i caposelesi a dispiegare vele ed ali verso gli Eldorado degli anni cinquanta. Disarcionata l‘amministrazione Farina, egli si ritrovò a fianco di un commissario prefettizio, il dottor Severino Freda, anch‘egli destinato a restare a Caposele per qualche mese, fino all‘indizione di nuove elezioni municipali; ma come si sa a quell ‘epoca la Politica si muoveva con l ‘ascia e non con filo ed ago e “ i pochi mesi” divennero ben trentotto lune! Vedemmo Majorana, suo malgrado, anche nelle vesti inedite di “sindaco”, dovendo supplire le funzioni di commissario prefettizio, dato che il titolare molto raramente raggiungeva il comune in Alto Sele. In quei mesi in paese tutti poterono saggiare il suo equilibrio scevro da qualsivoglia partigianeria: erano proverbiali i suoi dissensi col dottor Freda, il quale nelle sue rare visite non disdegnava di tuffarsi in vicende paesane, evidentemente ispirato da altri. Il nostro segretario invece non gradiva queste incursioni e lo diceva a viso aperto, interpretando al meglio il ruolo e la funzione per cui era stato chiamato in un paese che egli cominciava a sentire come il suo. Le elezioni del 1959 registrarono la vittoria della stessa compagine che era stata disarcionata, nonostante fossero stati dichiarati ineleggibili tutti gli amministratori che si erano succeduti dal 1948 in poi: in effetti il commissario aveva alacremente lavorato in tale senso, forte di un decreto legge del governo Scelba, che inibiva l ‘elettorato passivo a chiunque fosse stato denunciato alla Prefettura per irregolarità amministrative. Così il segretario Majorana si ritrovò a fianco del neoeletto sindaco insegnante Donato D’Auria. Quello fu un quinquennio difficile e Caposele saggio’ il realismo di un sindaco ma anche la bravura professionale del segretario comunale: essi risanarono 224 GENNARO MAJORANA

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le esauste casse comunali con un ‘accorta politica improntata al risparmio fino all‘osso pur di non gravare di tasse una popolazione tutt‘altro che benestante. In tempi in cui da mattina a sera si parla di debito pubblico e di risanamenti quell‘esperienza ci dimostra che se le cose si vuole farle per davvero, non ci sono ragioni od ostacoli che tengono, a patto che si è sufficientemente armati di responsabilità istituzionale. Ma il capitolo più significativo per Gennaro Majorana iniziò nel 1965 e si protrasse ininterrottamente fino al gennaio 1979, ovvero l ‘elezione a sindaco di Francesco Caprio che ricoprì quella carica per ben tre mandati Due segretari comunali (Don Ciccio era segretario a Nusco), ma soprattutto due amici - colleghi si ritrovavano insieme in una sincera e fattiva collaborazione per un periodo non breve che costitui’ certamente uno dei periodi più belli per Caposele: il boom economico ed edilizio, l‘ emigrazione verso il Nord, la scoperta del turismo religioso, la valorizzazione dell‘associazionismo, la Convenzione con l‘ EAAP. Majorana fu certamente protagonista di quella stagione nel senso che non fece mai mancare l ‘entusiasmo, gli sforzi ed i consigli al suo amico collega Don Ciccio, ora frenandolo nelle sue fibrillanti azioni a sostegno della popolazione, ora incoraggiandolo, quando esse erano ancorate ad una solida legittimità, in ogni caso sempre rispettoso delle prerogative della minoranza. Fu nel quinquennio 1975/ 80 che io ebbi modo di conoscerlo nelle mie vesti di assessore comunale e ne apprezzai le sue qualità. Mi colpirono innanzitutto le relazioni positive tessute col personale, educato all‘orgoglio di sentirsi pubblici dipendenti legittimati a sentirsi una specie di “noblesse“ dal solo attaccamento ai doveri. Io credo che siano in tanti a dovergli essere grati per quella sorta di formazione in servizio alla quale egli si vincolava, in un‘epoca in cui si faceva strada un altro modello gestionale dei comuni che egli non condivideva in quanto foriero di una decadenza della missione burocratica ed istituzionale Ad esempio, egli era alquanto perplesso, quando, legislazione permettente, molti comuni ricorrevano a facili indebitamenti per realizzare opere pubbliche, ricordandoci che tali comportamenti conducevano a sicure bancarotte scaricate in genere sui cittadini meno benestanti; censurava spesso i sindaci di comunelli che scimmiottavano quelli delle grandi città quando ricorrevano acriticamente alla Cassa Depositi e Prestiti . E sorrideva quando l’opposizione consiliare tuonava contro politiche poco coraggiose in merito agli investimenti. Nel gennaio 1979 e per circa un anno collaborò col sindaco Ferdinando Cozzarelli, subentrato al defunto sindaco Caprio: un periodo breve ma intenso di collaborazione (ma anche di supplenza) che cemento’ un’amicizia precedentemente appena accennata. Nel maggio 1980 diventò sindaco l’avvocato Antonio Corona: Caposele voltava pagina, affidandosi al centrosinistra, da sempre perdente fino ad allora. Gente di Caposele ieri

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Il “ cambio della guardia “ non scompose più di tanto il segretario che dovette lavorare non poco nel dare spiegazioni ad amministratori nuovi di zecca, orientati innanzitutto a capire e a rendersi conto di quanto ereditato. Trascorsero pochi mesi, quando un evento straordinario fini per dettare l‘agenda a tutti i caposelesi , amministratori in primis. Un terremoto disastroso distrusse Caposele, seminando tanti lutti in un‘area vasta dell’Irpinia e della Lucania. Majorana fu tra quei funzionari pubblici che nelle ore tragiche della prima emergenza non fuggì e soprattutto non sfuggì alle sue responsabilità di uomo delle istituzioni sempre accanto agli amministratori dell’ epoca impegnati in una dura guerra contro il tempo. Sembrò scomparire per qualche giorno in quelle ore difficili, salvo poi a scoprire che alla testa di un drappello di dipendenti presenziò il recupero degli atti dell’anagrafe, dei documenti degli archivi storici e di quelli dell’ archivio corrente: senza quel lavoro prezioso saremmo tutti piombati in una sorta di anonimato collettivo. Furono mesi ed anni duri e il nostro segretario seppe essere all’altezza del momento, sempre sollecito a risolvere alla meglio tutte le questioni che si ponevano in un comune che doveva coniugare esigenze di trasparenza ordinaria, piani di reinsediamento della popolazione terremotata e primi passi della ricostruzione. Nel 1985 la STRETTA DI MANO con a capo il sottoscritto riconquistava il Comune: di lì a poco la ricostruzione urbana sarebbe letteralmente esplosa con tutti i piccoli e grandi problemi connessi. Egli fu a mio fianco per un intero quinquennio ovvero nella fase più complessa della ricostruzione urbana. Majorana, e a ragione, da solido funzionario statale, non condivideva l’ impianto legislativo complessivo della ricostruzione urbana, in quanto lo ritrovava ridondante, caotico e per certi aspetti anche configgente col quadro normativo ordinario. Erano numerose le discussioni garbate con me; per cui quando si decise di fatto di separare la gestione ordinaria del bilancio di previsione da quella straordinaria e speciale del processo di ricostruzione privata fu più che contento. Non era quello un modo di defilarsi, quanto piuttosto una strategia per meglio concentrarsi su tutto il resto per evitare che un comune terremotato si adagiasse eccessivamente su un modello semplificato, salvo, poi, a ricostruzione avvenuta, ritrovarsi disarmati ed incompetenti rispetto ad una legislazione che in ogni caso si sarebbe evoluta. Egli sosteneva con convinzione che il personale non doveva irruginirsi appiattendosi sulla sola ricostruzione altrimenti non ci sarebbe stato futuro per un comune. Il terremoto, diceva spesso, non può essere un alibi per la decadenza e la banalizzazione di ruoli e funzioni. Il primo ottobre 1990 egli andò meritatamente in pensione, non certamente perché ci volesse abbandonare ma in quanto doveri improcrastinabili lo chiama-

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vano altrove . Da qualche anno era iniziato il calvario della compagna di tutta la sua vita che di lì a poco sarebbe venuta a mancare. Un altro colpo inaspettato lo avrebbe ricevuto con la prematura dipartita del suo adorato primogenito. Gennaro Majorana, incamminatosi sulla strada della quiescenza e dopo aver superato per quanto possibile il vuoto per la scomparsa dei suoi cari, fu tra tutti noi con la discrezione ed il garbo di cui era dotato, sempre con un occhio mai censorio rivolto verso la Casa Comunale e con l‘altro attento a tutto ciò che gli accadeva intorno; in ogni caso stretto al suo Nicola, alla sua Paola e alle rispettive famiglie. Non aveva ragioni che avessero potuto spingerlo oltre la cortina di monti che fanno corona a Caposele perché qui in fondo aveva trascorso gli anni più significativi della sua vita, tra gente che gli avevano dimostrato affetto e rispetto. In genere un funzionario pubblico, ossequiato in servizio, quando va in pensione, é per lo più dimenticato se non addirittura odiato. Non é stato questo il destino toccato al nostro caro segretario, ancora ora presente nella memoria di chi lo ha frequentato in municipio, per non parlare dei cittadini che hanno potuto apprezzare doti e qualità. Io continuo a coltivarne la memoria attraverso le parole di mio padre e me lo immagino ancora tra montagne di carte che egli minuziosamente archiviava col suo fedele scudiero Pietro Pallante; altro che archivi e protocolli di oggi! Ma l’immagine più bella che serbo del segretario Majorana é la quotidiana passeggiata per il corso assieme ai suoi nipotini tutti attenti ad ascoltare le storie di una vita operosa, dal sapore di favole e fiabe di un tempo, che come tutti i racconti del passato si concludono con una riflessione morale, quasi a dirci che una vita spesa senza slancio etico, non è una vera vita.

Premio Caposele 2008 di Raffaele Russomanno

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ari amici, gentili soci è con immenso piacere e con commozione che questa sera, riprendendo un evento che nei precedenti anni ha caratterizzato la vita della nostra Pro Loco, mi ritrovo a conferire al Segretario Gennaro Majorana il Premio Caposele, premio istituito dalla Pro Loco per attestare la gratitudine dei caposelesi a quanti con il loro operato hanno reso grande il nome di Caposele. Per me è stato semplice aderire sul nome del Segretario Majorana perché ho avuto l’onere di conoscerlo da sempre, di aver potuto frequentare la sua casa e di essere amico dei suoi figli, mi è stato semplice perché in lui vivono tutti quei valori che mi sono stati insegnati e che oggi fanno parte della mia vita, ma un valore in Gente di Caposele ieri

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particolare può più di tutti descrivere chi è Gennaro Majorana, L’ONESTÀ. La sua onestà intellettuale, la sua rettitudine morale sono stati, sin dal lontano 1957, quando giunse a Caposele come giovane segretario comunale, faro per quanti hanno amministrato il nostro, paese e per quanti hanno con lui operato presso il nostro Comune. Non nascondo che non mi meravigliò la sua decisione, una volta conseguita la pensione, di rimanere a Caposele, forse perché avendolo sempre sentito attento ai problemi del nostro paese che in cuor mio l’ho sempre considerato a tutti gli effetti un Caposelese. Gli anni mi hanno insegnato che ciò che è preminente è l’amore che abbiamo per la terra che ci ospita e non soltanto l’esserci nato e devo dire che il Segretario Majorana ha amato ed ama molto il nostro paese e questo fa di lui un Caposelese doc. Il suo impegno per Caposele è stato sempre costante e silente, come è costume delle persone che non amano apparire, e senza ombra di dubbio credo che non esista caposelese che non possa dire di essere stato accolto sul Comune con un sorriso o che non abbia trovato un padre o un fratello con cui condividere un problema, una preoccupazione e trovare conforto e soluzione al suo problema. Eppure gli anni trascorsi come segretario presso il nostro comune sono stati anni per alcuni versi difficili, l’Italia era da poco uscita dalla guerra e bisognava ricostruire un intero tessuto urbano, e per altri versi entusiasmanti si andava formando una nuova società, ed è in momenti come questi che persone come Gennaro Majorana sono fondamentali per lo sviluppo di una comunità, in particolare come quella caposelese attraversata da profonde fratture, la sua serenità e la sua obbiettività ne hanno permesso uno sviluppo coerente con i tempi proiettando Caposele fino ai giorni nostri. Fondamentale il suo contributo dietro scelte come la convenzione con l’Acquedotto Pugliese, la costruzione della piscina comunale, oggi vanto della nostra collettività e tante altre opere che oggi fanno di Caposele un paese al passo con i tempi. Noi Caposelesi tutti dovremo non disperdere il patrimonio che Gennaro Majorana ha costruito in tutti questi anni e a Paola e Nicola mi sento di dire di conservare gelosamente gli insegnamenti del loro papà, che tanto ha dato alla nostra comunità.

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EDMONDO CAPRIO di Vincenzo Di Masi

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dmondo CAPRIO - per chi non ha avuto l’onore e il piacere di conoscerlo di persona, fu un illustre e benemerito docente di istituto professionale ad indirizzo agrario, da Lui stesso avviato, indirizzato e fatto affermare in qualità di Preside. Egli deve essere ricordato per la sua signorilità, onestà e bontà d’animo, per la sua coerenza nell’improntare la vita alle regole più assolute della legalità. Devo ammettere che allorché con l’ing. Nicola Conforti, ben noto direttore e responsabile del periodico caposelese “LA SORGENTE”, stabilimmo di pubblicare le eccezionali doti personali e morali che caratterizzarono la vita di Edmondo Caprio, nostro illustre concittadino, ne fui immensamente felice. Anzi, mi meravigliai con me stesso di non averlo fatto prima, quando incominciai a parlare, dandone concretezza e risalto, dei personaggi e degli avvenimenti storici del nostro paese, per evitare il vuoto della memoria collettiva. Edmondo CAPRIO - per chi non ha avuto l’onore e il piacere di conoscerlo di persona - e mi riferisco in particolare alle giovani generazioni di Caposele, fu un illustre e benemerito docente di istituto professionale ad indirizzo agrario, da Lui stesso avviato, indirizzato e fatto affermare in qualità di Preside. Egli deve essere ricordato soprattutto per la Sua eccezionale cultura umanistica e tecnica, che si avvicinava molto a quella del suo illustre genitore, all’intelligenza fuori misura di suo fratello Francesco -meglio noto come segretario comunale e poi Sindaco del nostro paese - per la sua signorilità, onestà e bontà d’animo, per la sua coerenza nell’improntare la vita alle regole più assolute della legalità. Il suo “credo” fu la rettitudine costante nel rispettare le proprie opinioni, in tutti i sensi, anche sul piano politico, in cui non espresse mai pubblicamente i propri sentimenti, volendo rispettare le opinioni degli altri. Edmondo Caprio, figlio del geom. Rocco e di Giuseppina Urciuoli, nato a Caposele (AV.) il 15 aprile 1909, sposato felicemente con Teresa Ilaria e per questo anche mio parente acquisito - fu un brillantissimo e coraggioso Ufficiale di Fanteria, combattente dell’intera Seconda Guerra Mondiale, decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare e di altri numerosi riconoscimenti. Al termine dell’ultimo confitto, dopo avere espletato, con grande merito, funzioni delicatissime sul fronte dell’Egeo come addetto al S.M.I. (Servizio Militare Informativo) alle dipendenze di un generale dei Carabinieri, si congedò col grado di Capitano, riprendendo la Sua attività nel campo civile, come iniziatore e Preside dell’Istituto caposelese di Agraria. Padre di tre figli (Ezio, Giuseppe e Franco) affermati professionisti nel campo dell’avvocatura e della medicina, condusse una vita, fino al momento della morte avvenuta, purtroppo, prematuramente in data 15 dicembre 1962, con costante Gente di Caposele ieri

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dedizione alla professione e alla famiglia. La società italiana, subito dopo gli anni cinquanta e sessanta, aveva compiuto un vero e proprio “giro di boa”, si era spezzettata e frazionata e decine di professionisti si erano affacciati alla ribalta, anche nel nostro piccolo paese, dove però il progresso giungeva col ritardo dovuto all’atavica tradizione meridionale. Eppure Edmondo Caprio in quei momenti tanto importanti e difficili seppe essere protagonista, inserendosi, come abbiamo visto, in qualità di Preside, tra gli attori delle nostre tradizioni e cultura. Di Edmondo Caprio posso concludere, dicendo che la Sua vita fu bella, dolce, gradevole e soave, interamente rivolta al bene della collettività in cui era inserito e così come scrive Fëdor Michajlovič Dostoevskij, in una delle sue opere immortali, ”Ogni piccola erba, ogni scarabeo, la formica, l’ape dorata, tutte le creature conoscono in modo stupefacente la loro vita, testimoniano del mistero di Dio, e di continuo lo adempiono nelle loro azioni”, alla stessa stregua è da considerare il suo cammino”. L’amore per i nostri cari defunti è il solo fiore che cresca e sbocci senza l’aiuto delle stagioni: Dio ha inserito un’arte segreta nelle forze della natura, in modo da consentire all’uomo di modellarsi su di Lui.

ZE’ PEPPA di Nicola conforti

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aposele perde un personaggio che si è saputo imporre ben oltre i confini del suo Paese per i prodotti artigianali del famoso “Forno di Ze Peppa”. Con la morte di Giuseppina Cibellis, che ricordiamo china sul suo tavolo di lavoro, instancabile, laboriosa, sempre tesa a dare il meglio della sua professionalità per l’affermazione dei suoi inimitabili prodotti, scompare un mito delle tradizioni locali. “Ze’ Peppa”, così amava farsi chiamare, resterà nella storia di Caposele come la persona che con umiltà, con sacrificio e laboriosità, ha saputo lasciare una traccia indelebile del suo nome. I suoi prodotti artigianali, di grande pregio, continuano ad affermarsi in molti paesi dell’Irpinia.

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FIORENZO CONFORTI di Alfonso Merola

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’ proprio vero che la morte si ostina a sparare nel mucchio, non curante di tutto e di tutti. Infatti, che cosa mancava a Fiorenzo alle soglie della sua giovanile maturità che egli avrebbe potuto vivere in serenità? Egli aveva la sua Maria, compagna adorabile e premurosa di un bel pezzo di vita coniugale trascorsa a cementare il culto della famiglia; aveva Gilda, Salvatore,e Mariassunta, modelli di rispetto filiale che ai giorni nostri cominciano a scarseggiare. E, poi, poteva godersi i nipotini, già benvenuti o in arrivo. Infine, non gli mancava l’affetto dei fratelli e sorelle, anche questo un modello di coesione umana e familiare che apprezzano solo coloro ai quali viene meno anzitempo il padre e che ti fa maturare una precoce responsabilità. Io ho conosciuto Fiorenzo per il tramite di suo fratello Nicola e da subito ho potuto apprezzare le sue doti personali: sulle tante spiccavano la sua discrezione, la sua gentilezza, direi da gentiluomo inglese, e il senso realistico nel misurare le cose in modo stoico, da benpensante che ha un’idea progressista e positiva del mondo, senza accordare eccessive passioni alla Politica. Di lui le istituzioni non ricorderanno mai strattonamenti e pressioni, molto ricorrenti nel dopo-terremoto: la sua emigrazione professionale verso altri luoghi irpini, d’altronde, ci conferma la tempra di dignità che accordava al suo lavoro di tecnico. Fiorenzo amava le discussioni tra amici: non avrebbe, poi, mai rinunciato nelle serate domenicali alle sue passeggiate lungo il corso principale di Caposele, parlando del più e del meno. Non voleva meno bene a Materdomini e perfno ai suoi frastuoni estivi, propri di una frazione che si industriava e si cimentava con un turismo “miracoloso”. Soleva ricordare a chi lanciava strali ironici contro Materdomini: “morendo qui S.Gerardo, ha dato un’occasione unica a tanti che altrimenti sarebbero stati condannati a prendere il volo, in cerca di fortuna”. Quando un’ingrata malattia ha minato la sua salute, io ho alquanto indugiato a fargli visita, perché non mi sento mai sufficientemente corazzato in occasioni così cruciali. In effetti, l’unica volta che l’ho incontrato a casa sua, già sofferente. fu su sua sollecitazione. Anche allora egli non smentì se stesso: nonostante i suoi problemi, mi chiedeva, nel caso avessi avuto la possibilità, di dare una mano ad una persona estremamente bisognosa. Questo era Fiorenzo. In quella occasione ebbi modo di soffermare lo sguardo sulla sua abi¬tazione che disvelava nella cura degli interni una calda ed attenta progettualità, propria di chi considera la casa un tempio della famiglia … una casa, per così dire, che invita a trattenersi e a non evadere oltre il circostante giardino, il quale trasuda di Gente di Caposele ieri

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pari cura quotidiana. Mi verrebbe da dire che quegli alberi e quel prato di fiori, quei vialetti e quegli scalini sono la narrazione di una vita che ha gocciolato utilmente fino all’ultimo giorno. Fiorenzo certamente mancherà a Maria ed ai suoi figli: ricaveranno, però, un qualche sollievo se, interrogando quel giardino e quella casa, dettaglio per dettaglio, immagineranno di poter continuare a parlare con lui. In fondo, chi si ama, non parte mai del tutto da noi, se si è capaci di trattenerlo serenamente nella memoria e nei ricordi.

Caposele 10/04/2010 Da Ezio Caprio aro Fiorenzo, Sempre più spesso, nelle mie frequentazioni caposelesi, mi aggiro tra le tombe del nostro cimitero, alla riscoperta di Amici del tempo lontano. Così ho rivisto la Tua immagine sorridente, o Fiorenzo, matura e signorile, nella sobria tomba della Famiglia Conforti. Ed il pensiero è volato lontano, agli anni della nostra comune adolescenza. La Tua coincise, purtroppo, con la lunga malattia paterna, che Ti costrinse ad assumere più grandi ed improvvise responsabilità nella gestione della impresa edile già egregiamente avviata. Ricordo i Tuoi rientri serali, in compagnia di muratori che Tu stesso trasportavi dai cantieri, a bordo di una storica “giardinetta”. E ricordo precisamente i bustini di carta di giornale, da Te abilmente confezionati, distribuiti ai compagni di lavoro e, con disinvolto atteggiamento, da Te stesso indossati. E riprendevi così la lettura notturna dei libri che tanto Ti incuriosivano ed intorno ai quali spesso intrecciavi discorsi con amici di Te più fortunati. E poi, mi sia consentito un accenno al Tuo ostinato amore contemplativo che Ti portava, in ogni attimo di libertà, verso Materdomini allora deserta, ma dove Tu potevi “respirare la stessa aria” della Tua Maria, come Tu stesso candidamente confidavi agli amici che, su questo tema, un po’ Ti “sfruculiavano”. Poi sopraggiunse la maturità, per tutti, e Tu sapesti conquistare il Tuo onorato titolo accademico che Ti ha consentito di elargire nella professione, onestamente e con decoro esercitata, i tesori della Tua pregressa esperienza tecnica, acquisita sul campo operativo. Addio, Fiorenzo, nella vita terrena tanto schivo e discreto quanto sinceramente amico.

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Da Altirpinia

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l nove aprile, purificato dalle sofferenze, ha chiuso il libro della vita, Fiorenzo Conforti. Signore nel cuore e nell’aspetto, grande lavoratore, cittadino onesto, marito integerrimo, padre affettuoso lascia una grande eredità fatta di rettitudine

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FIORENZO CONFORTI

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e solidarietà. Chi lo ha conosciuto non dimenticherà mai la grande dignità della sua vita silenziosa ma presente in quella dei familiari, degli amici, della comunità caposelese a cui orgogliosamente apparteneva. Fiorenzo è stato accanto a tutti e come ha scritto Sant’Agostino “in questo doloroso momento i familiari possano trovare il coraggio di non chiedere a Dio perché lo ha loro tolto ma ringraziarlo per averlo loro dato”. Alla moglie Maria, ai figli Gilda, Maria Assunta e Salvatore, al fratello Nicola, alle sorelle Nicolina e Clelia, ai parenti le nostre più sentite condoglianze. Ciao Fiorenzo! Mancherai a tutti, ma resterai sempre vivo nei ricordi di chi ti ha conosciuto ed apprezzato.

P. ANTONIO DONATO DEL GUERCIO Il Servo di Dio di Alfonso Farina

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l Servo di Dio P. Antonio Donato del Guercio appartiene a quella stupenda fioritura di Santi, di cui, nel secolo XVIII, nel Mezzogiorno, va giustamente orgogliosa la famiglia francescana dei Frati Minori Conventuali. Egli nacque in Caposele (Avellino), il 17 Settembre 1731, primo di numerosa figliolanza, da Giuseppe Del Guercio e Lucia Casieri. Al neonato era toccata una delle più grandi fortune: quella di avere ottimi genitori. Di povera e onesta condizione essi godevano nel paese una meritata larghissima stima. Cosicché all’ombra di sì benefica influenza, il piccolo Donato, avendo sortito da natura un’indole docile e quieta, sebbene d’ingegno vivace, ebbe quasi spianata la via del bene e rimossi gl’inciampi, in cui facilmente s’imbatte l’inesperienza giovanile. Chi lo conobbe fanciullo, lo ricordò alieno dai trastulli della sua età e tutto dedito alla ritiratezza, in cui, a guisa di flore che si orienta verso il sole, egli più vantaggiosamente percepisce la luce di Dio, ne ascolta la voce e per riflesso avverte nel cuor suo quei primi palpiti che lo inebriano arcanamente. Intanto sonava per i buoni genitori l’ora del sacrificio, il giovane Donato, avendo dimostrato spiccate tendenze per lo stato ecclesiastico, si veste da Chierico, ma le difficoltà per l’ingresso in seminario si moltiplicano a ogni passo e allora si rivolge ai Frati Minori Conventuali. Ma anche questi, mirandolo gracile e avanzato negli anni, stentano a vestirlo del santo abito, finché rimossi tutti gli ostacoli, più che ventenne, il nostro giovane poté compiere i suoi voti, consacrandosi in eterno al suo Dio. Fece il Noviziato a Benevento e gli studi nel Collegio di S. Angelo de’ Lombardi fu ordinato Sacerdote a Montemarano, nel Settembre del 1755, nel giubilo dei suoi Confratelli e nella piena d’affetto del cuor suo, vedendo aperto al suo zelo un Gente di Caposele ieri

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vasto campo d’apostolato Dopo due mesi il novello Sacerdote fu stabilito di famiglia in Marsiconovo, ove si trattenne più di otto anni. Ma nel grande favore popolare da cui vedevasi circondato, temendo un ostacolo alla perfezione religiosa fugge di là e va a gettarsi ai piedi del Ministro Provinciale, perché lo destini in luogo romito, dove possa vivere con Dio in raccoglimento perfetto, Ma il buon Religioso s’inganna e nella sua umiltà non vede che quell’aura di stima e di affetto con cui il popolo ama circondare i santi non è che la testimonianza della gratitudine degli umili e dei beneficati e il sigillo con cui Dio ordinariamente conferma la virtù dei suoi prediletti. E a Ravello, dove l’obbedienza lo invia, e in tutta la costiera d’Amalfi in cui era viva l’eco benefica lasciata dal Ven. P. Domenico da Muro e dal B. Bonaventura da Potenza, ritrovò la via già tracciata e, con la via, le difficoltà, le opposizioni, le spine insomma da cui il fiore della santità non va mai scompagnato. Il tenore di vita menata dal Servo di Dio a Ravello ci viene minutamente descritto dal suo Direttore Spirituale P. M. Gioacchino Mansi. Rigido seguace della regola francescana, fu esemplarissimo nell’osservanza dei tre voti professati. Diede molteplici prove dell’eroica sua obbedienza, studiandosi d’imitare, in tutto, colui che fu detto il martire dell’obbedienza, il B. Bonaventura, di cui era devotissimo, per opera specialmente di alcuni superiori che a bella posta lo martoriavano in tutti i sensi. La povertà fu in cima ai suoi pensieri e da vero figlio di S. Francesco, facevasi scrupolo di toccare perfino moneta. Vestiva panni umili ed era solito viaggiare a piedi. Nel voto di castità fu d’una illibatezza veramente angelica ed il suo confessore rammenta commosso come mai si fosse accusato di benché minima negligenza nel tener lontano pensieri men che retti e santi. Ma ciò che nel nostro Servo di Dio spiccò altamente e pare che abbia dato l’impronta caratteristica a tutto il corso della sua vita è la virtù della penitenza. Quando siete tentati, era la sua massima preferita che sovente inculcava dal pulpito e dal confessionale, ricorrete a Dio con umiltà; se il tentatore insiste, digiunate, date di piglio ai cilizi e alle discipline.... E di tal massima egli fece norma severa di vita. Portava continuamente il cilizio ai lombi, catenelle ai fianchi e alle braccia che gli producevano piaghe e strazi indicibili. Parco, di solito, nel cibarsi, nelle vigilie di parecchie solennità digiunava a pane e acqua, dispensando le sue vivande ai poveri che egli amava e nutriva con le sue sante e caritatevoli industrie. Soleva disciplinarsi a sangue e lo strepito che egli faceva in questo atto, inorridiva i religiosi e talvolta anche i secolari che si trovavano nelle adiacenze del Convento. Negli ultimi tre anni, presentendo vicina la morte, crebbe nei suoi esercizi di penitenza: la tradizione locale ancora ricorda la grotta nel bosco di Cimbrone, luogo incantevole e delizioso, ove il Servo di Dio in ore insolite si portava a

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PADRE ANTONIO DONATO DEL GUERCIO

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disciplinarsi con più agio, per sfuggire all’ammirazione degli altri. Ma ciò che egli rifuggiva umilmente, stimandosi uomo inutile, di spetto e scuro, il Signore gli donava largamente, facendo si che la voce del popolo, seguisse la voce di Dio, che con i prodigi fedelmente lo esaltava. Da tutta la Costiera correvano ai suoi piedi, infelici sofferenti, angustiati da mille travagli per chiedere lena e sollievo, perfino da Vietri da Salerno e da altri luoghi più lontani giungevano suppliche o venivano di persona perché si raccomandassero alle sue preghiere. Ed egli confuso, col sorriso sul labbro: E chi sono io? Beato chi prega per me; Ma le sue fatiche, le continue uscite di notte per correre al letto degli infermi, egli che era divenuto per antonomasia l’assistente dei moribondi, le penitenze aspre e continue gli affrettarono sensibilmente la fine, che già presentiva. Ma volle cadere da forte sulla breccia. Avendo contratto un grave morbo, nel recarsi, la notte del 19 Gennaio, ad assistere due religiose moribonde del vicino Monastero di S. Chiara, egli tentò dissimularne la gravità. Fu costretto però dall’atrocità dei dolori a mettersi a letto il di seguente, quando già i medici giudicavano grave il suo stato. E l’agonia, sopravvenuta rapidamente, si protrasse lenta e dolorosa per cinque giorni continui, finché nel pomeriggio del martedì. 25 gennaio 1774, spirava, stringendo al petto il Crocifisso e rimirando affettuosamente le immagini dell’Immacolata e del B. Bonaventura. I suoi funerali riuscirono un trionfo: popolo e clero, con a capo lo stesso Vescovo della Città che lo aveva assistito nella infermità, cantando inni e cantici di gioia lo portarono in processione. Tre giorni dopo, il cadavere, ancora caldo e flessibile aprì gli occhi e dette sangue abbondante e rosso come di persona viva, mentre il popolo, accoltosi presso la bara, chiedeva a gran voce grazie dal novello suo celeste Benefattore.

PASQUALE ESPOSITO Addio sogni di gloria di Vincenzo Malanga

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’ultima volta che ti vidi trascinavi il tuo corpo stanco. Un braccio non ti funzionava più e sul viso lessi chiara la sofferenza; non era la sofferenza fisica, secondo me, che ti affliggeva. Sicuramente era il rimpianto, la nostalgia del passato che ti assaliva, che ti tormentava senza tregua; infatti mi dicesti: “Nun’ fa niendi, cumbà, ma m’n’aggìu vistu ben”! Anch’io”, in quel momento, provai un senso d’angoscia e mi tornarono alla mente le serate al chiar di luna, con il “santandriano” alla chitarra e tu che intonavi le canzoni della prima grande guerra, come: Ta pum, Il Cinema - La Liggiera... e tante altre. Una Gente di Caposele ieri

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sera, dopo aver mangiato e “ben bevuto” andammo a casa di un amico che aveva il registratore; il primo che fosse arrivato in paese e tu cantasti, con la tua voce sottile, intonata, carezzevole, tutte le canzoni del tuo repertorio, senza accorgerti che tutto veniva registrato. Poi ti facemmo ascoltare. Eri fuori dai panni, non volevi credere e volesti riascoltare, ma più per riascoltarti. E ripetevi: “Ma nunn’ è cosa!”. Ci raccontasti che, una notte, tornando in campagna, a pochi passi dalla tua casa colonica, ti fermasti per un attimo di riposo e ti mettesti a sedere per terra, poi, anziché continuare verso casa, tornasti indietro e, giunto al Pianello, nel vedere le lampadine accese, esclamasti: “E che, muserà hannu mesta la luci fòr! — Poi ti accorgesti, avvinazzato com’eri di esser tornato in paese. Una notte, sul finir dell’estate, non ricordo di quale anno, dopo una pantagruelica gozzoviglia, capimmo che, da solo, non saresti potuto tornare in campagna: noi eravamo pieni, ma tu pieno fino all’ ugola. Decidemmo di accompagnarti con la macchina. Non riuscivi ad entrare dallo sportello che pur avevamo spalancato per metterti agevolmente seduto; volevi ad ogni costo stendere i piedi verso i sedili posteriori e poggiare la testa sul cruscotto della mia sgangherata seicento. Un’altra sera ancora, era molto tardi, ci invitasti a casa tua, nella campagna del... Sacramento e, appena giunti, portasti sul tavolo di pietra annoso, che è davanti alla casa, un prosciutto intero, curato dalle abili mani di quella santa donnona di tua moglie, e un grosso pane casereccio. E noi fettammo a sazietà. Si o no, del prosciutto, lasciammo l’osso. E tu eri felice, leale, aperto, generoso, preso da gioia incontenibile, dalla gioia di aver potuto dare a piene mani. E poi cantammo, come sempre, inni alla spensieratezza, presi da sogni di gloria, sogni che ti sei portato con te, perché pure noi abbiamo chiuso... quel lieto discorso. Lo continueremo venendo a parlare col “tuo cenere muto”. Ci sarà di sollievo almeno il ricordo.

A GIUSEPPE CERES di Antonio Cione

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opo trenta giorni dalla tua dipartita sentiamo il desiderio di dirti, caro Bianco, che hai lasciato un vuoto incolmabile nella tua famiglia, nella nostra compagnia, in tutto il paese e tra tutti i tuoi amici e colleghi. Ci mancano i tuoi gesti consueti e quotidiani, le tue disquisizioni e le tue risate, le tue intuizioni e la tua sottile ironia che non ti mancava mai. Persino in ospedale, a due giorni dal tuo venir meno ci hai fatto sorridere, quando ti ho detto che avevi avuti i migliori consulti per la tua malattia, e tu hai detto: -“Allora posso morire contento! Sono stato studiato bene!”. Il tuo era un 236

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modo di irridere e di esorcizzare la morte che ci ha fatto sempre sorridere, anche quando facevi gli scongiuri o la drammatizzavi, non potevamo sapere che tu la sentivi più vicina di noi e non abbiamo osato crederti quando a settembre tu ci dicevi che non saresti arrivato a Natale. Non lo accettavamo allora, non lo accettiamo adesso! Non ti meritavi questa accelerazione, tu che eri così flemmatico. Ci ricordiamo sempre che a cavallo della mezzanotte quando stavamo in compagnia dicevi sempre: -“E mo’ già v’ n’ vuliti ie’, è bietta ancora! Stam’n natu pocu!”. Tu difficilmente avevi fretta, ma forse negli ultimi giorni della tua vita, ho capito e me lo hai pure detto che volevi finire in fretta. Hai aspettato il martedì pomeriggio per stare insieme a tutta la tua famiglia: li hai fatti arrivare a casa e te ne sei andato senza fartene accorgere in silenzio ma con grande dignità. Eri ormai pronto al grande passo ed avevi capito e ti eri rassegnato perché non c’era più niente da fare. Ci hai lasciato un grande esempio di umanità, di coraggio, di lucidità, di amore per la vita e di rispetto anche per la morte. Tu ti esaltavi per un brano o una lettura, o anche, per una tua intuizione, ma condividevi con noi i nostri piccoli successi e le nostre piccole o grandi preoccupazioni. I nostri ricordi si perdono fino da quando eri bambino e ti dava fastidio anche il sole cocente d’estate perché ti procurava eritemi alle gambe scoperte dei calzoncini corti. Ti ricordo una volta quando ti ho visto scendere i gradini della strada di campagna con il sedere per terra perché ti facevano male le cosce e le gambe arrossate. Eri sempre pronto ad ogni appuntamento ed avevi sempre il dono giusto per ogni occasione. Hai sempre drammatizzato, o meglio reso commedia, ogni tuo problema piccolo o grande che sia stato, e lo hai spettacolarizzato sempre con grande intelligenza. Eri un uomo di scienza con la gentilezza di un poeta. Eri e sei il nostro amico, anzi il compagno, il marito, il padre, il fratello, il professionista ed il figlio che tutti noi vorremmo ancora avere. A nome di tutti ed in qualità di capo della Colonia ho pensato forse, non tempestivamente, ma in occasione del trigesimo della tua morte di ricordarti con queste poche parole che non esprimono certamente tutto quello che noi tutti pensiamo e che tu meritavi. Restano solo parole, spero che almeno resteranno i nostri gesti, la nostra amicizia ed il nostro reciproco rispetto nato nel 1955 e durato 55 anni. Ciao Giuseppe. Caposele, 30 dicembre 2010 Per la Colonia Antonio Cione

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GIUSEPPE CERES

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AMERIGO CONFORTI (1911-2008) Una lunga vita semplice ma laboriosa, malgrado il grosso handicap della vista. Da non vedente ha fatto cose incredibili: ha registrato, senza la possibilità di leggere, per circa un’ora, con minuziosità e precisione, la storia dei Conforti, elencando tutte le opere di edilizia ecclesiastica che gli stessi hanno realizzato nel tempo. Lui stesso ha costruito varie tombe, quelle situate lungo il vialone centrale del cimitero, operando con metodi empirici ed avvalendosi unicamente delle indicazioni tecniche del fratello maggiore Salvatore e dell’aiuto materiale di un solo operaio (Faluccio Sansone). Riportiamo di seguito la lettera che Alfonso Merola scrisse ai figli Nicola ed Annunziata all’indomani della sua dipartita.

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i è spento in via Caprio un altro lumicino acceso circa un secolo fa. Via Caprio, oggi più buia e noi siamo ancora più soli. Non è vero che quando muore un centenario il dolore sia meno greve ed il rimpianto meno intenso. Vero è che chi lascia porta via con sé il fardello dei suoi anni carichi di esperienze più utili a chi resta che a chi parte. E solo Dio sa di quanta luce e saggezza ha bisogno questo secolo da poco nato che si muove come un bambino di otto anni, senza padri, né madri che lo guidino. Amerigo Conforti porta via con sé il suo candore di fanciullino che non ammette l’esistenza del male e coltiva la sola speranza di un bene che, prima o poi, conquisterà il mondo. Egli trascina nel segreto di una tomba, tra le tante che egli costruì con umana pietà, il suo personalissimo rapporto con Dio che, ahimè altri non hanno conosciuto e non conosceranno mai. Io credo che su quella sua originale comunione con l’Eterno, di cui andava orgoglioso, egli aveva ancorato il suo ottimismo verso un’Umanità stanca che si sarebbe prima o poi risvegliata. Mi è restata impressa nella mente la sua mansuetudine che non gli ha mai messo sulla lingua una parola scomposta o disdicevole; anche in circostanze comprensibili egli sfoderava la sua arma di risposta che era il sorriso. Ma egli mi resterà caro anche per altre ragioni. Nei suoi occhi chiari e spenti ho spesso rivisto l’immagine di mia madre. Egli mi ha visto crescere tra le vie Caprio, Imbriani e Santorelli ed io l’ho visto inorgoglirsi per i miei successi e rattristarsi per le mie amarezze. Ancor di lui mi piacevano i suoi racconti fluidi, calmi e maestosi, come il corso del Sele alla foce.

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Era piacevole ascoltare Amerigo quando ti proiettava con le parole la storia del secolo breve vissuta attraverso le cronache del paese. Era un maestro: guerre mondiali, gli anni delle Repubblica, terremoti e, poi ancora terremoti, emigrazioni, politica avevano nomi e cognomi, carne ed ossa di caduti, dispersi, vedove, vittime e carnefici, anonimi eroi locali di microstorie degne di essere raccontate. Era tutto questo Amerigo, il nostro caro vicino che ha tenuto acceso il lume della vita fin quando egli ha potuto. Ecco perché mancherà tanto ai suoi figli Nicola e Annunziata e ai suoi adorati nipoti; egli, però, mancherà a tutti noi che lo abbiamo conosciuto, compreso e stimato. Caposele 16/11/2008

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Alfonso Merola

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ANTONIO E GELSOMINA CETRULO di Alfonso Merola

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on mi trovavo a Caposele, quando seppi della morte di Antonio Cetrulo. Non sapevo, perciò, che essa fosse dietro l’angolo, nel momento in cui gli esternai le mie condoglianze per la dipartita di sua sorella. Gelsomina ed Antonio che sono mancati ai loro cari e a chi li conobbe veramente, sono accomunati da una identica educazione familiare che dà al lavoro (e alla dignità nel lavoro) un valore da non sottovalutare. Gelsomina, ad esempio, oltre le sue doti personali ed umane, a me piace ricordarla per il contributo “di donna” che ha saputo dare alla crescita turistica di Materdomini. Perché, sia ben chiaro, non passi nella mente di nessuno l’idea che “quel miracolo turistico”sia solo “opera di uomini”. Senza il sacrificio, l’abnegazione, il realismo di tante donne, Materdomini non sarebbe quella che è oggi, ma di questo avremo modo di parlare in altre occasioni. Ritornando ad Antonio che io ho conosciuto da vecchio iscritto del PSI e mi sono ritrovato “fontaniere/idraulico comunale, io ammiravo la sua passione per il lavoro nella quale egli ci metteva anche tanta curiosità “laboratoriale” nel dare soddisfazione alla domanda di un’utenza che a Caposele è egoisticamente esagerata.Ci saranno anche “ingegneri idraulici”, ma la sua esperienza “accoppava tutti”, incluse, talvolta, le leggi della Fisica che qui a Caposele sono spesso fiaccate e confutate “dall’abuso del servizio” che inesorabilmente inibisce l’uso. Se le giornate invernali, quindi, per Antonio erano relativamente “calme” (in ogni caso di tempo ne passava a mantenere in efficienza tutte le reti comunali interne ed esterne) quando scoppiava l’estate, il suo lavoro non aveva limiti temporali. Te lo trovavi dovunque sui cocuzzoli a controllare serbatoi, a manovrare saracinesche, a verificare attacchi privati e roba del genere. Rispondeva col sorriso a quanti protestavano per le “crisi idriche cicliche nelle campagne” ricordando che la vera disciplina in un paese che rifiutava i contatori era la responsabilità degli utenti, come a dire, che non si può avere “la botte piena e la moglie ubriaca”. Si arrabbiava Antonio di fronte a proteste ingenerose per un suo lavoro che, comunque, era costante. Doveva essere il sindaco di turno a calmarlo ricordandogli che si fa quel che si può in contrade, le une contro le altre armate, che pretendono acqua corrente da bere ma non accettano limitazione nella coltivazione degli orti e dei campi di tabacco. Da Sindaco, di Antonio io ammiravo la sua esperienza personale di giovane emigrato in Svizzera che si era fatto una famiglia e, poi era rientrato a Caposele 240

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per aprire un’officina non del tutto sufficiente a garantire redditi sicuri; un emigrato partito per tornare e che, tornato, lottava in nome di un’idea politica che desse speranza all’ascensione sociale anche per i più umili. Non ho mai goduto, pur essendogli amico,di un suo voto, non di meno lo apprezzavo. Socialista, dispersosi nelle nebbie della seconda Repubblica, è vero, ma sicuramente abbarbicato ai suoi ideali. Di questa eredità devono andare orgogliosi i suoi figli ed i suoi parenti.

NICOLA SANTORELLI di Alfonso Maria Farina

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l I0 agosto 1811, a tre mesi e mezzo di distanza dalla soppressione della Scuola medica salernitana, nacque il Santorelli in Caposele, allora nella provincia di Salerno. Nell’aristocratico e religioso ambiente familiare, dietro l’esempio virtuoso dei genitori Raffaello e Camilla Vitamore, ebbe modo di formarsi a quella serietà che lo contraddistinse nella vita. Frequentate in paese le classi elementari, dodicenne entrò nell’Istituto Cirelli di Calabritto, a pochi Km. da Caposele, dove compì gli studi medi. Per la sua diligenza ed intelligenza, per il suo profitto, che s’impose alla concorde ammirazione di condiscepoli e docenti, egli, dopo quattro anni, fu incaricato dal Direttore di impartire lezioni nelle scuole inferiori. In pari tempo, pur ossessionato dall’idea dell’insegnamento, compose odi latine su i metri di Orazio, del quale tradusse in versi sciolti l’Arte poetica. Passò a Napoli, dove, prima nello studio di Giuseppe Ebolì, dotto maestro del tempo, compì i corsi di fisica e matematica, poi, in quello del Galluppi, assistè alle lezioni di filosofia. Anche qui si distinse. Finalmente varcò le soglie della R. Università per assidersi nelle scuole medico-chirurgiche, dove ebbe a maestro il chiaro prof. Vincenzo Lanza. Addottoratosi in Medicina e chirurgia, non abbandonò gli studi, ma cercò di approfondirli e diede pubblica prova della sua capacità nel concorso per pratico nell’Ospedale degli Incurabili di Napoli, nel 1833, riportandone quasi il massimo dei punti. Si dedicò allo studio delle epidemie, al quale, dopo aver letto attentatamente Sydhenam, si sentì sospinto. Di qui cominciò la sua multiforme attività, che non conobbe sosta se non sul letto di morte. Le corsie dell’ospedale della Pace di Napoli per gli epidemici della città (1832-33) ed i casolari e tuguri della Valsele, soprattutto Caposele, per l’epidemia che v’infierì l’autunno del 1835, lo videro lavorare instancabilmente per stroncare il morbo implacabile. Si conservano ancora Gente di Caposele ieri

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le minute relazioni, che il nostro giovane epidemista stese, tenuto conto delle specialità patologiche dei luoghi e dei climi, e che furono lette nell’Accademia medico-chirurgica di Napoli ed approvate in pieno, tanto che alcuni suoi emuli, spinti da invidia, impedirono che il plauso accademico si volgesse in riconoscimento effettivo. Questo, però, il Santorelli ebbe nel maggio del 1841, allorquando l’illustre consesso nominò una commissione nei proff. Vulpes, Minichini e Turri per giudicare le due sue memorie del 1834 e 1837, che furono dichiarate degne di pubblicazione negli Atti accademici e del premio di 2^ classe, mentre l’autore fu nominato socio corrispondente. In mezzo a siffatte cliniche fatiche trovò tempo di curare molte pubblicazioni sui giornali medici di allora, quali I’ “Osservatore medico, il Filiatre Sebezio ecc. Nel novembre 1838 fu nominato medico straordinario dell’ospedale della Pace di Napoli. Il consenso dell’Accademia, intanto, l’incoraggiò a continuare gli studi prediletti e, perciò, si condusse nelle basse pianure tra Paestum e Capaccio, esaminò i dintorni del Sele, sostò in ogni misero abituro, considerò minutamente ogni manifestazione morbosa e scrisse un’apposita memoria, che esibì al R. Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali partenopeo, riportandone l’approvazione e la nomina di socio corrispondente. La memoria s’intitola: “Agronomici, idraulici provvedimenti onde arrestare il maleficio della malaria e metodo curativo per i morbi cronici risultanti,,. In questo, e non soltanto in questo, si dimostrò un vero precursore delle opere di bonifica, che in questi ultimi anni sono state realizzate nella pianura di Paestum.Nell’Archivio di Stato di Salerno si conserva pure, insieme a svariati diplomi e manoscritti, un’interessante opera inedita del Santorelli,che io ebbi la fortuna di ripescare tra le vecchie ed ingiallite carte, dal titolo “Prime linee d’istoria comparata delle principali epidemie, epizoozie, endemie, enzoozie e morbi pestilenti con tentativi di ragionamento, presentata alla R. Accademia delle scienze di Napoli l’8 giugno 1841, che l’approvò e nominò l’autore, con voto unanime, socio corrispondente. Nell’anno 1844 pubblicò un’operetta sulle perniciose che De Renzi riprodusse quasi intera nel suo giornale di scienze mediche. In essa, fra l’altro, si levò ad attaccare la teoria delle omopatie dell’illustre patologo Puccinotti e la ridusse in limiti strettissimi. Il Minzi, idoneo arbitro dell’argomento, dichiarò questo lavoro cosparso di ottime ed originali idee. Con la veste di tante benemerenze, il Santorelli, nel 1844, entrò nel concorso per meriti della cattedra di medicina, vacante nella R. Università di Napoli, e dalla Commissione fu giudicato eleggibile senz’altro esperimento. Andrei troppo lungi dai fini propostimi, se volessi lumeggiare, sia pure a sprazzi, tutti i lavori e tutte le ricerche santorelliane. Lo studioso potrà farsene un’idea, sfogliando una bibliografia, da me compilata, che inviai al P. Gemelli e che si conserva nella Biblioteca della Università Cattolica di Milano. Di lì a poco il Santorelli,

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NICOLA SANTORELLI

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la cui dottrina era ormai unanimemente apprezzata, venne a Salerno, dove la fama della celebre Scuola medica era ancora viva. Questa si era eclissata il 29 nov. 1811, allorquando l’invadente governo gallico, rappresentato da Gioacchino Murat, col nuovo ordinamento della pubblica istruzione, la soppresse. Era rettore Matteo Politi, autore di un pregevole commento ai versi della scuola, allora conosciuti. Ho detto: si eclissò, perchè allo Studio salernitano rimasero ancora dei corsi universitari facoltativi, con privilegio di dare licenze. In questi corsi il 1 nov. 1848 il ventisettenne Santorelli ottenne la cattedra interinale di medicina forense e farmacologia ed il 21 agosto 1850 divenne titolare di Patologia, cattedra che serbò ininterottamente per più di un decennio. Quanto fece è storia troppo lunga! Noi la sfioreremo, anche per debito di gratitudine, giaché il Sinno, nel suo “Traduzione e note al Regimen sanitatis, (Salerno 1941), quantunque doverosamente abbia ricordato il Santorelli, non ha potuto segnalarne tutte le benemerenze. Il 29 agosto 1848 svolse il Santorelli la sua prima orazione in latino, dal titolo: “De Scholae salernitanae gloria in pristinum restituenda … In essa, rifacendosi all’elogio del Petrarca: “Salernum medicinae fontem ac gymnasium nobilissinum,,, traccia tutto un programma di rinascita e di progresso per il Collegio. Insinua, come base, la cultura religiosa, di cui tanto rifulse l’antica scuola, ed umilia una domanda alla maestà del Re Ferdinando II, perchè l’accresca di altre cattedre e facoltà. Il 29 agosto 1850 fece seguito l’altra orazione: “Scholae salernitanae auctores principes,,. Illustra in essa le varie opinioni sulle origini dello studio, ne mette in rilievo la tradizione medica greco-latina e ne scopre i veri riformatori, scientificamente parlando: Petrocello (a 1035), Garioponto (a 1040) e Cofone il vecchio. Decanta, infine, la triplice gloria della Scuola: l’Antidotario, il Clinico interprete, il Flos. Mentre esplicava questa multiforme attività, vennero a Salerno dall’estero insigni medici e vollero consultarlo sui loro studi. Tra questi, Daremberg da Parigi ed Henschel, lo scopritore e illustratore dell’Herbarius, da Breslavia, i quali nell’itinerario che pubblicarono a Parigi ebbero parole di stima per Santorelli. Non accenno all’amicizia, veramente sentita che legò il nostro scienzato al De Renzi, perchè è cosa notissima. Nel maggio 1851 fu a Salerno anche O’ Loston, medico inglese, desideroso di assistere ad una lezione del collegio medico e lo introdussero nella facoltà di Patologia. Il Santorelli dalla sua cattedra, senza punto scomporsi, pregò l’illustre visitatore di annunziare il tema della conversazione, ma si accorse che l’ospite ignorava la nostra lingua. Allora trattò in latino il seguente argomento: “De abditis organici vitii incunabulis”’. Accorsero i giovani di altre cattedre e gli stessi professori Zottoli, Cerenza e Mastelloni, i quali osservarono che, quando il Santorelli additava i mezzi clinici, Gente di Caposele ieri

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onde sgombrare i nervosi velamenti che nascondono la cruna dei morbi organici, si alzò quel medico inglese a fargli riverenza e tutti, al termine della lezione, gli mostrarono la propria riconoscenza, fatta dì ammirazione e stupore. Il Santorelli cooperò alla riforma degli Studi medici nei licei universitari del Regno di Napoli e fu richiesto dal Ministero di un piano di miglioramenti, che fu tradotto in pratica, come se ne accorse egli stesso, leggendo i decreti per i gabinetti’ di Fisica, Chimica e Storia naturale, rispecchianti le sue idee. In riconoscimento dei suoi meriti scientifici varie Accademie s’onorarono di nominarlo socio. Così l’Accademia medico chirurgica e pontaniana di Napoli il 12 luglio 1842; la Cosentina il 15 giugno 1846; l’Accademia delle scienze di Palermo il 19 maggio 1847; quella di Tropea il 31 maggio 1847; l’altra di Noto il 25 ottobre 1847. Salerno lo volle membro della Commissione Sanitaria il 10 nov. 1849, la R. Società Economica suo socio ordinario il 2 dic. 1857 e la Provincia consigliere il 22 giugno 1851. Nel 1856 pubblicò in Salerno l’opera: “Osservazioni e ricerche su le febbri continue dell’indole delle intermittenti”. Nei primi mesi del • 1861 iniziò la stampa dell’opera: “ lo. Bapt. Morgagni historias exercitationes pathologico - criticae. Salerni, annis 1858, 59, 60 cum selectioribus discipulis habitué,” che non potè ultimare per la soppressione del Collegio medico, che avvenne in quell’epoca. Si trattava di disamine diligenti e profonde, alle quali prendevano parte tutti gli allievi, su di una storia di Giov. Batt. Morgagni, medico insigne e professore di anatomia all’Università di Padova, morto il 1771. Una grave sciagura, però, stroncava tanta attività. Il 14 Aprile 1861 il nuovo Governo d’Italia aboliva il Collegio. Colpito da simile iniquo provvedimento, il Santorelli improvvisò una commoventissima orazione, che lesse dinanzi ad una folta schiera di colleghi e discepoli, autorità e popolo nel R. Liceo universitario. Mentre le prime reazioni incominciavano a manifestarsi, egli, vindice della gloriosa Scuola, si recava al dicastero della Pubblica istruzione italiano, cui erano preposti Emilio Imbriani e Luigi Settembrini, per difendere la conservazione dello Studio salernitano. Fu un buco nell’acqua. Tornato, allora, a Salerno, sciolse il malinconico canto della resa, formulando un voto, che fa fremere: “Quando inito meae missionis et conatus successu, orationem” De immerita salernitanae scholae abolitione et de rebus in ea gestis habui, ultima eius fuit dies, sed, magna me fides tenet, non erit finis.” Appena soppressa la Scuola, il Santorelli se ne tornò a Caposele, ardendo di vedere gli amici, ma li trovò, in gran parte, morti e ad essi dedicò alcuni suoi lavori poetici. Poco appresso aderì all’invito, fattogli dal Prof. Lauro in Napoli, di dare un corso di anatomia patologica nel suo studio. Dettò queste lezioni per un biennio e poi si diede tutto alla pratica privata, pur non abbandonando gli studi preferiti. Nel 1896, infatti, pubblicava il suo “Saggio

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di epidemologia”. Da tanta produzione emerge imponente la personalità del Santorelli nel campo scientifico. Il Prof. Antonio Villanova, ordinario di patologia speciale medica nella R. Univ. di Napoli, lo definiva: “clinico e patologo distinto”. Angelo Zuccarelli, docente di clinica psichiatrica, antropologia criminale e medicina legale, nella stessa Università, lo appellava: “nestore dei medici”. (9) Il Vigorito: “Egregio cultore della medicina antica, seppe connettere il nerbo con la moderna e con gli ultimi progressi della scienza, ma sema la mania di adoperar nuovi farmaci e di sottoscrivere ad ogni recente teorìa”. (10) P. Gemelli il 5 ott. 1940 accoglieva con giubilo le pubblicazioni mediche del Santorelli, perchè interessanti, e scriveva: Essi (volumi) saranno conservati con cura, perchè possano servire in futuro ai giovani e illustrino ad essi soprattutto la grande Scuola salernitana. Mentre in Napoli il Santorelli esercitava la sua professione e coltivava il campo scientifico, il cuore era avvinto alla famiglia ed al paese natio, che amava intensamente. Gli tornarono pure grati gli studi letterari, per cui aveva conseguito il 20luglio 1844 la laurea in Lettere e Filosofia dalle mani del Galluppi e mostrò di godere, ancora vecchio, il favore delle muse. Impiegò tutti i suoi talenti per testimoniare il suo implacabile amore agli oggetti del suo culto: Religione, Patria, Famiglia. Illustrò le origini e le glorie del Sele, sacro fiume dell’antichità, con tutti i dintorni; (11) scoprì ed illustrò nel maggio 1832 una lapide del Collegio silvanico dell’anno 81 dell’era volgare, di notevole importanza storica, tanto che valenti archeologi, come Corda, Guarini, Mommsen ed Avellino, ne scrissero a lungo. L’opera sul Sele ha riscosso nutriti applausi dalla critica. Primo, il prof. Zuccarelli, che apostrofò l’autore: “Peregrino ed erudito scrittore del Caposelese”; poi, il comm. Annunziata ed il Prof. Felice Cuomo, due poeti del Mezzogiorno, che s’impegnarono a eternare nel canto il Medico ad Umanista. L’anno 1885 Santorelli pubblicò in Napoli un’opera latina: “Inscriptiones sepulcrales adno-tationibus illustratele”, contributo alla storia degli uomini, più rinomati, della Valsele. A gloria d’Italia stampava un discorso, commemorante l’eroica figura del Col. De Cristofaris, caduto a Dogali. (12) In letteratura incarna il Santorelli quanto vi fu di buono nell’ottocento. Il suo latino è di stampo classico; l’italiano sa, direbbe Papini, di trecento e di Mugello. Le rime hanno anch’esse il loro valore, per cui possiamo affermare che il Santorelli fu un vero umanista del sec. XIX. Emerge costante dalla sua copiosa produzione il tono educativo e morale con una netta presa di posizione contro quei poeti che “dando preferenza a versi licenziosi, imitano l’accento delle sirene e spargendo fiori sul vizio, accendono impure fiamme”. Amava la Patria, amò di conseguenza tutto ciò che fa parte del patrimonio spirituale di essa, il Cristianesimo, la Chiesa. Gente di Caposele ieri

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In tempi, in cui vigeva un sordido anticlericalismo, seppe, alla pari dell’abate Zanella, lanciare in faccia ai suoi detrattori il noto adagio: Questa pia fé già reo non fammi o stolto tal che ne copra per vergogna il volto. Visse, praticò, propugnò la sua fede, la fede dei grandi, la fede degli umili, la fede di tutti. Nel 1892 pubblicava in Napoli un poema lirico: “Satana”, che è tutto un canto di vittoria per la Chiesa Cattolica. Rifacendosi ad un passato glorioso e serbando intatte le più fulgide tradizioni familiari, legate all’Istituto di S. Alfonso, nel 1893 compose e pubblicò un poemetto lirico, in omaggio a S. Gerardo Maiella, meritandosi con ciò il titolo di primo e più fecondo poeta gerardino. (13) Nel 1896 scese in lizza con la veste del polemista, stampando il suo: “Cattolicesimo e libero pensiero”, dedicato ad Antonio Buglione. Arcivescovo di Conza. Era convinto della fine dell’ateismo e dell’instaurazione del Cattolicesimo nel mondo. Seguì: “Variazioni ad alcune poesie italiane di sapore materialistico e pessimistico”, operetta pregevole per il fine che la dettò, e per il contenuto. Nel 1896, ridotto da mortifero morbo sull’orlo del sepolcro, stampò i suoi: “Ultimi di mia vita pensieri ed affetti”, in metro monotono, ma ricchi di sentimento e di cuore. E accenno appena alle sue opere minori, tra cui le “Rime morali”, in sei volumi, e gli “Inni”, in latino, per Gesù Cristo e la Vergine, opere che gli valsero l’ardito encomio del Vigorito: “Niuno dei medici contemporanei l’avrà, a mio giudizio, nello studio delle divine cose facilmente superato”. Morì sulla breccia il 1 marzo 1899, mentre correggeva le bozze del suo: “Manuale di preghiere” — Aveva 88 anni.

SULLA “SELETECA”

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EMIDIO ALAGIA di Nicola Conforti

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midio Alagia,era l’amico di tutti, famoso per il suo grande attaccamento al Paese natio e per il suo amore incondizionato per la Pro Loco e per La Sorgente. Si entusiasmava anche per le piccole cose che riguardavano il progresso per quello che amava definire “il Paese più bello del mondo”. Ho pianto per la scomparsa del mio più grande amico. Emidio Alagia mi è stato vicino in ogni circostanza, adoperandosi sempre al limite delle sue possibilità. In tutta la sua vita si è prodigato per gli altri. Ha sempre fatto della bontà e della disponibilità una propria ragione di vita. Ha amato il suo Paese come nessun altro. Ha sostenuto ed amato “La Sorgente” fino agli ultimi istanti della sua vita, si è speso per essa con grande generosità e dedizione. Cercherò di perseguire ideali e valori che lui mi ha trasmesso e di amare il nostro Paese come lui l’ha amato. Vivrà nel mio cuore, sempre.

EMIDIO ALAGIA di Alfonso Merola

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on l’ avanzare degli anni e, credo, con quella affannosa fretta che assale chi intimamente sa di non avere troppo tempo a disposizione, nell’ultimo scorcio della sua esistenza Emidio Alagia sembrava ossessionato dal chiodo fisso di non lasciare le cose a metà . Nella Pro loco, ad esempio, che considerava a ragione anche una sua creatura, s’ era ritagliato il ruolo scomodo di padre burbero in difesa di una associazione che meritava rispetto, e non tollerava che decisioni assunte nel buon nome del circolo il giorno prima, fossero disattese il giorno successivo per quel vizio del quieto vivere che piace a tanti. La sola idea che la Pro Loco un giorno potesse chiudere i battenti, come ogni cosa che ha un inizio e una fine, lo rendeva triste, ma per l’irruenza di carattere che si ritrovava, non si perdeva d’animo e si rimotivava. Salutò così il passaggio di testimonio nella Pro Loco a forze più fresche con l’ entusiasmo e il sollievo di un comandante che aveva appena concluso una difficile operazione militare ... Emidio, però, esplodeva di una gioia quasi fanciullesca quando un’ altra creatura a lui altrettanto cara vedeva la luce: era La Sorgente . “Ingegegnè, ce l’ abbiamo fatta anche questa volta !“ gridava assalito da entusiasmo e commozione anche se da lì a poco si sarebbe sobbarcato quel lavoraccio della spedizione del giornale negli angoli … più impensabili del mondo! Essere orgogliosamente lo spedizioniere de La Sorgente nelle Americhe, in Gente di Caposele ieri

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Australia, in tutta Europa disvelava un suo fraterno sentimento di rispetto e di affetto per persone tanto lontane che, per caso, per scelta o per disperazione, non dimoravano più a Caposele, “Il paese più bello del mondo“, come era solito definire questo serpentone di case stretto tra la montagna e il fiume . In tutta evidenza, il suo era un amore esagerato, indotto, se si può dire, da una esperienza vissuta da giovane già sposato e con prole, costretto in nome del lavoro e della famiglia a spingersi fino in Argentina, la terra promessa di tantissimi italiani ....poi il suo ritorno ed il magro lavoro nella terra natia, la ripartenza verso la Svizzera, l‘ Eldorado degli Anni Sessanta, dove vi lasciò il figlio Alfredo, la nuora Tina e le sue care nipoti. Famiglia di emigranti, quella degli Alagia, se si pensa che la sola Felicetta non si è mai mossa da Caposele, qui trattenuta dall’amore filale, mentre Eduardo e Filippo si sono stabilmente insediati negli U.S.A., sempre col loro paese nel cuore....L’emigrazione, quindi, aveva lasciato il segno in quest‘uomo laborioso, stimato anche per la passione civile, quasi epidermica, che lo infervorava quando in gioco era il buon nome di Caposele e dei Caposelesi. Forse perciò gli andavano stretti gli steccati dei partiti in armi: la sua fedeltà emotiva alla DC non gli impediva in sede locale di optare per il meglio, come era solito dire, e sono stampate in tutti noi le accese ma pur sempre affettuose discussioni “ politiche col suo Raffaele e l ‘ altrettanto caro Alfredo , diceva tra il rassegnato ed il soddisfatto: “A casa mia c’ é tutto l’ arco costituzionale!” Era terribilmente serio e si imbestialiva di fronte alle strumentalizzazioni localistiche ed elettorali degli emigrati tirati per la giacca in ogni consultazione municipale, ma anche più recentemente non era dolce con certi benpensanti che se la prendevano con gli extracomunitari, metafora moderna di una umanità sempre in marcia su una terra disseminata di stupidi confini. Era instancabile Emidio che smontava dai turni di lavoro alla Ferrocemento e rimontare da navigato capocantiere ad allestire le strutture dei suoi Ferragosti Caposelesi: trovava sempre una soluzione tecnica ad ogni diffcoltà per poi esclamare con una punta di orgogliosa soddisfazione con il suo motto preferito: “Ingegnè, la pratica batte la teoria 1 a 0 ! Emidio, già messo alla prova da un nemico inesorabile, ha continuato a farsi vedere in paese, anche se preoccupato di lasciare sola la sua Maria lo abbiamo rivisto in occasione della visita di Nichi Vendola, a Caposele, seduto nelle vicinanze del tabacchino Russomanno, emozionato come non mai per un evento da lui ritenuto storico, perché non è di tutti i giorni sentire un politico scusarsi con Caposele per un ritardo lungo oltre un secolo. Lo si è rivisto sereno e soddisfatto anche in qualche serata di sagra agostana a presenziare le manifestazioni inossidabili della sua Pro Loco ... certo le sue visite erano sempre più rade e fugaci: un saluto a Felicetta, un’ occhiata da sua figlia Nina, una mezz’ oretta davanti al Mister Bar e poi via col suo puntuale e fedele “autista “ Alfredino.

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L’altro Alfredo se lo portava nel cuore a denti stretti e sorriso serrato, come solo sa fare un padre che perde il figlio troppo prematuramente. Non era più ormai l’ Emidio delle lunghe passeggiate con gli amici lungo via Roma, quello che compariva quotidianamente in piazza Tedesco e quello ancora che sprizzava orgoglio per l’ attivismo di maestra e di presidente ANPAS di sua figlia Cesarina. La sua è stata la parabola di vita di un uomo comune, eppure la sua esistenza è stata speciale. Lo ricorderemo? Sicuramente sì, se stampiamo nella mente il suo sorriso espansivo, i suoi occhi chiari pronti a cogliere i dettagli, la sua voce a tratti nervosa, il suo parlare franco e schietto mai soffocato dalle convenienze, la sua irruenza da fiume in piena che in un attimo guadagna il cammino calmo e sereno. Egli si è accomiatato da noi in una giornata di fine ottobre, di un mese che trattiene il sole per riscaldare il duro lavoro degli ultimi raccolti, prima che l’ inverno conceda il meritato riposo ... è bello immaginare che Emidio abbia scelto questo particolare mese autunnale per separarsi da tutti noi col suo sorriso solare, con tanta voglia di quiete, ma anche con un gran fardello di nostalgia per chi gli ha voluto bene in un paese che egli ha amato a dismisura.

Caro Emidio di Antimo Pirozzi

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i ho sognato ed in sogno abbiamo parlato a lungo: nel corso del colloquio mi hai rimproverato per non averti ricordato su “La Sorgente”. Ed io, a mia giustificazione, ti ho ricordato che durante le sedute per l’allestimento del giornale, parlando dei tanti personaggi che passavano a nuova vita, ti dicevo spesso “chissà se un domani si ricorderanno di noi”. Tu me lo hai ricordato in sogno ed io sono qui a palare di te. La nostra conoscenza risale al lontano 1962, anno in cui venni assegnato al Posto Fisso Carabinieri di Materdomini e tu lavoravi alla “Casa del Pellegrino”. Nacque una reciproca stima. Ci siamo rivisti nel 1973 anno di fondazione della Pro Loco nella qualità, entrambi, di soci fondatori. E poi ci siamo alternati nelle cariche di Presidente e Vice Presidente del prestigioso sodalizio con un’amicizia che diventava sempre più intensa. Quanti eventi, quanti ricordi, quante discussioni, talvolta con toni alterati, che però non hanno mai pregiudicato la nostra stima e amicizia. Credevamo entrambi, fermamente, nella Pro Loco e nella Sorgente. Io mi limitavo ad attenermi ai programmi discussi e stabiliti, nonché all’operatività strettamente necessaria. Gente di Caposele ieri

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Tu rappresentavi la “PIETRA ANGOLARE DELLA SEDE”. Sempre presente e sempre operativo, eri la “cassa di risonanza” di tutto ciò che di bene e di male accadeva. Tante volte, per l’eccesivo attaccamento alle cose in cui credevi, ti creavi, gratuitamente, qualche inimicizia che però subito rientrava, tale e tanta era la stima e la considerazione che tutti avevano di te. La prova provata è stata la grande partecipazione di popolo al tuo funerale. Hai dimostrato che nella vita è necessario “fare” e non stare a guardare. Tu hai fatto molto per la Pro Loco e mi auguro che qualcuno sappia sostituirti con uguale attaccamento e amore per il sodalizio. Ci manchi e ci mancherai

IL PAESE Più BELLO DEL MONDO RadioLontra

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icorderemo Emidio Alagia avendo a mente una sua personalissima, ricorrente espressione: “Caposele è il paese più bello del mondo”. Non era per Emidio una frase di circostanza. Era un suo fermo convincimento. Insomma, ci credeva per davvero. È stata questa la cifra che ci dice del suo amore viscerale per il suo paese. Tutto ciò che favoriva la crescita, lo sviluppo, il miglioramento delle condizioni di vita, trovava il suo entusiastico favore. A volte anche eccessivo, ma autentico. Ogni tratto della sua vita pubblica ha sempre tenuto fermo questo punto. Vivere per Caposele, avendolo sempre nella mente e nel cuore: che si trattasse di politica o di sport, di cose quotidiane o di lungo respiro, Emidio faceva sempre emergere il suo amore e la sua passione. Non sappiamo se le sue scelte siano state il frutto della casualità e del fato, resta il fatto che Emidio è stato tra i pochi che, emigrati in Sud-America negli anni ‘50, è tornato dopo un decennio per stabilirsi definitivamente nel paese natio. Ci piace pensare, e crediamo di non sbagliare, che egli sia tornato per una sorta di saudade al contrario. Troppa nostalgia nelle giornate argentine, tanto valeva tornare a Caposele e viverci per sempre. Egli amava i caposelesi, valorizzandoli come profeti in patria. Non provava invidia, anzi. Se un silaro assumeva ruoli di responsabilità, a qualsiasi livello, in qualunque parte del mondo, Emidio ne provava orgoglio. Per lui qualsiasi luogo che valorizzasse Caposele era il suo luogo. Non a caso sin dalla costituzione della ProLoco egli vi aderì con entusiasmo, collaborando con tutti i Presidenti che si sono succeduti in quasi quarant’anni. Particolare, poi, è stato il suo legame col periodico “La Sorgente” e il suo amico-direttore Nicola Conforti. La sua collaborazione è stata sempre umile e fattiva. Fino all’ultimo numero, presentato ancora quest’estate, comunque già malato e consumato, Emidio ha voluto presenziare per aiutare alla distribuzione del giornale. Non c’è stato numero che non abbia visto Emidio impegnato nella spedizione del giornale. Lo sentiva quasi un obbligo di ritorno far arrivare il giornale

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di Caposele a tutti i caposelesi emigrati nel mondo. Credo che la malattia, più che l’età, non gli abbia consentito di rendersi conto della novità di RadioLontra che ha segnato il 2012. Se avesse potuto cogliere lo spirito che ci anima ne sarebbe rimasto entusiasta, poiché è anche al suo stesso spirito che ci siamo ispirati. E ci avrebbe sostenuto con il suo solito “datevi da fare, datevi da fare perché Caposele è il paese più bello del mondo”. Mancherà una figura come Emidio Alagia, la sua passione e il suo entusiasmo contagioso. Noi, a caldo, sentiamo di ricordarlo così, istintivamente.

ENRICO CORONA di Gerardo Ceres

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nrico Corona è stato medico per lunghi anni. Ma è stato anche alcune altre cose che, essendo le nostre due abitazioni da sempre contigue, ho potuto negli anni osservare e conoscere. Del medico sento di ricordare solo un paio di cose semplicissime. Egli non ha mai fatto la corsa ai libretti dei pazienti. Riteneva che curare oltre cinquecento pazienti fosse troppo. Al punto che quando morì suo cognato, Amerigo Del Tufo, non fece assolutamente nulla per accaparrarsi i suoi pazienti. Della medicina aveva una visione essenziale e forse, non me ne vorranno i suoi cari, non l’amava granché. Era parco nel prescrivere farmaci e per le piccole contusioni o i dolori reumatici o slogature, invitava i pazienti a passare alla porta a fianco, facendoli ricorrere più prosaicamente alle cure di mia madre, conosciuta in paese per alcune doti di manipolazione delle ossa, dei muscoli e dei nervi umani. Una volta, poi, raggiunta l’età della pensione non ha voluto neppure lontanamente saperne della sua professione. In realtà Enrico Corona aveva altre passioni. Prima fra tutte, la caccia. Ma presumo che la caccia fosse solo un alibi per andare per luoghi bucolici e per possedere quei bellissimi cani che hanno condiviso ogni ora delle sue giornate. Ma egli amava anche altri animali, specie quelli da cortile che regnavano il suo giardino e di cui Enrico aveva particolare cura, al punto che la sua figura l’ho sempre associata - non so perché - a quella dello zoologo ed etologo austriaco Konrad Lorenz. C’erano anche altre passioni che hanno sempre destato in me una particolare curiosità. Credo di avere visto in vita mia il primo personal computer proprio dentro lo studiolo al piano terra della sua casa e di aver invidiato la sua ricchissima discoteca di musica còlta che ascoltava con un impianto hi-fi tecnologicamente avanzato. E’ arrivata negli ultimi anni una malattia subdola che ne ha minato, progressivamente, il corpo. Oramai lo vedevo e ci salutavamo solo in occasione delle Gente di Caposele ieri

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sue partenze o dei suoi arrivi, con l’auto della Misericordia che lo portava e lo riaccompagnava da S. Angelo dei Lombardi per le dialisi che doveva fare a giorni alterni. Fino a ieri mattina. Quando poco dopo le sei del mattino, con l’arrivo dell’ambulanza, ho capito che la situazione stava precipitando. Ripresosi dalla crisi cerebrale, ancora sveglio e vigile, l’ho visto, dal mio balcone, per l’ultima volta, sdraiato sulla barella, mentre veniva caricato sull’ambulanza del 118. Lo saluto, ricordandone a caldo alcune sfaccettature della sua vita, ma lo faccio (senza presunzione) anche a nome di tanti che non potranno che sottolineare la mitezza dell’uomo, che è stato di certo medico ma, appunto, tante altre cose ancora.

PASQUALE MONTANARI di Luigi Fungaroli

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l giorno in cui si commemorano tutte quelle parti del tuo cuore volate in cielo, giorno in cui tutti noi abbiamo incorporato un aspro groviglio di emozioni... Oggi, però, non è un “2 Novembre” qualsiasi. È soprattutto un mese esatto dal momento in cui ho capito la vita vera com’è, un mese esatto di assenza materiale, di mani non strette, di sorrisi e di lotte contro il tempo perse... Era il 2 Ottobre. Salivo via Ernesto Caprio con uno strano senso di vertigini e mal di pancia. In quel momento ho visto mia madre, un automa vagante. Mi disse soltanto: “Vuoi salutarlo?” Capii, capii tutto. Entravo nella casa semi buia. Nonna nelle fasi buie è sempre stata un uragano pur di farti stare con noi ma quel giorno stava capendo tutto. Era muta con i suoi occhi di ghiaccio, gli stessi occhi che si commuovevano per i 50 anni di matrimonio compiuti da poco, gli stessi occhi che ti avevano fatto innamorare... Sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui sarei entrato e avrei sentito la tua presenza viva, gli ultimi battiti del tuo cuore... Entrai in camera. Quante cose avrei voluto dirti. Tante. Ma non ho avuto il coraggio. Forse, le sapevi già. Presi la tua testa tra le mie mani e dissi:”NONNO” . È l’unica cosa che riuscii a dirti. Tu mi sorridesti piangendo. In quello sguardo riconoscevo la forza della vita e il suo ciclo matto e spietato, mentre una bombola ad ossigeno si affondava nelle tue narici. Tutto quello che avresti voluto dirmi me lo hai trasmesso in quello sguardo. L’esterno non era considerato, il tempo non ricordavo più. Quello sguardo cinto tra le mie mani era il mio spazio e il mio tempo. Ti accarezzai le guance corrose dal nemico. 252

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Il tumore ti aveva reso una larva. Chiusi gli occhi piangendo e uscii da casa tua. Quanto hai sofferto, nonno. Troppo. Gli ultimi attimi sono stati agghiaccianti, disperati. Una porta aperta, l’ansia della famiglia e mio zio Gualfardo, un bambino che fà di tutto per recuperare il palloncino che sta già volando via. “Non ce l’abbiamo fatta...” disse lui dopo una serie di operazioni disperate. Avevamo fatto di tutto. Eri morto. Hai scelto di lasciarci il 2 Ottobre, giorno della festa dei nonni. Giorno che congiunge in modo indissolubile il tuo rapporto con me, quasi a coronare quello che amavi fare di più: il NONNO. Che cosa significa morire? Significa non vedersi mai più. Potrei cercarti persino nella più sperduta casa di uno sperduto stato del mondo ma lo farei invano. Dove ti cercherò quando vorrò passare i pomeriggi davanti alla TV ? Quando vorrò sapere quanto più possibile sul famoso “Acquedotto Pugliese”? Quando vorrò semplicemente sentirmi dire “Dai! Impegnati un po’ e ce la farai!”?Ti cerco disperatamente. Non ti trovo. Voglio vederti sorridere, voglio vederti ancora passeggiare al cantiere, voglio sentir dire ancora una volta “Quant’ si bella a nonno” come lo sapevi fare solo tu quando vedevi Chiara, voglio sentirti rispondere alle domande della settimana enigmistica che Zio Agostino ti poneva durante l’ultimo periodo, vorrei ritornare indietro nel tempo.

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DONATO D’AURIA Si è spento all’età di 95 anni di Gerardo Ceres

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o ricordiamo con cordoglio sincero perché egli nella sua lunga vita è stato un solido ed apprezzato educatore di diverse generazioni di bambini caposelesi. Era un maestro delle scuole elementari, quando essere maestro significava essere investito, dalle famiglie e dalla società ne suo complesso, di una funzione fondamentale per la crescita individuale dello scolaro e, di conseguenza, per la crescita collettiva e delle tasse, avendo dovuto ripianare le disastrate finanze del Comune. Oltre che a risparmiare, ingaggiò una solida battaglia contro gli elusori delle tasse municipali. Quindi lo possiamo ricordare anche come un “civil servant” (servitore del bene pubblico). Completiamo questo personale, immediato e fugace ricordo, con leimmagini del maestro D’Auria oramai pensionato. Dedicava parte della mattinata davanti alla Pro Loco a spulciare i titoli dei quotidiani, per poi ritirarsi con la mazzetta di sei/sette quotidiani a continuare la lettura nella sua casa di corso Europa. Dunque, curioso ed interessato agli accadimenti politici, economici sociali italiani ed internazionali. Quella curiosità che nell’età che avanza può considerarsi un dono di Dio. Ed egli ha avuto la fortuna di ricevere questo dono. Lo salutiamo con viva ammirazione per il segno che lascia a Caposele e, con questo sentimento, esprimiamo vicinanza alla sua famiglia: alla maestra Sisina, a Vito, a Nicola e ad Amalia. Il maestro D’Auria questa funzione l’ha svolta, insieme alla moglie SisinaFarina, nel migliore dei modi. Abbiamo detto delle generazioni cui lui ha insegnato le prime nozioni basilari del sapere, ma in un’epoca di povertà delle famiglie, prive di altri strumenti di apprendimento - basti solo pensare al ruolo educativo della prima televisione italiana - la scuola e quindi il maestro erano i soli strumenti per conoscere il mondo nella sua accezione più larga. Pensare a lui, oggi, e ai tanti altri maestri e alle tante maestre di un tempo, fa nascere spontaneo un sentimento di riconoscenza. A quei tempi, a differenza di oggi, alla scuola e ai suoi insegnanti veniva attribuito uno status sociale alto e nobile. Essere maestro significava essere Magister. E Donato D’Auria, insieme a tanti suoi colleghi, lo è stato. La sua vita, poi, si è arricchita anche di altre esperienze di impegno. Agli inizi degli anni sessanta egli è stato Sindaco, durante una difficilissima stagione politica del nostro Comune. È ricordato come il Sindaco dei tagli del comune.

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MAESTRO DI VITA di Antonio Cione

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aro Donato perché così alcuni di noi Ti chiamavamo da adulti, vista la confidenza e l’affabilità che stabilivi con ognuno dei tuoi alunni, hai lasciato la tua e la nostra comunità di Caposele che ti piange unanime. Tu che sei stato il Maestro di innumerevoli generazioni, al punto che, per alcuni di noi, sei stato insegnante dei nostri nonni, ma anche dei nostri padri e dei nostri figli, ora ti ricongiungi, nell’Alto dei Cieli, con tanti tuoi scolari che non sono più tra noi. Sì, perché tu sei stato non solo il maestro di scuola, ma soprattutto maestro di vita in tutto quello che hai fatto: l’insegnante, il marito, il padre, il sindaco, ma anche il ballerino e l’agricoltore-giardiniere, ma soprattutto sei stato la memoria storica delle vicende del ‘900 a Caposele. Quanti di noi siamo venuti a conoscenza di vicende ed accadimenti della vita pubblica del comune di Caposele, uno per tutti quello dell’Acqua e dell’Acquedotto Pugliese che tu avevi così lucido e chiaro al punto da essere utilizzato come traccia di buona parte del lavoro encomiabile del compianto Gerardo Monteverde che ci ha lasciato una rievocazione storica sull’argomento di indiscutibile qualità. Noi tutti ti vogliamo ricordare così come sei stato: in classe mentre sorseggiavi il tuo caffè bollente a metà mattinata tra una spiegazione e l’altra; a casa tua mentre ci raccontavi insieme ai tuoi figli tanti episodi della storia di Caposele; per strada quando camminavi con passo svelto, abituato da giovane a fare il percorso a piedi da Caposele a Senerchia e ritorno, dove hai insegnato all’inizio della tua lunghissima carriera; oppure quando, in rare occasioni, ti abbiamo ammirato come valente ballerino insieme a tua moglie, la maestra Sisina. Ma, in conclusione, ce lo consentano i tuoi figli Vito, Nicola ed Amalia, ti vogliamo considerare come nostro Padre Morale, perché, per tutti noi, resterai il nostro Maestro di scuola, ma soprattutto di Vita. Buon viaggio, maestro uno per tutti.

UNA TESTIMONIANZA di Ezio Caprio

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io caro “Signor Maestro”, il mio non è né vuole essere un elogio funebre. Ma è soltanto una “testimonianza” che si traduce in un sentimento di doverosa gratitudine. Gente di Caposele ieri

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Ed è il mio un sentimento, immutato nel tempo, fin da quando, nei lontani anni 47- 48 del secolo scorso, dopo le ore trascorse in classe, ti incontravamo nelle vie di questo paese che erano allora l’anfiteatro unico ed irripetibile dei nostri giochi infantili: cercavamo allora di nasconderci, perché ci sembrava essere venuti meno al dovere dello studio pomeridiano, ma tu ci rassicuravi con un benevolo sorriso, appena accennato, come nella tua classe discreta. Tralascio ora i tanti ricordi dei tuoi insegnamenti di vita, molto spesso collegati alla lettura ed al commento del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis - in cui era rappresentato un variegato mondo reale e, purtroppo, non più attuale -. Ma mi è caro ricordare una improvvisata gita “fuori porta”, al Ponte Minuto. Lì ci hai indicato i punti cardinali, soffermandoti sul punto Est, dove nasce il Sole: l’oriente. Poi, indicandoci con la mano il vicino Cimitero, aggiungesti (lo ricordo ancora!): “lì è il grande Oriente, dove il sole e la luce non tramontano mai!” Ora, Signor Maestro, che sei entrato in quella luce, ti diciamo: Addio e ancora grazie.

LA BONTA’ E LA CULTURA di Michele Ceres

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aro indimenticabile Maestro, ti prego non arrabbiarti se mi rivolgo a te soltanto ora, dopo che il tuo spirito si è liberato del suo involucro corporeo, per rimarcare la bontà e la cultura che già in vita ti avevano fatto esemplare modello di cittadino ed educatore di qualità eccelse. Non sorridere, ti prego, di queste mie parole, non continuare a essere modesto, perché sai bene che agli estinti, come ci spiegasti quando ci facesti imparare a memoria un breve passo de “I Sepolcri” di Foscolo, non serve la ritrosia, se “ad egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti”, perpetuando nei viventi le loro migliori qualità. E tu, di qualità morali e altruistiche ne avevi molte, tanto da spronare familiari, amici e alunni a compiere sempre il proprio dovere e a elevarsi culturalmente. Ti ricordiamo ancora scossi e attoniti per la tua morte, attenti e riconoscenti, forti del tuo esempio, che resta grande e impagabile. Ti vogliamo un sacco di bene, oggi, domani, sempre. E tu l’hai sempre saputo. Non c’era alcun bisogno che alla tua morte esplodesse tanta prosa e tanta poesia a sublimare la tua opera d’insegnante, cui tanto deve la nostra Comunità, che tu amavi. Sarebbe fin troppo facile, oggi, unirsi al coro di quanti cercano di ripercorrere la tua vita di maestro, di padre e di sindaco. Accolgo e sottoscrivo quanto di meglio altri hanno scritto e detto sul tuo conto. Ma voglio soprattutto ricordarti per alcuni episodi, per me importanti e significativi. Correva l’anno scolastico 1952-53, frequentavo la quinta elementare. C’era una decisione importante da prendere che si sarebbe dimostrata fondamentale per il futuro di noi alunni.

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C’era da scegliere se continuare gli studi presso la locale scuola di avviamento professionale oppure sostenere l’esame integrativo per accedere alla frequenza della scuola media, che ci avrebbe consentito di proseguire gli studi fino al conseguimento di un diploma o di una laurea. Si trattava di una scelta fondamentale, importantissima e decisiva per il nostro futuro. Agli inizi degli anni Cinquanta, in maniera silenziosa, stava avvenendo una trasformazione che potremmo definire storica. Se fino allora la scuola media era frequentata, quasi in maniera selettiva, dalle classi abbienti, cioè dai figli di quelle famiglie che si potevano permettere di sostenere le spese necessarie per il prosieguo degli studi, incominciò, proprio allora, ad essere massicciamente frequentata anche da figli di artigiani, piccoli commercianti e contadini più evoluti. In armonia con i tempi e altruista come eri, pensando che molti di noi alunni meritavano di continuare gli studi, domandasti chi di noi avrebbe voluto accedere alla scuola media. Metà classe alzò la mano. Tra questi c’ero anch’io. Fu così che contattasti i genitori e li convincesti, parlo principalmente per me, a sobbarcarsi non pochi sacrifici. Infatti in quel tempo, andare a studiare, così come si diceva, costava non poco e non tutte le famiglie si potevano permettere ciò che per la gran parte della gente era ancora considerato un lusso, una cosa da benestanti. E così di pomeriggio, senza chiedere alcun compenso, ci preparasti per gli esami di ammissione alla scuola media, che furono da tutti brillantemente superati. Nonostante la stima e il rispetto verso di te, che mai mi sono venuti meno, devo tuttavia confessarti, anche se questo già lo sai, che nelle varie competizioni elettorali per la guida del nostro Comune sono stato sempre un ostinato e pervicace avversario della tua parte, tant’è che nelle elezioni amministrative del 1980 entrambi eravamo candidati, ma in liste contrapposte. La mia lista vinse le elezioni e nella veste di amministratore comunale ebbi la prova inconfutabile, ma di ciò ero già pienamente consapevole, della tua onestà intellettuale e materiale. Nel bailamme del dopoterremoto, mentre quasi tutti si davano enormemente da fare per ottenere il massimo delle provvidenze, spesso esagerando a dismisura il danno ricevuto, con dichiarazioni di atti di notorietà compiacenti e complici, tu che pure avevi sofferto e patito disagi non lievi, rifuggisti da ogni intervento assistenziale sia nella fase acuta dell’emergenza sia, dopo, al tempo del reinsediamento provvisorio della popolazione con l’assegnazione dei prefabbricati sia successivamente quando non presentasti istanza di ricostruzione della tua casa, perché, sostenesti con convinzione che la stessa non aveva riportato danni sensibili, tant’è che preferisti ripararla utilizzando un modesto contributo previsto dall’Ordinanza 80 dell’allora Commissario Straordinario Giuseppe Zamberletti, rinunciando ai benefici concreti e di ben altra entità della Legge 219/81. E così, non sei stato assegnatario di prefabbricato, né sei stato un destinatario del contributo della ricostruzione. Non pochi altri, nelle tue stesse condizioni, pretesero e ottennero ben altro! Ma tu, eri tanto convinto della tua scelta che, già Gente di Caposele ieri

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all’indomani del terremoto, andasti subito ad abitare la tua casa quantunque danneggiata, sia pure in maniera non grave, sebbene, come tutta la popolazione traumatizzato dall’evento catastrofico e nonostante, per di più, che i servizi non fossero stati pienamente riattivati. Solo una volta ti vidi nella baracca che allora fungeva da sede del Comune. Fu in una fredda e piovosa notte del gennaio 1981, quando il distacco di una massa rocciosa dal costone retrostante al quartiere in cui era localizzata la tua abitazione e il conseguente incombente pericolo per la pubblica e privata incolumità m’indussero a emanare con urgenza un’ordinanza di sgombero immediato di tutta la zona sottostante al costone. Venisti a lamentarti del nuovo disagio, ma il tuo lamento per la mia eccessiva preoccupazione era più che giustificato. Infatti dopo appena due giorni, a seguito di sopralluogo di tecnici del Comune, dei Vigili del Fuoco e del Genio Civile di Avellino, l’ordinanza di sgombero fu ritirata, perché, pur nella prescrizione di un intervento di consolidamento, non vi era pericolo immediato di ulteriori smottamenti a valle di masse rocciose. Caro Maestro, penso che bastino questi pochi esempi per descriverti a chi non ha avuto l’occasione di conoscere appieno la tua spiritualità, il tuo senso del dovere, il tuo attaccamento alla gente della nostra Terra. Maestro, per sempre sarai con noi. IL MAESTRO-SINDACO

di Alfonso Merola

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arà sembrata una tortura per Donato D’Auria l’estate di quest’anno che passerà alla storia meteorologica come la più bizzarra tra le stagioni dell’ ultimo secolo. A pensarci bene, se avessimo avuto modo di parlarne con lui, ci avrebbe detto certamente se nel 2014 fosse stato battuto qualche record. Ci rammenta Seneca che la vecchiaia è di per sé una malattia, ma nel caso del nostro amico questa massima proprio è fuori luogo. Donato, infatti, sembrava appartenere dall’alto dei suoi venerabili novantacinque anni ad una specialissima categoria di uomini che poteva agevolmente sottrarsi alla più ferrea delle leggi della Natura . È vero che non lo si vedeva in giro per il paese come un tempo, ma che conservasse con realismo la sua consueta vitalità intellettuale è del tutto innegabile. Nelle rare visite che gli facevamo assieme a qualche amico, si notava che egli era debilitato nel fisico, per cui ci chiedevamo per quanto ancora avremmo potuto godere della sua piacevole presenza, della sua verve dialogica e della sua voglia di parlare del presente, intrecciandolo con eventi del passato. Alcuni suoi visitatori, tra i quali io mi riconosco, stante la differenza di età, si ritrovavano in casa D’Auria sicuramente per un interesse egoistico. Chiunque avesse sete o urgenza di sapere qualche fatto o dettaglio di una precisa cir-

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costanza non aveva altra fonte alla quale rivolgersi se non al sindaco-maestro D’Auria. Era certamente un piacere ascoltare Donato, quando nella sede della Pro Loco o davanti al Mister Bar ti catturava l’attenzione con racconti, aneddoti e informazioni su vicende locali recenti o remote. Donato D’Auria, è risaputo, era un divoratore di giornali quotidiani, potremmo dire che era un’autorità; come” esperto”, però, non era ascoltato e questo poco importa in un paese in cui abbondano politologi e tecnici sportivi. Ma Donato riusciva ad attrarre l’attenzione di tutti quando si trattava di fatti e misfatti caposelesi: allora era un fiume in piena per davvero. Di lui ammiravo il suo carattere schietto e sincero, mai prosaico, disinvolto e disincantato verso un mondo che prometteva rivoluzioni ad ogni istante e che poi si inchiodava a tempi lenti. La “relatività” del tempo per Donato? Io la racchiuderei nel botta e risposta che spesso ci scambiavamo. “Dona’, novità?” gli chiedevo. E lui prontamente: “Alfo’, l’unica novità è che non ci sono novità!” Egli prediligeva il tutto e subito negli impegni che si assegnava ma questo suo assillo non lo rendeva noioso, perché metteva a frutto in un certo modo l’antica e preziosa dote del buon maestro elementare di un tempo che raramente sciupava le sue ore in inutili ozi, fedele al motto del” Chi ha tempo, non aspetti tempo”. Donato sapeva anche essere maestro di sottile sarcasmo che condiva di sorrisi e di leggerezza e tutto ciò lo rendeva simpatico, anche perché i suoi giudizi non erano mai offensivi. Quando egli si distendeva nei suoi racconti mai ripetitivi in quanto contenevano sempre nuovi dettagli, talvolta non riuscivo a stargli dietro perché mi distraeva una domanda :”Saremo mai in grado di raccogliere questo tesoro di testimonianze che Donato ci somministra a pillole giorno dopo giorno?” Aggiungevo poi: “ Donato mi sembra il motore di ricerca di un moderno computer. È sufficiente che lo solleciti nell’interrogazione ed ecco che ti sgrana una lunga sfilza di informazionini ma un computer in un certo senso è in grado di immagazzinare e conservare i dati in eterno, il nostro amico invece prima o dopo, ahimè....Donato era nato nel 1919, aveva frequentato il Ginnasio a Sant’Angelo dei Lombardi e conseguito il Diploma di Abilitazione Magistrale a Salerno. Si iscrisse qualche anno più tardi all’Istituto Universitario di Lingue Orientali di Napoli. Una curiosità: seguiva tra l’altro il corso di lingua e letteratura araba. Con l’improvvisa chiamata al servizio militare egli naturalmente fu costretto ad abbandonare gli studi universitari: si era in piena seconda guerra mondiale ed in una fase veramente difficile per l’Italia in bilico tra l’avventura di Salò e l’imminente sbarco degli Alleati. Nel parossismo di quegli anni si vide destinato in lungo ed in largo per la Penisola; alla fine della guerra lo ritroviamo a Lecce nelle fumane di soldati reduci che familiarizzando con le truppe angloamericane tentavano di rientrare nei loro paesi di residenza. In effetti egli poté raggiungere Caposele in tre giorni, a piedi e per qualche tratto con mezzi di fortuna, con tutte le incognite Gente di Caposele ieri

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che comportavano quei giorni in cui regnavano ordini e contrordini, incertezze e non ultimi pericoli di vario genere. Dopo qualche settimana di permanenza a Caposele, si ripresentò alle autorità militari distrettuali del ricostituito esercito italiano e risalì la Penisola con le Forze di Liberazione; per dirla in breve non si imboscò. Terminata la guerra, partecipò al primo concorso pubblico per la selezione di insegnanti elementari indetto in “regime repubblicano” che egli superò brillantemente con altri caposelesi tra cui colei che a breve sarebbe diventata la compagna della sua vita. La sua prima sede scolastica di assegnazione fu Senerchia che egli raggiungeva giornalmente a piedi, fu successivamente destinato a Calabritto e per tutto il resto della sua carriera scolastica insegnò a Caposele. Io lo conobbi ed ebbi modo di apprezzarlo nei suoi ultimi anni di servizio (che erano i miei primi anni di insegnamento). Egli mi fu in quel periodo di incoraggiamento, sia con la sua esperienza professionale, sia con il suo approccio realistico al lavoro di maestro, impermeabile a certa retorica fascista che anche in epoca repubblicana sembrava pervadere alcuni ambienti scolastici del Sud . Accadde qualche lustro successivo che la Scuola fu costretta a prestare Donato D’Auria alle istituzioni civili locali, a causa di una particolare congiuntura. Donato D’Auria che non s’era mai ritratto dalla vita politica locale entrò direttamente in scena da primo protagonista nel 1960 nella veste di candidato a sindaco di Caposele che usciva da una complicatissima situazione politico-amministrativa. Tutti gli amministratori del dopoguerra erano sotto inchiesta da parte della Prefettura (parliamo di anni duri in cui non si facevano sconti alle amministrazioni di sinistra...) e il Comune era stato commissariato per un lungo periodo. Il già sindaco Michele Farina, giovane avvocato amatissimo dai Caposelesi era venuto a mancare da poco, per cui sembrava scontata la vittoria degli avversari. Di candidati che sgomitassero non se ne vedevano in giro anche perché le condizioni economiche del Comune erano tutt’altro che rosee ed incoraggianti. Si pensò allora al calmo e metodico maestro D’Auria che, invero, non si mostrò entusiasta, sia perché a Caposele non cennavano a placarsi gli aspri scontri tra partiti avversi, sia perché era la prima volta che un insegnante elementare scendeva in lizza (non si dimentichi che i maestri dell’epoca erano ritenuti una sorta di istituzione per cui scendere in campo era quantomeno ritenuto non consigliabile). Molto probabilmente Donato vinse ogni ritrosia per onorare la memoria di suo cognato Michele ma anche per non sentirsi responsabile, nel caso di una probabile sconfitta, di un mancato successo a causa del “suo gran rifiuto” E la sua fu una gran bella vittoria: in fondo i successi sudati, non affidati a facili e spudorate promesse valgono più di certi trionfi elettorali che nel giro di pochi mesi si sciolgono come neve al sole... Ovviamente non fu una passeggiata per un sindaco che si trovò ad affrontare rogne vecchie e nuove in un Comune che si arrabattava a causa delle sue grame entrate finanziarie. Si era alla vigilia del boom economico, ma di luce oltre il tunnel

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se ne vedeva ben poca. Al di là di quel che si può pensare, il quinquennio D’Auria non fu solo il periodo del risanamento finanziario (senza il quale Caposele non avrebbe potuto fare molta strada). In questo quinquennio fu notevole anche la progettualità che trovò realizzazione nel successivo periodo in cui D’Auria ricoprì la carica di vice-sindaco accanto a Ciccio Caprio. Nessuno dovrà però mai dimenticare che fu proprio l’Amministrazione comunale D’Auria a dissotterrare l’ascia di guerra contro l’EAAP, disconoscendo qualsiasi atto amministrativo precedente che s’era rivelato come una vera e propria rapina ed umiliazione per Caposele . Fu quella semina che consentì all’amministrazione successiva di stipulare una dignitosa ed onorevole convenzione coi Pugliesi nel 1970 Per tutto il resto la gestione D’Auria fu percepita come una amministrazione oculata, praticante l’imparzialità e per lo più tesa a pacificare gli animi in un paese in cui non mancavano problemi d’ogni genere e il gusto dello scontro politico era quotidiano. A guidarlo molto probabilmente fu la sua professione di maestro che nelle piccole comunità dell’epoca portava un valore aggiunto non solo e non tanto di tipo culturale ma anche di tipo sociale, essendo l’insegnante elementare una sorta di mediatore di consenso civico . Che dire ancora di Donato ? Dobbiamo dire che fu fortunato marito avendo avuto accanto per sessant’anni una moglie adorabile come Sisina Farina e altrettanto fortunato padre di tre figli, educati al meglio come solo sanno fare pochi genitori-insegnanti. Donato tradiva una certa emozione quando parlava dei suoi Vito, Nicola ed Amalia, ma subito si riprendeva alla grande. Come sindaco, escludo che si sia fatto dei nemici perché a ben pensarci sapeva tenersi fuori dalle baruffe e dalle ripicche paesane. Come maestro elementare, oltre ai suoi colleghi, parlano i numerosi allievi oggi padri di famiglia che non hanno mai dimenticato un solo anniversario di compleanno e puntualmente ogni trenta marzo hanno invaso la sua casa per fargli gli auguri. Di certo testimonianza popolare più grande e commossa non poteva ricevere lo scorso quindici settembre, quando tantissimi caposelesi di ogni età hanno voluto salutare il Maestro-Sindaco, custode di storia locale ed educatore attento di tanti caposelesi.

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PIETRO CERES Ricordo i figli

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l 13 aprile 2015 è stato un giorno di dolore per la nostra famiglia. In tanti si sono stretti, con affetto e discrezione, intorno a noi, alla triste notizia della perdita del nostro caro papà. Li ringraziamo tutti. Noi siamo stati tutti e tre suoi alunni e vogliamo ricordare anche il professor Ceres, che per Caposele, e soprattutto per i suoi studenti, rappresentava una istituzione e, in ambito scolastico, era soprannominato “the teacher”. I suoi studenti lo ricordano sempre puntuale e presente, anche con il “nevone”, in compagnia della sua fidata FIAT 600 bianca. La sua precisione e diligenza lo contraddistinguevano sempre come persona e come insegnante. Se qualche straniero riuscirà a capirci in lingua inglese, un po’ sarà anche merito suo! Era esigente con gli studenti ma anche pronto a comprenderne le difficoltà e le intemperanze, preoccupato sempre di agire al meglio per il loro futuro e non solo di trasmettere esclusivamente nozioni disciplinari. Lo ricordiamo come persona integerrima, che non ha mai riservato, a noi suoi figli, preferenze particolari. Dopo la laurea conseguita brillantemente e dopo le prime esperienze di insegnamento a Salerno, ebbe un incarico di assistente alla cattedra di lingua italiana alla Holland Park School di Londra, un istituto comprensivo allora all’avanguardia in una struttura ancora oggi moderna e ammirabile. A Londra per lavoro e col proposito di migliorare e perfezionare la conoscenza della lingua e della cultura inglese, rinunziò alla possibilità di frequentare altri Italiani per non distrarsi dall’impegno assunto e dalla frequentazione di ambienti culturali inglesi. L’anno successivo, previa selezione e colloquio, ebbe l’incarico di assistente all’Università di Glasgow e contemporaneamente la nomina nella Scuola italiana. Scelse di tornare in Italia. Questa fu, per lui, una scelta molto difficile e sofferta. Alle spalle si era lasciato la concreta possibilità di intraprendere una ambita carriera universitaria. Nonostante una tale rinuncia, nei nostri confronti non ha mai esercitato nessuna pressione per tenerci legati a lui e alla terra d’origine, facendo prova di quella generosità che solo un genitore sa mostrare nei confronti dei figli. Lui tornò anche per mamma Nicolina, che,vedova di guerra, aveva cresciuto i suoi due figli, lui e la sorella Concetta (sposata con Gerardo Di Masi), tra tante difficoltà, e lo aveva fatto studiare fino al conseguimento della laurea. Nato nel 1939, era rimasto orfano all’età di 4 anni. Conservò sempre con un amore particolare un orologio da tasca che era appartenuto al padre e le sue lettere dal fronte, in cui egli raccomandava alla moglie di non trascurare il figlio piccolo, perché troppo impegnata nel lavoro dei campi. 262

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Legato alla famiglia ed a Caposele, suo paese di origine, scelse di stabilirsi qui chiedendo il trasferimento da Salerno, sua prima sede di ruolo, a Calabritto. Incontrava ancora suoi ex alunni di quegli anni che lo salutavano affettuosamente. In seguito all’apertura del Liceo Scientifico di Caposele, aveva assunto la cattedra di ruolo presso il Liceo, dove ha poi insegnato per più di vent’anni. Nei primi anni successivi al suo ritorno s’interessò anche dei problemi e delle prospettive di sviluppo di Caposele. Ebbe l’idea di costituire un’associazione finalizzata alla valorizzazione culturale del territorio anche a fini turistici. Iniziativa da realizzare in concreto rilevando e ripristinando almeno uno dei mulini ad acqua ancora funzionanti alla fine degli anni cinquanta. Così come ipotizzò l’acquisizione e il restauro del castello, allora ancora in piedi e in discreto stato di conservazione. L’idea, purtroppo, era prematura per i tempi! Ha portato a termine il suo percorso lavorativo fino alla fine, sempre con lo stesso entusiasmo e attenzione per la formazione degli studenti. Ciò, nonostante la malattia che, negli ultimi anni, aveva intaccato e riduceva progressivamente le sue energie. L’ultimo Natale è stato felice di festeggiarlo con tutta la famiglia riunita, compresa la sua amata nipotina Elisa. Purtroppo un leggero velo di tristezza gli copriva il volto: inconsciamente sentiva che presto avrebbe abbandonato la sua terra, la terra che tanto amava. Non aveva mai dimenticato la sua origine contadina. Per lui era un piacere darci la possibilità di gustare i frutti buoni e genuini prodotti dalle piante che, in parte, aveva egli stesso messo a dimora. Ora i suoi frutti siamo noi, e seguiremo il suo esempio di vita in ogni luogo.

ALFONSINA TESTA dI Cesarina Alagia

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a storia della nostra comunità rischia di svanire dentro lo scorrere di un tempo che tutto cancella. Eppure la storia di Caposele, costituita da spaccati di vita che appartengono a noi tutti, a prescindere dal tempo in cui sono avvenuti, è un’antologia di quotidianità di gente comune, ma è anche antologia di episodi di coraggio, di forte sofferenza, di impegno civile, offuscati, a volte, da situazioni di ingiustizia e di prevaricazione. È una storia, quella di Caposele, che va conservata e tramandata, perché parte integrante di noi, di quello che oggi siamo e che ci distingue, per le nostre peculiarità, da altre comunità. Mantenere vive le nostre radici è quanto avviene con le pagine de “La Sorgente” che, giunta al suo 90º numero di pubblicazione, ha saputo, in questi quarant’anni di attività, essere ricordo della nostra storia, ma anche fotografa della realtà attuale. Le pagine del giornale hanno pennellato i diversi spaccati di vita di Caposele Gente di Caposele ieri

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dando la possibilità di ritrovare brandelli di vita vissuta; gli anziani hanno così la possibilità di rivedersi in tanti ricordi, i giovani possono comprendere il substrato che ha determinato, per alcuni versi, la realtà dei fatti odierni. A proposito di memoria storica, qualche settimana fa, sono andata con le ragazze del Servizio Civile Volontario, a fare visita ad Alfonsina Testa, una dolce signora che il prossimo 3 dicembre compirà 101 anni, è una signora dal cui sguardo, nonostante le tante sofferenze vissute, traspare un’infinita tenerezza e, nel contempo, una grande forza, a tratti offuscata, dai tristi ricordi che si spingono prepotentemente nella sua mente. Ad un certo punto della visita, i nostri sguardi si sono incrociati e con essi la mia voglia di chiedere, di ascoltare e da parte sua, il desiderio di raccontarsi e di raccontare... Alfonsina, chiamata affettuosamente Lelella dal padre, nasce a Materdomini nel 1914 dopo che i genitori si sono spostati da Caposele, perché la mamma è chiamata dal superiore dei Padri Redentoristi affinché sposti la taverna “ra lu chiazzinu r’ lu guardiu” appunto a Materdomini per offrire un posto di ristoro ai pellegrini. E così a Materdomini si ha il primo ristorante denominato prima “Ristorante del Santuario” e poi “Ristorante Testa”. Alfonsina con le tre sorelle Maria, Gerardina e Ninuccia e i due fratelli Salvatore e Nicola, cresce in un unico ambiente (l’attuale negozio di oggetti sacri dei Padri Redentoristi) dal quale la mamma, saprà sapientemente ricavare più spazi sia per la famiglia che per i pellegrini, dividendo il tutto con dei tendoni. La bambina impara presto “l’arte” di cucinare con una tale maestria che, a soli 12 anni, le consentirà di preparare un gustosissimo pranzo per venti persone, ottenendo l’apprezzamento di Don Pasquale Ilaria, il famoso trascinatore di folle, Don Pasquale che a Materdomini era solito pranzare. Il tempo passa ed il locale, nel 1933, viene trasferito in un posto più ampio e cioè nei locali sottostanti la costruenda “Casa del Pellegrino” la cui costruzione sarà ultimata nel 1938. Il padre Giuseppe, detto “Peppu lu Napolitanu” (perché originario di Napoli) abbandona il suo mestiere di calzolaio, per aiutare la famiglia nella conduzione del ristorante e tutti, genitori e figli, si adoperano, già da piccoli, a dare il proprio contributo per migliorare la loro situazione. A Materdomini non c’è una scuola e così Alfonsina impara i primi rudimenti del leggere e dello scrivere da alcune signorine di Calabritto in un’angusta stanza di una casa privata; in seguito, da Caposele, sale il maestro Don Camillo Benincasa ed Alfonsina frequenta fino alla terza elementare. A settembre del 1929, a Materdomini, si festeggia l’inaugurazione della basilica di San Gerardo; la ragazza dice di non aver mai visto tante autorità come in quell’occasione, tra queste il Cardinale Ascalese di Napoli e circa 100 carabinieri che agli occhi di Alfonsina, sembrano fieri e coraggiosi cavalieri pronti a sguainare la spada per accorrere in aiuto di chi fosse in difficoltà.

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Gli anni passano e Alfonsina diventa una bella giovane che attira l’attenzione di Alfonso Malanga, al quale, però, la ragazza, nonostante sia interessata, non dà segno di ricambiare il sentimento per un eccessivo senso di pudore. E così Alfonso, pressato dai genitori e da due zii che vivono con loro e con gli otto figli, chiede la mano di una benestante giovane di Caposele. Al momento di “combinare il matrimonio” l’accordo viene meno in quanto le due famiglie dissentono sulla dote, cosa che, a quei tempi, avveniva spesso, perché i matrimoni erano decisi dai genitori, per motivi tutt’altro che sentimentali. Alfonso è così libero di tornare al suo vero interesse, cioè Alfonsina; i primi timidi sguardi avvengono mentre la ragazza sì reca in chiesa. Passa un po’ di tempo ed un giorno la ragazza dice al giovane che è cosa opportuna presentarsi ai suoi genitori, i quali acconsentono al fidanzamento in quanto Alfonso è un bravo giovane, esperto falegname e gran lavoratore. Il giorno del matrimonio, Alfonsina è radiosa nel semplice abito bianco con il tradizionale velo a strascico; i due giovani vanno ad abitare in una casa di proprietà degli zii di Alfonso che vivono in una casa attigua, con i suoceri di Alfonsina e con i loro figli. La giovane divide il suo tempo tra i lavori di casa e i lavori nei campi; successivamente assisterà anche i due anziani zii che non avendo figli, strumenteranno la casa ai due sposi. Dal matrimonio nascono quattro figli Gerardo, Faluccia, Gaetano e Pinuzza. Intanto l’Italia viene sconvolta da un tremendo evento bellico, la seconda Guerra Mondiale. Anche a Materdomini la situazione è critica; i bombardamenti si susseguono incessantemente, pertanto Alfonsina ed Alfonso conducono la famiglia , con altre persone, sotto la Chiesa di San Vito e Alfonso, periodicamente, si reca con un asino a Materdomini a pigliare i viveri, mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Dopo San Vito la famiglia si trasferisce, per un altro paio di mesi, in un pagliaio in contrada Bosco nel podere di proprietà di Ceres Giovanni. Sono tempi molto duri; la Casa del Pellegrino viene adibita, dalla Croce Rossa ad Ospedale, mentre al piano di sotto vengono accolti dei bambini, rimasti orfani e sfollati dai loro paesi di provenienza. Finalmente la guerra finisce, Alfonsina ed Alfonso nel 1947, decidono di aprire per conto proprio, una trattoria (dov’è oggi l’attuale Jerry Pub) tale esercizio funzionerà per sei mesi l’anno come ristorazione, mentre come locanda tutto l’anno e vengono ospitati, oltre ai pellegrini, anche le maestrine forestiere che insegnano a Materdomini. In occasione della festività di San Gerardo di settembre, il giorno precedente, viene imbandita la tavola dei poveri a cui, inizialmente, partecipano persone che vivono una situazione di estrema povertà quali Donato di Porzia, Gerardo Chichione, Vicienzu la Cammisa e tanti altri; poi questa tradizione, voluta dal Santo dei poverelli, finisce. Nella vita di Alfonsina si alternano momenti sereni a momenti di sofferenza ad esempio, quando, le muore la mamma, a soli cinquant’anni; ma lei va avanti con Gente di Caposele ieri

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grande forza e determinazione. I dolori per Alfonsina non sono finiti; il tempo è passato, i figli sono sposati e lei ha tanti bei nipoti; siamo nel novembre del 1980, esattamente la sera del 23 novembre, quando Caposele viene sconvolta da un catastrofico e terribile sisma; una tragedia immane si abbatte sulla famiglia di Alfonsina e della figlia Faluccia sottraendo loro gli affetti più cari: Pinuzza e la sua intera famiglia, i figli ed il marito di Faluccia. È difficile riprendere la vita dopo una simile tragedia, ma è la vita stessa che ti riprende in un’apparente normalità, in una quotidianità che scorre nonostante ci sia la morte nel cuore, una morte così dura e nera come gli abiti che Alfonsina e Faluccia indosseranno da quel tremendo giorno. Alfonsina però non cede, c’è Gerardo il figlio che abita a Milano che, essendo il maggiore dei figli, diventa il suo punto di riferimento, essenziale per andare avanti ed affrontare l’ennesimo dolore, la morte del caro marito avvenuta nel 1990. Alfonsina non crolla nemmeno adesso, il legame con Gerardo diventa sempre più forte, ma un destino crudele, nel 2005, le sottrae il figlio adorato. A questo punto Alfonsina avverte tutta l’atrocità che la perdita, prima di Pinuzza e poi di Gerardo significano. È assurdo, inaccettabile che una madre, debba sotterrare i propri figli. Cosa sarà adesso di lei, come farà ad andare avanti, sapendo che anche la figlia Faluccia ha la morte dentro per la perdita degli adorati figli e del marito. Gaetano, l’altro figlio che abita a Salerno, dopo la morte di Gerardo, assolve oltre al naturale ruolo affettivo, anche al ruolo di rappresentare, per Alfonsina e per Faluccia, il necessario sostegno per continuare ad andare avanti, nonostante tutto. Tutte queste tragedie sottopongono Alfonsina ad una prova che è troppo grande, una prova che tocca il suo cuore per sempre, ma che non distrugge la sua forza, fatta di una dolcezza che guardandola, ti fa desiderare di accarezzare i suoi candidi capelli e le sue mani che tanto hanno dato e che oggi sì intrecciano così spesso, accompagnando la mente che insegue chissà quali domande, senza peraltro avere risposte. I giorni così passano, scanditi dai tanti ricordi di vita vissuta. Arriva così il 3 dicembre del 2014, quando Alfonsina, circondata dall’affetto di quanti la amano, compie 100 anni; é un giorno in cui le assenze si fanno sentire più che mai, ma Alfonsina va avanti… Io mi ritrovo ad ascoltarla, già sapendo che il suo racconto non può esaurirsi in pochi incontri, lei é depositaria della memoria della sua famiglia, ma anche della nostra comunità, la sua fa parte della nostra memoria storica. Io continuerò ad attingere ai suoi ricordi, ad immergermi in un passato lontano nel tempo, ma che ascoltando i suoi racconti, mi scorre davanti vivo e presente ed è questa la forza che Alfonsina trasmette e che vorrei condividere con chi leggerà questo scritto. Il ricordo e la storia continuano… Siamo in autunno inoltrato, i colori della natura cambiano, si fanno più caldi

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quasi a contrastare il freddo che comincia a farsi sentire. Alfonsina, invece, non cambia colore nell’abbigliamento, è sempre di nero che la veste, anche se gli indumenti si sono fatti più pesanti, più caldi per affrontare il freddo e le giornate che diventano sempre più corte ed il buio si fa spazio troppo presto nelle nostre giornate. Fra qualche giorno, il 03 dicembre, sarà il suo compleanno, compie 101 anni; quando glielo ricordiamo, io e le ragazze del Servizio Civile, lei sembra quasi chiedere scusa di essere ancora qui, non comprendendo la grande gioia che per noi tutti continuano ad essere la sua presenza, i suoi spaccati di vita, che ormai fanno parte di me e mi avvolgono come in una nuvola, che spostandosi con leggerezza, mi porta agli anni da lei vissuti sempre con grande forza, dignità e coraggio. Cara Alfonsina, la tua vita ha scritto pagine per noi indimenticabili, perché si intrecciano con le tante esistenze della gente di Caposele; sono brandelli di una vita che ci appartiene e che, in una visione cosmica del dolore e della capacità di sopportarlo, ci indica l’alternativa coraggiosa alla sofferenza. Durante un nostro incontro, i tuoi occhi si riempiono di una gioia mista a tenerezza e tristezza quando parli dei tuoi fIgli…. …. Torni, così, ad essere giovane sposa in attesa del tuo primo fglio. Le tue giornate, nonostante l’avanzare della gravidanza, sono scandite da un continuo lavoro, che si alterna nella trattoria, nei lavori domestici e nella cura ed assistenza ai due anziani zii. Il momento del parto si avvicina, tu sei alla “Carcara” nei pressi “r’ la croci r’ la paletta”, (dove attualmente è ubicato il ripetitore RAI). Dentro una spazio scavato a mo’ di cupola, il caldo è insopportabile, bisogna alimentare sempre più il fuoco per far liquefare le pietre calcaree ed ottenere così, ad una temperatura molto elevata, la calce e come prodotto secondario, la carbonella. Alla fne della giornata i dolori diventano sempre più lancinanti e ravvicinati, il parto è imminente ma la “vammana”, Domenica, detta “Zi Mica” si trova a Caposele. In casa di Alfonsina arriva Girolama Casale, che in caso di emergenza, aiuta le donne a partorire. Nella stanza, con la partoriente, sono presenti la mamma, la suocera ed altre parenti che si avvicendano nello scaldare acqua e preparare panni, mentre il marito deve aspettare fuori. In groppa ad un asino ecco arrivare fnalmente “Zi Mica” da Caposele e dopo poco nasce Gerardo il primogenito di casa Malanga. Alfonsina, dopo il parto rimane otto giorni a letto per riprendere le forze e poter dare il giusto nutrimento al piccolo, perché è consuetudine riposare e mangiare brodo di pollo per facilitare la “calata” del latte. Siccome la donna lavora fino al momento del parto, qualche volta accade che possa partorire nei campi, con tutti i rischi possibili, sia per la madre che per il neonato. Spesso, difatti, si muore di parto per mancanza di assistenza e di norme igieniche. La partoriente affda la sua salute e quella del nascituro a S.Anna protettrice Gente di Caposele ieri

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delle partorienti e tutto si consuma secondo un destino che sembra prestabilito. Alfonsina, dopo il parto, riprende a lavorare e quando va nei campi, con la tipica “spara” in testa porta con sè il piccolo Gerardo dentro la “Conn’la” realizzata, con maestria, dal marito Alfonso. Il lavoro per lei, con l’arrivo del piccolo, aumenta di molto perché la biancheria da lavare è tanta, in quanto si usa, fasciare il piccolo ben stretto con le mani, i piedini e le gambette, il tutto avvolto nelle fasce che vengono cucite dalla stessa mamma o comprate presso l’unica merceria esistente a Caposele di proprietà dei Sica. Spesso Alfonsina per alleviare il rossore del piccolo usa la farina di granturco e appena Gerardo si regge sulle gambine viene messo nella “chianca” (l’attuale girello) costruita in legno e ben salda al pavimento.Ad allietare il matrimonio di Alfonsina ed Alfonso, nascono altri tre fgli, Gaetano, Faluccia e Pinuzza, che già da piccoli aiutano i genitori nei lavori, mentre nei momenti di svago si divertono a giocare a nascondino, alla settimana, a n’duzza a muru e a la ruticella, e nelle fredde serate invernali, seduti vicino al caminetto, Alfonsina insegna loro delle antiche nenie. Mentre i maschi dopo le elementari continuano gli studi, infatti Gerardo frequenterà le Scuole Medie e il Liceo Classico a Salerno e Gaetano, dopo aver frequentato la Scuola di Avviamento a Caposele, conseguirà il Diploma di Perito Agrario sempre a Salerno, le due ragazze invece non proseguono gli studi perché questi sono, nella maggior parte dei casi, privilegi riservati ai maschi. Gli anni passano, Gerardo si laurea in Giurisprudenza e dopo qualche tempo, vince un Concorso al Comune di Milano dopo diviene Capo Ripartizione del Demanio e da dove si adopererà per aiutare il suo paese, durante il sisma dell’80, sisma che travolge e stravolge anche la sua vita, seppure vissuta a tanti chilometri di distanza, perché il dolore per la perdita dei tanti cari ed il pensiero per la sorella ed i genitori cambiano e stravolgono anche a lui la vita, in quanto sente forte la responsabilità nel dovere alleviare una sofferenza atroce e nell’essere quanto più possibile vicino ai cari rimasti. Parlando di Gerardo, c’è nello sguardo di Alfonsina tanto orgoglio ma anche la lacerazione straziante di una ferita sempre presente…. … Leggo sul suo viso una grande stanchezza, le chiedo se vogliamo fermare il suo racconto e lei dice che quando la strada che si ha alle spalle è tanto più lunga di quella che si ha davanti, il tempo per riposare verrà presto e così continua i suoi racconti sul filo dei ricordi. Dalle tapparelle del balcone noto che è diventato buio, il tempo trascorso con Alfonsina vola velocemente, perché , come dicevo prima, spazia nei ricordi di una storia piena di vicende personali e collettive. Nel salutarla e nell’accarezzare le sue mani calde, rugose e nello stesso tempo morbide, penso che la sua vita sia stata (nelle gioie e nei dolori che l’hanno fortemente segnata) un profondo atto d’amore, di cui tutti le siamo grati perché è la testimonianza autentica di quei valori ai quali dovremmo, sempre e comunque rapportare anche le nostre vite.

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GERARDINA CAROLA di Alfonso Merola

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n’altra centenaria ha raggiunto un traguardo che in genere è inimmaginabile per tanti di noi. Compiere cento anni, infatti, non è proprio un evento ordinario. Quest’anno un brindisi di cuore, alle porte del Natale e del Capodanno, se lo merita Maria Gerardina Carola. Io sono sempre stato affascinato da questa donna, un po’ perché coetanea di mio padre, compagna di scuola di mia madre, nonché mamma di un mio compagno d’infanzia . Una fgura femminile che, quando osservo mi richiama alla mente certi autoritratti di donna del pittore fammingo Brueghel, un artista che coglieva le madri nella loro quotidianità di una vita operosa ed attenta ai valori della famiglia, del lavoro e dell’intima religiosità. Una donna dolce, col sorriso appena accennato, capelli radi e ben pettinati, occhi abbassati sul suo viso d’avorio ... La storia di Gerardina è parte di una saga caposelese di fne ottocento . Il padre Giuseppe e la madre Consiglia Rizzolo emigrano in Uruguay nel 1899: è un fume di italiani a muoversi verso le Americhe per lavoro. A Montevideo nascono i fgli Rocco, Luisito, Josefna e Colomba; poi il rientro in Italia verso il 1910, quando nasceranno altre tre figlie: Rosina, Gerardina e Nina. Dunque Maria Gerardina è la penultima, essendo nata il ventinove novembre millenovecentoquindici, in via Pontesele n.3 a Caposele. A quell’epoca si nasceva in casa tra donne indaffarate che assistevano l’ostetrica comunale. Aveva di che sudare l’ostetrica in un paese in cui nascevano in media cento e più bimbi all’anno. ... anche se solo la metà superavano il fatidico anno di vita. E Gerardina superò alla grande quella prima inesorabile barriera, in un’epoca in cui la vita era grama ed il futuro incerto. Caposele annaspava perché i lavori della Pavoncelli erano terminati e si ritornava alla consueta disoccupazione ed ai campi. Era scoppiata da qualche anno la Quarta Guerra d’Indipendenza che a tanti del Sud faceva tremare le vene ai polsi. Papà Giuseppe non andò soldato, essendo padre di famiglia numerosa. Ritroviamo qualche anno più tardi la piccola tra i banchi di scuola. Crescerà in una famiglia, come si è detto, di artigiani: il mestiere di calzolaio a quei tempi non era un’attività di nicchia nel senso che la fabbricazione di scarpe maschili e femminili avveniva nel circuito interno del paese. Il 9 ottobre 1947 Gerardina contrarrà matrimonio con Rocco Nisivoccia, artigiano falegname, a lei unitosi in seconde nozze, essendo vedovo da qualche tempo. Darà alla luce due bambini: Rosa e Luigi. Gente di Caposele ieri

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Io la ricordo con simpatia questa donna minuta alternarsi tra la bottega del marito e la cucina: gli artigiani, salvo qualche apprendista, solevano spesso avvalersi dell’aiuto delle mogli in particolari periodi in cui era richiesta ulteriore collaborazione . Perderà il marito nel marzo 1976, quando ormai la bottega artigiana era saldamente in mano al fglio Luigi . E da quel periodo in poi vivrà coi fgli, la cui devozione verso di lei è sicuramente esemplare. Qualcuno dirà che ho esagerato in questo scritto. Tutt’altro: ciò che oggi ci manca è proprio la narrazione celebrativa di valori quale l’umiltà e la normalità, la misura e la sobrietà. Questo ossessivo e cieco guardare avanti, senza indagare sulle proprie radici ci fa vivere nella costante insoddisfazione. Gerardina pare dirci che in questo modo non si vive cent’anni. E allora, cento di questi giorni, Gerardina!

SALVATORE DELMALANDRINO nel ricordo di un suo nipote

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uella di nostro nonno è la storia di un grande uomo di famiglia, un gran lavoratore. Di recente mi ha raccontato che da giovanissimo andò a mietere il grano in Puglia per un pasto e qualche lira. Il problema, lui mi diceva, non era il lavoro duro ma era che lì a lavorare o far finta di lavorare c’erano anche i furbi che non appena si accorgevano che il pasto, pane e cipolle, era arrivato, si allontanavano di nascosto e si mangiavano tutto. E gli altri, gli onesti e lavoratori, incluso mio nonno, rimanevano a digiuno. Allora mi ha raccontato che lui prese da parte il padrone e gli disse: “qua la cosa accussi’ nun funziona, viri tu ch’vo fa, ma nui p’ fat’a amma puru mangia”. E si fece così portavoce di tutti quelli che come lui erano rimasti a stomaco vuoto. Questo breve racconto racchiude le sue grandi qualità che tutti noi abbiamo ammirato. Il suo amore per il lavoro duro e la terra, la sua onestà, il suo essere portavoce di chi non è in grado di far sentire la propria voce, la sua fermezza, la sua bontà e generosità. Dopo qualche anno, dalle campagne del sud Italia partì con la valigia di cartone alla ricerca di fortuna in Svizzera. A quel tempo non esistevano i trolley e le valigie p ’savano cum nu t’rramotu, ma per un uomo forte come lui attraversare a piedi i venti binari della stazione di Milano per prendere il treno per la Svizzera era una vera e propria passeggiata. 270

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Dopo anni a lavorare in giro all’estero e per Italia è ritornato finalmente a casa dalla sua famiglia e dalla sua terra. E’ ritornato non perché aveva perso la voglia di lavorare, ma perché il male che ha caratterizzato quasi venti anni della sua vita si è ripresentato. Lui non si è fatto abbattere ed ha affrontato con forza di volontà e coraggio le difficoltà. Per anni ha avuto appuntamento tre volte a settimana con quella macchina per la dialisi che gli dava vita ma anche dolore. Poi finalmente è arrivato il giorno del trapianto che lo ha fatto rinascere. Ogni giorno, però, venti e più pillole lo aspettavano; non so come facesse a ricordarsi di tutti i diversi tipi. Lui con precisione svizzera li prendeva così come gli erano stati prescritti e se ne ricordava sempre. Orgoglioso com’era, quando andava alle varie visite voleva andare da solo per non essere di peso a nessuno. In tutti gli anni della malattia e fino a pochi mesi fa usava ancora la motozappa come fosse un ragazzo, un ragazzo di una volta, con una forza antica. Io dopo nemmeno dieci minuti ne sarei uscito distrutto. Quando tornava dalla campagna la sera tardi dopo una lunga giornata di lavoro e doveva scaricare qualcosa dalla macchina per portarla in casa, capitava che trovasse la strada chiusa alla Sanità, magari per una festa di paese o un altro avvenimento. Ma lui riusciva sempre ad arrivare davanti a casa sua con la macchina. E come fai nonno, gli chiedevo. Lui mi rispondeva fiero: “I so’Malandrino, mi fann passa”. E io a sentire le sue storie mi facevo grosse risate. Ci mancherai tanto, ma ci ha lasciato molto di più. Eri cosi orgoglioso della tua famiglia e dei tuoi nipoti. Noi tre, io, Bettino ed Emiliano vivremo con il tuo esempio sempre ben presente nella mente per renderti ancora più orgoglioso mentre ci guardi da lassù. Ti ricorderemo sempre così forte, fiero, onesto, buono e generoso. Oggi è un giorno di celebrazione della tua vita, di quello che ci hai dato e di quello che ci hai lasciato. Grazie Nonno

GIUSEPPINA CAPRIO di Luigi Fungaroli

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ara Piny, Sai bene quanto è importante per me quel “cara” davanti al tuo “nome” terminante in y, perché è così che firmavi i tuoi biglietti sempre sentiti e originali. Sai bene perché ho deciso di scriverti una lettera... Sicuramente di parole, di versi sensibili e leggeri ne hai ricevuti molti, versi che ti hanno accompagnato e sostenuto nei momenti poco felici di una storia d’amore stroncata troppo presto... Conosco bene la tua anima sognante, l’orgoglio misto a commozione di quando ascoltavi recitare le poesie di tuo marito, per poi alla fine con le lacrime agli occhi, esclamare: “Ho Gente di Caposele ieri

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sposato un poeta!”. È mattina presto, il sole è ancora pallido ma diventerà, quasi sicuramente, protagonista di una tarda mattinata che vedrà il consueto passeggio Caposelese. Tutto sembra in ordine come i saluti di rito dell’incontro inaspettato, istanti fugaci di un dialogo già eseguito. Ogni istante sembra essere inglobato nell’ordinaria normalità. Illusioni. Se solo pensassimo a quante cose perdiamo giornalmente e che non ritorneranno più. In tutti noi, però, Piny, è mancato all’improvviso qualcosa. Manca un pezzo importante del puzzle della stabilità, del delicato equilibrio tra passato e presente. Manchi tu. Cara Piny, avevi ragione quando dicevi, citando tuo nonno, che “Ciò che è scritto nel magno volume non si cambia né col bianco né col nero!“. Il destino è stato subdolo, potevi stare ancora con noi, senza lasciarci con il rimorso di dirci ancora tanto ma questi sono desideri umani. Il Signore, che tanto amavi, ha avuto altri progetti per te... Sei andata via in modo inaspettato, veloce e silenzioso. Ci sono giorni difficili da dimenticare, scalfendo così, le memorie della propria vita. 4 Ottobre 2016. San Francesco. Un giorno a te caro, onomastico di tuo padre e tuo figlio. Una telefonata. Un brivido fa slalom dentro me. Ho avuto l’impressione che per un attimo il tempo si fosse fermato, come se fosse arrivato un gelido inverno all’improvviso. In tutti noi urlava la voce del ricordo, di immagini veloci della propria vita, di interrogativi che segnano le pagine del dubbio sconfortante, dell’impotenza straziante di non poter cambiare le cose. Ti scrivo, cara Piny, in una giornata di sole. Una di quelle giornate che tu osservavi dalla tua fnestra, una di quelle giornate che sicuramente avrai vissuto da bambina, da ragazza innamorata, da maestra prima di andare a scuola, da giovane donna e madre premurosa, donna che non dimentica mai l’amore anche quando la vita porta via l’amore di una vita. Il passato sembra un “ieri infinito” negli occhi di chi ti vuole bene. Guardo la tua foto con il tuo caratteristico sorriso entusiasta e mi rivedo, così, piccolo, vicino a te, nel mese Mariano da zia Felicetta. Ti osservavo mentre strofinavi le dita tra i piccoli grani della corona del rosario, comprendendo, così, che la forza della Fede e della Preghiera possono davvero risollevare i cuori. Ti rivedo nelle serate d’inverno da zia Felicetta seduta insieme ad Agnesina rivivere volti, gesti, accadimenti... La vostra era ed è un’amicizia senza tempo, fatta di parole vere, gesti sentiti, accortezze delicate e tenere. Rivedo zia Felicetta alle nove del mattino al telefono con te. Era il momento dell’ascolto reciproco, degli aneddoti dei nipotini, del racconto quotidiano, dei consigli del momento. Il racconto di due amiche. Purtroppo, però, a quella cornetta non si sentirà più la tua voce pacata e rassicurante. Vengo pervaso da un sentimento di nostalgia verso un passato che non ritornerà, è un sentimento intimo che mi accompagnerà per tutta la vita... Quando

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ti rivedevo dopo un viaggio, dopo qualche tempo lontano da Caposele, rivedevo casa, l’approdo... Cara Piny, è come se fossero mancate le rose dal giardino, come se il vento cambiasse rotta destabilizzando le certezze di tutti giorni. Non ti vedremo più camminare con la cara Gelsomina verso la Chiesa, uscire da casa di tua sorella Italia, sosta che ti riportava alle origini, alle proprie radici... Sarai con noi nel momento dello sconforto, negli sguardi della tua famiglia, ogni qual volta guarderò casa tua, nel cuore del paese, così come lo sei tu e lo sarai sempre... Tra noi c’era un bellissimo rapporto. Eri e continui ad essere per me una carica di autostima incredibile come quando dicevi scherzosamente “Se fossi ragazza, ti sposerei!”. Chi mi dirà, adesso, dopo l’appuntamento immancabile della presentazione de “La Sorgente” : “Appena vado a casa il primo articolo che leggerò sarà il tuo!”? La tua ammirazione nei miei confronti ti portò a insignirmi (lo ricordo sorridendo) del titolo di “Bello, Buono e Bravo” secondo le famose “3 B D’ORO” di Don Ciccio, tuo padre. Un legame forte, il nostro, che nasceva molto tempo fa, capelli lunghi o corti che fossero, mi volevi un bene che partiva dall’anima. “Non piangere perchè una cosa finisce, sorridi perchè è accaduta...” diceva Gabriel García Márquez. Aveva ragione ma non è semplice. Non è semplice dire addio a persone come te. Sai, Piny, mi sento, però, molto fortunato. Fortunato di averti conosciuto. Racconterò a chi verrà, di una donna di “un’altra generazione “ con la leggerezza di una fiaba, la storia di una donna dalle attenzioni delicate, dalla forte generosità, una donna che ha caratterizzato la vita di tanti diventando una sorta di patrimonio per tutti noi. Come è triste, però, l’abbandono, la mancanza della certezza dei contatti. Non ho un rimedio, non c’è risposta, solo opaca rassegnazione. Come sarebbe bello capire che non siamo inglobati in un barattolo di latta, che il perdono, il rispetto, l’affetto, valori che tu hai rappresentato, non andrebbero dimenticati...Con te, vola via un pezzo della vita di tanti, permettimi di dire, di tutti... Cara Piny, non conosco l’indirizzo, mi perdonerai... Spero che queste parole, questa mia lettera possa essere trasportata dalla brezza del ricordo che scalda il cuore, che si alzerà alta fino a superare le barriere di questo mondo... Arriverà dritta al tuo cuore e sono sicuro che i tuoi occhi brilleranno come quando incrociavi i nostri sguardi lungo il cammino... Con l’amore e il bene del mondo, Con la riconoscenza del tuo tempo... Tuo “Bello, buono e bravo”, Luigi

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Gente di Caposele LA MAESTRA PINI’ di Alfonso Merola

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a cara maestra Pinì ci ha lasciato prematuramente ed in modo inatteso da poco meno di tre mesi e si fa fatica a pensare che lei non sia più tra di noi. Da quando si era congedata dalla scuola la si vedeva di mattina affacciata alla fnestra di casa in Corso Europa o al massimo fuori dal portone. Pinì adorava la sua abitazione che l’aveva vista accanto a suo marito ed ai suoi adorati figli e che era costata sacrifici ai coniugi Malanga. Di pomeriggio, poi, quando la campana della chiesa madre invitava i fedeli alla messa vespertina, la vedevi scendere, tutta sorridente e solare, lungo Via Roma e fino a Piazza Masi; finita la Messa, dopo un’occhiata fugace e nostalgica ai luoghi della sua infanzia e della sua giovinezza , ripercorreva la stessa strada salutata dai tanti che la conoscevano e l’apprezzavano. Si sarebbe fermata per una visita lampo a casa della sorella Italia a parlare del più e del meno per poi rincasare. Pinì era la seconda figlia dei cinque rampolli di Ciccio Caprio, il sindaco più amato dai Caposelesi e andava fiera di questa eredità e guai a chi le toccava quel padre galantuomo. Il suo attaccamento era esemplare e non è per puro caso che riposi nella tomba di famiglia accanto al padre. La casa paterna per lei era un tempio. Si pensi che ,da coniugata, nonostante avesse una casa in ftto in Piazza Tedesco, di fatto abitava presso i suoi genitori, dove era nata e aveva dato alla luce almeno uno dei due figli. Era solita dire che Piazza Masi era la “bomboniera“ di Caposele con la Chiesa Madre d’un tempo ed i palazzi che le facevano compagnia su un Piano dove si disperdevano ben quattro strade che vi confluivano come ruscelli in un lago ...e poi quella nobile pietra bianca che la piantumava e che si disponeva al centro a mo’ di stella. Pinì nasce a Caposele il quindici settembre 1934 e qui vive l’infanzia e l’adolescenza coltivando le sue amicizie innanzitutto con le sorelle Sena ed in particolare con Rinuccia, sua compagna inseparabile . Si iscrive all’Istituto Magistrale di Salerno e nel 1956 ne consegue il diploma di abilitazione di maestra elementare. Nel biennio successivo frequenta la Scuola per Assistente Sociale che all’epoca era una vera e propria novità nel panorama sociale e scolastico di quegli anni . Nel 1959 rientra a Caposele e comincia la peregrinazione degli incarichi di supplenza nelle scuole elementare di Caposele e del Circondario, una sorta di prova di fuoco alla quale erano abituati i maestri dell’epoca, prima di vedersi proclamare vincitori di concorso.

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Sempre quell’anno fu costretta a lasciare Caposele per seguire il padre segretario comunale trasferito d’ufficio a Nusco: all’epoca gli scontri politici nei piccoli paesi erano aspri ed il partito di maggioranza a livello nazionale in molte situazioni non usava i guanti di velluto. Nel 1960 partecipa al concorso magistrale e ne consegue la promozione; l‘anno successivo si cimenta in una seconda selezione ed è proclamata vincitrice Il suo primo incarico da insegnante di ruolo risale al 1962 con sede a Pasano: è lo stesso anno quando si unisce in matrimonio al maestro-poeta di Caposele, Vincenzo Malanga. Insegna poi a Materdomini per un breve periodo e poi ottiene l’assegnazione definiva a Caposele Centro dove ininterrottamente sarà in cattedra fino al 1996. Che dire, a questo punto, di Pinì collega e maestra? Innanzitutto quello che direbbe chiunque l’abbia veramente conosciuta : chi pensa per un attimo a lei o la osservi in una fotografia, non può fare a meno di sorridere e dopo aver sorriso di avvertire un senso di serenità. Io l’ho conosciuta da sempre, nel senso che abitavamo nello stesso quartiere e le nostre famiglie erano legate da sincera amicizia e rispetto; quando poi divenni suo collega di lavoro la frequentazione si irrobustì, trasferendosi sul piano professionale. Sia lei che Cenzino mi hanno guidato nei primi passi di maestro elementare: Cenzino con l’alta considerazione che aveva della Scuola e Pinì con la sua carica di positività e di ottimismo che sapeva trasmettere in ogni situazione. In fondo lei aveva scoperto “l’elisir della Buona Scuola “ e consisteva nel dare tempo ai bambini che avevano bisogno di tempo ed in ogni caso di non far mancare affetto e serenità a nessuno, evitando di cadere nella sindrome della chioccia e nella trappola dei favoritismi . Diceva con convinzione: “Non affliggiamo questi bambini con tante astruserie inutili e soprattutto facciamoli sentire felici. ..perché la tristezza non mancherà di certo nel futuro!“. Pinì non ha mai creduto nei grandi sistemi didattici, ispirati dai pedagogisti di turno, convinta che ogni alunno doveva essere dotato dei soli strumenti di base per esplorare il mondo; certo è che i suoi allievi l’hanno sempre adorata e hanno ricordato gli anni trascorsi con lei come i più belli. Ricordo con simpatia gli anni del dopoterremoto: si era un po’ tutti scossi ed incerti sull’avvenire e lei spronava i colleghi, rammentando che peggio di quel disastro non ci poteva essere nient’altro. Che giorni quelli! Le notti in macchina, le tende, le baracche, il piano di destinazione gli hotels di Paestum, eppoi le tende scuola a Santa Caterina, i prefabbricati in orto Russomanno, le scuole norvegesi, le scuole in via Imbriani. Mi mancherà la sua sottile ironia mai ispirata a cattiveria, il suo senso della vita Gente di Caposele ieri

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guidato dalla comprensiva e religiosa accettazione del mondo e quell’incrollabile certezza che anche dalle più ingarbugliate difficoltà si può uscire. La più grande gioia di Pinì è stata aver visto il suo Franco felicemente unito ad Ofelia ed ai cari nipotini Vincenzo e Luigi nonché il suo Antonello finalmente sposato a Grazia Maria: sono certo che i suoi cari, sapendo chi hanno perduto, coltiveranno con affetto la Sua memoria, in nome dei bei giorni vissuti con lei.

NICOLINA CONFORTI

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a dolcezza trasparente di una donna dipinta in un sorriso. Il tenace affetto di una madre che trepida per i suoi figli. E poi, l’amore cristallino di una moglie che ha saputo coltivare nel suo tenero cuore il fiore della Memoria.

ROCCO SISTA di Pasquale Farina, Sindaco di Caposele

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ara Angelina, caro Mimino, Umberto, Walter e parenti tutti, oggi sono sicuro che il pensiero di tutti i Caposelesi va a Rocco, ma anche a tutta la sua famiglia che tanto soffre per la prematura scomparsa e per un destino che è stato poco clemente con Rocco. Un Sindaco in genere non è mai sicuro di parlare a nome dell’intera comunità o di interpretarne i suoi sentimenti ma questa è una di quelle occasioni in cui veramente rappresenta tutti. Infatti, io non credo che ci sia un solo Caposelese che oggi non sia addolorato e dispiaciuto per questa perdita, tanto egli era amico di tutti noi, nessuno escluso. Rocco era costantemente seguito da strutture ospedaliere per una seria patologia, ma nonostante tutto, non faceva mai mancare un sorriso a nessuno. Nell’ultimo anno ho avuto modo di vedere quasi quotidianamente Rocco, impegnato presso il Comune nel suo lavoro, e di lui oggi voglio ricordare la sua serenità, la sua tranquillità, la sua propensione alla disponibilità, il suo modo affabile, il suo modo educato, la sua evidente bontà. Questa chiesa che oggi lo ha accolto, è triste ed addolorata perché questa perdita lascerà un vuoto tra di noi: noi perdiamo un amico… ma voglio abbracciare ancora questi genitori e tutta la famiglia che perde un figlio e che mai, avrei voluto vedergli vivere questo triste giorno. 276

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Noi possiamo, solo augurarci che conservando nella memoria figure umili e buone, come quella di Rocco Sista, sapremo tutti agire con coerenza e rispetto reciproco in nome di questa nostra amata vita che è stata così avara con Rocco. È dunque con questo sentimento, unitario e sincero, avendo negli occhi la scritta che ci ha accolti davanti alla chiesa “chi vive nel cuore di chi resta, non muore mai”, che abbraccio simbolicamente Angelina, Mimino, Umberto, Walter e tutti voi parenti. Rocco, non resterà solo nei vostri cuori ma anche in quelli di ogni Caposelese.

ANNAMARIA SENA di Alfonso Merola

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a qualche mese Annamaria Sena non è più tra di noi. L’abbiamo salutata per l’ultima volta in Piazza Masi, mentre la sua salma veniva accolta nella Chiesa Madre di Caposele . Eravamo in tanti e tanta era pure l’emozione per una dipartita inattesa ed improvvisa. Non di meno io continuo ad immaginarmela seduta su una poltrona del soggiorno della casa paterna in Vico Plebiscito; eccola accanto alla fnestra che si affaccia sull’Orto Cozzarelli, poco distante da un tavolino colmo di compiti da correggere, di riviste e di romanzi della letteratura contemporanea di cui era lettrice assidua. Annamaria era letteralmente legata alla sua casa e caparbiamente s ‘era battuta affinché, dopo il terremoto dell’Ottanta, fosse ricostruita “ com’era e dov’era “. Ricordo con quanta trepidazione ne seguiva la riedificazione quasi archeologica, dopo lo scampato pericolo di una sua cancellazione per ragioni urbanistiche; sapere, poi, che era suo fratello, giovane architetto a seguire passo passo il ritorno alla vita di quell’immobile, la rassicurava non poco. Sarà nostalgia per un mondo che si dilegua ma per le persone nubili o celibi rappresentarsi nella mente la propria esistenza per fotogrammi che dall’infanzia si spingono fino all’anzianità, ridà tanta linfa vitale perché anche le cose più insignificanti ti parlano e si raccontano. Chissà quante volte Annamaria avrà spalancato le finestre sulla pergola del sottostante orto che muta il colore del suo fogliame coll’avvicendarsi delle stagioni , tra le voci amiche dei coloni radicati in quel pezzo di paradiso verde dall’alba fno al tramonto. .... La “ strettola “ dell ‘ Arco dei Cozzarelli che si precipita su Vico Plebiscito, dal quale si avvertono chiare le voci di bambine, ragazzi che giocano e schiamazzano tra il Piano e il Piazzino . A quell’epoca le amicizie erano molto selettive e marcate dai confini del quartiere: quelli del Piano erano perciò una sorta di sodalizio che durava una vita intera. Gente di Caposele ieri

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Ecco il Piazzino del “Guardio”, dove gli oleandri fanno a gara per diffondere nell’aria il loro aspro profumo che tiene lontani i fastidiosissimi insetti estivi su cui regnano incontrastate le zanzare ..... un piazzino di forma rettangolare che accoglie lungo le balaustre della terrazza pubblica le panchine gradite a chi è in cerca di fresche brezze nella stagione afosa. E poi il terrazzino superiore sul quale insiste il bar Romualdo, il mitico caffè della Caposele bene con le porte di vetro, le pareti di un bianco folgorante , le poltroncine ed i tavolini verde pisello , e l’enorme biliardo rivestito di panno verde scuro. Sono questi i luoghi che Annamaria ha sempre serbato nel cuore: essi come in tutte le saghe familiari dei romanzi di costume, sono una specie di casseforti nelle quali custodiamo gioie ma anche dolori, quei dolori che talvolta diventano il combustibile della nostra esistenza. E di dolore se n’è consumato nella famiglia Sena nel 1959, quando venne a mancare il capofamiglia che aveva avviato allo studio le sue figlie ancora minorenni; a partire da quell’anno si misurerà la forza e la determinazione di sei donne che a cavallo degli anni 50 e 60 scommetteranno su un futuro migliore per loro ma anche e soprattutto per il loro fratellino. Annamaria in quegli anni conseguirà con successo la licenza di scuola media che le consentirà frequentare l’Istituto Magistrale Teresa Confalonieri di Campagna. Diplomatasi maestra elementare già nel 1957 la vedremo impegnata tra i banchi in veste di insegnante. E dico tra i banchi perché Annamaria non ha mai amato cattedre e lavagne, convinta che la partita in classe la si debba giocare in interazione continua con gli alunni. Erano quelli gli anni della forte alfabetizzazione di in epoca repubblicana; con una varietà di strumenti e di approcci lo Stato si impegnava a diffondere una robusta istruzione di base in un’ottica di modernizzazione del Paese. Annamaria la ritroveremo nella scuola sussidiata di Pianigrandi, poi nel plesso montano di Boninventre e in tanti incarichi di supplenza. Nel 1967 sarà vincitrice di due concorsi, uno speciale e l’altro ordinario e con titolarità di cattedra prima a Caposele capoluogo, poi a Pasano ed infine senza soluzione di continuità sempre a Caposele Annamaria ha cresciuto intere generazioni, accolte in prima ancora nude e crude e licenziate in quinta ormai robuste e pronte ad affrontare il successivo grado d’istruzione. È stata sempre un punto saldo di riferimento per tanti di noi che ci affacciavamo al primo insegnamento; sempre generosa nel trasmettere esperienze e competenze da lei costruite con rigore scientifico e con la curiosità professionale di chi vuole superare se stessa, nella convinzione che la Scuola muore se si fossilizza La sua abnegazione d’altra parte era nota come noto era il suo rispetto dei

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colleghi. Certo soffriva un po’ quando avvertiva che la Scuola di un tempo era al tramonto e quella che si affacciava all’orizzonte non era del tutto convincente. Erano appassionate le discussioni con Pini’, Cenzino, Sisina, Rinuccia ed in genere lei lasciava il segno di un tocco di classe. Era nemica delle perdite di tempi e di certa moda burocratizzante che sottraeva impegno ad una genuina azione educativa. Che dire ancora dì Annamaria , se non che negli ultimi anni ha ingaggiato una lotta impari con le trappole di cui è disseminata la vita ? Registrare la morte improvvisa del suo amato fratello nello stesso mese in cui va in pensione, subire gli ulteriori colpi infami della sorte che si accaniscono prima su Elena e poi su Maria Antonietta che cosa le avrà provocato nel profondo dell’anima? Sicuramente un terremoto di quelli che sconquassano l’ esistenza nitida, pacifica ed ordinata di chi accetta la vita come inevitabile testimonianza . Io di rado ho visto Annamaria dopo che è andata in pensione; le colleghe che hanno continuato a frequentarla, mi hanno sempre parlato di lei con la soddisfatta convinzione che lei non aveva perso la sua sensibilità e la sua vitalità. Spesso mi chiedo se mai è possibile alleggerire il peso dei ricordi di chi non c’è più, richiamando nella mente i soli momenti più belli. ... Ma poi mi convinco che la vita non è un libro dal quale è possibile strappare le pagine tristi e conservare quelle gioiose : il romanzo va letto dall’ inizio alla fine. La vita di Annamaria è stata spesa utilmente ed in caso essa è di insegnamento a tanti di noi che ne avvertono la sua assenza .

GAETANO VITALE di Nicola Conforti

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a morte di Gaetano Vitale ha lasciato un profondo vuoto nel nostro Paese. Oltre quaranta anni fa ha creato dal nulla un complesso bandistico “La Vedetta di Caposele” famoso in tutta la valle del Sele, orgoglio e prestigio per tutti i Caposelesi. Con capacità, passione ed impegno, ha allevato ed educato numerose generazioni di giovani allo studio della musica mantenendo in vita, per moltissimi anni, un complesso musicale di tutto rispetto. Il suo ricordo resterà indelebile nella memoria di chi lo ha conosciuto ed apprezzato la sua capacità organizzativa e per il suo carattere affabile e buono.

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LISANDRO SPATOLA di Gerardo Ceres

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in Don Da. Din Don Da. Din Don Da. E’ così calato il sipario sulla vita terrena di Alessandro Spatola. Non poteva calare se non accompagnato dal suono delle campane, delle sue campane. Appena raggiunto dalla notizia della sua morte, nella mente ho cominciato ad avvertire il rintocco tipico di quelle che lui ha fatto risuonare per decenni tra le vie di Caposele e le contrade del primo tratto della valle del Sele. Lisandro per almeno 40 anni è stato il messaggero di un’intera comunità. Infatti, egli ha annunciato le belle notizie, col “tocco a gloria”, così come le cattive notizie, col “tocco a morte”. Per questo, ma non solo, resterà indimenticabile nella memoria di tutti i caposelesi. Mestiere nobile ed antico il suo, che non ha trovato continuità. Tant’è che dopo la certificazione della sua cardiopatia, la parrocchia di S. Lorenzo ha dovuto adeguarsi a meccanismi elettromeccanici. Possiamo, dunque, considerare Lisandro come l’ultimo campanaro di Caposele. Ma la mitezza di Lisandro lo ha caratterizzato nel suo rapporto con le persone. Quando passava per strada non si sottraeva mai ad una considerazione di giornata o ad un semplice saluto. Lui era custode di capacità, oggi si direbbe di carattere autistica. Ricordava le date di nascita di centinaia e centinaia di caposelesi. Anche la mia. Si avvicinava, chiudeva a coppetielli le dita della mano destra e, a mo’ di toc toc, la rivolgeva al petto e aggiungeva: “Gerardo Ceres, 12/5/1962”. Come con me, lo faceva - appunto - con tantissime altre persone. Lui aveva una passione: amava la radio. Radio Caposele, prima di ogni altra, e poi anche Radio Mpa di Palomonte. L’amava così tanta che, quando invitato da Salvatore Conforti, non si sottraeva a partecipare alle trasmissioni in diretta. Oppure quando io lo invitavo nelle mie trasmissioni come “GuitarBar” o “The doors of the night”.Proprio stamane, tra una telefonata di lavoro e l’altra, sono andato a riascoltare alcune registrazioni di Erreci Club, imbattendomi in una “Tombolata radiofonica” del 1992, che resta un mirabile esempio di fare radio comunitaria. Ed egli faceva parte, da protagonista, di quella comunità. Lui era mite ed umile: un valore assoluto nella società confusa e contraddittoria di oggi. La sua prematura morte ci impoverisce. Impoverisce Caposele. Egli era diventato, a suo modo, un personaggio. Ma soprattutto una persona perbene. Lo salutiamo, come se stessimo davanti al microfono della radio, mentre le campane suonano a gloria. Vogliamo che gli siano risparmiati i rintocchi “a morte”, perché i “serafini del cielo” lo accoglieranno per far festa. La festa per chi le feste le ha annunciate ed accompagnate. Con i suoni della gloria. Addio, Alessandro Spatola. Per noi semplicemente Lisandro.

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In memoria di Colomba Tobia - detta

N’DUNETTA da Radiolontra

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egli ultimi 10/15 anni la sua è stata vita da esule: lontana dal paese natìo per abitare in un mondo che per tanti non poteva essere accessibile. La mente, a volte, è capace di scrivere copioni inattesi ed inaccessibili. La memoria dei silari non può lasciare scivolare nel crudo ed ingiusto oblio una donna che – seppure appellata come “la paccia” - ha abitato l’immaginario collettivo della Caposele degli anni settanta, almeno fino al terremoto, e dei primi anni ottanta. Tra le prime donne, a Caposele, a guidare un’automobile, ebbe anche la capacità imprenditoriale, certo nel suo significato ante litteram, di introdurre una visione moderna della “somministrazione da intrattenimento”, quando installò in Piazza D’Auria – ora Piazza XXIII Novembre – un chiosco ed attorno ad esso vi piazzò dei tavolini all’aperto. D’estate quel chiosco divenne il punto di aggregazione di tanti giovani: vi si consumavano bibite (prevalentemente birre Peroni rinfrescate sotto la fontana vicino al vecchio cinema), panini, pizzette, patatine e gelati della Sanson. Ma, soprattutto, intorno al chiosco scorreva, lenta, la vita pomeridiana e serale dei giovani di Caposele. E attorno al chiosco si consumavano dispute picaresche. Lei ci metteva del suo, rifiutata dalla sfera dei sentimenti istintivi. Ma questa è un’altra storia. Non può Caposele dimenticare una figura come N’dunetta Tobia (detta la paccia). Si farebbe un torto non tanto a lei, che l’altro ieri si è spenta in una corsia di ospedale nel silenzio di legami spezzati col paese di origine, ma alla Storia stessa di Caposele. Di certo non la si vuole dimenticare su questa pagina, dove vogliamo lasciare un segno del suo passaggio sulle rive del Sele, per ricordare una figura pubblica che, per le bizzarrìe di quello sconfinato mistero che è la mente, ha vissuto gli ultimi anni della sua vita ricevendo le cure confortevoli di un Istituto di suore, in quel di Paternopoli, dove è stata seppellita. Lontano dalla sua terra natìa, lontano dalla sua gente.

FILOMENA MEROLA

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l 29 ottobre 2010 Filomena Merola si è arresa ad un nemico inesorabile, dopo una lotta impari durata quattro anni, sostenuta esemplarmente dall’affetto di Rossella, Raffaella,Giuseppe e di suo fratello Alfonso. Tanti di noi abbiamo “tifato” per lei in questi anni vissuti in bilico tra speranze e paure di una madre premurosa, di una lavoratrice instancabile, di una donna che ha fronteggiato, in silenzio e a testa alta, l’impeto di vicende che mettono a dura prova la vita umana. Gente di Caposele ieri

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AMATO GERVASIO Matuccio la Guardia di Rocco Gervasio

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on il suo passato reduce di Guerra con orgoglio di Carabiniere, salvo dalle rappresaglie Tedesche nel lontano Egitto, riuscendo a scappare portando con sè altri Italiani Prigionieri, che rischiavano di essere fucilati, tornando in Italia dopo tre anni di prigionia, rimanendo fedele alla benemerita solo il tempo di realizzare che anche in quegli anni l’Italia doveva rialzarsi dalle ferite della Guerra appena finita, lui con il cuore ritorna a Caposele, svolgendo il servizio come Guardia Comunale, dando tutto il suo amore al territorio e alle persone, fermo e ligio nel suo compito anche durante il sisma del 23 Nov. dell’ottanta. A me personalmente lascia l’insegnamento di vita, l’amore per tutto ciò che possa aiutare il prossimo senza secondi fini, è ai miei occhi resterà sempre un vero Eroe...ciao Papà

FILOMENA LALLO

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razie di cuore a chi ricorda donna Memena. Dire che era una gran donna è sicuramente poco. Mi riempie il cuore di gioia sapere che verso di Lei mostrate questo grande affetto. Donna esemplare, costernata e vissuta da un’ immensa gratitudine verso chicchessia. Grazie ancora. Il figlio Nicola

A ELENA MANZILLO di Gerardo Ceres Mi libro in volo con te, tenera e forte amica. Seguo la tua scia in questa notte sciagurata, per sospingerti in volo lontano,

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in quel luogo di libertà -lontano dal dolore – e disegnare nel cielo il tuo volto bello e forte -lontano dal doloreserbando così il ricordo tuo, per tutto il tempo che verrà Gente di Caposele ieri


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PIETRO SPATOLA di Antonio Cione

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on e’ un caso che mi trovo a scrivere queste poche righe proprio questa mattina del 6 luglio 2013 alle 5, 30 del mattino, proprio nel giorno del genetliaco di mio padre e ad un anno dalla frma della convenzione-truffa a Caposele tra il sindaco Farina e il presidente Vendola (Aqp=Regione Puglia). Ho aspettato quasi un mese per cercare di mettere nero su bianco quello che ho vissuto prima e dopo quel maledetto mezzogiorno dell’ 8 giugno 2013, quando ho avuto l’infausta notizia della morte del mio amico gemello Pietro da una concitata telefonata di Nino. Io e Pietro siamo nati entrambi il 6 marzo del 1955 nella mattinata, a distanza di due ore circa uno dall’altro, per cui ci siamo considerati fratelli gemelli, così come, tra l’altro lo siamo anche con gli altri amici della Colonia che e’ il nome della nostra storica compagnia. Pietro come Giuseppe, cosi’ come Gerardo, Nino e Vito, sono per me come per tutti noi, non solo amici fraterni, ma sempre compagni di vita nel bene e nel male, senza vincoli di appartenenza, ma legati da una amicizia particolare ed indissolubile, difficile da definire, ma cocente da vivere e sopravvivere. Non accettiamo ancora la morte di Bianco, ma soprattutto non ci rendiamo conto della improvvisa ed inaspettata tragedia che ci ha colpito con la morte fulminea di Pietro, perché lo ritenevamo invincibile e sano come un pesce, e forse lo era, ma il suo destino ha voluto portarcelo via a tutti noi. Il dolore più forte è soprattutto per la moglie amica Rosaria, le figlie Raffaela e Francesca, il fratello Silvio e le sorelle Antonietta, Carmelina e Angioletta, ma, consentitemi di dire che, è anche del nostro caro amico Gerardo Fabio, che è stato l’amico soccorritore di Pietro e che in questa occasione si è dimostrato un leone, richiamato dal grido di aiuto dell’ amico prossimo alla sua imminente e non prevedibile morte improvvisa. Caro Gerardo hai fatto più di quello che potevi e dovevi fare, e non ti devi rammaricare di non aver potuto salvare Pietro, perché anche un medico come me, o più bravo di me in ambiente ospedaliero avrebbe potuto mantenere in vita il nostro amico-compagno-fratello. Sono e siamo orgogliosi di quello che hai fatto! Non potevi fare di più e meglio! Ti devi e ci dobbiamo tutti rassegnare che per Pietro la strada era segnata e non si poteva derogare. Ma a questo punto, consentitemi di ricordare il Pietro che ci vogliamo e ci dobbiamo non dimenticare. Pietro è stato un figlio, un amico, un fratello, uno studente, uno sportivo atleta, un professore, un educatore, un marito e un padre, modello per tutti noi e per tanti Gente di Caposele ieri

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che noi neanche immaginiamo. Pietro aveva forza di volontà, carattere e determinazione, metodo e costanza. Diceva sempre quello che pensava anche a costo di far male ed io lo apprezzavo proprio per questo. Era ed è rimasto la mia coscienza, ed io cercherò di onorare la sua memoria comportandomi con coscienza così come lui faceva sempre e comunque. Pietro sapeva ridere, sorridere e scherzare, ma era il primo ad accorrere in caso di bisogno e di aiuto fisico, morale, psicologico ed intellettuale. Non dovevi neanche chiederglielo; Pietro c’era sempre e comunque ed era sempre il primo in tutte le occasioni. Aveva il senso del dovere e la giusta considerazione del dovuto; insomma era un uomo buono e giusto. Come non ricordare i giochi di infanzia alla Sanità, la sua esperienza di macellaio al posto del padre, qualche viaggio notturno a Genova dove si è laureato, la sua passione per la fotografia e la camera oscura alla Portella dove ha stampato centinaia di foto della nostra avventura in Francia, alla quale non ha partecipato, ma alla quale ha contribuito in maniera essenziale, consentendoci di dividerci, a peso, un enorme quantitativo di foto in 5 parti uguali, come ogni altra cosa. Pietro era sempre presente nei momenti importanti, ma non appariva mai per mettersi in mostra. Lavorava dietro le quinte, dietro la macchina fotografica o la videocamera e il computer. Preparava e preveniva le situazioni, e non riesco a spiegarmi come mai non sia riuscito a prevenire e prevedere la sua improvvisa e mortale malattia, forse a questo punto inevitabile. Perché Pietro, a tutti , dava la sensazione e la certezza di essere il più forte e per certi versi invincibile sia fisicamente che psicologicamente. Era un contenitore unico ed inesauribile, ma pieno di contenuti e di valori a volte a noi sconosciuti. Forse aveva dei segreti e dei vissuti che non conosciamo a fondo, ma era ed é stato sempre un signore, un professionista, un lavoratore, un consigliere unico e franco che ci manca a tutti noi che abbiamo avuto il privilegio di condividere con lui parte della sua vita e del suo vissuto. Ma ci piace ricordarlo in mezzo a tutti noi con il suo bel sorriso quasi ironico e beffardo e, come dice Gerardo, la Colonia è sempre formata da 6 amici-compagni, anche adesso che Pietro e Giuseppe non sono più con noi su questa terra di lacrime. Ci piace ricordarti così come sei stato in mezzo a noi e alla tua famiglia, a scuola come in campagna. Hai sempre dedicato tanto tempo agli altri; sembrava non avessi bisogno mai dell’aiuto di noi altri. Ora prenditi tutto il tempo che vuoi e stai sereno perché tutti noi che ti abbiamo conosciuto conserviamo il tuo sorriso e te stesso. Ciao Pie’ ........

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Sempre nei nostri pensieri di Dora Garofalo

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on ho nascosto la profonda commozione quando Gerardo Ilaria mi ha comunicato telefonicamente l’improvvisa e inaspettata dipartita di Pietro Spatola, mio grande amico e valido docente del Vanvitelli di Lioni, diretto per oltre dieci anni dalla scrivente. La stessa commozione che ho provato per un altro caro e generoso professore scomparso qualche anno fa, Gerardo Monteverde, ambedue di Caposele. Un tumulto di emozioni e di amarezza oggi mi assale nel pensare di non aver potuto presenziare ai funerali di entrambi per motivi familiari. Ora che sono in pensione e che questi amici non ci sono più, mi passano davanti tante scene delle quali sono stati protagonisti, scene che restano scolpite nella memoria come inchiostro indelebile. Si affollano ricordi, immagini, storie vissute insieme nella scuola e fuori. Sono immagini e ricordi incancellabili che non si possono dimenticare né tacere perché servono a diffondere quel messaggio di onestà intellettuale, di umanità, di lealtà, di impegno sociale e culturale che fa crescere la fducia dei giovani nella scuola. Dal lontano 1967, anno dell’accorpamento degli Istituti Professionale e Tecnico di Lioni, è bastato scambiarsi il saluto, ascoltare le loro opinioni, constatarne la serietà di intenti, la disponibilità e la professionalità in campo didattico perché scattasse subito quella reciproca stima mai disgiunta da sincero affetto. Dal giorno in cui sono stata dirigente scolastica anche dell’Istituto Professionale un’immagine più di tante altre è rimasta impressa nella mia memoria con forza, superando il decadimento a cui i ricordi sono obbligati: quel modo unico di agire da galantuomo di Gerardo e quel donarsi agli altri sempre sorridendo, senza obiettivi defniti, se non nell’interesse degli alunni, di Pietro. Porto nel cuore un album di ricordi che sfoglio soprattutto quando continuo a leggere nella rubrica del mio cellulare i nomi dei professori a me vicini come leali collaboratori. La sola certezza che mi resta di tanti ricordi è la ricchezza di dignità e di enorme sensibilità di questi due docenti. Gerardo, professore di elettronica, dall’aspetto riservato, chiuso, tanto da essere talvolta temuto dai suoi allievi, tuttavia uomo dalla profonda sensibilità e umanità e padrone di una ineguagliabile cultura. Di Gerardo abbiamo conosciuto l’amore verso la sua terra e verso i deboli, l’aspirazione a servire l’umanità che soffre, la bontà e la tolleranza nel rispettare le opinioni degli altri, il culto dell’amicizia, la forza necessaria ad affrontare la sofferenza e la luce della fede attraverso il suo stile di vita e tramite i suoi scritti, tra i quali: Terra di Caposele e Semplici pensieri di un uomo in cerca di Dio. Si resta colpiti dalla moltitudine dei temi trattati che confuiscono tutti in un percorso di introspezione intrapreso fin da giovanissimo, in cui si fondono pensieri puliti di verità senza tempo, anche le più dure e gravi della vita. Gerardo, l’amico Gente di Caposele ieri

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di tutti, se n’è andato in punta di piedi come è sempre vissuto, discreto, silenzioso, sereno, sempre elegante anche nel bel vestito dell’ultimo viaggio. Pietro, docente di chimica, ci lascia il suo entusiasmo per la vita e per la scuola, l’umiltà e la conoscenza per poter adempiere al meglio il suo lavoro e, soprattutto, il forte amore per la sua famiglia. Di Pietro ricordo il suo gesto consueto, quale l’affacciarsi improvviso sulla soglia della presidenza per chiedere il permesso di sottoporre alla mia attenzione un nuovo metodo di insegnare quell’ informatica che per me era sempre un tabù. Aveva la straordinaria serena capacità di aggregare tutto il personale scolastico, persino vezzeggiando i più riottosi con una sana e simpatica ironia. E’ stato un punto di riferimento per il Vanvitelli per la sua generosità e la disponibilità fuori dal comune. In questo modo mi piace ricordare Pietro, persona equilibrata, gentile, cordiale, che ha lasciato un robusto tratto della sua presenza in una comunità scolastica che lo ha stimato e che egli ha considerato da subito sua. Ma il ricordo più forte che ho di lui è uno di quelli che permettono di andare oltre la scorza del professore, del suo ruolo professionale e di cogliere la dimensione umana e affettiva che gli permetteva di obbedire a particolari valori di correttezza, umiltà e sincerità anche in situazioni diffcili. Il suo cuore, purtroppo, ha smesso di battere. Che brutta notizia per tutti! Che grave perdita per la sua famiglia! Non solo l’intero paese di Caposele ha pianto incredulo e sgomento la prematura scomparsa di Pietro, hanno pianto altresì tanti colleghi, alunni e amici di paesi viciniori. Intanto, quando il Datore della vita dice “basta”, certamente per chi crede, al fne di una collocazione migliore nell’eternità, si è soliti dire: fiat voluntas Dei - quasi a volerci imporre una sorta di rassegnazione come se Dio avesse un determinato progetto per ciascuno di noi. Ma è molto doloroso pensare che questi cari amici non ci sono più. Ci piace credere che siano in un luogo accogliente dove chi non appartiene più a questa terra cammina e riflette aiutato dalla voce dei suoi cari. Quando i veri amici se ne vanno, tutti dicono che erano i migliori. Non voglio ribadire questo trito luogo comune. Gerardo e Pietro se ne avrebbero a male perché so per certo che essi preferivano essere considerati soltanto persone comuni. Sono stati insegnanti eccezionali che hanno avuto a cuore il loro mestiere, che hanno esaltato le peculiarità e i talenti degli alunni, che, anche quando li hanno sgridati, ne hanno conservato in cuore e nelle intenzioni l’affetto più profondo. Purtroppo è nel destino umano la separazione, ma tutti sappiamo quanto sia lacerante. Gerardo e Pietro, padri affabili, mariti affettuosi, docenti preparati, ci apparivano inossidabili ed invincibili. Ma la realtà puntualmente ci ha smentito. In tutto questo, però, non c’è una logica che riesce a convincerci e ad esorcizzare il dolore. E riaffiorano le immagini di tempi non troppo lontani, un caleidoscopio di un passato che diventa memoria perché i morti hanno sempre qualcosa di profondo e di bello da far ricordare e

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da stimolare le nostre speranze. Gerardo e Pietro lasciano un grande vuoto nei nostri cuori. La morte è un avvenimento drammatico, misterioso, troppo temuto e troppo poco accettato perché lo si possa affrontare e risolvere con uno scritto di due righe. Ma queste poche righe vogliono dire che essi non hanno meritato un pensiero solo adesso, bensì che li abbiamo stimati da sempre perché hanno saputo trasmettere cultura, amicizia, energia e amore per la vita. Riesce difficile mettere insieme immagini e ricordi e tirare le somme di tante belle esperienze condivise. Si affacciano alla mente soltanto poche spontanee riflessioni, sensazioni e pensieri che nascono dal profondo del cuore, prima ancora che da un atteggiamento dovuto. Sappiamo che di fronte alla morte non c’è lacrima che tenga e che le parole sono ben poca cosa per lenire il dolore dei familiari, ma siano queste poche parole l’espressione più sentita del sincero e profondo cordoglio di chi li ha conosciuti.

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ANTONIETTA FENIZIA Signore si nasce di Alfonso Merola

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a Sorgente, che custodisce tante memorie di questa Terra, con questo articolo pone riparo ad un’incolpevole quanto non più giustificabile dimenticanza riguardante una donna, caposelese di adozione, ma per questo non meno apprezzata da tutti quelli che hanno avuto modo di conoscerla tanti anni fa. Forse questa dimenticanza accade quando le famiglie di appartenenza non amano sgomitare e preferiscono piuttosto coltivare nella riservatezza i loro fiori di cui, a ragione, si sentono orgogliosi. Mi riferisco alla compianta professoressa Antonietta Fenizia che qui ha vissuto più di qualche lustro, avendo sposato un nostro conterraneo, l’insegnante Giocondo Corona, al quale ha dato cinque figli: Giuseppina, Alessandro, Emilio, Maria e Lorenzo. Mi si dirà: “Ma che cosa aveva di speciale la signora Antonietta per meritare di essere ricordata dopo tanti anni ? “ Io ovviamente non l’ ho conosciuta, ma le tracce che ha lasciato di sé, ce la fanno apprezzare, a prescindere dalla conoscenza diretta. Innanzitutto era una Signora, con la “S” maiuscola, di un’educazione veramente unica e di un’ affabilità rara, capace di farsi rispettare da tutti, essendo da tutti ammirata, in un paese in cui armarsi gli uni contro gli altri in nome delle baruffe politiche era ed è ancora la regola . Antonietta era nata a Napoli il diciotto settembre del millenovecentotredici in una rispettabile famiglia della media borghesia partenopea. Suo padre Alessandro, di professione farmacista , abbandonò l’attività privata, quando fu nominato a capo della Real Farmacia degli Ospedali Riuniti di Napoli. Fu lui ad impiantare la nota Farmacia degli Incurabili. Figlia unica, fu avviata agli studi liceali e, cosa rara a quei tempi, conseguì la Laurea in Lettere e Filosofa. Di lì a poco la ritroveremo docente di Italiano, Storia e Geografa presso la Scuola di Avviamento Professionale di indirizzo agrario a Caposele. Caposele, godeva nella Valle del Sele del privilegio di una consolidata scuola del genere, quando altrove prevalevano scuole elementari per giunta strutturate in pluriclassi. La professoressa Fenizia fu assegnata alle classi femminili; un’altra chicca dell’epoca, infatti, era normale separare rigidamente le sezioni in maschili e femminili. A detta di chi la ha avuta, come insegnante, Antonietta era di una disponibilità eccezionale, di una pazienza non indifferente ma soprattutto di un rigore professionale che, per robustezza, la teneva a distanza da atteggiamenti severi o da vuoti autoritarismi. 288

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Quella scuola, allora, viveva gli anni belli di una comunità educativa che sapeva dare il meglio di sé anche nei rapporti umani, in un periodo in bilico tra i disastri di uno sconsiderato confitto mondiale e le speranzose attese del dopoguerra. Attorno al sorridente direttore Edmondo Caprio, si stringevano il tenore don Pietro Ilaria, le professoresse Antonietta Fenizia, Esther Corona, Ida Bavaro Anna Guarino ed i professori Pasquale Acanfora, Nicola D’Ambrosio . In quegli anni di docenti laureati non ce n’erano tanti in giro e per giunta i professori di lettere erano davvero una rarità. Ed allora la professoressa Fenizia era chiamata a farsi carico anche, per così dire di “ deficienze locali: era lei il punto di riferimento anche per alcuni studenti locali che di pomeriggio le si rivolgevano per la preparazione agli esami d’idoneità per l’accesso alle scuole superiori . Chi l’ha conosciuta in quella veste ne conserva con lucido entusiasmo ricordi inestinguibili. Quando nel 1952 le fu proposta la candidatura nella lista del dottor Pasquale Russomanno, si dice, mostrò qualche reticenza, certamente non dettata dal fatto che fosse una donna, quanto piuttosto dal timore che le campali campagne elettorali caposelesi potessero incrinare le ottime relazioni con i suoi colleghi, intrappolati in una logica assurda di coalizioni contrapposte. Alla fine accettò, vincendo ogni remora a ragione e così, ancorché nel gruppo di minoranza, entrò nel consiglio comunale che elesse sindaco l’avvocato dottor Michele Farina. Ovviamente fu grande lo stupore dei caposelesi vedere che una candidata del gentile sesso fosse stata addirittura eletta, lasciandosi alle spalle ben dodici candidati del cosiddetto sesso forte. In fondo non ci volle molto a convincersi che quella rarità era un onore per il paese: fu da tutti rispettata, anzi la sua presenza fu utile a temperare un clima in seno al civico consesso che, quando era composto da soli uomini, non di rado era rissoso ed irriverente. A certi estimatori delle cosiddette quote rosa si ricorda che a quei tempi le donne non avevano, né pretendevano paracadute per candidarsi. Nel 1955, quando i fgli erano ormai in età per frequentare le scuole , con un occhio rivolto ad un corso di studio più adeguato per loro, i coniugi Corona si trasferivano a Napoli nel palazzo dei Fenizia in vico Forio. Qui la professoressa Fenizia riprendeva la sua attività di docenza, sempre presso la Scuola di Avviamento Professionale F. De Sanctis Colta da improvviso malore Antonietta Fenizia si spegneva il cinque maggio millenovecentosessantasei: i suoi figli erano pressoché tutti minorenni La notizia della sua morte prematura colpì molto i caposelesi, sicuramente perché era in un’età in cui una madre vede crescere i suoi virgulti, ma ancor di più perché chi segna l’animo degli altri di ricordi positivi, raccoglie tanta commozione e tanta umana simpatia . Gente di Caposele ieri

ANTONIETTA FENIZIA

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GERARDINA MALANGA In ricordo di zia Gerardina di Tania Russomanno

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urante il corso dell’esistenza si succedono avvenimenti belli e brutti, che per sempre ti cambiano la vita e il mondo che ti circonda. Tuttavia mentre gli attimi di felicità svaniscono velocemente nella ripresa delle attività quotidiane, al contrario, le tragedie - sebbene consumate in pochi istanti - lasciano per sempre il segno. Eppure tutto scorre e ad ogni notte subentra una nuova alba, i giorni passano e quel dolore inizialmente visibile all’esterno, piano piano trova rifugio in fondo all’anima e nel profondo del cuore. E’ un dolore forte che conservi ben stretto nella tua intimità, senza sperare che svanisca, perché annullarlo potrebbe farti dimenticare ciò che non vuoi dimenticare. Sono trascorsi pochi mesi dalla tua assenza, ancora non è facile parlare di te senza provare – ogni volta – quella sensazione che ti stringe la gola e che come una ferita aperta brucia dolorosa costringendoti ad ammettere che non ci sei più. Mai ci sarà spazio per la rassegnazione nella mente di chi ti ha amato! Rappresentano una lieve consolazione, invece, i ricordi che indelebili sono vivi in tutti quelli che ti hanno conosciuta. Soprattutto la sera prima di addormentarmi e nei momenti di maggiore sconforto mi piace ricordarti e – attraverso quelle immagini sfocate della memoria – ripenso alla donna che sei stata. Di te rammento soprattutto la serenità del sorriso e la dolcezza del saluto, un saluto che non negavi mai a nessuno. Eri una donna semplice, ma proprio quella semplicità ti rendeva elegante nei modi di fare e di parlare con la gente. Amavi intrattenerti con chiunque incontravi nel corso delle tue lunghe passeggiate per le strade di Caposele. Dedicavi agli altri parte del tuo tempo e con altruismo prestavi il tuo aiuto a chi ne aveva bisogno. In ogni situazione riuscivi a confrontarti con gli altri sugli argomenti più svariati, dando a tutti la giusta considerazione ed importanza. I momenti più belli li condividevi con le tue amiche di sempre, con le quali spesso facevi giri in macchina, che parcheggiavi - la domenica sera - sempre al solito posto. In qualsiasi momento della giornata chiedevi di vedere i tuoi nipotini, li adoravi, gioivi e, nello stesso tempo, ti meravigliavi di fronte ad ogni loro piccolo progresso. Dicevi di invidiarli perché i bambini vedono tutto con occhi innocenti ed ammiravi la loro ingenuità e il fatto che non fossero in grado di subire le tristi emozioni che ti opprimevano durante i momenti di solitudine. Eri interessata a tutto ciò che avveniva nel tuo paese, ti informavi sempre sugli avvenimenti e ti piaceva prenderne parte o semplicemente osservare da lontano quello che accadeva, come l’uscita della sposa dalla chiesa. In passato sei stata protagonista di tante iniziative divertenti, tra le quali spicca – indimenticabile – il matrimonio che organizzasti durante un carnevale per le vie 290

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di Caposele. Chiamasti intorno a te un gruppo numeroso di donne e desti loro il compito di recuperare i vestiti più eccentrici nei vari mercatini dell’usato e, dopo aver curato tutti i particolari dei singoli travestimenti, dalla Portella iniziò un lungo corteo che giunse a sfilare fino in piazza Sanità per poi ridiscendere, durante il quale ti fermavi a tormentare scherzosamente tutti quelli in cui ti imbattevi. Un’altra volta, insieme ai tuoi vicini “purt’ddari”, organizzasti il falò di S. Antonio vincitore del premio Proloco Caposele. Ricordo bene quella serata in cui tanti caposelesi, provenienti da altri quartieri, scesero alla Portella accolti dalla generosità e dall’ospitalità tua e delle altre donne che si erano adoperate per la riuscita della festa, con l’unico scopo di unire le persone e di farle divertire. Bei tempi quelli, quando ancora c’era l’entusiasmo di organizzare le serate per stare tutti insieme a bere un bicchiere di vino. Rimpiango il tuo entusiasmo di vivere la vita cogliendo di essa tutta l’essenza naturale e incontaminata! Dal giorno della tua scomparsa il tempo inesorabile non ha fermato la sua corsa, le rose del tuo giardino sono fiorite solitarie e l’estate è arrivata e arriverà anche l’autunno, ma tutto si svolgerà senza di te e non sarà più la stessa cosa.

AMATO PATRONE di Gerardo Ceres Ammutoliti. Altro termine suonerebbe non adeguato. Una telefonata sul finire della sera ti squarcia e ti strappa la serenità. -“E’ morto Amato Patrone” -“Amato chi?” -“Amato, Matuccio di Roma” -“Porca puttana. Non è possibile!” Non è possibile, non deve essere possibile, che un infarto fulminante stronchi la vita giovane di un amico di sempre. Eppure la realtà, dura e inaccettabile, è questa. Amato Patrone, figlio di Michele e Sisina Baldi, se n’è andato così, nella sera del 19 marzo. Dolore autentico ci spinge a scrivere, pochi minuti dopo la notizia, questo ricordo istintivo che riporta a galla tanti momenti della nostra bella gioventù. Comunanze culturali e sensibilità sociali ci spinsero a vivere piacevoli stagioni sulle rive del Sele. Da ragazzo egli viveva a Roma, nel quartiere Trieste, coi genitori, il fratello Cesare e le sorelle Olimpia ed Enza. Ogni estate Amato scappava a Caposele, terra che sentiva sua e non solo perché vi fossero le radici delle famiglie paterna e materna. Gente di Caposele ieri

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A Caposele è stato capace di imbastire rapporti intensi e stretti che sono rimasti negli anni. Con Amato, negli anni del dopo terremoto, abbiamo vissuto bei momenti. Eravamo giovani e belli, pieni di speranze. Amavamo la vita. Amavamo e ci univa la passione per il cinema, la musica, la letteratura e per alcune altre cose ancora. Conosceva e parlava perfettamente il nostro dialetto caposelese, con un’inflessione tipica di quelli che abitano “ a lu pontu”. Purtroppo negli ultimi anni le sue venute si sono limitate ai riti funebri, in occasione della scomparsa dei propri parenti. Pativa questo distacco prolungato, ma quando metti su famiglia devi contemperare i tuoi desideri alle altrui esigenze, nel suo caso di due belle figliole. Di Amato conserveremo il ricordo di quel suo sguardo che esprimeva sempre la necessità di capire meglio, e di più, le cose che gli si raccontavano, come se gli mancasse sempre un particolare per lui fondamentale. Di Matuccio conserveremo il ricordo che si serba ad una bella persona, mite e garbata, amichevole e socievole. Lo piangiamo e ci stringiamo alla sua famiglia. , alla moglie e alle figlie (che perdono il papà proprio nel giorno della sua festa), ma anche alla mamma e a Cesare, ad Olimpia e ad Enza. Gli amici di RadioLontra

ETTORE MONTANARI di Gerardo Vespucci

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aro Ettore, gli amici della Sorgente mi hanno chiesto di renderti onore con un ricordo della tua persona. Ho accettato di buon grado, ma ho pensato che la cosa peggiore sia parlare di te in terza persona: oltre a renderti più estraneo, una simile modalità mi limiterebbe la spontaneità. Ed ecco perché ho immaginato di scriverti una lettera, come se ti avessi di fronte, in un dialogo ininterrotto, con le parole dirette a te che mi ascolti, finalmente in silenzio, per una volta senza minimizzare le mie affermazioni, facendo spallucce, come tuo solito. Da quanto tempo che ci conosciamo, caro Ettore! Venticinque anni sono tanti e, diciamo, un po’ retorici, che sembra ieri, per dirla con Guccini. È dal 1990 che ci siamo conosciuti, ed all’inizio non capivo se il tuo nome era Ettore oppure Ettòrre, come il grande eroe dell’Iliade, sposo di Andromaca, e figlio di Priamo re di Troia. Poi capii che la seconda versione era solo un gioco, dei tuoi tanti amici ed alunni, che, però, non ti dispiaceva per niente, visto che il tuo mondo - umano e culturale insieme -era debitore in toto a quel mondo classico, sia nella versione greca che latina, delle cui espressioni spesso amavi riempire le tue affermazioni colorate (ad maiora semperque era il tuo augurio preferito!). Quando nel settembre 1990 fui trasferito dal Liceo scientifico di Muro Lucano e ti conobbi per la prima volta, eri il Fiduciario del Liceo di Caposele, perché eri 292

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davvero uomo di fiducia del professore Antonio Altieri, Preside del Liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Calitri: allora, come dal 1975 e fino al 1995, il liceo di Caposele era sezione staccata del Liceo di Calitri. Nei primi mesi di scuola, a fare da tramite tra me e te fu il prof. Pasquale Lamanna, mio concittadino, che a Caposele già vi insegnava Italiano e Latino, mio docente al liceo, mio compagno di lotte politiche e finalmente collega di insegnamento. Dopo pochi mesi di frequentazione, capimmo, caro Ettore, che io e te eravamo fatti per intenderci: avevamo la stessa apertura agli altri, lo stesso spirito di sacrificio, una medesima cura degli alunni, la condivisione della critica di Don Milani alla scuola come ospedale che cura i sani e respinge i malati; ed infine, diciamocelo, non eravamo convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, e che c’era spazio per un impegno politico e culturale per costruire il sole dell’avvenire, quel mondo nuovo all’altezza dei bisogni di giustizia ed uguaglianza, allora ancora fortemente presenti nel vissuto, specie a Caposele e Sant’Andrea, dei nostri giovani allievi. Costoro, anche grazie alla nostra presenza, spesso si sentivano spronati e protetti anche nelle annuali battaglie di contestazione, che più che politiche erano culturali (le assemblee, le occupazioni, i tanti dibattiti nell’atrio della sede provvisoria post terremoto: uno per tutti, quello con l’Arcivescovo Nunnari). Ora non ci giurerei, tuttavia mi pare fosti proprio tu a far coincidere la fine dell’anno scolastico con la tre giorni nel bosco, e di sicuro fosti tu in quei tre giorni del giugno a rendere protagonisti i ragazzi, con le gare in piscina, la pulizia del bosco, la giornata della creatività (ricordi la sfilata di moda con gli abiti di carta?), con tanta musica e tanto vino: e fu proprio in quei giorni che un po’ tutti capimmo quanto fosse essenziale una scuola per il territorio e il territorio per la scuola! Così come fu proprio in quei pomeriggi al bosco che, tramite mio e di Pasquale Lamanna, conoscesti i nostri amici di Sant’Andrea, professionisti e giovani creativi, che, a loro volta, impararono a conoscerti e ad apprezzarti, scoprendo le comuni esperienze politiche e culturali.Domenico, il prof Cicenia qualche anno dopo divenne nostro collega al Liceo; Michele, il prof Giorgio, socialista come te, divenne il tuo amico di molte occasioni di impegno politico, di spettacoli e di feste: fu allora che ti innamorasti del teatro estivo, all’aperto, all’Episcopio di Sant’Andrea, cui non mancavi mai. Nelle continue discussioni che facevamo per favorire lo sviluppo delle nostre terre, così provate dalla natura, non esclusa quella umana, scoprii che, quando insegnavi a Como, eri stato presidente delle associazioni Italia URSS e Italia DDR; capii che dopo il terremoto ti sembrò quasi una fuga il tuo restare lontano e così pensasti bene di tornare per dare una mano alla ricostruzione e allo sviluppo di Caposele e dell’intera area, da Segretario della locale sezione PSI e da consigliere di minoranza consiliare. Intanto, sempre in quei primi anni novanta, mentre la nostra intesa si cementava, l’armonia della nostra piccola comunità scolastica diventava mito (come ancora oggi ti riconoscono tanti). Chiunque veniva ad insegnare, trovava nel Liceo di Caposele una disponibilità non paragonabile al resto della provincia, e soprattutto per merito tuo: eri capace di impegnarti per cinque ore al giorno pur di sistemare l’orario dei colleghi pendoGente di Caposele ieri

ETTORE MONTANARI

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lari, e non poche volte rinunciavi al giorno libero pur di non trascurare la tua scuola. Quando mi toccò sostituirti nel 1996, quale Fiduciario del preside Romualdo Marandino, poiché il liceo di Caposele era diventato sezione associata al Liceo di Sant’Angelo dei Lombardi, il mio lavoro fu davvero semplice, poiché mi bastò seguire il tuo esempio. Ma tu non eri solo il docente attento ai bisogni dei nostri ragazzi e del personale (in quante foto di gite scolastiche sei stato immortalato come un condottiero - ductor, ti appellava Pasquale! -, sempre scrupoloso, controllore mai distratto!), tu eri innanzi tutto l’insegnante di matematica e fisica, impegnato a far crescere una visione rigorosa del nostro Liceo, curandone l’intero settore scientifico, con un occhio particolare al laboratorio di informatica, che sentivi tuo: ricordi i nostri allievi capaci di programmare in Pascal ed usare il DOS come altri mai? Quante volte mi hai orgogliosamente indicato il destino di successo dei pionieri Pasquale Ceres, Petruzziello e di tanti altri di quei primi anni? Furono quei successi e questo comune orgoglio il motivo vero che ci ha tenuti legati per ben quindici anni di insegnamento comune! Grazie a questo nostro spirito di apertura al nuovo, ed alla adesione convinta di Pasquale, riuscimmo a recuperare la sperimentazione Brocca, rifiutata dalla sede centrale, allora Calitri, ove i colleghi, timorosi delle novità da introdurre, dopo mesi di preparazione curata dal Preside Altieri, vero precursore dei tempi nuovi, fecero il gran rifiuto. Andammo a Roma, a Viale Trastevere, al ministero, dove il dott. Cosentino ci aspettava a seguito della telefonata dell’on. Gerardo Bianco, ex ministro della Pubblica Istruzione, sollecitato dal nostro impiegato amministrativo, Alfonso del Guercio. Il dott. Cosentino ci ascoltò con attenzione (oggi meno probabile!), capì la nostra determinazione e, sebbene quasi contra legem, si impegnò a farci attivare la maxisperimentazione Brocca anche senza la disponibilità della sede centrale, se solo avessimo riproposto la richiesta del Collegio docenti. Il buon Preside Altieri non ebbe dubbi e fu così che Caposele, prima in provincia, ha potuto sperimentare la migliore riforma della secondaria superiore, a cui l’Alta Valle del Sele – Caposele, Calabritto e Senerchia in primis - deve la formazione di centinaia di giovani laureati in discipline scientifiche, che oggi onorano centri di ricerca, università, ed aziende prestigiose. Caro Ettore, andammo io e te con la tua macchina, senza chiederci chi pagasse, né cosa ne avremmo guadagnato. Andammo e basta! Spinti da quel sogno di crescita scolastica che speravamo divenisse culturale e civile per le nostre terre ed i nostri giovani. Così come quando ci recammo, sempre noi due e sempre con la tua macchina, nel 1994 a Vasto, per la scelta del laboratorio scientifico che doveva servire per l’insegnamento del laboratorio di chimica e fisica, vera novità del Liceo Brocca: ne facemmo acquistare due, uno per Calitri e l’altro per Caposele. Quello di Calitri, te lo dico da attuale dirigente di quella scuola, è ancora nuovo; quello di Caposele è ormai da sostituire! Ma, caro Ettore, non fosti solo l’artefice del nuovo Liceo scientifico, ne eri, magari inconsapevole, come ti ho sempre detto, essenzialmente l’anima: se non fos294

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se stato per il tuo modo di concepirne il ruolo, a quest’ora del Liceo ne avremmo parlato al passato. Grazie al tuo senso di onestà culturale, quel piccolo Liceo di paese è diventato una scuola rigorosa e di qualità: quando nel 1999 vi furono le ispezioni nelle scuole sperimentali, fu scelto il nostro Liceo perché vi era in atto la didattica di tipo laboratoriale più avanzata della provincia. Perché ciò fu possibile? Perché tu hai avuto il coraggio di non fare della valutazione una operazione di scambio strapaesano, resistendo ad ogni tentazione localistica ed evitando così la chiusura, per progressivo calo di iscrizioni a causa dello scadimento, come una qualsiasi sezione staccata di provincia. Infatti, quando si trattò di non promuovere ragazzi poco motivati, tuoi concittadini di Caposele, figli di tuoi amici di una vita, non avesti dubbi in quale direzione far pendere il tuo giudizio, anche a costo di rischiare incomprensioni ed inimicizie. Da quel momento, chiunque si sia iscritto nella scuola di Caposele sapeva di non rischiare discriminazioni e trattamenti di favore, e che sarebbe stato valutato – ed apprezzato -solo per le sue qualità: ecco perché, caro Ettore, abbiamo potuto far crescere giovani responsabili, ora laureati o solamente cittadini consapevoli, ed una visione di impegno scolastico che ancora vive e perdura. Al tuo rigore, però, sapevi sommare la tua infinita semplicità e bontà, infatti, se i ragazzi di allora hanno potuto realizzare, contro ogni regolamento, continui viaggi di istruzione in Italia o in Europa – mentre Calitri e Sant’Angelo non ne realizzavano – lo si doveva proprio alla infinita disponibilità di noi docenti ( a cui si aggiungeva volentieri Gerardo Fungaroli!), a partire dalla tua: addirittura costringesti la tua Antonietta a condividere il viaggio di nozze con l’accompagnamento degli alunni in Grecia!. E in quei viaggi ho avuto modo di averti accanto per giorni e capire l’uomo che era in te, oltre che il docente, collega. E tu mi sei apparso subito un buon compagno di viaggio, vitale e curioso, sempre desideroso di girare per strade e viali delle città da scoprire, pronto a discutere dei palazzi e dei monumenti che avevamo di fronte. Ed ho potuto condividere le gioie del palato ed il piacere di una discussione all’aperto nei tanti bar da Taormina a Gubbio; da Alassio a Iesolo; da Vienna A Corinto; da Barcellona a Praga, da Cannes a Nizza, dal principato di Monaco a Monaco di Baviera. Anche in questi momenti gioiosi era visibile la fede religiosa che ti riempiva la vita: era nell’affetto per i clochard di Nizza a cui donare un sorriso e dei franchi; era in quel pregare in ginocchio davanti all’effige della Madonna, nella Chiesa di Santo Stefano di Vienna quella sera in cui tu pensasti di scongiurare la nostra paura per la guerra nei Balcani così prossima. Ed è proprio in uno dei viaggi di istruzione che ti ricordo col volto più gioioso e più radiante di sempre, caro Ettore; come un novello Orazio, ti vedo, ora come allora, allorquando, dall’alto delle rovine di Baia, ispirato, declamavi a memoria, con enfasi mai più udita, i famosi versi del Carmen Saeculare: Alme Sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris, possis nihil urbe Roma visere maius. [O Sole che dai la vita, che con il carro lucente fai sorgere e tramontare un giorGente di Caposele ieri

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no dopo l’altro, possa tu giammai vedere qualcosa più grande della città di Roma]. Poi nella tua vita è entrata Antonietta e grazie al lei è giunta Giusy: forse, ma senza forse, hai capito che qualcosa di più grande della città di Roma può esserci, magari solo per una persona, ma è sufficiente. Da allora, infatti, con Dante ti sei detto “incipit vita nova” ed il tuo tempo lo hai affidato alle tue donne, a cui dovrai essere eternamente grato per avere goduto la scoperta, per te inedita, della bellezza della vita privata, oltre che coniugale.Ed incontrarti per un certo periodo era quasi impossibile, anche se ultimamente le tue apparizioni pubbliche erano andate crescendo. Ma quando ci incontravamo le nostre riflessioni nel giro di pochi collegamenti logici rievocavano quei giorni vissuti con grande gioia ed energia: avevi il Liceo come chiodo fisso, così quando hai saputo della richiesta di verticalizzarlo con il comprensivo, mi hai scritto semplicemente, non arrenderti! Quando osavo dirti che hai fatto male a pensionarti presto, tu spegnevi i miei entusiasmi citando l’Ecclesiaste: c’è un tempo per tutto e per tutti e questo non è più il nostro tempo. È vero, caro Ettore, verrà il tempo per ogni cosa e per ognuno: tu ci hai solo preceduto! E con questo posso momentaneamente salutarti, ringraziandoti per quello che sei stato, per quello che mi hai dato, e dicendoti, con Guccini, ci vediam più tardi. Il tuo Gerardo

RICORDO DI ETTORINO Di Mario Sista

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hissà se, da buon matematico, ora ti metterai a contare i gradini per il Paradiso, caro prof. Ettorino, o se chiederai agli angeli, a bruciapelo, la x, la y, il coseno, la cotangente; o se, ancora, contemplando l’immensità di Dio che ti ha chiamato, esclamerai ancora una volta, come quando spiegavi in classe qualche teorema, “bello, bellissimo!”, e noi ridevamo. A me non entusiasmava il teorema, ma il piacere che provavi nello spiegare. Poteva esser mai che la cultura fosse estasi? Sì. Paradossalmente, grazie a te, anche io posso dire di essere stato colpito dalla matematica, a cui ero notoriamente allergico. Eh, si... Caposele oggi davvero è più povera. Ma si sa, i fiori belli per fiorire per sempre devono essere tolti da questo ‘vrasscalu’ che è la Terra ed essere trapiantati altrove. Lì un giorno ti raggiungeremo. Salutaci il “Teacher”, il caro prof. Ceres e, tu e lui, mettete una buona parola pure per noi lassù, così che possiamo essere promossi anche noi agli Scrutini del Cielo, quando poi sarà. p.s. Tranquillo, come si calcola il fuoco di una parabola me lo andrò a rivedere. La terra ti sia leggera, prof. Ettore Montanari. Se sono professore oggi è anche grazie a un professore eccezionale come te. Parlerò di te ai miei studenti, entrando in classe oggi, qui a Roma. È il modo più bello per onorarti.

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NICOLA TESTA di Antimo Pirozzi

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l tocco delle campane di martedì 11 aprile scorso annuncia una triste notizia: la morte di Nicola Testa, vecchio Direttore dell’Ufficio Postale di Materdomini e di Caposele. Una persona amica che con la sua morte ci induce a qualche riflessione ed a tanti ricordi. Era molto stimato per le sue qualità umane e professionali. Era denominato “ l’assessore di Materdomini” per i vari incarichi amministrativi ricevuti nell’ambito della lista “stretta di mano”. Eravamo diventati amici fin dal 1962 e cioè da quando fui assegnato in servizio a Materdomini. Spesso, accompagnati anche dall’allora comandante della stazione brigadiere Ginocchi, facevamo delle escursioni in macchina in tutto il territorio di Caposele spingendoci a volte fino a Ponte Oliveto, limite consentitoci dalle nostre regole. Ed in quelle passeggiate allegre e spensierate si gioiva della reciproca compagnia. Nicola, persona di cultura, conosceva fatti e persone; molto bravo in tante attività extraprofessionali, ci intratteneva gradevolmente in lunghe e piacevoli conversazioni. Spesso dava una mano alla sorella Gerardina nell’attività di Ristorante in continuità con l’arte culinaria tramandata dal loro genitore don Peppino detto “o napulitano”. Nicola ha cresciuto una bella famiglia, collaborato da “Faluccia” moglie instancabile, brava e riservata. Caro Nicola, sicuramente ci mancherai perché a Materdomini eri una persona di grande rispetto e punto riferimento per tutti noi. Caro papà, n questi mesi troppe volte ti abbiamo visto battere la mano, prima sulla poltrona e poi sul tuo letto e, scuotendo la testa, ci dicevi: - non è possibile che mi sono ridotto così! E’ vero non so come sia stato possibile vederti soffrire e non aver potuto fermare la malattia. L’impotenza ha consumato un po’ tutti noi, poco alla volta. Strana la vita! Ad un bambino si insegna a camminare, a mangiare da solo. Noi ti abbiamo visto così come un bimbo, andare però a ritroso. Strana la vita! Nei tuoi giorni “si” volevi camminare da solo, venire a tavola con noi; che forza papà! Papà ora ti vediamo lì in una bara, freddo, senza vita, ci sembra impossibile ed inaccettabile averti perso. Certo soffrivi, ma c’eri, eri qui: pensiero egoistico, ma è vero! Punto di riferimento per tutti noi, ci hai trasmesso il valore della famiglia e di questo te ne siamo grati. Quando si perde una persona cara, in questo caso un padre, non si è mai pronti; ma dobbiamo accettare, chinare il capo. Si dice così: è la vita, no? I figli

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UMBERTO ROSANIA di Gerardo Ceres

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omenica siamo stati a Matera. Una gita molto gioiosa ed allegra. Umberto lo era più di tutti: aveva con sé i due nipotini, fgli di Mariangela. Tuttavia al ritorno non si è sentito bene, ma tutti abbiamo pensato ad un virus intestinale. Quando ci siamo salutati in piazza Sanità sembrava tutto risolto. È stata l’ultima volta che l’ho visto. Stamane il colpo seguito alla notizia della sua morte. In un solo istante si sono sommate le immagini di una lunga amicizia, nonostante i 15 anni di distanza anagrafca. Ricordo quando, io piccolo, veniva a Torino dalla Svizzera, dove era immigrato, a vedere i “partitoni” della Juventus, prima a pranzo a casa mia e poi tutti insieme al vecchio comunale; ricordo la sua migrazione in Venezuela, per raggiungere i fratelli più adulti; ricordo il suo ritorno a Caposele; ricordo il suo lavoro - io sindacalista degli edili - al cantiere della Ferrocemento; ricordo gli anni in cui ci divertivamo ad editare “il periodico di agitazione culturale permanente”; ricordo il lungo periodo di inoccupazione; ricordo le sue letture sudamericane, con le quali rafforzò il suo amore “anarchico e romantico” per la fgura di Che Guevara; ricordo le nostre scalate da viaggiatori del dharma per le cime dei nostri Picentini; ricordo l’arrapatezza di quando acquistava la Settimana Enigmistica; ricordo le pagine che di tanto in tanto mi riflava per un incompiuto dizionario della “lingua caposelese”; ricordo le sue passeggiata lungo le rive del Tredogge, dove meditare ed ascoltare, in silenzio, le voci delle acque che formano il Sele. Poi c’è un destino che neppure la cabala o, se preferiamo, la numerologia riuscirà mai a spiegarci: Umberto si è spento, oggi, il 10 giugno, lo stesso giorno di 13 anni fa, quando ci lasciò il comune amico Antonio Sena. Maledetto questo giorno, dunque, che accomuna due abbandoni di due fgure non comuni di silari a tutto tondo. Idealmente, mi piace pensare che Umberto ed Antonio si siano già ritrovati e con sorriso grasso se la spasseranno ad “agitare in modo permanente” quello spazio di cielo da loro occupato. È il solo modo che ci aiuta a non versare lacrime per un amico che non sarà più tra noi e a cui non potremo più chiedere: “hombre, que pasa? Todo bien?”...

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VINCENZO DI MASI di Alfonso Merola Grande amico di tutti Caposelesi, grande sostenitore de La Sorgente, Vincenzo Di Masi si è spento nel mese di ottobre del 1917. Ha tratteggiato con eleganze e competenza tantissimi personaggi locali sulle pagine del nostro giornale. Nel numero 94 di agosto 2017 ha scritto le sue ultime poche parole inneggiando alle bellezze di Caposele ed incitando i Caposelesi ad amare e rispettare il loro paese.

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’era una parola magica che faceva brillare gli occhi di Vincenzo Di Masi e che non riusciva a fargli trattenere l ‘emozione, quando la sentiva pronunciare. Questa parola era Caposele. Si dirà : “Ma dai, che c’è di tanto magico in una parola priva di preziosità ?“ “C’è che siamo divenuti tutti superficiali e dozzinali, noi che non proviamo alcun sentimento di quelli che un tempo costituivano i pilastri di appartenenza alle comunità di destino.“ L’emozione di Vincenzo, poi, si tramutava in commozione quando si parlava della casa che lo aveva visto nascere. Palazzo di Masi in via Bovio è una costruzione sulle cui mura è scivolato un pezzo di storia locale e conserva una sua freschezza, nonostante si sia cimentato con più di un terremoto. Palazzo Di Masi col suo portale di pietra che racchiude la sapienza artigiana di autentici scultori; e poi l’emblema araldico col suo motto gentilizio : “MENS BENE SANA VIRET“, quasi a testimoniare che solo una mente volta al Bene cresce verdeggiante in salute. Ed il nostro concittadino non tradiva questo motto: egli era intimamente buono. Vincenzo Di Masi nasce a Caposele il 3 aprile 1929 da Giuseppe e Cornelia Cozzarelli. Consegue il diploma di Liceo Classico al “Torquato Tasso “di Salerno. Si arruola da carabiniere semplice, nel 1951 frequenta la Scuola Allievi di Moncalieri per poi iscriversi al corso Allievi Sottufficiali a Firenze. Nel 1954, da vincitore di concorso, è ammesso alla prestigiosa Accademia Militare di Modena. Qui conosce Franca Grandi che sposerà nel 1957: dal loro matrimonio nasceranno Giuseppe, Marco e Luca. Ottiene il primo comando territoriale presso la Tenenza di Pavullo nel Frignano (MO) e poi da Capitano a Milano, Legnago, Torino e Lodi; negli anni difficili delle Brigate Rosse, conosce e collabora col Generale Dalla Chiesa ed il suo Gruppo Operativo. Finalmente nel 1978 chiede ed ottiene il trasferimento alla Legione Carabinieri di Salerno: durante il terremoto del 1980 è al comando delle operazioni di soccorso, ricevendo riconoscimenti dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Termina la sua carriera da Generale di Brigata nel 1987. Gente di Caposele ieri

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Dopo il congedo, lo ritroviamo per qualche anno nelle vesti di avvocato e di Giudice di Pace. È fregiato dei titoli di Commendatore dell’Ordine del Santo Sepolcro, nonché Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Dopo una lunga malattia, sempre assistito dalla sua stupenda famiglia, viene a mancare il 18 ottobre 2017. Il Generale Di Masi, i cui impegni di lavoro erano facili da immaginare, non mancava mai agli appuntamenti caposelesi durante il Ferragosto ma anche quando la Pro Loco o le istituzioni locali lo invitavano a presenziare. D’altra parte la sua affabilita’ e le sue buone maniere non erano mai di facciata. Amava intrattenersi con i tanti che lo salutavano, mantenendosi sempre fuori e al di sopra dell’agone politico del suo paesello. Io rivedo il nostro caro Vincenzo nelle serate estive con Don Ciccio Caprio, il dottor Del Tufo, Fernando Cozzarelli, Emidio Alagia, Nicola Conforti ,Vittorio Nesta e tanti altri ,ora seduto ai tavolini del Mister Bar, ora sugli scalini del Palazzo Municipale a parlare di tutto, a ragionare di niente. Il suo era un rituffarsi all’indietro nella fanciullezza, nell’adolescenza, nei giorni duri e lieti di un passato che aveva sempre il suo fascino. Ora che è ritornato nella sua terra natía sicuramente sarà contento di riposare come un guerriero dopo la fatica, sapendo che sarà qui ricordato ed amato non solo dalla sua Franca e dai suoi figli, ma anche da tanti di noi che lo hanno conosciuto ed apprezzato “Doveroso ricordo del Generale di Brigata dei Carabinieri Vincenzo DI MASI”. di Antimo Pirozzi

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iovedì 19 ottobre 2017 decedeva nella propria abitazione a Pontecagnano (SA) il Generale dei Carabinieri in pensione Vincenzo DI MASI. Il giorno successivo venerdì alle ore 15 giungeva a Caposele accompagnato dai suoi cari familiari ed amici nella Chiesa Madre di S.Lorenzo per ricevere l’ultima benedizione del nostro Parroco ed il saluto dei suoi cari amici caposelesi e da un folto numero di Carabinieri capeggiati dal locale comandante della stazione. Il feretro ha raggiunto il cimitero di Caposele per essere tumulato nella storica tomba di famiglia. Il tutto si è concluso alle ore 17 circa alla presenza della cara moglie dei tre figli, nuore, familiari ed amici di famiglia: Vittorio Nesta, Alfonso Merola già sindaco di Caposele; componenti della famiglia del defunto Gerardo Di Masi e dal sottoscritto con la propria moglie. Naturalmente, nel corso di tale tristezza, affiora la figura dell’estinto e dei suoi trascorsi. Negli anni I960 sentivo parlare con orgoglio dai caposelesi dell’allora Capitano

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DI MASI ed ognuno si onorava della sua conoscenza e amicizia come mio suocero Antonio ZARRA e Salvatore MEROLA detto “Zi Tore”. Ho avuto modo di conoscerlo personalmente alcuni anni prima del sisma del 23-11-1980 ed operativamente nella fase del dopo-sisma quale Vice Comandante della Legione Carabinieri di Salerno con il grado di Colonnello. Nelle varie visite effettuate alla Compagnia Carabinieri di S.Angelo dei Lombardi, ove prestavo servizio come comandante del Nucleo Comando, si rendeva molto vicino ai problemi dei militari e dei familiari. Ricordo un particolare episodio avvenuto a seguito di una Sua visita “a sorpresa”alla Compagnia. Così si definiva quando la visita dei superiori non era preannunziata. Trovò un pò di disordine connesso alla precarietà ambientale, scontrandosi elegantemente con l’allora capitano dal “carattere orgoglioso e molto operativo”. Volle conoscere cosa occorreva, per alleviare i disagi e l’operatività ambientale. Fui incaricato dal mio sig. Capitano di elencare le richieste indispensabili. Completato l’elenco lo consegnai personalmente al sig. Colonnelle DI MASI, il quale dal primo sguardo strizzò la fronte facendo intendere la difficile realizzazione. Però, disse : VEDREMO e mi adopererò. A questo punto dopo la sua partenza., il mio Capitano mi disse: PIROZZI: Lei crede ancora alla befana? Gli risposi, che conoscendo il valore dell’UOMO Vincenzo DI MASI, affermai che l’impegno che si era preso aveva enorme valore. Così fu, perché dopo alcuni giorni il Comando Legione Carabinieri di Salerno, disponeva di portarsi presso il magazzino legionale con idoneo automezzo per ritirare un elevato quantitativo di materiale. Soddisfò momentaneamente tutte le esigenze indispensabili. Il mio Capitano si ricredeva del proprio Colonnello. Questo era il Colonnello DI MASI, UOMO disponibile con tutti, con quel marcato sorriso dolce e nobile . Congedato con il grado di Generale di Brigata, si stabilì a Salerno per poi trasferirsi a Pontecagnano. Ai caposelesi ha lasciato un grosso patrimonio storico-culturale quale autore di svariati articoli sul giornale “La sorgente” che mi permetto di elencare perchè ognuno è più interessante dell’altro. Gli articoli che seguono sono riportati in vari numeri de La Sorgente e che possono essere rintracciati nelle sei raccolte (dal 1973 al 2017) oppure su :http:issuu.com/lasorgente In sintesi i titoli dei vari articoli: 1°) In un articolo molto interessante dal punto di vista storico ha parlato di “Cicco Ciancio” un brigante dell’Alta Irpinia 2°) Ha trattato di “un uomo straordinario”: Francesco CAPRIO, tre volte Sindaco di Caposele. 3) Altro argomento storico in più puntate: “Operation Avalanche” 4) Conclusione “Operation Avalanche” e “Occupazione di Napoli”. 5°) Ha tracciato il ricordo di Dino Orlando Preside:”Una vita per la scuola” 6°) Altro argomento storico:”Caposele all’inizio del secondo Conflitto Mondiale” Gente di Caposele ieri

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7°) Ha trattato del Direttore de La Sorgente: “Nicola CONFORTI – La capacità e l’ingegno”. 8°) Ha scritto del Direttore della Scuola Di Avviamento Professionale “ Edmon do CAPRIO ” 9°) Ancora un articolo su “Operation Avalanche” 10°)Altro personaggio di cui si è occupato: “Fernando COZZARELLI”, Primo Presidente della Pro Loco e Sindaco. 11°) “I ricordi” 12°) “Vita del mio paese” 13°) “Natale al mio paese” La lunga e grave malattia che lo ha colpito ha fatto interrompere i legami e i pensieri per il Suo amato paese e per il giornale “La Sorgente”. Però’, in ogni occasione ufficiale ha voluto che la sua costante presenza venisse rappresentata dal suo caro figlio Luca che non ha mancato mai di sostituire degnamente il proprio genitore Generale Vincenzo DI MASI. Materdomini, li 5 novembre 2017.

Premio Caposele 1997

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on l’appuntamento di questa sera, possiamo con soddisfazione dire che si chiude il 23° ferragosto caposelese; un ferragosto ancora una volta di successo, anche se le premesse di quest’anno non ci assicuravano questa certezza. A titolo personale, possiamo anche aggiungere che concludiamo qui il nostro mandato di Presidente della Pro Loco; un’esperienza che ci ha arricchito e che oggi ci pone in condizione di passare il testimone a nuove generazioni che faranno più di noi e, crediamo, meglio di noi, anche perché con noi hanno in comune un collaudato attaccamento a Caposele, a tutta Caposele. Noi abbiamo voluto che il conferimento del Premio Caposele coincidesse con una data significativa per tutti noi, la Madonna della Sanità, per richiamare tutti a quelle comuni radici che di Caposele offrono i valori della generosità e della solidarietà e che lo fanno amare a chiunque lo conosca. Abbiamo anche voluto che questa cerimonia, a suggello di tutte le attività, conservasse i caratteri della semplicità e della sobrietà, per sottrarla ad un’interpretazione per così dire venale, la quale avrebbe contraddetto le nostre intenzioni, ma anche, credo io, la disponibilità delle personalità per le quali è stata pensata e alle quali è diretta. Aggiungiamo in più, anno dopo anno, all’orgoglio e alla stima, l’emozione nel riconoscere un merito che travalica Caposele. E questo è veramente tanto ! E’, quindi, con intima gioia che vi comunico che quest’anno il Premio Caposele è stato conferito al Gen. Vincenzo Di Masi.

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Questo è il caso classico in cui le parole aiutano poco ad esprimersi. Ed è sufficiente dirci che egli merita la nostra stima sincera, che ci ha sempre inorgoglito come Caposelesi, non solo per la sua brillante carriera, ma anche per quella sua caparbia simpatia verso la sua terra d’origine, che non ha mai dimenticato. Noi che siamo stati conosciuti anche come “il paese del gen. Di Masi”, da tutti quelli che hanno apprezzato il suo competente e proficuo lavoro nell ‘ Arma dei Carabinieri, possiamo a ragione ritenerlo il nostro ambasciatore fuori Caposele, convinti di non essergli mai stati d’intralcio e di peso nelle sue delicate funzioni al servizio dello Stato. Per il suo tramite, però, noi riteniamo di conferire questo premio anche all’Arma dei Carabinieri, che a lui è cara almeno quanto la sua famiglia - che saluto a nome della Pro Loco, e quanto Caposele. Vedete, noi possiamo anche dividerci politicamente o personalmente sul ruolo delle Forze Armate in Italia, ma su un punto siamo tutti d’accordo: all’Arma dei Carabinieri dobbiamo un coerente senso dello Stato e questa non è poca cosa in un momento in cui c’è chi lavora e rema contro l’unità d’Italia. All’Arma dobbiamo un sacrificio giornaliero, paziente, non eclatante, tutto teso a difendere un’Italia che vogliamo democratica, pulita e sana. E soprattutto noi che viviamo in piccole comunità sappiamo come i Carabinieri sanno essere tra la gente nelle azioni preventive e anche repressive, quando occorre, capaci di coniugare obblighi di servizio e di buonsenso, prima legge che governa il mondo. Anche di tutto ciò noi ringraziamo Vincenzo Di Masi e gliene vogliamo dare atto ora che non è più in servizio attivo, ora che possiamo abusare della sua presenza chiedendogli di stare di più in mezzo a noi perché siamo convinti che la sua presenza è utile a rinsaldare a Caposele legami e virtù che ci appaiono annebbiate e che se non risplendono come un tempo tradirebbero le nostre radici e la nostra positiva memoria storica.

UN ILLUSTRE CITTADINO di Pietro Spatola

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n questo numero de “La Sorgente” desidero che i caposelesi in patria ed all’estero abbiano il modo di conoscere uno fra i più illustri cittadini del nostro paese: il Gen. Comm. Cav. Uff. Di Masi Dr. Vincenzo. Egli è nato a Caposele il 3 aprile 1929 dalla famiglia Di Masi che ha lunga tradizione e lontane radici nella storia della nostra cittadina, ove tuttora vivono lontani parenti tra le famiglie più in vista. I Di Masi hanno origini lontanissime, risultano trasmigrati a Caposele all’incirca nel 1500/1600 dalla Puglia, ove avevano beni fondiari con pascoli enormi, bestiame ovino e bovino con addetti alla vigilanza del bestiame. Famiglia benestante ed agiata, quindi, tra l’altro annoverano, quali antenati, alcuni religiosi di cui Don Giuseppe e Don Donato ai primi dell’800 parroci della nostra comunità. Agli inizi del nostro secolo, quando ci fu l’emigrazione verso le Americhe, anche Gente di Caposele ieri

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la famiglia Di Masi non fece eccezione. Infatti, a Vincenzo Di Masi, zio paterno del nostro amatissimo e stimatissimo Dr. Vincenzo, il padre Raffaele, allora giudice conciliatore di Caposele, visto che non voleva studiare, impose di andarsene a cercar fortuna nelle Americhe; e fortuna fece. Mise da parte un grosso patrimonio con la costituzione di una rete di servizi di corriere. Fu lui a mandare i fondi per la costruzione di una delle più prestigiose piazze di Caposele: “ Piazza Vincenzo Di Masi”. Con la guerra e con la morte dello zio, vacillarono le speranze della famiglia, infatti, dopo la guerra, ci furono delle difficoltà, quindi si resero necessarie delle scelte ed essendo sei figli fu d’obbligo ad ognuno di prendere una determinata strada. Il nostro Vincenzo, che allora frequentava il primo anno di giurisprudenza all’Università di Napoli, siamo nel 1949, vivamente sollecitato dall’allora Comandante della Stazione dei Carabinieri di Caposele, Mar. Fiorillo, il 10 ottobre 1950 si arruolò nell’Arma dei Carabinieri, iniziando la propria carriera nel frequentare un corso biennale a Moncalieri ed a Firenze. Al termine di detto corso venne assegnato alla Legione Carabinieri di Catanzaro, ove rimase in forza per due anni, percorrendo, con incarichi vari, l’intera Calabria. Tra l’altro comandò una delle note “Squadriglie” antisequestro e per la repressione della delinquenza più efferata, sia pure organizzate, allora, con metodi e sistemi diversi da quelli attuali. Tale compito venne assolto per circa due mesi sull’Aspromonte. Successivamente, dopo aver vinto il concorso per l’Accademia Militare di Modena, entrava in quell’Istituto di Istruzione Militare esattamente nel luglio del 1954, uscendone, poi, con il grado di Sottotenente in S.P.E., due anni dopo. Immediatamente dopo frequentò d’obbligo la Scuola di applicazioni per Ufficiali Carabinieri di Roma, uscendone Tenente S.P.E. nel 1958. Il 12 maggio 1957 contraeva matrimonio con l’attuale consorte Sig.ra Franca Grandi, felice unione allietata dalla nascita dei tre figli Giuseppe, Marco e Luca. Uscito dalla Scuola per Ufficiali Carabinieri, andò a comandare la Tenenza di Pavullo nel Frignano (Mo) dove rimase fino al maggio del 1962. In promozione al grado di Capitano, venne destinato a Milano città e precisamente al Comando della II Compagnia Meccanizzata del III Battaglione Carabinieri di Milano dove rimase fino al marzo del 1966. Sia a Pavullo che a Milano gli vennero tributati alcuni riconoscimenti in encomi solenni e semplici.Da Milano venne destinato, sempre col grado di Capitano, alla Compagnia di Legnago (Vr), a quel tempo designata quale Compagnia Sperimentale delle prime radiomobili istituite nell’Arma dei Carabinieri. Si distinse ottenendo un ulteriore riconoscimento in encomio solenne. Da Legnago, per determinazione superiore, fu trasferito alla Compagnia Urbano II di Torino, in quel periodo la più impegnativa Compagnia d’Italia; si era, infatti, nel 1968, anno tormentatissimo per la Repubblica Italiana per le forme

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di contestazione violenta che si manifestavano soprattutto nelle grandi industrie, ad opera prevalentemente dei movimenti extraparlamentari di sinistra (tra i quali Lotta Continua). Detta Compagnia aveva competenza territoriale su 3/4 della città di Torino, con 11 Stazioni urbane e con tutte le più importanti industrie: Lancia, Fiat, Aeritalia, Grandi Motori, Lingotto, Pinifarina, Ceatecc. Fu a Torino che si manifestarono i primi focolai delle Brigate Rosse con il sequestro del sindacalista della CISNAL Labate e del capo della Fiat Mirafiori Ettore Amerio. Vi rimase per cinque anni durante i quali ebbe modo di conoscere tutti i grandi della finanza e dell’industria, compreso gli Agnelli. Da Maggiore, nel 1973, andò a comandare il gruppo Milano III in Lodi, anzi lo costituì lui. È bene mettere in risalto che questi gruppi venivano normalmente affidati al comando di Tenenti Colonnelli anziani ed esperti; evidentemente il nostro valido Vincenzo seppe meritarselo. Vi rimase fino al marzo del 1978 e, dopo pochi mesi di servizio a Brescia, dal settembre 1978 fu trasferito a Salerno dove svolse dapprima le funzioni di Capo Ufficio O.A.I.O. ed in seguito, promosso Tenete Colonnello, le funzioni di Vice Comandante della Legione di Salerno che comprende le Provincie di Salerno, Avellino, Potenza e Matera. Promosso Colonnello nell’aprile del 1987, è andato in pensione con il grado di Generale di Brigata. Nel corso della sua carriera nella Benemerita, gli sono stati tributati 6 encomi solenni, 11 encomi semplici, 36 citazioni di merito, diploma con medaglia di bronzo per l’attività svolta a favore delle medaglia d’oro di anzianità di servizio, medaglia Mauriziana. Come onorificenze civili è stato insignito del titolo di Commendatore del Santo Sepolcro di Gerusalemme, di Cavaliere Ufficiale e Cavaliere della Repubblica. È laureato in legge ed attualmente svolge attività professionale in Salerno. Egli ama Caposele, si sente caposelese nel più profondo dell’animo, ha sempre dimostrato l’amore per il suo paese natio fin da quando, molti lo ricorderanno, giocava il primo calcio caposelese insieme ai suoi amici più cari. E un uomo tutto di un pezzo, molto umile e pronto in qualsiasi momento ad aiutare il prossimo, specie se caposelese. D’altronde non so se sono pienamente capace di mettere in risalto i suoi pregi che tutti conoscono, ma quello che mi ha colpito, è il piacere che si prova nel conversare con lui, la sua cultura, e, fatto importante per un uomo d’armi, la sua profonda umanità.

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Gente di Caposele Un semplice appello rivolto ai Caposelesi

da Vincenzo Di Masi (da La Sorgente n. 94)

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alviamo le bellezze di Caposele… facciamo rivivere la Cascata del parco della Madonnina!!! Quando ho saputo della chiusura della Cascata del Parco della Madonnina, nei pressi della sorgente di Santa Lucia, sono rimasto allibito.. com’è possibile che un’attrazione naturalistica del nostro paese, che destava ammirazione presso numerosi forestieri venga eliminata? Il nostro paesaggio, unico per bellezza naturale esaltiamolo…in caso contrario, si ammirerà come una cartolina di una realtà lontana o trattato come un mero luogo di passaggio. O dolci monti del Leon del Sele di Vincenzo Di Masi O dolci monti del Leon del Sele soave ricordo mi resta di Te del panno verde che su Te si trova di pecore e agnelli grande ristoro. Sembro lontano ma son vicino con l’animo mio che sempre Ti amò lontano da Te di fronte al buon Dio, prego e ripeto alla Sua Santa virtù: cittadini felici che vivete nel Sele nell’acqua brillante di puro colore che dolce ristoro vi dà nell’arsura nei giorni più caldi dell’anno. Leone rampante Tu sembri davvero per l’acqua imponente che sgorga da Te il mondo ne parla del bene che fai alla gente di Puglia che vive per Te.

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EZIO CAPRIO di Salvatore Conforti

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i zio Ezio ammiravo la sua filosofia di vita, il suo slancio e la sua ironia anche politica che lo ha accompagnato sempre durante il suo essere presente a Caposele. Da consigliere comunale negli anni ’90 fu uno dei pochi che ebbe il coraggio di affrontare i suoi compagni di maggioranza e per onore della verità e per mantenere fede alle sue posizioni contro il sistema, fu costretto a lasciare quella compagine, scombinando i piani politici, di quella giunta comunale. La sua presenza a Caposele, più frequente negli ultimi periodi e la sua passeggiata per le strade, insieme a Franco e Giuseppe, era tranquillizzante per me e mi riportava ai tempi di una spensieratezza post ferragostana nella quale era indispensabile fermarsi per confrontarsi su cose varie e soprattutto sul benessere di un ambiente così puro ed incontaminato che Caposele ha sempre offerto. Alcuni suoi consigli sulla toponomastica (mai completata) mi sono stati utili per definire aspetti di grande importanza storica dei luoghi Caposelesi. Infine, ricordo nelle ultime occasioni di confronto, il suo straordinario racconto sulla presenza nella nostra famiglia, di Giuseppe Garibaldi (generale condottiero) e di alcuni suoi segreti storici mantenuti gelosamente da una nostra parente, di cui lui era discendente diretto. Un personaggio straordinario con un animo buono e sempre disponibile a trasmettere la sua grande cultura. Stavo impaginando le sue poesie trasmesse a “La Sorgente” quando ho avuto la notizia della sua scomparsa prematura. Rileggendole, penserò che è ancora tra di noi per una nuova ed entusiasmante chiacchierata su Caposele e il suo futuro.

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i hai lasciato ieri. Un dolore immenso ci pervade, la forza della Tua presenza in noi ci sosterrà ancora, ne sono certo. In tantissimi state manifestando in ogni modo affetto, vicinanza e amore che sappiamo essere la sua diretta promanazione. E’ ciò che ci aiuterà a non sentirci soli. Il figlio Edmondo

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o appreso dal manifesto la dolorosa notizia del trapasso del caro Ezio. Istantaneamente sono affiorati in me i tanti ricordi di questo amico straordinariamente simpatico e vivace. Lo conobbi negli anni sessanta, quando giunsi a Materdomini, assegnato al posto fisso Carabinieri. Ezio, quale giovane laureando in giurisprudenza, emergeva nel gruppo dei suoi tanti cari amici per entusiasmo e grande vivacità. Esternava una discreta simpatia Gente di Caposele ieri

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verso i giovani carabinieri, mettendo a disposizione la sua fresca cultura professionale. L’ho incontrato per l’ultima volta in occasione della morte della cugina Pinì. Era profondamente segnato dal male che lo stava divorando. Mi abbracciò affettuosamente e con accento molto triste mi disse: “caro Antimo, la vita è anche questa. Combattiamo”. Non aveva perduto la sua voglia di vivere né la vivacità di esternare il calore della sua amicizia. Il suo trapasso lascia un grande vuoto in questa nostra comunità. Antimo Pirozzi

Ricordi improvvisati in una sera di autunno Ma quanto è duro ricordare di Maria Teresa Caprio

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io padre amava la sua terra, il suo verde, la sua uva. Quando di questi tempi ancora tornava a casa nostra a Salerno con i “panari” pieni, era una gioia per lui e per tutti portare per tutto l’inverno un po’ di quel suo Caposele. Ora io allontano la tristezza conservando questa tradizione, cambiandola a modo mio, di necessità, non più vino fatto là per là, alla buona, in campagna, ma tanta marmellata ed anche una mezza bottiglietta di vincotto per i peperoni, alla vigilia, dentro tutto il dolce calore di un appartamento urbano. Trovo che poi è da queste piccole cose che, nella calma del crepuscolo novembrino, possa nascere una storia, forse proprio dai passi sicuri del suo incedere riconosco dentro di me quella certezza di essere, dentro i volti delle persone che cerco, che visito, che incontro passando per Caposele. Certo, riconosco che è solo un passaggio anche frettoloso, legato al bisogno di transitare proprio in quella via Roma, in quella proloco e giù fino al piazzino. E poi, salire a lungo a riposare nella nostra tanto amata “Dio Martino”. Tutti passaggi importanti, quelli di noi figli dei vecchi paesani che, noi, a Caposele, abbiamo passato sempre e solo qualche ora felice. Avanti, si scorge adesso una manciata di ore bagnate di una tristezza fitta, con il suono di quelle campane, lento, proprio quelle campane che hanno annunciato il ritorno di nonna Teresa alla terra l’11 Marzo 1999 con mio padre, chi se lo ricorda, che saliva nel carro funebre con lei ormai lì e ancora lì, a non lasciarla mai e, solo un anno fa, proprio il suo giorno, il mio amato papà, che non ha sentito ancora una parola di Addio da me. Perché, quando manca il padre, e la madre, ecco, loro non vanno via veramente, restano qui accanto e io posso prendermi il sollievo di non salutarli mai per sempre, me li sento presenti nelle cose che faccio, che dico, quando respiro quando parlo quando spiego e quando scrivo. E però, me lo sento correre nel suo paese con i suoi compagni, perché, in effetti, in una scuola di paese papà deve aver avuto moltissimi compagni di scuola,

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con il suo “rutiellu”, quello che divideva non senza grida con zio Franco, e poi me lo vedo a ricevere “purtualli” e taralli nella calza della befana e a tornare in quella casa, lì, giù nel vicolo, affamato come sempre papà, salire su dove immagino mia nonna…. - Ogni tanto quel soggiorno torna nei miei sogni, il cuculo sul muro, l’orto e la lontana Basilica, dall’altra parte quasi dentro casa il vecchio campanile, devo aver visto degli uccelli dentro quel campanile e un corridoio con una credenza, giuro, che dava un profumo che sento ancora se torno nella memoria ad aprirla con tutti dolci appena fatti. Il carillon, qualche volta entravo fitta fitta nella stanza di mia nonna e lì, oltre il letto, caricavo per me sola la più dolce delle melodie e la ballerina girava volteggiando sopra quell’immenso copriletto… Questo tipo di ricordi sono durissimi finanche per chi, come me, classe ’72, l’ha vista la Caposele prima del terremoto e ce l’ha lì nel cuore, con tutti i suoi colori e l’allegria del fragore del fiume che si sentiva dappertutto. E conservo tutti i nodi in gola di mio padre, sempre incollato alla filodiffusione anche di notte, anche quella notte del 23 Novembre, credo che da allora non abbia più dormito. Pian piano papà si interessava a me e ai miei fratelli, curava ogni nostro affanno, mio padre c’era sempre nonostante una profonda nostalgia che lo legava sempre al suo paese e gli faceva dire spesso “ quasi quasi me ne vado a Caposele” in effetti con una telefonata a zio Giuseppe erano già in due ed andavano spesso, il Sabato mattina a sentire le novità. Per me era bello soprattutto il suo ritorno, dovunque mi trovassi, nei miei luoghi, compreso nella lontanissima Sanremo, arrivava papà con qualche cosa di buono da Caposele. Che poi poteva essere qualsiasi cosa, ma quel crisma di specialità lo acquisiva sempre ed il sapore si mischiava alla tenerezza e la tenerezza all’amore profondo quando solo quello rimane per sempre. Quindi è lì che torno a cercarlo, dentro le ciliegie, come diceva un film, dentro le pagine conservate delle vecchie copie della Sorgente oppure dentro tutte le cartoline lette e rilette in questa perenne ricerca del padre e del mio mondo di acqua, di confetti, di marzapane, di fratelli, di giochi, di cassetti, di studio. Ma c’è dell’altro che voglio dire su mio padre, e cioè che vorrei racchiudere di lui un tutto in qualche riga. Ed intanto, tra le consegne formali che ha voluto farmi negli ultimi tempi ce n’è una particolarmente significativa ed è un saggio, un incredibile saggio che, leggendo leggendo, mi sembra essenzialmente un discorso sulla felicità. Questo ultimo ed ineludibile bene che diviene un diritto per l’individuo contemporaneo e che poi puoi trovare, tu quilibet, dovunque. E che, infine, non è possibile riportare un singolo ricordo negli spazi angusti delle pieghe di un giornale, perché un padre, un paese, un mondo e Caposele sono molto, ma molto di più. Salerno, 15 Novembre 2017 Gente di Caposele ieri

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Ieri e Oggi

Gente di Caposele Oggi 0. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 310

Prefazione Amm.ni Comunali Consiglieri Provinciali Presidenti Pro Loco Presidi scuola Avv. e Media Cittadini onorari Caprio Ernesto Di Masi Antonio Casale Alfonso Damiano Salvatore Caprio Giovanni Ruglio Antonio Cuozzo Carmela Castello Giuseppe Di Masi Maria Patrone Cesare Lardieri Gerardo Conforti Nicola Merola Alfonso Russomanno Claudio Casale Vincenzo De Vita Anna Rita Damiano Eliseo Ceres Alfonso Ilaria Alfonso Albano Mario Russo Michele Ceres Michele Malanga Giuseppe Malanga Umberto Chiaravallo Giovanni Malgieri Vincenzo Cirillo Nicola Palmieri Giuseppe

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Russomanno Eug. Coppola Franco Sista Mario Patrone Domenico Malanga Donatella Caruso Giuseppe Patrone Rosy Gerardo Ceres Giuseppe Ceres Gente di Caposele

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Conforti Antonio Caprio Francesco La Manna Alfonso Nonna Gilda Merola Emma Cione Giuseppe Petrucci Angelo Petrucci Daniele Caprio Domenico Cuozzo Leo Palladino Ferdinando Di Masi Manlio L’Austriaco Cozzarelli Ferdinando Caprio Lorenzo Malanga Vincenzo Grasso Gerardo Alfonso Mazzariello Donato Padre Rocco Di Masi Benincasa Giovanni Caprio Camillo Colatrella Rocco Ilaria don Pasquale Mattia Amato Meo Angelino Cetrulo Vincenzo La grande tragedia Conforti Donato Sena Antonio Alagia Alfredo

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Albano Pasquale Del Tufo Amerigo Mattia Ferdinando Melillo Giuseppe Pallante Pietro Corona Maria Sista Gerardo Ruglio Teresa Caruso Vincenzo Cifrodelli Celestino Damiano Giovanni Spatola Pinuccio Monteverde Gerardo Curatolo Rosa Concetta Cibellis Majorana Gennaro Caprio Edmondo Ze’ Peppa Conforti Fiorenzo Del Guercio P.Antonio Esposito Pasquale Ceres Giuseppe Cetrulo Antonio e G. Santorelli Nicola Alagia Emidio Conforti Amerigo Corona Enrico Montanari Pasquale D’Auria Donato Ceres Pietro Testa Alfonsina Carola Gerardina Del Malandrino Salvatore Caprio Giuseppina Conforti Nicolina Curatolo Rosa Sista Rocco Sena Annamaria Vitale Gaetano Spatola Lisandro Tobia Colomba Merola Filomena Gente di Caposele


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Gervasio Amato Lallo Filomena Manzillo Elena Spatola Pietro Fenizia Antonietta Malanga Gerardina Patrone Amato Montanari Ettore Testa Nicola Rosania Umberto Caprio Ezio Di Masi Vincenzo

TUTTE LU PUBBLICAZIONI di CAPOSELE DISPONIBILI SULLA “SELETECA” ON LINE

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I grafici sono di Nicola Conforti Le foto sono state estrapolate da “La Sorgente” Stampato ad Aprile 2018 Progetto ed impaginazione Salvatore Conforti 313


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