Mordi e Fuggi

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PUNTO G 1


MORDI & FUGGI 16 racconti per evadere dalla taranta

Introduzione di Marino Niola

Manni


2007 Piero Manni s.r.l. Via Umberto I, 51 - San Cesario di Lecce info@mannieditori.it www.mannieditori.it

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Copertina di Vittorio Contaldo Progetto grafico di Giancarlo Greco 4


Estri smarriti

Suoni oscuri dietro i quali stanno da tempo in tenera intimità i vulcani, le formiche, gli zefiri e la grande notte che cinge la vita con la via lattea. Federigo García Lorca

“Alcuni cantano, alcuni ridono, alcuni piangono, chi grida, chi dorme, chi veglia, chi salta, chi trema, chi suda, e chi patisce altri diversi accidenti, e fanno pazzie, come se fossero spiritati.” Sono i tarantati come li descrive nel 1591 Cesare Ripa nella sua Iconologia. Ma sono anche protagonisti di Mordi & Fuggi. Allora come adesso si parla di corpi che trascinano anime: corpi in pena, corpi in amore, corpi pensanti e corpi sofferenti, donne e uomini che escono fuori di sé per cercarsi. A questa tecnica dell’estasi i saperi e le narrazioni hanno attribuito nel tempo i significati più diversi, e continuano a farlo proiettando sempre sull’ombra enigmatica della taranta la forma e il senso di una domanda destinata a mutare col tempo. Da allegoria a metafora, da patologia a simbolo, da stigma a oleografia. Le metamorfosi secolari del tarantismo e i differenti sguardi che ne hanno modellato l’immagine lasciano intravedere la possibilità di scrivere uno straordinario capitolo di quella storia sociale del corpo che attende ancora il suo Michel Foucault. Perché cambiano i tempi, i modi e le forme ma ad essere in ballo è sempre il corpo. I furiosi ardori di cui parlano scrittori, poeti e naturalisti d’età barocca sono i medesimi che muovono i personaggi di questi racconti, disponendoli come le misure di una scala dei temperamenti che sembra riprodurre una per una le diverse mani5


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festazioni che formano l’arco sintomatico del tarantismo: dalla noia alla furia, dall’acedia alla melanconia, dalla catatonia alla frenesia. Ed è sempre la taranta che fornisce lo sfondo drammatico, il catalogo di immagini e l’idioma somatico per dire a se stessi e al mondo il proprio male di vivere. Ma che terrore ha l’angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato. Federigo García Lorca

“E contasi che oggidì in Puglia alcune genti, punte da certi piccioli, ma velenosi animaletti che Tarantole appellano, giacciono talvolta stupide, insensate, essanimate infino a tanto che non so che specie di suono odano, il quale udito, risanate dal male, sorgono subitamente saltando.” Lo dice Giovan Battista Marino, il poeta simbolo del barocco italiano, in una bellissima pagina delle Dicerie sacre dove parla di quelle dissonanze, d’amore e d’umore, che rendono talvolta il corpo degli uomini simile a un cembalo mal temperato. Mali il cui solo rimedio è la musica. Sono le armonie del “plettro amoroso”, per dirla con il grande seicentista napoletano, a sanare con la giusta intonazione il corpo e l’anima feriti dal morso. È il “dolce suon di corde”, come lo chiama il marinista salentino Gianfrancesco Maia Materdona, l’unico farmaco in grado di guarire gli effetti del doloroso veleno. E che la guarigione non fosse definitiva lo sapevano bene i poeti barocchi, ancora a distanza di sicurezza da ogni idealismo, e perciò esperti nelle sottigliezze dell’anatomia, quella del corpo e quella dell’anima, di cui sapevano leggere le corrispondenze. Nella cultura del barocco il corpo è inghiottito dalla vertigine della significazione, è letteralmente scompaginato, ridotto alla crescente moltiplicazione dei folia che ne ripartiscono il senso ascrivendolo ai diversi luoghi del significare, ai saperi e ai poteri che ne definiscono i campi. Corpo spezzato: smembrato dai saperi e lacerato dalle devozioni. In un sonetto del funambolico Giacomo Lubrano intitolato Stravaganza velenosa della tarantola è enunciato, con la chiarezza 6


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anticipatrice che è del pensiero poetante, il motivo antropologico del “rimorso”, ovvero della recidiva del morso della taranta cui Ernesto De Martino legherà il titolo, e il senso stesso, del suo lavoro: De l’Appulo terren reptile Maga, picciola Erinni in velenosi umori, onde apprendesti ad eternar la piaga, viva al ferire, e postuma a i dolori? Mordi insieme, e tradisci: e pur non paga di tesser bave, e vomitar malori, fai che di novi spasimi presaga bolla la prima punta, a i Sirii ardori.

E in un’altra composizione, intitolata significativamente La musica rimedia in parte a lor tossico, il virtuosissimo seicentista svolge poeticamente il tema della terapia coreutico-musicale e descrive con notevole precisione etnografica – che la ricostruzione demartiniana confermerà a posteriori – le figure gestuali che agitano il corpo “attarantato”: Deliquii giocolieri, estri smarriti sparge il velen d’infurïati ragni. Se mai ti mordon, stupido ne piagni, o ’l duol ti sveglia a ballarini inviti. Mentre lancia l’Està fiamme in ruggiti, forza è che ogn’un languendo arda, e si lagni; chi scherza a l’ombre, e chi ne’ salsi bagni corre a temprare i tossichi impazziti.

La crucialità simbolica del corpo nello spirito barocco non può che fare del tarantismo, con i suoi deliqui giocolieri e i suoi estri smarriti, un experimentum crucis di quello che Foucault chiamva l’incontro del corpo e della storia, dove nel corpo tutto impresso di storia – il tarantato è letteralmente un corpo istoriato – appare la storia che devasta il corpo.

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Marino Niola

Il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita che mai rimargina risiede l’insolito, l’inventato dell’opera umana. Federigo García Lorca

Dall’età barocca ai nostri giorni il tarantismo non ha mai smesso di interrogarci. A cambiare sono stati i termini della domanda e gli idiomi in cui essa si è detta. Dalla poesia all’anatomia, dalla letteratura devota alla medicina, dall’antropologia alla storia sociale, dalla demologia alle pratiche della patrimonializzazione e ancora alla letteratura. Come un circolo secolare che si compie rivolgendosi su se stesso. In mezzo stanno pietre miliari della nostra cultura come l’opera di Ernesto De Martino che con La terra del rimorso fonda l’antropologia italiana e fa del Salento una regione dell’anima. Una terra elettiva cui non si appartiene per nascita ma per vocazione e per decisione. Come avviene ai diversi protagonisti dei racconti che compongono Mordi & Fuggi, ciascuno all’inseguimento del senso di quel morso che fa del corpo un significante in fuga, un simbolo sconosciuto, minaccioso e nemico cui ridare senso, riconoscimento e acquetamento. Un sintomo di ribellione che morde e rimorde e che spesso si è in grado di leggere solo in un altro corpo o facendo del proprio corpo il luogo dell’altro. Come avviene nel corpo alterato del tarantato che esce da sé e come avviene per chi si mette in viaggio, per chi parte, nel senso letterale del termine che vuol dire sempre farsi in due, spezzarsi, separare le due parti di sé come i due frammenti di una moneta destinati a ricongiungersi solo al termine di una lunga erranza. In questo senso è un percorso iniziatico quello che tocca a questi personaggi sempre trascinati in una stravaganza smarrita, in un Mäelström di dolore e di sofferenza, ma che fa avvertire come in un lampo il tremore epifanico dell’essere. Liminalità interminabili e senza ritorno, come quella di una ragazza della buona borghesia che cammina sulla ringhiera di un balcone come quella tarantata, filmata nel 1960 da Gianfranco Mingozzi, mentre si arrampica come un ragno equilibrista sull’altare di san Paolo 8


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in cerca del rimedio per un dolore che non trova antidoto. Un dolore muto per cui “uno si sente morire” dicevano quelli che erano stati morsi. O uno spaesamento positivo che porta una giovane donna in fuga a ritrovare il suo villaggio della memoria in un paese straniero, nel balenare colorato di un velo agitato dal vento carico di sabbia dell’Andalusia in una giornata di festa. Riconoscendo nel ritmo ostinato del flamenco, nei piedi che battono il tablao strappando letteralmente l’anima come fosse un’appendice viscerale della danza, il piede della tarantata che batte furiosamente la terra per schiacciare il male. Come un’eco lontana portata dagli zingari dall’una all’altra delle lucenti terre del Sud. La Spagna e la Puglia, la taranta ballerina e il taranto d’Almería si fanno improvvisamente vicini, rivelando in un corpo agitato dalle arcane misure di una lezione di musica pitagorica, le ragioni incarnate di una antica unità. E la Lascivia Chorea – così veniva chiamata nel Cinquecento la danza di possessione – diventa il simbolo animale di una alterazione e di una possessione positive: diventare altro e aver l’altro in sé sono dunque l’unico antidoto possibile contro il veleno dell’assenza, l’unica via di ritorno per poter abitare acquetati la propria memoria. O per ritornare e basta, senza motivo e senza scadenza. Facendo della taranta, in lettera e in figura, il punto fatale che intreccia passato e futuro, la lettura del proprio destino, il fatto che ci spiega nel senso più barocco del termine, che affida sempre alla piega la ragione profonda delle cose, una ragione solo in parte chiara, sempre velata d’ombra e di mistero. Al di là dei singoli racconti, tutti bellissimi, l’idea di raccoglierli in un libro è in questo senso una operazione insieme poetica e politica. Intanto perché i testi – alcuni su un piano assolutamente metaforico altri con passo più aderente al tema – hanno in comune il rifiuto di quegli stereotipi neotradizionalisti e di quelle retoriche identitarie sulla taranta che oggi si inchinano di fatto agli imperativi del mercato fornendo loro una legittimazione culturale, la naturalizzazione idillica di quella che fu una storia di dolore, di antagonismo, di ferite inguarite. Nulla come Mordi & Fuggi appare lontano dalle derive oleogra9


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fiche e patinate che sono alla base di una malintesa patrimonializzazione del fenomeno. Oggi la taranta si vede trasformata in bene immateriale, in agriturismo del “popolare”, in prodotto glocal. E si va a scuola di pizzica, come si va a yoga o a pilates. E tuttavia perfino il marketing più disinvolto della Lascivia Chorea, rappresenta una prova ex contrario dello straordinario potenziale simbolico del tarantismo. Il cui cristallo brilla ancora di una luce che ci tocca la mente e il cuore. Perché evidentemente siamo sempre in cerca di un cimbalu d’amuri che faccia battere il nostro petto. Che sani quella ferita che noi siamo.

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Il problema

Quando Elina aprì la porta di casa, s’affacciò affannata, mosse le labbra senza dir nulla, piegando di poco la testa a destra, Miro capì quanto fosse stato assurdo da parte sua pensare che lei avrebbe potuto aver paura. Elina non aveva mai temuto gli sconosciuti (e in qualche maniera Miro tale era diventato per lei), per lo meno così sembrava a lui, adesso, nella cura del ricordo. Perché mai avrebbe dovuto provare sgomento proprio oggi, solo per una visita giunta con ventidue anni di ritardo? Forse lo aveva sempre aspettato, forse no, ma senza alcuna paura. La donna, infatti, vedendolo, sbottò in uno sguardo abbacinato, come per le imposte verdi di una finestra spalancate all’improvviso dal vento, e compensò in un istante la normale ansia dell’incontro con il suo solito stupore infantile. In fondo, neppure quello sguardo vasto fu una vera sorpresa per Miro. D’imprevisto, al contrario, ci fu solo che non gli sembrò un po’ tocca come sempre, dacché Elina si limitò ad agitare gli occhi, sorpresi eppur noti, senza aggiungere una delle sue solite frasi strane. Nello stupore muto di lei, Miro poté sentire limpidamente tutto il silenzio contenuto in quel solo pomeriggio, quasi fosse materia e, dopo tutti quegli anni, comprese che era veramente finita. Miro aveva fatto oltre mille chilometri per sentirsi offrire giusto quel silenzio, come forma d’indennizzo, e furono sufficienti pochi secondi per capire che ne era comunque valsa la pena. Le disse, ciao, forse disturbo, non so, dimmi tu se, caso mai, e mentre lo diceva, la testa scarmigliata di un bambino s’intravide tra 13


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le lunghe gambe di Elina e, dietro quella, uno scroscio come di cubi di plastica che rotolano in terra. Elina, conservando saldo sulla faccia quell’iniziale silenzio lucente, sorrise e gli fece cenno di entrare. Semplicemente cessò di stringere la maniglia tra le dita e allargò le braccia. Era ancora sorprendentemente magra e lunga, rimasta così come l’aveva lasciata l’ultimo giorno di sole ottuso – ottuso il tempo quanto ottuso il sole – ventidue anni prima, davanti alle scale che portavano in sagrestia, nella parrocchia di San Giovanni, laddove partivano gli autobus. Ancora lei cavalcava scomposta in avanti, tenendo le spalle giù, cascanti, come se non reggessero il peso della testa e fossero costrette a subire inerti l’isterismo dei fianchi. Elina si muoveva ancora esattamente come faceva quando aveva appena vent’anni e gli aveva detto: ma tu come farai a volermi bene lo stesso, dopo? Il sabato pomeriggio era lì che ci si vedeva, contro il sole, poco discosti dalla circonvallazione che s’infiammava d’auto dopo le diciassette, con riverberi accecanti sopra gli occhiali a specchio; seduti su piccole vasche di cemento esagonale piene di terra in croste e cicche, con i giacconi appena comprati ai saldi, tra siepi ribelli che il sagrestano potava solo a primavera. Di fronte: il Carletto bar per il caffè. Si andava in giro se non c’era da studiare e poi la sera, sempre là, si sceglieva una pizzeria. Ma poiché si era in tanti, forse una trentina, forse di più in prossimità di Natale o Pasqua, non ci si decideva mai. Miro e Elina erano una coppia regolare, come un piano di marmo, destinata a durare per struttura. Da divenire, da usare. Ma Elina da anni aveva preso ad allungarsi in maniera anomala: un collo da levriero le era venuto su da un anno all’altro, mentre le spalle le si abbassavano e le scapole si univano con un triangolo sulla schiena. Miro, più grande di lei di sette anni, ne prendeva le misure con rigore e prudenza. Del resto lui era basso. Così restava. La guardava dal basso come si guarda un edificio in costruzione che cresce col cemento, di piano in piano. Lui era un uomo tendenzialmente basso, ma che, rispetto alle circostanze della sua vita, conservava un approccio alto, scientifico e vigile. Aveva un progetto personale vago ma stabile, studi universi14


Il problema

tari confusi ma fermi, il cui senso Elina modificava di poco ogni giorno. A lei, invece, i progetti non interessavano: non riusciva a fissare lo sguardo verso un punto lontano, aveva fretta e una specie rara di tremito stagionale che le impediva di star ferma sulle cose. Miro sapeva. Miro accettava. Miro vigilava. Solitamente si fermava a guardare con scrupolo inerte il mento di lei vibrare verso l’alto e poi sbattere sul suo stesso sterno più volte, e più volte, con colpi secchi e sputi irregolari di saliva. Questa osservazione prolungata gli consentiva di capire giusto quel tanto di utile a mettere la musica idonea nello stereo in macchina, al fine di calmarla. Aveva degli scatti strani e violenti, della lingua e del corpo, da documentario in bianco e nero, Elina sua, che lui controllava con la musica. Ogni tanto, non sempre. Scatti che non capiva, ma riconosceva. La musica serviva ad entrambi per sovrastare il suono che facevano le loro ossa che cozzavano le une contro le altre. Perché Miro la cercava, la toccava mentre lei si dibatteva; la frenava strattonandola; a volte la portava verso di sé e stringeva fortissimo, ancorandole le braccia al busto, tirandole il maglione con le dita chiuse a pugno. Poi le parlava più vicino all’orecchio. Lei, agitata e distratta, fuori di sé, annaspava nei suoi stessi occhi a vasca, colmi di liquido verde, senza rispondere. Per questa ragione lui era costretto a chiamarla spesso, e a ritirarla dentro il suo abbraccio: Elina, Elina, che fai? Gli rimanevano nelle mani frammenti della lana colorata di quei maglioni quando lei fuggiva via, barcollando altrove. Elina, Elina, che fai? Lei collezionava bustine di zucchero di marca diversa. Elina, Elina che fai? Metti da parte lo zucchero nei cassetti, anche se poi ci vengono le formiche? Lo zucchero le serviva quando si sentiva male, così, all’improvviso, per strada, ovunque. Accadeva che le cedevano le ginocchia di botto ed era costretta a lanciarsi sull’asfalto, facendo il rumore di una noce che si spacca e poi, abbandonata lì, in terra, guardava verso l’alto con il mento che le tremava di disperazione, e si bagnava tra le gambe pur tenendole intrecciate dallo stesso spasmo. Uno spettacolo pietoso e inspiegabile per chiunque. Per questo si riempiva le tasche di zucchero: le avevano detto che era solo un fatto di pressione bassa. Solo que15


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sto, nonostante le analisi mediche. Elina, Elina, che fai? Acqua e zucchero. La verità era che Elina aveva sempre avuto un problema, un grosso problema: s’innamorava di continuo e lo viveva male. Ogni volta ragazzi diversi. Una volta al mese, almeno dieci volte all’anno. Era statistica confermata, questa: una sorta di rigurgito violento che in fiotti faceva ritornare in superficie tutta la sua stregante solitudine d’adolescente. Lo zucchero non c’entrava con certe nevrosi. Elina, Elina che fai? Il parroco una volta era venuto fuori dalla sua tana dalle pareti d’ostia sottile, urlando. Diceva che tutti quei giovinastri fuori dalla parrocchia facevano una gran fracasso, giorno e notte; diceva che si sentivano urla e strepiti che manco all’inferno, che non stava bene, che stavamo diventando brutta gente. E ce l’aveva soprattutto con i genitori – che non ci badavano abbastanza ai loro figli – più che con le urla disperate di Elina che poco riusciva a distinguere dalle altre intorno. Di alcuni di loro non ricordava più bene neppure le facce. Forse neppure la faccia da bianco conflitto di Elina. Col clergyman stropicciato e un odore intenso di fritto addosso, il prete aveva chiesto di far pulizia subito; di andarsene altrove a far caciara. Diceva che era vergognoso starsene così, davanti a Dio. L’aveva detto un giorno, proprio mentre la faccia bianca di Elina si trasformava in un edema, molto più livida del solito. Ne era conseguito che lei era stata, per i giorni a seguire, con le mani sempre serrate tra le cosce, stringendo e pizzicandosi il pube a sangue. D’intesa con Miro, aveva pure cambiato zona per qualche mese. Solo per qualche mese. Poi era ritornata, tra il borbottio degli altri. Miro credeva d’aver compreso a pieno quell’assurda situazione per pura intelligenza, credendosi per questo migliore persino del parroco o del padre di Elina, il professore, che suggeriva categorico alla sua unica figlia di essere diventata pazza, e lo faceva con un tono di voce modulare, sufficiente a scuoterla fino alla radice, ma non così alto da agitare il resto del condominio. Miro si era abituato a vederla raffreddata per mesi per la vergogna, di continuo lacrimosa, con gli occhi cerchiati, camminare tra lo stupore collettivo. 16


Il problema

Ne era nata una specie di audace tolleranza: lui seguiva le tracce di questo percorso d’amore fatale, certo del suo ruolo, come fosse egli stesso una pista di granelli di zucchero. Elina era sincera: finché durava l’ubriacatura raccontava ogni cosa a Miro; mi piace quello lì, questa volta è certo: ci muoio per lui. Le passava e poi ricominciava. Si stracciava di pianti sul pavimento della sua stanza, riempiendosi le ginocchia di lividi fino a farle diventare di un ridicolo pervinca. Un paio di giorni così. Poi smetteva. Guariva, poi di nuovo s’ammalava. Lui ascoltava: studiava psicologia, e quindi poteva ben essere all’altezza della situazione, seppure fuori corso da anni ormai. E se era in ritardo sul piano studi, non era certo per cretineria, ma piuttosto per indecisione. Per una serie di casualità incerte. A volte Elina, dopo la crisi, chiedeva scusa e piangeva come una prefica che avesse perso il morto; per giorni se ne stava lontana da lui, rapita da pensieri cosmici, con gli occhi pingui di acqua melmosa, obbediente e contrita, con le lunghe gambe avvoltolate intorno al busto; a volte continuando a vomitare piccoli residui di cibo verde negli esagoni di cemento tra le siepi, sempre davanti a tutti. Per liberarsi. Miro, nonostante lei facesse resistenza, l’abbracciava lo stesso, ne aspirava tutta l’acidità dalla bocca, dal collo, dai vestiti, mentre lei terrorizzata spiegava i suoi sintomi nel dettaglio come si fa con il medico di fiducia, tirando su il solito moccio dal naso, ad ogni respiro. Niente di grave: in fondo, era solo amore. Le stava sedimentando tra le gambe, ma era solo amore. Non c’era da avere paura. Al massimo giusto un po’ di disgusto. In qualche posto remoto della testa di lei residuava l’idea che quel furore fosse davvero connesso all’amore. Pensava, sperava, fossero innamoramenti senza faccia, che non potessero far danno. Innocente chimica ormonale. Niente da studiare. L’oggetto del suo strazio amoroso non veniva messo neppure al corrente: tutto si consumava in un delirio solitario, in una circostanza scenografica scomposta, ma liberatoria. Si disperava però. Era chiaro a tutti che lei si disperava, soprattutto perché un amore così ischemico e diverso non l’avrebbe mai 17


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portata né ad un matrimonio, né a nient’altro. Lo diceva anche suo padre. Nonostante l’evidente infertilità, di certi innamoramenti, comunque, restava splendida la teatralità, a metterci sopra la musica a volume altissimo. Il tizio di turno l’amava, o lei credeva l’amasse, di conseguenza lei lo amava con trasporto centuplicato, moribondo. Sono malata? Miro rispondeva di sì, poiché onestamente non riusciva proprio a capire perché, per trovarsi un uomo o chi per lui, fosse necessario straziarsi gli arti a quella maniera. La musica era fondamentale d’accordo, ma lui non capiva lo stesso. Fingeva antropologica comprensione, continuando a fare soltanto quello che sapeva fare meglio: esserci. Tutto lì. Miro per anni si era chiesto se ci fosse una cura. Non si era mai laureato, quindi non s’era potuta trovare alcuna soluzione per nessuno, né una piena assoluzione. Niente scienza, nessuna fantasia. Un peccato. Poco dopo si era messo a lavorare in banca, al posto che era stato di suo padre. Si era quindi impegnato diversamente, per necessità e svago, sentendosi in qualche modo spinto dal panico ad omettere il necessario soccorso. E dopo quel passo, si era fatto subito troppo tardi. Così sembrava ad entrambi. Elina era stata la prima a rinunciare, del resto, quando l’età aveva cominciato a non consentirle più diagnosi legate ai problemi dell’adolescenza. Era partita, infine, ventidue anni prima. Elina, Elina che fai? Era partita davvero quella volta. Era lei stessa il sintomo che s’aggravava, da eliminare. Ai suoi aveva detto che era solo una vacanza, mentre a Miro aveva giurato che non sarebbe ritornata più. Aveva parlato di un grande amore. Facile per lei che non parlava d’altro, ma per mesi non s’era saputo comunque nulla di concreto, come se la scuffia quella volta fosse entrata in metastasi e se ne conservasse un doveroso riserbo. Non era più una donna comprensibile. Sembrava che battendo le ginocchia contro la pietra, più volte e più volte, troppe volte, avesse perso totalmente il ritmo e fosse diventata un’alterazione da nascondere. Straparlava, mentre se ne stava seduta in terra con le gambe larghe come Toro Seduto. Non si poteva sentire, né guardare. Il suo dolore stava in bella mostra nel mezzo 18


Il problema

delle sue cosce tornite. Raccontava di un uomo coi baffi che dipingeva quadri astratti, e che studiava a Bologna. Ne parlava come si fosse trattato del killer protagonista di un noir. Se ne sapeva poco, troppo poco per rimediare, e i genitori di Elina erano i più reticenti. Una malattia rumorosa, la sua, che costringeva il resto del pianeta al silenzio. Il giorno della partenza, Elina aveva sfoderato gli occhi verdi di muffa delle grandi occasioni, uno sguardo ormai senza più senno, con le pupille che facevano capriole all’indietro, fino a convincere davvero, quanti l’ascoltavano ancora, che la sua femminile idea d’Amore fosse senza rimedio. Miro le aveva fatto una fotografia, lì accanto al pullman che l’avrebbe portata lontano, con la lattina di Pepsi in mano, la canotta gialla e la faccia governata dalla sua sola bocca rossa. Voleva fotografare quella distanza febbricitante tra il vero e il desiderio, mentre la musica cambiava. Mandarla, magari in futuro, nelle mani di un qualche esperto, un qualcuno che avesse già studiato, se non allora, in passato, casi simili a quello di Elina. Ammesso che esistesse davvero un esperto del genere. Da allora non l’aveva vista mai più, né cercata, per una specie di orgoglio accresciuto dall’incompetenza, dal caos e dall’ansia contabile degli anni a seguire. Il signor Mazzotti, padre di lei, che insegnava ragioneria nel vecchio commerciale vicino alla villa comunale, si era messo in pensione anticipata per motivi di salute; ne era certo perché glielo aveva detto il panettiere che era amico di un suo cugino in seconda. La madre, invece, pare avesse avuto un ictus, che le aveva diviso in due sezioni irregolari la faccia e il braccio destro. Tutti malati in famiglia, da far paura davvero, si era convinto Miro, col tempo. Anche se si diceva che avessero fatto sedute e sedute di riabilitazione in un centro specializzato e che la madre avesse preso ad usare il girello per andare a fare la spesa sotto casa. Malati comunque, era certo Miro. La genetica era un’idea buona per tutto, anche senza una laurea. Così Miro si era fermato, impigrito, aveva interrotto lo studio del caso di Elina, l’attesa e la ricerca. Accade spesso che quello che è sembrato per mesi assolutamente vitale, si trasformi in breve in un pericolo, e, dopo, in una 19


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dimenticanza percepita solo ogni tanto come un prurito sotto la nuca. Dopo tutta quell’eternità di tempo cedevole, l’aveva ritrovata per caso ritornando in città. Non ci veniva da secoli: l’aveva vista per strada e riconosciuta per via di quella sua camminata ubriaca. Lei abitava in periferia. L’indirizzo glielo aveva procurato un vecchio compagno di scuola. In fondo Miro era venuto soltanto per chiederle se era guarita. Una cortesia lecita, persino utile ad entrambi. Dopo essere entrato in casa, la vide zampettare verso il tavolo da pranzo e fargli segno di seguirla, sempre ingobbita da tutto quel silenzio. I bambini in casa erano due, non uno soltanto, senza grossa differenza di età l’uno dall’altro, e le giravano intorno nella stanza senza far rumore. Da seduta, lei lo guardò, pungendogli la faccia in modo così interrogativo, che Miro reagì spingendo gli occhi verso la punta delle ciabatte di lei: comuni ciabatte da donna, niente di strano, ciabatte già viste, le ciabatte di tutte. Lui, posto per pura intuizione in quella piccola casa mai vista, tra figli di altri, pur cercando di reagire, si sentì incapace di decidere se le novità rispetto al passato fossero da ricercarsi proprio in quello sguardo femminile aspro e silenzioso, o piuttosto nelle loro nuove facce d’adulto. Piano cominciarono a chiedere l’un l’altro delle rispettive vite. Piano si ripresero il tempo e tutto quello che era vecchio per l’uno, ma nuovo per l’altro. Una sedia di fronte all’altra per una cronaca sfilacciata. Ne fecero sintesi lunatiche, a cui ciascuno dette i colori che poteva; il resto lo fecero i bambini lanciando oggetti nell’aria, a filo sopra le loro teste. Dopo lui si mise più comodo sulla sedia di paglia e, abbassando il tono della voce, ché i bambini non sentissero, le chiese se fosse innamorata. Lei rispose di sì: lo disse con lentezza, gonfiando le guance di un risolino stupido d’imbarazzo; nessun sintomo flogistico nel sussurro, solo lo sfogliarsi lento dei calendari. Questo lui vide quindi: quella casa, e la donna dentro, diventate in pochi minuti cose normali. Giuste nel tempo giusto. Fu felice in un secondo. Pensò: meno male per loro, meno male per lui. Pensò, in una nuova bolla di silenzio, formatasi tra una parola e l’altra di un dialogo breve tra 20


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estranei, che anche il loro, il più antico che gli fosse dato ricordare in quel momento, era stato amore. Non solo quelli strani, d’ammalata isterica, quelli di lei, da ricovero, ma anche il loro, il suo: il suo amore da studente. Si consolò. Pensò che lui non aveva mancato un appuntamento, come temeva di aver fatto, ma agevolato il tempo ad agire; immaginò un tram e la strada da ripulire per facilitare la corsa; immaginò il rumore quieto di quello stesso tram lungo binari sgombri. Gli sembrò bella la casa. Bella la donna. Rumorosi i suoi bambini. Gli parve naturale pensare che ci fosse anche un marito. Da qualche parte un uomo. Si chiese che faccia fossero costretti a fare i mariti quando, tornati a casa, vi trovassero dentro altri uomini. Immaginò facce tutte diverse, di mogli e mariti. Fu allora che tirò fuori dallo zaino il cd. Con un po’ di fretta in più e un po’ d’immaginazione in meno. In vent’anni aveva raccolto tutte le loro vecchie foto, riadattandole al digitale. Ne era orgoglioso. C’era il San Martino dell’85; le pasquette al mare nei primissimi anni 80, quando ancora lei non era malata per niente; i vecchi collant con le stelline e lo spolverino rosso; c’erano case forse ora demolite e abbracci sfocati. C’era la volta che lei, al mare dai suoi, aveva preso a provare una civettuola vergogna per certi discorsi sul sesso: sulla foto si vedeva un suo cappello nero con visiera e sotto quella sua faccia piatta, che non voleva reagire e, nello sforzo di controllarsi, diventava simile ad una figura geometrica piena di angoli e linee rette. Il primo sintomo. Un ricordo preciso per entrambi, ma con significati diversi. Le porse il cd come fosse cristallo e le spiegò con cura di cosa si trattava. Dentro c’era tutto il loro tempo, ordinato in piccole sintesi senza censure. Quando Elina lo prese tra le mani, indugiò con le dita sulla plastica della custodia. Segnò con l’unghia dell’indice i confini dei quattro lati. Tamburellò sulla copertina bianca. Non capiva, si vedeva che non capiva: piegava il collo sulla destra e strizzava fuori tutto il muschio che aveva ancora negli occhi. Miro pensò che quel gesto gentile, se pure non compreso, potesse almeno fargli guadagnare il diritto ad una domanda stupida. La fece. 21


Elisabetta Liguori

Perché non aveva mai voluto fare sesso con lui? Perché solo lui, senza? Perché? Uno ci resta male, è chiaro, anche da vecchio. Le chiese questo. Lei rispose che non lo aveva fatto perché lui non l’amava. Elina, Elina, che fai? Quello non era amore per lei. Disse che l’amore non può essere così scientifico ed indulgente come era il suo. Disse così, e la palpebra destra ebbe una scossa elettrica. Aggiunse poi a conferma che lui non se lo meritava. Nel senso che, volle precisare, essendo sempre stata una gran brava persona, quel fastidio in più proprio non se lo meritava. Lo disse dritto sulla faccia di Miro che aveva la bocca aperta, e poi, avendo ormai abbandonato l’iniziale ingannevole silenzio, ricominciò a straparlare di amore. All’improvviso. D’amore, d’amore, diceva. Una materia venduta in etti, l’amore suo, esattamente come in quei primi anni, con gli stessi occhi scheletrici e strani scatti negli avambracci. Di nuovo questa retorica senza diagnosi. Quella stessa parola “amore” già sprecata cento volte all’anno, per molti anni. E ancora adesso. Uno scempio rumoroso e feroce. Straparlava con il cd tra le mani e il mento che le si abbassava progressivamente verso il petto. Con i polsi che saltellavano in avanti come ranocchie. Orribile. Straparlava davanti a lui, che aveva ormai vent’anni di più e non si era mai laureato. Nonostante lui non volesse affatto sentirla e fosse venuto a cercarla, desideroso di poter sentire pronunciare da lei parole diverse da quelle. Nonostante tutto quel tempo, ancora l’amore. Lui lo vide chiaramente che Elina parlando s’emozionava: era vecchio non stupido. S’accorse subito che lei, rimproverandolo, quasi s’eccitava. Vide che il respiro le si faceva più grumoso e la pelle le si schiariva in alcuni punti precisi del viso, soprattutto tra le narici, mentre la bocca le si allargava come spianata da un matterello. Vide il verde dell’iride diventarle in breve molto più metallico. Vide che un pezzo incontrollabile d’anima le veniva in superficie, come l’effervescenza rumorosa delle bolle da un’aspirina buttata in un bicchiere d’acqua. Vide che arrivava. Non era guarita, Elina, non era guarita affatto, nonostante quei bambini vocianti, che continuavano a spiumare i cuscini di casa. Va bene, dai, a questo punto io posso andar via. 22


Il problema

Fu in un secondo che arrivò l’amore, violentissimo e imprevisto. Un muro d’amore che franò: lei s’alzò in piedi, altissima; per proteggersi gli prese il gomito, lo strinse nell’incavo della mano, che tremò. Miro strattonò, s’affrettò. Fu sufficiente. Per entrambi arrivò una fitta al fianco, si piegarono all’indietro. Poi il bacino di lei ebbe uno guizzo in avanti e il visus le si fece viola. Girarono di 180 gradi su loro stessi: con le braccia alte in due angoli retti a difesa, lui; con il gomito di lui nel suo pugno in attacco, lei. Sulle punte dei piedi. Alcuni passi in avanti, un paio indietro. Poi si fermarono. Per poi riprendere a girare rigidamente, in ritardo, in prossimità della porta d’ingresso. Ancora per un po’. Lei fu costretta a liberarlo soltanto quando Miro si trovava ormai oltre il confine della porta d’ingresso, oltre la sua disponibilità, praticamente fuori, e nel pensiero già tirava dritto verso l’orizzonte, con lo zaino in spalla. Da lì verso la strada: lontano dal crollo, lui se ne andò accelerando il passo. S’allontanò senza rimpicciolire, contro ogni regola di prospettiva. Il silenzio di lei, rimasto da solo, si riempì di rimproveri inutili, di passi tardivi, errati e vecchie voci. Gli avanzi del crollo. Chissà cosa aveva immaginato Miro? si chiese Elina, così intensamente che la pancia le riempì la gola. Bastò poco perché le fosse chiaro che il buon vecchio Miro aveva temuto che ci fosse da qualche parte un marito qualunque, pronto a rientrare a casa sua. Un marito vero. Magari questo, trovando un estraneo in casa, si sarebbe potuto arrabbiare. Fare una scenata. L’ipotetico marito. Sarebbe stato bellissimo, pensò Elina. Se fosse accaduto. Ad averlo un marito, sarebbe stato bellissimo. Uno solo. Le sembrò romantica quella nuova paura altrui. Una romantica sindrome così paradossale, perché alimentata dalla ripetizione. Una ripetizione vana. Le sembrò questa un’idea capace di farla impazzire, di farla morire subito. Finalmente. Rimasta da sola, passò il dito indice sull’argento del cd ancora una volta. Le sembrò che fosse metallo prezioso, proprio nell’istante in cui il ginocchio sinistro le fece crack, spezzandole i legamenti. A raccontarlo, nessuno ci avrebbe creduto, pensò. 23


Elisabetta Liguori

E s’inginocchiò sullo zerbino, con il viso cosĂŹ vicino al pavimento del pianerottolo deserto, da vedere distintamente ogni pagliuzza di granito mescolarsi ad altri colori nella pietra.

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CARLO LUCARELLI

Portavo una testa di morto

Portavo una testa di morto sul berretto, e credo fosse soprattutto quella a spaventarla, perché la fissava con gli occhi sgranati, non la divisa nera, non le armi, neanche le mie rune da SS sul bavero, soltanto quella, la testa di morto che avevo sul berretto. Eravamo in quattro, il rottenführer, Pirke, io e un mongolo del battaglione orientale, e tutti, a parte il mongolo, avevamo la testa di morto sulla bustina, ma lei fissava soltanto la mia. Credo che fosse perché ero io il primo che aveva visto, sulla porta. Ero andato avanti perché ero l’unico a sapere qualche parola di italiano, aprire! mangiare! Non che fosse necessario, ma le avevo imparate proprio lì, in Salento, quando ero venuto a studiare arte, poco prima della guerra, e mi piaceva l’idea di ripeterle ancora. Aprire! Mangiare! Ne sapevo anche qualcuna di più, ma non serviva altro. Aprirono subito, più sorpresi che spaventati, il vecchio in canottiera e il ragazzo in calzoni corti, la ragazza scalza sì, era spaventata, ma per la mia testa di morto. Non potevano aver sentito gli spari. Il villaggio era lontano, dietro la collina, e c’era il vento contro. Il rottenführer lanciò un’occhiata sopra la mia spalla, con una smorfia schifata. La casa era una capanna con le pareti di terra imbiancata, una stanza sola, buia e calda, così indicai prima il tavolo di legno e poi fuori, la macchia d’ombra sotto l’albero. E vino! dissi anche, perché avevo visto come il rottenführer mi guardava. Ci sedemmo sotto un olivo dall’ombra corta e nera, io su un sasso, il mongolo sulla cassetta di munizioni della mitragliatrice che porta25


Carlo Lucarelli

va, Pirke e il rottenführer sulle sedie di legno impagliato, ce ne erano solo due, l’uniforme sbottonata fino al petto, la bustina tirata sulla fronte, tutti a bere vino rosso che tingeva i bicchieri e non bastava ad asciugare il sudore. A me piaceva quel sole caldo, quella luce così bianca, me la ricordavo la nuca che scottava, fermo a tratteggiare sul mio blocco le linee di badie perse nella campagna, ma al rottenführer no, lo aveva detto, merda di paese, merda di italiani. Era già ubriaco, il rottenführer. Fu il vecchio a portarci il formaggio e una pagnotta nera che sembrava la ruota di un carro. Il mongolo la tagliò col coltello che a casa usava per scannare gli agnelli, mentre Pirke chiedeva se non ci fosse altro, pomodori, sì, pochi, ma altro, no, niente altro, mi diceva il vecchio scuotendo la testa, le mani giunte sui peli che gli imbiancavano il petto, giuro! giuro! e allora a me venne in mente il violino che mi sembrava di aver visto appeso alla parete, dentro la casa. Musica! dissi, e poi mi ricordai anche della ragazza scalza e allora aggiunsi: e ballare! Cominciò il vecchio. Uscì dalla casa con il violino in braccio, come un bambino e si mise in mezzo all’aia, seguito dal ragazzo in calzoncini corti che teneva in mano un tamburello. Dietro veniva la ragazza, che sembrava nascondersi alle loro spalle, fissando la mia testa di morto. La conoscevo quella musica, la riconobbi appena il vecchio toccò le corde del violino. L’avevo dimenticata ma mi tornò in mente di colpo assieme all’aria fresca di una sera, sul mare, ad altro vino, alle labbra calde di una ragazza, come si chiamava, no, non la ragazza, Maria, Marta, non importava, no, quella musica, quel ballo, come si chiamava. «La pizzica!» gridai, schioccando le dita al tempo del violino, «la pizzica!» e lo dissi a Pirke, è questa musica, io la conosco! L’avevo detto in italiano il nome di quella musica, l’unico che avesse, e a sentirlo il vecchio sorrise, e guardò il ragazzo, gli fece un cenno, con la testa, e il ragazzo cominciò a suonare, battendo con le dita sul tamburello, prima piano, e poi più forte, mentre il vec26


Portavo una testa di morto

chio annuiva, la guancia schiacciata sul violino. Io guardai Pirke, che rise, battendo le mani, poi mi tolsi la bustina per passarmi le dita tra i capelli e solo allora la ragazza scalza venne avanti e cominciò a ballare. Prima restò ancora in mezzo al vecchio e al ragazzo, le mani sui fianchi, dritta, sollevandosi appena sui talloni al tempo della musica, come per darsi lo slancio. Poi corse in mezzo all’aia, saltando sulle punte dei piedi, prima uno e poi l’altro, avanti e indietro. Portava un vestito corto e leggero, da ragazzina, ma ne stringeva i bordi con le dita e lo faceva ondeggiare attorno alle gambe come se fosse una gonna lunghissima, piegandosi col busto a destra e a sinistra, battendo i piedi nella polvere dell’aia, sempre più forte, prima uno e poi l’altro. Quanti anni poteva avere? Non lo so, tredici, quattordici, quindici. Era bella? Non so neanche questo, scura per il sole, magra per la guerra, sudicia, scalza, io la ricordo bella, i capelli che le ondeggiavano lunghi sulle spalle, lucidi di sudore, le labbra socchiuse sui denti per aspirare l’aria, quegli occhi che mi guardavano, sì, era bella, si avvicinava e tornava indietro, si piegava in avanti come se volesse offrirsi e si ritraeva subito come per sfuggire a chi avesse voluto toccarla, ma non lo facevamo, il rottenführer troppo ubriaco, il mongolo rispettoso delle precedenze e io e Pirke ancora troppo presi da quella ragazza scalza che saltava davanti a noi, roteava su se stessa, e poi guizzava, prima su un piede e poi su un altro, come una fiamma. Mi guardava. Mi guardava con desiderio, di più, con passione, con amore, mi sembrò, amore vero che le bruciava negli occhi e le inumidiva le labbra socchiuse ad aspirare l’aria, e io mi chiesi perché, perché io, soldato straniero, perché. Poi mi resi conto che non era me che guardava, che non mi vedeva neanche. Quel sorriso, quella luce negli occhi, erano per la musica. Era per quella che ballava, sentiva soltanto quella, e così intensamente che noi non c’eravamo più, ci aveva dimenticati, non c’erano più le nostre divise o le nostre armi, neanche la mia testa di 27


Carlo Lucarelli

morto sul berretto, ma solo il violino e il tamburello e quel ritmo forte, veloce, che la faceva saltare, roteare, guizzare, sì, proprio come una fiamma. «Dio, Karl» mi disse Pierke, con un sussurro strozzato, come se soffrisse, «quant’è viva!». In quel momento, lontano, oltre la collina, si sentì un rombo che sembrava quello di un tuono. Il vecchio in canottiera e il ragazzo in calzoncini corti non se ne accorsero neanche, perché continuarono a suonare, e anche la ragazza non se ne accorse, ma noi sì, perché lo sapevamo che quello non era un tuono. La pausa per il pranzo era finita. Facemmo quello che dovevamo fare. Io sparai al ragazzo e Pirke al vecchio, e alla ragazza tagliò la gola il mongolo, col suo coltello per gli agnelli. Poi li portammo in casa, li coprimmo col tavolo che avevamo fatto a pezzi e demmo fuoco a tutto, salvando solo il vino. Da allora non c’è un solo giorno della mia vita che io ricordi. La fine della guerra, il mio lavoro da impiegato, quando mi sono sposato, la pensione, niente, è uno spazio vuoto, bianco e accecante come il sole di quel giorno. Pirke si è sparato qualche anno dopo. Io non ho avuto il coraggio di farlo, e sono rimasto ad aspettare la fine, un giorno dopo l’altro. Anche adesso, se chiudo gli occhi, me la sento ronzare nel cervello, quella musica forte, e me la vedo chiara come allora quella ragazza scalza che guizza avanti e indietro, come una fiamma, così viva da dimenticarsi anche di noi, da scordarsi anche di me, della guerra e della morte.

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GIANLUCA MOROZZI

I duri non ballano

Questa storia è vera parola per parola, ma non ditelo in giro. Se ora porto i capelli corti e una specie di barba, se non frequento certi luoghi e certi circoli che verranno in seguito specificati, un buon motivo ci sarà. Per cominciare: sappiate che in ogni compagnia bolognese che si rispetti non mancano mai un amico simpatico chiamato Ciccio e un amico sportivo chiamato Bomber. Se in una compagnia mancano un Ciccio e un Bomber si prende quello sovrappeso di un grammo, quello che gioca a calcetto una volta ogni sei mesi, si battezza il primo Ciccio, il secondo Bomber. Questa è da sempre una legge non scritta, sotto le Due Torri. Ai tempi di questa storia anch’io, come tutti gli allegri giovani bolognesi, avevo un amico di nome Ciccio e un altro di nome Bomber. Un trio accomunato da due passioni dominanti. La prima passione dominante era la sacra trimurti chitarra-basso-batteria, declinata nei diversi accenti della multiforme creatura chiamata rock. Io cantavo nei Terrorswing, band tributo agli Afterhours. Ciccio venerava il classico dittico Vasco-Ligabue con sporadici tradimenti coi Negrita. Bomber non era mai uscito dal tunnel del metal degli anni ottanta. La prima passione, talvolta, veniva tradita in nome della seconda. L’amore per il cromosoma x, cioè. Una delle attività preferite del nostro trio era battere i locali cercando di far conoscenza con qualche soggetto fornito di cromosoma x. Le creature fornite di cromosoma x, generalmente facevano 29


Gianluca Morozzi

molto volentieri conoscenza con il cromosoma y di Bomber. Io e Ciccio, meno attraenti proprietari dello stesso cromosoma, facevamo gli squali a rimorchio delle navi. Allora, in nome della passione primaria, io Bomber e Ciccio frequentavamo tutti i locali rock del circondario. Nei locali rock le nostre orecchie potevano godere di grandi dosi di chitarre, bassi e batterie. I nostri occhi godevano un po’ meno per la visione di inavvicinabili chiaviche genere grunge, genere dark, genere metal. I nostri occhi venivano meglio appagati in alcuni locali dalle selezioni musicali quantomeno discutibili, in cui la seconda passione trionfava grandemente sulla prima. Locali come il Tempio di Crespellano di Dozza Imolese. Per esempio. Al Tempio c’erano due piste da ballo, come dire, di genere, e una pista da ballo, come dire, non di genere. La pista da ballo, come dire, non di genere, proponeva i successi danzerecci del momento. Un po’ di sempreverdi. Un po’ di Commerciale. I lenti a metà serata. La pista del liscio proponeva, per l’appunto, liscio suonato dal vivo. La pista latinoamericana, lo dice il nome stesso. Noi, gente di città, giudicavamo con un certo snobismo quelle masse che calavano al Tempio dalle campagne intorno a Crespellano di Dozza Imolese. La definizione che davamo dei frequentatori del Tempio si riassumeva nella formula Sono arrivati al Tempio col trattore. In quanto rockettari, naturalmente, disprezzavamo nel profondo la scelta di queste masse appassionate di Commerciale, orchestre di liscio e balli latinoamericani. Per seppellire il nostro disgusto, ci mettevamo ad analizzare le proprietarie di cromosoma x. Iniziavamo a valutarle con i gomiti sulla balaustra del piano di sopra, balaustra che consentiva una vista perfetta su tutta la pista non di genere e una bella visuale sulle scollature delle fanciulle arrivate col trattore. Fanciulle, spesso, dal look a cavallo tra un uovo di Pasqua e le battone da cavalcavia. 30


I duri non ballano

In quel particolare sabato sera, quello da cui nasce questa storia, ce ne stavamo appoggiati alla balaustra a sorseggiare le nostre birrette e a esaminare il materiale umano sottostante. Avevamo ristretto il campo a quattro possibili zone d’intervento, tre biondine sotto la consolle del dj, altre tre dall’altro lato della pista, tre panterone al centro, tre ragazzine timide in zona poltroncine. Stavamo appunto valutando quale campo esplorare per primo, quando uno dei miei cinque sensi – l’olfatto, nella fattispecie – era stato violentemente sollecitato da una scia violenta di profumo. Un altro dei miei cinque sensi – l’udito – era stato altrettanto sollecitato da un rumore di tacchi in marcia verso di me, e da una voce stridula ed alterata che mi urlava «Hai un bel coraggio, tu, hai proprio un bel coraggio!». Io, Ciccio e Bomber ci eravamo girati contemporaneamente. A mezzo metro da me, sbucata dalla sala latinoamericana, era comparsa una tappetta bionda dal seno enorme strizzato in uno straccetto strettissimo. I miei occhi, gli occhi di Ciccio, gli occhi del Bomber, si erano concentrati sull’espressione ferocissima di questa ragazza. Poi su quel seno enorme assurdamente strizzato. Poi di nuovo su quell’espressione ferocissima. I nostri occhi, diciamo, vagavano. «Bravo Vito, bravo!» aveva ringhiato la ragazza, con un distillato d’odio puro nella voce. «Bravo, hai un bel coraggio a farti vedere qui, non ti basta quello che hai fatto a Lucia?» «Eh?» «Non ho mica paura di te, cosa credi? Dai, picchiami se hai coraggio, picchiami, non ho mica paura di te, sai? Te lo dico in faccia che sei un bastardo e che ti devi vergognare, Lucia la devi lasciar stare, capito?, la devi lasciar stare, è stata male già abbastanza! La devi lasciar stare!» «Eh?» avevo ripetuto a voce bassissima, mentre il Bomber e Ciccio seguivano la scena avvinti e incuriositi. In quel momento era entrato nel dramma un nuovo personaggio. 31


Gianluca Morozzi

Un ragazzo sui venticinque anni, con un completo da playboy del Tempio molto simile alla divisa del cameriere di una pizzeria. Aveva afferrato la ragazza per un braccio, mi aveva scrutato spaventato, aveva guardato di sguincio il Bomber e Ciccio, poi aveva bisbigliato alla ragazza «Vieni via, dai, vieni via, lo sai chi sono questi!». Ciccio e Bomber avevano drizzato le orecchie per scoprirlo. Così, tanto per sapere chi sarebbero dovuti essere. La ragazza si era divincolata, aveva strillato «Non m’interessa chi sono, io non ho mica paura, hai capito?, io non ho mica paura» e poi mi aveva incendiato con gli occhi. «Prega che non ti trovino i fratelli di Lucia!» aveva sibilato. «Prega che non ti trovino loro! Magari si rovinano per tutta la vita, ma te la fanno pagare!» Il playboy cameriere l’aveva presa di nuovo per un braccio, pallido, sudato, nervoso. «Andiamo» aveva implorato. «Non fare sciocchezze, dai, per favore, vieni via, vieni via, dai.» Alla fine la ragazza si era fatta portar via, sempre fissandomi con odio. Ci eravamo guardati per venti secondi, io, il Bomber e Ciccio. Alla fine, il Bomber aveva inevitabilmente chiesto «Ma chi diavolo sarebbe questo Vito?». E io non avevo potuto che rispondere «Lo chiedi a me?». Mezz’ora dopo, gli amici del mio sosia Vito si erano manifestati di nuovo. Non i misteriosi e maneschi fratelli di Lucia, fortunatamente, ma il solito playboy cameriere. Stavolta in compagnia di una ragazza molto ma molto carina, con una rimarchevole scollatura e il trucco sbavicchiato intorno agli occhi da qualche presumibile, furtiva lacrima. Si erano affacciati sulla soglia della sala del liscio nella quale stazionavamo da qualche minuto a bere vodka e succo d’arancia. Il playboy cameriere mi aveva indicato, cercando di trascinare la ragazza carina – Lucia? – nella nostra direzione. Avevo visto le sue labbra formare le parole Vai a parlargli per favore. 32


I duri non ballano

La presumibile Lucia si era piantata sulla soglia, mi aveva guardato con occhioni sciolti in acqua. Aveva fatto un passo in avanti e poi era scoppiata a piangere, prima di scappar via seguita dall’imbarazzato amico. Io, Ciccio e Bomber avevamo continuato stupefatti a fissare il punto in cui erano spariti, sempre con i nostri vodka e succo d’arancia in mano. Al quinto minuto Bomber aveva commentato «Oh, carina la tua ex. Io me la sarei tenuta stretta». L’avevo guardato con infinito, infinito disprezzo. «Per favore, Bomber. Ho già mal di testa.» «Be’», aveva detto Ciccio, «Se posso dire la mia…». «Sì?» «Al posto tuo avrei fatto finta di essere Vito. E avrei approfittato.» L’avevo guardato con disprezzo molto minore. L’ambasciata era arrivata alle due e un quarto di notte, mentre ce ne stavamo appollaiati al bancone del bar della sala latinoamericana a studiare un gruppetto di parrucchiere che si strusciavano nei balli di gruppo. Qualcuno aveva picchiettato sulla mia spalla dicendo «Scusa?». Era il solito playboy cameriere, con una faccia imbarazzatissima. «Sì?» avevo detto, con gli occhietti malevoli dei miei amici subito addosso. «Ecco» aveva iniziato quello, balbettando. «Non è facile dire quello che devo dire, Vito, lo so che ti sto chiedendo molto…» Ormai trascinato in quell’assurdo vortice, avevo sospirato «Sentiamo». «…ecco, Vito, ora, è chiaro che in ogni relazione che finisce c’è una parte di colpa dell’uno e una parte di colpa dell’altro, e non è mai chiaro se non a chi ha vissuto le cose il punto in cui finisce la colpa dell’uno e comincia la colpa dell’altro, per cui, mettiamo, Lucia dice che è colpa tua, tu magari potresti sostenere che invece è colpa sua…» «Già.» 33


Gianluca Morozzi

«…per cui, Vito, io credo che i cocci, eh, i cocci si possano sempre incollare, no?» E qui mi aveva guardato un po’ spaventato, forse pronto a farsi massacrare di botte a causa della mia indole violenta. O dell’indole violenta di Vito. Ci siamo capiti. Vi prego. Ho il mal di testa. «Continua» avevo detto. Sollevato per non essere stato massacrato di botte, quello aveva proseguito. «Per cui, Vito, ti chiedo solo una cosa: c’è ancora una speranza per te e Lucia, anche piccola, anche piccolissima, o è proprio tutto finito?» A questo punto, idealmente, la musica del Tempio era stata sostituita da un rullo di tamburi. In quel piccolo cono in cui stavamo io, Ciccio, Bomber e il playboy cameriere, la tensione era salita alle stelle. Ciccio e Bomber mi guardavano con la bocca aperta e gli occhi frementi, in spasmodica attesa delle mie decisioni. Non ho mai detto di avere degli amici particolarmente intelligenti. Il playboy cameriere aveva ripetuto «C’è speranza, Vito?». Avevo guardato Bomber. Avevo guardato Ciccio. Avevo guardato il playboy cameriere. Poi di nuovo Bomber. Poi di nuovo Ciccio. E alla fine avevo sussurrato «Sì». La tensione si era sciolta di colpo. Ciccio aveva fatto un gran sorriso, Bomber mi aveva dato una pacca felice sulla spalla. Il playboy cameriere aveva sospirato di sollievo, urlacchiando «Allora vado a dirlo a Lucia!». Qui Bomber era intervenuto, con gli occhi porcini del guardo34


I duri non ballano

ne. «Senti, ma facciamoli incontrare qui questi innamorati riconciliati, no?» Il playboy cameriere aveva scosso la testa. «No, no, è meglio di no, Lucia emotivamente è molto fragile. Bisogna fare un passo alla volta.» E mi aveva messo in mano un cartoncino. «Cos’è?» «L’invito alla festa di laurea di Lucia. Nel cortile di Vicolo Bolognetti. Se vieni sarà un primo passo verso la vostra riconciliazione… poi deciderete voi come portare avanti le cose, ma intanto sarà un primo passo…» «E i fratelli di Lucia?» «Saranno avvisati.» «E i miei due amici possono venire?» «Oh, ma certo, certo… bene, vado a parlare con Lucia, allora.» Ed era sparito nei meandri del locale. Io, Bomber e Ciccio avevamo studiato il cartoncino d’invito. «E adesso?» avevo detto un po’ terrorizzato. «Adesso» aveva chiosato Bomber «si va alla festa». In quel momento la musica si era fermata in tutto il locale. Nel grande silenzio, il dj aveva detto con voce forte e stentorea «Allora, scribacchino, veniamo al punto?». Tutto il locale si era girato a guardarmi con aria di accusa. «Eh?» «Hai capito benissimo. Dovevi scrivere un racconto sulla taranta e invece sei qui che parli dei tuoi stupidi amici e delle tue misere tecniche per rimorchiare. Dov’è la taranta? Dov’è? Vogliamo andare al punto?» «Scusa. Provvedo subito.» «Sarà meglio.» La musica era ripartita, e tutti si erano messi a ballare di nuovo. Okay, non è andata esattamente così. Mi capita spesso di sentire delle voci quando tergiverso e arrivo al punto seguendo percorsi complicati. 35


Gianluca Morozzi

Salterò dunque tutta la sequenza della laboriosa preparazione per la festa di laurea, la difficile scelta del regalo per una sconosciuta, e passerò direttamente al punto saliente. Ovvero, il trionfale ingresso alla festa del trio. Per Vicolo Bolognetti, sappiatelo, s’intende un antico palazzo nel centro di Bologna. Nella vecchia biblioteca di Vicolo Bolognetti migliaia di studenti hanno preparato esami, hanno socializzato, si sono amati e si sono lasciati. Ci hanno anche girato delle scene di un film. Come tutti gli antichi palazzi, al centro c’è un grande cortile. Di lato, un cortile un po’ più piccolo. Sopra i cortili si dipanano oscuri corridoi medievali e scale interrotte da invisibili porte, passaggi per stanze silenziose, meandri, di certo teatro di sacrifici umani. Un po’ come tutti i palazzi antichi di Bologna. La festa di laurea di Lucia si svolgeva nel cortile più piccolo, un rettangolo interamente occupato da tavoli ricolmi di bevande e cibo, cartelloni spiritosi – insomma –, un dj e una gran folla di invitati. Sul dj tornerò tra poco. Sugli invitati, occorre fare una dissertazione. Il centro di Bologna è un dedalo di vicoletti stretti e tortuosi. Parcheggiare nel centro di Bologna vuol dire lottare strenuamente contro portici, torri, pietre secolari, malevoli divieti d’accesso e di sosta. Il pigro bolognese medio è solito evitare tutti questi ostacoli. Il bolognese medio che vuole farsi una birra con un altro bolognese medio dopo una giornata di lavoro non ha voglia di guidare a passo d’uomo cercando un buco libero, lasciare la macchina su due ruote in un portico, scarpinare venti minuti fino al pub prescelto, camminare altri venti minuti carico di birra sperando che la sua auto non sia stata rimossa. Il pigro bolognese medio fa molto prima. Sceglie un pub fuori dal centro storico, e ci parcheggia davanti. Lo studente fuorisede, generalmente, arriva a Bologna senza un mezzo di trasporto. Viene intruppato in qualche umido sottoscala 36


I duri non ballano

del centro storico da qualche avida vecchina che pretende un esorbitante affitto in nero. Frequenta le aule universitarie del centro, i baretti del centro, i locali del centro, compra una bicicletta che gli viene rubata tre settimane dopo, va in piazza Verdi – spazio invaso dai carri armati nel ’77, teatro di curiosa umanità al giorno d’oggi –, compra un’altra bicicletta da uno dei bizzarri personaggi del luogo, anzi, spesso ricompra la sua stessa bicicletta dal figuro che gliel’ha rubata. Torna a frequentare i baretti, i locali e le sale studio del centro, e dalla cerchia dei viali non esce mai. Molti studenti fuorisede arrivano alla laurea convinti che i bolognesi non esistano, se non per qualche compagno di corso autoctono, qualche simpatico salumiere e qualche pusher di piazza Verdi che vende lucido da scarpe spacciato per fumo. Uno studente fuorisede di quelli sopra descritti e uno studente bolognese automunito, per decidere di uscire a farsi una birra, devono portare avanti complesse trattative. Il fuorisede proporrà un baretto malfamato e quasi invisibile incistato dietro un antico e imparcheggiabile museo, il bolognese insisterà per il nuovo pub irlandese in un’immensa distesa di cemento a due passi dall’aeroporto. Sono due mondi che ogni tanto, più che incontrarsi, si girano intorno. La festa di laurea nel cortile di Vicolo Bolognetti, be’, era la classica festa di laurea di una studentessa fuorisede. Sono stato a molte feste di laurea di fuorisede. Ne conosco le dinamiche. Metà dei partecipanti è un parente, un caro amico, uno studente concittadino della laureata. L’altra metà è una specie di Italia in Miniatura fatta di tantissimi accenti diversi, uno sparuto gruppetto di bolognesi perso in un’ampia rappresentanza di veneti, marchigiani, calabresi, abruzzesi, pugliesi. Come tutte le feste di laurea di fuorisede a Bologna, fin da quando è nato il mondo. Io, Ciccio e il Bomber ci eravamo incuneati risoluti nella folla festante, diretti senza deviazioni verso il settore alcolici. Avevo fatto appena in tempo a sorseggiare la mia prima birra, che qualcuno mi aveva toccato la spalla. Mi ero girato, e mi ero trovato davanti due individui quasi iden37


Gianluca Morozzi

tici ed enormi. Con gli occhi come braci, le mani come morse, e i bicipiti in vista. «Vito» aveva ringhiato sommessamente uno dei due. «Allora sei venuto davvero.» «Eh» avevo belato, un po’ intimorito. L’energumeno mi aveva stretto la mano. Un po’ energicamente, a mio parere. «Stai attento a come ti comporti» aveva sibilato, leggermente minaccioso. «Lucia ha sofferto già abbastanza. Stai attento.» L’altro energumeno, quello non parlava. Mi fissava in silenzio, gli occhi accesi come torce. «Ci starò attento» avevo sussurrato, ma la voce non mi era uscita per la paura. Mi ero schiarito la gola e avevo ripetuto «Ci starò attento». I due energumeni, dopo un rapido cenno del capo, si erano allontanati scomparendo nella calca. «I fratelli di Lucia?» aveva ipotizzato il Bomber. «Mi sa.» «Son grossi. Io mi comporterei bene.» «Già.» In quel momento preciso, il dj aveva dato il via alle danze. Con il vecchio classico Should I Stay or Should I Go. «Si balla!» aveva urlato Ciccio gettandosi nel vortice. Bomber lo aveva seguito urlando «Rock’n roll!». Io non avevo fatto in tempo. Una voce flautata mi aveva sussurrato vicino all’orecchio «Ciao, Vito». Lucia. La mia ex. Cioè, l’ex di Vito. Non confondetemi. Ho il mal di testa. Lucia era decisamente, decisamente, decisamente carina. E mi stava guardando con dei grandi occhioni felini, sofferenti ma dispe38


I duri non ballano

ratamente innamorati. Non di me, d’accordo, ma questo lei non lo sapeva. Che dire a Lucia? Chi la conosceva, soprattutto, Lucia? Indeciso su cosa dire, non avevo detto niente. L’avevo guardata con un sorriso e un’espressione da uomo superiore e sicuro di sé, facile da confondere con l’espressione di un idiota. Ci eravamo fissati negli occhi per tutta la durata di Should I Stay or Should I Go – ballata per intero con tanto di pogo all’accelerata dai miei buoni amici Ciccio e Bomber –, uno scambio di sguardi ricco di tensione erotica e sottintesi. Poi Lucia aveva detto «Spero che riusciremo a parlare con calma, più tardi». Avevo annuito, conciliante. «Abbiamo molte cose da dirci» aveva aggiunto, mentre la canzone dei Clash terminava. Avevo di nuovo annuito conciliante, lo sguardo buono e rassicurante leggermente inclinato in direzione della sua scollatura. Distratto com’ero, non avevo prestato attenzione all’attacco della canzone successiva. Qualcosa di molto, molto diverso dai Clash. Qualcosa che aveva suscitato grande entusiasmo nel cinquanta per cento dei partecipanti alla festa. Un allampanato personaggio era sbucato dalla folla, uno con gli occhialetti e la faccia da cugino di secondo grado della festeggiata. Aveva preso Lucia per un braccio, l’aveva trascinata in mezzo alla pista urlacchiando «Vieni, Luci’!». Mi ero voltato verso il centro del cortile, notando una curiosissima inversione di flussi. Tutti quelli che avevano ignorato la canzone dei Clash si stavano gettando nelle danze, aggirando quelli che dal centro del cortile uscivano perplessi. Come Ciccio e il Bomber. Che erano tornati da me borbottando «Ma che è ’sta roba?». La pista si era riempita di espertissimi danzatori, tutti impegnati a seguire una musica folk fatta di violini, organetti e tamburelli. La coreografia che ne risultava era ipnotica e assolutamente inedita, per i nostri occhi dediti alla trimurti chitarra-basso-batteria. 39


Gianluca Morozzi

«Ma cos’è?» aveva ribadito il Bomber, sbigottito. «Sembra un po’…» avevo detto «…sembra un po’ quella canzone di Capossela, sai, Il ballo di San Vito, ma estremizzata…». Ciccio aveva osservato bene i danzatori. «Fanno un po’ paura, eh?» aveva commentato. «Però le ragazze…» aveva notato il Bomber «…be’, il movimento valorizza le ragazze, non trovate?». Non avevamo idea di quel che stavamo vedendo, in realtà. Non solo quel che stavamo vedendo era la riproduzione di qualcosa di antichissimo e a noi totalmente sconosciuto. Ma quello che stavamo vedendo quella sera, era la testa di ponte dell’Invasione. Nel cuore di quella sfrenata danza, come dal nulla, mi era comparso davanti il volto familiare del playboy cameriere. Mi aveva sorriso a novantasei denti, sempre leggermente untuoso e timorato. «Ma come, Vito, non balli? Non ti senti bene?» Ciccio e Bomber avevano incrociato gli sguardi su di me. Imparavo sempre cose nuove sul mio sosia Vito. Che si rivelava a quel punto ballerino eccezionale, cultore di quella danza tarantolata. Buttarsi in pista e improvvisare i movimenti, dovendo interpretare il ruolo di un ballerino esperto, non sembrava un’idea infinitamente geniale. Per fortuna, ne avevo avuta una molto migliore. Avevo guardato il playboy cameriere con gli occhi di Clint Eastwood nei western di Sergio Leone. E avevo detto, freddo e serissimo, «I duri non ballano». Il playboy cameriere era sparito nei meandri della festa, intimorito e veloce come il lampo. Per tutta la sera il dj aveva continuato quell’andamento schizofrenico. Un pezzo per i patiti del rock, i Green Day, i Rem, ballato da metà degli invitati alla festa. Allo sfumare di chitarre e batterie, organetti, violini e tamburelli per tutti gli altri. Il dj, peraltro, si era mostrato assolutamente di parte. Immobile 40


I duri non ballano

e sbadigliante dietro la consolle durante i pezzi rock, incapace di star fermo nell’altra metà della selezione. A filmare quell’assurdo alternarsi di ballerini al centro del cortile, ne sarebbe venuto fuori un bel documentario. Anche filmare Ciccio e Bomber che si buttavano tra i tarantati cercando di far colpo sulle ragazze, non sarebbe stato male. Come video demenziale. Poi, dopo la quinta birra, era arrivata la svolta della serata. La quinta birra mi aveva costretto a uscire dal cortile per aggirarmi nei corridoi del palazzo alla ricerca della toilette. Che avevo trovato in un anfratto buio e sinistro di quell’antico edificio nel cuore della città. A operazione conclusa ero uscito dal bagno con la zip dei pantaloni mezza aperta, e mi ero trovato di fronte Lucia. «Oh» avevo balbettato poco brillante, «Qual buon vento.» Lucia mi aveva incendiato con lo sguardo, l’espressione a metà tra la seduttrice irresistibile e l’ubriaca all’ultimo stadio. Con voce rauca aveva sussurrato un sensuale «Ciao, Vito». Seguito da qualche angosciante secondo di penoso silenzio. Avevo rotto il silenzio con un miserrimo «Eh, come va?». «È ora di parlare, Vito.» «Eh.» «So che, insomma, Vito» e qui aveva abbassato pudicamente gli occhi «pensi che ci sia ancora speranza». E dopo un attimo aveva aggiunto «Per noi due». «Sì» avevo detto. La mia capacità dialettica, nei panni di Vito, aveva subito una drastica e terribile flessione. «Hai una voce strana, Vito. Non sembra nemmeno la tua.» «Laringite» avevo improvvisato. «Succede.» Lucia mi aveva guardato preoccupatissima, con gli occhi sofferenti di una madre col figlio malato. «Oh, poverino, mi spiace. Dovresti andare da un dottore.» E qui, per un attimo, avevo recuperato la mia brillante capacità di improvvisare giocando con le terminologie universitarie. 41


Gianluca Morozzi

«Be’» avevo sorriso sornionissimo «Ora sei dottoressa, no?». Con un lampo negli occhi, la madre preoccupata si era trasformata di colpo in una neolaureata vogliosa da film porno. Dato che sono un signore, sorvolerò sui dettagli. Basti dire che l’immagine di Vito, a parer mio, non è stata rovinata dalle prestazioni del suo sosia. E che Lucia ha continuato a scambiarmi per Vito anche in quella situazione, come dire, intima. Forse io e Vito siamo gemelli anche in senso, come dire, intimo. O forse Lucia era totalmente ubriaca. Sorvolerò anche sulla rapida sparizione del nostro trio dalla festa, subito dopo. Che ci pensasse il misterioso Vito, da lì in poi, a pagare il prezzo delle sue sozzerie. O delle mie. Fa lo stesso. Gli anni sono passati, le cose si sono evolute, l’Invasione si è gioiosamente compiuta. Fiumane di studenti diretti verso nord hanno trasformato le vie universitarie di Bologna in un’allegra succursale del Salento. I fuorisede hanno continuato a muoversi nel loro mondo di appartamenti incrostati e sottoscala affittati in nero, di baretti del centro e biancastre sale studio, limitando i contatti con i bolognesi ad avidi commercianti e taglieggiatrici affittuarie. Poco alla volta si sono moltiplicati i concerti, le serate, i corsi dedicati a quella strana musica fatta di organetti, violini e tamburelli. A completamento della gioiosa Invasione, Piazza Maggiore ha ospitato la Notte della Taranta. Forse capirete perché, anche dopo essermi tagliato i capelli e aver fatto crescere una specie di barba, dai corsi, dai concerti, dalla Notte della Taranta, mi sono sempre tenuto lontano. Si sa mai. Vorrei evitare di trovarci Vito. 42


ANDREA BAJANI

Forse si muore così

Ti hanno data per morta per cinque anni di fila, eppure io ti ho vista sempre girare per casa. Almeno una volta la settimana c’era qualcuno che diceva La nonna sta per morire, ma poi tu alla fine non morivi mai. Ti vedevo camminare in cucina, sedere in poltrona, sparire dentro la porta del bagno, accendere e spegnere la luce ogni volta che uscivi. Così avevo pensato che forse ero io che non sapevo come si muore, e che magari tu eri già morta nonostante camminassi in cucina, sparissi dentro la porta del bagno e accendessi e spegnessi la luce ogni volta che uscivi. Forse ero io che sbagliavo a darti per viva, a pensare che tra i vivi e i morti quel che cambia è l’azione. Così succedeva che ogni tanto chiedevo a qualcuno notizie di te, ti vedevo passare, aspettavo che ti allontanassi, e poi sottovoce chiedevo È già morta? Ma tutti sottovoce mi rispondevano Non ancora e poi inchinandosi verso di me aggiungevano Ma non manca poi tanto. Ma tu non morivi mai, a dispetto di tutti i pronostici, e soprattutto alla faccia di chi ti voleva già a riposare sotto le aiuole. È ostinata, avevano sempre detto tutti in famiglia ogni volta che si parlava di te. E così mi ero fatto l’idea che fosse per ostinazione, che non ti decidevi a morire. Quando non vuole fare qualcosa, dicevano, non c’è verso di fargliela fare, e tra le cose che non ti andavano a genio con ogni evidenza c’era questa di traslocare nel regno dei cieli. Io comunque per sicurezza ogni tanto chiedevo, e a domanda uguale ricevevo sempre uguale risposta. Non ancora, ma non manca poi tanto.

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Spiegarmi come si muore in ogni caso non me lo spiegava nessuno. Non c’è un modo unico per morire, mi dicevano, ognuno muore come gli pare. Il nonno, ad esempio, era morto mentre il barbiere gli faceva la barba e i capelli, issato sulla poltrona con l’asciugamano che gli copriva le spalle. Il barbiere aveva continuato a parlargli per tutta la durata del taglio, ma il nonno era uno di poche parole, e quando uno di poche parole non ti risponde non vai di certo a pensare che non ti risponde perché ha traslocato nel regno dei cieli. E invece il nonno era morto così, rasato, profumato, con ancora il segno del pettine in mezzo ai capelli. Nel giro di poche ore gli avevano tolto il lenzuolo da sopra le spalle, l’avevano messo dentro la bara, caricato su una macchina e io non ne avevo saputo più niente. Dove portano l’armadio?, avevo chiesto quando avevo visto la bara andare via dentro la macchina funebre. Lo traslocano nel regno dei cieli, mi avevi risposto. Traslocavano il nonno, quindi, e la tua casa all’improvviso diventava più vuota. Però il silenzio restava lo stesso, perché il nonno era un uomo di poche parole, sia quando era fuori di casa, sia quando era dentro. Se n’era andato via così, pettinato di fresco e chiuso dentro un armadio, e tu da quel giorno non ne avevi parlato mai più. Ti eri limitata a disporre la tua vita in un’altra maniera, come se il nonno avesse traslocato davvero, e a te fosse toccato di far sembrare piena la casa con i pochi mobili che ti aveva lasciato. Da allora tutti avevano preso a darti per morta, perché senza il nonno, dicevano, tu non eri nessuno. Da quel giorno ogni volta che ti andavi a tagliare i capelli tutti si guardavano col pensiero che era venuto il momento del tuo trasloco nel regno dei cieli. Un po’ lo pensavo anch’io, a dire il vero, perché dopo la morte del nonno per me si moriva così, col lenzuolo sopra le spalle issati sul trono di qualcuno che ti taglia i capelli. Così tutte le volte che andavi dalla tua parrucchiera ti chiedevo se potevo venire, che già il nonno me l’ero perso, non volevo perdermi anche te che morivi. Ma la parrucchiera ti prendeva la testa, te la lavava, te la tagliava e tutte le volte che uscivi eri viva come quando eri entrata. Alla parrucchiera non 44


Forse si muore così

osavo chiedere se eri ancora tra i vivi, dopo che ti aveva tolto il lenzuolo, e così mi limitavo a camminarti accanto, viva o morta che fossi. Poi ti vedevano anche gli altri, tagliata di fresco, e si vedeva che ci restavano male, che anche quella volta avevano sbagliato a fare le previsioni del tuo trasloco. Col tempo però tutti si sono dimenticati di te, nessuno più chiedeva niente a nessuno quando andavi a farti tagliare i capelli. Capitava che qualcuno dicesse Poveretta, o che qualcuno si prendesse la briga di telefonarti, o venirti a suonare per sapere se avevi bisogno di nulla. Di solito tutti usavano me, per queste incombenze, per farti sentire un po’ meno sola. Ti parlavano un po’ dal citofono, con la spalla appoggiata al portone, e poi dopo un po’ ti dicevano Bene, io vado, però adesso arriva su il tuo Lorenzo. Così mi caricavano nell’ascensore e tu mi aprivi la porta un piano più su, come mi avessi tirato su dentro un cestino calato giù dal balcone. Poi all’improvviso un giorno hai smesso di tirarmi su chiuso nell’ascensore. Al citofono hai detto Ciao Lorenzo, ci sentiamo poi per telefono. Io ho guardato la mamma, che era lì con me con la spalla appoggiata al portone, ho guardato il citofono e poi ho agitato la mano in segno di saluto, come se da quei buchini tu potessi vedermi. Da quel giorno tutti hanno ripreso a darti per morta, o a dare per imminente il tuo trasloco nel regno dei cieli. Come se non bastasse tutti dicevano che al telefono sembravi una persona diversa, a qualcuno facevi addirittura paura, ti sentiva rispondere Pronto e poi buttava giù. Ogni tanto si provava con le telefonate di gruppo, ci si metteva tutti intorno a un telefono, uno faceva il numero e tutti gli altri si avvicinavano con la testa il più possibile alla cornetta. Io stavo lì sotto, abbracciato a quel mazzo di gambe, e da là non riuscivo mai a sentire che cosa succedeva dentro il telefono. Capivo che rispondevi perché le gambe a cui ero allacciato si agitavano tutte insieme, e qualcuno sopra di me diceva Ciao come va? Poi però nessuno diceva più nulla, e dopo poco rimettevano giù il telefono e si mettevano tutti seduti in salotto, due o tre su una sola poltrona, qualcuno sul divano e io che finivo sempre seduto per terra. Per un po’ si sta45


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va tutti in silenzio, finché qualcuno non diceva Ma da quand’è che ascolta la musica? Tutti si guardavano in faccia, passandosi la domanda uno per uno finché non arrivava da me, che dicevo Non lo so. Tutti insieme allora scuotevano la testa a destra e sinistra che era come dire Ci siamo, siamo vicini al trasloco nel regno dei cieli. Questa cosa che ascoltavi la musica e non volevi vedere nessuno turbava gli animi di tutti quanti. A casa tua c’era sempre stato silenzio, sia quando il nonno era in vita, sia dopo che era andato a farsi tagliare i capelli per l’ultima volta. La musica che veniva fuori a tutto volume dal tuo telefono li spaventava più di qualsiasi altra cosa nel mondo. Così un giorno, dopo l’ennesima riunione in salotto, un pezzo della famiglia ha deciso di iniziare gli appostamenti e l’altro pezzo si è messo in movimento per trovarti l’armadio più consono all’imminente trasloco nel regno dei cieli. Poi la sera, quando ci si riuniva di nuovo in salotto, chi aveva fatto l’appostamento diceva che cosa aveva visto e sentito, e chi era andato a informarsi per la tua sepoltura riferiva agli altri prezzi e modalità. Così si è venuto a sapere che dalla tua casa ogni giorno verso sera usciva un signore, anziano a sufficienza da potersi dir vecchio, ma non così tanto da aver perso ogni fascino. Tutte le sere il signore usciva da lì, montava in macchina e se ne andava. Nel gruppo degli appostati c’era sempre qualcuno che stava accanto al portone, e quando il signore usciva, teneva aperta la porta e faceva entrare gli altri del gruppo. Così si saliva tutti coi piedi di velluto su per le scale e poi ci si mettava con l’orecchio incollato alla porta. E dietro la porta c’era sempre quella musica forte, che faceva guardare in faccia perplessi, e a qualcuno fare il segno della croce. Più gli appostamenti andavano avanti, più dalla porta arrivava la musica, più il signore usciva da casa, e più la sera si parlava soltanto di prezzi e modalità del tuo trasloco nel regno dei cieli. A me ormai nessuno chiedeva più niente, che non c’era più bisogno di caricarmi su un ascensore e per il resto non sapevano che farmi fare, di fronte alla tua prossima morte. Poi finalmente un giorno hai chiamato che era sera tardi. Il pri46


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mo che ha risposto ha spalancato gli occhi verso gli altri, gli altri hanno capito, e si sono buttati contro il telefono come giocatori di rugby. Ma tu hai detto Voglio parlare con Lorenzo, e tutti si sono allontanati delusi. Io ho detto Pronto, tu hai detto Ciao, poi hai aggiunto Devo parlarti ma vieni da solo. Così una mattina mi sono trovato sotto il tuo portone, da solo, tutti gli altri nascosti dentro le macchine coi giornali aperti davanti alla faccia. Ho suonato e dal citofono mi hai chiesto Sei solo? Io mi sono voltato, ho guardato gli altri dentro la macchina e ho detto Ma certo. Poi sono entrato nell’ascensore e tu mi hai aperto la porta un piano più su, con un sorriso che ti ingrandiva tutta la faccia. Quando mi sono trovato dentro ho trovato una casa tutta diversa, i mobili tutti spostati, e dovunque nastri colorati, tappeti. Anche tu indossavi un vestito con molti colori, e i capelli tirati su in un modo che non ti avevo mai conosciuto. Mi hai fatto sedere sul divano, e mi hai detto Senti, Lorenzo, la nonna si è innamorata di nuovo. Poi ti sei seduta accanto a me sul divano, mi hai preso la mano e non hai detto più niente. Sono rimasto accanto a te finché non è scesa la notte, gli altri che da fuori fischiavano e io che non volevo lasciarti la mano. Forse allora, mi sono detto, si muore così.

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La melodia dei nastri di ghisa

«… dai… vieni… saremo in tanti… verranno da ogni parte del paese e tu capirai una buona volta cos’è la magia della pizzica… e…» Io me ne stavo vicino alla finestra. Fuori il mondo era diviso in due metà imperfette. Il mare con la base frastagliata di scogli e il cielo buio e come pietrificato. L’albergo si chiamava Sud e il balconcino dava direttamente sulla scogliera orientale. Alle due di notte il levantino rinfrescava l’aria e nuvole di vapore sbollivano oltre una vecchia torre saracena coperta sul lato nord da cespugli di capperi. «Ci ritroveremo tutti» stava dicendo la ragazza, «balleremo tutta la notte e ci lasceremo andare e potrai farlo anche tu, anche tu che fai tutto il misurato, il preciso, tu che sei sempre teso e non conosci questa parola…». «Quale?» «Libertà… da tutto… da se stessi…» Io sollevai le spalle, mi accesi una Marlboro e spinsi lo sguardo nella penombra della stanza. Una penombra azzurra, questo era. Azzurra della luce della luna e di quattro stelle che si contendevano il cielo al di qua dei vapori nebbiosi con il levantino ad aiutarne il luccichio. «Io sono uno di Taranto! A me manco me le devi dire ’ste fesserie qua!» Ero uno di Taranto, senza alcun dubbio. Venivo da una terra che non andava di moda, una terra indu49


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striale, confusa nei fumi dell’acciaio e dei gas di scarico. Il mio mare era un mare in cui nessuno voleva venire a bagnarsi e gli alberghi delle mie coste avevano i vetri coperti di polvere e i gestori scontrosi, in pantofole, sempre pronti a mandarti al diavolo o spennarti se per errore decidevi di fermarti una notte. Il mio era un posto dove la malavita e la volgarità cercavano di far affondare la naturale e antica bellezza che qua e là affiorava ancora. Ma noi di tutto questo ne andavamo fieri perché il tritacarne della mondanità e della realtà modaiola non ci apparteneva. Eravamo i barbari delle Puglie mentre i salentini avevano saputo trasformare lu mieru in oro, le masserie in oro, la danza in oro. Melpignano accoglieva Lucio Dalla mentre a Taranto Edoardo Bennato veniva arrestato sul palco per atti osceni e resistenza a pubblico ufficiale. Ma comunque noi disprezzavamo tutte ’ste manfrine del ballo e della forza evocativa della tradizione messa a disposizione dei milanesi, degli inglesi e dei romani che venivano nel tacco d’Italia a studiare e applaudire i fenomeni leccesi come avrebbero fatto in uno zoo se avessero scoperto che due orsetti lavatori erano in grado di saltare al ritmo dei Kool & The Gang. La stanza d’albergo odorava di sesso. L’avevo conosciuta due mesi prima, la ragazza, in un’altra città, e ci eravamo trovati in un gioco di sguardi, parole smozzicate, sorrisi riservati e puliti e a metà estate ero andato a trovarla là dove i genitori possedevano una casa. Lei aveva esportato la danza dei suoi avi in giro per l’Italia ed era diventata a sua volta una creatura stregata dall’antica arte; l’anima era quella di una danzatrice e gli sguardi erano quelli di una posseduta dal sacro demone del ritmo ossessivo ma io ero uno di Taranto. A me non faceva nessun effetto. A me piacevano i suoi occhi neri e i suoi capelli scuri e ricci, a me piacevano le sue labbra carnose e il suo modo pazzo di fare ogni cosa mentre della danza non mi importava nulla. «Per vedermi danzare ci sono dei signori di Bologna che quest’anno hanno pagato un bordello di soldi per avere un posto su un balcone al centro del paese» mi disse accendendosi una sigaretta sdraiata sulle lenzuola umide del mio sudore. 50


La melodia dei nastri di ghisa

«Ah sì? Se me li davano a me gli facevo fare il tour dell’Ilva, della Cementir, dell’arsenale militare e delle raffinerie e se aspettano ancora un po’ li porto al rigassificatore che sarà nuovo di pacco. Lì li porto, altro che le chiacchiere!» E a quel punto, nella notte, erano spuntati i denti bianchi della ragazza. Poi il suo corpo si era rivoltato su se stesso mostrando un culo abbronzato a forma di cuore e le sue natiche che erano forti, magre, atletiche mi volevano un’altra volta sul letto per consumare in quel modo l’attesa prima di lasciarsi andare sul pavé della piazza principale del paese dove ci sarebbe stata la manifestazione della Notte della Taranta. Ma io non avevo voglia di tornare a letto. Mi sentivo, in quel momento, un parente povero che se ne sta lì a consumare una sorta di vendetta trasversale sul corpo della ragazza. Ecco cosa si fronteggiava, quella notte: da una parte la sua sicurezza, la sua arte e di contro la mia scialba neutralità che riuscivo ad annientare solo con i colpi delle mie anche contro il suo corpo divaricato. «Non dire così» mi disse. «Goditi i momenti che ti vengono offerti dagli dei!» Eccola qui questa filosofia tanto al chilo da eletti della terra, mi dissi. Di colpo m’era venuta voglia del mio quartiere, dell’afa ionica, dei palazzoni coi cavi televisivi appesi come unti fili di mozzarella. Di colpo avevo preso a sentire come insopportabile l’azzurro della stanza, la magia di quel corpo e l’allegria nel guardare al sesso come a un’energia liberata nell’aria. «Sono di Taranto…» quasi sussurrai, «che cazzo mi devo godere?». Avevo voglia di una birra Raffo da bermi con il contrabbandiere di cd che se ne stava tutto il giorno sotto casa mia ma che a volte mi offriva il caffè per poter parlare con me del Taranto calcio e del fallimento della città. Eppure, non sapevo come spiegarglielo, alla ragazza, trovavo che i muri sbreccati, la città vecchia in mano ai pregiudicati e le coste assalite dalla speculazione edilizia fossero più veri che non quel 51


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mondo di plastica e depliant e tamburelli e prodotti tipici del Salento, comprese t-shirt, massa e giare di terracotta e ampolle con l’aglio e il peperoncino nostrano. Non sapevo come spiegarglielo ma noi ci sentivamo al tempo stesso sfigati e puri perché da una parte non eravamo riusciti a toglierci di dosso il tanfo delle acciaierie ma dall’altra non ci eravamo trasformati in un bazar cosmico. Perché ormai di questo si trattava: un bazar dove si mettevano in mostra gli affetti e le tradizioni vendute al miglior offerente; e vai, signore e signori, tutti piegati a novanta gradi davanti al dito medio del dio denaro. Ma forse, mi dissi, la nostra era solo invidia. Questi salentini erano riusciti là dove noi avevamo fallito e allora io mi scopavo la ragazza pur non essendone innamorato quasi come segno di ribellione. Mi venne in mente un amico ultrà che si faceva una donna per ogni tifoseria ostile agli angeli della nord dello “Iacovone”; che il suo atteggiamento misogino fosse diventato anche il mio? La ragazza lasciò il letto e si accucciò accanto a me in faccia alla luna. Il suo corpo fu invaso da luce azzurra e l’incavo dei suoi seni restò in ombra oltre i capezzoli. «Rilassati» disse, «sei sempre in tensione. Lasciati andare… lo vedrai… lo vedrai quando i tamburelli cominceranno a vibrare e i sonagli risuoneranno sull’acciottolato… vieni: dammi un bacio!». La ragazza mi si fece ancora più sotto. Mi strinse le spalle con mani sottili e rovesciò indietro la testa ricciuta. Io la baciai e la sollevai da terra e finimmo di nuovo sul letto ma ancora una volta senza poesia. Dopo, restammo a fumare e a guardare verso la finestra ma il mare non si vedeva e ciò che il rettangolo di legno inquadrava era solo una porzione di cielo contaminato da parche stelle. «Per noi quella danza è un legame con il passato. Ogni popolo dovrebbe avere memoria. La memoria è salvifica, dice sempre un mio amico. La memoria ti permette di sapere chi sei, sempre, in qualunque momento. È un fluido che ci unisce, ci salda gli uni agli altri… Io provo un orgasmo multiplo durante le evoluzioni… non 52


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sono più io e allora riesco a vedermi in uno sdoppiamento che mi permette di guardare la mia anima…» «Stronzate!» la interruppi lanciando un cilindro di cenere verso il posacenere di metallo, mancandolo. «A me ’ste puttanate mica mi convincono troppo. Niente: vi siete inventati ’sta fesseria per attirare un tot di turisti a cui rifilate fave e cicoria e vita nella macchia mediterranea e li spennate e quelli tornano a casa contenti con un cd di musica folcloristica leccese punto. Null’altro.» Le accarezzai un fianco e mi infilai un paio di mutande bianche. «Che fai?» «Niente. Vado sul balcone a fumare. Ho voglia di prendere una boccata d’aria e godermi il panorama.» «È meglio di questo?» fece lei strofinandosi contro una delle mie gambe. «Che c’entra? In questo momento è così» le risposi. Fuori c’era il levantino a farmi venire leggeri brividi e l’aria era priva di insetti. In lontananza qualcuno percuoteva la pelle tesa di un tamburo e insieme al rullare si udiva il gioco dei piattini di metallo. «Cristosanto non si fermano mai» sussurrai tra i denti. La ragazza restò nel letto e di lì a un quarto d’ora si addormentò con metà del viso nascosto tra le lenzuola. Quando rientrai in camera avevo la pelle d’oca sulle braccia e dietro il collo e m’era venuta fame. Aprii il frigo del minibar e ne tirai fuori delle noccioline, un pacchetto di salatini e una lattina di birra. Restai seduto sul letto con la schiena contro la spalliera a mangiare, bere e guardare la ragazza. Aveva il sonno perfetto e non si mosse di un millimetro. Su una sedia c’era la sua gonna lunga, bianca, il corpetto di pizzo e una maglietta. Per terra c’erano i miei blue jeans e la maglia elasticizzata nera. Le infradito di entrambi si trovavano vicino alla porta d’ingresso. Come mi succedeva spesso quella camera d’albergo non mi apparteneva più e a un certo punto mi venne la smania di tornarmene a casa. Da Taranto quel posto distava un’ora e mezzo di macchina e di lì a due, tre ore i miei amici sarebbero andati ai cantieri Greco a re53


Cosimo Argentina

cuperare la barca di Antimateria (Sandro era soprannominato così perché era magro) e sarebbero andati a pesca di cefali nello specchio d’acqua a ridosso del faro. Cercai di scacciare quel desiderio, cercai anche di addormentarmi per far trascorrere il tempo più velocemente ma non c’era niente da fare. Alle cinque indossai i blue jeans e la maglietta e andai in bagno a lavarmi i denti e la faccia. Il bagno era pulito ma avevamo lasciato per terra gli asciugamani calpestandoli con le piante dei piedi sporche di polvere del balcone ma comunque ne raccolsi uno, cercai un angolo lindo e me lo passai sul viso. Quando abbassai le mani vidi nello specchio la sua sagoma minuta e un grosso punto interrogativo dipinto negli occhi neri. «Devo andare!» Lei mi prese per un braccio senza riuscire a capire. «Ma come? Stasera c’è la festa… ho organizzato tutto in onore tuo… ti ho trovato un posto vicino ai musicanti e verranno ospiti importanti e volevo presentarti ai miei amici e avrei ballato intimamente per te… solo per te… per… liberarti da quest’angoscia che ti porti dietro e che ti fa fare l’amore selvaggiamente ma non ti permette di comprendere il valore dei sentimenti…» Avevo recuperato le sigarette e le chiavi della macchina. Poi mi ero voltato e m’ero scontrato con il suo viso appena rigato da un paio di lacrime. «Io la scimmia invasata non la faccio né ho voglia di vederti fare la deficiente in mezzo a un gruppo di rimbambiti ingaggiati per divertire il pubblico pagante del nord… Me ne torno a casa, bella mia…» Il mio tono sgradevole le aveva fatto fare un passo indietro. Si era portata una mano alla bocca e aveva solo accennato una risposta. Alcuni raggi del nuovo sole invasero la stanza rendendo la scena cruda. La ragazza raccolse per terra i suoi slip e abbozzò un «vengo con te, allora». Ma io mi voltai di scatto e le poggiai una mano sul torso. «No. Lasciami in pace. Lascia perdere… Io me ne torno a Taran54


La melodia dei nastri di ghisa

to e tu vai a ballare e chi s’è visto s’è visto e non cerchiamoci più perché non credo sarebbe una buona idea.» Lei aveva cercato di avvicinarsi. Aveva proteso la braccia verso di me. «Mi fai uscire pazza se fai una cosa del genere!» Mi accesi una sigaretta e cercai con lo sguardo la via di fuga. Per andar via dalla stanza dovevo passarle davanti e così feci. «Mi fai uscire pazza, lo sai?» Cercai di levarmi le sue dita di dosso e aprendo la porta mi voltai consapevole che non l’avrei più vista. «E tu balla! Così guarirai e diventerai forte e magari a te porterà anche bene, tutto… questo. Balla, balla con gli amici e i compaesani fino a stordirti… Quanto a me, se mi do una mossa forse riesco a bermi una Raffo sulla barca dei miei amici e poi difilato a casa mia, perché tu non hai idea di quanto riesca a respirare tra le fabbriche del mio quartiere rispetto a questo tuo mondo di sciamani dilettanti.» In macchina guidai con il sole alle spalle e nel lettore piazzai Hellspawn dei Morbid Angel. Ognuno corre verso il suo inferno, pensai tenendo le mani sul volante e registrando nella mia mente i contorni ormai sbiaditi della ragazza. C’è chi cerca la notte stellata e il ritmo aracnoide e chi il ruvido e sordo sferragliare dei nastri trasportatori. Sapevo che nessuno avrebbe tifato per me, ma non me ne fregava nulla. È così che funziona. A voi la Taranta e a me Taranto: e questo è quanto.

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Autore

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OMAR DI MONOPOLI

Sputazza from outer space

«Hai sentito?» «Cosa?» «Questo silenzio…» Victor Knupp

Io, le cose, tutte a me mi succedono. E non è che me le vado a cercare. A sole a sole vengono. Tipo magari che io ci provo, a fare il bravo e starmene fermo immobile al posto mio, che la Dicursi questo solo vorrebbe da me, perché secondo lei io uno sciamannato sono, però non ci stanno santi, le cose arrivano e mi succedono. Davvero. Non sto scherzando! L’altro giorno, per esempio, stavo con Marcello durante la ricreazione. Lui al solito suo stava dicendo che secondo lui gli ufi già in mezzo a noi stanno, solo che manco li vediamo, tanto sono bravi a camuffarsi, e magari il preside o la bidella già uno di loro è, e noi mai lo sapremo, solo quando sarà troppo tardi. Che io poi non lo so ancora se ci devo credere, a ’sto fatto qua degli ufi, però secondo lui esistono, e una volta suo padre dice che li ha pure visti, nel bosco, e sono proprio brutti fatti, con mille tentacoli verdi peggio di un polipo. Però in paese suo padre lo sanno tutti che da giovane l’ha pizzicato una tarantola: e allora niente, quello che dice meno dell’asso di bastoni vale. Comunque stavamo là nell’atrio a parlare di questa cosa quando è arrivato Pinuccio, tutto esaltato. «Ohù, Enri’…», ha fatto, «…hai sentito che dice Sputazza?». Io e Marcello siamo caduti dalle nuvole e ci siamo guardati nelle 57


Omar Di Monopoli

palle degli occhi che non sapevamo nemmeno se dovevamo ridere oppure fare finta di gnente. Sputazza il figlio di quello della pescheria è uno che fino adesso poco e niente c’abbiamo avuto a che fare perché quello solo casini è bravo a combinare, e dalla scuola una volta l’hanno pure cacciato, che se non era per sua madre ch’è venuta a frignare col preside, col cavolo che l’avevano ripreso in classe. «None, cumpà, che dice Sputazza?», ho fatto allora io aggiustandomi il fiocco del grembiule manco se ero clarc ghebbòl. «Mado’, niente sai allora!», ha risposto Pinuccio agitando la mano a ventaglio come a dire ch’era proprio una cosa grossa. «Dice che ti ha visto ieri pomeriggio che entravi alla Casa Stregata, e stavi con uno con tanto di barba! Dice che siete stati dentro un sacco di tempo…» Quando abbiamo sentito così Marcello per la sorpresa ha fatto una ‘O’ gigante colla bocca e io ho fischiato che sembravo il peggio pecoraro. Altro che Casa Stregata, io il pomeriggio prima non mi aveva visto proprio nessuno perché alla cresima di mia cugina Adele stavo. «A veramente dici?», ho chiesto allora io a Pinuccio, e quello serio serio ha dondolato di sì colla testa e poi, dopo che per un attimo non ha più fiatato, ha fatto «Be’, vagliù, mo’ fatemene andare, che se la bertuccia mi becca qua dolori sono!», che in classe loro la maestra così la chiamano, bertuccia, pure che invece Bertecci si chiama, e viene dall’altitalia. Manco ha fatto a tempo a filarsela, Pinuccio, che la Dicursi ha cominciato a strillare peggio di una sirena e così siamo dovuti rientrare in classe con Marcello che mi guardava fisso fisso, come se ero il peggiore traditore sulla faccia della terra. «Ahò! Ma che credi a quello scimunito?», gli ho detto, «a casa di mia cugina Adele stavo… chiedilo a mia sorella, se non mi credi!». Lui un po’ s’è incarognito perché io il migliore amico suo sono, e a non fidarsi del migliore amico non è che proprio una bella figura c’ha fatto, così gli è uscita una faccia da fesso mentre sorridendo diceva «No, che dici, Enrì? Figurati se non ti credo!». Però si vedeva lontano un chilometro che non era proprio convinto convinto. 58


Sputazza from outer space

Che a Marcello, se uno deve dire le cose davvero come stanno, sempre tutt’un mistero sembra. Niente niente s’è pensato ch’ero pure io uno di quegli stramaledetti ufi! Un minuto dopo il suono della campanella io già all’altro padiglione della scuola stavo, per beccare quello sparapidocchi di Sputazza e fargliela pagare con i controcazzi. Che tanto lui pure che parla parla alla fine solo uno sbruffone è, e poi è financo più mingherlino di me, e se mi fa arrabbiare io lo riempio di muffittuni, che non si deve permettere, non si deve, a sparlare del sottoscritto. «Sputa’… addov’è che mi hai visto tu, ieri?», gli ho fatto appena l’ho pescato vicino al cancello della scuola, e lui, che si stava gingillando assieme a due beccamorti peggio di lui, preso di sorpresa un pochettino s’è sciuntato. «Alla Casa Stregata stavi! Che te la neghi?», ha risposto poi, girandosi verso gli altri come se io ero uno uscito dal manicomio perché a me per la raggia il fumo dal naso mi stava uscendo. Allora gli ho agitato un pugno sotto il mento e quello prima si è scansato indietro, poi, quando io l’ho chiamato bugiardo, si è avventato su di me praticamente alla scurdata. Un attimo dopo a terra stavamo, rotolando nella polvere come leoni della savana: io gli ho mollato un calcio tra i coglioni che lui ha fischiato, però mi sono preso un cazzotto sull’orecchio che quasi svenivo. Poi all’improvviso il cerchio di bambini che si era formato attorno a noi si è sbriciolato ed è piombato un silenzio di mortorio. Stavo stringendo Sputazza per il colletto quando ho sentito la mano del preside afferrarmi per l’orecchio e urlare come un tuono «Enrico Saraceno, il solito animale sei!». A casa mio padre me le ha davvero gonfiate co’ tutti i suoi «E io lo sapevo!» e «Io te l’avevo detto!», che adesso per ’sta storia mi becco una nota sul registro e lui deve pure andare a parlare con quel ciccione spennacchiato del preside, domani mattina. «Proprio domani che c’ho la riunione al Comitato… mannaggia lu vagnoni!», continua a ripetere mio padre andando avanti e indie59


Omar Di Monopoli

tro nella cucina e guardandomi brutto mentre la Imma, mia madre, mi passa le dita tra i capelli cercando di calmarlo con qualche parola buona. «Anto’, sciocchezze di bambini sono… che vuoi dire che tu all’età sua non eri uguale?», gli fa colla voce di usignolo, e quello tutto agitato la guarda zitto zitto e poi risponde «Ca comu che ero uguale pure io… ma il problema è che non c’ho tempo da perdere colle cazzate sue, ’sti giorni!». Che mio padre, da un po’ di tempo a questa parte, indaffarato veramente sta. E dire che prima, siccome è cassontegrato, un cazzo dalla mattina alla sera faceva. Il fatto è che qua al mio paese vogliono aprire una centrale nucleare, che in pratica dice che è una cosa bruttissima che può far nascere i bambini stramboidi e bruciare tutte le coltivazioni, e lui da quando è diventato il segretario di quelli che non la vogliono, ’sta centrale qua, non c’ha un attimo di pace manco per respirare. «E sine Anto’, ci vado a parlare io col preside, ci vado… come se i problemi solo i tuoi sono!», gli ha fatto allora la mamma un po’ seccata, che lei con tutto ’sto daffare di mio padre non è che è proprio d’accordo, che uno secondo lei sempre gli affari suoi si deve fare, e così mio padre, quando lei sbuffando s’è girata verso i fornelli, ha fatto il gesto di mangiarsi una mano e sottovoce mi ha chiamato «capu ti faj». Il pomeriggio peggio di una bestia in gabbia sto. La Imma pure che è dalla mia parte mi ha messo in castigo e mo’ tutto il giorno in camera a fare i compiti devo stare, secondo lei. Consumo la televisione a furia di vedermi Fantaman e l’Ape Magà, poi per fortuna a un certo punto quel crimmone di Marcello si fa vivo a casa per vedere che fine ho fatto. «Cumpà, ora ora ho parlato con Sputazza!», fa lui appena mia mamma, dopo averci portato un po’ di latte collo Sprint, ritorna in cucina. «Embhé? Che vuole ancora?», gli ho chiesto allora io, talmente inacidito che sembrava quasi che stavo per andare un’altra volta ad acchiapparlo, quello mmalacàrni contapalle. 60


Sputazza from outer space

«Veramente», mi ha bloccato Marcello, «dice che scusa ti deve chiedere…». «Comu?», ho fatto io co’ tanti di occhi. «Essì! Perché dopo mangiato dice che è andato di nuovo alla Casa Stregata, Sputazza, che quello sempre in quei paraggi va a giocare, e di nuovo a uno colla barba tanta ha visto entrare, però stavolta il bambino che gli stava assieme l’ha guardato bene, e dice che non eri tu ma uno che ti assomiglia molto!» Sentendo così a me mi sono venuti un po’ i brividi, perché mi sono immaginato uno identico e preciso a me che entrava ogni giorno in quella cavolo di Casa Stregata, che poi altro non è che una casa in mezzo alla campagna, una casa che non si è mai capito bene perché i muratori l’hanno lasciata a metà, visto che da quando mangiavo la pappina nel seggiolone io me la ricordo sempre uguale: senza porte e senza finestre e manco uno straccio d’intonaco sui muri. Marcello ha cominciato a dire che era una casa maledetta e così piano piano l’hanno chiamata tutti Casa Stregata e pure che ci gironzoliamo spesso attorno tutti quanti, di entrarci dentro nessuno c’ha il coraggio. «Tu che dici Marce’, ci sta prendendo per babbioni?» ho chiesto allora a Marcello, e quello, leccandosi i baffi di latte, è andato verso la finestra e ha detto tutto pensieroso «Non lo so, però può darsi che in tutta questa storia gli ufi c’entrano… capaci di aver creato un doppione tuo, quelli mmuciti!». «See!», ho fatto io, però all’idea un poco mi sono rrizzate le carni. «Se non stavi in castigo, quasi quasi…», ha continuato lui, poi si è interrotto e ha guardato il suo giubbotto sul letto. «’Spetta, scemo!», ho detto allora io, e assieme al suo giubbotto pure il mio ho preso. «Però dall’orto usciamo, così la Imma non ci vede!» In due sulla graziella di Marcello – io in piedi dietro a lui – c’abbiamo messo dieci minuti ad arrivare alla pescheria di Sputazza. Suo padre quando ci ha visto si è fatto serio serio, perché a Marcello, per ’sto fatto che papà suo da giovane l’ha pizzicato una taran61


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tola, quando lo vedono certuni in paese s’impensieriscono, tipo che magari il ragazzo porta jella, o comunque è meglio se a casa sua se ne sta, che i guai, quaggiù, non si fa in tempo a nominarli che in un attimo te li ritrovi attaccati addosso. Io comunque me ne sono fregato e affacciandomi sul bancone strapieno di zerri e calamari gli ho chiesto sparato se sapeva dove stava suo figlio. Ma quello manco per l’anticamera! Ha fatto una mossa colle spalle dicendo che ’ddu fetente di suo figlio ancora in giro stava: «Sai quando esce ma non sai quando torna, quello là… ’nna vera peste, eti!». Allora io e Marcello dritti dritti alla Casa Stregata abbiamo puntato, che Sputazza solo là poteva essere andato a parare. Abbiamo superato il canale dove ci stanno i rospi e le rane e in aperta campagna siamo finiti. Poi improvvisamente proprio davanti agli occhi ce l’avevamo, ’sta benedetta casa. «Mo’ lasciamo la bicicletta qua nell’erba!», ha fatto Marcello, «e proseguiamo a piedi, nascosti». «Sine!», ho risposto io sottovoce, e intanto la cacarella mi sa che a tutt’e due ci stava salendo, perché pure le sette di sera, si erano fatte, e il sole a poco a poco se n’era bello che andato. Però tutti eccitati stavamo. Manco se eravamo due agenti segreti. Ci siamo chinati e abbiamo cominciato a farci avanti, coll’unico rumore quello dell’erba secca schiacciata dai nostri piedi. Scrich-scrich-scrich. La Casa Stregata sembrava proprio terribile, a quell’ora là. Grigia di umido e di fango, colle finestre che sembravano occhi giganti sempre aperti e i pochi alberi che la circondavano tutti mossi dal vento, più ci avvicinavamo e più ci faceva salire la fifa. «Ohù», ha fatto all’improvviso Marcello guardandomi mentre avanzava, «ma che veramente dobbiamo entrare?». «Cumpà, tu l’hai detto che qua gli ufi ci possono stare! Eppoi magari quel piscialetto di Sputazza nascosto qua attorno sta, e se ci vede fare marcia indietro sai come ci chiama? Fifoni, ci chiama…» Lui c’ha pensato un secondo e poi ha detto che c’avevo ragione, e così ha continuato controvoglia fino al muricciolo attorno alla ca62


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sa. Il silenzio era assoluto, solo qualche grillo di tanto in tanto e un’ombra, qualcosa con le ali, ha sorvolato le nostre teste svelta svelta ricacciandosi tra i rami. «Uccellaccio ti lu malauguriu!» ha sussurrato Marcello guardando verso l’alto, mentre tutt’e due, contemporaneamente, ci siamo abbassati ancor di più nell’erba cercando di fare il minor rumore possibile, poi abbiamo scavalcato il muro. Nel cortile c’era un fracco di robaccia: barattoli pieni di ruggine, bottiglie vuote, cartacce sbrindellate dalla pioggia e mucchi di tufo ormai più duro della pietra. Marcello senza che se n’accorgeva mi stava affianco appiccicato, che di coraggio ormai ne aveva sempre meno e pure io, a dirla proprio tutta, le ginocchia poco le sentivo. Però sempre avanti andavamo, che ormai d’incontrare Sputazza non c’avevamo più speranza, e nemmanco ci fregava. Dovevamo andare dentro alla casa, e se c’arrendevamo proprio adesso dei veri cacasotto saremmo stati. Per tutta la vita. L’ingresso stava dall’altra parte rispetto alla strada da dove eravamo arrivati, e quando finalmente lo abbiamo raggiunto stava diventando buio, tanto che in faccia riuscivamo a vederci per miracolo. «Ma la senti ’sta puzza?» ha fatto l’amico mio sulla porta tappandosi il naso, e io l’ho imitato pensando che era buon segno. Se in quella casa qualcuno veniva a cacarci, si vede che di ufi o fantasmi in circolazione non ce n’era, così mi sono fatto coraggio e sono entrato per primo. Stavo per dire a Marcello che non c’era d’aver paura quando ho sentito una voce, un lamento brutto fatto, provenire da una delle stanze vuote. Qualcosa di veramente terribile. Roba che ci è gelato il sangue. Dopo niente più ho capito. Ho girato i tacchi e ho cominciato a correre come uno scalmanato. Sentivo Marcello dietro a me frignare peggio di un poppante, ma di girarmi a vedere che succedeva manco per l’anticamera. Solo le gambe che volavano scavalcando il muro e il cuore che batteva forte forte nel petto. Gli ufi. Davvero gli ufi c’erano. «Enriiiii’!», ho sentito a un certo punto gridare, ed ero sicuro che la voce di Marcello era. Intanto però correvo verso la bici, e for63


Omar Di Monopoli

se l’avrei pure oltrepassata senza fermarmi, tanta era la strizza, quando tra i piedi una cosa grossa ho sentito. Sono ruzzolato a terra come un deficiente. Così, di colpo. La faccia nell’erba e il fiatone che si strozzava in gola. Quando mi sono voltato a vedere cosa avevo investito, la bocca mia dallo spavento ha fatto un verso tipo zombidue. A terra affianco a me Sputazza stava, e sembrava svenuto. «Ohù, cumpà!», ho provato a chiamarlo muovendolo tutto, ma quello non si svegliava manco colle cannonate. Morto pareva. Neppure un fiato, niente. Non sapevo più che fare. Il buio c’aveva avvolti completamente, e la casa sullo sfondo adesso sembrava davvero un film di paura. A un certo punto ho visto venirmi incontro due sagome. Ho fatto per sollevarmi e riprendere la corsa, ma bloccato a terra dalla paura mi sono sentito. Intanto quelle due cose si sono avvicinate. Mi è scappata la risa un po’ fessa quando ho visto che si trattava di Marcello, e già stavo cercando una frase per scherzarlo quando ho riconosciuto l’altro che lo accompagnava. L’altro era sempre Sputazza. Uguale a quello che stava a terra con me. Un doppione. Solo con gli occhi rossi che brillavano nel buio. Ho guardato bene Marcello e pure a lui gli occhi facevano una strana luce. In silenzio allora ho capito tutto. Mo’ a me toccava.

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CARLO D’AMICIS

Cosimo corre

E poi alla fine mi sveglio, così infuriato che come prima cosa devo dare un cazzotto contro il muro – ma forte, eh?, forte fortissimo che, mentre mi contorco dal dolore, per il contraccolpo crollano sul letto i vecchi Topolino, la compilation dello Zecchino d’oro e tutte le sorprese degli ovetti Kinder. Rimango là, inerme – così che, tra un flebile lamento e una bestemmia, nell’alba radiosa della mia giovinezza si sono già fatte le dieci di mattina, e io giaccio ancora, grondante di sudore, mezzo sepolto sotto il mio passato. Oggi è il 21 giugno, e la luce che filtra dalle persiane, teoricamente, sarebbero i primi raggi di una nuova estate. In pratica, però, mi giro dall’altra parte e vaffammocca – continuo a dormire fino a mezzogiorno. Quando mi sveglio è l’una – c’è un buco di un’ora che non so spiegare, e un altro, inspiegabile anch’esso, lo apro lacerando con rabbia inconsulta e disperazione i lembi del lenzuolo a cui sto aggrovigliato. Se non sono pugni sono calci. Se non è rompere è strappare. E pure la ciambella a colazione – mica la mangio, io l’aggredisco a morsi. Che so? Che so? Mi sento indiavolato. Esco per strada e l’afa è una spallata, un’onda d’urto, un corpo a corpo dentro al quale – se avessi sviluppati i pettorali, il retto dell’addome, e più in generale la forza muscolare – risponderei con altrettanto irruenti capocciate, a testa alta. Se non che, essendo solo debole di nervi, striscio lungo l’ombra delle case, e ogni tre passi, alla canicola, con le palpebre 65


Carlo D’Amicis

socchiuse e le froge dilatate, mi limito a lanciare sguardi ostili, e a sputarci dentro uno scaracchio. Sulla litoranea l’afflusso dei bagnanti è rilassato. Oltre la spiaggia – più che calmo – il mare appare immobile, stagnante. Una lastra così ferma che, improvvisamente, nel momento in cui immergo i piedi dentro l’acqua, diventa la lastra fotografica in cui temo di venire per sempre imprigionato, e allora – perché almeno la foto venga mossa – forte fortissimo fuggo lungo il bagnasciuga, e quindi vaffammocca – inciampo, cado, stramazzo disteso sulla sabbia. È iniziata da due ore, ’st’estate maledetta, e già mi sono rotto, mentre invece sono io – per lenire leggermente questa febbre, per placare momentaneamente questa smania – che al più presto devo rompere, distruggere, fracassare qualche cosa, così che con l’intento di spezzare qualche tibia provo a inserirmi in una partita tra ciurme di cafoni (“nà, mé, passa ’sta palla!”), ma loro scaltri subodorano il pericolo e mi confinano a difesa di una porta disegnata da due mucchi di stracci puzzolenti e una linea immaginaria che dovrebbe passarmi sulla testa, e che al contrario – dopo cinque minuti che non succede niente, che ’sti cialtroni non fanno neanche un tiro – sento passarmi rovente nella testa come linee di un febbrone. «Me ne vado», urlo, «vaffamocca!», ma quelli non si girano nemmeno, e allora – vaffammocca – dentro la porta immaginaria li lascio a immaginarsi anche il portiere. Del resto, io, mo’ avrei un appuntamento. E anzi, se non fossi sicuro – ma sicuro sicurissimo, eh? – che Cosimo e Leonardo annaspano anche loro alla deriva, che anche nel loro navigare nessuna rotta ha più la precisione, la chiarezza, il vento in poppa che ci spingeva ogni anno a ritrovarci così a colpo sicuro – come se un anno, sì, fosse passato, ma la nostra infanzia non passasse mai –, adesso dovrei correre, affrettarmi, ché sarei già molto in ritardo, e non avrebbe senso questo lento ciondolare. A dire il vero, quando lo avvisto sul retro del bar, anche il ciondolare della testa di Leonardo non sembra avere un gran significato. O meglio, il concetto si riduce a un faticoso tentativo di non far66


Cosimo corre

la cadere nel bicchiere, dove, dense e scure come sanguinaccio, ancora resistono due dita di vino primitivo. Mi siedo. Lui nemmeno accenna ad alzarsi. Tace, e io nemmeno accenno a salutarlo. Alla fine chiede al banco di portargli un altro litro, e allora – giacché il silenzio è rotto – gli domando che è successo. Com’è andata. Ché dall’ultimo giorno in cui ci siamo visti, da quella sera nuvolosa di settembre dell’anno passato, nessuno di noi tre poteva dubitare che gli eventi sarebbero precipitati. Che – anzi – più violento di una precipitazione, il futuro si sarebbe abbattuto sulle nostre esistenze perturbate come grandine. Burrasca. Come un nubifragio. «Angelina m’ha lasciato», annuncia secco Leonardo. E questa volta, se non fosse stato pronto a inclinare l’orlo del bicchiere, e a rovesciarsi nella gola un altro sorso, la fronte veramente sarebbe finita dentro al vino. La tirò su invece, lentamente, e mi fissò con un’angoscia così penosa, con uno sguardo così interrogativo, che mi mancò il coraggio di farla io, la domanda più logica e scontata: mo’ chi sarebbe, Leonà, questa Angelina?! Quasi a venirmi incontro, con sforzo sovrumano, Leonardo congiunge le mani e, tutto contristato, sussurrante, comincia a ripetere una specie di preghiera, di litania, di giaculatoria – Angelina, Angelina, Angelì – come a volermi convincere che si tratti di una santa, mentre io, pure ignorando chi nella fattispecie sia, in quanto femmina non nutro dubbio alcuno che ’st’Angelina sia una scellerata. Una poco di buono. Una puttana. Me ne sono fatti, di cinque contro uno, nei lunghi pomeriggi di questo cupo inverno, e mai una volta che il pensiero abbia tremato, in un moto di riguardo, di rispetto, di pudore, davanti alle sembianze delle femmine che l’immaginazione conduceva per mano nel mio letto, un istante prima che le mani le torcessi loro sulla schiena e le prendessi ferocemente a una a una. In pochi mesi il mio avambraccio destro è diventato il doppio del sinistro. Ma quando sollevo gli occhi su quelli di Leonardo, a impressionarmi non è soltanto la loro equanime magrezza. Ci sono 67


Carlo D’Amicis

graffi dappertutto, dai polsi fino al gomito, e lividi, e bruciature di sigarette che spiccano vermiglie sopra il suo pallore. Quelle macchie, il vino, il sangue che inietta la sclera di Leonardo – all’improvviso mi appare tutto rosso e come un toro, forte fortissimo, provo l’impulso a caricare. Mi tiro su di scatto. Travolgo due o tre sedie. «Leonà», l’avviso inutilmente, ché lui guarda nel vuoto e nemmeno inarca il sopracciglio, «al cesso devo andare». Ma una volta presa a calci la porta un po’ incrostata, e centrato con un pugno lo sciacquone, non solo la foga non si placa, ma diventa un isterico tremore che a gambe larghe, appoggiato al lavandino, provo a convogliare verso il basso ventre, dove campeggia insulsa l’ennesima erezione. «Prendilo!», sbavo. «Prendilo, Angelì, ché mo’ ti sfondo», e sebbene ignori il volto e la figura, se sia una spilungona o tracagnotta, tinta, foggia e taglio dei capelli – sebbene, insomma, della femmina Angelina io ignori tutto – non c’è dubbio che la violenza delle mie spinte pelviche si abbatta forsennata sul concetto del suo culo. Più che una sega è una convulsione. Ed è così evidente come l’intento non sia quello di procurarmi del piacere, bensì rappresentare crudamente il suo dolore, che mi basta immaginarla piegata sulla tazza mentre implora la mia misericordia, perché tutto (o meglio, il niente – ché per me Angelina è giusto un nome) precipiti nell’oscura voragine del water. Svanisca. Si disperda. Pace? Tregua? Un po’ di quiete? Macché. Per quanto il bar sia come casa mia – o forse proprio per questa ragione – mi guardo intorno cercando qualcosa da sfasciare, ed è così sfrenata la stizza di non trovare niente che dopo aver sputato sullo specchio srotolo per terra il pacco intero della carta igienica e, prima di uscire, apro al massimo tutti i rubinetti. «Allora, Leonardo», lo affronto accostando le rispettive sedie «parliamo un poco di questa Angelina?». Il locale, adesso, è quasi pieno. Mezzi vuoti il pacchetto di Marlboro e la bottiglia. Completamente vacuo, invece, lo sguardo del mio amico. La testa avanti e indietro dal bicchiere. Con un po’ 68


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di fantasia, quel ciondolare, potrei anche interpretarlo come assenso, ed è quindi con un certo stupore – non forte fortissimo, ma secca come un ramo che si spezza – che sento risuonare la sua ferma obiezione. «La taranta», dice, e poi mi guarda. «È stata la taranta, non è vero?» Resto là, pietrificato. Poi inspirando mi ritraggo contro lo schienale. Era ovvio che il discorso, prima o poi, saltasse fuori, ma se anche tu, Leonardo mio, che fino a ieri usavi le parole come guanti di velluto, adesso le abbatti su questo tavolaccio come un maglio, cosa rimane alle nostre speranze, ai ragionevoli dubbi, a una dialettica minimamente sana? Tocca a me, la testa calda, ricondurre freddamente alla ragione? Tocca a me, ottenebrato da una perenne ira, fare la parte di quello illuminato? Nonostante stringa i pugni, e irrigidisca il corpo dalla testa ai piedi, la risposta che mi esce è tremolante, e nell’impatto con l’alito greve di Leonardo vacilla come se non avesse peso. «E allora», m’incalza, «se davvero è solo una superstizione, come mai sto così male? Come mai», aggiunge guardandomi con più attenzione, «ci siamo ridotti in questo stato?». Quando, in una conversazione, le domande hanno la pesantezza d’inconfutabili asserzioni e le risposte galleggiano impalpabili nell’aria, forse sarebbe meglio tacere, o fare a botte. Sto per proporglielo – prendiamoci a mazzate, Leonà: a morsi, per vedere che esce fuori – quando fuori, dalla sua bocca di recente ma già esperto fumatore, esce una nuvola di fumo che ci avvolge, e ci trasporta in un pomeriggio alla controra (in quel pomeriggio alla controra) della scorsa estate. Afa. Frinire di cicale. Le imposte un po’ socchiuse. Noi tre che di dormire non se ne parla proprio – ma tutto il resto sì, aggirandoci randagi tra il mare e la campagna parlavamo fitto di ogni cosa e ci interrompevamo solo per tendere le fionde, quando una rondine, un passero o un fringuello stormiva tra le fronde. Finché li mancavamo, la nostra consapevolezza di rapaci si mantenne salda come la mano che caricava l’arma e lucida come lo sguar69


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do impegnato a prendere la mira. Ma dal giorno in cui, chissà come, Leonardo centrò in pieno un pettirosso, il ricordo della sua agonia venne sistematicamente a frapporsi tra noi e la selvaggina, trasformando le sassate di una volta in sbilenche traiettorie che si perdevano a metri e metri di distanza. Non lo avremmo mai ammesso, ma sbagliavamo apposta. Fu allora, per dirimere quell’imbarazzo, e nello stesso tempo per mantenere vivo il nostro istinto di caccia, che Cosimo s’inventò la pesca sotterranea – pratica venatoria, all’apparenza, molto mite, che tutt’al più avrebbe messo a repentaglio l’esistenza di qualche lumaca, di una lucertola, di un formicaio. Agganciata una briciola di pane all’estremità di un filo, Cosimo lo calava in uno dei mille cunicoli che s’aprivano tra le zolle riarse, e dopo un’attesa già abbastanza lunga – a differenza del pescatore che almeno, quando la preda abbocca, dà uno strattone e tira su energicamente – intraprendeva una risalita così lenta che io e Leonardo avevamo il tempo di ritornare a casa, fare merenda e guardare anche un poco di TV. Spesso, quando ritornavamo, lui era ancora là, così terreo nel suo spasmo di concentrazione da mimetizzarsi tra le rocce e la sterpaglia. Poteva durare anche mezz’ora, l’ultimo centimetro, soprattutto se aggrappata alla mollica, sull’orlo della crepa, già riusciva a intravedere la sua preda. «Una formica!», esclamava infine, madido di sudore. E noi, nella penombra incipiente della sera, restavamo a osservarla emozionati, come se intorno, di formiche, non fosse tutto un brulicare. Quel pomeriggio, però, non fu necessario attendere il tramonto per ottenere un po’ di pathos. Afa. Frinire di cicale. Le imposte un po’ socchiuse. Cosimo ha appena calato la sua lenza quando lo vediamo drizzare le orecchie e allungare il muso, come un segugio allertato. Diversamente dai più, quando era agitato, Cosimo tendeva a irrigidirsi, a paralizzarsi, così che – per noi che lo conoscevamo bene – vederlo vieppiù pietrificato costituiva sempre un motivo d’interesse. «Cò, che ti succede?» Il suo volto non era solo immoto, ma anche così serio che, quando ci annunciò che qualcosa di grosso aveva 70


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abboccato, la nostra ilarità gli dovette apparire quanto meno irriguardosa. «Come no? Uno squalo, Cò!» «Il mostro che vive al centro della terra!» Cosimo voltò le spalle al nostro sarcasmo. Pancia a terra, con lo sguardo frugava nella tana, e con la mano che non teneva il filo rovistava nella tasca cercando il temperino. «Mi raccomando», ridacchiavamo all’ombra dell’ulivo. «Un colpo solo. Deciso. In mezzo agli occhi!» Quando però Cosimo – da che era bocconi – schizzò in aria come bolo rigettato da un conato di vomito, il colpo a momenti venne a noi. Tra le zolle, ancora con le zampe conficcate dentro il pane, si contorceva un ragno di cinque o sei centimetri, ma così schifoso schifosissimo che dovevi stargli almeno a un metro di distanza. Il dorso, scuro e peloso, tendeva al giallo. Il ventre all’arancione. Noi tre a tenercene alla larga. «Quello ti punge.» «Ti morde.» «T’ammazza sul colpo.» Ma quando Cosimo – con il timbro di chi sa quello che dice, però pure con il tono reticente di chi non dice tutto quello che sa – intimò di non muoversi, di non agitarsi, di non fare movimenti bruschi, ché la bestia non solo era dotata di balzo lungo e repentino, ma provocava anche danni più letali di ciò che pensavamo, più che tenerci alla larga ci facemmo stretti stretti contro il tronco dell’ulivo e ci domandammo cosa mai potesse esserci di peggio – per noi che ancora amavamo la vita – di una morte istantanea. «Una lenta agonia», rispose Cosimo. «Oppure una ancora più lenta, faticosa, improbabile guarigione.» Con tutto che avevamo tredici anni, la sua voce sembrava venire da un passato remoto, tanto che Leonardo, per reazione, richiamò l’attenzione sul futuro prossimo. «Vabbé, ma che facciamo?» Quanto a me, il tempo in cui mi riconoscevo era senz’altro l’imperfetto, ché nessuna soluzione mi sembrava convincente. Non sa71


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rei stato in grado di dire dove avesse gli occhi, ma – se ce l’aveva – l’orrida bestia certamente ci osservava. «Secondo me», tentai, «stiamo esagerando. È un ragno, in fondo. Un minuscolo scorpione». «È la tarantola», ribatté Cosimo. E poi, come avesse detto tutto, non aggiunse niente. «È la tarantola?», ripete adesso Leonardo, un anno dopo, strisciando con le labbra in direzione del bicchiere – e io che posso dirti, amico mio, che posso fare, se non forte fortissimo sbattere il pugno su questo tavolaccio e rovesciare il vino, giacché il corso del tempo, la storia, questo barbaro destino io non li posso rovesciare? La bottiglia sobbalza sopra la tovaglia, e tu e io – sono sicuro – in quel sobbalzo rivediamo i tuffi della bestia e dei nostri cuori quando quella, all’improvviso – un, due, tre – a salti decide di attaccare, sebbene il gesto d’infilarsi nel sacchetto dove Cosimo ripone i suoi tozzi di pane, più che a un’offensiva poteva far pensare a una brusca ritirata, a una resa, o addirittura a una forma di suicidio. Sto per schiacciarla, infatti, col mio piede, se non ché, al mio gesto ardito, si frappone l’azione ben più audace, temeraria, e forse già foriera d’intimo delirio, con cui Cosimo s’impadronisce del sacchetto, e tenendolo stretto, a mani nude, comincia a dimenarsi verso casa urlando a squarciagola: «matò, matò, ho catturato la taranta!» Per tutto il pomeriggio non le staccammo gli occhi di dosso. A dire il vero, nessuno di noi riusciva a fissare le sue zampe vischiose, la peluria, gli arti anteriori a ventaglio pronti a richiudersi nel morso, per più di qualche minuto. Un nodo ci afferrava alla gola e ci costringeva a uscire sul terrazzo, giusto il tempo di tornare a respirare prima che la smania di rientrare – di sederci un’altra volta di fronte alla scodella trasparente sotto la quale il ragno stava immoto e, si sarebbe detto, quasi offeso – tornasse prepotente ad assalirci. Infine, verso l’ora di cena, scoppiò la discussione. «Dobbiamo farla fuori.» «Eh no! Mo’ che l’ho catturata?» «Però, Cò, se davvero è velenosa!…» Nemmeno avessi urlato per due ore, dopo tre o quattro esterna72


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zioni, mi si seccò così arsa arsissima la gola che dovetti aprire il frigo e scolarmi tutte le Peroni, mentre Cosimo e Leonardo – incuranti dei miei rutti roboanti – scivolavano lesti da una civile dialettica all’alterco più triviale. «Se lo tocchi le buschi.» «Non lo tocco. Io me lo ficco in culo, il tuo scorpione!» Cosimo si piantò in mezzo alla stanza, con gli occhi sgranati. Avevamo ancora l’età in cui, certe parole, o le dici per gioco o perché hai paura di non essere preso abbastanza sul serio. E dal momento che i giochi preferiti da Leonardo erano le biglie, far volare l’aquilone e asso pigliatutto, non sussistevano – ahimé – soverchi dubbi sul significato di quella mandibola contratta, dello sguardo iniettato di sangue, della fronte aggrottata: ficcarselo nel culo – pur di dimostrare che il nostro amico aveva torto, che ’sta storia della pizzica era tutta una fandonia – il mite e pacifico Leonardo era disposto a farlo veramente! Era disposto dispostissimo, Leonardo – e già questo ci lasciò alquanto tramortiti. Ma se pure non fosse bastato, se pure il suo delirio avesse ancora consentito una plausibile visione delle cose, la disposizione dei nostri corpi nella stanza l’avrebbe offuscata del tutto, ché lui dava le spalle alla tarantola, e noi, oltre che rapiti, eravamo coperti dal suo armeggiare intorno ai pantaloni. Nessuno, perciò, si accorse del lento avanzare del cane. Non per questo dubito che, oltre che lento, fosse incerto e affaticato – aveva cent’anni, il cane di Cosimo, e quando lo chiamavi ne passava almeno un altro prima che ti raggiungesse. Tre denti in meno, due zampe malandate, un occhio solo, nondimeno insisteva imperterrito nell’ingozzarsi a quattro palmenti. Così, quella sera, quando si accorse che la sua ciotola era vuota, Pluto detto Pippo detto Bracco (ché dopo un secolo invecchiavano anche i nomi, e ogni estate – tanto ormai era sordo – glielo cambiavamo), non esitò, dalla cucina, a salire fino al piano di sopra per verificare quale imperioso motivo costringesse il suo padrone a ritardare l’evento clou della giornata. Ci trovò assorti. Indisponibili. Pressoché ipnotizzati. E allora – 73


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sciagurato – all’acidità di stomaco provocata dal digiuno si combinò fatale l’acido deossiribonucleico, altrimenti detto DNA, evocando, nella sua mente già farraginosa di animale domestico, reminiscenze ancora più confuse di istinti rapaci. Gli saltò in testa di essere un predatore. Ma, purtroppo per Pluto detto Pippo detto Bracco, a saltargli in testa fu soprattutto la preda. Libera dalla sua prigione in plexiglas (del resto, avrà pensato il cane prima di ribaltarla con una improvvida zampata, sempre di ciotola si tratta) il ragno decollò in direzione del suo muso, e dopo, con calma, gli scivolò sul naso. Fu a questo punto, io credo, che lo morse – perché da semplice guaito il lamento si trasformò in un verso così raccapricciante che perfino la tarantola provò evidentemente l’impulso di scappare. Eh sì, perché osservando sbigottito quella bizzarra combinazione zoologica, composta da aracnide ed esemplare canino, schizzare a palla di cannone verso una qualunque idea di altrove, non ebbi alcun dubbio che fosse il ragno (e non viceversa) a trascinarsi dietro il cane. Di cosa sia capace una taranta, infatti, io lo ignoravo e – pauroso a dirsi, paurosissimo! – lo ignoro tuttora. Mentre ero perfettamente informato sull’incapacità di Pluto detto Pippo detto Bracco a valicare non si dica il muro del giardino ma il giardino stesso, ché arrivato alla seconda aiuola stramazzava. Fatto sta che cane e ragno scompaiono in un amen all’orizzonte, e noi dietro pur pregando (Pluto! Pippo! Bracco!) di fermarsi, all’amen nemmeno ci arriviamo. Non arriviamo a niente, a dire il vero, tanto meno a capire che cosa realmente sia accaduto: Pluto detto Pippo detto Bracco che corre con destrezza? Che ulula sinistro? Che si allontana – lui che ne aveva fatto il centro permanente della propria esistenza – dal soffice divano? Non ci orientavamo più. E non di meno, con tutto che la sera la rendeva un manto nero, un abisso orizzontale sul quale volteggiavano funesti i pipistrelli, c’inoltrammo a perlustrare la campagna. Dapprima stringendoci compatti, poi – con la scusa di esplorare diverse direzioni – ciascuno per suo conto, ché all’improvviso solitudine, silenzio e paura di smarrirsi erano diventati preferibili al guardarci in faccia. 74


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Ci ritrovammo che era quasi mezzanotte. Con le brache ancora sbottonate, Leonardo guardò Cosimo, la cui espressione era invece sigillata – abbottonatissima. Io respiravo rumorosamente con il naso. «Niente.» «Sparito.» «Volatilizzato.» Dopo tre ore trascorse a cercare il vecchio cane, dedicammo due minuti a cercare qualche parola nuova. Non trovammo neanche quelle, e ce ne andammo a casa. Dormire, era l’intento – ma se il mio quella notte fu riposo, tanto vale trascorrere le notti a spalar carbone. Mi giro da un lato e vedo belve feroci. Mi volto dall’altro e vedo gente che scappa. Se spengo la luce un’orda di ragni cammina sul lenzuolo. Alla fine, quando già mi sono rassegnato ad aspettare l’alba, degli urli che potrei definire disumani, se non fosse che anche a bestia sarebbe azzardato attribuirli, squarciano il silenzio della notte, e io – di colpo – crollo addormentato. Dormii profondamente fino alle tre di pomeriggio. Dalla finestra – mentre ancora mi chiedevo se vestirmi, o se, giacché col sonno avevo fatto pace, non fosse il caso di ritornare a letto – notai per strada un diffuso fermento, una latente agitazione che strisciava tra i passanti e che, strisciando, inevitabilmente mi richiamava alla mente lo scorpione. Buon motivo per restare, dissi – e invece andai. Ché – sebbene non brillassimo per intraprendenza, né gli eventi per il ritmo vorticoso – il concetto dell’attesa, nelle nostre vite, ci apparteneva poco: le cose accadevano, semplicemente, e aspettandoci in generale un po’ di tutto, non aspettavamo mai niente in particolare. Quando arrivai da Cosimo, però, mi resi conto che, nel tutto che sempre mi aspettavo, quello che avevo sotto gli occhi non ci rientrava proprio. C’era Pluto detto Pippo detto Bracco, disteso sulla soglia, con una flemma così imperturbabile che per scavalcarlo ed entrare dentro casa dovetti prendere una rincorsa ancora più lunga dei suoi già lunghissimi sbadigli. Non solo. Cosimo e Leonardo, adagiati sul divano, conversava75


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no amabili come vecchie signore all’ora del tè. Il primo indossava dei pantaloni di lino con la piega. L’altro, la riga, ce l’aveva tra i capelli, pettinati come neanche alla prima comunione. «Beh?», mi guardarono entrambi un po’ sdegnosi. Dovevo aveva un’aria stravolta. Confusa. Fuori luogo. Anzi, ammetto che, in quell’atmosfera, la mia presenza si calava come un peto puzzolente durante una funzione religiosa. «Ma il cane? La taranta? E la vostra… discussione?», annaspai. Cosimo sollevò le spalle. Leonardo abbassò ulteriormente il suo tono già sommesso. «Acqua passata», disse, mentre Cosimo elogiava con misura – riconducendola alla logica dei rapporti tra cane e padrone – l’irreprensibile fedeltà dell’animale. «È tornato», concluse. «È tutto a posto.» Lanciai un’occhiata a Pluto detto Pippo detto Bracco. Perfino lui sembrava più pulito – profumato. Non dissi niente. Per la prima volta, forte fortissima, avvertii la voglia di lanciare un urlo sovrumano. Di prendere a calci la mobilia. Di sferrare un cazzotto contro il muro. «Se è tutto a posto», convogliai infine la mia rabbia, «mi dite che succede per la strada? Perché la gente è così nervosa?». Ora, più della mobilia, avrei voluto prendere a calci i miei compagni. «Tu», sogghignò Cosimo, «mi sembri un po’ nervoso». E Leonardo, più accondiscendente, mi fece cenno di sedermi in mezzo a loro, ché avevo dormito fino a tardi e certamente non sapevo che avevano trovato sgozzato un cavallino, giù al maneggio, e che adesso infuriava la caccia all’assassino. «Sgozzato? Un cavallino?», bofonchiai incredulo. «Ma chi può averlo fatto? E perché mai?» Mescolando le carte, Cosimo sbuffò. «Matò, questo stamattina si è svegliato capriccioso! Tutte cose, mo’, vuole sapere», e porgendomi il mazzo spinse avanti, risoluto, il mento prominente. Esitai. Aprii un’altra volta la bocca per parlare. Poi, quando Leonardo mi appoggiò una mano sulla spalla e disse taglia, compresi che m’invitava, sì, ad aprire il gioco, ma soprattutto m’esorta76


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va a chiudere ogni discussione. A farla finita. A tagliare col passato. Mentre, nel silenzio, ci contendevamo il settebello, Pluto detto Pippo detto Bracco, rovesciato lungo lo zerbino, spalancava l’occhio cieco, e con quello, da chissà dove, sembrava osservarci. «Hai aiutato tu Cosimo a lavare il cane? A ripulirlo del sangue del cavallo?», chiedo ora, a un anno di distanza. Ma la distanza da cui Leonardo mi guarda è un precipizio. Un baratro. Un abisso. Aggrappato al suo bicchiere preferisce tacere – Angelina, Angelina, Angelì, singhiozza tutt’al più – così come allora, tacitamente, ci aggrappammo al silenzio per provare a risalire. Passò giugno, luglio, agosto. Una stagione, all’apparenza, come sempre – fatta di corse lungo il bagnasciuga, bagni, cornetti all’amarena e poi la sera tiro a segno, bancarelle e calcinculo. In realtà, non appena sfuggivamo agli altrui sguardi, non appena il cono luminoso del fervore estivo si spegneva, osservavamo angosciati nello specchio i nostri volti cambiare. Le voci stavano diventando cavernose. Una folta peluria cresceva sulle mani. E dentro al walkman, di nascosto, sostituivamo Britney Spears e i Lunapop con scariche violente di heavy metal. Quando la mattina scendevamo sulla spiaggia, come una liturgia sempre più frettolosa tiravamo al pallone quattro calci, costruivamo il solito castello, nuotavamo fino alla scogliera. Poi, stanchi e annoiati, restavamo fino all’ora di pranzo a fare i morti a galla. All’inizio di settembre, invece, morì Pluto detto Pippo detto Bracco. Ammesso che, dopo quella notte, la sua potesse realmente definirsi vita. Sempre in cerca di una bava di vento, di un alito che gli procurasse un po’ di refrigerio, dalla sua bava, dal suo alito di fiele, si capiva che ormai la morte stabilmente l’abitava. Per qualche settimana si limitò a spalancare l’occhio cieco, a vigilare con l’altro sul portone, ad annusare guardingo e diffidente il cibo che nella maggior parte dei casi, adesso, rifiutava. Poi un giorno, alla controra, non si alzò più. Quanto alle nostre, di controre, eravamo tornati a impugnare le fionde. Non sbagliavamo più apposta, adesso. Anzi, eravamo diventati degli infallibili cecchini che si lasciavano alle spalle mucchi 77


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di carcasse. Ci bastava sentire il suono secco e scarno della pietra sul corpo dell’uccello e subito, distogliendo lo sguardo, affrettavamo il cammino, ché il tonfo successivo ricadeva sempre nella parte più molle di noi stessi. Eravamo costantemente in bilico – lo sentivamo – tra l’innocenza e la colpa. Tra il giorno e la notte. Tra il sereno e il temporale. Finché, un giorno, in mezzo alla campagna, il temporale ci colse veramente. Come una fitta sassaiola – quasi che le centinaia e centinaia di ciottoli scagliati verso il cielo adesso ripiombassero indietro tutti in una volta – la grandine si abbatté feroce sui nostri bersagli allampanati. Vuoi per il calore del sole accumulato, vuoi perché eravamo diventati effettivamente teste calde, sotto il diluvio il cranio ci fumava, e indicandoci l’un l’altro il cuoio capelluto, in quel clima da tregenda, ci sganasciammo come divini idioti (ché se pure qualcuno avesse pianto, con tutta quell’acqua, sarebbe rimasto un suo segreto). La sera, quello più fresco aveva trentanove e due. Finalmente potevamo delirare a ragion veduta. Ragni, pipistrelli, vermi che scavavano nelle viscere sventrate di un puledro: una colorita rappresentativa del creato circondava il mio giaciglio, e se disertava la mia stanza – ne ero certo – era solo perché impegnata a presidiare quella dei miei amici. Quando tornai in me, l’estate se n’era andata. In meno di una settimana, tre mesi di luminosa abbronzatura erano sbiaditi in un pallore ombroso. Avevo le guance divorate dall’acne. Allo stesso modo – scarnificandola, spolpandola, schizzando una saliva così densa da sembrare pus – la sera in cui al posto del solito brodino mi portarono una bistecca alta tre dita, utilizzai le poche forze che mi erano rimaste per divorarla. Con quella cura, mi spiegarono, Cosimo e Leonardo già stavano un po’ meglio. E anch’io, a furia di filetti, nel giro di pochi giorni recuperai le mie energie. Ma, se da una parte riprendevo i chili perduti, dall’altra sentivo che qualcosa (forse i ventuno grammi che, si dice, costituiscono il peso dell’anima) era smarrito per sempre. Un vuoto, un’assenza, un 78


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languore che riempivo a brandelli di carne – masticando con rabbia, a canini scoperti. «E stasera? La bistecca?», mi sinceravo, preoccupato, già abbondantemente prima del tramonto. Infine, arrivò il momento di partire. La scuola cominciava il giorno dopo. Se da un capo all’altro del villaggio – tanto era diventato silenzioso – ci fossimo chiamati, se avessimo urlato nel vento i nostri nomi, di sicuro li avremmo sentiti nitidamente risuonare. Se fossimo scesi verso il lungomare – tanto era vuoto – avremmo visto le nostre sagome stagliarsi solitarie sulla spiaggia. Ma nessuno si mosse. Nessuno fiatò. Solamente (e tutto solo) galoppai fino agli ulivi, dove – non prima di aver spezzato qualche ramo – mi dimenai ossessivamente al ritmo dei Metallica, e senza togliermi la cuffia, come Onan, per la prima volta sparsi il mio seme sulla terra. Poi, trotterellando, tornai a casa, diedi una mano a sistemare i bagagli e al momento di partire, sprofondato nel sedile posteriore, l’altra me la passai sul volto. Aveva un odore strano, mai sentito. E anche tutto quello che vedevo, al di là del finestrino, improvvisamente mi appariva diverso. Solo il volto di Leonardo, mentre mi affiancava con la bicicletta e si sporgeva paonazzo sul manubrio, gridando che tutto era perduto, che ci avevano dato da mangiare la carne del cavallo, che – dalla taranta, dal cane, dal puledro – il veleno di sicuro era passato fino a noi, conservava un’antica innocenza, e una dolcezza, un delicato tratto di struggente tenerezza, che nemmeno il parossismo con cui mi urlava dietro riusciva del tutto a cancellare. Mi sarei lanciato fuori ad abbracciarlo, a stringerlo in un ultimo, fraterno e disperato slancio, se al momento di abbassare la sicura, con un andamento così speculare da sembrare causa e effetto, la macchina non avesse leggermente accelerato e Leonardo, molto più pesantemente, non fosse crollato prima sui pedali e poi direttamente sul selciato. «Ti sei fatto male?», gli domando. Leonardo ha gli occhi azzurri – solo che adesso sono rossi. «Quando sei caduto», gli ripeto, «ti sei fatto male?». 79


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Alla fine lui annuisce, e anche se non sono affatto certo che parliamo della medesima caduta, leggermente più convinto aggiunge: molto. «Molto male», dice, e poi – quando temo fortemente che stia ricominciando con ’sto strazio di Angelina (Angelina, Angelì) – mi domanda se ho voglia di rivedere Cosimo. A me sembra di non averne, però gli dico sì. Poi, quando lo dico, mi accorgo che invece ci muoio, dalla voglia, e – forse per paura, per stupidità, o solo perché così procede la mente degli adulti – mi affretto a rinnegare. «No… Sì… No.» Alla fine piazzo un pugno così forte che la tavola si piega. Lui manda giù l’ultimo sorso, e sbandando ci muoviamo. Quasi non si regge in piedi, il mio amico Leonardo, e mentre lo sostengo, mentre ci lasciamo alle spalle lo sfolgorio del mare, la musica, l’odore dei panzarotti fritti, e ci addentriamo in mezzo alla campagna, mi accorgo che gli manca una falange nella mano destra. Cos’è stato, Leonà?, cos’è successo?, gli sto per domandare – ma dopo sento quanto è lieve, e morbido, e spazioso, il silenzio dentro al quale stiamo entrando, e zoppicando taccio. E solamente, in quel silenzio, mi limito a sputare. Quando arriviamo all’uliveto – giusto qualche metro prima del punto in cui avvenne la cattura –, troviamo un sasso piatto e ci sediamo. Davanti a noi l’orizzonte è tanto basso che il cielo sembra caderci sopra i piedi. Dietro, non ci voltiamo. «E Cosimo?», domando. Allora Leonardo – per quanto sia possibile allungare un dito mutilato – allunga il dito, e cerca, nell’immenso spazio che ci avvolge (immenso e immoto), l’unico puntino che si muove. «Là», dice. «Quello è Cosimo.» E dal modo in cui si esprime capisco che proprio questo vuole dire: io sono un depresso alcolizzato, tu un violento psicopatico, e lui un puntino. Strizzo gli occhi per metterlo a fuoco. Da come guizza, in effetti, sembra una fiammella. Brucia metri su metri. «Ma cosa fa? È impazzito?» Leonardo alza le spalle. Fa una smorfia. Si accende l’ennesima sigaretta. 80


Cosimo corre

«Corre», soffia dentro alla nuvola di fumo. «Corre!… E dove va?» «Boh. Chi lo può dire? Cosimo corre. Corre sempre. Però», mi sussurra nell’orecchio, come se qualcuno potesse carpire un suo segreto, «io, in realtà, credo che scappi». «Cosimo fugge», conclude, e poi – sicuro sicurissimo che non sarò tanto stupido da chiedergli da cosa, ché questo spasmo che ci insegue, questo dolore di diventare grandi, questo sentirsi più piccoli ogni giorno finché non giungerà il momento nel quale scomparire, sa benissimo che morde le caviglie pure a noi – si sdraia pancia all’aria e rivolge al cielo azzurro il suo grigio lamento. «Angelina, Angelina, Angelì…» Prendo dal suo pacchetto e comincio a fumare. Comincio davvero, ché è la prima in tutta la mia vita. Poi seguo il fuggiasco con lo sguardo, e mi accorgo che, invece di puntare verso l’altopiano, come se non fosse ancora abbastanza stanco, Cosimo disegna un cerchio largo – sempre più largo – intorno a noi. «Tu dici che torna?», mi domanda Leonardo. E anche se so perfettamente che sta parlando di Angelina – anche se so perfettamente che Angelina non tornerà mai più –, con gli occhi fissi verso Cosimo annuisco gravemente, e dico: torna. Torna di sicuro.

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ANTONELLA CILENTO

Vago

Vago si muove il vento sul mare. Leggera brezza che sposta colline d’acqua basse e trepide, come conigli nascosti nell’erba. Vaga è la sensazione delle mani: la sta perdendo. La schiena pulsa e scompare. A volte le gambe smettono di muoversi, un ginocchio manca mentre cammina. Il sentiero che porta a Punta Campanella è lungo, asfaltato fino all’estremità che affaccia su Capri. Dopo la curva, il promontorio, le darà le vertigini, spoglio d’alberi e a picco sul mare com’è, così stenterà a girare, si fermerà, tornerà indietro. Tiene i piedi disperatamente ancorati alle pietruzze, al sentiero sdrucciolevole, le dita dei piedi stringono e frenano nelle scarpe. L’anima sussulta pronta a staccarsi dalla terra. Lallina non ha mai visto la baia di Ieranto che si affaccia azzurra dietro la punta di fronte a Capri perché all’aperto, senza riferimenti, si sente mancare. Cammina lungo la strada combattendo con il cuore che accelera e poi si ferma di colpo. Lo sa che non morirà, ormai lo sa. Però soffrire così tanto in presenza della bellezza è davvero ridicolo, lei si sente ridicola. Si stringe la bandana intorno alla fronte, il kajal le cola dagli occhi bambini. Tutta colpa del nervo vago, dicono i medici. Un nervo così impreciso, fin dal nome. Alla mostra sulle ambre antiche Mario legge le tavole esplicato83


Antonella Cilento

rie: “vaghi d’ambra”, c’è scritto, per indicare le perle o i dischi che compongono collane e bracciali. «Vaghi…» le fa. «Perché si chiameranno vaghi? Forse perché sono delle cose informi con un buco in mezzo? Una cosa vaga…» Lallina scoppia a ridere. Mario arrossisce. «Ma ne dici così tante di fesserie… C’hai la fabbrica?» Quando lavorava in azienda i suoi colleghi tenevano un diario delle fesserie che Mario diceva. Fesserie creative. «Ma tu non dirle a nessuno» la prega. I vaghi d’ambra nelle vetrine somigliano alle vertebre. Il nervo vago scorre lungo la spina dorsale e trasporta i riflessi condizionati che comandano gli organi, anche quelli che si ritengono indipendenti, come il cuore, ma che gli asceti indiani sanno fermare. Più banalmente lungo il vago arrivano informazioni sbagliate. E allora l’ansia, l’incomprensione, la rabbia, si scaricano dal nervo al torace, bloccando il respiro, dando strane accelerazioni al cuore, provocando nausea. Così le ha spiegato il dottore. Succede spesso alle donne, dice Pepi a Lallina, mentre si riveste, con un occhio di compatimento, come se stesse parlando a una femminuccia dell’Ottocento informandola che sul suo corpo esistono punti dell’isteria. Donnine svenevoli, ragazzine con gli attacchi di panico. Lallina chiama il suo dottore Pepi, sua madre Nana e suo papà Papi. «Succede anche agli uomini» lo aggredisce Lallina. «Sì, ma la maggioranza sono donne.» «Siamo sempre la maggioranza» taglia corto lei, infilandosi la canotta super aderente. Una maggioranza silenziosa, vorrebbe aggiungere. Quindi esce. La stanza le gira intorno. La segretaria la fissa di sopra agli occhiali, sguardo obliquo. Si accorge sempre se qualcuno esce dalla studio in panico. E Lallina infatti deve tenersi alla porta dell’ascensore, allo stipite di una cornice in legno dove sul campanello legge: Rascati. Chi sarà questo Rascati? Non importa, quan84


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do ha un attacco leggere la aiuta: concentrare lo sguardo su qualcosa di preciso, sulle scritte degli autobus, sugli ingredienti di uno shampoo. Acqua, Sodium Laureth Sulfate, Cocamido-propyl Beatine, Peg-40 Hidrogenated Castor Oil. Arriva in strada e la luce del cortile scassato e pieno di motorini la abbacina. Due enormi kenzie e un ficus fanno ombra. In controluce somigliano a mani che vogliono afferrarla. L’ombra del portiere somiglia a un omino di gomma. Ha il motorino legato a un paletto antiparcheggio. Il paletto è stato divelto da un incidente o forse a furia di calci. Tocca il paletto con le mani fredde e sudate. Non sverrà. Lo sa che riesce a non svenire. Riesce perfino a guidare fino a casa nel traffico di Napoli. Mica è una donnina dell’Ottocento, una femminuccia, come vorrebbe farle credere Pepi. Cazzate. Lei è una tosta. Prende l’aereo da sola da quando aveva otto anni. Il nervo vago sa essere molto preciso, se vuole. La colonna vertebrale è simile alle collane smontate delle sepolture che rigano le vetrine della mostra: percorsi illeggibili, per ricostruirli serve un buon archeologo, uno che sappia ritrovare i segni del passato. Le tracce lasciate da un incontro, da uno schiaffo, da una frase troppo a lungo ripetuta che si è annidata nell’organo, nella memoria, nell’inclinazione dell’osso. Lallina ha iniziato in classe, ultimo anno di liceo. «Stai sempre curva» le diceva Nana. «Siediti correttamente.» Lallina porta male lo zaino, si piega sul banco durante le spiegazioni, non regge. Si sente schiacciata. Nana entra nella sua stanzetta piena di foto di Marco Masini e dei Cold Play e le piange sulla spalla. «Io alla tua età già lavoravo! Sono stata un’eroina a crescere da sola te e tuo fratello. E a sopportare Papi. Io sono una donna perfetta e tu? Guardati…» E dopo un’oretta di pianto esce e lascia Lallina, che non ha mai tolto gli auricolari dell’iPod dalle orecchie, a fissare la parete con le collane di conchiglia comperate a Mykonos appese sulle foto di Stefi. Ma con la sua amica Stefi da quando ha gli attacchi non parla più. 85


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La strada per Ieranto, come il rosario della sua colonna vertebrale, Lallina l’ha rifatta passo passo molte volte nel corso della sua breve vita in compagnia di Mario, che è solo un suo amico. E sempre arriva alla punta e non svolta. Un giorno ci si dovrà costringere, come fa per ogni cosa sgradevole. La vita tutta è diventata sgradevole, nel frattempo. Mario è gay. Crescono copiosi gli ulivi, lungo il sentiero, e piantagioni di vite fra le discese a picco delle scale che arrivano al mare, passando per villette nascoste e abusive. Sotto gli ulivi fiorisce un prato lucido, denso di papaveri e di piccole spighe, almeno in questa stagione. A volte, in autunno, rossi funghi velenosi. Capri si tocca con una mano, basta allungare il braccio. La strada del promontorio è lunga. Almeno un’ora a passo svelto, fino alla punta. Dopo non sa. Fa sempre così anche con le sue scelte: a passo di marcia fino a un certo punto e poi stop, cede, si ferma, si dice: ricapiterà. E invece non ricapita e allora si arrabbia, è furibonda con se stessa, prova un grave rimorso per le scelte che non ha saputo portare a termine. Dov’è l’errore? Questo si chiede, facendo sosta lungo il sentiero, i piedi in fiamme, incontrando alcuni sparsi turisti che tornano e si danno voci. L’ospedale è una tomba grigia. Ha l’aria sporca delle cose rimaste a prendere la pioggia troppo a lungo e che si macchiano alla luce del giorno. Così il Policlinico Vecchio e le sue molte entrate sono rigate dall’acqua lercia caduta per secoli sui muri. Lasciano l’auto a vico Sole. Il vicolo sale come una gengiva intorno al dente dell’ospedale. In vico Sole stanno i pompieri, destinati a spegnere gli incendi del centro storico della città. Lallina si chiede sempre come facciano a uscire i camion con le scale e le pompe da un accesso così stretto: gli incendi e gli omicidi a Napoli si svolgono rapidi ed efficaci prima di ogni intervento salvifico anche per questo, perché è impossibile uscire dal vicolo. Poco distante dall’ingresso monumentale del Policlinico una porticina dà accesso alle sale dei ricoveri d’emergenza, dove si fan86


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no i TSO. Ci entrano con Gilda, la sorella di Mario. È il suo quarto ricovero forzato. Il ricovero forzato prevede che il paziente firmi una liberatoria. Anche se non è presente, anche se a stento riconosce le persone che lo accompagnano, anche se, come a capita a Gilda, non c’è alcun riferimento reale fra lei e il mondo, fra lei e la sua famiglia. Dentro le stanze non entrano. C’è divieto. Gilda vede passare un immaginario scarafaggio davanti a lei, non dice che ha paura dello scarafaggio, ma fa uno scatto. Mario ha un’aria afflitta, lui che è sempre così allegro. Gilda resterà dentro un mese, un mese e mezzo. Dipende dai casi. I farmaci contengono i disturbi per alcuni anni, poi, ciclicamente, Gilda ci lascia. «Mi ha morso!» urla. «Mi ha morso!» Due ferma-trecce d’oro sottile luccicano nella teca che chiude la mostra. Lallina si tocca i suoi codini, gli elastici colorati. Somigliano un po’ ai ferma-trecce in oro. Alla mostra delle ambre le assenti trecce della proprietaria fanno intuire capelli abbondanti e ricci. Su quale spiaggia è fuggita lasciando i suoi fermacapelli? L’Eliade figlia del Sole da cui nacque l’ambra non abita nel vicolo dei pompieri. Giovane e mai andata sposa, correva sulla spiaggia fra i canneti. Comparve la serpe e la morse. Poi, mentre lei era con le braccia nella sabbia, le si avvolse attorno al polso, si trasformò in bracciale. E la sposa bambina balla, balla fino a che la sua schiena brucia. Balla fino a che la paura e il vomito causato dal veleno scompaiono. Gilda si è ammalata in viaggio. La prima volta era con una comunità religiosa. La crisi in un paese straniero, la necessità di tornare. L’ultima volta è rimasta in un ospedale straniero e le hanno rubato anche il portafogli e il bagaglio. Quando Gilda sta bene scrive poesie o fa grandi disegni colorati. Ha tanta voglia di vivere e si fa spazio nel suo corpo che ormai gli psicofarmaci hanno devastato, trasformandola da magrissima in obesa. Le mani le tremano per effetto dei medicinali, un tremore leggero e sudato, come di foglia. «È colpa mia» dice. 87


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Lallina è voluta andare per forza a un corso di biodanza. L’istruttrice, Mia, la conosce da molti anni. Lallina si siede nello spogliatoio e non entra. Un giorno, due giorni, tre giorni. Non riesce più a entrare in palestra. Le riesce solo di fare kickboxing, dove spara pugni e l’istruttore è un buzzurro che dice scemenze. «Chi ti segue?» le chiede ogni volta l’istruttrice. E lei le racconta di Pepi e che con lui vuole litigare e poi, un bel giorno, cerca di litigare anche con Mia. Ma invece di mandare Mia a quel paese ha un attacco, si stende per terra, Mia la fa respirare, ma Lallina tende le braccia, le gambe, ha il torace duro come un tamburo. Mia fa le manovre di scarico, tutte le manovre di bioenergetica che conosce e piano piano Lallina si rilassa. «Non voglio venire più qui.» «Hai bisogno di aiuto.» «Sto bene, sto solo crescendo.» «Lallì, tu stai scappando… fai come il capitone…» «Sono venuta a dirti che qui non ci vengo più.» «E non ci venire. Ma fatti aiutare da qualcuno. Vuoi il numero di un terapeuta più bravo?» «Io ti voglio bene.» «Lo so. E allora?» «Ti voglio bene ma qui non ci voglio più venire.» Mia la guarda uscire. In sala l’aspettano, si volta di malumore, torna al lavoro. Lallina è la cocca di mamma e papà, ha diciotto anni e tanti ricci in testa. Lallina ha bei vestiti e vacanze organizzate con ragazzine trendy come lei in trendyssime isole greche. Tutti felici sul piroscafo. Poi, se qualcuno le chiede cosa fanno a Creta o a Rodi o a Mykonos, Lallina risponde: «Andiamo a bere, in discoteca e abbiamo gli attacchi di panico.» Non si è accorta di avere le mani appiccicate al vetro e che Ma88


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rio la sta chiamando a voce alta. Non si accorge che molti visitatori si sono voltati. E nemmeno che toccando il vetro della teca ha fatto scattare un allarme rognoso che pare l’avviso di un bombardamento aereo. La sposa bambina cerca di fuggire al matrimonio combinato. Dalla spiaggia vede la barca che aspetta per riportarla ad Ostia. Ma lei, anche se è guarita dal morso della serpe, non vuole vivere. Non vuole sposarsi. Non vuole fare la vita che le hanno destinato. Ma non ha nessuna arma, non sa dirlo, sa che deve vergognarsi anche solo a pensarlo. Disobbedire ai genitori! Così decide di prendere l’unica strada praticabile. Si alza a tentoni nella sabbia, l’abito bianco e rosso che le sbatte sulle gambe, le fibulae d’ambra che si contorcono e qualche punta nella fretta le si pianta nella carne delle gambe. Annaspa verso un lago salato che la marea riempie ogni mattina. L’acqua è stagnante ma profonda, le sabbie molli, insidiose. Non si sposerà. Anche se suo padre ha fatto costruire per lei un meraviglioso medaglione d’oro. Al centro ha un’ametista incisa: il corpo dell’Eliade, della ninfa figlia del Sole. Le dispiace per quel medaglione, le dispiace anche per tutti i suoi bei vestiti nuovi, le dispiace di non rivedere le sue cugine, ma tanto le avrebbero separate in ogni caso, tutte spose in case divise, tutte lontane, tutte con marmocchi da crescere. Ha visto nascere il dodicesimo figlio a sua madre, il suo undicesimo fratello, ha visto la carne aperta e spezzata, il sangue scorrere nel bacile degli unguenti, ha udito le grida e sentito il rumore della pelle che si strappa. Non partorirà, non le daranno la condanna, si toglierà prima di mezzo. Scende nell’acqua melmosa della spiaggia. È calda, come un bagno bollito. Odora di sale. Piccole libellule dalle elitre verdi le fanno corona. Animaletti del pelo d’acqua, alghe molli, pesciolini e girini. Affonda le spalle, poi il collo, cala la testa. L’acqua nelle orecchie, l’acqua calda su per il naso. Una volta Gilda ha cercato di uccidere suo nipote. Era appena nato, aveva il faccino morbido morbido. Lo aveva preso in braccio, cullato e poi si era avvicinata a un balcone. Dal balcone si vedeva tutta 89


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intera la città. La casa era in un parco, niente traffico lì sotto, solo silenzio e uccellini e fuggire risposo di lucertole, un veloce accartocciarsi di foglie. Poteva lasciar cadere il nipote sulla rampa del parcheggio, fra i gerani della signora del piano di sotto, in braccio al mare azzurro in lontananza. Mario era arrivato giusto in tempo. «Non prenderà il mio posto» aveva ringhiato Gilda. E poi era andata in cucina a prendere il coltello del pane, alla ricerca della madre del bambino, di sua sorella. Si è ripresa solo al bar, quando Mario l’ha fatta sedere comperato un’aranciata, messo nel piatto un cornetto che lei non mangia. Non mangia quasi più nulla, per via del vago che le stringe lo stomaco. Campa a succhi di frutta. «Lallina? Ma la vogliamo finire? Che ti è preso davanti a quella teca. Hai fatto succedere un casino…» «Lo so, lo so. È colpa mia.» Mario la abbraccia. Lallina inizia a piangere a singulti sempre più forti, sempre più incontenibili. Nessuno mi vuole bene, dice, mio padre non è quel che sembra. E altre frasi scombinate, insieme a lunghi fili di bava che colano sui jeans sfrangiati. Mario la stringe, le carezza i capelli. Cerca di non pensare a sua sorella, a Gilda, le chiede di respirare. «Torniamo indietro.» «Un’altra volta?» Mario è esasperato. «Arriviamo sempre qui e poi torniamo indietro!» Sulla punta della Campanella soffia un vento caldo ma insistente. Il mare scroscia a un centinaio di metri più in basso. Non ci sono più turisti. Lallina cammina senza guardare in basso, mezzo piegata fra le braccia di Mario. E poi, del tutto inatteso, arriva odore di barbecue. Sul sentiero a picco c’è un fuoco acceso. Il fuoco di giorno è innaturale, Lallina fissa il colore irreale della fiamma alla luce del so90


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le. Le assi spezzate, una cornice di porta, pare, e qualche pezzo di cassetta da frutta. Gli zingari sono più di otto. Lallina perde il conto guardando le facce grasse e rosse. Zingari o contadini della costiera. Non saprebbe dire. Stanno cocendo un grosso pezzo di carne. Una vasca di frutta per terra. Due fiaschi di vino. Una lunga fila di lattine di birra fra le ortiche e i fiori di limone. Pane e tonno, lungo come una mascella d’animale. I bambini puzzano. Sono coperti di collane e grembiali. Con due chitarrine suonano qualcosa che il vento di Capri ruba verso l’orizzonte e danzano sul ciglio del burrone. Lallina stringe la mano a Mario. Cosa fare? Chiedere educato permesso e passare? Mario ci prova, trascinando una Lallina riottosa. La carne sfrigola sulla griglia storta in bilico fra le assi di legno. «S’incendierà tutta la collina, con questo vento…» sussurra Lallina all’orecchio di Mario. Una mattina Lallina ha cercato il nervo vago su Internet. Ha cliccato su Wikipedia e ha letto: Il nervo vago (chiamato anche nervo pneumogastrico o nervo X del cranio) è il decimo dei dodici nervi del cranio che partono dal tronco encefalico (dentro il midollo allungato) e si estendono, attraverso il solco giugulare, verso il basso nell’addome. Il nervo vago è il nervo singolo più importante del corpo nonché il più lungo ed il più ramificato tra i nervi cranici. Il suo nome deriva dalla parola latina vagus, che significa letteralmente “vagabondo”. Più tardi da Pepi hanno ragionato sul nervo vagabondo. «Forse hai bisogno di sentirti più libera.» «Sì, è quel che voglio.» «Liberati, allora.» Lallina è rimasta in silenzio a lungo, gli occhi liquidi a fissare lo spazio fra il divano Ikea, le piantine grasse ornamentali, gli scaffali con le enciclopedie, la parete liscia e verde chiaro che Pepi ha ridipinto da poco – il verde rilassa, le ha detto – e i poster della Jamaica che compongono il gabinetto medico del suo psi. Gli psi hanno studi diversi, ne ha visitati tanti. Qualcuno somiglia a una sala operatoria, al91


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tri a una rimessa di barche, altri ancora a una stanzetta di adolescenti. Pepi ne ha uno così, un incrocio fra una stanza d’ospedale asettica e il salotto di un monolocale. La libertà non abita in Jamaica. Non abita nemmeno a Mykonos. Non si trova nelle cartoline. «Lallina… Dove sei?» Lallina si è alzata, ha salutato a stento, è uscita. Poi gli zingari l’hanno presa per mano e fatta ballare con loro. All’inizio le faceva senso tenere quelle mani nere e unte, sentire l’odore della carne e di una pipa che la vecchia più grassa fumava con la bocca pelosa. Poi, però, si è lasciata andare. Non ha ballato come in discoteca, non ha ballato come quando faceva biodanza, ha fatto movimenti che non poteva calcolare. Mario si è seduto ad applaudire. Ha ballato sul ciglio del burrone. Ha abbracciato gente sporca e puzzolente. Ha bevuto dalle tazze di Nutella sbreccate che le passavano bambini senza denti. Ha smesso di pensare ai tradimenti. Perché Papi si è fatto una storia con un’altra? Perché Nana non ha saputo tenersi suo marito? Papà, il mio perfettissimo papà, a letto con un’altra che non è la mamma. E se la mia mamma perfettissima non è amata neanche io lo sarò mai. Dall’acqua calda del lago in riva al mare, fra gli sciami di libellule, la piccola Eliade, la figlia del Sole, è risalita sputacchiando acqua. Forse non morirà. E forse andrà sposa a qualcuno che le piace, non bisogna disperare. E in ogni caso Lallina sta ballando e Mario sorride. Sotto la punta rocciosa, come sulla cima di una montagna altissima, dove né alberi né erbe attecchiscono, ma solo licheni, il Tirreno sbatte le sue onde come colline.

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Aria, Ansia

A me è capitato una volta. Però non c’ero quando mi è successo. Cioè, ero morta. Quasi. Insomma, ero entrata in coma. Non è che ricordi bene. Qualcosa di vago. Ballavo in quell’enorme capannone. Saremo stati in trecento. No, no, forse di più. Tutti corpi caldi. Tutti a ballare. Chissà da quante ore. Stavo con gli occhi chiusi, il viso tirato, aprivo e chiudevo le braccia. Velocemente, come quando in palestra faccio gli esercizi per i pettorali. Però disarticolati. Mi muovevo come se stessi imparando ora a camminare, ero uno scimpanzé appena nato, di quelli che faticano per cercare l’equilibrio. Sempre sul punto di cadere. Però non cadevo. Ballavo. Con questo battito nell’orecchie, questa percussione nella pancia, tra le cosce. E poi aria. Più mi muovevo più avevo bisogno d’aria. Più ballavo e più tutto rimbombava. Come quando stai sotto acqua, senti tutto attutito e nel tuo corpo senti il vuoto. Il vuoto rimbomba. Non ce la fai, a volte, a sentire questo rimbombo. Così appena cacci la testa fuori dall’acqua, espiri più che puoi, per riempirti d’aria e non sentire il rimbombo. A me è capitato in quel preciso momento. Proprio come se avessi cacciato la testa fuori dall’acqua, allora ho visto Maria che veniva verso di me. Non il suo corpo, cioè non precisamente. Ho visto i contorni del suo corpo venire verso di me. I contorni erano netti. Avete presente quando su un cartone bianco disegnate una linea con il pennarello nero? Così era il corpo di mia cugina. Di Maria vedevo solo il perimetro. In mezzo era trasparente. Però, la cosa strana era che vedevo il sangue che le saliva alla testa. Allora, ho gridato: Maria, ti va il sangue alla testa. Grida93


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vo. Ma lei mi diceva: che diciiiii….? Alzava la voce, con tutto quel bordello, lei non sentiva. Io insistevo. Mariaaa, fermatiiii, ti va il sangue alla testa. L’ultima cosa che mi ricordo è la faccia trasparente di mia cugina Maria che mi veniva incontro. Poi devo essere caduta. Svenuta. Dopo sono entrata in coma. O qualcosa di simile. Prima, però, ho cominciato a tremare come se avessi una crisi epilettica. Così mi hanno detto. Mica mi ricordo. Niente, ho la mente vuota. Tabula rasa. Però devo aver fatto un sogno. Una specie. Era più un ricordo che un sogno. Sì, perché stavo in campagna, da mio nonno. Con me c’era Maria. Eravamo piccole, 10, 11 anni, non di più. Correvamo verso casa dei nonni, tenendoci per mano. Spaventate. Perché la nonna aveva avuto un attacco. Cominciava a tremare tutta, quando aveva gli attacchi. Il fatto strano però è che solo noi due, io e Maria, eravamo spaventate. Perché gli altri, mio nonno, gli amici, pure mio padre e mia madre, stavano intorno alla nonna. Chi la tratteneva, chi pregava, chi ballava. Facevano di tutto, tranne spaventarsi. Veniva gente a vedere. Si riunivano intorno a mia nonna, tutti accaldati, tutti corpi caldi, un bordello. Non erano spaventati. Io e Maria lo eravamo. Loro no, anzi, dicevano che dopo, a cosa finita, dopo, c’era sempre qualche giovamento. Chi aveva mal di testa e adesso no, chi era sterile e adesso no. Chi era stanco e adesso ballava. Poi tutti andavano a pregare la Madonna. Andavano pure in processione. Solo io e Maria non andavamo, stavamo male. Mi veniva voglia di scappare. L’ansia. L’aria. Mi mancava il respiro. Si offuscava tutto davanti a me e dentro di me rimbombava tutto. Ansia. Aria. Come stare sotto acqua. Io, poi, non so stare sotto acqua. Comunque, tutti stavano bene e noi no. Forse stavano bene perché ci passavano il male. Un’ansia. Una fatica. L’aria, mancava, l’aria. Era un segreto di mia nonna, mica si poteva dire in giro. Sono cose nostre, diceva mio nonno, è inutile che lo dite, tanto nessuno vi crede. Vi prendono in giro, perciò, non lo dite. L’aria. L’ansia. Non lo dicevamo. Mai detto. Quando nonna si svegliava, spesso la sera o la mattina dopo l’attacco, ci diceva che aveva visto come sono dentro le cose. Una volta ci disse che era entrata dentro uno specchio, stava dall’altra parte. Quindi, quando qualcuno passava vicino lo 94


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specchio e si specchiava, lei, mia nonna, siccome stava dall’altra parte, vedeva il corpo di quello che si specchiava. Proprio dentro. Com’era fatto. Avrebbe potuto ucciderlo, diceva, perché sapeva che cosa doveva toccare per farlo morire. Ansia. Ci mancava l’aria a me e Maria quando mia nonna si svegliava e raccontava. A me mancava l’aria. Comunque, quel giorno che sono caduta per terra, mentre ballavo nel capannone, durante il rave, quel giorno che Maria era trasparente, mentre stavo svenuta o in coma, ho sognato che io e mia cugina, stavamo a casa di mia nonna, in campagna. Mentre correvamo sul prato, mano nella mano, mia cugina, si era fermata. Di botto. Come se le mancasse l’aria. Tutta bianca era diventata. Ti manca l’aria, evvero? Così le avevo detto. E quella era caduta. Sembrava morta. Che ansia. Non potevo chiamare nessuno, perché stavano tutti attorno a mia nonna che tremava e parlava e tutti intorno ballavano e nessuno che pensava a me e Maria. Lei stava male, le mancava l’aria, era svenuta, il sangue le è andato alla testa. Così ho cominciato a chiamarla e scuoterla. Con forza. Di qua e di là, la strattonavo, la scuotevo e chissà perché, durante il sogno, più la scuotevo, più tremavo io. Come se mi stesse passando la corrente. Tremavo e più tremavo più lasciavo la presa. Però continuavo a chiamare Maria, gridavo e tremavo: Maria, Maria. Alla fine, lei apriva gli occhi, ma io continuavo a tremare. Ho aperto io per prima gli occhi. Stavo sulla lettiga del pronto soccorso. Ho visto la scritta davanti a me. Non tremavo affatto. Affianco a me c’erano due infermiere e un medico che smadonnava. Tutti si davano da fare, chini su un corpo. Una ragazza di 19 anni, mia cugina Maria. Io avevo aperto gli occhi, lei invece era entrata in coma. Un embolo. Così mi hanno detto dopo, quando tutto era finito. Io però già lo sapevo, avevo visto il sangue che le andava alla testa. Potevo salvarla. Aprirle l’embolo. Bastava che la chiamassi e lei si sarebbe svegliata. Così ho chiuso gli occhi e piano piano, mi è sembrato di volare. Stavo sopra i medici, sopra il corpo di Maria. L’ho chiamata. Niente. Il dottore smadonnava, poi si è fermato. Niente da fare, ha detto, è andata. Allora, nel silenzio, io ho di nuovo chiamato Maria e questa volta mi ha risposto. Quando ho senti95


Antonio Pascale

to la sua voce ho cominciato a tremare tutta. Come se qualcuno mi avesse messo un filo elettrico sotto i piedi. Ho aperto gli occhi e ho gridato, così, adesso, le infermiere e il dottore sono venuti attorno a me. Il dottore ha ordinato di farmi una flebo, e a quel punto, siccome ha visto che ero sveglia, ha bestemmiato tutti i santi del paradiso, e si è di nuovo buttato su Maria. Tanto ha fatto che alla fine mia cugina ha aperto gli occhi. A questo punto, ho smesso di tremare. Sentivo il mio corpo che si rilassava. L’effetto del medicinale, hanno detto le infermiere. Dopo qualche ora, è arrivata una troupe televisiva. Una trasmissione seguiva i casi di pronto soccorso. Avevano segnalato un caso di buona sanità. Erano corsi a intervistare il medico che salva due ragazze entrate in coma durante un rave per abuso di sostanze stupefacenti. Tutti dicevano che era un miracolo. Mia cugina era morta. Un miracolo, di sicuro, era impossibile che tornasse in vita. Il cuore era fermo da troppo tempo, il cervello stava senza ossigeno. E invece… Nella sala d’aspetto c’erano tutti i miei parenti. Parlavano di miracolo. Il medico intervistato, spiegava le dinamiche del fatto, le cure prestate. Alla fine della registrazione, l’intervistatore ha chiesto di riunirsi tutti sotto la statua della Madonna, era merito suo se Maria era viva. Avrebbero potuto finire l’intervista così, tutti attorno alla Madonna. Ma il medico ha detto che con tutto il rispetto per la religione non voleva fare parte del quadro e si è allontanato a testa bassa, mentre io stesa sul lettino guardavo mia cugina che piano piano si riprendeva. Un miracolo, dicevano. E il dottore? Dove lo mettiamo? Rispondevano le infermiere. Ha fatto tutto lui. Ringraziate lui. A me mancava l’aria. La scienza, il miracolo… Che ansia. Comunque, volevo solo dirvi che a me è capitato, di entrare nel corpo di qualcuno. Ma non lo posso dire troppo in giro.

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GRAZIA VERASANI

La ringhiera

Per quanto la memoria abbia un suo legittimo diritto d’inventario, non scorderò mai l’immagine di Nora che camminava sulla ringhiera del terrazzo al terzo piano di una lussuosa palazzina, il suo posare i piedi su quella barra sottile di ferro arrugginito, un passo dopo l’altro, ondeggiando come un funambolo alle prime armi, le braccia magre aperte ad ammiccare un ipotetico volo, la risata argentina dei suoi sedici anni originali, quel lampo di arroganza negli occhi di chi sa che la giovinezza è onnipotente e che nessuno si farà del male. Non c’era ombra di spacconeria nel suo sguardo blu notte come il cielo di quella sera d’aprile, solo il pudore di placare la gonna sollevata dal vento per evitare di esibire le sue gambe pinocchiesche, dritte come i bastoncini del gioco dello Shangai. Le guardavo l’orlo dei calzini bianchi spuntare dalle scarpe da tennis senza lacci, la pelle d’oca della primavera sulla peluria bionda e ritta, il viso regolare da bambina americana, col naso piccolo e diritto, lo spruzzo di efelidi sulle guance lattee, e i capelli lisci, fermati ai lati da due margheritine di plastica. Marco e i suoi amici osservavano la sua figura esile e traballante da dietro la vetrata, passandosi bottiglie di vodka, coi piedi nudi sui libri sparsi sul tappeto, insieme alla custodia di un flauto traverso, a un posacenere colmo e alle tracce di cocaina che impolveravano la copertina di un vinile. Per loro era normale che un misto di alcol e droga avesse fatto salire Nora a quell’altezza; ne ignoravano sia il rischio sia l’audacia; in fondo, era solo una banale reazione alla chimica o alla noia. Prima o poi lei si sarebbe stancata di quel gioco, sarebbe scesa dalla ringhiera e 97


Grazia Verasani

avrebbe ripreso a sniffare, ascoltando il nichilismo germanico dei Can, i violini dissonanti e i suoni contorti di Helleluwah. Io e Marzia saremmo tornate a casa con l’ultimo autobus della sera, e Nora, all’alba, avrebbe chiesto a Marco un passaggio sulla sua moto, urlandogli nelle orecchie di guidare veloce, di passare i rossi, di giocare a morire da giovani. Ma per il momento lei era ancora lì, a scherzare passi e movimenti senza guardare in basso. E dire che durante la gita scolastica di un anno prima, in una camera d’albergo di Monterosso, mentre al buio ascoltavamo una cassetta di Renato Zero, mi aveva confessato di soffrire di vertigini dal giorno in cui, in piscina, un bambino l’aveva spinta a sorpresa giù dal trampolino… Sentii alle mie spalle la voce perentoria di Marzia dire: «Nora, scendi». L’ammirai per avere parlato. Anche se avevo bevuto una sola birra avevo la sensazione che Nora fosse una visione, e che lo fossero anche Marco e i suoi amici. Marzia era stufa di quella pagliacciata, voleva andare via, ma prima doveva essere sicura che Nora sarebbe tornata sulla terraferma, in salvo, e poi, forse, l’avrebbe convinta a seguirci. Per strada le avrebbe fatto una ramanzina, le avrebbe detto che non era il caso di esagerare, di mandare a puttane la scuola, di fidanzarsi con un deficiente figlio di papà, e di non farci più assistere alle sue stupide sfilate sulle ringhiere dei terrazzi o ad altre bizze del genere. Fissai ancora il pallore malsano di Nora, la fronte sudata, le pupille scurissime, sentii la sua risata farsi più affannosa come se avesse il singhiozzo; a ogni sussulto delle spalle temevo che si sbilanciasse e scivolasse nel vuoto, cioè sul cemento di un cortile interno, senza auto parcheggiate: solo qualche bicicletta addossata alle porte dei garage. Spostai lo sguardo e vidi Marco alzarsi dal divano per aumentare il volume dello stereo; non mi sarei stupita se ci avesse raggiunte per annaffiare i gerani, dedicando a Nora niente più che una smorfia divertita. In soggiorno, regnava il brusio spossato e indifferente degli altri ragazzi, che accompagnavano le parole con gesti vaghi e pose artificiose. Appena scorsi Marzia allungare un braccio verso Nora, entrai di corsa nell’appartamento e mi chiusi in ba98


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gno, temendo di sentire da un momento all’altro un tonfo, un urlo, qualcosa. Mi sedetti sul bordo della vasca, premendomi sul viso un asciugamano, e pensai che io e Marzia ci avevamo provato a capire cosa l’angustiava, se era il recente divorzio dei genitori o la fragilità di scegliere cattive compagnie. Ma ora era fin troppo chiaro che non si trattava più di un temporale di breve durata. Nora ci aveva invitate lì illudendosi che fossimo ancora un indivisibile terzetto e che avremmo vissuto insieme un’esperienza che lei considerava favolosa. Aveva dovuto ricredersi. E adesso era là fuori, in cima a una ringhiera, e ci feriva senza rendersene conto; era là a fare il suo balletto pericoloso: ovvio che il suo non era più un debutto, un esperimento, ma un vicolo cieco. Nessuno di noi immaginava che si era solo all’inizio di quella moria che avrebbe disarcionato, per sempre o per poco, tanti dei nostri coetanei. Io e Marzia saremmo uscite indenni da quella ecatombe di aghi ipodermici, lacci emostatici, overdose nei parchi, epatiti. Ma quella sera non lo sapevamo. Quella sera tornammo a casa senza dirci nulla per un lungo pezzo di strada, preoccupate, arrabbiate, tradite da una specie di umiliante “appuntamento al buio”. Nora sembrò accettare la nostra delusione con quieta disinvoltura. Sì, certo, alla fine era scesa dalla ringhiera esclamando: «Et Voilà», come un circense dopo un numero riuscito. Io e Marzia ci eravamo sentite prese in giro e avevamo scosso la testa, brontolando un paio di parolacce. Lei ci aveva canzonato per le nostre espressioni materne e accusatorie, poi, facendosi spazio tra le braccia di Marco, aveva ripreso a tirare. Fino al giorno in cui Nora lasciò per sempre il liceo, la vedemmo entrare in classe pelle e ossa, grigia come un muro che trasuda umidità; sul viso, un disarmo assoluto, privo di fierezza, come se il processo delle occhiate non le pesasse. Si muoveva legnosa tra i banchi o nel corridoio, fumando una Muratti dietro l’altra; a volte delirava in tono febbrile la sua passione per la morte e ci diceva che aveva trovato un suo modo per cambiare i connotati alla realtà e 99


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renderla ammissibile. Marzia mi ripeteva che era stanca di farle da paraurti e che non c’era altra soluzione che starle alla larga, anche per non essere sue complici e farle capire che sbagliava. Per Marzia, la droga era una lussuosa dipendenza, ma soprattutto una vigliaccata; io invece, nella mia ingenuità, pensavo che un alieno avesse preso domicilio nella pancia della mia amica e che bastava attendere che il mostro uscisse fuori, liberandola da un oscuro incantesimo. Marzia diceva che non c’erano dottori, maghi o esorcisti che potessero guarire Nora dalla sua passione distruttiva per Marco, causa principale del problema; io sapevo solo che se ne avessi parlato con la madre, Nora non me lo avrebbe perdonato. Perché dovevamo sentirci responsabili delle paturnie di Nora – insisteva Marzia – dei suoi occhi gonfi, delle sue labbra spaccate, dei pessimi amici con cui ci aveva sostituite? La scelta, in fondo, era stata sua. Timorosa, continuavo a sorriderle in classe e a sperare che tornasse quella di prima: quella che mi scriveva sul diario i versi di Gozzano, che si chiudeva con me nei camerini dei negozi a provarsi i vestiti, quella che amava alla follia Helmut Berger e ne baciava la foto, quella che rubava i mignon di liquori nei supermercati, che saliva sul banco a declamare Neruda; quella con cui mi scambiavo i rossetti, che mi scriveva lettere dal mare; quella che suonava i tamburelli alle feste e che telefonava a un ragazzo che piaceva a entrambe e poi scoppiava a ridere… Cosa ne aveva fatto della sua allegria? Di quella sua attitudine a ridere di tutto, di cogliere sempre il lato comico delle cose? Perché, adesso, aveva sempre lo sguardo fuori fuoco, i brufoli, e il freddo, quel freddo che ti gelava appena le andavi vicino? Cosa faceva delle sue sere, come le passava? Saliva ancora sulle ringhiere dei terrazzi? C’era qualcuno a fermarla, a prenderla, ad afferrarla in tempo? Quell’anno ero a rischio in alcune materie e trascorsi quasi tutto il mio tempo a studiare, da sola o con Marzia. Per lenire il mio senso di colpa nei confronti di Nora, preferii ascoltare la mia versione e non la sua: lei aveva finalmente trovato un sedativo per le sue agitazioni e non aveva intenzione di privarsene. Come Leopardi che 100


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studiavamo quell’anno, Nora, che era più precoce di noi, doveva avere già capito che amaro e noia è la vita, che la felicità è irraggiungibile, che l’infinita vanità del tutto… eccetera eccetera. A sedici anni la vita appare troppo lunga per pensare al peggio, così mi sforzavo di credere che un giorno Nora avrebbe accettato la realtà senza più dannosi palliativi, senza sconti di pena, con tutta la lucidità e l’amor proprio di quando l’avevo conosciuta. Non ce l’aveva né con me né con Marzia; si sentiva ormai troppo diversa da noi per reclamare una qualche prova d’amicizia. Mi bastava osservarla di sfuggita per capire che la sua angoscia si sarebbe arrestata solo al prossimo buco e che il pozzo scuro che teneva negli occhi era troppo profondo per rendere comprensibile il mistero della sua infelicità. I compagni le fecero il vuoto intorno, e gli insegnanti non furono da meno; d’altronde, da una che era sempre stata un po’ bizzarra, sopra le righe, cupa o euforica a seconda dei momenti, era logico aspettarsi che l’adolescenza, con tutte le sue crisi, sarebbe presto passata come un raffreddore di stagione. Un giorno guardai il suo banco vuoto e poi notai il mio diario aperto. Nora mi aveva scritto: “Quando una meteora attraversa l’atmosfera terrestre, l’attrito l’arroventa fino a farla risplendere e puoi vederne la caduta”. Si era firmata “Stella cadente” e aveva aggiunto un piccolo “Ciao”. Ci dissero che per problemi di salute non avrebbe terminato l’anno scolastico. Più avanti scoprimmo che era finita in una comunità di recupero, e anni dopo che era stata arrestata per spaccio. Poi, piano piano, non sentimmo più parlare di lei. Ma io la vedo ancora, a distanza di anni, camminare sul filo di quella sera d’aprile, guardandoci dall’alto di un invisibile trapezio, senza una rete di protezione ad aspettarla, o un cofano per attutire il colpo, o un materasso, niente. Non ne aveva bisogno. Il suo vero passo falso era già avvenuto, annullando il senso di quella piccola sfida. A volte, quando guardo i gatti saltare da un tetto all’altro delle vecchie case del centro storico, la immagino balzare come loro, agi101


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le, serafica, ordinariamente temeraria, e mi chiedo se, col tempo, l’amore l’ha trasformata in “angelo con ali formidabili”, come quella canzone di Dalla che sapevamo a memoria, o se il veleno del dolore, per lei, ancora, non conosce antidoto.

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Santu Paulu meu de le tarante ca pizzichi le caruse miezzu l’anche Oh mamma comu balla la taranta la pizzicau Oh mamma comu balla la taranta la pizzicau La pizzicau allu core mamma mia ce dolore la pizzicau allu core mamma mia ce dolore Chissà com’è che le era venuto in mente questo ritornello, da dove risalito a galla nella memoria. Anni che non sentiva cantare quella canzone, che nemmeno lei se n’era mai ricordata, anni e anni passati da allora. La prima volta che l’aveva ascoltata era una bambina seduta su un gradino dell’aia che guardava i grandi ballare nel grande cerchio di pietra. La festa di fine estate. La sua famiglia non era di origini contadine, anzi piuttosto borghesi, ma certe tradizioni nella sua terra erano care a tutti, ognuno le rispettava e non mancava di celebrarle con i riti da sempre compiuti. E poi era bello – non solo atto dovuto – salutare insieme la stagione morente: balle di fieno ammassate, campi ormai deserti senza più frutti, olivi asciutti, e solo le vigne ornate sfacciatamente della prima uva in disordinato merletto. La bellezza, la bellezza nella sua gloria più dorata. E poco dopo sarebbe stata presto l’altra festa – la vendemmia – e altre canzoni allora e altre storie e mistero. Fimmene fimmene ca sciati a vendemmiare, sutta allu ceppune ve faciti fare. Cosa, cosa si facevano fare sotto il tronco torto del vigneto? Ma 103


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la fitta improvvisa in mezzo alle gambe già suggeriva la risposta che il suo corpo avrebbe scoperto con certezza solo molto dopo. Da ragazzina lei non ballava molto, anzi per niente. Era schiva, ritirata in sé stessa come una risacca di mare all’ora della secca. Ma le piaceva, quanto le piaceva guardare, osservava gli altri con attenzione acuta, beveva con gli occhi ogni gesto e movimento. E inconsapevolmente memorizzava. Guardava le cugine grandi con le gonne lunghe e leggere che ballavano allegre cercandosi tra loro, rifuggendo invece i maschi che poi le andavano ad accerchiare, uno per ognuna. Giustamente, come prevedeva quella danza, cosciente più di chiunque altro al mondo del modo di comportarsi di donne e uomini. Guardava le bambine piccole che saltellavano con una maestria insita già nei giovanissimi corpi, e i bambini che picchiavano con mano impegnata ed espressione assorta sui tamburelli – gruppetto di funghi spuntato accanto ai musicisti adulti a cui arrivavano poco più che a mezza gamba. E guardava la madre che teneva il tempo della musica battendo le mani in un applauso ritmico, con l’aria di godersela un mondo a vedere i giovani che erano in festa sull’aia. La Rosanna, una delle poche ragazze che suonavano invece di ballare, ogni tanto lo gridava: “Siamo in festa! Siamo in festa!”; lei era nata per quello, suonare e stare in festa: dove ce n’era una la trovavi. E non c’era nessuno che sapesse soffiare nell’armonica come lei. Poi aveva visto la nonna. La nonna che aveva cucinato tutto il giorno, come sempre faceva per quelle occasioni, si era seduta vicino a lei su una seggiola impagliata e la carezzava sui capelli con gesto regolare, a ritmo, perché anche lei sentiva la musica. Ma a lei era venuta paura che potesse cadere dalla sedia perché era mezza sfilacciata, una di quelle che si tenevano fuori nelle aie e nei giardini e si mettevano in uso solo quando c’era tanta gente. La teneva sempre un po’ d’occhio, la nonna, si sentiva di dover fare così: proteggerla. Nonna ce faci, nun è na sedia bona chista. Bedda, statti tranquilla ca suntu seduta allu crucicchiu. 104


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Effettivamente la nonna si sedeva sempre a quel modo, in pizzo e un po’ di lato alla sedia, quasi sull’angolo all’incrocio dei legni. Non doveva preoccuparsi. La voce aveva suonato come richiamo e lei aveva alzato gli occhi incontrando i suoi. Che belli gli occhi della nonna, ddoi gocci di cielo, aveva ragione il nonno che non c’era più. Da tanto. Lei quasi non lo ricordava, era un corpo grosso e vago nella memoria, se n’era andato che era bambina, praticamente non lo aveva conosciuto. Ma questo era il meno. Suo padre. Suo padre lei non lo aveva conosciuto proprio. Suo padre era stato la nonna. O forse, a essere più attenti ai ruoli fissati per tradizione, la nonna le aveva fatto da madre, e la mamma da padre. La mamma che lavorava fuori casa gran parte del giorno, la mamma con i suoi modi spicci e a volte duri, quel carattere teso, energico, a tratti dominatore… Tendeva a imporsi sempre, a dire sempre la sua. Si era fatta uomo in assenza del suo. E fin qui. Ma non cucinava mai. Solo, alle volte, il pesce. Nelle rare occasioni, quelle dei pranzi o cene di famiglia, tutti seduti torno torno la grande tavola apparecchiata col servizio bello. Se no mai, neanche una minestra, un uovo in padella, nenzi. Diceva che la sua voglia di cucinare – anzi la sua capacità proprio – se n’era andata via assieme al marito, come se lei fino a quel momento avesse cucinato a quello scopo preciso in primo luogo: nutrire lui. Non era tipo da coccole la mamma, giusto il bacetto della buonanotte la sera, un tocco leggero sulla spalla la mattina per svegliarla e ogni tanto qualche carezza ruvida sfuggita come per sbaglio alla sua affettuosità trattenuta. Le sceglieva i vestiti, questo sì. La domenica soprattutto. I bei vestitini da bimba con il corpetto ricamato a punto smoke, o le gonne a fiorellini con le camicette bianche dal colletto merlettato, le calze traforate di cotone bianco, le scarpette lucide col cinturino. E quando l’aveva vestita tutta per bene, s’incantava per un momento a guardarla e poi esclamava soddisfatta: 105


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Ah bedda, bedduzza mia! Così lei sapeva che sua madre l’amava. Quando lei era cresciuta e la madre non aveva più potuto esercitare il diritto alla vestizione, la loro unica zona di contatto si era dissolta. Ecco, ora lo sapeva com’era successo. Com’è che le era venuto in mente quello scampolo di canzone e la festa d’estate e poi a ruota tutto il resto a ritroso fino a ritrovarsi vestita da bambina perfetta – lei che ora era nu masculo fatto preciso. Sempre in jeans o pantaloni cargo, maglietta sformata e felpa o camicia e golf, giacchetta di tessuto antipioggia per ogni evenienza e macchina fotografica al collo – la sua propaggine, il terzo occhio. Adesso che riguardava non del tutto soddisfatta le centinaia di foto che aveva scattato alla processione, lo sapeva. Era stata una bambina. In quella sequenza interminabile di immagini simili che parevano fotogrammi di un film in costume, l’aveva ritrovata. Eccola là, la bambina che lei era stata. Tra le migliaia di donne e ragazze e bambine e addirittura infanti poco più che neonate, tutte abbigliate con i costumi barocchi della tradizione valenciana (damaschi e broccati che grondavano ori e fiorami da tutte le parti) era rimasta impressa, nella pellicola e sulla sua retina, la figuretta smilza e pulita di una ragazzina. Vestita a festa ma non così a festa come tutte le altre: una vestina a fiori leggera senza la meringa ingombrante della sottogonna, le scarpette nere col cinturino anziché gli scarpini di stoffa uguale al vestito, e i capelli in una zazzeretta a ciuffi quasi incolta invece che gli chignon lisci e posticci arrotolati in interminabili spirali. Maruzzelle li chiamava la nonna i capelli attorcigliati a quel modo, e ogni tanto ci provava a fargliele ma i suoi capelli erano troppo corti e indocili. Chissà se era una bambina povera o soltanto ribelle, se d’una famiglia che non poteva permettersi intero il costume o se la madre gliel’aveva comprato e lei non aveva voluto saperne di conciarsi co106


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me una bambola da vetrina, nonostante fosse circondata da un’adesione collettiva entusiastica alla trasformazione di tutti – per quei pochi giorni sacramentati – in manufatti di porcellana e plastica. La città viveva tutto l’anno per quella esigua settimana, si nutriva d’attesa mese su mese, giorno dopo giorno, per prepararsi, gonfiarsi ed esplodere nei giorni del San Giuseppe a Las Fallas. Lei che pure era avvezza a feste patronali sontuose, a celebrazioni popolari solenni, grandiose e lacrimate del culto di Maria (amatissima e sempre molto invocata dalla nonna) non aveva mai assistito a una devozione mariana sfrenata a tal punto. Quella festa era un incrocio tra il carnevale di Viareggio, il capodanno a Napoli e la processione a mare della Madonna nel suo paese a ferragosto. Era un tripudio, si faceva a gara in tutto giocando al rialzo. Sfilate in costume, sculture allegoriche, fuochi d’artificio. I giorni immediatamente prima del 19 marzo, festa di San Giuseppe, le vie del centro città diventavano il tappeto rosso steso al passaggio di una parata incessante. Le mamme con passeggini o carrozzine per i neonati, dietro le bambine piccole, poi le ragazzine e le ragazze più grandi e dietro ancora le donne; poi i bambini, i ragazzi e gli uomini: tutti quanti, senza esclusioni di sesso né età, abbigliati nei costumi prescritti dalla tradizione. Dietro l’ultimo gruppetto degli uomini, uno sprazzo circense: la banda che, in quanto tale, godeva la grazia della divisa abituale: completo nero o blu con camicia bianca – bastando le mostrine dorate e gli ottoni a lucido per non spezzare il filo d’oro che dalla prima comparsa arrivava all’ultima. E dopo la banda si ricominciava: donne con passeggini, bambine, ragazze e via a seguire fino ad un’altra banda e poi da capo, una moltitudine, una miriade di persone travestita in carnevale tardivo: ogni quartiere, ogni piccolo barrio sfoggiava la sua gente, gli uni dopo gli altri in orgoglio ordinato, riempiendo le strade principali dalle quattro del pomeriggio fino alla mezzanotte, ininterrottamente per due giorni. Ad un certo punto le era venuto il dubbio che girassero dietro un cantone e ricominciassero dalla partenza: possibile che la popolazione di Valencia fosse una folla tale? 107


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Le donne avanzavano lentamente, incedevano, quasi spose verso l’altare, ognuna con il suo abito cerimoniale e il bouquet in mano – fascio di garofani bianchi, rosa o rossi – per comporre il vestito della immensa Vergine di legno; ordinatissime, in file rigorose di cinque, fiere di quelle ore di gloria come rivelavano il petto proteso e il sorriso fisso di chi è pronta e anche bendisposta a diventare immagine. Ognuna davvero era degna d’essere immortalata da uno scatto, ogni veste pur simile era diversa dalle altre (i sarti impazzivano nello sforzo di non realizzarne due uguali) e ancor più diverso era il vestito della fallera major, l’unica che sfilava sola, rappresentante suprema del suo barrio scelta secondo misterioso criterio, ma certo non per età né per bellezza come appariva evidente. Forse per la religiosità della persona o della famiglia, ma come si misurava la devozione? Comunque l’abito della major nel suo slancio verso l’eccezione sembrava spesso un incrocio tra una tenda e un divano o alla meglio un arazzo; meglio i vestiti simili delle cinque a cinque improbabili castellane – che pure ricordavano a volte tessuti d’arredo. E meglio ancora l’abbigliamento povero o rivoluzionario della ragazzetta maschiaccio costretta – ormai lei se ne era convinta – a partecipare suo malgrado. Glielo diceva l’angolo di sorriso in cui aveva sorpreso la sua bocca nella foto, era l’espressione di malcelato trionfo di chi è riuscita a non cedere all’imposizione altrui. Se avesse potuto scegliere lei l’ordine delle foto, avrebbe aperto il servizio con quell’immagine, mentre con ogni probabilità in redazione sarebbe stata addirittura scartata… no stavolta si sarebbe impuntata, magari in ultima pagina, in chiusura, una foto piccola in fondo, ma ci doveva essere: quella volontà e originalità e coraggio andavano mostrati. Mentalmente si appuntava la didascalia: trasgressioni alla tradizione o addirittura: una ribelle in processione. Quella ribellione le era familiare, era quella che aveva conosciuto anche lei: il morso che l’aveva spinta a lasciare tutto a diciott’anni e cominciare la sua vita altrove. E pure c’era qualcos’altro che le era familiare là in mezzo, nel cuore di quel caos ordinato; in quella cascata di stoffe multicolore 108


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che ricopriva ogni donna, qualcosa su, su in cima, lo zampillo: il velo di pizzo nero fissato sul capo e ricadente sulle spalle fino a mezza schiena. Quel velo era esattamente lo stesso della sua tradizione, un velo così ce l’aveva la nonna e anche la mamma, e doveva essercene nell’armadio grande di casa sicuramente anche uno per lei tenuto da parte con cura, anche se lei non l’avrebbe mai messo. Era la prima volta che un lavoro all’estero la riconnetteva così alle sue radici. A tradimento. Quella festa le si era stretta intorno come una congiura. Per la sua professione era abituata ai bagni di folla, con il suo fisico agile – e il tesserino da fotografa – ci sgusciava facilmente in mezzo, aderendo duttile al corpo immenso della massa o sfuggendo alla calca nei minuscoli spazi di vuoto che con occhio allenato coglieva al volo. Ma ad un certo punto tutta quella gente le era sembrata ingestibile, eccessiva, insopportabile. Ogni tanto si sorprendeva a doversi fermare a riprendere fiato, una volta ad appoggiarsi ad un muro per non cadere. O era forse anche il caldo, un caldo improvviso, innaturale per la stagione. Ma la verità era che ognuno degli eventi previsti dal calendario aveva rivelato poi, nel suo avvenire, un risvolto imprevedibile che risvegliava una memoria di cose lontane eppure misteriosamente connesse ad esso. Cominciata con la ragazzina e i veli di pizzo, la concatenazione di anelli era continuata senza scampo. Lasciate le vie della processione si era rifugiata in una piazzetta sul retro della cattedrale; ma si scorgeva ancora, da lì, l’enorme struttura lignea della Madonna che cominciava a sfoggiare il suo vestito: il retro era ormai completato e i mazzi di garofani rosa e rossi disegnavano, in mezzo a quelli bianchi, uno spettacolare fiore-sole centrale e, al di sotto, degli arabeschi in bordura. Era una visione stupefacente, un eccesso di bellezza che dava alla testa. Bella come la sua Madonna che andava in processione sul mare, una statua così perfetta che pareva vera. Dopo l’irrinunciabile foto si era dovuta girare. Nella piazzetta almeno si respirava un buon profumo. Erano gli alberi di fiori d’arancio che cominciavano a sbocciare e a sera l’odo109


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re si spandeva più forte, l’aria era tutta impregnata di quel sentore denso e dolce. C’era poca gente, un gruppetto in un angolo che guardava qualcosa. Si era decisa ad andare a vedere, magari riusciva a scovare qualcosa di diverso dallo sfarzo continuo di quei giorni d’artificio. Avvicinandosi aveva cominciato a capire: si sentiva nitido il battere dei tacchi sul legno che rivelava i ballerini di flamenco; li aveva intravisti sopra le spalle e tra le teste degli spettatori e insinuandosi se li era trovati davanti. Un uomo e una donna, magrissimi, sudati, entrambi con i capelli lunghi e neri, lei legati in una coda, lui liberi sulle spalle; erano vestiti in modo abbastanza semplice – soprattutto rispetto a tutta quella magnificenza: pantaloni neri e camicia nera lui, lei con un abito tutto nero fino ai tre quarti della gonna, con dei fiorami colorati solo sulla balza al fondo. Dal sudore era evidente che ballavano da un pezzo, ma non sembravano aver intenzione di smettere, i loro passi e gesti non tradivano stanchezza, ogni movimento pareva più forte ed enfatico del precedente, la loro danza cresceva, cresceva da far credere che alla fine avrebbe spaccato le assi del tablao improvvisato. E lì le aveva sussultato il petto. Un attimo prima di battere il colpo di tacco finale, si erano avvicinati, i visi accostati, i corpi vicinissimi, le braccia di lei in alto e quelle di lui una in alto e l’altra in semicerchio attorno alla vita di lei; e in quella posa avevano compiuto una sequenza di passi in diagonale, simmetrici, speculari. Senza toccarsi. Senza nemmeno sfiorarsi. Le erano sembrati, no, era più che un’apparenza, erano proprio i passi di un’altra danza, di quella danza. E poi aveva visto il cartellone di cartone posato dietro di loro a poca distanza, con la foto grande dei due in una posa di scena e il nome: Los Tarantos. Una persecuzione. Quando il ragazzo era andato in giro per il semicerchio di spettatori a raccogliere le offerte in un cappello, al suo turno, mentre lasciava cadere tutte le monete che aveva (l’arte merita compenso, si diceva, soprattutto se esercitata per strada) aveva trovato il coraggio di chiederglielo, nel suo magro spagnolo: 110


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Los tarantos… es el nombre de vuestra compañía de baile? Sì. Es un homenaje a la mas grande bailaora de flamenco: Carmen Amaja. Conosces? Ay una pelicula con ella que se llama así, Los Tarantos: eran gitanos. Porque queria saberlo? Nada… curiosidad. Gracias. Troppo lungo e difficile mettersi a spiegare in spagnolo stentato e inventato tutta la storia che c’era dietro, il nome della danza e del ragno nel suo paese, le connessioni, la mitologia… Aveva deciso di liquidare la coincidenza come uno dei tanti passaggi mediterranei di genti con relativa trasfusione di nomi e cose: come le piante d’agrumi o di palma in Spagna e Sicilia, o la forma dei numeri non romani o il nome del cielo chiaro, azraq: azzurro, tutto portato dagli Arabi. Certo non il colore del cielo. Dovevano essere stati gli zingari a portare il nome e la cosa dalla sua terra a lì, in molti paesi delle sue parti c’erano tribù gitane, sì dovevano essere stati loro, gli zingari. Chissà quando, chissà come. O il viaggio magari era andato all’inverso, da lì alla sua terra: chi poteva saperlo con certezza, ricostruirne l’origine remota? Che beffa se la taranta, orgoglio e pena del Salento, si fosse scoperta di importazione spagnola. Come si era messo a lavorare il suo cervello, bastava un bagliore lontano e ci si lanciava dietro al galoppo… Addirittura si era ricordata di una cosa che aveva detto al liceo l’insegnante di storia: Taranto, la città si chiamava così dal nome del fondatore greco, Taras. E se fosse stato lui l’antenato di tutti i tarantati? Aveva bisogno di riposare, aveva camminato, girato, visto e fotografato troppo, le sembrava di non reggersi più in piedi. I ballerini intanto avevano ricominciato a battere i loro piedi a terra, i tacchi, le punte, i tacchi, le punte. Schiacciavano senza saperlo l’invisibile ragno. Invisibile un accidenti. Nero, enorme, al centro di una tela perfetta, stendeva la sua minaccia sopra di lei. Per un momento aveva creduto di avere le allucinazioni, poi di averlo evocato con le sue elucubrazioni mentali. Era stata sul pun111


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to di sentirsi male. Poi aveva guardato meglio. Era finto. Senza accorgersene era finita quasi dentro una delle fallas, le costruzioni allegoriche che punteggiavano tutta la città. Ogni piazza e piazzetta aveva innalzato al cielo il suo trionfo di cartapesta, sculture immense e spesso sghimbesce in sfida alla legge di gravità: caricature grottesche di personaggi politici o di artisti famosi, eroi della storia o dei cartoni animati, immagini di arti e mestieri, di eventi sportivi, o altro ancora. Ce n’era una in ogni piazza, anzi due. Questo le aveva strappato un moto di tenerezza: accanto alla costruzione più grande, un poco discosta, ce n’era sempre una piccolina, quasi minuscola in proporzione (anche se in realtà a misura d’uomo), fatta per i bambini. Quella dei mostri sotto cui era finita era una di queste. Tutte le fallas concorrevano per vincere il premio alla più stupefacente-incredibile-pazzesca; e naturalmente ogni anno si cercava di esagerare in ogni modo per superare quelle dell’anno precedente. Il premio, aveva saputo, consisteva in mezz’ora di tempo. Lì per lì non aveva capito. Poi una ragazza della consierge dell’albergo le aveva spiegato che a mezzanotte del 19 marzo tutte le fallas venivano bruciate fino ad essere completamente ridotte in cenere, tranne la vincitrice. Che veniva bruciata mezz’ora dopo. Porqué estan borrachos, claro. Ma vuoi mettere il prestigio per la piazza che l’aveva sfoggiata e che godeva il suo rogo tardivo nel cuore della notte? A lei era venuto il dubbio che ci fosse anche una soddisfazione materiale, una somma di denaro o almeno una coppa scenografica, tipo una Copa Davis de las Fallas perché altrimenti era assurdo. Tutto quel lavoro e quelle creazioni e i soldi spesi per realizzarle: tutto in fumo in una notte, anzi meno, in una manciata di ore, il tempo per i pompieri di correre a scapicollo da un rogo all’altro controllando che bruciassero solo le fallas e non le piazze intere e poi tutta la città. Così il festeggiamento per San Giuseppe era una miriade di incendi che divampava ovunque nel centro, nuovi roghi innocui che ardevano sulla pira corpi di cartone. Ma dava ugualmente i brividi 112


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vederli, soprattutto quelli delle fallas infantiles che erano all’incirca a grandezza naturale: quando le statue dei personaggi venivano lambite e poi attaccate e divorate dalle fiamme rapide della benzina… al primo rogo le era parso di sentire gemiti e grida di strega condannata. Le si drizzavano di nuovo i peli sulle braccia a rivedersi davanti le foto. Auto da fé. Memoria dell’inquisizione. Purificazione simbolica. Delirio, follia. La gente era invasa da un’ebbrezza, un’esaltazione collettiva. Tutto sembrava diventare lecito, ogni atto compiuto in quei giorni acquisiva un’aura sacrale, si faceva rientrare nella sequenza rituale della cerimonia; anche ubriacarsi fino a star male, fare l’amore in un canto di strada, partecipare a una rissa di cui si ignorava il motivo. Ne aveva viste diverse di queste scene. Le conosceva. Non erano in nulla dissimili dagli esiti di quell’estasi che produceva la musica nella sua terra. Lei lo sapeva, lo aveva provato. Era andata così anche per lei. Era stato dopo una di quelle feste della stagione, quelle con i balli e i canti in piazza fino all’alba. Non aveva ballato, lei, si vergognava a ballare, ma aveva un po’ cantato questo sì, e molto bevuto. Col suo gruppo degli amici stavano molto allegri, ridevano, si spintonavano, tornavano a casa a piedi schiamazzando per le stradine. Ad un certo punto uno di loro l’aveva presa per mano con gesto diverso dai modi di fratellanza consueta. Lei non sapeva nemmeno se le piaceva o no, stava bene con tutti e in particolare con nessuno; ma si sentiva più viva, accesa da musica e vino, desiderosa di nuovo anche se non sapeva bene di cosa. Lo aveva seguito al di là di un muretto, nei campi, tra gli olivi. Sutta allu ceppune. Era tornata a casa così tardi che ormai era diventato presto, era passata dal vialetto piano piano con le scarpe in mano ovattando i rumori. Dietro l’angolo era apparsa la nonna che a quell’ora si alzava. Viva sei? 113


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Na, non lo so. Va’ te curca, ca’ nu te vide to’ madre. Un leggero sorriso era scorso d’intesa tra loro. Poi il sonno spossato del mattino e il risveglio confuso nel calore pieno del giorno. La sua testa ricordava a tratti, miseri inutili frammenti; il corpo tutto. Era bello, era brutto, non sapeva dire. Era stato necessario, lì, in quel momento. Le era sembrato che fosse necessario. Come tutto quel caos preparato con cura. Un rito di tali proporzioni che era previsto che qualcosa potesse sfuggire al controllo; e dunque, visto che poi così era, anche le fughe ne facevano parte. Tutto rientrava. No, per lei no. Lei non era rientrata. Aveva detestato perdere il controllo di sé in quel modo, a quel punto, tornare animale immemore, diventare oggetto di istinti, suoi e altrui. Lei coltivava l’idea di un’intelligenza lineare, una vita logica: si era fatta convinta che il paese fosse portatore – colpevole – di una mentalità dissennata, brutale, scandalosa. Per la sua terra nella stessa misura provava amore e insofferenza. Le bruciava sulla pelle un fastidio rabbioso quando osservatori famelici scivolavano dietro finestre e angoli di muro per spiare delle povere isteriche rotolarsi a terra; scattava come se l’avessero graffiata quando le chiedevano se c’erano ancora, se ancora si potevano vedere quelle donne. Non era, non poteva essere, solo quella la sostanza della sua terra, ma finché la gente si fosse comportata così, così sarebbe parso al mondo. Andarsene, altrove, era stato un sollievo crudele, al di là del dolore per la rinuncia quotidiana alle donne del suo sangue. Quel lungo guardare e guardare davanti a sé esercitato fin da bambina le era stato natura e fortuna. Molti degli amici dopo il liceo avevano tergiversato a lungo prima di capire cosa volevano davvero, si erano parcheggiati nella città vicina in una qualche facoltà universitaria tanto per, o avevano accettato il primo lavoro che era capitato, o si erano precocemente trovati (in genere trovate) un figlio addosso. Lei lo sapeva da sempre che voleva fotografare. Si era 114


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messa a seguire quello che faceva le foto a tutte le feste e le sagre e si era offerta di aiutarlo gratis per imparare il mestiere; era riuscita a trovare un corso di fotografia in un paese vicino due pomeriggi a settimana; e poi aveva vinto una borsa di studio per l’Istituto Superiore di Fotografia di Torino. Una città asettica ed evoluta, rapporti mediati, formalità. Ci si era adattata bene. La distanza dal suo paese era tale che era impensabile andare a passarci il fine settimana; ci tornava ogni tanto, al compleanno della mamma e della nonna, qualche giorno durante l’estate, e in genere alle feste comandate – ma non era detto perché per il suo lavoro potevano chiamarla in qualunque momento. Attraverso la macchina fotografica aveva scoperto come filtrare il mondo. Tutto ci passava attraverso prima di arrivare a lei; anche quando non la stava usando guardava comunque ogni cosa come un’inquadratura. Così aveva stabilito la giusta distanza, aveva trovato l’intervallo spaziale da frapporre tra sé e il resto per affrontare qualunque situazione. Ma non si era mai trovata in un luogo che le ricordasse tanto la sua terra, mai prima di quel momento. Uno scoppio più forte degli altri l’aveva quasi fatta saltare, anche se ci si era ormai abituata perché era un continuo, fuochi d’artificio a raffica tutte le sere e tutti i pomeriggi e una volta anche al mattino. Col cielo azzurro e il sole pieno, che i fuochi non si vedevano se non pallidamente, sembravano disegni a matita sbiaditi o foto venute male, ma tant’era: la gente si era radunata in folla, migliaia di persone. Più che ad uno spettacolo di fuochi d’artificio le era sembrato di essere sotto un bombardamento. Le era parso assolutamente inutile restare in quella piazza a vasca un minuto di più e se n’era andata per la direzione opposta a quella da cui la gente continuava a riversarsi. Una specie di urlo da stadio l’aveva investita. In effetti era arrivata ad uno degli ingressi sotto il grande stadio circolare. Poi un altro boato. Ma niente fischi dell’arbitro. Allora aveva capito: non c’è 115


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arbitro alla corrida. Se avesse saputo che sarebbe arrivata all’arena non avrebbe proprio preso quella strada: voleva tenersi lontana dal luogo della mattanza; per principio. Ma ora che si trovava lì sotto bruciava dalla tentazione di entrare, la sua istintiva repulsione era combattuta da una fascinazione quasi più forte. Dal punto in cui era finita, dietro una cancellata nera, si vedeva un lembo del campo attraverso le tribune. Aveva attorcigliato le dita alle sbarre e infilato la testa in mezzo imitando un gruppo di ragazzi. Da lì si vedeva bene, quando il toro e il torero passavano si vedevano già inquadrati. Ma poi scomparivano presto di nuovo e solo il silenzio o le grida del pubblico suggerivano l’accaduto. Poi era venuto un ometto, una specie di custode, ad aprire la grata e i ragazzi si erano riversati dentro come un corpo unico in cui era stata inglobata anche lei. A volte facevano entrare anche i senza biglietto per l’ultimo toro. Ed eccolo. Non aveva saputo andarsene, qualcosa le teneva i piedi inchiodati sulla rena. Il torero era impettito e fiero, teso come un arco e un atleta. Il toro era comparso come un miraggio. Tutto era come doveva. Lei li aveva guardati attraverso la macchina fotografica, aveva montato il teleobiettivo con cui riusciva a distinguere perfino le espressioni del viso. Il toro si era mosso, era arrivato di corsa e il torero l’aveva rapidamente scartato; poi si era girato e ora si fronteggiavano. Il torero muoveva il mantello rosso e viola lentamente, come un enorme ventaglio, lo strusciava a terra, lo apriva e lo rigirava; ma il toro non si muoveva. Il silenzio sugli spalti era tangibile come un sasso. Aveva guardato meglio nel teleobiettivo: oltre al mantello, il torero muoveva qualcos’altro di rosso; impercettibilmente ma lo muoveva. Le labbra. Per un istante aveva creduto che stesse pregando, che stesse mormorando tra sé e sé qualche litania religiosa o una frase scaramantica. Ma il suo sguardo era fisso negli occhi del toro. Stava parlando a lui. Il torero stava parlando al toro. E il toro si era mosso di nuovo. A destra, a sinistra: derecha iz116


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quierda avrebbe giurato che dicessero le labbra del torero – e il toro aveva eseguito. Sempre così mormorando aveva guidato il toro nella danza fino alla sua fine. Suggerendo, indicando, ordinando ogni volta. Non era riuscita a capire le parole, quasi nessuna, ma il rapporto di causa ed effetto le era apparso lampante. Il toro appariva ammansito, ammaestrato, ipnotizzato; si era quasi inchinato per essere matado. La folla non lo aveva capito, aveva tremato credendo l’abbassarsi della testa il preludio ad un’incornata. Solo lei attraverso il teleobiettivo aveva letto la parola che incantava. Ma non aveva capito quale. Le era sembrato di leggere josé, ma che voleva dire? Con la corrida, il suo cerchio lì si era chiuso. Al ritorno, si era messa a riguardare le foto fino a consumarle. La bambina ribelle, le donne in costume, la Madonna di fiori, le fallas in fiamme, i ballerini e il ragno, il torero e il suo toro. Ohi mamma comu balla la taranta la pizzicau La pizzicau allu core, mamma mia ce dolore… Aveva deciso. Era tempo di ritornare. Non per qualche giorno, per una festa o un compleanno; era tempo di ritornare senza motivo e senza scadenza. Ritornare e basta. Al giornale era andata a prendersi le ferie arretrate che aveva e alla sua agenzia aveva detto che per un po’ non avrebbe preso lavori. Aveva fatto una telefonata. Vengo giù qualche giorno. Brava bedda mia, la nonna lu sapia. L’allegrezza di quella voce già le diceva che aveva fatto bene. L’aereo fino a Brindisi e poi da lì quel trenino irreale, il due vagoni della Ferrovia del Sud Est, un treno che chi non ha preso non può credere che esista. Quel tragitto là durava più del viaggio in aereo, ma lei non aveva voluto che la venissero a prendere su fino a Brindisi, le serviva quel tratto, quel tempo, per riabituarsi alla sua terra. Durante il percorso aveva guardato un po’ il paesaggio dal finestrino, un po’ le foto che si era portata con sé. Non sapeva bene perché le aveva portate, non era riuscita a lasciarle. Alla minuscola stazioncina del suo paese aveva trovato l’abbrac117


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cio asciutto di sua madre. Ma si vedeva che era contenta da scoppiare di averla lì. Sciamu ca’ la nonna te spetta. Ma comu è ce si’ venuta moi? Na, non importa, era ora. Gli occhi della nonna più trasparenti per la gioia erano due pezzetti del colore di cielo chiaro. Azraq. T’aggiu fattu tuttu quiddu ca te piace. Mangia ca poi me cunti. Aveva mangiato avidamente le cose meravigliose cucinate dalla nonna, in nessun altro luogo aveva trovato mai qualcuno che cucinasse così. E a ogni piatto che gustava risentiva un sapore della sua infanzia. Aveva parlato poco tra un boccone e l’altro, qualche frase così, cenni vaghi sul suo lavoro in giro per il mondo. Guardava la nonna e la madre che la guardavano, si sentiva familiare ed estranea insieme; e si sentiva stanca, stanchissima, anche se era abituata a viaggi molto più lunghi e faticosi di quello che aveva appena fatto. Va’ te curca nu’ picca ca si’ stanca. Ne cunti stasira. Si era stesa docile sul suo letto di ragazzina, si era addormentata subito. Ora mostrava alla nonna le foto che aveva con sé, nella sequenza in cui le aveva scattate – adesso sapeva perché le aveva portate. Le aveva messe in fila una dietro l’altra sulla lunga tavola come fotogrammi ritagliati da una pellicola e la sua voce narrante in fuori campo diceva le didascalie. Come piaceva alla nonna la foto della bambina ribelle, l’aveva presa in mano quasi carezzandola. Ce bedda sta vagnona… me pari tie quannu eri vagnona. Lei non aveva dubbi, era stata subito sicura che alla nonna quella ragazzina sarebbe piaciuta e glielo aveva detto che aveva portato quella foto per farla vedere a lei, anzi per regalargliela. Poi sul tavolo era passata la processione delle mujeres con flores, seguite dagli uomini e dalla banda: come lo risentiva distinto quel concerto continuo, quello scontrarsi di suoni a volte anche fisico. Glielo aveva raccontato alla nonna: le bande, finita la processione, si mettevano a girare libere per le stradine del centro e spesso capitava che due bande si incrociavano nella stessa via o piazzetta e al118


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lora facevano a gara a chi suonava più forte; la nonna ci si era fatta un sacco di risate con quella storia. Poi aveva preso una delle foto delle donne in costume e era stata a lungo a fare apprezzamenti sui vestiti, li toccava uno a uno come se potesse sentire dalla foto la qualità delle stoffe, la pesantezza, il tipo di tessuto. Ma li pizzi nosci suntu cchiù beddi. I ballerini di flamenco non l’avevano interessata più di tanto anche se lei insisteva a dirle che ballavano una danza che a tratti sembrava proprio la stessa che si ballava lì da loro, non poteva essere un caso; ma la cosa non sembrava colpirla troppo. Le gambe sempe ddoi suntu, quanti balli voi cu’ faci? La Madonna vestita di fiori invece l’aveva incantata, l’aveva commossa, aveva mandato un bacio alla foto con la mano come se ce l’avesse avuta lì davanti e lei aveva visto l’azzurro dei suoi occhi tremolare. Chista veramente è na cosa bedda. Alla fine erano entrate nell’arena. Lì lei si era messa in pizzo alla sedia come di solito si sedeva la nonna e si era fatta più attenta: aveva spiegato quel che sapeva della corrida, i gesti del torero, ma quando era arrivata al primo piano del viso con la bocca socchiusa non aveva detto più nulla. Sperava che glielo dicesse la nonna cosa significava, non sapeva perché ma ad un certo punto le era balenata l’idea assurda che lei potesse saperlo. La nonna sorrideva silenziosa. Allora si era decisa a chiederglielo. Nonna, secondo te che fa, perché tiene la bocca aperta? Percé parla cu l’animale. Aveva ragione allora, era stato così e la nonna lo sapeva. E che dice? Nenzi, lu ciama. Come, lo chiama? Sine, lu ciama pe nome. E come fa a saperlo? E tu come le sai queste cose? Era quasi buio, un crepuscolo indaco si stendeva immobile sul giardino dietro la finestra. 119


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Era uscita fuori. Una meraviglia. Le piante appena innaffiate profumavano di più, la menta, il basilico, l’alloro e le rose canine, e quell’anno la madre aveva piantato anche la lavanda; ne veniva fuori un miscuglio che nessun profumiere poteva mai ricreare. Si era messa a passeggiare piano piano tra i cespugli, annusandoli, toccandoli, sfregando le foglioline delle piante aromatiche; poi era tornata indietro verso la casa. Vicino al grande cespuglio di rosmarino sul retro della cucina aveva visto la nonna e si era affrettata incontro a lei, ma la nonna con un cenno l’aveva fermata ad un metro. Aveva alzato l’avambraccio, il gesto che le faceva da piccola quando c’era qualcosa a cui doveva fare attenzione. Non vedeva a cosa, non distingueva nulla nella sera ormai scesa. Stava lì piantata ad aspettare, non sapendo se provare paura o soltanto sorpresa. Magari era spuntata fuori una talpa, o un gattino di quelli belli color miele. Quando finalmente gli occhi si erano abituati al buio aveva capito. Come un nastro buttato a terra, sul vialetto si era srotolato un serpe. Il buio non diceva se una innocua biscia nera o un velenoso serpente dorato. Se lo ricordava: l’unica cosa da fare con i serpenti è restare immobili o battere il terreno con un bastone. Lei il bastone non lo aveva, e nemmeno la nonna. Per lei le era venuto un moto di paura, conservava sempre quell’istinto di proteggerla. Dal braccio già sollevato, la nonna aveva avvicinato la mano alla bocca nel segno del silenzio. Ma poi era stata lei ad infrangerlo. Non poteva giurarlo, nel buio, ma le era parso di vederla muovere le labbra, di sentirla mormorare qualcosa. Aveva creduto che stesse cercando di dire qualcosa a lei, ma si era presto accorta che il suo viso si era distolto, non era più nella sua direzione: era rivolto verso il serpente. Voleva avvicinarsi di più per vedere, per sentire, essere sicura. Cercava, tenendo i piedi ben piantati a terra, di sporgere il busto più avanti possibile per cogliere un suono o un movimento. Era tutto così irreale che a tratti non era sicura di essersi svegliata, a tratti pensava di essere impazzita. 120


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Na, Paulu, Paulu, na. Aveva sentito qualcosa del genere, lo aveva sentito, ne era convinta. Il serpe si era mosso, strusciando a terra con i suoi movimenti serpigni. In pochi secondi se n’era andato via, lontano da lei e dalla nonna, altrove, si era dissolto. Poco a poco aveva ritrovato la voce. Nonna… lo hai mandato via… che gli hai detto? Bedda, ce dici? Nun aggiu dittu nenzi, nui simu state firme bone e iddu se n’è sciatu. Ma no, me l’hai detto oggi quando guardavamo le foto, che gli animali pericolosi si chiamano per nome e loro obbediscono! Bedda mia, nun aggiu vistu nudda foto: tie durmivi. Na, te si’ scantata: statti tranquilla moi, ca’ se n’è sciatu. Ma io ho sentito… Paolo: magari hai pregato Santu Paulu? La nonna già si era avviata dentro casa. Lei non sapeva cosa pensare, cosa credere, cercava di convincersi ma non ci riusciva, le era sembrato proprio di sentire, di vedere… Temeva che la corrida l’avesse fatta impazzire, era da lì che si era fissata su questa storia che si poteva parlare agli animali selvaggi e domarli. Eppure, si era ricordata la Genesi: dopo la creazione, gli animali passano davanti a Adamo perché lui dica a ciascuno il suo nome. Si era decisa a rientrare. In cucina c’era la mamma che stava attenta alle pentole sui fornelli. Lei era ancora così scossa che aveva impiegato un bel po’ per accorgersi della eccezionalità della cosa. Mamma… cucini?! Ogni tanto, nù picca. Per le occasioni, non sai? Stasira percé sì turnata tie. Sei contenta? Sì, certo… Mamma, lo sai che la nonna ha scacciato via un serpente? Mentre lo diceva si sentiva ritornata bambina, piccola, piccolissima, al tempo in cui correva a raccontare alla madre ogni cosa in121


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credibile del mondo che scopriva. A volte le storie che raccontava erano così straordinarie che non ci credeva nemmeno lei. Ah sì? Strano, nun aggiu visto mai serpenti qua attorno. Allora forse il merito è della nonna. L’aveva detto con un sorriso e un tono vagamente canzonatori. Senti ma… è possibile che lei ci parli? Con chi, coi serpi? Ce fesserie! Non ci credi? None, ma figurati. Na, va te lava le mani ca è pronto. Senti mamma, ma tu dov’eri oggi pomeriggio? Aqquai stavo. Sei tu che era come se non ci fossi… dormivi! Nella sala da pranzo la nonna stava finendo di mettere la tavola. Nella luce della sera i suoi occhi erano due laghi fermi. Lei era andata di corsa a riguardarsi le foto. Il torero aveva sempre quella bocca socchiusa nell’atto di pronunciare la parola. E la foto della bambina ribelle non c’era più.

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Li strangolavano con la cadenza degli omicidi d’amministrazione, con la lentezza della morte d’ufficio, senza rabbia e senza passione. Li portavano legati come gli agnelli dello scanna scanna pasquale. C’era chi, aspettando il suo turno, piangeva un lamento sordo, sussurrato. Non ce la faceva a sostenere gli ultimi attimi dell’attesa, l’anticamera delle precedenze a casaccio. Alla fine il boia gridava avanti un altro. Lo legavano alla sedia con i lacci stretti per le merci degli autocarri. Uno lo afferrava dalle spalle, gli passava un braccio sul petto e lo bloccava. Un altro, guardandolo in faccia, gli afferrava il collo con entrambe le mani, e spingeva con lo sforzo degli abbattimenti. Per strangolare non serve stringere, ma divellere, disarticolare, piegare. Quando le mani del primo stancavano era pronto il secondo. Nella pausa tra primo e secondo il condannato prendeva fiato, gonfiava i polmoni nell’illusione della salvezza. Si afferrava alla vita con gli occhi spalancati, la bocca enorme aperta. E quando il secondo ricominciava, resisteva con più forza, si contorceva, barcollava sulla sedia, vacillava. Improvvisamente si rendeva conto di morire e spontaneamente alzava il mento, offriva la gola per finire presto. I consanguinei, in attesa del loro turno nell’altra stanza, gli urlavano: non piangere, non dargliela questa soddisfazione. Ma quello non ce la faceva e piangeva, come un bambino innocente. Li guardavo morire uno per uno quei pezzi di merda. E quando l’ultimo rantolo era cessato li smaltivano nelle vasche dell’acido. Squagliavano. Aprivano i rubinetti e tutto si perdeva nelle condotte. 123


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Mi feci spazio tra gli assassini, e quelli si allargarono. Volevo controllare che nulla fosse rimasto nelle vasche. E quando finì il gorgoglio opaco dello svuotamento, nello smalto corroso del fondo trovai questo anello d’oro come una fede. Io sono Salvatore, inteso Melograno, lo scintillante, il giusto, padrone della Sorba e del quartiere dei mercati, per parte di madre cugino dei Vopi, reggenti e sovrani di Mieledolce, imparentati ai Varisco, indiscussi e crudelissimi signori di Orziele che diedero in moglie la prima figlia a Vincenzo Agora, uomo d’onore che vendicò il padre bruciando gli occhi al padre degli assassini quando venne a implorare perdono per i figli. Agora esaudì la sua preghiera. Non uccise i figli ma tagliò loro la lingua perché ogni canale di comunicazione, dello sguardo e della parola, fosse interrotto per sempre. Questa è la geografia del mio mandamento. Senza la mia ratifica non si stringe un affare, uno scambio e nemmeno un baratto da qui ai confini della mia giurisdizione che ha termine sul bagnasciuga di una spiaggia e solo perché oltre c’è il mare. Alcuni hanno tentato di non pagare i sospesi della mia parcella, puntuale, necessaria, naturale come i prodigi dell’aurora, come le nascite, le morti, la cadenza delle stagioni. Come Natale. Sono deceduti per causa ignota, improvvisa e maligna, perché a uno è scoppiato il cuore, all’altro tutti i pensieri affogarono in una emorragia cerebrale, o ancora per disgrazia, nelle carambole improvvise di automobili in autostrada, carbonizzati in braccio ai loro sedili di pelle, travolti e uccisi mentre accompagnavano i nipoti a scuola, e persino ammazzati da zingari balordi e affamati. Comunque puniti. Io e Dio condividiamo la stessa strategia dei misteri. Altri hanno creduto di potere aggirare le leggi gravitazionali del mio dominio con sistemi di contrabbando marino, scambiandosi merci e denaro sulle barche al largo, lontani dalla vista, in acque internazionali senza regole e padroni. Mai più sono tornati indietro. L’epica del mio nome li vuole ancora al largo, affannati in manovre infinite a sfuggire gorghi, perché ogni volta che tentano di atterra124


Funerale

re si scatenano venti contrari e onde ripide e cattive. Ricacciati indietro. Secondo la mia volontà. E sospirano la terra dei porti in un limbo d’acqua, appesantiti dalla miseria dei loro guadagni in mia frode e contro natura. Ieri è morta mia madre. Dopo una lunga e dignitosa malattia, è spirata nel suo letto, circondata dal nostro affetto, dalla generosità dei medici, dalla riconoscenza delle arcidiocesi, dalla premura della servitù, nello splendore addolorato della nostra casa. Non c’è morte migliore. La scortiamo al cimitero dove verrà seppellita nella cappella di famiglia. Il sindaco mi ha offerto commosse cerimonie sotto gli stendardi del Comune. Ho rifiutato. Da quando i servi che io stesso ho liberato concedendo una briciola di potere per esercitarlo solo secondo i miei desideri, pagano i funerali del padrone? I loro nomi li leggo tra i mittenti dei telegrammi di sentite condoglianze. Mi hanno stancato. Lascerò ad altri questa fatica e quella delle risposte. Ho sottolineato due, tre nomi. Non avranno l’onore gentile del mio ringraziamento. Non mi hanno servito bene. Gli darò altro. Com’è dolce questo profumo di fiori, così solido e asfissiante nelle corone con i nastri. Presidiano la chiesa e assediano il cimitero. È finito questo teatrino di ipocriti, di parenti in nero, di amici e soci compunti, mendicanti di varia specie, ciascuno ha un’urgenza da sottopormi. E si trattiene. Aspetta il momento opportuno per chiedermi una grazia in forma di consolazione. Il prete ha benedetto il feretro e ci accompagna nella cappella. Buon riposo mamma. Doveva morire. Mia madre era vecchia. Malata di fragilità, perché la sua vita è stata molle e oziosa. La stanno tumulando. Immobile. Come ha vissuto. Non ricordo una fatica di mia madre, nemmeno per una tenerezza, un odio. Nemmeno per sbaglio, per un inciampo, per un movimento sbagliato in misura. Mia madre era un’ombra oltre le persiane, nera per lutti recenti, ripetuti, saltuarietà di pianti che via via si sono fatti definitivi. Mia madre che conservava il mistero della mia nascita. Mia madre inaccessibile. La ricordo sudata, accaldata, lenta mentre lega i capelli, si volta 125


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in un viso bianco e pallido, mi scende un velo sugli occhi. È la sua mano dal buio che mi allontana. “Vai da tuo padre.” E mi spingeva via, fuori del cerchio del suo odore di sudore caldo, oltre la brillantezza delle sue braccia scoperte nell’ombra. C’era qualcun altro nel buio più profondo di quella stanza, oltre le tende bianche, oltre il silenzio dei gesti, oltre la sua sfinge immobile a protezione. Ricordo un ragno tra la tenda e la finestra, la fatica lentissima di partorire una ragnatela. “Vai da tuo padre.” Mi allontanavo verso il mio destino di maschio voltandomi indietro, in cerca di uno sguardo, di una madre. Mai i suoi occhi si sono piegati di lato per guardarmi. I vecchi. Agli altri lasciano solo memorie. Chi è questo vecchio che si avvicina. Perché nessuno l’ha fermato, come è arrivato sino nel profondo del mio lutto? Eppure i segni che dovrebbero mostrare il mio dolore ci sono tutti, come bandiere al vento, come annunciazioni. Perché non si è fermato, perché davanti all’ufficialità della mia disperazione ha messo avanti il passo della sua necessità e della sua arroganza? Chi sta di guardia all’ingresso del cimitero che non ha controllato, non ha capito, si è lasciato sorprendere? Ma che siamo diventati, che esercito ho messo in piedi, di scalzacani, di picciotti spietati solo per gli occhiali da sole e la fondina all’ascella ma che provano rispetto per la vecchiaia. Si avvicina. Mi parla. «Non volevo disturbare, ma dovevo incontrarla, adesso.» «Cosa ha da dirmi, nuove condoglianze? Poteva mandarmi un biglietto, e si risparmiava la passeggiata. Alla sua età può farle male.» «Dovevo parlarle davanti alla cassa di sua madre. E camminare fa bene ai vecchi, i passi ingannano sulla lunghezza della strada.» «Perché vuole parlarmi quando io non ho il fiato per risponderle. La vede mia madre?» «Sì, la vedo. Anch’io voglio vedere la cassa dove dovrò piangere. Mio figlio ha sbagliato e voi l’avete punito. Ma di fronte a questo lutto, lasci che le parli il cadavere di sua madre. Mi faccia trovare il corpo di mio figlio, quello che resta del mio bambino, me lo faccia seppellire. Così saprò dove andare a pregare.» Ma che vuole questo vecchio che non riconosco né dal viso né dal 126


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nome e non mi ricorda alcuna ingiuria, né storia, né avventura finite male. I suoi occhi sono come gli occhi dei vecchi, pupille di pietra in fondo a un pozzo. Cosa vuole, non capisco questa preghiera complicata, evoca figli con il coraggio teatrale di chi non ha niente da perdere e non arretra nemmeno di fronte al brivido della mia rabbia. Cazzo, è morta mia madre! La madre di Salvatore, inteso Melograno, lo scintillante, il giusto, padrone della Sorba e del quartiere dei mercati, e con la mano lo segno nel gesto della mia maledizione. Sbianca, barcolla come se lo uccidessi col semplice desiderio della sua morte. Ma non muore perché mi si attacca alla mano, farnetica, urla come i condannati in attesa dell’acido, vuole il mio braccio, la mia mano, il dito con l’anello, perché è l’anello di suo figlio, mi urla, lui stesso lo comprò per quel matrimonio mai consumato perché prima dell’officiante arrivai io, con le mie leggi e le mie vendette, i miei strangolatori, le mie vasche di acido e lasciai una vedova mai moglie e un padre in vita. E vuole staccarmi la mano per riprendersi l’anello, a morsi vuole staccarla, con la ferocia del suo dolore, e si aggrappa, vecchio rincoglionito, morto da quando ti uccisi il figlio, picciotti venite, staccatemi questa piattola dal braccio. Arrivano con gli occhiali scuri sul pallore dell’improvvisa certezza di avere fatto una minchiata. Teste di cazzo, avete lasciato che questo vecchio arrivasse sino a me, portatelo via, assicuratevi che non ritorni e che sconti il suo dolore altrove, lontano da me. Ucciderlo? Che me ne fotte della sua vita, ma è meglio un nemico conosciuto che uno ancora da conoscere. Lasciatelo vivo per non aprire nuovi capitoli di rancore. Sono stanco. Lo portano via, trascinandolo e non perché opponga resistenza. Stroncato, raggelato. Eppure sapeva che il figlio è morto. Ma di fronte alla certezza, all’evidenza di questa verità non si hanno altri gesti. Teste di minchia. Con voi o senza di voi non cambia. Torno a casa da solo, io stesso mi basto, il mio passo, la mia faccia, il mio nome garantiscono più sicurezza di questo esercito di mercenari. Oggi è giorno di lutto, picciotti a casa. Questa solitudine è un fioretto. Per la mia cara madre. Come nei 127


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biglietti listati a lutto sulle saracinesche dei negozi. Lo metterò domani in ufficio, se qualcuno non l’avrà già fatto. Mi allontano per questi viali coltivati a cadaveri. L’odore dei morti è opprimente. Ecco, vedo il cancello. Addio mamma. Mentre esco mi appare di fronte improvviso il vecchio pazzo. Dalla tasca tira fuori una pistola. Cazzo, ho ordinato di non ammazzarlo ma almeno potevano controllare che non avesse armi. È troppo tardi, io non porto armi. Non posso fuggire. Mai sono fuggito, sempre faccia a faccia, io e dall’altra parte tutto il mondo. Alza la pistola contro di me, pezzo di merda, come ti permetti. Spara due volte. Cado. Sento la ghiaia del cimitero sulla mia faccia. Non ho sentito i colpi, né il dolore, il vecchio è andato via. Forse non mi ha colpito. Forse la pistola s’è inceppata, oppure voleva solo spaventarmi con un’arma scarica, innocua. Vecchio stolido. Mi sollevo. Dovrò vendicarmi? L’agguato del vecchio è un suicidio. Ha scelto di morire e la mia vendetta rientra tra i suoi desideri. Dovrò accontentarlo? Dovrò riunire padre e figlio fra le anime liquide degli squagliati? Se non l’ammazzo si dirà per sempre che qualcuno, un vecchio, è riuscito a fottermi. Ma se ammazzo un vecchio l’epica del mio nome verrà macchiata dall’eccesso di vendetta. Più è precisa l’aritmetica della mia logica, più ambiguo è il progetto e sfuggente il risultato. Sto calcolando il peso, infinitesimale, di questo probabile omicidio e non mi sono accorto che è già pomeriggio. La luce promette solo buio, tramonto, notte. Da tempo non camminavo a piedi, per strada, senza servi muti e itinerari controllati. È cambiata questa città. Volti che non ricordano niente. Nuove generazioni che hanno cancellato lo sfregio permanente della nascita, le ferite delle battaglie di vicolo, e dagli occhi il mistero paludoso dei desideri. Qualcuno eccita la mia memoria, ma non riesco a fare collimare quel volto con un ricordo. Uno mi è più familiare degli altri. Perché? Dove ci siamo incontrati? Forse abbiamo persino parlato. Forse l’ho odiato. Allora dovrebbe essere morto. Cosa fa 128


Funerale

quella donna al centro della strada? Ha i capelli rossi e sotto il mantello otto braccia. Le agita come tentacoli di polpo. Disgraziata. La natura sa essere crudele senza scopo. Deve essere arrivato un circo in città. Si avvicina un clown sui trampoli. Altissimo. La faccia bianca di cerone. Nel cappello raccoglie la generosità della folla. Ha un sorriso enorme dipinto di rosso, mi porge il cappello chinandosi in avanti. Dalla tasca tiro fuori qualche spicciolo, allungo la mano per versare il mio obolo ma il clown allontana il cappello: “grazie, lei ha già pagato.” Ha una voce morbida e sottile, come gli steward d’aereo. Si allontana ridendo, galleggiando enorme sulla strada. Un trampoliere agile. Lo guardo allontanarsi, sotto i pantaloni rossi dove dovrebbero esserci i trampoli vedo le caviglie, i polpacci. Quanta gente. Sarà ora di punta. Tento di guardare l’orologio ma non c’è più. Qualcuno è riuscito a rubarlo. Che giornata di merda, tentano di ammazzarmi e mi rubano l’orologio. Un regalo di mia madre. Cerco tra la gente, guardo in faccia i volti più vicini. Molti mi sorridono. Mi avranno riconosciuto. Quali favori avrò concesso? Non ricordo. Una donna strizza l’occhio. La seguo, magari questa giornata può finire meglio. Non perdo di vista i suoi capelli neri lucenti. Mi precede, rapida. Ha un corpo che promette sotto la tunica, sculetta rapida, attraversa l’incrocio, si ferma sul marciapiede di fronte. Si volta. Mi aspetta. Tento di raggiungerla ma un vigile mi blocca con la mano. Alza gli occhi sul semaforo, è rosso. Voglio raggiungere la donna, mi sta guardando dalla riva opposta, alza la mano e con l’indice indica il polso. Come se fossi in ritardo, come se fosse lì da troppo tempo. Quello è il mio orologio. Buttana! È lei il ladro. Mi sfotte. Voglio attraversare l’incrocio, voglio il mio orologio, il vigile mi ferma ancora. Sull’altro marciapiede la donna abbassa la cerniera della tunica. Senza vergogna scopre un seno enorme. Sa di essere provocante, la troia. Buttana! Continua a fare scivolare la cerniera. Non è una donna. Il pene le pende tra le gambe. Lo prende con la mano e me lo mostra. Con l’altra mano mi invita a raggiungerla. A questa zoccola le taglio il cazzo e le palle. La farò definitivamente donna. Mi libero dal vigile con uno scatto, attraverso la 129


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strada. Sono a metà carreggiata, lei mi incita con la minchia in mano. Sto arrivando, pezzo di pulla, ti raggiungo subito. Un cavallo, un cavallo nero, enorme e sudato, improvviso mi fa arretrare. Deve essere scappato dal circo. S’impenna, gli zoccoli mi sfiorano il petto. Tento di aggirarlo, ma la bestia blocca ogni tentativo di proseguire, la bava bianca mi sporca il vestito a lutto. Indietreggio, devo nascondermi in un vicolo per sfuggire alla bestia. Ecco, questo quartiere è tranquillo. La folla si è diradata. Oltre quell’angolo, la mia casa. Mi avvio. È ormai buio. Fortissima la luce di una vetrina illumina il marciapiede. Sono esposti occhiali. Un ottico. Un nuovo negozio, non lo ricordo. Montature di cristallo. Un impiegato sistema l’esposizione, mi guarda. Dietro le lenti mette due globi oculari. Vedo le pupille e il nervo ottico come una coda rosata. Perde ancora sangue, si allarga in una pozza sullo scaffale. Mi allontano da questo schifo. Parossismo pubblicitario. Ecco la mia casa. Sono stanco, stremato. Davanti al portone c’è un barbone. Dorme. Non mi fa passare. Lo spingo con il piede. Non si muove. Tento di spostarlo con un calcio. Si capovolge. È un cadavere in decomposizione. I vermi lo divorano. A casa. Apro con la chiave. Nell’ingresso, un tavolino con il registro nero per le firme di condoglianza. Silenzio. La mia camera da letto. Più avanti, lungo il corridoio, la stanza che fu di mia madre. La luce è accesa sul comodino. Addio mamma. La spegnerò per l’ultima volta. Entro nella sua stanza. Mamma. Si avvicina. È giovane. Come nel ricordo. Ha le braccia bianche, il profumo del sudore. Mamma non sei morta. Mi scopre il petto. Ho due tappi di sughero conficcati nella carne. “Lo vedi? Quel vecchio ti ha colpito.” Mi accarezza la testa, mi consola. C’è qualcuno nell’ombra della stanza. Mi sembra di vedere una sagoma, sento una voce ma non capisco. C’è un ragno sulla tenda, lentamente si muove sul ricamo della ragnatela verso il bozzolo di una preda. Mia madre mi strappa i tappi dal petto. Il sangue zampilla, le gambe si piegano. Cado con la faccia avanti, per terra. Sento la ghiaia del cimitero in faccia, le pietre mi entrano in bocca. In gola un rigurgito di sangue. Muoio. 130


LIVIO ROMANO

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muri che avevamo costruito nella sabbia e per la sabbia forse per avere ancora a tiro l’onda Vinicio Capossela

Oggi Luisa ha finito prima il lavoro. Se ne sarebbe potuta andare poiché la signora, in questi giorni di agosto, è lontana mille miglia. L’Egitto, le è parso di capire, o forse la Grecia, la Turchia. Comunque sulla barca a vela che da qualche anno ha comprato il marito. Però Luisa le piace lasciare le cose a posto. Il giardino spazzato la piscina coperta e il resto. Per non raddoppiare la fatica il lunedì dopo, ha pensato mentre s’accendeva la Diana rossa sotto la canicola delle quattro e la infilava fra l’indice e il manico della scopa di saggina. E così ha finito le sue cose nella villa e poi s’è tirato il pesante cancello dietro le spalle, aspettando di sentire il ronzio dell’antifurto che s’avviava prima di salire in sella allo scooter, accendere un’altra sigaretta, senza casco partire veloce con quel piede destro sempre un po’ penzoloni, mai posato sulla pedana. Arrivata in paese, nel quartiere delle case Ina, Luisa ha percorso il viale degli oleandri con paga lentezza, salutando le donne che ricamavano sul ciglio della porta e i bambini che giocavano a pallone per strada. Poi ha inserito la catena fra le ruote dello scooter, è andata su per i quattro piani senza ascensore trattenendosi un po’ soltanto sul secondo ammezzato, l’unico con la porta aperta. Ha 131


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scambiato poche chiacchiere con la signorina in carrozzella dalle gote liquefatte dal sudore. Luisa ha parole buone per ognuno, ma la signorina De Mitris avrebbe voluto per cena una pizza fumante e per Luisa oggi è il primo sabato senza festini dalla signora. Uscirà. Non ha tempo per i capricci degli invalidi. Oltre al fatto che aspetta Marco. Finita l’autoreclusione in casa della mamma. Marco ogni tot sbarella. Mai stato un tipo violento o attaccabrighe. Marco vuol bene a Luisa. Sa che quando sbarella deve andarsene a stare un po’ dalla mamma. E lo capisce da sé, che il cervello gli va in pappa. Una mattina Marco si sveglia e non vuole andare a imbiancare con la ditta. Poi sente le voci dentro al frigorifero e poi chiude le finestre del quarto piano acciocché i nemici fatichino a infilarsi. Luisa a quel punto gli prepara il borsone. Si dicono poco. C’è solo da metterlo sullo scooter e lasciarlo sulla soglia della madre. Tre o quattro giorni se va bene. A volte quattro mesi. Basta che ritorni, poiché Marco prima o poi ritorna. La chiama, e glielo annuncia. Riprendono l’amore interrotto nella mattina funesta. Si coccolano e si abbracciano in ogni momento. Passeggiano lungo il mare. Luisa a quarantatré anni è felice dell’amore che regala a Marco che di anni ne ha trentotto. Marco prende e dà moltissimo. Un uomo delicato e bello come un lottatore di wrestling. Nessuna pizza per gli invalidi: Luisa va nel bagno e si fa la tintura rosso mogano mentre la tv riproduce l’identico tramonto che si sparge carminio sulla distesa di condizionatori dei palazzi popolari. *** Quell’altro ha avuto problemi col pass. Alle prime transenne i volontari in grembiule fosforescente hanno fatto appena caso al cartoncino che mostrava loro. Così ha parcheggiato giusto dietro il palco. Son stati i gorilla in completo nero e auricolare crocidante a bloccarlo all’entrata degli artisti. Non è un lasciapassare valido per quell’area. Da questa entrata, solo stampa e musicisti e ballerini. Lui ha provato a dire che di lì a pochi minuti sarebbe cominciata la diretta e che aveva appena il tempo di farsi microfonare e prendere 132


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a raccontare l’evento. Nessuno strappo alla regola. Chiami la sua redazione e si faccia accreditare. Lui non sarebbe voluto venire per nessuna ragione al mondo. Lui fa queste cose di cui non ha voglia e già mentre dice Ok comincia a smadonnare e a lamentarsi di non avere tempo libero. Ma, tranne il primo pionieristico anno, aveva seguito la notte della taranta sempre alla tv, in giardino, nel profumo di timo della sua casa in campagna e le stelle tutte accese e vino e sigarette e i tanti libri sempre impilati a fianco alle sedie a sdraio. Consapevole di non avere più ventidue anni per buttarsi in una folla di centomila persone e ballare fino all’alba, quell’anno s’era giurato che – qualunque fosse stata l’opinione della moglie e degli amici, e anche a costo di andarci da solo – lui avrebbe per una volta vissuto l’evento proprio lì, in mezzo ai ragazzi. Per vedere com’è. Per guardare da vicino quelle donne brune che cantano e ballano e in televisione sembrano bellissime. Invariabilmente greche nei lineamenti, la pelle olivastra e gli occhi neri e lascivi che potrebbero farti secco in tre battute. Così la proposta di seguire l’evento nel retropalco per intervistare gli artisti che si susseguono gli era parso un buon compromesso. Un modo per vivere quella notte ormai leggendaria quanto oleografica nei resoconti mediatici, ma restandosene lontani dalla folla di ragazzini ebbri. Lui pensa sempre che le cose siano buoni compromessi. Poi smadonna. Coi gorilla che lo trattano da turista trentino che cerca di imbucarsi e la direttrice che lo chiama al telefono intimandogli di raggiungere il set entro cinque minuti. Quello la manda al diavolo. «È un pass fasullo. O mi vieni a prendere oppure me ne vado.» «Resta lì. Ormai l’ufficio accrediti è chiuso. Provo a distrarre le guardie. Mi vedi? Adesso li chiamo e tu ti infili e corri verso le telecamere.» «Non mi potete far fare queste idiozie a trentasette anni, me ne sto andando.» «Hai un contratto. Dai ce li ho. Ci sto parlando, entra perdio, abbiamo la linea fra due minuti.»

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Quello si mette lo zainetto sul profilo e sguscia verso il grande spazio ottimamente recintato per proteggere dalla calca plebea stelle e stelline e giornalisti tecnici elettricisti trombonisti tamburellisti senatori consiglieri giudici avvocatesse e registi cinematografici e coreografi e bella gente varia, dal conto in banca iniettato di prebende le più succose i governi progressisti riescano mensilmente a profondere. Il tecnico gli ha infilato la pulce sotto la polo esattamente cinque secondi prima che gli dessero la linea. Un po’ ansimante lui ha guardato verso il cielo vermiglio che esalava sul tetto dell’antico convento e ha invitato la giornalista al suo fianco a imitare il passo degli allievi di Aristotele che passeggiano lungo i colonnati del chiostro: con le mani dietro la schiena e la groppa un po’ curva a srotolare meglio i pensieri. Tuttavia la giornalista non ha colto l’invito alla camminata estemporanea – camminata meridiana, la chiamava senza che se lo fosse preparato, e mentre lo faceva considerava che chiunque pronunci sciocchezze di quel genere dovrebbe essere arrestato e portato a suon di ceffoni in un moshav israeliano a dissodare la brughiera degli Eletti. Al contrario, la giornalista gli ha dato una specie di gomitata come a dirgli di neppure provarci, a muoversi da quel set provvisorio e, nonostante i colori vividi del tramonto, già illuminato a giorno dai fari degli elettricisti. Così lui ha capito l’antifona. Ha controllato che la sua figura sparisse dal monitor e s’è messo le mani nelle tasche dei jeans restando ad ascoltare la presentazione che dell’evento faceva la donna – se possibile, ancor più leziosa e inutile del suo riferimento ai liceali illustri. Dopo un paio di passaggi pubblicitari e il jimmy in mezzo al pubblico che mandava nei monitor una distesa di teste sempre più fitta, quello s’è poi ritrovato con la direttrice che gli intimava di intervenire un minimo, nelle interviste che la giornalista andava snocciolando a orrendi bambini obesi vestiti da agricoltori con la fregola per il tamburello. Quello ci ha provato. Ha pensato devo cominciare a fare le domande cattive senò non ha senso che stia qui. Ma, di cattivo, ai nani in camicia di raso, è riuscito solo a chiedere quanto sarebbero stati in134


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vidiosi i loro compagni a vederli salire su un palco sì onorevole. I nani, dal canto loro, hanno risposto senza batter ciglio che non solo i compagni, avrebbero avuto il travaso di bile, ma altresì le prof che per tutto l’anno scolastico li avevano seviziati con le poesie di Leopardi e i romanzi di Calvino senza capacitarsi che avessero di fronte dei fini musici cui importa soltanto l’affinamento dell’arte della percussione a mano di un telaio di legno rivestito di pelle d’asino. E quando sul set la giornalista ha chiamato a parlare un trombettista dei Buena Vista Social Club, quello s’è limitato a tradurre la domanda in inglese senza che la camera levasse lo sguardo dal negro. Il qual negro, di inglese, capiva meno che dell’italica parlata e a quel punto lui s’è sentito la schiena percorsa da una lucertola poi rivelatasi una pulce che gli veniva sfilata da un tecnico in ginocchio ai suoi piedi. Controllandosi per non entrare nel campo del trombettista ammutolito davanti all’intervistatrice, ha sacramentato fra i denti quasi cascando addosso al ladro di microfoni. La direttrice gli ha strepitato nell’auricolare di star zitto finché era in onda. Poi una mano gli ha afferrato la coscia e nel campo dev’esser entrato il rinculo di un mezzo arto anteriore appartenente a un corpo che veniva forzatamente rimosso dal palchetto per far posto a una madrilena ossigenata cui le maestranze avevano precipitosamente applicato il microfono appena sfilato. La madrilena è stata allora inquadrata. Lui ha seguito le prime battute dell’intervista in spagnolo sul micromonitor ai lati della pedana. Nonostante i cinquanta e passa anni, e verosimilmente non senza essersi appena rimpinzate labbra e gote di botulino, la donna sprigionava una qual avvenenza subito colta pure dal trombettista il quale, enunciando la stessa solfa che avrebbero ripetuto tale e quale artisti locali e stelle internazionali per tutta la notte – il gaudio per essere lì – buttava l’occhio lattescente verso il fondoschiena della spagnola senza che il regista potesse staccare poiché nel backstage si lavorava con una sola camera. *** Dopo essersi spalmata la pappetta sul cranio, Luisa ha preso una 135


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birra dal frigo e l’ha sorseggiata davanti alla tv. Ha pensato che se avesse avuto un figlio da Marco era così che lo voleva: paffuto e rubicondo come i tamburellisti bambini intervistati dalla giornalista spiritosa. Poi ha dato un’occhiata fuori e ha considerato che il colore del cielo inquadrato era un po’ più intenso di quello che si illanguidiva al di là dei palazzi popolari. Ma non s’è data una risposta a questo riscontro. Luisa non è abituata a spiegarsi le cose. Vive i giorni uno per uno, man mano che arrivano. Marco le avrebbe spiegato che la rifrazione solare nell’entroterra dura di più. Marco ha studiato con profitto al Liceo Scientifico, prima della lavatrice parlante. Aveva finito il quarto anno con tutti otto e nove. Gli piacevano la chimica e la fisica. Finché un giorno di fine luglio la lavatrice non cominciò a parlargli. Ma sono storie molto vecchie. Gli è restato l’amore per la natura e una certa pedanteria nel confutare ogni forma di superstizione della gente che gli sta intorno. Luisa poi ha preso il cellulare e ha fatto il numero. «Amore, fra mezz’ora sono pronta. Ti passo a prendere con lo scooter. Andiamo a mare a passeggiare.» «Amore mio, non me la sento. Non ancora, dai. Resto due o tre giorni altri. Poi vengo da te e sarò tuo per sempre.» «Oggi cosa ti ha preparato da mangiare tua madre?» «Peperoni ripieni. Non ti arrabbiare.» «Li so fare pure io. Te li faccio domani stesso. Vieni da me. La signora non c’è, domani non ho feste in cui servire a tavola. Stiamo tutta la notte in giro. A mare ci sono pure le giostre…» «Lo sapevo.» «Cosa sapevi, delle giostre? Allora esci, ogni tanto.» «Sapevo della signora che è partita, me lo hai detto tu ieri.» «E cosa faccio io stasera?» «Esci un po’, Luisa. Ho bisogno soltanto di due giorni. Poi sarò un altro Marco.» «Dopodomani vengo a prenderti. Se non sei pronto ti puoi scordare per sempre di mettere ancora piede in casa mia.» «Ok amore, dopodomani. Martedì.» 136


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«Mi manchi, Marco.» «Anche tu. Mi manchi troppo. Esci un po’, fatti un giro. Ti richiamo sul fisso verso mezzanotte.» «Perché dovrei tornare solo a mezzanotte? Torno quando mi pare… tu vattene a dormire. Biascichi le parole.» «Sono i farmaci…» «Ti chiamo io domani. Vedi di stare bene.» Luisa va nel bagno e sciacqua via la poltiglia viola. Lascia i capelli bagnati e si leva canottiera e reggiseno. Si guarda allo specchio grande dietro la porta. Con le mani rimodella il seno strizzato per tutto il giorno nelle coppe di acrilico, ne vengono fuori due pere ancora compatte, ne è felice. Anche il sedere resta alto: se lo guarda roteando un po’ i talloni e inarcando la schiena. Ritorna in cucina. Apre un’altra birra e accende una sigaretta. Deve tenere a bada il nodo alla gola che le è salito. Luisa ha smesso di piangere molti anni fa. Nella precedente vita la madre si ubriacava e rompeva i piatti che la figlia aveva appena lavato. Luisa la faceva sedere. Quella fracassava e imprecava contro il marito puttaniere e contro le donne che si era portato a letto negli ultimi due decenni. Luisa aveva l’obiettivo quotidiano di far star meglio la madre. Le faceva stendere le gambe, le preparava un caffè amaro, ne raccoglieva il vomito. Poi la madre è morta di un ictus che è durato i due giorni necessari a preparare il funerale. Da quel giorno Luisa non ha mai più pianto. Si mette i jeans e una camicia larga. Fa il numero di Loredana. «Non è tornato.» «Non è tornato.» «E allora ferma lì. Ti passiamo a prendere fra un quarto d’ora. Hai fatto bene a chiamarmi. Non ti muovere, vieni con noi.» «Ma io non ho voglia di uscire.» «Vieni con noi. Lasciamo la macchina in stazione. Ci sono i treni che portano a Melpignano.» 137


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«E che si fa a Melpignano? Io ho addosso la stanchezza di una settimana di lavoro…» «C’è la notte della taranta, non la stai seguendo in tv?» «Ah, quella gente che mostrano è per la notte della taranta? E chi ce la fa a restare sveglia una notte? Io già ora me ne andrei a dormire…» «Basta così, Luisa. Stiamo passando. Tieniti pronta.» E quando sale in macchina una musica di tamburelli e mandolini e violini martella negli altoparlanti. Loredana e il fidanzato son profumati di doccia. Lui ha rizzato i capelli con etti di gel e indossa una maglietta gialla aderente. Lei porta il solito vestito largo di viscosa e i soliti sandali bassi, ma oggi ha aggiunto tre collane etniche variopinte che sulla nuca si impigliano nei capelli ricci e folti. Sulla littorina la gente è ammassata come fosse in un metrò all’ora di punta. Ci sono anziani e intere famiglie con passeggino e biberon nella sporta, turisti tedeschi con lo zainetto e bande di adolescenti dagli occhi già lucidi, alle otto di sera, per gli spinelli fumati. Un fricchettone con una tunica azzurra ha con sé un enorme radiolone anni ’80. Vi si diffonde a manetta la stessa musica della macchina, ma resa quasi irriconoscibile dall’intervento di un sassofono e di un pianoforte che emettono armonie dissonanti. Ciononostante tre ragazze scalze si fanno largo nella calca e, alzando le mani verso le cappelliere della carrozza, accennano un cerchio di pizzica. Gli altri seguono il ballo battendo le mani a ritmo. Luisa riesce ad addormentarsi in piedi, accasciata sulla sagoma giunonica di Loredana. Dorme giusto qualche minuto, il tempo che il treno arrivi ansimando nella stazione di Galatina. Poi Loredana si afferra alla maniglia per non cadere e Luisa si desta. Si sente incredibilmente di buon umore. *** Dopo la performance della madrilena, quello si è fatto microfonare di nuovo. Avrebbe voluto togliersi la Lacoste e indossare la ma138


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glietta di Emergency che s’era portato, ma la t-shirt nello zaino s’era tutta stropicciata e la direttrice, subito dopo che l’apparecchiatura gli era stata montata addosso, già aveva ripreso a latrare contro tutti i titolari delle postazioni mobili. Decise di rimandare la sostituzione della maglietta al cambio-palco successivo. Il volume dell’auricolare era così alto che non si capiva cosa volesse di preciso la boss e quale, fra i cronisti sparsi attorno al palco, doveva affrettarsi a raccogliere la linea che dalla regia stavano per passare. Il monitor della diretta, tuttavia, rimandò il primo piano della sua faccia abbronzata e quello capì di essere in onda e di dover sparare la prima sciocchezza gli passasse per la testa. Già mentre aveva assistito all’intervista al trombettista, quello aveva realizzato che non era aria di fare dello humour in quella Sagra Dell’Amorevolezza Interculturale. Perciò prese a istoriare con le parole una serie di cartoline color pastello che dovevano aver avuto subito il plauso sia della direttrice che del regista dal momento che, mentre parlava, si accorse che il suo mezzobusto era qua e là staccato da immagini della calca che, davanti al palcoscenico, aveva cominciato a ballare sulle musiche della Grande Orchestra di pifferi e tamburi e violini popolari. Fu proprio mentre si avventurava su una citazione di Raymond Carver che la direttrice gli urlò di smettere subito e di accogliere il direttore dell’orchestra prima che salisse trionfante sul palco. Quello, con tono appena divertito, chiese al caporchestra come si sarebbe fuso il post-punk psichedelico dei Green Day con la pizzica. Il Direttore lo guardò torvo, come se la domanda non facesse parte della sarabanda, come fosse stato colpito da un pugno dietro la schiena. Sulla faccia afflitta del Direttore e sul suo gilè di lustrini, la regia staccò bruscamente sulla steady-cam sopra al palcoscenico dove era cominciato un duetto fra un sax alto be bop suonato da un virtuoso diciassettenne e un flauto traverso che ricamava intorno a una classica melodia di tarantella. E mentre i due strumenti dialogavano, si vide apparire il Direttore il quale, toltosi di dosso il grugno di qualche istante prima, si inchinò verso la folla per ricevere un’ovazione che si avvertì nitida anche nel retropalco. Poi prese in mano la bacchetta e diede il via al crescendo di archi che avrebbe 139


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preparato l’entrata della prima star internazionale, Slow Hand con la sua chioma dorata e la Fender color acero a tracolla. «Da dove spunta Clapton? Perché non abbiamo fermato lui?», chiese quello alla giornalista spiritosa. «Era già pronto dietro le quinte. Appena finisce va via in elicottero.» «E non possiamo raggiungerlo sulla pista di decollo? Dove sta quest’elicottero?» «Gli hanno preparato una galleria protetta che porta direttamente alla limousine. L’elicottero lo aspetta in aperta campagna.» «E allora andiamoci, cosa aspetti?» «Resta fermo qua. Sta arrivando Gigi D’Alessio. Lo intervisti tu.» «Andreina, mi senti? Posso spostarmi? Vado nella postazione davanti al palco. Mi senti?» Nell’auricolare si sentiva la direttrice che parlava con il regista. «Andreina? Mi sposto, ok? Lascio D’Alessio a Chiara. Vado a sentire i ragazzi sotto il palco.» «Ok ok. Ma lascia il microfono. Fattene mettere un altro quando sarai lì e verifica che ci sia il collegamento. Sei pronta Chiara? Non ti perdere D’Alessio.» «È già qui con me, quando vuoi, Andreina.» E mentre quello si allontanava dalla pedana staccandosi la pulce dalla polo, un nugolo di femmine in tacchi a spillo dorati si faceva autografare le tette dal cantante napoletano. Poi il divo si posizionò a fianco a Chiara e la regia abbandonò i ghirigori di Mano Lenta per sparare in video il primissimo piano del mitico Gigi, come lo apostrofò la giornalista spiritosa dandogli il benvenuto. Quello raccolse il suo zainetto e, mentre cercava le sigarette, osservò con malinconia il logo di Emergency schiacciato dalla Moleskine piena di appunti inservibili e ridicoli. Superò lo sbarramento 140


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della zona-camerini e arrivò in uno spiazzo che non aveva notato durante il suo trafelato arrivo. A ridosso del grandissimo palcoscenico, sempre recinto da barriere maestose, era stato montato un ragguardevole anfiteatro di tubi Innocenti sopra il quale ergonomiche poltroncine ospitavano le reni di un centinaio di politici e vip locali variegati i quali, maglioncino di cotone annodato attorno al collo, seguivano l’Evento su un maxi schermo a bassa risoluzione. Molti dei vip stazionavano intorno all’anfiteatro e, Cuba Libre offerto dall’Organizzazione fra le mani, si salutavano fra di loro con aria rilassata e festosa. Fra i pezzi grossi quello scovò con piacere il suo amico antropologo. «Cosa ci fai nella zona fighetta? Non sei fra la folla a ballare?» «Ti ho visto prima che intervistavi il Direttore. Se ne hai voglia, posso venire anch’io a dire qualcosa.» «Perché, su quello schermo sono apparso anch’io?» «Credo che proiettino la stessa trasmissione che va in onda.» «Da brivido, Mario, guarda, lasciamo stare. Prendiamoci un cocktail.» «Hai il pass VIPS?» «Cos’ho?» «Questo qua. Me l’hanno dato stamattina all’Università.» Gli mostrò un cartellino plastificato appeso al collo. «No, io ho solo un pass per entrare nel paese. Ma insomma, se dici che questa gente m’ha visto sullo schermo capiranno che sono dello staff…» «Ok, t’aspetto qui. Ma tu non devi tornare a lavorare?» «Prendo da bere e me ne vado sotto il palco a intervistare i ragazzi.» E si avvicinò al bancone dei cocktail non senza prima aver do141


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vuto salutare una serie di professori di Storia antica e di senatori dell’UDC. Prese un bicchiere di vino bianco senza che il barman gli chiedesse di esibire il permesso e ritornò all’anfiteatro a cercare Mario. In quel mentre sentì un messaggio entrare nel suo cellulare. Mario gli comunicava che se la squagliava con la squinzia che aveva accanto. Mentre leggeva sentì una vaga sensazione di solitudine ma non cedette alla tentazione di prendere anche lui la strada per l’uscita. Si avviò verso il camminamento che portava al pubblico e ritrovò i gorilla in abito nero del pomeriggio. Mostrò loro il pass e quelli furono di nuovo inflessibili. «O mi mostra il tesserino da giornalista oppure non la faccio passare.» «Ma io sono un free lance, sono stato chiamato per commentare la serata in tv, non mi ha visto sullo schermo?» «Mi dispiace, lei fa il suo lavoro e io il mio, sia gentile, si allontani.» Quello provò a chiamare la direttrice ma, giusto a mezzanotte, la linea dei telefonini sparì per ritornare soltanto diverse ore dopo. Non gli restava che ritornare nel retropalco degli artisti, l’unico posto dove, notò, la banda degli uomini neri non lo fermava né gli chiedeva di esibire alcunché. La pedana della tv era ancora illuminata a giorno ma se n’erano andati i tecnici e la giornalista. Sotto gli archi del chiostro battevano i loro pezzi gli inviati dei grandi quotidiani nazionali. Ne riconobbe qualcuno ma non aveva alcuna voglia di mettersi a ciarlare quasi all’una di notte. Sedette a una poltroncina guardando lo spettacolo su un monitor da quattordici pollici. L’audio era quello, pessimo, che propalava da un paio di altoparlanti da computer. Al di là del tetto del convento si avvertiva solo il boato indistinto della grande folla che ogni tanto veniva inquadrata dal jimmy. Mentre i Green Day ci davano dentro con le chitarre distorte e l’orchestra li seguiva a suon di tamburriate e cori in lingua grecanica, tre meravigliose ragazze dai capelli corvini ballavano languide la danza della tarantolata. Una di loro cadeva per ter142


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ra e l’altra, sinuosa, l’aiutava ad alzarsi e poi riprendevano insieme questo ballo sensuale che più che liberatorio per se stesse pareva la pantomima di una preparazione a un rito orgiastico che di lì a poco si sarebbe consumato e a dispetto di tutti i maschi arrapati che le stavano a guardare. Il fatto che alle sue spalle Paolo Conte, prima di salire sul palcoscenico, stesse improvvisando uno stornello con un vecchio cantore e guaritore avendo come spettatori solo pochi giornalisti assonnati, non servì minimamente a distogliere la sua attenzione dalla danza voluttuosa delle tarantolate. Al contrario, quello avvicinò la sedia al monitor per seguire meglio le evoluzioni delle fanciulle. Il cantautore cuneese gli passò a un metro ma la direttrice, adesso appalesatasi in carne e ossa, sembrava avere un’aria distesa e non reclamava alcuna intervista né alcun commento in diretta. «Cosa guardi con tanta attenzione?» «Queste ragazze. Verranno anche loro nel retropalco? Perché non le intervistiamo?» «Ormai la produzione non ci dà più la linea. I cambi-palco son velocissimi, non c’è tempo per interventi nostri.» Senza togliere gli occhi dallo schermo quello chiosò: «Vedo che Conte ti interessa meno di D’Alessio…» «E a te interessa meno di queste tre mie amiche…» Quello si voltò. «Le conosci? In particolare questa (indica la più tenebrosa, quella dagli occhi più brillanti). Chi è? Come fai a conoscerla?» «È di Calimera come me. Viaggiavamo insieme per andare a studiare a Lecce al Liceo. Se togli gli occhi dallo schermo la vedrai passare appena finisce. Vieni con me a mangiare qualcosa?» «Portami tu un panino. Con il pass che m’avete dato non mi fanno circolare da nessuna parte.» 143


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«Te lo porto. Ma allontanati da quel monitor, ti stanno lacrimando gli occhi.» Seguì il consiglio della direttrice e si mise a sedere a una decina di metri dai piccoli schermi. Una folata di brezza umida percorse il chiostro. Avrebbe voluto portarsi un maglione, ma per la fretta se n’era dimenticato. Nell’atrio non c’era ormai nessuno. Anche i giornalisti avevano spento i loro computer e s’erano messi in semicerchio a fumare e raccontarsi storielle. Quello si levò la polo restando a petto nudo, indossò la maglietta di Emergency e poi si infilò di nuovo la Lacoste. Andava decisamente meglio. In attesa del panino, stese le gambe su un’altra sedia e cominciò a prendere appunti per il pezzo che avrebbe scritto l’indomani. Teneva d’occhio contemporaneamente l’uscita degli artisti e l’evolversi dello spettacolo sul palco. Le ragazze non la smisero di ballare neppure mentre, un’ora dopo, mangiò a grandi morsi il panino che portò la direttrice. *** Luisa e Loredana e il fidanzato in maglietta gialla, dopo ancora due cambi di treno, arrivano a Melpignano che son quasi le dieci. Seguono senza esitazione la fiumana di gente che avanza verso il convento degli agostiniani. Comprano un panino con la salsiccia a uno dei tanti furgoni parcheggiati lungo la strada. Il fidanzato prende anche un’altra maglietta gialla con il logo del Salento e del sole del mare e del vento che colà imperano incontrastati. Il color limone deve piacergli particolarmente, forse perché rappresenta la prosecuzione della sua pelle senape mai accarezzata dal sole estivo dal momento che, prima che due settimane fa lo licenziassero senza giusta causa, di notte faceva il fornaio e di mattina dormiva. Quando i tre arrivano nel grande piazzale davanti al convento, hanno appena cominciato a suonare i Buena Vista Social Club. Loro non apprezzano i fiati cubani che duettano con l’orchestra di tamburi e violini. Tenuti per mano per non perdersi, vanno a pren144


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dere un litro di vino rosso agli spacci dietro alla calca. È l’unico posto dove il volume d’aria a disposizione di ciascun corpo leggermente si dilata così da permettere di respirare con adeguatezza. Luisa strappa la bottiglia di plastica dalle mani del ragazzo. Se la porta alla bocca e ne beve un terzo. Poi la passa a Loredana che assaggia appena prima di tenderla nuovamente al fidanzato. Lui trangugia grassamente. Un po’ di vino scola lungo il collo della maglietta e finisce anche nella sportina di plastica dentro cui è conservato l’altro acquisto paglierino. Fa cenno alle ragazze di seguirlo. Si fanno largo nella moltitudine ondeggiante. Raggiungono le transenne davanti al palcoscenico dopo più di un’ora di sgomitamenti. Luisa è sempre aggrappata a Loredana. Le gira la testa ma è una sensazione piacevole, si sente dondolata dalla gente, come svolazzasse fra i corpi sudati del pubblico senza toccare il suolo. Quando conquistano le grate i tre vi si aggrappano esausti. Il jimmy passa sulle loro teste e loro fanno ciao con la mano nella sua direzione. Una giornalista giovane e spigliata si avvicina e chiede loro da dove vengano. Il fidanzato di Loredana risponde a nome del gruppo. Saluta la mamma che sta a casa e dichiara che è una notte da non dimenticare mai più. La giornalista lo congeda sorridendogli e quello si infervora, comincia a ballare pure se basta muovere un po’ il bacino e si va a sbattere contro almeno dieci persone intorno. Prova a scavalcare la transenna. Non capisce il motivo per cui migliaia di persone debbano rimanere accalcate a dieci metri dal palco e in quella specie di zona franca a ridosso dei musicisti decine e decine di rilassati quarantenni in polo firmata si possano godere lo spettacolo senza ginocchia e gomiti infilzati dentro le costole. Un carabiniere lo ferma mentre è a cavalcioni sul parapetto e Luisa e Loredana lo tirano per la maglietta implorandogli di lasciar perdere. Il militare lo rilancia nella mischia con modi bruschi e poi batte i palmi come a togliersi la polvere dalle mani. Mentre i Green Day suonano, più che ballare i tre fluttuano all’unisono con il resto della folla. Se gli altri battono in aria le mani devono farlo anche loro per non essere schiaffeggiati dal rinculo di diecimila gomiti sul finire del riff del chitarrista. Quando poi comin145


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cia una suite ipnotizzante di archi e fisarmoniche e organetti sui quali ballano senza tregua tre giovani tarantolate scalze, la corrente che attraversa la gente disegna sulle teste una curva a onda esaltata dal gioco di luci che, a uso e consumo della tv, investe anche i quattro o cinquemila spettatori più vicini al palcoscenico. La faccia gialla del ragazzo e quella smarrita di Luisa e quella sgomenta di Loredana sono deformate dal barbaglio rarefatto delle luci stroboscopiche. Le tre danzatrici sono illuminate di rosso. Muovono turbinosamente le chiome a destra e a sinistra. Il loro volto ossuto e pallido è nascosto dai ricci che cascano lungo la fronte lasciando scoperto soltanto il naso non senza che si intuiscano con chiarezza i solchi di grandi occhi neri contornati da pesanti pennellate di eye-liner. Su quella pantomima sempre più smodata si innesca, nello slargo davanti al palcoscenico, anche il ballo delle quarantenni col pass. O forse di anni ne hanno solo trenta, magari meno. Liberano le spalle da pregiate stole di seta e i piedi da sabò di vitellino morbidissimo. Si muovono con grazia e sensualità agitando in aria i foulard Missoni. Qualcuno dei loro fidanzati pure sta dietro alla baiadera mimando, col ballo, un coito a distanza. Ma la maggior parte di loro resta soltanto a guardarle divertito senza perdere d’occhio le tre maliarde che sobillano la folla mentre le bacchette e i riccioli e il mento del Direttore d’orchestra salgono e scendono con scatti veloci che pungolano questo o quello strumento. «Proviamo ad andarcene, Loredana?» «Sta per entrare Paolo Conte, adesso sarà davvero impossibile…» «Prende, il tuo telefono?» (Luisa mostra il cellulare senza campo all’amica.) «No, è morto da tempo. Prima ho provato a chiamare degli amici, ma è impossibile.» (Devono gridarsi le parole direttamente nelle orecchie, scandendole bene.) «Devo sentire Marco, non posso rimanere qui.» «Prova a convincerlo tu. Lo vedi com’è infervorato?» 146


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«Allora vado via da sola. Ho visto che ci sono treni ogni mezz’ora.» «Luisa ti prego, non ti lascerò mai andar via da sola. Al limite lasciamo lui qui.» (Lui pure guarda fisso le tarantolate, muove le braccia in aria, fa giravolte che mettono a repentaglio gli zigomi di un’intera stirpe di brindisini.) Loredana si avvicina al fidanzato. Gli dice che è ora di andare via. Quello la guarda sbalordito. Non ha nessuna intenzione di alzare i tacchi. Loredana fa le mani a tromba e gli sbraita che non si può restare ancora. Lui si divincola dalla ventosa che gli si è appiccicata sulla testa e riprende la danza ripetendo in coro con le ragazze sul palco larilò larilò lallero larilò larilò lallà. La donna prende Luisa sottobraccio e comincia a farsi largo per guadagnare il lato destro della calca. Dopo mezz’ora sono sulla strada dei furgoni che scodellano a pieno regime panini con fette di cavallo arrostite e salsicce e involtini d’agnello. Mentre camminano verificano che si formi una tacca di ricezione sui cellulari. Loredana vuol scrivere un sms al fidanzato per dirgli quant’è bastardo a lasciare andare da sole due donne di notte. Luisa vuole chiamare Marco prima che i sonniferi lo sprofondino in un’incoscienza impenetrabile fino al mattino dopo. Ma è solo intorno alle due, quando scendono a Galatina insieme a una cricca di punk inglesi ubriachi, che i telefoni delle ragazze ricominciano a connettersi coi ripetitori delle compagnie telefoniche. Loredana chiama il fidanzato, ma a Melpignano le antenne devono essere ancora in tilt. Gli scrive un messaggio invelenito. Luisa invece trova libero il telefono di Marco. Squilla a lungo prima di decidere di chiudere. «Si sarà addormentato di sasso. Figurarsi se sente il telefono che suona…» «Questo invece è isolato. Che se ne vada al diavolo. Dai, prendiamo l’ultimo treno e torniamocene a casa.» Salgono sull’altra littorina, quella che permetterà loro di percor147


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rere l’ultimo tratto della traversata del Tacco. Siedono una di fronte all’altra. Hanno il viso pallido e gli occhi gonfi di stanchezza. Una coppia di bolognesi, con nelle orecchie l’i-Pod ad alto volume che gorgoglia ancora la Grande Orchestra Popolare, amoreggia pesantemente sul sedile accanto al loro. Gli scatti malcelati dei loro bacini avvinghiati hanno il ritmo di una scalpitante tamburriata nella quale anche il fidanzato di Loredana dev’essere stato trascinato anche un po’ confidando che il suo ballo sia ogni tanto ripreso dalla tv. Quando arrivano in paese, si avviano sottobraccio verso casa. Il silenzio delle strade deserte è rotto dal rimbombo dei car-stereo di ragazzi che tornano dalle discoteche, o che forse ci stanno appena per andare. Ma quando queste auto vanno via, ritorna una rarefatta quiete da coprifuoco. È perciò che le due donne sobbalzano quando, nei jeans di Luisa, si mette a trillare il telefono. È una melodia orrenda, forse una canzone stilizzata in midi di Gigi D’Alessio. «Chi è?» «Amore, mi sei mancata.» «Marco, cosa cazzo ci fai in piedi alle due e mezza della notte?» «Ti stavo aspettando.» «Sei a casa nostra?» «Tu dove sei? Perché non m’hai cercato prima?» «Ci ho provato. Non rispondevi. Sto arrivando.» «Prendi lo scooter e raggiungimi. Quanto ci metti? Ho pronti i gamberoni e lo champagne.» «Marco, tu non stai ancora bene. Ci vediamo dopodomani, ok?» «Vai a casa. Prendi il motore e vieni alla villa. Sono a bordo della piscina. È tutta per noi.» «Di che villa parli, Marco? Io me ne vado a dormire.» «La villa della signora. Quale, senò?» «La villa dove lavoro io? Cristosanto Marco, di che parli?» «Ti sto aspettando. È stato molto semplice mandare in tilt l’allarme e, credimi, per il resto ho fatto ogni cosa come si deve. Il barbecue l’ho un po’ avvicinato alla piscina e i due son già ricercati dall’Interpol.» 148


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«Scusami un attimo Marco. Ti richiamo fra un po’.» Luisa è sconcertata. Guarda Loredana in cerca di una risposta a quanto sta succedendo, ma la ragazza sbadiglia fino a lacrimare. È già arrivata a casa, abita vicino alla stazione. Infilza le chiavi nella porta. Dice soltanto «Dormi da me?». «Loredana, ma non hai sentito? Marco dice di essere a casa della signora dove lavoro. È una cosa fuori di testa…» «Te lo sei scelto tu, così, Luisa. Io me ne vado a dormire.» E sparisce dietro al portoncino che lascia tuttavia socchiuso. Luisa richiama Marco. «Amore, stavi scherzando prima, vero? Io sto arrivando a casa, aspettami. Son stata alla notte della taranta, a Melpignano.» «Ogni tanto qualcuno deve pur pagare per i reati che commette, no? E così adesso questa notte è tutta per noi. Ho acceso ogni luce di questa grande casa. Ti aspetto.» «Ma di cosa cazzo parli, Marco. Mi spaventi. Che reati?» «Oh Luisa, ce ne sarebbero stati tanti, di reati possibili. Ma mi son concentrato soltanto su un piccolo appalto firmato giusto pochi mesi fa. Un gioco da ragazzi, credimi. Questo nel computer ha i file senza password perché i criminali sanno che resteranno impuniti come noi sappiamo che resteremo poverissimi finché viviamo.» «Questo chi, Marco? Dimmi che non stai parlando del dottore…» «Il tuo dottore, esatto. Sai quanto ha cacato per farsi assegnare lo smaltimento delle lastre radiologiche? Soltanto cinquantamila euro. E s’è aggiudicato una commessa da due milioni e mezzo in tre anni. Niente male davvero. Mi son salvato tutto, prima che arrivi il pubblico ministero e sequestri il computer. Intanto con questo file il signor giudice ha disposto l’immediato arresto sia del dottore che della moglie. Non poteva fare diversamente, la prova che gli ho dato è schiacciante». (Ridacchia di gusto.) 149


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«Posso venire? Stai dicendo sul serio, Marco? Hai fatto arrestare i padroni miei?» «Devi venire subito, Luisa. Ho preparato una cena da re per noi due. Il freezer è pieno di cose squisite. Ho voglia di fare l’amore con te. Ti voglio subito, prendi lo scooter e raggiungimi. Appena vedrò la luce del fanale apro il cancello, ho il telecomando qui sul lettino. Dai, è la nostra notte. Nelle casse attorno alla piscina ho inserito l’audio della notte della taranta. Ha appena suonato Paolo Conte, una cosa meravigliosa. Molto trascinante.» «Sto arrivando. Voglio trovarti completamente nudo.» «Tu invece non ti spogliare. Devo farlo io. È la nostra notte.» «Hai fatto arrestare i padroni?» «Li ho denunciati e ho firmato la querela con la penna d’oro del capitano dei carabinieri. Li stanno cercando in Egitto. Quando rientrano in patria, li portano direttamente dentro.» «Ma a te non crederà mai nessuno. Sei in cura al CIM, Marco.» «Non devono credere a me. Il computer è qua. Farò buona guardia finché non arriva il giudice. Ti aspetto. Mi son tolto la maglietta. Ti voglio subito amore.» Luisa mise giù. Arrivata a casa, constatò che non c’era traccia di Marco. Si preparò un caffè con calma e lo bevve sul balcone respirando l’aria fresca della notte fonda. Poi indossò l’abito nero a tubino e si sentì come il contadino che prima d’entrare in casa sfreghi le scarpe contro il marciapiede per liberarle dal fango. Scese per strada. Levò il catenaccio dal motorino e partì alla volta della villa con vista sul mare. *** Mentre fumava e beveva un bicchiere di vino rosso di raccapricciante qualità recuperato al catering per gli artisti, quello non la smetteva di guardare ipnotizzato adesso soltanto la più bella delle tre danzatrici di pizzica, l’amica della direttrice. Anche se lo schermo era veramente piccolo e anche se la voce della ragazza si mescolava a quel150


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le dei coristi e delle tre colleghe, a lui pareva di distinguerne nitidamente il timbro. Si alzò per prendere le cuffie che il tecnico aveva lasciato incastrate sulla camera. Le collegò all’uscita del monitor al quale, a dispetto dei consigli, restò appiccicato per provare a cogliere le più insignificanti sfumature di quel viso e di quel corpo flessuoso che non la smettevano di perforare la sottile membrana fra la sua coscienza e l’area encefalica frontale addetta all’elaborazione del pensiero teorico. Ma, ammesso che questa membrana esista veramente, già da almeno un’ora doveva esser stata totalmente squarciata. Si era, cioè, perdutamente innamorato della sconosciuta Dea spedita dall’Olimpo con il compito specifico di ricordare a tutto il mondo occidentale che la scaturigine di tutta la democrazia che quella notte si palesava sotto forma di grande happening organizzato da amministrazione socialdemocratica nonché di tutta la tecnologia che permetteva la visione della Dea stessa anche a milioni di telespettatori a casa, l’origine antica di tutto quell’Occidente sazio e guerrafondaio risiedeva proprio sulle coste elleniche dalle quali migliaia d’anni prima prodi naviganti erano partiti per diffonderne la civiltà e, in quella piana salentina verdeggiante, avevano trovato dimora permanente. Ma a esser del tutto obiettivi, in quel momento a quello fregava assai poco sia della democrazia che della tecnologia che del dannato imperialismo capitalista. Gli importava la bocca carnosa della Dea, quei denti bianchi che riflettevano i raggi della luna, quel sorriso furbo e rovinoso che puntava addosso alla steady-cam – e, ne era certo, a lui in persona – quel lievissimo affascinante strabismo di Venere il quale, unitamente a un naso arcuato che ricordava la Perfezione Celeste, fulminava con sagitte fornite personalmente da Zeus ogni maschio provasse a intercettarne lo sguardo. Se non ogni maschio, sicuramente il lupo vorace che albergava silente dentro di lui. Poi le ragazze sparirono e il palco fu avvolto dall’oscurità e la folla emise un rimbombo minaccioso che ebbe fine soltanto quando un occhio di bue illuminò la barbetta di un noto cantore popolare il quale intonò in Si bemolle e senza alcuno strumento di sottofondo uno stornello che tradurremmo con qualche forzatura 151


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“Vorrei mangiare sale per tutta la vita a causa di una femmina che mi disse che sono insipido”. Nel backstage, quello tolse la faccia dallo schermo e si lasciò andare sullo schienale della sedia. Guardò verso il cielo. La luna stava tramontando a ovest, pitturata di mandarino e albicocca. Non dovettero passare neppure cinque minuti quando si sentì bussare una spalla. «Sei Gregorio Parigino?» «Be’ sì, in effetti sono io.» (Rispose con naturalezza, senza sobbalzi, come a chiedergli l’identità fosse stata sua sorella.) «Cosa ci fai qui tutto solo? Ti ho visto sul mega screen ore fa. Hai finito di lavorare?» (Non fu sorpreso di aver appena cominciato una conversazione con una Dea, rimase con le mani dietro la nuca a guardare un po’ lei un po’ lo zafferano sempre più intenso del satellite terrestre). «Pare di sì. Aspetto un collegamento, forse intervisterò qualcun altro. Come sai il mio nome?» «Leggo i tuoi pezzi sui giornali, tutto qui. Ti trovo molto divertente. E anche adesso. Sembri un personaggio dei tuoi articoli. Qui intorno è tutta una festa e tu te ne stai seduto da solo con una Moleskine sulle gambe. Buffo tipo. Posso?» (Bevve i rimasugli del vino immondo poggiato sotto la sedia.) «Fa schifo, lascia stare.» «No, è buonissimo. Ho fame. Mi accompagni a mangiare qualcosa?» «Siete state molto brave, davvero.» «Dunque stai seguendo lo spettacolo…» «Oltre alla piazzata in televisione ho un pezzo da scrivere…» «Uno dei tuoi. E racconterai anche di me?» «Di te? (Fu lì che il cuore leggermente gli trabalzò.) Chi sei tu?» (Si alzò porgendole la mano.) «Io sono Maria, felice di conoscerti.» «Gregorio.» «Lo sapevo già. Vieni con me a buttare giù qualcosa prima che 152


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svenga?» (Il cuore aumentò il ritmo, poniamo da 75 a 120 battiti al minuto.) «Anche voi mangiate?» «Anche noi chi? Noi cantanti?» «Anche voi divinità celesti…» «Sei il mattacchione che leggo tutte le settimane. Forza, su. Andiamocene da qui.» «Il mio pass è inservibile. Posso andarmene solo quando sarà finito lo spettacolo.» «Il pass ce l’ho io. Muoviti. Oppure vuoi stare a sentire Zorba and his family?» «Ho già sentito e visto tutto quello che c’era da vedere. Ok. Proviamo a uscire da qui. Ma ti avverto che a me mi bloccano dovunque cerchi di andare.» In realtà non cercarono d’andare in nessuno degli anfratti attorno al palcoscenico. Con un’andatura regale la ragazza lo prese per mano e lo portò direttamente verso l’uscita dove i gorilla continuavano a fermare mucchi di curiosi e fans. Lui fece finta di avere ancora fame e mangiò un altro panino bisunto non senza un certo disgusto che fu alleviato soltanto da un’Heineken ghiacciata bevuta d’un fiato. Lei bevve una Red Bull e ordinò un altro sandwich col wurstel condito d’ogni tipo di salsa untuosa possedesse l’ambulante. «Non si direbbe che mangiate quella roba. Siete così… magre.» «Ma siamo chi, scusa? Perché parli al plurale?» «Tu, per esempio. Come fai a mangiare quella roba ed essere così snella?» «La smettiamo con queste sciocchezze Gregorio? Vieni con me.» Quello che seguì dopo fu simile a un vento d’aprile tiepido ma ancora carico di guglie taglienti dimenticate dall’inverno. Con voce allegra e squillante Maria gli raccontò del gruppo in cui cantava, delle invidie fra il chitarrista e il violinista, delle tournée in America. Lo portò in macchina per la valle della Grecìa percor153


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rendo tratturi di campagna per evitare l’immane affollamento di automobili attorno al concerto che si estendeva per decine di chilometri. Poi si ammutolì. Inserì un cd dei Madredeus e restò zitta e meditabonda. Quello era senza parole. Provava ad articolare un qualche discorso ma gli venivano fuori spezzoni inconsistenti, singoli vocaboli senza senso, decontestualizzati. La ragazza parcheggiò vicino a una chiesa che aveva un campanile incredibilmente ornato di ricami barocchi eppure dall’architettura bizantina, se non araba. «Ho le chiavi del campanile. Se saliamo fin lassù possiamo vedere il concerto dall’alto.» «Ma tu sei la custode della Grecìa salentina? Che ci fai con le chiavi di un campanile?» «Seguimi, te lo spiego dopo.» Salirono per le scale irte e buie della torre. A ogni piano si fermavano a baciarsi. All’ultimo piano erano già nudi uno dentro l’altra. La musica di Zorba arrivava fin sulla cima della minareto. Il ritmo dell’amore era lo stesso del tamburello che risuonava nella pianura. Lento e sinuoso all’inizio, poi via via più incalzante ma senza che lui potesse in alcun modo incontrare lo sguardo della Dea. Sapeva che se ne avesse incrociato gli occhi sarebbe finita la musica. La amava e la esplorava ma aveva paura, in fondo al cuore, delle sagitte di Iuppiter somministrate all’ecumene tramite gli sguardi laceranti di Maria. Finché non fu lei a gridare. Solo allora la guardò, e quella sorrideva e non aveva alcuna freccia da sparargli addosso. Semplicemente lo guardava, aspettando che fosse lui a gridare. *** «È stata la notte più bella della mia vita.» «Anche per me, Marco. E adesso cosa facciamo? Ce ne andiamo oppure dormiamo sul letto della signora?» «Adesso arriveranno i carabinieri e io sarò portato in caserma a 154


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rilasciare una testimonianza. Devi andartene, tu non devi essere immischiata in questa storia.» «Ci vediamo dopo a casa.» «Ci vediamo dopo a casa.» *** «Cazzo Gregorio ti vuoi svegliare? È l’alba. Dobbiamo fare la chiusura del collegamento.» La direttrice lo scrollava tenendolo dalle spalle mentre il tecnico gli infilava la pulce sotto la maglietta. Quello si svegliò. Guardò la donna. Ricordò Maria. Si sentì bagnato ma fece finta di niente. Si alzò, mise a posto i capelli. Andò sulla pedana dove lo attendevano tutti i giornalisti della tv riuniti per l’arrivederci al prossimo anno. Sette sei cinque quattro tre due uno. Siete in onda. Ognuno disse qualcosa raccontando l’esperienza dal punto di vista della postazione in cui era stato. L’aurora opalina faceva i volti terrei. Gregorio farfugliò qualcosa attorno ai diritti di quei lavoratori che non possono ballare e godersela perché licenziati o maltrattati. Dopo il collegamento, mentre andavano tutti via, la direttrice lo fermò e gli diede una pacca sulla spalla. «Fai il libertario ma sei anche tu un cattocomunista di merda. Però sei andato benissimo.»

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Eva è una performer: fa installazioni. Avrebbe voluto essere una danzatrice e basta, ma per le installazioni il corpo che ha – non abbastanza flessibile, non abbastanza forte per la danza – va bene. Di notte lavora in un pub, serve ai tavoli. Ha i dreadlocks, a volte, sfiorandosi la nuca, sente il peso, la sensazione di qualcosa di animale sul collo, di capelli vivi. Ultimamente ha cominciato a vedere ragni: sempre più spesso e adesso quasi costantemente accanto a sé. Prima delle prime apparizioni le è capitato diverse volte di svegliarsi di notte senza riconoscere Fabio, al suo fianco. Un’altra volta – doveva essersi alzata per andare in bagno – in piedi in mezzo al corridoio, con la luce accesa, ma ancora senza essere completamente sveglia, ha chiamato Fabio col nome di suo fratello. Sono tornata bambina, ha detto svegliandosi davvero, ridendo, quando lui la mattina le ha raccontato quello che era successo. È stato proprio prima di cominciare a vedere i ragni: ricorda che in quei giorni Fabio è dovuto andare via per lavoro. Gira video. A Roma, Eva ha una stanza in un appartamento con giardino. Ha visto per la prima volta i ragni due anni fa, una notte di ottobre, entrando in cucina. Voltando la testa, le è sembrato di vedere qualcosa muoversi accanto ai sacchetti di plastica della spazzatura, troppi, per terra sotto la finestra, dove le mattonelle azzurre sono spaccate: il danno è stato fatto prima che lei entrasse in quella casa, non ha mai pensato di ripararlo. Vede i ragni, a volte anche serpenti e scorpioni, poi si accorge che sono soltanto cose, che è stato il suo 157


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sguardo a deformarle, per un istante, la sensazione non dura. Non sente voci. A parte le apparizioni, è normale. Una notte ha avuto un’allucinazione più completa: ha visto una bambina con i capelli biondi, aveva ragni nelle trecce, intorno ai polsi e alla cintura, il vestito era fatto di una fibra azzurra, forse seta e lana. È rimasta immobile nel letto, cercando di non svegliare Fabio, a guardare quella piccola figura dagli occhi duri, sottili come fessure, lucidi nel buio dove, le ha spiegato lui la mattina dopo, e anche lei lo sa, non si vedono i colori. Non hai visto niente, è stato un sogno. È vero: quando l’hanno operata agli occhi, due mesi dopo, si è trovata tra le mani – la prima volta che Fabio ha fatto filtrare di nuovo la luce del giorno, con lentezza, nella stanza, lei aveva ancora gli occhiali neri che per tre giorni ha portato al buio – un fazzoletto rosso. Si è stupita del rosso: il colore del sangue, il mare color-del-vino. Allora è vero, è solo un sogno. L’operazione le ha tolto l’astigmatismo, tre gradi e mezzo di miopia all’occhio destro e quasi tre al sinistro. Non ha cancellato i ragni. Adesso, quando esce in strada, quando è tra le pareti candide di un museo, vede perfettamente nuove opere: la statua di un samurai in una teca di vetro, fatta di argilla radioattiva; un lampadario enorme legato a una scala di corda, con dentro un sacco a pelo di raso e una pelle di volpe. Un mandala di semi con una corona di foglie che cuoce in un bacile di cristallo. Quando torna al lavoro, nel bagno del pub vede l’acqua torcersi nello scarico del lavabo con movimenti vivi. Decide di non avere paura. Eva, qualche anno prima, ha deciso di tenere un album di famiglia. Per prima cosa, fabbrica della carta. Si può fare carta dalla paglia, dai resti della spremitura di agrumi come arance e limoni, dalle alghe, dall’eucalyptus. Eva vuole una carta dura e densa come cuoio. Lascia i fogli sul tavolo da lavoro finché non ci si formano sopra macchie di caffè, forse di saliva, polvere. Poi sotterra i fogli in giardino, un gesto da bambina, avvolti in una stoffa argentata per proteggerli; dopo una settimana il materiale è pronto. Prende le foto – sua madre, suo padre prima della separazione; di lui non ha foto recenti, e sua madre, com’è adesso – le dispone con cura sulla carta, 158


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scrive sotto i nomi e gli anni in inchiostro azzurro e indaco. Ora l’album può modificarsi: in direzione del futuro, di quella che non sono ancora, pensa Eva. Una che è chiamata, che è amata per la sua mente, per il suo corpo. Sulla copertina dell’album incolla un volto ricostruito al computer a partire dal suo, sommando i tratti di altre donne, a volte ragazze che ha seguito in strada, a cui ha rubato una foto, le sopracciglia, una bocca carnosa, una qualità di pelle densa, orientale. Tira fuori dei mazzetti di polaroid, le mescola come un mazzo di carte. Costruisce la principessa delle fiabe, con i capelli lunghi, neri, lisci e spessi come un intrico di fibre di agave. Quella è sua madre. Per lei disegnerà gioielli di corda e di sassi, da portare sulle parti del corpo da proteggere, fronte, polsi, caviglie, ombelico, tra le clavicole. Così l’album di foto diventa un libro dei sogni. Disegna una cornice, verde-vipera, sui bordi della carta. D’ora in poi la storia di Eva si scrive nelle sue pagine. Eva ricorda di aver dormito, da bambina, lunghi pomeriggi d’estate, in una casa di campagna avvolta nel caldo e nel ronzio degli insetti, fuori, con un odore dolce e troppo carico di frutta che veniva dalla cucina. Non ricorda dove fosse quella casa, ma è certa che non si tratti di un sogno, anche se non ha prove. Sua madre sostiene che quei ricordi non sono mai accaduti. Di notte, la stanza era completamente buia, la luna schermata dalla tenda, con solo un led di luce blu. In giardino strisciavano i ragni, si trasformavano in foglie e ciliegie. Quei ricordi non sono mai accaduti? Tutte le mattine, prima di mettersi al lavoro, Eva accende la radio. Fa ginnastica. Fa stretching. Nel ricordo, Eva-bambina è in una scatola di luce, azzurro chiaro e oro, una pozza d’acqua dorata. Intorno alla casa, Eva ricorda, c’era un’area destinata a orti, un territorio in abbandono, una qualità di luce chiarissima: piccole dune di sabbia andando verso il mare e canne, strade in terra battuta e l’argine di un fiume. Il mare, intravisto dal fiume, l’odore di sabbia cotta, i frammenti, nella sabbia, di legno, di verde bruciato. Il mare e il fiume mangiano gli argini e le rive, slabbrano il territorio del ricordo. Scoprirà tra tre anni che in quella casa ha abitato sua madre dopo la se159


Laura Pugno

parazione da suo padre, insieme a un altro uomo. Nei terreni intorno alla casa, sotto le pietre calde, c’erano ragni velenosi. Sua madre girava col siero antivipera nella borsa. Eva macchiava le pareti bianche della casa con i colori lavabili. Quell’uomo è morto sei mesi dopo nell’incendio di un aereo. Sua madre non ne ha più parlato, il suo dolore è dannazione completa della memoria. Ha abbandonato la sua storia come si straccia una tela di ragno, penserà sua figlia tra tre anni. È Eva la bambina dai capelli biondi, con ragni nelle trecce e fermagli di plastica. Lentamente, respirando sempre più completamente col corpo Eva finisce gli esercizi di stretching. Mette il volume della musica pianissimo, poi prende l’album. In base a quello che c’è scritto costruirà le sue performance. Fabio girerà dei video su di lei e cercheranno di venderli. Una notte, Eva annota quel che ricorda di un sogno sugli X-Men. Scrive: Su un’isola: Mystique viene sfregiata. L’aggressore l’ha avvolta in una massa di filamenti lattiginosi che le ha paralizzato il corpo azzurro, le ha reso le ossa molli, e ha inciso la guancia sinistra con un taglio profondo. Non è riuscita a trasformarsi né a vederlo. Jean Gray, Tempesta, ritrova Mystique, la sorregge perché non riesce a camminare. Ci sono sfiatatoi a griglie sul terreno di tutta l’isola, da cui esce un’aria calda. Il titolo della performance sarà Spray. La sostanza lattiginosa era in una bomboletta spray. Quel giorno, Eva ispeziona minuziosamente tutto il giardino, intorno alla sua stanza, con guanti spessi e stivali alti alla caviglia: non ci sono serpenti, né scorpioni, né ragni. Le mie apparizioni, pensa, non sono di questo mondo. Scrive nell’album: La mattina, all’alba, l’aria calda divora l’isola. Sulla terraferma la pianura è punteggiata di fuochi, più fitti sugli argini dei fiumi. In piedi sugli argini, un uomo dalla testa di leone, un altro accanto, suo alleato, dalla testa di uro. Eva entra in quello che sembra un hogan, le pareti della casa-tenda sono coperte di strisce di pelle di animali, totem, difensori. Strisce di pelle di serpente ancora pronte a mordere, appese dal solstizio d’inverno al solstizio d’estate. Eva si vede bagnarsi in un fiume inquinato, sotto l’arco di un cavalcavia. Quella sera cena con hamburger di soia. Ha tro160


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vato un committente, per una festa, vuole che lei sia per i suoi ospiti un’installazione viva. Il titolo della performance sarà Il party nel bosco. Quella notte Eva dorme sul terrazzo all’aperto di un palazzo fatiscente sotto una pioggia d’estate che cade dolce calda e infetta, su un pavimento di foglie di bosco, cosparso di profumi. Chi dà la festa pagherà in contanti. Compra il video. La nuova performance, con i soldi della vendita del video, si intitola Sotto i ciliegi di tutto il Giappone. Stavolta ha trovato un gallerista. Eva è vestita da regina, con un diadema di perle finte, in piedi su una piattaforma sullo sfondo di un love hotel di cartone. Ai suoi piedi c’è un fiume di perle finte. Per tutta la performance avrebbe voluto sentire l’odore del fiume tra i capelli, si concentra immaginandolo. Il fiume fa un’ansa esattamente presso il love hotel, è lì che Eva ha collocato la sua piattaforma, i ciliegi finti. È inverno, vuole che la luce solare più bassa dell’anno, che entra radente dalle finestre della galleria, la colpisca in pieno viso, si è legata i polsi con manette di perle e pelliccia finta, rosa. Per terra ha disposto ragni di plastica e uova. Si è scarificata la pelle delle braccia con finte cicatrici. È circondata da blocchi di sale, su ogni blocco un bicchiere di latte. In piedi sulla piattaforma, immobile nell’occhio della telecamera di Fabio, attende il momento esatto in cui ragni verranno a circondarla. In cui sarà perfettamente sola. Era stato dopo il Giappone, durato tre giorni nella galleria che l’aveva contrattata, che Eva era stata chiamata per un programma sull’arte moderna da una tv digitale. Potrebbe ideare le sue installazioni per noi, metterle nello studio. Eva accetta, ha molto bisogno di soldi. Prende appunti: vuole che il suo lavoro sia sulla caccia. Una ferita che non guarisce e non si rimargina. Unguenti preziosi. Una legge che proibisce di coprire l’odore del corpo con i profumi e di tagliarsi i capelli. Nello studio ha disposto piccoli vasi di terracotta nera con dentro un unguento di labdano, intorno dai bruciatori esce labdano unito a incenso; ci sono foto, un bosco di eucalyptus morti si alza da un lago salato in una zona disboscata dell’Australia oc161


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cidentale, a Dowerin vicino Perth, senza più gli alberi a mantenere basso il livello della falda freatica. I fertilizzanti fanno crescere colonie di alghe. Ci sono nelle foto, i ferals, gente del luogo che ha scelto una vita selvatica, che vuole desalificare la terra. Il titolo, stavolta, è Il container. Tornando a casa Eva si licenzia dal pub. Due settimane dopo alla tv le interromperanno il contratto; i suoi lavori, insinua qualcuno, non sono piaciuti. Qualcuno ha messo in giro la voce che vede ragni, che è fuori di testa. Chiunque sia, dev’essere stata lei stessa a dirglielo, e non sono in molti, quelli che lo sanno. Eva non prova sorpresa, forse sollievo; si chiede se i ragni torneranno, ora che non ha più un segreto. O se anche lei, come sua madre, imparerà la dimenticanza completa. Forse questo è il messaggio. Fabio non c’è, è di nuovo via per lavoro. Eva sa quello che deve fare, perché le apparizioni non tornino. Ha la sensazione che sia maturato il tempo. Decide di tagliarsi i dreadlocks, da sola, con le forbici. Poi raccoglie i capelli tagliati in una busta di plastica e li sotterra in giardino. Quella notte, prima di addormentarsi, vede un film dopo l’altro: il ragazzo è in uno zoo quando inizia il raid. Sta dando da mangiare alle tigri, quarti di carne interi. Ha vicino un cucciolo di scimmia. I caccia bombardano la città, sventrano le gabbie, la tigre muore per prima. Il ragazzo riuscirà a salvare soltanto se stesso, la scimmia e un airone. Nel secondo film, la specie umana si è adattata sottoterra; gli animali vagano in quella che è stata New York, orsi dalla pelliccia nera focata, sotto la neve, elefanti, e una corsa di giraffe sui ponti dorati, anni e anni prima. Chiudendo gli occhi, col corpo reso pesante dalla stanchezza, Eva sente la pelle sensibilissima, odore di bruciato, odore della sua pelle davanti alla bestia selvatica; e forte calore in bocca, e la sensazione di bruciore che danno gli abiti a contatto della pelle ferita. Non si ricorderà di scrivere nell’album, la mattina dopo: Qualcuno ha gridato un ordine dal bosco, con voce non umana. Fabio è tornato, partiranno insieme, per un viaggio in Sudamerica, con i soldi, quelli che comunque Eva ha preso, del programma. In Argentina vedrà il rio Paranà, la zona del Tigre, il delta qua162


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si in abbandono, i piccoli moli di legno, le case su piloni contro l’arrivo del vento dal Sud che alza le acque di un metro, i villeggianti che vengono solo d’estate. L’acqua è naturalmente color del fango, ancora pulita. Eva vede una ragazza su una lancia, o è un gommone? che manovra senza motore puntando un remo. Le lance portano la posta, fanno da barca, negozio, taxi, portano i morti. Alberi intorno, fitti, che cambiano le foglie in rosso, alberi di cui Eva non sa il nome e salici che in autunno diventano del colore delle arance, alberi portati forse dall’Europa, le foglie colano rosso, oro e sangue, i tronchi sono ammonticchiati contro l’argine con fascine di mimbre, i giunchi che qui sono quello che c’è da coltivare. Il delta si moltiplica, crea nuove isole nell’acqua verde-fango, ovunque. Quelli che vivevano qui se ne stanno andando. Sulla lancia la ragazza è da sola, anche lei ha capelli molto lunghi, Eva immagina che abbassi il remo sul fondo della barca e si sdrai lasciandosi andare alla deriva, perduta, ricorda l’inquadratura di un film di quattro anni prima, il frame come un quadro di una giovane donna nuda, sdraiata in una barca con il sesso del verde dell’erba, o forse l’erba cresceva davvero attraverso il suo corpo. Quella ragazza ha gli stessi lunghi capelli neri di questa che governa la lancia con esattezza, gli stessi di Eva prima che rinunciasse al suo misterioso potere, da quando si è tagliata i capelli. Proseguono il viaggio verso Nord. In Centroamerica Eva vedrà pozze d’acqua dolce in mezzo all’acqua salata di un estuario, alberi ad alto fusto che erano d’acqua dolce, finché un’infiltrazione di sale non li ha come pietrificati. Qualche giorno dopo con Fabio trovano un posto dove fare il bagno. Il cenote è d’acqua dolce, scura, verde con alghe, con i bordi di calcare grigio, quasi bianco. Fabio si toglie la maglietta, si bagna rapidamente. In superficie c’è una vegetazione di foglie, sotto si muovono piccoli pesci dagli occhi ciechi. Eva legge dalla guida: Qui sono stati ritrovati quarantamila scheletri, armi, frantumi di ceramica, bracciali d’argento. La notte dormono in una baracca col pavimento di sabbia, le pareti in legno, il letto fissato al soffitto con le funi, avvolto da una zanzariera. Ap163


Laura Pugno

pena fuori la porta è fissata un’amaca di agave tinta di un verde intenso. Quella notte Eva prova, svegliandosi così di notte, di colpo, una sensazione di soffocamento. Si alza, cerca la porta, esce fuori. Dalla finestra entra nella baracca una luce color latte, argento, anche se la luna è coperta. Eva si sdraia nell’amaca, il movimento la riporta al sonno, qui è più aperto, respira, le cade addosso qualche goccia di pioggia tiepida, prima di riaddormentarsi pensa senza ragione, perché il mondo non è sotto il dominio delle tigri? Grandissime tigri con i denti a sciabola, una società delle tigri, un intero regno a misura di enorme animale selvaggio. E ancora, ricorda di aver letto che quando per la prima volta viene aperto un sarcofago, e vi entra aria dopo mille e mille anni, è possibile scorgere, per un istante bellissimo, il corpo di chi vi è stato deposto con una candela che bruciando dentro ha consumato tutto l’ossigeno, la figura che quelli che in un attimo diventeranno resti di abiti e di gioielli ricoprono, prima che venga distrutta, un’immagine che è la stessa del mio corpo, pensa Eva sfiorando con le dita il tatuaggio di serpente che porta sull’ombelico. È stato fatto con l’henné nero da una donna del posto, durerà due settimane: conserverà questa memoria. Da quando si è tagliata i capelli non ha più visto i ragni. La preda sfugge al cacciatore, scompare, e allora dipingiamo il nostro corpo, tatuiamo ragnatele sulle braccia e sulle spalle, in pigmento nero, in ocra rossa, come nelle caverne dei nostri padri, addormentiamoci con sulla bocca i nomi di Altamira e di Lascaux, con il sapore della psylocibe.

In Poison, si fa riferimento alle opere di alcuni tra i 14 vincitori del Premio Migrazioni e multiculturalità, esposte in una mostra presso il Centro per l’arte contemporanea di Roma, via Guido Reni, oggi museo Maxxi, dal dicembre 2000 al febbraio 2001. Le opere sono Senza Titolo di Stefania 164


Poison

Galegati, Climbing di Vedovamazzei, E così sia di Bruna Esposito. Per i ferals e i boschi di eucalyptus sommersi dai nuovi laghi salati dell’Australia vedi Michael Parfit, Australia – A Harsh Awakening, in “National Geographic Magazine”, luglio 2000. I film a cui si fa riferimento sono Underground di Emir Kusturica (1995), L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam (1995), e poco più oltre L’isola di Kim Ki-duk (2000). Il riferimento finale alla psylocibe riprende liberamente la “teoria neuropsicologica” sull’arte delle grotte paleolitiche sviluppata da David Lewis-Williams e Thomas Dowson dalla fine degli anni Ottanta sulle pagine di “Current Anthropology”, e in seguito.

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AURELIO PICCA

Ricordi di un ladro

Il viaggio era stato insopportabile per la sua intensità. Terribile come ogni prima volta. E dolce, era stato il viaggio, come gli amori che non arriveranno mai. Il corpo del promontorio era la potenza e l’assoluto che cercavo. Ero felice che esistesse la forza della natura, con quel suo profilo da indovini, o da giochi infantili. Non sapevo ancora di raggiungere Otranto con una auto rubata, senza pensare alla polizia, ai carabinieri, magari ai pianti di mia madre, alle virilissime parole di mio nonno. Al cospetto del promontorio, con Gianni e Alfredo, ancora non immaginavo di arrivare a Otranto. Né sapevo che il suo bianco era velato di sangue. Un sangue, sì, trasparente e leggero, ma anche magico. In fondo della stessa magia che abita (sempre per via del sangue), il cielo e il mare celeste. Io guidavo un’auto rubata e vivevo dentro le cose, soprattutto nella luce. Non vedevo altro. Non mi drogavo di LSD ma ero dentro con la ferocia di un omicida e la solitudine di un monaco. Così guidavo. Così vivevo. Come una mummia vitalissima, come una crestolina di gallo volante che corre i cento metri in sette secondi, come un torerino che bacia il suo toro, come un principe sconosciuto che regala il futuro, come un piccolo orfano che morirà sul fresco dell’erba, come chi ama la Madonna Vergine, come chi si farebbe inculare (proprio con il cazzo) dalle femmine per amarle di più. C’era una palma vertiginosa. Superiore a ogni giraffa. Forse erano tre, le palme. O solo quella che mi si è infilata nella vena della 167


Aurelio Picca

vita e che, come una sorellina antica, mi consegnerà alla soglia del paradiso, identica alla pietra e al cancello rotto e spalancato del cimitero di san Michele a Venezia. La palma accarezzava il castello. Lo vidi dal mare. Stanchissimo e concentrato non sapevo che già i vessilli dell’Islam avessero tagliato teste, invece che dormire nella luce e tra onde inesistenti. Poi puntai proprio il mare, e allora fui colpito dall’oro, dal tesoro saldato e disperso per sempre tra i massi e le pietre. Non sapevo ancora (ma sentivo tutto, in una empatia folle) che la mezzaluna aveva lasciato aperti i rubinetti del sangue. Ma per fare cosa, se il bianco era intatto come l’abito della prima comunione e l’oro non era stato neppure sfiorato? Allora perché i saraceni avevano impalato tanti cristiani se non erano riusciti (o non avevano voluto o potuto) a rubare nulla? Forse avevano massacrato al solo scopo di imbrattare con la magia (effetto del sangue concimato) terra, palme, case, mare, cielo? Sulla strada sottile, con il mare in una voragine smemorata di sé, su una strada d’oro come la dentiera della Madonna sfregiata dall’odio, sulla strada allucinata dalla luce, con le spalle cariche del bianco accecante come la purezza o la verginità, con su le spalle la palma (o le palme o l’oasi) e il castello, ecco su questa strada guidavo l’auto rubata quando dall’oro sbuca un ciclista. Sì, un uomo in bicicletta. Lo vidi che avanzava lento. Ma meno lento di me. Lui era lento ma pretendeva di essere veloce. Io ero una lumaca ma ero velocissimo e basta. A qualche decina di metri vidi che il ciclista perdeva il tempo sui pedali. Come se li avesse scordati. Come se, all’istante, gli si fosse accorciata una gamba. Invece di pedalare, spedalava. Quando mi fu quasi sotto apparve da scimmia. Colava di sudore. Non era un ciclista! Era un povero mostro scemo che aveva dimenticato i pedali a casa e ora cadeva, stramazzava sull’asfalto proprio accanto alla mia macchina. Gianni gridò fermati! Ma io non mi fermai. Urlò ancora fermati! Così riconobbi di lato un essere che scalciava e si contorceva. Era quasi abbracciato alla sua bicicletta, come se l’amasse di un amore raccapricciante. Come se la scimmia 168


Ricordi di un ladro

o il ciclista si fosse buttato per terra e si fosse messo a lanciare calci perchÊ la bicicletta non aveva bucato il dosso d’oro, e dunque l’aveva tradito. Intanto il tesoro di Otranto non volgeva mai alla notte. Pareva una specie di riccio marino sgarrato nel cuore.

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TERESA DE SIO

L’erba del diavolo

Vedete, guardate qua, signurì, se voi prendete le foglie quelle piccoline della pianta, però dovete usare solo quelle che trovate nella parte di sotto vicino al terreno perché sennò le altre non sono buone, voi le mettete in un coso come in questo qui, di legno, e con il pestello le dovete triturare bene bene per un poco di tempo fino a che, vedete, viene come una polvere chiara che voi poi la mettete nel bicchiere e quello, la persona, quando va a bere oppure a mangiare, non se ne accorge proprio, perché non tiene nessun sapore. Noi nell’antico tempo la facevamo così, come pure mia nonna e mia mamma, la chiamiamo la stramunella. Queste cose erano sempre buone per la nostra famiglia, quando ancora stavamo a Procida, perché la gente veniva a cercarcele per fare qualche fattura, e anche ci dava soldi delle volte, oppure altre cose che non erano soldi ma ci levavano lo stesso la fame dallo stomaco perché noi a quel tempo non tenevamo nemmeno gli occhi per piangere. Però dovete fare assai attenzione perché se ne mettete di più di quello che vi faccio vedere io, l’effetto diventa pericoloso e poi si capisce, cioè qualcuno può pure capire di che cosa si tratta. La gente pensa sempre male, si spaventa, non conosce… fatevelo dire da me che sono tanto più anziana di voi, se sapeste quante ne abbiamo passate con mia sorella Archina, proprio a causa di questa polvere… no, non è un nome strano, mia sorella si chiamava così perché, voi non lo sapete, ma l’isola di Procida è protetta dalla Madonna dell’Arco e allora molte bambine, specialmente nell’antichità, ma pure adesso ancora, le chiamano Archina in onore della Vergine. Insomma quella 171


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là, mia sorella, ha sbagliato una volta a usare la polvere e perciò è stata la rovina della nostra famiglia. Sì, voi non vi potete ricordare perché siete troppo giovane e poi non siete nemmeno di queste parti, ma la gente, qui a Cutrofiano, dopo che successe il fatto di Narduccio Greco che era stato trovato morto dentro al letto, disse che era stata colpa di mia sorella, che forse si era sbagliata, e aveva dato a compare Narduccio il veleno preparato per il “monaciello”. Io in casa Greco facevo la serva a quel tempo. Poi donna Mariannina, che era la moglie del morto, me ne cacciò perché anche lei dava la colpa a mia sorella, che tutto era stato, diceva, per il fatto che io lavoravo in quella casa, che sennò Archina non sarebbe mai entrata lì e non avrebbe mai conosciuto compare Narduccio. A ogni modo, quelli furono tempi brutti assai per la nostra famiglia, perché poi ci andammo di mezzo tutti quanti. Sentite a me, signurì, la gente è fetente, non tiene cuore e ci gode sulle disgrazie degli altri e ti mette in croce… ti mette in croce se non sei come a ’lloro, e se pure uno non c’entra niente allora sono contenti quando ti hanno sputato in faccia tutte le colpe della tua famiglia. E a me, me le hanno sputate, signurì, e come me le hanno sputate!… e se quelle anime disgraziate non fossero oramai, la maggior parte di loro, passati sotto una ben più alta giurisprudenza, potete stare certa che starebbero ancora qua a sputare… Ma io adesso vi sto distraendo con tutti questi fatti e voi non state più a guardare come faccio la polvere. Vedete è quasi fatta, è fina fina e chiara… poi vi spiego le quantità esatte che, per amor di Dio, non vi sbagliate! Anche se stiamo nel duemila e voi siete moderna e abitate in città, vi può succedere un guaio pure a voi, e poi ve la pigliate con me. Comunque adesso vi finisco di raccontare di mia sorella, che è una storia lunga. Quella fin da quando nacque si capì subito che non teneva buona salute. E che fretta che aveva di uscire in questa valle di lacrime! Arrivò due mesi e mezzo prima del tempo, che mia madre non se l’aspettava proprio, che già la gravidanza l’aveva fatta soffrire parecchio… Era il novembre del 43, io tenevo otto anni, era il giorno della festa dei morti e quella povera donna si sentì male all’improv172


L’erba del diavolo

viso, davanti al cancello del camposanto dove eravamo andati, come tutti gli anni, per portare i fiori sulla tomba dei suoi genitori. L’acchiapparono a tempo a tempo e la portarono di corsa a casa, cosicché riuscì a sgravare nel letto. Mio padre mandò ad avvertire donna Aurelia “la pugliese” (che la chiamavano così “la pugliese” perché veniva da Specchia ed era pure un poco parente di nostro padre) la quale venne subito perché faceva la vammàna, e così l’aiutò. Archina uscì piccola piccola, tutta arrefognata dentro una specie di vescica rossa di sangue. La vammàna disse che era tutta roba della madre e che era un fatto buono, disse che la bambina era nata con la camicia e che noi dovevamo buttare la vescica nel torrente, così la madre non avrebbe perso il latte e la bambina sarebbe cresciuta fortunata. Ma io penso proprio che in casa nessuno si ricordò di fare questa cosa, e come infatti mia madre ebbe l’infezione forte e morì il giorno appresso, e la vita di mia sorella è stata quello che è stata… Vedete, signurì, io mò sono anziana, ho finito i settant’anni, e vi posso dire che noi nasciamo e andiamo girando per anni e anni senza mai sapere che può succedere da un momento all’altro. Né la sorte e né la morte. Come potrà mai essere questa morte, che tutti ce la dicono da che siamo piccoli e ci mettono paura, ma vallo a sapé che faccia tenarrà veramente… quando, in che posto, …a casa?… nel letto?… o in qualche parte sconosciuta che noi mai ci siamo andati prima? E chi lo può dire. Però intanto s’adda campà, s’adda fà, si deve arrivare in piedi in faccia alla Capa Scarusa. E ci trasciniamo questo peso che non sappiamo… Archina no. Lei era nata e insieme a lei, nello stesso letto, era nata la sorte sua. Io ci credo che sta tutto scritto! Comunque, per tornare a noi, durante il parto successe Piedigrotta. Io ero piccerella, un poco capivo e un poco no. Mi ricordo che alluccavano tutti assieme,… mi pare mò mò… alluccava mia madre, che lei non la voleva quella figlia, che si era sentita schiattare in corpo, che la bambina se l’era mangiata da dentro prima di nascere, alluccava mio padre che la Madonna l’avrebbe punita a dire certe cose, alluccava donna Aurelia che la bambina si strozza col cordone e non c’è il disinfettante. 173


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Che vi devo dire, così fu! O per lo meno io così me lo ricordo. Mia madre, dopo partorito, le venne la faccia bianca bianca, smise di gridare e non disse più niente. La bambina la misero subito nell’altra stanza perché dissero che quella povera donna non se la fidava di tenerla, tanto che aveva sofferto, e la neonata pure non stava troppo bene dàtosi che era nata assai piccola e, diceva donna Aurelia, forse non ce la faceva a sopravvivere. La creatura non si chiamava ancora in nessun modo, e così allora disse mio padre che se la Madonna dell’Arco gli faceva la grazia che la figlia non moriva, l’avrebbe battezzata col nome di Archina. E difatti così fece. Però lui non si era ricordato di chiedere la grazia anche per nostra madre la quale il giorno dopo, come vi ho già detto, ebbe questa febbre forte dell’infezione e purtroppo morì. Quel pomeriggio del funerale vennero tutti i parenti di mamma che stavano lì a Procida e vennero pure alcuni della famiglia di nostro padre che invece, appunto era proprio pugliese, di qui, di Cutrofiano. Tutti quanti piangevano, guardavano a mio padre che stava disperato pure lui e poi guardavano a me e scapuzziàvano e dicevano a bassa voce «…hee e mmò? …’sti povere criature, chi ’e guarda, e ’stu pover’ommo? E come po’ fa sul’isso…». Io a quell’epoca, come vi ho detto, tenevo otto anni. Mi avevano messo lì, sotto alla tavola da pranzo, e mi avevano dato un bel biscotto di grano, che quello è lungo da mangiare e così mi tenevano distratta. E io mentre me lo rosicchiavo stavo tutta contenta perché ancora non avevo bene capito che era successo, che voi non vi potete ricordare come erano buoni i biscotti di grano a quell’epoca, e te li potevi mangiare senza che si rompevano i denti. Eh, signurì, come cambiano le cose, passa il tempo e le cose vanno sempre peggio, sempre più scadenti… i biscotti di grano… la gente… e pure i pensieri che uno pensa, che ti vengono in testa. Uno passa tanti anni credendo, che ne so, che quello, il tavolo, per esempio… è rosso, poi all’improvviso, una bella mattina, vai a vedere e quello invece è verde. Che tu puoi pure dire… e ché? il rosso è meglio del verde?… No, non è che è meglio o peggio, è che tu non ci sei abituato e poi è difficile abi174


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tuarsi, pure se c’hai tutta la vita di tempo, non ti abitui più. A ogni modo io penso che proprio quel giorno i parenti pugliesi, che però io non li avevo mai visti prima in vita mia, convinsero nostro padre che là a Procida non era più cosa di restare, che come poteva fare da solo con una creatura appena nata e un’altra di otto anni, che ero io. Non so come fu, ma mio padre si fece convincere subito e dopo manco un mese che avevano atterrato nostra madre, ce ne venimmo a vivere qui, a Cutrofiano e con noi se ne venne pure donna Aurelia che si era attaccata alla nostra famiglia, e fu un bene che venne a stare con noi perché alla fine è stata lei che ci ha cresciuto. Signurì, scusate se mi faccio i fatti vostri, ma voi… a che vi serve questa polvere che vi sto preparando?… No perché, sapete, …tante volte… uno magari parte che vuole fare il bene, una cosa buona… e poi si va a finire da un’altra parte… state accorta quando la usate che, come vi ho già detto, questa cosa può fare male assaie. Comunque, morale di tutto questo, io e mia sorella siamo cresciute qui, e alla fine era come se fossimo salentine pure noi. Io però a Procida ci sono tornata spesso perché ci stanno certi cugini e poi, come vi devo dire… quel mare è il mare della mia nascita, i colori… e pure la parlata un po’ me la sono mantenuta, e vi dico di più, mi sa che sarà proprio lì che me ne torno quando viene il mio momento. D’altra parte pure Archina, dopo che successe la disgrazia, fu fatta tornare a Procida da questi cugini. Così, un po’ per quietare le acque e mettere a tacere. Chi lo sa! qualche disegno del Padreterno che, gira gira, dobbiamo tornare da dove siamo venuti. Anche qua però è bello assai vi devo dire, oramai mi sono affezionata… avete visto venendo tutta la terra rossa… che quanta ne abbiamo zappata in gioventù! I Greco ne tenevano tanta di terra, dodicimila alberi di ulivi tenevano… Noi fummo subito fortunati, perché appena arrivammo quaggiù nostro padre entrò a lavorare nella masseria della famiglia Santo, che stavano pieni di soldi! Tutti ne parlavano male in paese, principalmente di lui, del vecchio, Angelo Santo, che stava paralizzato sulla carrozzina ma comandava a tutti come un generale, dicevano che era avaro e cattivo… però no175


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stro padre non disse mai niente, a casa, di queste cose e non si lamentò mai. Io pure ebbi fortuna, che subito una cugina nostra mi portò dai Greco che, anche se ero ancora piccolina, mi presero lo stesso a servizio da loro. Brave persone, donna Mariannina e compare Narduccio! Erano una coppia giovane, senza figli e avevano ereditato un sacco di terre dalla famiglia di lei, e io in quella casa sono rimasta a lavorare per tanti anni, fino a che, appunto, non successe la disgrazia. E così, per tornare a mia sorella, la bambina cresceva bene all’inizio, qui in Puglia, era serena pure essendo orfana di madre, giocava con gli altri bambini che stavano nella zona nostra, aveva cominciato ad andare a scuola e le suore dicevano che era intelligente. Insomma fino a verso i dodici anni non ci furono mai problemi. Poi, non lo so come fu, ebbero inizio tutte le nostre disgrazie. La bambina era come se si fosse ammalata, cominciò a cambiare, smise di parlare, non diceva più niente, se le domandavi non ti rispondeva. Io le chiedevo “ma che tieni, non ti senti bene?”. Ma lei niente, sempre zitta, oppure, se parlava, diceva il fatto del monaciello, che era diventata una fissazione, che in casa c’era questo monaciello. Voi lo sapete, signurì, che è ’stu munaciello? Che delle volte compare nelle case della gente, piccolino, vestito col saio, come se fosse, che so, l’anima di un bambino morto. Certe volte vi sorveglia e vi porta bene, e certe altre vi dà fastidio. A mia sorella le dava fastidio, diceva che veniva di notte, le faceva paura, lei era come ossessionata, e diceva che lo voleva per forza avvelenare. Fu da lì che, sperando di farla calmare, le feci vedere come si preparavano queste foglie di stramunella tritate. Ma così, tanto per tenerla occupata, e invece lei si appassionò, e tutte le sere metteva sulla finestra un piatto con un po’ di polvere, che così ’o munaciello non veniva. Ma io mai potevo pensare che succedeva quel guaio. Però niente, le cose non miglioravano. Archina non voleva più giocare con le compagne e pure con la scuola, le monache dicevano che la bambina stava strana, sempre distratta, che loro non si facevano capaci di che era potuto succedere. Ogni tanto spariva, si allontanava da casa e chi sa dove andava girando per il paese, che andava facendo. Il pa176


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dre? Quello non se ne importava proprio, l’unica cosa che faceva con Archina era portarla ogni tanto con lui alla masseria dove c’era una nipote di questi Santo, che teneva la stessa età. Però lui con la bambina era sempre cupo, disamorato. Io penso che non le aveva mai voluto bene veramente a quella figlia, forse, penso io, perché sotto sotto l’aveva sempre incolpata del fatto di nostra madre che era morta per partorirla. È brutto da dire, però quello voleva bene solo a me. Io?… e che potevo fare? Cercavo di farla distrarre. Me la portavo sempre appresso, soprattutto quando andavo a lavorare dai Greco, che mi pareva che la bambina ci veniva volentieri. Donna Mariannina mi diceva “Filumè, non la lasciare sola a casa a questa creatura, portala qui che mi tiene compagnia”, e le insegnava a fare i dolci e compare Narduccio ci parlava, le raccontava un sacco di storie, se la portava nella terra e le spiegava, che so, come si zappa, l’acqua, il sole, la semina, …insomma le cose dei campi, che alla bambina le erano sempre piaciute. Che se io solo avessi potuto immaginarmi quello che stava per succedere, mai l’avrei fatta stare tanto tempo con compare Narduccio, buonanima! Ma che volete fare, la vita così è. Intanto le cose non andavano meglio per Archina, anzi! Io avevo pure pensato… sa, l’età che è un poco difficile. Per esempio io mi ricordo tale e quale come fosse adesso, la notte che mia sorella si fece signorina… avete capito? che insomma ’lle venette per la prima volta ’o marchese, il sangue di quando finisce il fatto che sei piccola e comincia il fatto che sei grande. Allora, mi ricordo, la sera prima erano tornati da fuori lei e il padre, la bambina non teneva appetito e si andò direttamente a coricare. La mattina dopo, quando si era fatta ora di andare a scuola, non si avviava a uscire dalla stanza, stava zitta e non si sentiva niente. Quella, a scuola, come vi ho detto, in quel periodo già non ci voleva andare mai, diceva che le monache la prendevano a mazzate, così io pensai che era la stessa cosa anche quella volta, e non ne volevo fare accorgere al padre che sennò pure lui la scommava di mazzate. Io a quell’epoca tenevo una ventina di anni e purtroppo a scuola non c’ero andata mai, perché ero stata presa, come vi ho detto, subito a servizio, e allora ci tene177


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vo che almeno la bambina crescesse istruita. Allora entrai zittu-zittu nella stanzetta, che ci stavano pochi mobili perché noi tenevamo pochi soldi per queste cose, e Archina stava al buio, ferma, stesa sopra il letto come se fosse morta, di una brutta morte ammazzata però, perché teneva tutte le gambe sporche, e pure il lenzuolo, e pure il sottanino, tutte sporche di una cosa marrone che sembrava sangue serreticcio, ed era proprio sangue. Il primo sangue. La cosa che mi ricordo è che lei dormiva ma dormendo parlava. Diceva che ci stavano gli indiani, con tutti i cavalli le penne colorate e le facce scritte con i disegni, che erano arrivati da sopra le montagne, che era Maglie, e poi non era più Maglie, che lei stava nascosta sotto il carro e allora questi indiani non la vedevano e ammazzavano tutti gli altri e lei si salvava, ma poi un indiano diviso dal gruppo l’aveva vista sotto il carro e andava vicino per ammazzarla col coltello. Io, signurì, stavo lì in piedi a sentire queste cose e mi sembrava un poco strano principalmente tutto quel sangue, che pure io, essendo la maggiore, ero già sviluppata da alcuni anni e mi ricordavo che il primo sangue, a me, era stato assai di meno. Poi Archina fece un mezzo scatto come se si stesse svegliando e senza cambiare voce disse “Compare, se mi faccio male non vado a scuola”. Poi aprì gli occhi e mi vide, che nella stanza non c’era nessuno, c’ero solo io. A me mi veniva da ridere perché non sapevo proprio questo fatto degli indiani da dove le era uscito, in quale cinematografo li aveva visti per descriverli così bene, o forse chi sa, su qualche giornaletto con le figure stampate e colorate che ci portava donna Aurelia da Napoli quando andava a trovare il figlio che stava militare e che io non li guardavo mai ma Archina sì, anzi li nascondeva e guai se uno li toccava, si faceva afferrare dai Turchi. Che vi devo dire signurì, qua la verità è che non si finisce mai di imparare. Voi mi potete dire, giustamente, che le cose che uno deve sapere stanno scritte nei libri, che si deve andare a scuola, si deve studiare, e poi finisce che le cose si capiscono, pure prima che succedono, forse si possono pure riparare, si impara a campare, a sfuggire tutta questa miseria che non è la miseria dei soldi, no… signurì, è la miseria di non riuscire a vedere, non capire, stare come dietro a un muro, perché noi a quell’epoca così eravamo, 178


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come dietro a un muro, e non c’erano i libri, però le cose succedevano e tu ci dovevi fare i conti e nessuno che ti insegnava prima e nessuno che ti consolava dopo, quando il fatto è successo e non si può fare più niente! Fu proprio in quel periodo che successe il fatto del morso. Sì, sapete, le cose che si dicono da queste parti, che d’estate quando vai nelle campagne ti può mordere questo ragnetto, la tarantola. Dicono che le tarante sono spiriti di persone morte e che, quando ti pungono, l’anima del morto entra dentro il corpo e ti fa stare male. Eravamo nel 55. Archina teneva, come vi ho già detto, quasi dodici anni, a quell’epoca, era verso luglio, mi ricordo che faceva un caldo di pazzi… verso fine luglio, un pomeriggio… Archina, come al solito, non sapevamo dove era andata, io stavo stendendo i panni nel cortile di donna Mariannina e donna Aurelia venne fino davanti alla porta di casa Greco a domandare se sapevo dove stava la ragazza, che era uscita presto la mattina e nessuno l’aveva più vista. Io subito mi preoccupai. Mi presi un poco di permesso e facemmo una corsa fino a casa per vedere se era tornata. E come infatti la trovammo che era tornata, stava nella dispensa dove tenevamo lo zucchero, il sale e il caffè, e si era messa a cucire dei sacchi vuoti, che lei mai lo aveva fatto prima, e stava tutta curiosa, distratta, e cuciva questi sacchi come una pazza e vidi che stava tutta sudata, agitata. “Bella a zia, ma che stai facendo?” disse donna Aurelia, che ormai la chiamavamo zia. Ma quella niente, da un orecchio le entrava e da l’altro le usciva, e non rispose. Poi il giorno appresso era ancora più strana del solito e pure i giorni dopo e io continuavo a non capire questa bambina che teneva. Allora donna Aurelia mi disse “Guarda Filomè, che questa, la bambina, l’ha morsicata la tarantola”. Mi disse che dovevamo chiamare i suonatori a suonare a casa, che così Archina poteva ballare, sudava, e scacciava la tarantola. E così facemmo. Non mi potrò mai dimenticare! Vennero don Filino, il barbiere, che suonava il violino, don Luigi il mezzano con l’organetto, Uccio Blasi, che niente di meno era il comandante dei carabinieri, con la chitarra e donna Aurelia stessa che suonava il tamburello. Non so nemmeno io se era più una festa o un funerale. Donna Au179


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relia mise un lenzuolo bianco steso a terra nella stanza di mia sorella, di fianco al letto, ci fece togliere le sedie per fare più spazio. Stranamente Archina non si ribellò, anzi, sembrò che stesse aspettando proprio a loro. Prese un fazzoletto rosso dal tiretto, si tolse le scarpe e appena sentì che i suonatori suonavano, cominciò a ballare. Tre giorni, signurì, per tre giorni quelli suonarono e lei ballò. Ogni tanto si fermavano per riposarsi un poco e io facevo una cosa da mangiare per l’orchestrina. Poi daccapo suoni e ballo. Alla fine, il pomeriggio della domenica, mia sorella cadde stanca e si addormentò. Donna Aurelia disse che mò stava tutto a posto e i suonatori se ne tornarono alle case loro. Mah! Che vi devo dire. Così fu. Certo il fatto era curioso perché Archina non andava mai nelle campagne e nelle terre da sola, e quindi quando era potuto succedere che era stata morsa? E dove? Mah! forse quando era andata col padre a Maglie, che a Maglie, diceva lui, fanno bene le corde, le scope e le pezze e lui ci andava ogni tanto per comprare queste cose che poi le usava sul posto di lavoro a casa di Angelo Santo. Loro erano rimasti là due giorni, e forse Archina era stata morsa in quella occasione, perché da quelle parti dicono che pure c’è la tarantola, anche se poi quando ci fu lo Sbarco a Salerno, dicono, gli americani arrivarono fino a qua, buttarono il disinfettante e da allora queste tarantole non si sentono più. Fatto sta che dal giorno dopo, da quando aveva finito di ballare, mia sorella cominciò a tornare quella che era prima di ammalarsi. O per lo meno così pensavamo noi. Io stavo un poco più tranquilla, lavoravo e si andava avanti. Ma dopo nemmeno un mese successe il fatto di Narduccio Greco. Che fu trovato morto nel letto una bella mattina, così, bell’e buono. Io non so proprio dire come successe. Si sentirono le grida di donna Mariannina per mezzo paese, uscita completamente pazza che sembrava lei una tarantata, faceva il nome di mia sorella. Quella mattina arrivarono a casa Greco prima il medico e poi i carabinieri. Donna Mariannina sragionava, diceva cose senza senso. Io arrivai di corsa, appena saputa la notizia. Lei mi aggredì dicendo davanti a tutti, cose brutte su mia sorella. Proprio lei che le aveva voluto bene sempre come una mamma. Disse 180


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che Archina non gli aveva potuto portare via i soldi a Narduccio, e così gli aveva portato via l’anima. E poi altre cose, confuse, che nessuno capì niente. Insomma, però, fece sembrare quasi che era colpa della bambina se Narduccio era morto. Così, sapete, in paese… le male lingue… la cattiveria della gente… il fatto che mia sorella si era fissata, vedeva ’sto munaciello… le monache dissero che ad un certo punto l’aveva raccontato pure a loro, che quello veniva a darle fastidio la notte, le toglieva il respiro, e così lei si era imparata a fare la polvere, questa qui, e la metteva tutte le notti in un piatto sulla finestra per avvelenare il monaciello. Poi la bambina passava un sacco di tempo in casa Greco e il povero compare Narduccio, dissero poi, cioè lo disse il medico, che proprio di un veleno era morto! Fatto sta che se la vennero a prendere proprio con mia sorella. Apriti cielo! e che potette succedere! Dissero strega, zoccola, mezza pazza. D’altra parte, se perfino donna Mariannina, aveva potuto cambiare faccia all’improvviso e l’aveva accusata di avere portato il male nella casa loro!? Fortunatamente però mia sorella era troppo giovane, prove non se ne trovarono e così nessuno le poté fare niente. Né la questura e né donna Mariannina, che dopo pochi giorni la bambina venne fatta tornare a Procida, e non se ne parlò più. Ma come e perché e per mano di chi il veleno era finito in corpo alla buonanima di compare Narduccio, non si è mai venuto a sapere. E qui finisce l’avventura… come diceva quello… che quante altre cose terrei da raccontare! Ecco! Vedete, signurì, parlando parlando, vi ho finito di preparare la stramunella. Come la volevate voi. Prendete! Però, ve lo ripeto, state attenta! …uh! Mò che ci penso, scusate tanto signurì, qua con tutti questi racconti, mi sono completamente dimenticata e non vi ho offerto nemmeno un caffè!

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GLI AUTORI

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Gli autori

COSIMO ARGENTINA è nato a Taranto il 22 luglio 1963. Vive in Brianza dal ’90. Cerca di pubblicare un libro di poesie da Manni dal 1995. Quello che ogni editore vorrebbe però in catalogo è Cuore di cuoio (Sironi, 2004). ANDREA BAJANI è nato a Roma nel 1975 e vive a Torino. I suoi ultimi libri sono Mi spezzo ma non m’impiego (Einaudi, 2006) e Cordiali saluti (Einaudi, 2005). È coautore dei testi di Miserabili, l’ultimo spettacolo teatrale di Marco Paolini. Collabora con “La Stampa” e “l’Unità”. GIOVANNA BANDINI è nata a Roma nel 1968. Nel 1997 è tra i vincitori del primo concorso di poesia dedicato ad Amelia Rosselli. L’esordio come narratrice è del 2000 con il romanzo Nudo di ragazza, a cui segue, due anni dopo, un altro romanzo, Giorni dispari, entrambi tradotti all’estero; nel 2003 pubblica il saggio-romanzo Lettere dall’Egeo nato dalle sue ricerche sulle archeologhe italiane in Grecia nella prima metà del Novecento. Dal 2000 Giovanna Bandini è docente di italiano e latino al liceo Maria Montessori di Roma e membro della Missione archeologica italiana Tempio Flavio a Leptis Magna. GIOSUÈ CALACIURA, palermitano, giornalista, ha pubblicato i romanzi Malacarne (Premio Berto 1998), Sgobbo (finalista Campiello 2002) e Urbi et Orbi con la BaldiniCastoldi&Dalai, e La figlia perduta? La favola dello slum con Bompiani. Collabora con quotidiani e riviste, è tra gli autori della trasmissione “Fahrenheit” di Rai Radio 3. I suoi romanzi sono tradotti all’estero. ANTONELLA CILENTO è nata nel 1970 a Napoli. Scrive da quando aveva sei anni e ha pubblicato per Guanda, per Avagliano, per Sironi e per Laterza un certo numero di romanzi e racconti (Il cielo capovolto, Una lunga notte, Neronapoletano, Non è il paradiso, L’amore, quello vero, Napoli sul mare luccica), alcuni dei quali molto premiati. Insegna scrittura creativa in Campania dal 1993 (www.lalineascritta.it), in Trentino dal 2004 e in giro per l’Italia da sempre, e molti suoi allievi sono diventati bravi autori. Scrive anche per i giornali, per il teatro, a volte per il cinema e per l’infanzia (Nessun sogno finisce, Giannino Stoppani). 185


Gli autori

“CARLOD’AMICIS” è un’organizzazione clandestina (fondata a Taranto nel 1964) che si dedica a diffondere il disagio giovanile e – negli ultimi anni – la demenza senile nel mondo. Infiltrati in vari campi del sociale (dal calciobalilla al wertherismo sentimentale, dalla raccolta differenziata di bevande alcoliche al vagabondaggio), i membri che la compongono sono soliti radunarsi nottetempo nella segretezza di una sede romana, dove danno vita a feroci discussioni. Da una di queste è nato il romanzo Escluso il cane (minimum fax, 2006). TERESA DE SIO nasce a Cava de’ Tirreni (Salerno) nel 1955. Comincia la sua attività nel 1976 assieme a Eugenio Bennato. Nel 1982 arriva il successo popolare con l’album Teresa De Sio, che contiene il brano Voglia ’e turnà. Nel maggio di quest’anno esce Sacco e Fuoco, cd in studio con 11 brani inediti. OMAR DI MONOPOLI è nato a Bologna nel 1971 e vive a Manduria (Taranto). Da anni lavora nel mondo della piccola editoria e ha collaborato con Edoardo Winspeare nel film corale A Levante. Il suo ultimo libro è Uomini e cani (ISBN, 2007). ELISABETTA LIGUORI è nata a Lecce nel 1968 e qui vive, non soltanto di scrittura, ma quasi. La parte più viva e frenetica del tutto è quella relativa alla realizzazione di riviste on line, come www.musicaos.it e www.bibliosofia.it, e alle riviste cartacee come “Nuovi Argomenti”, “Tabula Rasa”, “Vertigine”. Il credito dell’Imbianchino (Argo) è il suo primo romanzo, già finalista al Premio Berto 2005 e al Premio Carver 2005. Il secondo, Il correttore (peQuod), è in libreria da febbraio 2007. CARLO LUCARELLI (1960), è nato a Parma e vive a Mordano e San Marino. Ha pubblicato Carta bianca (Sellerio, 1990), L’estate torbida (Sellerio, 1991) e una marea di libri tanto che citiamo solo gli ultimi, a partire da Il lato sinistro del cuore (Einaudi, 2003), Serial killer. Storie di ossessione omicida (con Massimo Picozzi, Mondadori, 2003), Nuovi Misteri d’Italia e i casi di Blu Notte (Einaudi Stile Libero, 2004), Tracce criminali (con Massimo Picozzi, Mondadori, 2006), Autosole (Rizzoli, 2006), Autostrada (Clueb, 2006), Il mistero a piccole dosi (Datanews, 2007). GIANLUCA MOROZZI è nato a Bologna nel ’71. Fino a qualche anno fa as186


Gli autori

somigliava vagamente a Kabir Bedi. Nella classifica dei migliori chitarristi del mondo è onorevolmente piazzato al tremilionesimo posto, secondo gli ultimi rilevamenti. Il suo ultimo romanzo si chiama L’abisso (Fernandel, 2007). MARINO NIOLA (Napoli, 1953) è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Collabora all’ideazione di programmi radiofonici e televisivi della Rai e scrive su “La Repubblica”, “Il Mattino” e varie testate giornalistiche. Tra i suoi ultimi libri Don Giovanni ovvero della seduzione (L’Ancora del Mediterraneo, 2006) e I Santi patroni (Il Mulino, 2007). ANTONIO PASCALE è nato a Napoli nel 1966, è cresciuto a Caserta, vive e lavora a Roma. Ha esordito nel 1999 con La città distratta (Premio Sandro Onofri e Premio Isola di Procida - Elsa Morante), reportage narrativo su Caserta, e sulla vita in una qualunque provincia del meridione d’Italia. Del 2003 è la raccolta di racconti La manutenzione degli affetti (Einaudi), a cui sono seguiti i due romanzi Passa la bellezza (Einaudi, 2005) e S’è fatta ora (minimum fax, 2006). AURELIO PICCA (1957) è nato e vive a Velletri. Ha pubblicato Per punizione (Rotundo, 1990), La schiuma (Gremese, 1992), I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia, 1995), L’esame di maturità (Giunti, 1995; Rizzoli, 2001), I mulatti (Giunti, 1996), Tuttestelle (Rizzoli, 1998), Bellissima (Rizzoli, 1999), Sacrocuore (Rizzoli, 2003), Via Volta della morte (Rizzoli, 2006), L’Italia è morta, io sono l’Italia (L’Obliquo, 2007). LAURA PUGNO è nata a Roma nel 1970. Nel 2007 ha pubblicato la raccolta di poesie Il colore oro (Le Lettere) e il romanzo Sirene (Einaudi). Il suo sito è www.laurapugno.it. LIVIO ROMANO è nato nel 1968 e vive a Nardò (Lecce). Oltre a varie collaborazioni giornalistiche, dopo Mistandivò (Einaudi) e Porto di mare (Sironi), ha pubblicato nel 2007 Niente da ridere (Marsilio). Gira la penisola italiana presentandosi come antimeridiano. GRAZIA VERASANI è nata a Bologna l’8 luglio 1964. Negli ultimi anni l’hanno chiamata spesso “Quella di Quo vadis, baby?” per il film di Gabriele 187


Gli autori

Salvatores tratto dal suo romanzo, la cui protagonista torna anche nell’ultimo Velocemente da nessuna parte. A parte i due noir, ha pubblicato altri quattro libri “bianchi”, compresa la pièce teatrale From Medea, rappresentata in Italia e all’estero. Si definisce “una musicista che scrive”, in omaggio alla sua giovinezza di pianista. Il suo sito è www.graziaverasani.it.

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Indice 5

Estri smarriti di Marino Niola MORDI & FUGGI

13

ELISABETTA LIGUORI Il problema

25

CARLO LUCARELLI Portavo una testa di morto

29

GIANLUCA MOROZZI I duri non ballano

43

ANDREA BAJANI Forse si muore così

49

COSIMO ARGENTINA La melodia dei nastri di ghisa

57

OMAR DI MONOPOLI Sputazza from outer space

65

CARLO D’AMICIS Cosimo corre

83

ANTONELLA CILENTO Vago

93

ANTONIO PASCALE Aria, Ansia

97

GRAZIA VERASANI La ringhiera

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GIOVANNA BANDINI Incantatori

123

GIOSUÈ CALACIURA Funerale

131

LIVIO ROMANO Calypso mon amour

157

LAURA PUGNO Poison

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AURELIO PICCA Ricordi di un ladro

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TERESA DE SIO L’erba del diavolo

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GLI AUTORI

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Stampato presso Valerio Grafiche - San Cesario di Lecce nel giugno 2007 per conto di Piero Manni s.r.l.

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