Terzo millennio rivista

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terzo millennio anno 6 – numero I/II GIUGNO 2014 issn–2038–0070


Si ringraziano tutti i sostenitori che hanno contribuito anche alla stampa di questo numero di Terzo Millennio.

In copertina: Italo Svevo


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Si informano i collaboratori che, per motivi di spazio, non è stato possibile pubblicare alcuni loro articoli che appariranno su uno dei prossimi numeri di “Terzo Millennio”.


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Federico De Roberto

Federico Ranaldi, personaggio foriero di riscatto nella narrativa derobertiana Jean Igor Ghidina

Docente di Letteratura Italiana ‒ Università “Blaise Pascal”, Francia Si è molto disquisito sulle molle narrative e sull’intelaiatura tematica de I Viceré, sull’inesorabile tralignamento di una stirpe, sulla bramosia del bieco tornaconto, sull’atavismo come culto e come mimetismo monomaniaco, ma ci pare altresì che la figura di Federico Ranaldi ne L’imperio consenta di palesare la complessità dell’opera derobertiana la quale non indulge soltanto alla mera involuzione agnostica subentrata al crollo di ogni ideale risorgimentale. Innanzitutto, potremmo soffermarci sulla funzione attanziale di questo personaggio per determinarne la rilevanza diegetica e intratestuale, in un secFederico De Roberto ondo tempo faremo mente locale alla sua traiettoria assiologica improntata dapprima all’anelito patriottico, poi al baratro del nichilismo ed infine all’inaspettato riscatto. Ranaldi deuteragonista? Federico Ranaldi compare emblematicamente nell’esordio e nell’explicit de L’imperio come se la sua traiettoria diegetica incastonasse le vicende occorse a Consalvo Uzeda di Francalanza in procinto di conquistare l’apice del potere politico nazionale dopo la sua scalata travolgente nella Catania natia. Siccome è invalsa l’interpretazione di considerare L’imperio come la prosecuzione, per giunta rimasta in fieri, della trilogia di cui I Viceré costituiscono il fulcro, Federico Rinaldi assurge come ha osservato acutamente la critica a figura speculare che si oppone a quella di Consalvo, principino versipelle e rampollo spregiudicato. Ora, che costui debba incarnare il protagonista de L’imperio non pare così scontato in quanto l’ascesa verso le fastigia della gloria da parte di Consalvo Uzeda viene 5


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inceppata a nostro parere dagli ultimi eventi che lo riguardano. Intanto, sebbene il discorso contro il socialismo nel capitolo VII abbia sortito un certo trionfo, l’attentato successivo e, dopo la convalescenza, l’ultima scena nella quale Consalvo aggredisce Anna, incrinano un’apoteosi ormai un tantino virtuale, scevra comunque di una risonanza che coinvolga i seguaci quanto la cittadinanza come era il caso nell’ultimo capitolo de I Viceré. Sappiamo poi con un’ellissi nel capitolo IX che Consalvo è stato travolto dagli strascichi della sconfitta di Adua dimodoché il personaggio si dilegua quindi senza nemmeno usufruire di un epicedio che ne tramandi la memoria. Anzi, la temperie fatiscente, che permea di sé gli eventi politici dello scorcio dell’Ottocento entro cui viene ambientata la vicenda romanzesca, sembra non lasciare scampo, per cui preme sottolineare che l’incompiutezza verte innanzitutto su questo vanificarsi di un personaggio cardinale sia ne L’imperio che ne I Viceré. Insomma, si pone qui il dilemma dell’interpretazione complessiva della trilogia derobertiana tanto più che la stesura e l’edizione de L’imperio lasciano trapelare se non la palinodia in assoluto quanto meno i ripensamenti e il senso probabile di inappagamento di De Roberto, senso che esula da finalità meramente estetiche. In altri termini, può darsi che l’incompiutezza de l’imperio dia adito a un’interpretazione tutt’altro che univoca sia della cosiddetta trilogia sia dell’opera omnia dell’illustre scrittore siciliano. In tale prospettiva, il personaggio di Consalvo rappresenterebbe in modo inequivocabile la pars destruens, magari la negatività nell’accezione adorniana, ma non esaurirebbe il significato intrinseco dell’opera omnia derobertiana. Se il trasformismo cinico dell’aristocrazia sicula e la politica come palcoscenico in cui prevale la demagogia, il potere politico come intrallazzo oligarchico a scapito del riscatto del popolo, inesorabilmente succube, fungono da nuclei tematici imprescindibili, non si deve porre in non cale la dimensione esistenziale di personaggi come Teresa ne L’Illusione e Ranaldi ne L’imperio che consentono di prospettare l’opera derobertiana secondo un metro più variegato ovvero meno monolitico. In sostanza, oltre al dilagare del cinismo, possiamo indugiare, massime ne L’imperio, sui personaggi che pur sconfitti non sono equiparabili a dei vinti di verghiana memoria. Nella fattispecie, Ranaldi fungerebbe non tanto da attante antagonista di Consalvo, quanto da soggetto che persegue uno scopo ideale e che, anziché giungere al suicidio, approda, dopo un lungo dibattito interiore all’accettazione della vita come dono. Molti critici hanno ritenuto poco attendibile il lieto fine de l’Imperio che contrasterebbe con la cupezza imperante nell’opera di de Roberto. Crediamo invece che esso ci palesi un De Roberto meno monolitico di quanto sembri e che ad ogni modo non si tratti di un espediente cagionato da un’ispirazione infiacchita. 6


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Sprazzi di Bildungsroman? Nell’incipit, Ranaldi viene calato in un ambiente da lui magnificato sebbene si senta un intruso, in balia di una ritrosia dettata magari più da un atteggiamento guardingo che da una diffidenza repentina. Spicca comunque la concinnità della scrittura derobertiana che contrasta vistosamente con la trasandatezza del deputato, quasi l’arte letteraria dovesse trasmettere il suo messaggio paratopico non in una relazione piattamente mimetica della realtà raffigurata, bensì con l’ausilio di un distacco meditativo. Come sottolinea Nunzio Zago: «Lo sguardo panoramico del narratore che si serve del «cannocchiale» di Federico Ranaldi, ma non si sottrae ad una minuta ricognizione, coincide con quello, perplesso, del personaggio.»1 Il fraseggio tende quindi a rispecchiare il divario tra l’ideale del giovane che dapprima viene soggiogato dallo scenario del parlamento per poi scoprire la mediocrità dei deputati la cui eloquenza riesce mendace. Allegoricamente, proprio alla fine del capitolo, mentre Ranaldi sta mostrando i segni di una crescente insofferenza, la colonna su cui si appoggia è in realtà posticcia, il che costituisce una mise en abyme, ossia un particolare altamente simbolico che rimanda al significato profondo de l’Imperio. « Dalla confusione, alzandosi, Ranaldi mise un piede in fallo e dovette appoggiarsi alla colonna. Allora, sotto la mano, sentì che la grave colonna sorreggente l’arco solenne era di legno foderato di cartone.»2 Questa colonna accenna alla parvenza di rispettabilità del parlamento che cozza con la sostanza effettiva della politica, rinvilita a voto di scambio e bramosia sfrenata di sopraffazione da parte di deputati spesso rei di venalità che non adempiono alla loro vocazione di strutture portanti della democrazia. L’esordio in medias res campeggia un protagonista giovanile in pieno apprendistato confrontato a un mondo ignoto, in balia di sentimenti contrastanti anche se prevalentemente improntati al disagio. Un giovane protagonista che non si sente affatto in sintonia con un mondo che comunque cerca di conoscere Nunzio Zago, «Introduzione a l’imperio” in Federico De Roberto, L’imperio, Milano, Rizzoli, 2009, p. 18 2  Federico De Roberto, L’imperio, Milano, Rizzoli, 2009, p. 53 1

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meglio, il che potrebbe conferire all’incipit un tratto da Bildungsroman, senonché il lettore rischia di amalgamarlo con quello de I viceré, avvolto in una temperie plumbea. Di primo acchito, nemmeno ne l’imperio sembra esserci uno scampo e basta fare mente locale al campo lessicale e al climax ascendente per intuire che ci inoltriamo in una vicenda alquanto fosca che incombe già sull’assiologia del personaggio: «L’impressione non era stata tuttavia tanto forte da impedirgli di notare l’angustia, la bruttezza e l’oscurità dei luoghi.» Tuttavia, si potrebbe obiettare che la perizia narrativa di De Roberto può consistere nell’indurre il lettore a credere in un determinismo, in un fatalismo per poi congegnare una svolta inaspettata. Con questo intendiamo dire che rispetto a I viceré, L’imperio tende ad assumere un carattere in certo qual modo caravaggesco in quanto gli sprazzi di luce soffusi da una specie di rivelazione riescono ogni tanto ad illuminare il buio sia individuale che interpersonale se non collettivo. Nella presentazione della famiglia di Federico Ranaldi si può intuire un riecheggiamento autobiografico derobertiano poiché trattasi di una famiglia aristocratica ligia ai Borboni, estromessa dalle élite al potere dopo il Risorgimento, in cui vige comunque un certo codice dell’onore anzi un rigore morale che non ha nulla da spartire con l’opportunismo degli Uzeda di Francalanza. Il dissidio tra i genitori e il giovane Ranaldi viene innescato dalla divergenza in materia di educazione, di cultura e di scelta ideologica. Esposto al ludibrio dei compagni di scuola per via della nomea retriva dei genitori, Federico Ranaldi costruisce sé stesso opponendosi appunto ai genitori, perché vuole svincolarsi da un retaggio atavico che gli sembra incompatibile con l’ideale postrisorgimentale da lui ritenuto supremo e intangibile, addirittura ammantato da un alone ieratico. Ranaldi è equiparabile a un neofita, a un proselite che è dedito con fervore alla nuova fede, ragione per cui aderisce visceralmente ai rituali ed all’agiografia che suggellano le gesta epiche della nuova nazione. «I sentimenti di italianità si erano specificati in lui, divenendo un culto religioso per lamonarchia redentrice e un’ammirazione sconfinata per il partito a lei più devoto.»3 La tesi di laurea di Ranaldi intitolata «i doveri della libertà» appare come un dettame mazziniano pregno di una levatura morale e intellettuale che è ben lungi dallo sproloquio sofistico di Consalvo che si avvale di una pseudo miscellanea culturale soltanto per strabiliare il pubblico. Implicitamente, dietro l’ideale candido del giovane Ranaldi, si sente altresì l’anelito del De Roberto non ancora totalmente rassegnato al trasformismo imperante, si sente in queste pagine la nostalgia, anzi come direbbe Antonio Tabucchi, usando un vocabolo portoghese, la saudade vale a dire il delinearsi utopico 3

Ibid., p. 126

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di quello che sarebbe potuto esistere, come se il Risorgimento avesse potuto sfociare su un’unità verace e non su un’involuzione oligarchica. Ranaldi si erge quindi a portavoce di una parte del pensiero derobertiano e d’altronde è sintomatico che abbia plasmato questo personaggio dissenziente ed addirittura eterodosso in un’opera che viene pubblicata postuma nel 1929, il che significa che l’ultimo De Roberto pur condividendo una specie di cupio dissolvi di sé e del mondo circostante non va ritenuto un monomaniaco incallito. Ad onta del suo pessimismo metafisico ed esistenziale, con la figura di Ranaldi, uno dei suoi alter ego, siamo indotti a credere che De Roberto non abbia mai smesso di cogitare sulla quiddità dell’uomo, per cui se va cozzando concettualmente contro un’aporia, plasma un’opera sempre artisticamente recepibile perché vertente su dilemmi universali. L’illusione romana A Roma, nei panni del giornalista esordiente, Ranaldi mira a far tesoro di un apprendistato non solo da professionista dell’informazione politica e parlamentare, ma pure da cittadino che tesse relazioni dalla forte componente morale. Una di queste è l’amicizia con il deputato Satta che assurge a guida intellettuale in veste di persona integerrima che sta attenta a non ridurre i rapporti altrui a schematismi, a pregiudizi e a steccati. La proposta di creare un nuovo giornale e l’invito rivolto a Ranaldi sono immuni da qualsiasi secondo fine, motivo per cui il giovane non oppone remore, tanto si sente in sintonia con il suo mentore. Difatti, le motivazioni di Ranaldi consistono nell’altruismo, nella filantropia, insomma nel progresso collettivo. Valori che secernono la deontologia, il rigore etico di un giornalista che crede nella verità della parola come fonte di edificazione morale e di educazione per il popolo e non come ammaliamento demagogico e piaggeria dei potenti Valori che fanno da contraltare alla spregiudicatezza di Consalvo che usa e abusa del verbo oratorio secondo fini strumentali. Dopo un ellissi, la narrazione si focalizza sulla riunione a casa di Consalvo durante la quale Ranaldi, pur suggerendo azzeccatamente il nome della nuova rivista, non sembra in sintonia con la compagine che circonda il deputato siciliano. Per quanto Ranaldi non possa essere definito ancora come un dissidente, la sua ritrosia non deriva soltanto dalla sua indole, ma anche dalla delusione provata nei confronti di un ambiente dalle mosse codificate. Certo, De Roberto tratteggia nel contempo un giovane velleitario che deve maturare le sue esperienze, ma si evince da questo passo che la morigeratezza, il pudore, la modestia pur essendo virtù encomiabili, si trasformano in una zavorra per coloro che intendono scalare i gradini del successo professionale o del palazzo del potere. Il capitolo VII è dedicato al discorso ditirambico di Consalvo, ma come 9


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per l’orazione proferita al cospetto della folla assiepatasi nel convento dei benedettini alla fine de I viceré, nel capitolo 3, IX, va notato che la narrazione allo stile diretto viene spezzata da squarci che fanno trapelare non solo il punto di vista di Ranaldi, ma anche quello della voce narrante eterodiegetica. Ovvero, con l’ausilio della focalizzazione interna emerge il sentimento dissenziente di Federico Ranaldi. Il fraseggio ricco di anafore e il periodo tendente al climax ascendente fanno spiccare la duplicità di Consalvo Uzeda, la dicotomia tra l’essere e il parere eretta a prassi politica vincente. Un Federico Ranaldi che rappresenta l’alter ego di Federico de Roberto, perché al di là della similitudine onomastica, il personaggio perno de l’imperio va incarnando la denuncia dell’autore catanese nei confronti dello sfacelo della politica nazionale. Ranaldi va considerato a nostro parere il portavoce del pensiero derobertiano se badiamo al significato dell’opera omnia e non solo della trilogia l’illusione, i viceré e l’imperio, quasi riannodasse le fila di Ermanno Raeli. Nell’incipit del capitolo VII si staglia lo sguardo acuto e insieme sarcastico affidato a Federico Ranaldi che demistifica i preparativi della sala in cui deve conferire Consalvo Uzeda, rivelando il vero volto degli astanti, seguaci dei privilegi di casta e dell’oligarchia romana per cui il popolo e segnatamente gli operai vanno mantenuti nella sudditanza e nell’ignoranza. Come ha sottolineato con acume Margherita Ganeri, a Ranaldi spetta una funzione apotropaica di anti-Consalvo4, ché egli indubbiamente funge da scrutatore cui viene attribuita nella narrazione una funzione dissonante sia per il parere ovviamente contrastante sia per il modo con cui viene espresso. Difatti all’elefantiasi dell’oratoria reboante di Consalvo, si oppone un punto di vista compendiato in qualche frase pungente caratterizzata molto spesso dallo stile indiretto libero. Alla boria vacua della parola capziosa e stucchevole che ottunde la mente, si oppone la domanda lapidaria che palesa l’inganno. Certo, si può stabilire un raffronto con l’esordio del capitolo I nel momento in cui Ranaldi scopre Montecitorio, adottando anche qui uno sguardo distaccato e tuttavia soggiogato dallo spettacolo dei dibattiti in aula. Tuttavia, siamo ormai ben lungi dalla cornice di un potenziale Bildungsroman giacché alle speranze e alle illusioni giovanili subentra la consapevolezza del protagonista che conosce ormai le quinte della politica di cui Consalvo Uzeda è l’esponente più emblematico e più bieco. Federico non è succube dell’adesione acritica che soggioga gli astanti perché coglie perspicuamente la retorica sofistica e quindi mendace dell’oratore che non si perita, tutt’altro, di inanellare banalità. In un’ottica intratestuale, intrinseca all’opera di De Roberto, questo passo ci pare possa fungere da deluGaneri, Margherita, L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto, Firenze, Le Monnier, 2005. 4

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cidazione complessiva del discorso politico di Consalvo sia ne I viceré sia ne L’imperio, anche perché fra poco il principe di Francalanza uscirà di scena. Mediante lo sguardo spietato di Ranaldi, De Roberto fornisce anche l’intentio auctoris, il modo con cui dobbiamo interpretare il suo parere su una politica rinvilita ad indecoroso spettacolo. «Un’altra fragorosa risata echeggiò per la vasta sala, e Federico rise anch’egli; ma il riso suo freddo e contenuto, non che dalle cose che l’oratore diceva, era anzi eccitato dal vedere e dal sentire come quelle cose puerili piacessero tanto all’uditorio.»5 «Federico lo udiva e lo guardava con un senso di stupore: quel prepotente, quel cupido si commoveva, si inteneriva, pareva veramente sul punto di fare il sacrifizio di tutto sé stesso sull’altare dell’umanità: pareva già spoglio di ambizioni, umile, solo zelante al bene degli altri.»6

Ranaldi si accorge di non condividere più i valori dominanti del ceto aristocratico di cui fa parte e questa scatto interiore sembra motivata per lo più da una divergenza meno politico-ideologica che morale. Difatti, rifiutando ormai di schierarsi a destra, non per questo aderirà ipso facto ai partiti progressisti sebbene baleni in lui il richiamo al socialismo. «Udendo questi giudizii, Federico sentiva crescere lo sdegno e la ribellione nati in lui durante la concione, e un bisogno di gettare in faccia a quella gente l’angustia delle loro menti, l’egoismo dei loro cuori.»7

Dedito ad un’introspezione rigorosissima di sé stesso, Ranaldi è conscio del fatto che il motivo sentimentale possa propiziare la conversione ad una nuova fede politica. Comunque, lo stile indiretto libero mette in risalto l’incalzare di quesiti che sfociano su una decisione in cui prevale il rifiuto non tanto di un’ideologia retriva quanto di un personaggio indegno moralmente. «Non pensava egli a queste cose, non aveva cominciato a pensarle per la gelosia dalla quale si era sentito mordere acquistando la tristezza che Renata amava il Francalanza? Che importava! Da quella conferenza contro il socialismo egli sentiva d’essere uscito socialista.»8

Quaestio mihi factus sum Il capitolo IX viene contrassegnato dal prevalere del monologo interiore perché, reduce a Salerno dopo gli anni trascorsi nell’Urbe, Ranaldi viene assillato dal tarlo dell’insofferenza nei confronti di un’esistenza giovanile da lui ritenuta sperperata. L’introspezione anzi lo scandaglio acuminato della psiche tocca l’imo dello sconforto, senza che per Ranaldi sorga, come Federico De Roberto, L’imperio, Milano, Rizzoli, 2009, p. 215 Ibid. p. 228 7  Ibid. p. 234 8  Ibid. p. 235 5  6

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in altri famosi testi antichi, la speranza dell’amore divino per la sua creatura smarrita. Anziché suggellare una rimpatriata trionfale, il ritorno di Ranaldi a Salerno assume il carattere di una disfatta personale. Ricomparso nella città in cui ha trascorso la prima gioventù e fatto i primi studi prima di trasferirsi a Roma anche per scampare all’invadenza dei genitori, ora Ranaldi prova una resipiscenza e perfino un rimorso nei loro confronti. Egli ne percepisce inoltre lo struggimento per la sua mancata sistemazione professionale e sentimentale, ma quello che più gli grava l’animo è la consapevolezza di essersi logorato a Roma per via innanzitutto dell’insofferenza nei riguardi del dibattito politico volto a denigrare l’avversario e secondariamente per aver fallito le sue relazioni sentimentali, bruciate in amorazzi furtivi. «Era stato l’amore, l’orgoglio, lo struggimento di entrambi, e così aveva corrisposto alla loro idolatria; abbandonandoli, dimenticandoli, lasciandoli invecchiare soli e dolorosi.»9

Nel travaglio retrospettivo di Ranaldi, assume una certa rilevanza l’eco della clamorosa sconfitta di Adua la quale determina l’estromissione di Consalvo dal vertice della politica nazionale10 ed il suo commiato diegetico. Più che il nesso della micostoria finzionale con la macrostoria, giova sottolineare che la batosta militare in Etiopia segna il tracollo delle illusioni postrisorgimentali di Ranaldi. Di nuovo, prevalgono le considerazioni morali perché quelle polemologiche vengono sottaciute. Anziché scagliarsi contro Consalvo, suo acerrimo avversario, Ranaldi lo ritiene un capro espiatorio sacrificato da politici che sono rei di dappocaggine ributtante, anche se fa capolino in queste righe la concezione etnocentrica che De Roberto condivide con la maggior parte degli intelletuali coevi, vale a dire la convinzione della superiorità culturale per non dire razziale dell’Europa sul resto del mondo. «Un’orda di barbari, un pugno di mulatti ne avevano avuto ragione.»11

La sfiducia nella classe politica nazionale non assolve i ceti dirigenti degli altri paesi, per cui dall’analisi politica si passa a quella di matrice antropologica secondo una falsariga pessimista, in quanto giunge addirittura al nichilismo individuale collegata ad una visione, più che immanentistica, meramente istintuale dell’essere umano. «Nulla, non c’era da far nulla, non si poteva aspettare o sperar nulla, non si poteva credere in nulla.»12

Ibid. p. 276 Questo corriponde storicamente al tramonto del deputato e ministro catanese Antonino di San Giuliano. 11  Ibid. p. 278 12  Ibid. p. 280 9

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«La maggior parte delle nazioni ed dell’intero genere umano non pensavano ad altro fuorché alla fame da saziare, nel modo più agevole e pronto.»13

Al determinismo fatalistico che sembra imperare nell’umanità fa da contraltare l’attività intellettuale, ma anziché spalancare nuove mete con possibilità di riscatto, essa si riduce a derivativo inane e ad ogni modo caduco volto a scomparire ineluttabilmente. Si può ravvisare qui una reminiscenza del celeberrimo vanitas vanitatum omnia vanitas della Bibbia, solo che non si delineano nessuno scampo metafisico e nessuna implorazione verso la divinità, perché Ranaldi è ingolfato nel vicolo cieco del solipsismo ovvero del raziocinio che si impania in elucubrazioni esclusiviste che ingigantiscono alcune aporie impedendo di prospettare gli argomenti affrontati in un’ottica multifocale. E che valeva tutto ciò che egli aveva detto e scritto, in tanti anni? Che valeva tutto ciò che avevano detto e scritto gli altri al pari di lui, i più valenti, i sommi?14

Il piroscafo e il treno che segnano il trionfo del trasporto veloce a vapore appaiono a Ranaldi degli ordigni fallaci i quali, se modificano la relazione trascendentale dell’uomo con il tempo e con lo spazio, non ne mutano la condizione vulnerabile e soprattutto non consentono un miglioramento delle condizioni sociali né una consapevolezza etica. In realtà, ci troviamo qui, sia pure nell’ambito di una meditazione di un personaggio romanzesco, di fronte a una contestazione della filosofia positivistica di cui Auguste Comte era il capostipite. «Due glorie della scienza, due trionfi della civiltà? che importava arrivare un poco più presto o un poco più tardi?»15

Anche in questo caso, si può riscontrare un riecheggiamento biblico poiché il peccato di superbia è la causa primaria del traviamento dell’uomo, tuttavia, dopo quest’asserzione perentoria, non compare nessuna soluzione o possibilità di risposta. «Il progresso era tutta apparenza, illusione e presunzione. Tolta agli uomini la presunzione, che cosa restava loro?»16

L’uomo non è più visto come creatura perfettibile in bilico tra il bene e il male perché Ranaldi è ormai in balia di un nichilismo che non permette più nessuno scampo, nessuna redenzione. Una simile indifferenziazione morale del resto fa trapelare l’impossibilità di svincolarsi da un bozzolo solipistico e di conseguenza l’incapacità di sentire la propria vita come un dono per sé e per altrui. Ibid. p. 281 Ibid. p. 281 15  Ibid. p. 282 16  Ibid. p. 283 13  14

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Terzo Millennio – anno 6 – numero i/ii – giugno 2014 «Non c’erano dunque né virtù né vizi, né colpe né meriti: nulla, nulla, nulla.»17

Tramite Ranaldi, De Roberto indulge alla temperie culturale che tra l’ultimo Ottocento il primo Novecento o fa l’apologia della sopraffazione del più forte o versa nel cupo pessimismo che conduce al suicidio. Si notino il lato apodittico della frase citata, con la materia, frammentata in atomi, che non secerne più la vita, nonché la gradazione ternaria la cui clausola fa spiccare l’aggettivo semanticamente pregnante. «Ogni atomo della inerte materia era il prodotto d’una irritazione, d’una infezione, d’un processo morboso.»18

In sostanza, il senso di smarrimento, di sconforto, di derelizione che pervade Ranaldi presenta non poche attinenze con i personaggi di altri due romanzi facenti parte del novero della narrativa detta parlamentare, ossia Daniele Cortis di Antonio Fogazzaro e La conquista di Roma di Matilde Serao. Segnatamente in questo, sebbene l’Urbe serbi una certa aura mitica, scenografica e monumentale, retaggio delle glorie antiche, l’epilogo segna la sconfitta del protagonista, sconfitta inferta da una Roma implacabile. Va notato che in questo excipit viene delucidato in modo antinomico il significato recondito del titolo dell’opera. Difatti, in un primo tempo si capisce il titolo La conquista di Roma come un genitivo oggettivo, ovvero si pensa che il protagonista si prefigga lo scopo di vincere Roma ovvero di scalare i gradini del potere da essa simboleggiato, mentre badando all’epilogo si interpreta il titolo come un genitivo soggettivo in quanto a vincere è appunto Roma, una Roma eterna se si vuole, non per la sua essenza metatemporale imperiale quanto pontificale, ma quale emblema della capacità stritolatrice dell’istituzione politica pronta a sacrificare gli ingenui e gli sprovveduti. «Nulla serviva più a nulla: tutto era inutile, tutto. (…) poiché in verità, Roma lo ha vinto.»19

Anche per Ranaldi, smidollato dall’abulia, la vita romana rappresenta una lezione cocente di disamore, di sbandamento, di profondo disinganno di fronte all’apostolato per la patria perché la vita politica è equiparabile a una rincorsa spietata verso il potere. Frustrato nelle sue aspettative e nei suoi aneliti dallo squallore della vita politica e sentimentale, Ranaldi fa l’apologia di un annientamento della terra che non è più prospettata come il giardino affidato alla responsabilità dell’uomo. «Perché odieranno la vita saranno chiamati biofobi; perché faranno saltare a pezzo a pezzo il mondo si chiameranno geoclasti.»20

Ibid. p. 283 Ibid. p. 284 19  Matilde Serao, La conquista di Roma in Romanzi, Milano, Garzanti, 1946, p. 514 20  Op. cit., p. 309 17  18

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Tutto sommato, quello di Ranaldi è un atteggiamento regressivo e antropocentrico che non bada al fatto che per appagare la propria follia distruttrice, propugna l’annichilimento di un mondo preesistente da lui ignorato. Questa visione esclusivista dell’uomo unidimensionale, ormai reificato dalla modernità dilagante, cui è preclusa la speranza di un riscatto immanente o trascendente, che è scisso da un autentico richiamo metafisico che possa lasciar estrinsecarsi oltre alla consapevolezza della propria finitezza, anche la necessità di un confronto edificante con l’alterità, innesca in sede narrativa, ma non solo, se si bada alle vicende infauste della storia europea del secolo scorso, tre esiti ineludibili. Il primo consiste nel suicidio escogitato, ma non compiuto come per Federico Ranaldi, il secondo nel suicidio individuale attuato che segna il parossismo di disperazione come per Ermanno Raeli21 nell’opera eponima di De Roberto, il terzo nel suicidio in quanto autodistruzione personale abbinato all’omicidio della donna ritenuta alterità irriducibilmente nemica come per Giorgio ed Ippolita ne Il Trionfo della morte di d’Annunzio. In tale romanzo, il rapporto di coppia equivale ad una sopraffazione e non a una sensualità pervasa dal senso della bellezza e dell’assaporamento della vita da tramandare. Non sussiste nemmeno l’eventualità di procreare il superuomo perché la donna sterile sembra quasi vampirizzare il compagno defraudato della sua bramosia di potenza. «Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti»22

Tornando alla fine del capitolo IX de L’Imperio, la battuta lapidaria di Anna coglie indubbiamente nel segno perché individua l’eziologia del disamore risentito da Ranaldi per sé e per gli altri nelle prove deludenti anzi traumatiche cui è stato sottoposto durante il soggionro romano. «Che vi hanno fatto perché diciate così?»23

La quiete dopo la tempesta Superato il frangente che l’aveva trascinato sull’orlo del suicidio, come in un barlume di lucidità della coscienza che combacia felicemente nella narrazione con il sorgere dell’alba, simbolo cosmico di misteropancalico, Ranaldi esce dal baratro del nichilismo per rivalutare sé stesso in relazione con l’amore ricambiato di Anna. Nel testo, si staglia una frase che riveste Madrignani ha opportunamento palesato l’addentellato tra la figura di Federico Ranaldi e quella di Ermanno Raeli. Cf Madrignani, Carlo Alberto, Illusione e realtà nell’opera di Federico De Roberto: saggio su ideologia e tecniche narrative, Bari, De Donato, 1972. 22  Gabriele d’Annunzio, Il trionfo della morte, Milano, Mondadori, 2001, p. 382 23  Op. cit., p. 309 21

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indubbiamente un risvolto aforistico come se Ranaldi fosse in bilico tra una rassegnazione supina di fronte a una legge cogente, da lui subita ma non condivisa, e un’accettazione corrispondente ad un lungo dibattito interiore che recupera la saggezza di un intellettuale emancipato dalla propria torre d’avorio, per il quale la salvezza hic et nunc dell’esistenza non è preclusa all’eudemonismo. «Non protestare, non obbiettare, accettare quelle offerte, goderne, esultarne: così voleva la vita.»24 Nella clausola del romanzo, la battuta di Ranaldi, pur nella sua dimen-

sione ellittica, ci pare tutt’altro che convenzionale, perché rappresenta l’esito fausto di un lungo travaglio: «“Mamma,” egli disse- prendendo la mano rugosa di lei “ho pensato a tutto: chiedi la mano di Anna per me…”»25

La mano sta a significare la solidarietà e l’affetto intergenerazionale, il rispetto per la madre ormai anziana, il ripristino dell’amore filiale e di quello materno non in un’ottica esclusivista ma come conferma di un legame foriero di una nuova relazione, di un amore ricevuto e di un amore da donare. Spicca qui in realtà non tanto l’accondiscendere ad una consuetudine atavica quanto il ripudio di un’aseità assurda che imbozzolava Ranaldi in una dimensione autoreferenziale disgiuntiva dalla quiddità dell’essere umano, essere non autocostruito o autogenerato, ma essere di congiunzione, di relazione e di religione nel significato più pretto. Più precisamente, dall’essere per sé, dalla coscienza avulsa dall’apertura verso l’esterno, Ranaldi trasmigra verso l’essere in sé come oggetto depositario di dignità per gli altri. L’amore di Anna avvia lo sgretolamento dell’appartarsi solipsistico di Ranaldi che è coinvolto in una sfera intersoggettiva da cui non può più prescindere. Del resto, il «pensare a tutto» allude anche al travaglio intellettuale di Ranaldi che ha rinunciato al suicidio perché oramai la sua vita non è più soltanto sua, ma appartiene anche ad Anna. La vita personale, prima futile e inane perché andata incontro al fallimento degli idoli di successo sociale e di vanagloria, registra quindi un nuovo slancio nell’incontro con una cosiddetta «bambina» che riesce, con buona pace del parere di alcuni critici di vaglia, tutt’altro che scialba. Difatti, Anna, ad onta del punto di vista di Spinazzola che le affibbia la qualifica di «figura troppo convenzionale»26, non va confusa secondo noi né con una donna sparente o sparuta, inattingibile, né con un ritratto di una fanciulla ammantata da una bellezza obbediente ai canoni della tradizione letteraria. Del Op. cit., p. 322 Op. cit., p. 322 26  Spinazzola, Vittorio, Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli, 1961 24  25

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resto, fra tutte le donne derobertiane, Anna è quella più semplice, cioè non è affatto contorta e sofferta, anzi serena e leggiadra grazie alla sua indole schietta ed avvincente e al suo spessore culturale. Insomma, non trattasi affatto di una casalinga borghese che cerca una sistemazione di comodo con un ricco partito. La sua lepidezza gioiosa ed il fascino ineffabile che emana da lei le conferiscono un ruolo attanziale risolutivo nell’epilogo de L’imperio e perfino nella campagine romanzesca derobertiana. In sostanza, dopo la schiera di donne soverchiatrici, mentecatte o succubi dell’orgoglio di casta, Anna è mediatrice di beatitudine e di una delicatezza autenticamente cristiana, senza trascurare il fatto che è latrice di un eros che non solo si contrappone a Thanatos, ma è pure sublimato dall’amore agape. Alla pars destruens, certamente onnipresente nell’opera derobertiana, si deve quindi aggiungere una pars costruens di cui i personaggi di Federico Ranaldi e di Anna Ursino costituiscono gli esponenti un po’ labili, certo, ma tale evanescenza conferisce all’explicit de L’imperio un alone utopico e misterioso che si discosta da un lieto fine scontato. Bibliografia Aliberti Carmelo, Letteratura siciliana contemporanea, Cosenza, Pellegrini, 2008. Borri, Giancarlo, Come leggere I Viceré di Federico De Roberto, Milano, Mursia, 1995. Borri, Giancarlo, Invito alla lettura di De Roberto, Milano, Mursia, 1987. Castelli, Rosario, Il punto su De Roberto: per una storia delle opere e della critica, Acireale-Roma, Bonanno, 2010. Di Giacomo, Giuseppe, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Bari, Laterza, 2010. Di Grado, Antonio (a cura di), Gli inganni del romanzo: I Viceré tra storia e finzione letteraria, Atti del Congresso celebrativo del centenario dei Viceré – Catania, 23-26 novembre 1994, Catania, Fondazione Verga, 1998. Ganeri, Margherita, L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto, Firenze, Le Monnier, 2005. Madrignani, Carlo Alberto, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno, Macerata, Quodlibet Studio, 2007. Madrignani, Carlo Alberto, Illusione e realtà nell’opera di Federico De Roberto: saggio su ideologia e tecniche narrative, Bari, De Donato, 1972. Sipala, Paolo Mario, Introduzione a De Roberto, Bari, Laterza, 1988. Spinazzola, Vittorio, Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli, 1961.

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Speciale inediti giovanili di Italo Svevo Libri, bombe e bozzetti

Scritti giovanili inediti di Italo Svevo (Ettore Schmitz)

Italo Svevo Le rocambolesche avventure dei libri e giornali della biblioteca di Svevo che si credevano distrutti in un bombardamento e sono recentemente riemersi in una raccolta privata triestina, portando con sé anche due bozzetti sconosciuti del giovane scrittore e un altrettanto sconosciuto, malcerto pseudonimo.1

Riccardo Cepach

Ricercatore e bibliotecario, Trieste Il 20 febbraio del 1945, mentre una bomba incendiaria calava vertiginosamente dal portellone di un bombardiere alleato verso il tetto della villa 1  La gran parte del materiale e delle riflessioni che costituiscono questo intervento sono già stati pubblicati nel volume a mia cura Italo Svevo: Il collaboratore avventizio, L’uomo d’affari, e altre nuove dalla biblioteca perduta, Trieste, Museo Sveviano, 2013.

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della famiglia Veneziani, ultima dimora dell’industriale Ettore Schmitz e dello scrittore Italo Svevo, distruggendo interamente l’edificio assieme alla ricca biblioteca di entrambi, l’avvocato bibliofilo Cesare Pagnini era podestà della Trieste capoluogo dell’Adriatisches Kustenland nazista (e per tanto accusato, nel ‘47, di collaborazionismo, processato, assolto eppur ancora aspramente discusso, anche recentemente, quando la città si è divisa sull’opportunità di reintrodurne il ritratto nella galleria dei sindaci). Il capriccio della Storia ha voluto che proprio nella biblioteca di Pagnini, studioso del Settecento (con una predilezione per Casanova e Da Ponte) e della stampa periodica triestina (su cui ha scritto un saggio ancor oggi imprescindibile), quasi sessant’anni più tardi, il bibliofilo e libraio Simone Volpato abbia ritrovato una – piccola, senz’altro, ma significativa – fetta di quella importantissima biblioteca d’autore restituendo alla comunità degli studiosi e degli appassionati sveviani una quarantina di documenti contrassegnati dalla firma di possesso “Ettore”. Si tratta, per la precisione, di una raccolta di 33 libri e 12 fra giornali e locandine autografati (cui si sono aggiunti due faldoni di appunti di Anita Pittoni per un documentario e una trasmissione radiofonica dedicate a Svevo e una lettera inedita di quest’ultimo ad Ario Tribel) che, grazie alla generosità di uno sponsor privato (la InFin S.p.A. di Lorenzo Pacorini) sono entrati a far parte delle collezioni del Museo Sveviano di Trieste che li ha posti al centro di una mostra intitolata Altre nuove dalla biblioteca perduta, a cura di chi scrive e di Cristina Fenu, inaugurata il 19 dicembre scorso (in occasione dell’anniversario della nascita di Svevo) e aperta fino alla fine di aprile. Alla mostra è legata anche una piccola pubblicazione che contiene, fra l’altro, il catalogo integrale delle pubblicazioni oggetto della donazione. Questi nuovi documenti – che si affiancano ai quaranta titoli già in possesso del museo e alla settantina di volumi, sempre contrassegnati dalla firma di possesso dello scrittore che il medesimo Volpato aveva rintracciato all’interno della biblioteca del genero di Svevo, Antonio Fonda Savio, conservata all’Università di Trieste2 – ci permettono di gettar luce non tanto sulle letture del maturo e affermato romanziere Italo Svevo, ma soprattutto su quelle del giovane Ettore Schmitz. Grazie alle firme che Svevo aveva l’abitudine di apporre sulle copertine o i fogli di guardia dei suoi libri, siamo in grado di seguirlo nelle sue letture di argomento scientifico e filosofico – interessi che lo accompagnano dalla giovinezza fino alla Tali volumi, che si pensava rappresentassero tutto ciò che era sopravvissuto della biblioteca sveviana fino a questo nuovo ritrovamento, sono oggetto del volume a quattro mani di Cepach e Volpato Alla peggio andrò in biblioteca. I libri ritrovati di Italo Svevo, Macerata, Biblohaus, 2013.

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tarda maturità – costituite spesso dai testi delle conferenze che si tenevano in città sui temi dell’origine della vita e del cosmo e dell’evoluzione umana (come quella di Carlo Ciatto su La scienza, l’uomo e la scimia [sic] e quella dell’avvocato Giovanni Scalzuni contro le teorie di Ernst Haeckel - quello de «l’ontogenesi ricapitola la filogenesi» - qui definito «apostolo del materialismo» e del darwinismo), ma anche dai caposaldi della ricerca scientifica dell’Ottocento come La crèation et ses mystères dévoilées di Antonio Snider-Pellegrini, l’opera in cui il geografo francese per primo promosse la teoria della deriva dei continenti. Senza dimenticare nemmeno, visto che si parla di scienze, quelle “occulte”, allora di gran moda, di cui si dilettavano sia il poeta, che è ricordato anche nella Coscienza di Zeno, Filippo Zamboni (di cui Svevo possedeva il curioso opuscolo Il fonografo e le stelle e la visione del paradiso di Dante), sia lo stesso Svevo, almeno a giudicare dalla locandina, anch’essa autografata, della tournèe triestina del Cav. Scipione Karidis, che si autodefiniva «Celebre Negromante, Spiritista, divinatore del pensiero, Autoipnotista ed il più grande prestigiatore del secolo». Non mancano, come detto, le opere filosofiche, con la traduzione italiana de Il riso di Bergson (che tuttavia è reso accessibile dal tagliacarte per meno di un terzo) e – poteva essere altrimenti? – quelle letterarie con la copia del Panorama de la littérature italienne di Benjamin Crémieux (che Svevo aveva recensito sulla pagine del “Popolo di Trieste”), i Dieci raccontini di Caterina Percoto e l’ostico poema espressionista Das Nordlicht del triestino Theodor Däubler che si affianca alle raccolte di Virgilo Giotti e di Umberto Saba. Il quale ultimo ci regala, indirettamente, anche quello che forse è il pezzo più pregiato della raccolta, almeno dal punto di vista museale: la sua copia personale della Coscienza di Zeno sulla cui copertina, accanto alla firma e alla data, ha aggiunto un entusiatico «Mio!», con tanto di punto esclamativo. Un autentico frammento di storia della letteratura italiana cui possiamo accostare la curiosità rappresentata dai due splendidi volumi di stampe giapponesi – ukiyo-e – che recano, oltre alla firma di “Ettore Schmitz” e alla data di acquisizione, il 1925, traccia di una loro precedente appartenenza alla biblioteca del Circolo Artistico Triestino e al pittore Carlo Wostry, curatore di una celebre “esposizione giapponese” del 1908. E tuttavia non sono neppure questi i veri tesori che la biblioteca di Pagnini ci ha conservato, perché l’avvocato bibliofilo che, come detto, era uno studioso della stampa locale, ha attentamente raccolto e preservato centinaia di copie di testate molto poco note quando non del tutto sconosciute. Fra queste, in modo più o meno accidentale e indipendente – nel senso che ritengo siano state raccolte più per il loro valore storico che per quello letterario, passato inosservato – anche alcuni numeri unici di 20


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testate triestine – indirizzate prevalentemente ai ragazzi – su cui il giovane Schmitz ha apposto diligentemente la propria firma: “El Dindio”, “L’oca”, “Babau”, “Sandro”, “Ficcanaso”, “Il Piccolo dei Piccoli”, ma anche due copie di altrettanti giornali destinati al pubblico adulto su cui sono stati ritrovati dei testi sconosciuti di Svevo che ora è possibile ricondurre al loro autore in virtù delle firme autografe che l’autore ha posto in calce alle pagine con un asterisco di rimando al piede dell’articolo. Piuttosto tardi, e di interesse relativo, i sei brevi “scherzi” che Svevo affida anonimamente al numero unico de “Il Veglione del Giornale” – una strenna pubblicata in occasione di un veglione carnevalesco, appunto, organizzato dal locale Circolo della Stampa - del 14 febbraio 1914.3 Molto più interessante, per la data e il contenuto, l’articolo che ci viene restituito dal numero n. 153 del 17 ottobre 1883 del quotidiano “L’inevitabile”. In esso infatti compare un bozzetto intitolato L’uomo d’affari e siglato con uno pseudonimo mai emerso prima: “Justus” che, appunto, affiancato da un asterisco tracciato a penna rimanda alla firma a fondo pagina “Ettore Schmitz”.4 Il ritrovamento, di uno sconosciuto pseudonimo sveviano5 ha imposto, naturalmente, di verificare se la stessa firma non si ritrovi anche sotto altri pezzi, innanzitutto nelle medesime pagine de “L’inevitabile”. E qui è arrivata la seconda sorpresa, perché in un numero di poco precedente, il n. 151 del 23 settembre 1883, si incontra un altro breve bozzetto intitolato Il collaboratore avventizio che – personalmente non ho dubbi, ma ciascuno può giudicare da sé leggendo i testi – è dovuto alla medesima penna e costituisce col primo una piccola serie. Solo che la firma posta in chiusura non è “Justus”, ma “Intus”. Il sospetto che uno dei due pseudonimi tragga origine da un refuso mi si è affacciato subito alla mente, ma quale dei due rappresenterebbe la lezione originale e quale quella corrotta? D’istinto ero portato a ritenere che “Justus” fosse quello “giusto” e che, dopo una prima stampa errata, il giovane giornalista avesse preteso il reintegro del nome de plume da lui scelto: “Justus” sembrava maggiormente significativo di 3  Ne ho già annunciato la scoperta nell’articolo Spuntano sei brevi scherzi con la firma di Svevo su un giornale dimenticato, pubblicato dal quotidiano “Il Piccolo” il 17 maggio 2013, p. 37. 4  L’attribuzione, di per sé evidente, è resa ancora più certa – come ha suggerito il decano degli svevisti, Brian Moloney – da un appunto del Diario di Elio Schmitz, fratello minore e primo biografo di Svevo, che in un elenco di documenti in suo possesso, riferito agli anni 1882-83, ricorda anche un «articolo di Inevitabile» (cfr. Carmine G. Di Biase, The Diary of Elio Schmitz. Scenes from the World of Italo Svevo, London, Di Biase - Troubador, 2013, p. 123). 5  Prima dell’invenzione di Italo Svevo, che data a partire dalla pubblicazione di Una vita, 1892, Ettore Schmitz era solito firmare gli articoli per il giornale “L’indipendente” coevi, come vedremo, a questi per “L’inevitabile”, con le sole iniziali del suo nome E.S. (lo pseudonimo “E. Samigli” avrebbe cominciato a usarlo solo nel 1886).

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“Intus” e più in linea con la tradizione degli pseudonimi in uso sulla stampa periodica dell’epoca. C’era però il problema della “J” che rendeva l’errore meno automatico e irriflesso che se fosse basato sulla sola confusione tipografica del gruppo “us” - ancora una “US” nella vita di Svevo! – con la “n”. E andava anche osservato che la parola latina “Intus”, dentro, è presente nella tradizione letteraria principalmente nella locuzione intus et in cute - da una satira del poeta latino Persio (III, 30) - «usata comunemente in frasi come conoscere una persona intus et in cute, conoscerla intimamente, a fondo, soprattutto nei suoi difetti».6 In questa accezione lo pseudonimo “Intus” sembrava particolarmente adatto a firmare questi ritratti in cui l’autore dimostra una conoscenza particolarmente intima dei soggetti raffigurati, “soprattutto nei loro difetti”.7 Il collaboratore avventizio, che ritrae quella particolare categoria di giornalisti che oggi si direbbero forse free lance, e L’uomo d’affari, dedicato a una figura che non saprei definire meglio che attraverso il dialettale trapolèr,8 infatti, sono due bozzetti che dipingono altrettanti tipi umani attraverso modalità perfettamente sovrapponibili: in entrambi i casi l’autore descrive figure ai margini della società borghese triestina, costretti a vivere di espedienti (più dignitosi, ma sempre al limite dell’umiliazione professionale, quelli del “collaboratore avventizio”, più miseri e furbeschi quelli dell’ “uomo d’affari” che non sta ad indicare il magnate impegnato in grosse speculazioni ma, appunto, colui che esercita “il mestiere di far degli affari” che consiste «nel non averne mai sottomano nessuno e andarne cercando a fiuto, per la piazza, come il maiale cerca i tartufi»). In entrambi i casi il ritratto passa in rassegna i trascorsi e i rovesci di fortuna che hanno condotto il “collaboratore avventizio” a sottoporre ai redattori dei vari fogli periodici le sue pagine di «prosa insulsa e inconcludente» sugli argomenti più vari e l’ “uomo d’affari” a battere la piazza in cerca della Tratto dalla versione on-line del Vocabolario Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/ intus-et-in-cute. 7  Accogliendo questo rilievo tocca anche osservare che “Justus”, sia pur con la “J” rappresenta una lectio facilior, cioè un termine più noto e diffuso, rispetto all’ostico “Intus”. Il che significa che, come insegnano i filologi, è più facile immaginare un redattore o un tipografo che, nella fretta della composizione della pagina, prende un “Intus” per un “Justus” piuttosto che il contrario, che comporterebbe attribuirgli una certa confidenza con le satire di Persio. 8  Nell’accezione moderna di «trafficante, imbroglione, affarista, trappolone, ciarlatano» (M. Doria, Grande dizionario del dialetto triestino, Trieste, Il Merdiano, 1987) che tuttavia non era ancora in uso all’epoca di Svevo, come dimostrano i due dizionari di Ernesto Kosovitz posseduti da Svevo: quello sintetico del 1877 (che fa parte del nucleo dei libri posseduti da Pagnini), che non contempla il termine, e l’edizione maggiore, del 1889 (ritrovata nella biblioteca di Fonda Savio, cfr. Alla peggio andrò in biblioteca, cit., p. 132), dove vale semplicemente “trappolaio” (e cioè venditore di trappole e gabbiette). 6

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misera commissione che gli consentirà di guadagnare la sua giornata; e sono in entrambi i casi difetti del carattere e della personalità (il «carattere pretensioso, astioso, bizzoso», quando non la mancanza di talento del primo, l’ignavia, la vigliaccheria e la pigrizia del secondo) che li conducono al fallimento. In entrambi i casi, infine, il ritratto indugia, per meglio caratterizzarlo, su una descrizione fisica del personaggio, condotta attraverso un rapido esame del suo misero e logoro abbigliamento e introdotto, in entrambi i casi dal medesimo invito al lettore, spinto retoricamente a verificare coi suoi stessi occhi la veridicità del disegno: «Guardatelo per via», suggerisce l’articolista introducendo la descrizione del «cappello ispido come gatto impaurito» e degli altri evidenti indizi di miseria nell’abbigliamento del primo; e riguardo al secondo dichiara: «Voi lo vedete, là, ad un canto di Piazza del Teatro o a girondolare nei caffè, unto, bisunto, col cappello sfondato, la camicia sudicia, la cravatta cenciosa, il panciotto assente, la giacca a rappezzi, i pantaloni a frange, le scarpe a crepacci... aspettare in agguato l’ “affare” che passa.»9 Certo, c’è una differente “intimità” nei due ritratti. Il secondo è meno partecipe, più feroce: l’ “uomo d’affari” è «una pecora segnata», un commerciante fallito o un impiegato «messo alla porta per uno di quegli irresistibili allungamenti di zampe, che la umana benignità ha convenuto di chiamare indelicatezze», è un vigliacco che, a differenza di Alfonso Nitti, il protagonista di Una vita, trova l’acqua «sempre troppo fredda, il fuoco troppo caldo, le finestre troppo alte, il carbone troppo soffocante e troppo ignobile l’impiccagione», allergico al lavoro e scroccone. Dall’altra parte, se l’autore non risparmia le critiche (i difetti!) neppure al “collaboratore avventizio” - che scrive, scrive senza mai dire niente ed è sempre pronto a compiacere l’editore di ogni giornale per cui lavora, sottoscrivendone e sostenendone le opinioni politiche, non importa quali esse siano - il pezzo che lo riguarda è senz’altro più partecipe. E colpisce che a tale figura di giornalista venga attribuita come suprema risorsa, vetta dell’arte, la pratica del bozzetto, che egli firma col «proprio riverito nome» così come i suoi «scritti letterari ed artistici, di economia, di lucubrazioni storiche» occultando furbescamente «sotto l’ale dell’anonimo» i pezzi politici e le polemiche. Colpisce perché se, come spero ormai evidente, i due articoli sono di mano di Svevo, sono senza dubbio due “bozzetti”10 scritti da un 9  Il medesimo artificio retorico si ritrova in quello che, a tutt’oggi, è il primo articolo noto pubblicato da Svevo, Shylock, pubblicato su “L’indipendente” il 2 dicembre 1880, dove similmente indugia sull’aspetto fisico che caratterizza il personaggio shakespeariano invitando il lettore a osservarlo attentamente: «Guardatelo bene!» (ora in 10  Facciamo nuovamente ricorso al Vocabolario Treccani: «Bozzetto: [...] In letteratura, racconto breve, che descrive con piglio realistico e vivezza impressionistica una situazione,

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“collaboratore avventizio”11 che firma con almeno due differenti pseudonimi - di cui uno riservato agli scritti letterari e teatrali e l’altro alle prose di cui è, evidentemente, meno fiero, come i due bozzetti stessi – su almeno due periodici. In quello stesso anno, meglio, in quegli stessi giorni, infatti, il giovane Schmitz pubblica anche sull’ “Indipendente”: il 26 settembre 1883, due giorni dopo la pubblicazione del Collaboratore avventizio, esce su quelle pagine la critica “Brandelli” di Olindo Guerrini, firmata E.S.12; subito dopo, - e poco prima de L’uomo d’affari – il 2 ottobre pubblica l’interessante riflessione Il pubblico,13 dedicata all’influsso corruttore delle platee sull’opera dei drammaturghi. Se della collaborazione di Svevo all’ Indipendente” si è scritto ovviamente parecchio, sarà ora il caso di gettare luce anche su questo suo rapporto con “L’inevitabile”, giornale di cui si sa tutto sommato poco, se non che è stato il primo periodico di cronaca e “varietà” - come si diceva allora - diretto da Teodoro Mayer, il futuro fondatore de “Il Piccolo”,14 e che in origine era un semplice bollettino pubblicitario gratuito (la mano corre verso la definizione di free press, oggi in uso, al pari di quella di free lance, già ricordata) che pubblicava anche «letteratura amena, come romanzi, novelle ecc., mode, notizie di igiene, riviste teatrali ed in generale di varietà, escluso affatto la politica» e che via via «si articola in vere e proprie rubriche d’informazione, in cui compaiono anche, nonostante le premesse apolitiche, cenni alla situazione municipale, alla rivalità tra “L’indipendente” e “L’Adria”, all’attività della Società Operaia, ecc. in chiave liberal-nazionale.»15 Un’indagine sulla redazione de “L’inevitabile”, ad esempio, poun luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita di ogni giorno». Per l’appunto. (http:// www.treccani.it/vocabolario/bozzetto). 11  Questa era senza dubbio la sua posizione professionale rispetto ai periodici con cui collaborava. Vero è che nel Collaboratore avventizio, il ritratto punta altrove perché si tratta di un personaggio con un passato, non più giovane, perché, scrive l’autore, «i giovani trovano sempre facilmente da collocarsi. La gioventù è un grimaldello, che forza tutte le serrature.» 12  Ora in I. Svevo, Teatro e saggi, Milano, Mondadori, 2004, p. 981 Si noti che anche nello scritto su Guerrini, Svevo non rinuncia a una sia pur breve caratterizzazione bozzettistica, paragonando il letterato forlivese dai mille pseudonimi (Lorenzo Stecchetti quello più noto) a un «moderno signore abituato fino dalla gioventù a frequentare la società e che non provi né imbarazzo né commozione a nuove presentazioni, che parli volentieri di tutto sempre spiritosamente, che abbia un contegno tale da far comprendere che conosce tutte le regole dell’etichetta quantunque esattamente non ne segua alcuna.» 13  Ivi, p. 984. 14  Mayer, su cui sorprendentemente si attende ancora la pubblicazione di un serio studio monografico, aveva esordito come pubblicista e direttore nel 1875 con il periodico filatelico “Il corriere dei francobolli”. 15  Cfr. Silvana Monti Orel, I giornali triestini dal 1863 al 1902, Trieste, Lint, 1976, p. 301, dove il lettore può trovare tutti i dati riguardanti la periodicità (che muta più volte),

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trebbe chiarire se, come credo, qualche redattore del periodico potrebbe essere indiziato della evidente sciacquatura in Arno dei panni di Svevo che nelle coeve pagine dell’ “Indipendente” non è certo toscaneggiante come in queste.16 Senza contare la possibilità che di questi bozzetti, evidentemente concepiti come una serie, ce ne possano essere anche altri.17 Per ora non lo sappiamo perché non è stato possibile reperire nessuna collezione completa del giornale e quella dei Civici Musei di Storia e Arte, dove ho rintracciato Il collaboratore avventizio si interrompe quasi subito (arriva al n. 156, tre numeri dopo quello che riporta L’uomo d’affari). Ma se si riuscisse a ritrovarne altri,18 il patrimonio potrebbe essere incrementato. Il ritrovamento di un terzo bozzetto con le medesime caratteristiche dirimerebbe inoltre la questione fra “Justus” e “Intus” semplificando le verifiche che ora si dovranno compiere, nel restante patrimonio della stampa triestina dell’epoca, per controllare se uno dei due compaia anche altrove. Per ora accontentiamoci e leggiamo insieme questi saggi dell’arte giornalistica del giovane Svevo rimasti sepolti fra le pagine del giornale per 130 anni:

la proprietà e la direzione del giornale, assieme a una veloce analisi dei contenuti che comprendevano «per lo più romanzi “neri”, in cui orrore, fenomeni spiritici e vicende sentimentali erano sapientemente mescolati allo scopo di tener viva l’attenzione dei lettori con vicende scarsamente realistiche.» Non mancavano inoltre romanzi sentimentali, alcune traduzioni da scrittori stranieri (Zola e Washington Irving) né «l’opera lontanamente ispirata a modelli veristici« (G. Bargilli). 16  Cito soltanto i lemmi particolarmente rilevati “sgrullata”, “spedale”, “scuoprire”, “bighellone”, “fittaiuolo” che non hanno riscontri nelle prose giornalistiche coeve di Svevo (dove ricorrono semmai varianti meno connotate, vedi: “ospedale”) e, in genere, nemmeno nelle sue opere narrative. Aggiungo solo che, se è corretta la mia ipotesi di un intervento redazionale esterno, esso non pare dovuto alla penna di Mayer, per quel tanto che se ne può giudicare dagli articoli, non firmati, dei primi numeri del “Piccolo” e dello stesso “Inevitabile” che gli possono essere attribuiti sulla base del ricordo di Benco, citato da Pagnini (p. 257) che descrive Mayer «giornalista sotto un aspetto universale: editore, amministratore, direttore, articolista e, quando occorreva, reporter». Anche l’unica, esile pubblicazione a suo nome - Filotelia. Paginette dal taccuino d’un timbrofilo, per cura del giornale “Corriere dei Francobolli”, Trieste, Tipografia Balestra, 1878 - non offre esempi di un lessico tanto connotato in senso toscano. 17  Certo, l’appunto di Elio parla di “articolo”, al singolare, ma poiché ne sono stati ritrovati almeno due, altri potrebbero esser stati scritti e pubblicati. 18  Ho compiuto un estremo tentativo di reperire alcune copie del giornale presso il locale Archivio di Stato. Considerando che, come Pagnini riferisce, il giornale di Mayer era stato da subito oggetto di sgradite attenzioni da parte della censura asburgica, ho pensato che qualche singolo numero sequestrato dalle autorità potesse essere conservato in atti nell’Archivio della Direzione di Polizia. Ne ho ritrovati infatti tre: uno (il n. 130 del 21 febbraio 1883) nella busta 326 – Atti riguardanti vari giornali periodici 1872-1913 e altri due (uno del 21 febbraio 1882, esattamente un anno prima, e uno del 24 febbraio 1884) nella busta 322. Nessuno di questi contiene tuttavia prose attribuibili a Italo Svevo.

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Terzo Millennio – anno 6 – numero i/ii – giugno 2014 Italo Svevo Il collaboratore avventizio Vive male; scrive come vive ed uno de’ suoi più grandi consumi è quello della suola degli stivali. È quello della suola degli stivali, perchè, non avendo impiego determinato e stipendio fisso, è costretto a correre ogni santo giorno di giornale in giornale, proferendo, come merciaiuolo girovago, il prodotto delle sue facoltà intellettuali. Il collaboratore avventizio è raramente giovane. I giovani trovano sempre facilmente da collocarsi. La gioventù è un grimaldello, che forza tutte le serrature. Per lo meno, ha varcato la quarantina. Nel suo passato c’è un po’ di tutto: fu giornalista vero; redattore capo, magari direttore di giornali; fu letterato a tempo perso, o tale si credette; fu impiegato indu striale, viaggiatore di commercio, progettista fallito di sa Iddio quante mirifiche speculazioni, artista dram matico, o, forse, suggeritore di compagnie; ma non riuscì mai a crearsi una situazione. Molti ne accusano il suo carattere pretensioso, astioso, bizzoso; altri dicono che gli manca quella droga che sta al talento come il sale alle vivande, torna a dire: il criterio; altri, più severi e recisi, gli contrastano anche quel po’ di talento. Crudeli! Ma, se lo private pure di questo, cosa gli rimane? Guardatelo per via. Ha un gamurrino rivoltato, il cui nero originario si smarrisce tra le spelature de gomiti, il viscido del colletto e il reticolato delle costure o il solino e i manichetti a filacciche; il cappello ispido come gatto impaurito, e dai

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riflessi iridescenti, come collo di piccion torraiolo; i pantaloni pallidi e rarefatti su le ginocchia e smangiati su i talloni, e le scarpe screpolanti e scalcagnate. Sotto l’ascella tiene sempre un fascetto di cartelline: sono gli articoli. E cammina sollecito, affacendato [sic], come corresse sempre a salvare la patria. Di lontano, ha dell’usciere: da vicino del disperato; e lo è. Il pover’uomo è una specie di piccola enciclopedia tascabile; nessun soggetto lo sgomenta; tratta una questione di diritto internazionale, con la medesima indifferenza con la quale ne tratterebbe una d’arte, di letteratura, di scienza occulta, magari di teologia. Alloggia in una stanzuccia ammobigliata di quarto piano, su ne’ quartieri alti, per spender meno, dove, oltre il letto, il canterale, un piccolo armadio, quattro sedie e un tavolinuccio, non ha altre suppellettili se non carta, penna e calamaio e i due volumi di Marco Napoleone Bouillet: Dictionnaire universel d’histoire et géographie e Dictionnaire universel d’arts, sciences et lettres. Quelli sono la sua legge e i suoi profeti. Quando un direttore di giornale gli dice: “Sa, il 12 corrente ricorre il secondo anniversario della liberazione di Vienna...” oppure: “S’è inaugurata a Puy, in Francia, la statua del generale Lafayette...” oppure ancora: “Sta per venire sul tappeto la questione del riordinamento degli studi; ed ella dovrebbe far due parole...” tsitt! egli corre difilato a casa: scartabella i suoi due volumi; impasticcia su, nove o dieci cartelline di dati, di citazioni, di roba vecchia come i chiodi e... ha guadagnato la sua giornata.

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Terzo Millennio – anno 6 – numero i/ii – giugno 2014 Ma, il suo forte sono i bozzetti... anzi: i bozzetti sono una sua invenzione brevettata e privilegiata. Tipo giornalistico per eccellenza, leggicchiando perpetuamente effe meridi d’ogni maniera, gli riesce facile e comodo oltremodo l’arrestarsi a una ideuccia qualunque e ricamarvi su una decina di pagine di prosa insulsa e inconcludente. I bozzetti hanno questo di vantaggioso: non dicono nulla, non significano nulla, non risolvono nulla e... vanno sempre bene. Se il giornale politico, per una ragione o per l’altra, non accetta le sue rapsodie bouillettiane su questo o quel grave importante argomento; c’è sempre la suprema risorsa del giornale letterario, il quale accoglierà, senza fallo, il suo bozzetto per pochi soldi. Insomma: la vita del cavallo da fiacre. Nello stesso modo che è un enciclopedico in lettere e scienze, il collaboratore avventizio è onnicolore in politica. Col proprio riverito nome, e’ non publica (sic), se non gli scritti letterari ed artistici, di economia, di lucubrazioni storiche e, segnatamente, i suoi prediletti bozzetti; ma, se gli capita, se il bisogno lo spinge a’ panni più sgarbatamente del solito, eh, allora, sotto l’ale dell’anonimo, si presta anche a scombiccherare la polemica, senza badare troppo pel minuto al colore del giornale, per cui la scrive. Solamente, allora, invece di due pretende i quattro fiorini: due pel lavoro materiale, due per la transitoria capitolazione con la sua coscienza. Alcune volte, il collaboratore avventizio è ammogliato e non c’è bisogno d’aggiungere con prole, perchè è noto come la prolificità stia quasi

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sempre in ragione diretta della miseria. In questo caso, la situazione di lui, da quella di cavallo da fiacre, si cambia in quella di cavallo da tram. Senonchè, nel più dei casi, egli ha saputo fare la sua scelta: la moglie è una maestrina patentata, o una strimpellatrice di pianoforte, che dà lezioni a prezzi ridotti: e allora, essendo in due a trascinare il carro della vita, il veicolo gli riesce meno pesante. Intus “L’Inevitabile”, 23 settembre 1883

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Terzo Millennio – anno 6 – numero i/ii – giugno 2014 Italo Svevo L’uomo d’affari Tra i mille e un mestieri, cui si consacra la misera umanità per combattere la grande battaglia del pane quotidiano ve n’ha uno di recente invenzione che si chiama: far degli affari. Far degli affari vuol dir nulla, e vuol dir tutto; vuol dire: andare in busca di quel che capita, far d’ogni erba fascio e attaccarsi anche alle lame dei rasoi per istrizzare il soldo di borsa al prossimo, poichè, come ha detto benissimo Dumas figlio: les affaires c’est l’argent des autres. Ma badiamo a non cadere in equivoci. Gli affari, propriamente detti, sono le grandi speculazioni industriali, commerciali e finanziarie, le operazioni di borsa, le imprese ferroviarie, i lavori publici [sic], ecc. Ma, a questi si dedicano, com’è naturale, banchieri, capitalisti, grossi negozianti, uomini di polso, che occupano già un posto in società. Il mestiere di far degli affari consiste, invece, nel non averne mai sottomano nessuno e andarne cercando a fiuto, per la piazza, come il maiale cerca i tartufi. Chi esercita un siffatto mestiere è, generalmente, una pecora segnata: o merciaiuolo fallito, o impiegatuzzo messo alla porta per uno di quegli irresistibili allungamenti di zampe, che la umana benignità ha convenuto di chiamare indelicatezze. Nei primi tempi, dopo la sua disgrazia, pensò un momento al suicidio, tanto più che è di moda; ma l’acqua gli parve sempre troppo fredda, il fuoco troppo caldo, le finestre troppo alte, il carbone troppo

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soffocante e troppo ignobile l’impiccagione. Fece quindi il sacrificio di vivere e, non riuscendo a trovare impieghi, pe’ quali d’altronde, provava una invincibile repugnanza nella congenita sua tendenza al dolce far nulla, si consacrò sin che gli riuscì facile, a quello accattonaggio in guantato, che consiste nell’arrestare per via l’amico, il conoscente, spesso il primo capitato e dopo avergli sciorinato tutta una interminabile geremiade di sventure e di guai, domandargli a prestito una diecina di fiorini con l’obbligo sottinteso di non restituirli mai più. Ma, per quanto vecchio, è sempre vero il proverbio, che è bello il giuoco che dura poco. A non lungo andare, i primi capitati, i conoscenti ed amici odorarono in lui il repellente tanfetto del frecciatore, e cominciarono a guardare i cornicioni delle case, quando l’incrociavano per via, a salutarlo in fretta, non più salutarlo e, se messi alle strette, tirar a lungo con una significante sgrullata di spalle, o lanciargli sul naso un conchiusivo: “seccatore importuno!” Allora si vide nuovamente spalancato sotto i piedi quello sconfinato abisso della miseria, che non ha altre uscite fuor che lo spedale o l’ergastolo, e allora si decise a far degli affari. Se si fosse trovato in possesso solo del tanto quanto necessario ad appigionare uno stambugio di botteguccia; avrebbe aperto, lì per lì, un’agenzia di collocamento: sarebbe stato il suo sogno! Ma gli mancavano perfino quei quattro da farsi risuolare le scarpe. Si buttò, quindi, come a nuoto, per le publiche [sic] vie e per le piazze,

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Terzo Millennio – anno 6 – numero i/ii – giugno 2014 frammettendosi a sensali di professione, rigattieri e piccoli cottimanti di lavori, e studiandosi di insinuarsi, a mo’ di conio, nelle loro operazioni. L’ufficio suo si limita a scuoprire bighellonando gli affarucci che si trovano, dirò così, in istato d’incubazione. C’è una famigliola che si vorrebbe disfare di un gioiello, di un quadro, di un mobile? Ed egli galoppa diritto dal rigattiere e gli susurra [sic] all’orecchio: “Eh, ci sarebbe il tale oggetto da vendere!” Sa che un proprietario, un pigionale, un negoziante vuol fare eseguire alcuni restauri alla sua casa, al suo quartiere, alla sua bottega? Corre dal cottimista, dal capomastro, magari dal muratore, e gli mormora sotto i buchi del naso: “Eh, c’è un lavoro da fare!” Trova un mercante di campagna, un fittaiuolo, che ha disponibile una partita di grano, di legna da ardere, di fichi secchi? E vola dal sensale e gli grida levando alte le braccia e gli occhi al cielo: “Magnifico affare! magnifico affare!” E se il magnifico affare viene conchiuso, o il restauro eseguito, o l’oggetto comprato, stende la mano e raccoglie nel palmo il “caffè”. Voi lo vedete, là, ad un canto di Piazza del Teatro o a girondolare nei caffè, unto, bisunto, col cappello sfondato, la camicia sudicia, la cravatta cenciosa, il panciotto assente, la giacca a rappezzi, i pantaloni a frange, le scarpe a crepacci... aspettare in agguato l’“affare” che passa. Justus “L’Inevitabile”, 17 ottobre 1883

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La letteratura degli italiani d’ Istria e di Fiume dal 1945 a oggi Christian Eccher

Docente di letteratura Italo-istriana, Università di Novi Sad In un saggio del 1967 intitolato “Geografia e storia della letteratura italiana”, Giancarlo Dionisotti analizzava la storia della letteratura italiana non come se si trovasse di fronte a un fenomeno unitario e omogoneo, ma a un mosaico estremamente complesso, per nulla uniforme, attraversato da profonde venature policrome e da differenze sostanziali in termini stilistici e poetici. In un paese come l’Italia diventato Stato unitario da poco più di cent’anni, ogni regione geografica conserva, in termini linguistici e letterari, le peculiarità e le differenze legate alle diverse situzioni storiche, alle dominazioni straniere che si sono susseguite nel corso dei secoli e all’impronta lasciata dai sistemi economici che vigevano in ciascuna delle entità statuali della penisola. Non è difficile individuare, anche nella letteratura italiana del Novecento, una corrente lombarda o distinguere nell’ermetismo una marca di matrice chiaramente fiorentina, che, a livello stilistico, affonda le proprie radici addirittura nello Stilnovismo e nella poesia rinascimentale. Nella trattazione di Dionisotti, come in quasi tutte le storie della letteratura italiana successive, manca ogni riferimento all’Istria e alla sua produzione poetica e narrativa, soprattutto a quella del secondo Novecento, che è invece una delle più significative e delle più valide non soltanto a livello nazionale. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e vanno ricercate innanzitutto nelle vicende storiche della penisola: l’intellettualità italiana ha sempre preferito non occuparsi di questioni istriane per non dover fronteggiare l’accusa di revanscismo e di volersi in qualche modo riappropriare di ciò che era stato italiano. L’Istria era un argomento scomodo anche e soprattutto per gli intellettuali di sinistra, che, vuoi per una questione di “unità nazionale”, vuoi per non vedersi costretti ad aprire gli occhi su ciò che veramente erano i regimi dell’ Europa dell’est, preferirono all’analisi dei fatti storico-sociali della penisola la retorica della classe politica dominante. L’Istria era ed è la terra delle foibe, della violenza che l’esercito titino consumò nei confronti della componente italiana (mai che si ricordi che quella violenza fu anche una reazione degli Slavi ai soprusi subiti dalla popolazione non italiana durante il ventennio della dominazione fascista), la terra dell’esodo, il Kosovo italiano. Ancora oggi, per i giovani ricercatori e gli umanisti italiani, l’Istria è una realtà priva di interesse, di cui si conoscono sommariamente le vicende storiche e di cui, an33


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che a livello universitario, non si sospetta neppure l’esistenza di una letteratura: nulla si sa degli scrittori del controesodo, i primi a pubblicare le proprie opere perché organici al regime titino, come Giacomo Scotti o Alessandro Damiani (che per la lucidità critica e l’afflato ideologico-morale presente nei suoi romanzi nulla ha da invidiare a Pier Paolo Pasolini), o di Lucifero Martini, le cui prose, leggere e scorrevoli, sono un’analisi senza precedenti, sia a livello morale sia a livello tecnico economico, delle ragioni che stanno alla base del fallimento dei sistemi basati sul socialismo reale. Nulla si sa neppure degli autori nati in Istria i cui testi videro la luce a partire dagli anni Sessanta, quando il regime aprì numerosi e ampi spiragli di libertà. Prese dapprima piede la poesia che, a causa dei procedimenti simbolici e allegorici che condensano un gran numero di significati in pochi versi, è meno “leggibile” rispetto alla prosa e per questo più adatta a ovviare ai condizionamenti e alla censura dei regimi. Eligio Zanini, Giusto Curto, Anita Forlani e tutte le poestesse della “Scuola di Dignano” furono i primi a introdurre nella ex-Jugoslavia una poetica dell’”io” contrapposta quella del “noi”, l’unica considerata ufficiale dalle dittature del blocco sovietico. Sola fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta ci fu l’esplosione della produzione in prosa. Le opere di Nelida Milani, Claudio Ugussi, Ester Barlessi, Gianna Dallemulle sono uniche nel loro genere in quanto si configurano come un dialogo con la diversità e un tentativo estremo di salvare una memoria negata per salvarsi definitivamente da essa. In tutti i testi degli autori che ho citato, infatti, c’è un continuo riferimento all’esodo inteso come evento periodizzante e come trauma. La scrittura diventa così un mezzo per recuperare da un passato doloroso volti, eventi, vicende ma anche per elaborare il lutto, per superarlo, per guardare avanti e per aprirsi alla diversità, rappresentata in questo caso dal mondo slavo con cui la CNI (Comunità Nazionale Italiana) ha convissuto per centinaia di anni; la letteratura permette infatti di capire le ragioni altrui e di relativizzare le proprie. A testimoniare il successo di questa poetica e l’avvenuto superamento del lutto (che non significa aver dimenticato cio’ che è stato) c’è l’ultima generazione di scrittori italiani, la quale ha lasciato da parte le tematiche legate all’esodo e si è aperta alle correnti europee più moderne: i racconti di Kenka Leković, di Carla Rotta e di Marco Apollonio, così come le poesie di Laura Marchig e di Vlada Acquavita, sono solo i più fulgidi esempi della vitalità della letteratura italiana d’Istria, che, se conosciuta anche al di là dell’Adriatico, potrebbe contribuire non poco a rivitalizzare l’asettico panorama letterario italiano, ingabbiato nella nullità dei premi letterari o nelle pratiche di scrittura violenta, contenutisticamente vuota, degli autori contemporanei. La letteratura è stata per la componente italiana in Istria un mezzo, anzi, il mezzo di sopravvivenza, nonostante sia 34


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stata ignorata dall’intellettualità e dal mercato in Italia. Senza esagerazioni, è possibile asserire che la produzione letteraria della CNI d’Istria sia stata e sia tuttora una delle più vive e interessanti a livello europeo, e che assume un posto di rilievo non solo fra le opere in lingua italiana, ma anche all’interno di quella che Goethe definiva Weltliterature, ovvero “letteratura mondiale” (il nazionalismo, d’altra parte, è entrato in letteratura nell’Ottocento, con il movimento romantico. I tempi sono maturi perché si abbandoni questa schematizzazione e ci si apra a categorizzazioni più ampie). Perché allora, a quasi vent’anni dalla dolorosa dissoluzione della Jugoslavia, le opere di cui ho parlato non hanno avuto quella notorietà che meritano al di là della penisola istriana e della Venezia Giulia? Le cause sono ancora una volta molteplici e complesse (come sempre quando si parla di Istria), insite nelle dinamiche psicologiche e sociologiche interne alla CNI e non soltanto imputabili alle responsabilità degli intellettuali italiani, ancora restii ad accettare tutto ciò che viene scritto e pubblicato al di là del confine di Rabuiese; non sono neppure soltanto attribuibili alle autorità croate che dopo l’ultima guerra hanno popolato i villaggi e le cittadine istriane di croati provenienti dalla Bosnia e, successivamente, hanno promosso una “croatizzazione” strisciante della regione che ne ha snaturato il carattere plurietnico. La CNI è composta soprattutto da persone anziane che hanno lottato per una vita contro i soprusi di Belgrado prima e della Croazia di Tuđman poi. La stanchezza non favorisce certo la nascita di iniziative volte a promuovere la cultura degli italiani, ma ancor più nefasto è il vittimismo che da tale stanchezza deriva e che è visibile e addirittura palpabile per chi, dall’esterno, si avvicina alla letteratura istro-quarnerina. Il vittimismo porta gli istriani all’immobilità e ad aspettare che gli altri riconoscano le qualità umane e artistiche della Comunità, che a sua volta, non appena si accorge che dall’esterno non arriva alcun riconoscimento, tende a chiudersi e a spegnersi nel proprio “sentirsi minoranza”. Da questo punto di vista si sta muovendo bene l’Edit, che con le sue eleganti e numerose nuove pubblicazioni sta restituendo linfa vitale all’intera CNI: osserva giustamente Nelida Milani che una delle strade per uscire dal silenzio e dall’anonimato è quella di pubblicare a pioggia. La cultura è, dal mio punto di vista, l’unico mezzo per opporsi al magma ideologico del post-modern, alla legge imperante del neocapitalismo che per uguaglianza fra i popoli intende l’appiattimento alle logiche del libero mercato e che vorrebbe sostituire il dialogo fra le diversità, fra le culture, con la logica del consumo sfrenato. La letteratura degli italiani d’Istria si erge come un monolite solitario a indicare una strada possibile per uscire dalla crisi della modernità, i testi della CNI sono un esercizio (riuscito) di laicità e di comprensione della complessità che ci circonda. L’Istria italiana deve assolutamente disfarsi del proprio vittimi35


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smo e continuare a far sentire la propria voce, soprattutto in Europa, quell’Europa che presto sarà totalmente ri-unita e che ormai rappresenta una delle poche speranze di rinascita e di rinnovamento culturali e politici per la civiltà occidentale. I versi tratti da L’anda delle feste buone di Loredana Bogliun, che è, insieme ad Andrea Zanzotto, la più grande poetessa dialettale contemporanea, sono un augurio per la Comunità italiana e un tentativo di spronare i suoi membri a non demordere, a non rinchiudersi in una inutile e pericolosa riserva indiana: ... Scumenjnisa sà sto destejn \ de bueri, stale e sjojn... Scumejnsa e no finejso ancuj, gnanca doman \ dumo par castejgo anca mei i jè imparà \ ch’a chej ch’a varda al sul a la lòuna \ gnente no ingròuma ... Incomincia qua questo destino \ di boari, stalle e uccelli... Incomincia e non finisce neanche domani \ come per castigo anch’io ho imparato \ che chi guarda il sole e la luna \ non raccoglie niente.

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L’esodo istriano, raccontato da un esule di Pola Sergio Basalisco

Docente e studiodo di Letteratura e Storia Premessa Sono diventato un esule la mattina del 6 febbraio 1947 sulla motonave Toscana che lasciava il porto di Pola, diretta a Venezia con la mia famiglia e altri 2000 profughi polesi, ormai consapevoli che entro qualche giorno l’Italia avrebbe firmato il trattato di pace impostole dai vincitori e avrebbe ceduto alla Jugoslavia gran parte del territorio giuliano acquisito nel 1918, al termine della Grande guerra in cui 680.000 soldati italiani erano morti (insieme a centinaia di migliaia di civili) ed altri 700.000 erano stati resi invalidi (cfr. M. Thompson, La guerra bianca: vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Saggiatore, MI 2009). Credo si dovrebbero ricordare tutti gli esodi, a partire da quello dei 50.000 sloveni e croati che tra le due guerre mondiali lasciarono la Venezia Giulia divenuta parte del regno d’ Italia che non aveva saputo/voluto gestire con lungimirante giustizia territori storicamente multietnici, fino ai 12 milioni di europei (polacchi, tedeschi, ungheresi,..) che prima e dopo il 1945 dovettero abbandonare case, campi, officine, botteghe e uffici a seguito di trasferimenti forzati in territori diversi da quelli in cui erano nati (cfr. E. Collotti, Gli spostamenti di popolazione nell’Europa Centrale e nei Balcani, Bollati-Boringhieri, TO 2009). Tra loro si collocano i 300.000/350.000 istro-veneti, italiani delle vecchie province ed anche slavi (non meno di 40.000) che tra il 1945 e il 1956 esodarono dalla Venezia Giulia divenuta territorio jugoslavo. Coltivare la memoria delle vicende legate alle foibe e all’esodo giuliano senza conformismi nazionalistici o ideologici si rende possibile se si ha la consapevolezza che quelle vicende vanno situate nel quadro degli orrori perpetrati nel Novecento europeo. Nel secolo dei soldati soffocati dai gas nelle trincee della Grande Guerra a Ypres, a Verdun e sul monte San Michele, dei milioni di sterminati nei lager hitleriani e nei gulag staliniani, dei 230 ragazzi antifascisti rastrellati e impiccati con i cavi del telefono sulla spianata di Bassano, dei 5000 militari italiani che a Cefalonia furono fucilati, bruciati, annegati per non aver accettato di proseguire la guerra a fianco dei nazisti, dei 2000/15.000 infoibati in Istria tra il 1943 e il 1945 e dei 10.000 musulmani bosniaci massacrati dalle truppe serbe a Srebrenica nel luglio 1995. L’Europa e il mondo hanno bisogno di ricordare e far ricordare questi orrori, nel tentativo di liberarsi della pericolosa propensione alla catalogazione gerarchica degli umani (cfr. L. Cavalli Sforza- D. 37


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Padoan, Razzismo e Noismo, Einaudi, TO 2014) in portatori di sedicenti civiltà superiori e votati al dominio, necessariamente contrapposti ai barbari privi di cultura e di storia, destinati al servaggio o allo sterminio. Le giornate della Memoria e del Ricordo eviteranno il pericolo di scadere nella ritualità se recupereranno l’insegnamento di Walter Benjamin: Avremo veramente elaborato il lutto solo quando saremo riusciti a comprendere i dolori e le speranze di tutte le vittime. Storia e microstoria Nella Venezia Giulia asburgica le popolazioni italiane, prevalenti a Trieste e nelle città costiere dell’Istria, e quelle slovene e croate, maggioritarie nell’entroterra, svilupparono una convivenza sostanzialmente pacifica fino agli anni Sessanta dell’Ottocento. Molti slavi cercavano e trovavano lavoro sulla costa, imparavano l’italiano e con i vicini italiani avevano in comune la religione e un diffuso rispetto per il carismatico imperatore Francesco Giuseppe e la sua buona amministrazione dei territori. Qualcosa di questa abitudine a vivere insieme deve essere sopravvissuto persino più tardi se potè accadere, per esempio, che due miei zii, accesamente irredentisti, si unissero a donne di famiglia croata . Ma è indubbio che anche nella multietnica Pola (dove il censimento del 1890 registrò la presenza di 19.000 italiani, 10.000 croati, 4500 austriaci e 1500 sloveni) finì per prevalere la netta contrapposizione etnico-nazionalistica tra italiani e slavi che improntò le associazioni religiose e sportive, le casse di credito, le bande musicali, i circoli di lettura,…. In un clima che fatalmente isolò i circoli operai tendenzialmente internazionalisti. Mio padre era un “regnicolo”, proveniente cioè dalle vecchie province italiane, terrone di Lucania, classe 1899, tolto – a causa degli eventi della prima guerra mondiale- agli studi di ragioneria e inviato prima sulla linea del Piave e poi a Trieste e subito dopo a Pola, dove conobbe e sposò mia madre. Se mio padre poteva essere definito come politicamente refrattario, con un atteggiamento da meridionale perplesso e scettico di fronte ai rivolgimenti politici, molto più caratterizzata era la famiglia di mia madre. Il nonno materno era un operaio dell’arsenale navale di Pola, che aveva messo insieme tre figli di un precedente matrimonio con i quattro avuti da mia nonna, nata a Rovigno in una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Dei tanti fratelli di mia madre, i più vecchi vissero la loro giovinezza da cittadini dell’imperial – regio governo: Orfeo girava il mondo come fuochista su navi mercantili battenti bandiera austriaca; Umberto per parecchi anni fece la spola con Vienna dove rappresentava gli istriani nel sindacato austro-ungarico dei dipendenti pubblici e, dopo il 1918, fu tra i primi ad 38


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aderire all’irredentismo nazionalista e al partito fascista. Eugenio aveva studiato medicina a Graz e tra 1914 e 1915 si iniettò il tracoma per non essere arruolato dagli austriaci; esercitò poi la sua professione di medico ad Albona, da dove fuggì nel 1944 per riparare nel Veneto. Edgardo e Bruno, i più giovani fratelli di mia madre, parteciparono attivamente alle manifestazioni antislave organizzate dai fascisti negli anni ’20. Bruno si laureò in economia e commercio ed ebbe ruoli dirigenziali nella burocrazia ministeriale fascista e post-fascista. Si può utilizzare la storia di questa famiglia, forse non troppo diversa rispetto a quella di altre famiglie istriane, per affermare che gran parte degli italiani della Venezia Giulia era tendenzialmente fascista? È difficile dirlo, anche se spesso ci si è serviti di questa sbrigativa identificazione per spiegare un esodo che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone. Credo si debba essere molto più prudenti e non si possa dimenticare che a Pola dal 1944 risulta attivo un Comitato di Liberazione Nazionale cui partecipavano tutti i partiti antifascisti, senza distinzioni tra italiani e slavi, anche se poteva essere difficile per gli italiani aderire ad un movimento di fatto egemonizzato, specie nelle campagne, da formazioni apertamente schierate per l’annessione dell’intera Venezia Giulia alla Jugoslavia. Dall’autunno 1943 l’Istria, con le province di Trieste, Gorizia e Lubiana, era entrata far parte della zona di operazioni militari denominata “Litorale Adriatico”, affidata al protettorato del carinziano Friederich Reiner e alla polizia comandata dal generale Globocknik, responsabile in Polonia delle operazioni volte allo sterminio degli ebrei e a Trieste regista dell’avviamento della risiera di San Sabba come centro di detenzione ed eliminazione di ebrei e di prigionieri politici . A seguito di questo atto con cui fin da allora il nazi-fascismo mise in discussione la piena appartenenza del territorio giuliano all’Italia, il comando tedesco nel marzo 1945 decise di fare del porto e della città di Pola una zona di resistenza ad oltranza. Pertanto impose immediatamente l’arruolamento obbligatorio della popolazione adulta maschile nel servizio territoriale di difesa (si trovarono costretti a farne parte anche mio padre e mio fratello Fulvio, diciannovenne) e lo sfollamento degli anziani, delle donne e dei bambini nei centri minori dell’Istria. Caricati in fretta e furia su vagoni bestiame, mia madre e noi 5 bambini e ragazzi (tra i 3 e i 16 anni), fummo spediti insieme a migliaia di altri polesi verso Buje e Pirano sulla linea Pola-Pisino-Capodistria che correva all’interno della penisola istriana dove era sempre più debole il controllo militare dei nazi-fascisti: di giorno il convoglio era mitragliato dagli aerei alleati, di notte la nostra esigua scorta militare aveva delle scaramucce con i partigiani slavi; un paio di volte il vagone carico di pietre 39


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che precedeva la locomotiva saltò sulle mine partigiane e ogni volta bisognava lungamente aspettare che la linea fosse ripristinata. Ho ancora nitido il ricordo del primo impatto con i partigiani jugoslavi che sfilano per le vie di Pirano a mezzogiorno del 27 o forse del 28 aprile 1945 e che io e mio fratello incontriamo all’uscita dalla scuola elementare. Ed è la spinta di antiche paure che ci fa correre verso casa piangenti per annunciare a nostra madre “se qua i s’ciavi!”. Forse nello stesso pomeriggio gli altoparlanti della UAIS (Unione antifascista italo-slovena) impongono l’esposizione alle finestre del tricolore italiano con la stella rossa, insieme alla bandiera jugoslava e alla bandiera rossa. Di lì a qualche giorno ci viene ordinato di lasciare nelle 24 ore Pirano e di ritornare a Pola. Ci imbarcano su un piccolo battello croato che naviga lentissimamente lungo costa. Con il fiato sospeso scrutiamo i banchi di mine galleggianti, nella speranza di non incappare in qualche ordigno disancorato e vagante. Le operazioni di sbarco in un porticciolo vicino a Pola avvengono in modo talmente frettoloso e sgangherato che, con grande disperazione e furia di mia madre, è lasciato cadere in acqua proprio il prezioso cassone dove erano stati riposti la farina e gli altri viveri faticosamente acquistati dai contadini del piranese. Tra l’inizio di maggio e il 12 giugno 1945 (quando a seguito dell’accordo Alexander-Tito le truppe jugoslave si ritirano da Trieste e da Pola) viviamo sotto l’occupazione jugoslava e sperimentiamo la sistematica realizzazione del progetto politico di Tito e del partito comunista jugoslavo. L’accordo dell’aprile 1944 tra la Resistenza italiana (CLNAI) e quella jugoslava aveva rinviato alla fine della guerra di liberazione la definizione dei confini nelle zone etnicamente miste. Ma nel successivo autunno si era verificato un clamoroso cambio di rotta e la Jugoslavia aveva presentato chiaramente il suo proposito circa la Venezia Giulia attraverso le dichiarazioni settembrine di Kardely (“Diventerà nostro territorio tutto ciò che si ritroverà alla fine della guerra nelle mani del nostro esercito”) e del ministro degli esteri del governo partigiano jugoslavo, Smodlaka, che prospettò la revisione del confine orientale come condizione preliminare per una duratura pace italo –jugoslava: «La Jugoslavia democratica è disposta a tendere la mano alla nuova Italia e a salutarla con le parole “Ripassate l’Isonzo e torneremo fratelli”…Gli italiani potrebbero guardare con soddisfazione i loro fratelli ben sistemati in Jugoslavia, come oggi guardano senza amarezza i loro connazionali della Svizzera che sono contenti della loro posizione e non aspirano all’unificazione politica ed economica con la madre terra». Gli studi della storiografia giuliana e in particolare le ricerche dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nella Venezia Giulia (Valdevit, Pupo, Spazzali, Troha) permettono di dire oggi che le durezze e le vere e proprie atrocità dell’occupazione jugoslava non possono 40


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unicamente spiegarsi come risposta ad antiche e vituperevoli ingiustizie, come l’oppressiva snazionalizzazione operata dalla dittatura fascista nei confronti delle popolazioni slovene e croate e la sanguinosa aggressione italiana alla Jugoslavia nel 1941 (dove i comandi dell’esercito italiano, intrappolato nella spirale guerriglia / rappresaglia, si resero responsabili di crimini rimasti impuniti). La realizzazione del progetto annessionistico prima di ogni negoziazione internazionale comportò nella primavera 1945 l’imposizione del controllo jugoslavo sull’intera Resistenza giuliana, sottratta alla direzione del comitato di liberazione nazionale dell’alta Italia (CLNAI), e nei territori occupati il ricorso alle liste dell’OZNA, la polizia segreta jugoslava, per “normalizzare” l’occupazione eliminando gli appartenenti all’apparato amministrativo italiano (maestri, ferrovieri, impiegati delle poste, guardie di finanza, etc) e quanti avrebbero potuto divenire antagonisti politici come i partigiani e gli antifascisti italiani ed i membri non comunisti del CLN. È un evidente disegno totalitario, di cui furono vittime anche i prevedibili avversari politici di Tito in Jugoslavia: Boris Pahor che nel 1975, intervistando l’intellettuale cattolico Edvard Kolbek, dirigente del Fronte di liberazione sloveno, rivelò la fucilazione – nel corso della guerra- di 12.000 partigiani sloveni anticomunisti, si vide negato l’ingresso nella Repubblica federale jugoslava (cfr. M. VERGINELLA, Il confine degli altri, Donzelli, Roma 2008). In quei 40 giorni mio padre (fino al 1942 capitano dell’esercito italiano, in quanto richiamato alle armi) e mio fratello maggiore (costretto all’arruolamento obbligatorio nel servizio territoriale di difesa tedesco) sono nelle liste dei ricercati dall’OZNA che opera soprattutto con rastrellamenti notturni e che di notte perquisisce 3 o 4 volte la nostra casa, nel terrificato silenzio di mia madre e di noi bambini. Si salvano nascondendosi presso conoscenti. Non si salva il figlio di una famiglia amica, antifascista e studente di filosofia; lo prendono all’ospedale dove è ricoverato per un’operazione chirurgica e diventa uno delle 827 persone fatte scomparire a Pola nei 40 giorni di occupazione jugoslava (il loro numero è attestato dall’indagine del Governo militare alleato nel 1947). Sono comprensibili il tripudio con cui Pola accolse il 13 giugno 1945 i reparti anglo-americani e, da quel momento, l’apprensione con cui la città seguì gli incontri dei ministri degli esteri delle potenze vincitrici, che preparavano il testo del trattato di pace con l’Italia. Mentre Tito, forte della sua posizione di alleato della coalizione anti-nazista, pretendeva risolutamente l’intero territorio della Venezia Giulia fino all’Isonzo, anche come compensazione del cattivo trattamento delle minoranze slave da parte del regno d’ Italia e dell’aggressione condotta dal governo fascista alla Jugoslavia, in Italia l’Assemblea Costituente e il governo confidavano che il ruolo svolto 41


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nella Resistenza e nella cobelligeranza avrebbero facilitato un trattamento non punitivo. Il 2.07.1946 l’Assemblea costituente approvò all’unanimità un ordine del giorno riaffermando l’inscindibile unità della Patria nella sua gente e nei suoi confini (cfr. C. MAGGIO, Il confine orientale italiano nei verbali dell’Assemblea costituente, Svevo, TS 2005). Il giorno dopo il consiglio dei ministri degli esteri delle potenze vincitrici respingeva sia la proposta russo-jugoslava di riportare il confine orientale italiano all’Isonzo, sia quella anglo-americana sostanzialmente convergente nell’individuare un confine etnico (linea che doveva lasciare il meno possibile di minoranze sotto sovranità straniera) e nell’assegnare all’Italia Gorizia, Trieste, l’Istria occidentale e Pola. Il consiglio dei ministri delle 4 potenze faceva propria la proposta francese che rinnegava la linea etnica e il principio della consultazione referendaria delle popolazioni (solennemente dichiarato nella Carta atlantica), internazionalizzava il Territorio Libero di Trieste e attribuiva alla Jugoslavia più dell’80 % del territorio giuliano. Inutilmente il 20 agosto 1946 De Gasperi inviava un memorandum denunciando la sordità internazionale “al grido di dolore degli italiani dell’Istria che stanno per abbandonare i loro paesi per sottrarsi alla dominazione straniera”, proponendo di rinviare di almeno un anno le decisioni sulla questione giuliana, auspicando il ricorso al plebiscito nelle zone contestate e richiedendo l’estensione del Territorio Libero di Trieste fino a Pola e all’isola di Lussino. La richiesta di De Gasperi fu condivisa dal CLN della Venezia Giulia che alle nazioni democratiche partecipanti alla conferenza di pace di Parigi chiese l’indizione di un plebiscito sotto controllo internazionale. L’esodo Avendo vissuto la dura esperienza dell’occupazione jugoslava e avendo visto l’andamento delle trattative di pace, fin dal luglio 1946 molti polesi manifestarono l’intenzione di lasciare la città. Il governo De Gasperi convocò i rappresentanti del CLN di Pola e chiese agli italiani dell’intera Istria un ripensamento in nome degli interessi nazionali, anche nel timore che nelle disperate condizioni in cui versava l’Italia prostrata dalla guerra e dalla sconfitta l’arrivo di 300.000 / 350.000 profughi giuliani sarebbe potuto diventare “un salto verso l’ignoto”. Ma le notizie della radio e della stampa circa un possibile e imminente passaggio di poteri tra anglo-americani e jugoslavi a Pola in contemporanea con la firma del trattato di pace, stabilita per il 10 febbraio 1947, crearono allarme. Sicché dal dicembre 1946 il CLN di Pola, in accordo con il governo italiano, istituì gli uffici per l’esodo, organizzò la distribuzione dei certificati anagrafici e scolastici e avviò intese per il nolo di navi. Ai profughi di Pola si concesse per 42


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3 mesi un sussidio governativo mensile di lire 300 per famiglia, oltre ad un contributo una tantum di lire 1000 per ciascun componente del nucleo famigliare. Nel corso del 1947 lasciarono Pola 28.000 abitanti (su 30.000). Era il corrispettivo di 9000 famiglie. Già alla fine di febbraio se ne erano andati 5 proprietari di albergo su 5, 6 proprietari di pasticceria su 6, 27 proprietari di caffè su 29, 126 osti su 156 e persino i 5 tipografi del quotidiano filo-jugoslavo “Il nostro giornale”, dove rimasero soltanto due redattori. La motonave “Toscana” iniziò i viaggi dell’esodo il 1° febbraio 1947, trasportando ogni volta 1500-2000 profughi. La mia famiglia partì con il 2° viaggio del “Toscana” e con noi furono traghettate verso l’Italia un buon numero di vecchiette dell’ospizio di mendicità. Partita dal porto di Pola alle 8 di un mattino insolitamente nevoso, la nave arrivò a Venezia intorno alle 16. Erano circa un migliaio i profughi che la mattina successiva con noi ripartirono da Venezia su un lungo convoglio ferroviario. Noi scendemmo con molti altri a Padova e trovammo una città in festa per la ripresa delle celebrazioni goliardiche dell’8 febbraio. Non ci mettemmo molto a scoprire un ‘ Italia poverissima e tormentata da un inverno straordinariamente freddo. C’era una grande penuria di legna, carbone e gas: a Padova l’erogazione del gas si limitava a 3 ore al giorno e dalla lettura de “Il Gazzettino” del 26 febbraio si apprendeva che sulla strada StanghellaSolesino la polizia aveva sorpreso 150 uomini intenti a segare gli alberi del bordo stradale e ne aveva arrestato 11. Nell’Italia che aveva una gran voglia di dimenticare rapidamente la guerra, reduci e profughi furono accolti con inevitabile freddezza. Ma non deve essere ignorato che molti Comuni si resero disponibili ad accogliere i profughi. Circa un centinaio di impiegati pubblici di Pola trovarono sistemazione e lavoro a Padova. Trenta anziani della Casa di ricovero di Pola furono accolti in quella di Padova e 50 orfani provenienti dall’orfanotrofio francescano di Pola furono inseriti in analogo istituto di Cittadella (alla fine di quello stesso febbraio la questura di Padova trovò 5 di loro alla periferia della città, decisi a ritornare a Pola a piedi). Anche l’ANPI e la CGIL organizzarono una grande manifestazione nazionale di denuncia del duro trattato di pace imposto all’Italia e di solidarietà con i profughi. A Padova la Camera del lavoro e l’ENAL dettero vita ad una settimana di solidarietà con i giuliani, mentre nelle scuole della città e all’Università si raccolse danaro per i giovani istriani. E poi ci fu la generosità dei singoli. Nessuno della mia famiglia potrà mai dimenticare che negli anni di maggiore difficoltà, quando mia madre al termine della giornata si diceva e ci diceva con stupefatta soddisfazione “Anche oggi siamo riusciti a mettere qualcosa in pentola”, abbiamo incontrato a Padova un alimentarista, il signor Ferruccio Tomat, che aveva bottega di casolino in via Barbarigo e che di fronte all’imbarazzata dichiarazione di mio pa43


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dre che non sarebbe riuscito a pagare puntualmente alla fine di ogni mese tutte le ingenti forniture di pane, zucchero, marmellata, conserva e pasta registrate sul libretto e delle quali campava una famiglia di otto persone, disse semplicemente “Lei non si preoccupi. Mi pagherà quando ne avrà”. E pazientò per anni interi senza chiedere garanzie a noi sconosciuti, senza esprimere la benché minima sollecitazione, senza mai rifiutare nulla del molto che ogni giorno andavamo a prendere nel suo negozio. Usciti dalla stazione ferroviaria di Padova vagabondammo due settimane per le vie della città, apprezzando la funzione protettiva dei portici: gli alberghi erano pochi e quasi tutti riservati agli ufficiali alleati, gli affittacamere erano saturati dagli studenti universitari e ovviamente nessuno amava ricevere una famiglia composta da due genitori, due figli grandi e 4 figli ancora bambini. Sicché alla sera dovevamo dividerci per trovare posto; alla mattina ci si ritrovava, ciascuno con una borsa proporzionata alla statura e al peso e si riprendevano i giri alla ricerca di un alloggio qualsiasi. Infine lo trovammo a poca distanza dal Duomo. Si trattava di due stanze da letto poste in un vecchio edificio malamente rabberciato dopo i guasti dei bombardamenti, sotto un tetto cola-pioggia, con un cucinino, un bagno e un ingresso reso polivalente in quanto destinato a funzionare nelle varie ore del giorno come camera da pranzo, studio, intrattenimento, gioco e letto. Il proprietario pretese e ottenne sopra l’affitto una indennità una tantum di buona entrata, decisamente esosa: 250.000 lire di allora; nel contempo rifiutò qualsiasi intervento di manutenzione. Sicché nei mesi piovosi allineavamo capaci pentole per accogliere l’acqua che scendeva dal soffitto e in quelli più caldi noi bambini ci dedicavamo alla caccia dei topi che si affacciavano dalle assi sconnesse del pavimento. Ma era pur sempre una casa. Mio padre potè dedicarsi alla difficilissima ricerca di un’occupazione, ricerca particolarmente ardua per uno che aveva quasi 50 anni e non aveva certamente potuto portare con sé i clienti del suo negozio di abbigliamento di Pola. Avendo vista respinta la richiesta di emigrazione in Australia, dovette continuare la sua ricerca per molti anni e come tanti altri italiani passò molto lentamente dalla condizione di disoccupato, negoziante, ex-negoziante a seguito di fallimento concordato, sub-rappresentante di commercio a quella di lavoratore dipendente, regolarizzato alla fine degli anni Cinquanta ovvero all’inizio del “miracolo economico”. Noi bambini riprendemmo la scuola, incontrando nuovi compagni e nuovi insegnanti, tutti troppo impegnati nell’affrontare un duro presente e nel decifrare un futuro incerto. Quasi nessuno ci chiese da dove venivamo e come era il luogo che avevamo lasciato. Noi probabilmente non avevamo voglia di parlarne: eravamo molto presi da tutto il nuovo che così rapidamente ci era venuto incontro e non faticammo a far amicizie tra i nuovi compagni di 44


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scuola. Al pomeriggio mentre si sbrigavano i compiti per casa ci capitava spesso di sentire una trasmissione radiofonica dedicata alle popolazioni dell’esodo, che esordiva immancabilmente con un tonante “Fratelli giuliani e dalmati, è la Patria che vi parla!” Mio padre, se c’era, sghignazzava e aggiungeva “Attenti al portafoglio!”. C’era poco posto per la retorica nazional- profughista a casa nostra e probabilmente percepivamo (forse troppo sbrigativamente) come inconcludente e lamentosa l’attività delle associazioni dei profughi, al punto che non frequentavamo né le associazioni, né i loro raduni. Indubbiamente vissero vicende ben più dolorose delle nostre i profughi giuliani che nei 130 campi di raccolta precaria disseminati nella penisola e attivi tra il 1945 e il 1970 (!) patirono i disagi della promiscuità e della forzata inattività., mescolati ai profughi provenienti da Grecia, Libia, Algeria e Tunisia. L’esodo ebbe diversificate cronologie a Zara, a Fiume, a Pola e tra i 150.000 che esercitarono l’opzione nell’Istria ormai sotto amministrazione jugoslava, abbandonando case, campi, lavoro, risparmi in banca,... Tuttavia ovunque derivò da una decisione collettiva (a Pola l’esodo fu coordinato dal CLN, altrove dalle comunità locali), coinvolse la quasi totalità della popolazione italiana (i 250.000 italiani censiti in Venezia Giulia prima della guerra si riducono ai 15.000 di oggi) e riguardò tutte le classi sociali: anche la classe operaia che inizialmente aveva visto positivamente il costituirsi dello stato partigiano jugoslavo, di fronte alla realtà del regime scelse l’esodo. La Commissione storico-culturale concordata tra Italia e Slovenia per studiare le vicende svoltesi nella Venezia Giulia tra il 1880 e il 1956, nella relazione conclusiva pubblicata nel 2001 ha affermato: L’esodo degli italiani dall’Istria si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli stati nazionali in territori etnicamente compositi. Quel processo condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell’Europa centro-orientale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani abbiano dovuto abbandonare uno Stato federale e fondato su di un’ideologia internazionalista, mostra come nell’ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e le distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche” La comunità istriana e giuliana degli esuli ha avuto indubbie difficoltà a farsi ascoltare e capire. Le contrapposizioni ideologiche della Guerra Fredda hanno contribuito a determinare più di una strumentalizzazione: i governi centristi hanno corteggiato i profughi giuliani e il loro voto con politiche clientelari (facilitazioni pensionistiche, posizioni di privilegio nell’accesso ai concorsi per il lavoro nelle amministrazioni pubbliche,..) ed hanno ignorato le comunità italiane rimaste volenti o nolenti al di là della frontiera; la destra ha capitalizzato le vicende degli infoibamenti e 45


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dell’esodo a riprova delle conclamate malefatte del comunismo; la sinistra a lungo ha teso a spiegarle esclusivamente come conseguenza dell’oppressione esercitata dalla dittatura fascista sulle popolazioni slave, mentre il PCI di Togliatti da una parte si schierava per l’italianità di Trieste e dall’altra si opponeva con contorte motivazioni all’ipotesi - sostenuta da Nenni, da Lussu e da Valiani- del plebiscito per l’autodeterminazione delle popolazioni giuliane. Bisogna arrivare ai giorni nostri perché tra i post-comunisti si manifesti una posizione ispirata non ad un revisionismo strumentale che tutto occulta nel nome della riconciliazione nazionale, ma più promettentemente alla volontà di ricercare e capire leggendo tutte le pagine della storia. Come fa da ormai molti anni l’Istituto storico del movimento di liberazione nella Venezia Giulia e come sta facendo l’ANPI veneto con la promozione di studi e con la ricerca di occasioni di confronto con le associazioni dei profughi. È anche in questo modo che va respinta l’indebita appropriazione della questione giuliana da parte della destra nazionalista che pretende di ignorare le incontrovertibili responsabilità del fascismo che con le brutali politiche di snazionalizzazione delle popolazioni slovene e croate fin dagli anni Venti fece dell’Istria una polveriera etnica, che scatenò la guerra destinata ad una sconfitta con ripercussioni particolarmente dolorose per la Venezia Giulia e che ancora oggi agita di tanto in tanto le tesi della genetica barbarie balcanica e dell’ineluttabilità del conflitto italo – slavo. Oggi, nonostante il ricorrente manifestarsi di etnocentrismi tribali che vivono la differenza come ragione di scontro, non si può non sperare che la caduta delle contrapposizioni ideologiche consenta una vera ricomposizione della storia che metta fine alle omissioni faziose e finisca per rendere nuovamente possibile quel pluralismo etnico-culturale e quella convivenza pacifica tra italiani, slavi, tedeschi, ebrei, ungheresi.. che sono durati nella mia Istria fino alla metà dell’Ottocento e hanno regalato alla regione giuliana la straordinaria ricchezza culturale propiziata ieri dal meticciato di Tommaseo, Stuparich, Slataper, Svevo-Schmitz e oggi di Tomizza, Magris, Pahor, Bettiza, Matvejevich, Kovacich e molti altri. Letture suggerite VALDEVIT, Foibe. Il peso del passato, Marsilio, VE 1997; MORIMILANI, Bora, Frassinelli, CO 1998; CRAINZ, Il dolore e l’esilio, Donzelli, Roma 2005; BURGWYN, L’impero sull’Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia, Libreria editrice goziziana, GO 2006; CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, BO 2007: SANSONE-TOTA, Palacinche. Storia di un’esule fiumana, Fandangolibri, Roma 2012. 46


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Omaggio a Fulvio Tomizza (pp. 57-59)

Jean Igor Ghidina

Docente di Letteratura Italiana ‒ Università “Blaise Pascal”, Francia Ci voleva la mente eccelsa di un poeta come Carmelo Aliberti per scandagliare l’opera omnia di Fulvio Tomizza, insigne esponente della letteratura non solo triestina ma pure italiana. Dall’affiatamento ideale tra i due uomini è scaturito un volume critico di notevole mole che riesce a calare il lettore in un universo affascinante e coinvolgente. Difatti sin dal titolo si intuisce l’afflato spirituale che assurge a significato recondito della narrativa tomizziana, mentre sarebbe fuorviante ascriverla lapidariamente a una corrente o a un genere collaudato. Un titolo insomma che non rintuzza in un alveo apodittico e unilaterale uno scrittore considerato un po’ riduttivamente soltanto di frontiera. Certo, che Tomizza rappresenti anche l’identità bipolide di tanti famosi giuliani o istriani è scontato, ma il pregio indubbio del volume sta nell’aver saputo proporre l’intentio auctoris nelle pagine liminari, per cui il lettore, attingendo maieuticamente al dialogo fra Aliberti e Tomizza, può avvalersi di uno strumento propedeutico prima di inoltrarsi nella disamina critica. Dall’analisi acuminata di Aliberti, appunto, si evince che ci troviamo di fronte a uno scrittore ubertoso capace di plasmare un’opera multiforme, non soltanto ligia al romanzo riecheggiante spunti autobiografici, ma foriera perfino di una scrittura fantastica ed onirica. Riesumando e perlustrando vicende che spaziano dal Cinquecento allo scorcio del Novecento e soprattutto palesando che la vera frontiera, anzi lacerazione, è quella che assilla l’esistenza umana, Tomizza conferisce alla sua produzione un risvolto universale che esula da qualsiasi microcosmo racchiuso in un tropismo meramente locale. Va precisato quindi in tale prospettiva che gli spasimi esistenziali non sono avulsi dagli eventi della macrostoria i quali vengono intrecciati nelle singole diegesi alle traiettorie assiologiche dei personaggi. La dicotomia tra cultura slava e cultura italiana, tra comunismo e liberalismo, tra agnosticismo e cristianesimo potrebbe sembrare il fine precipuo dell’arte di tomizziana la quale comunque non indulge a nessun etnocentrismo o manicheismo, nonostante il trauma dell’esilio dall’Istria. Tuttavia, al mal di vivere esacerbato o mascherato dagli antagonismi ideologici ed etnici, al dilagare della violenza e dei pregiudizi, allo squallore di individui succubi delle prevaricazioni del potere, Tomizza oppone l’anelito indefesso all’amore, vera vocazione dell’umanità. Da Materada a La casa del 47


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mandorlo, Tomizza mette in scena il proprio alter ego, protagonisti quali Martin Crusich ne la miglior vita, la cui onomastica pluriidentitaria, è emblematica di una terra mistilingue, ma soprattutto, come ribadisce Aliberti, va trasfigurando la derelizione ontologica e metafisica in una solida rappresentazione artistica.

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Fulvio Tomizza: il teatro Vera Verk

Carmelo Aliberti Tomizza, fin da giovane evidenziò la sua passione per il teatro, tanto da iniziare a frequentare la scuola di arte drammatica a Belgrado, dedicandosi inizialmente alla recitazione, alla regìa e alla creazione di testi, tra cui il dramma in tre atti Vera Verk, rappresentato nel 1963 al Teatro Stabile di Trieste con la interpretazione di noti attori. La storia, accaduta nel 1930, racconta la dolorosa esistenza di una donna Vera Verk, travolta da eventi sfortunati. Lei vive in una zona interna del Carso, popolata da arbusti, sferzata dalla bora e assediata dall’aridità, in una stanza di pietra piena di fessure ed esposta a tutte le intemperie. La protagonista è costretta a subire soprusi e iniquità, in un ambiente degradato, abituato ai pettegolezzi e a scagliare anatemi contro le disgrazie altrui. La rappresentazione teatrale si svolge nel cortile della povera casa dei Sardok, dove le donne, in un’atmosfera di tristezza, sono impegnate nei preparativi delle nozze di Rosa e Armando, due cugini costretti a riparare un vituperevole errore, compiuto vent’anni prima in famiglia. Intanto, in paese si rievocano le storie accadute in paese in quegli anni lontani, si ricorda il nome della madre della sposa, Vera Verk, improvvisamente sparita da quel luogo, abbandonando, Rosa la sua bimba di otto mesi, ora cresciuta e sul punto di sposarsi. All’improvviso, in paese arriva una donna vestita di nero, visibilmente stanca, che chiede informazioni sul matrimonio e sulla sposa, esprimendo il desiderio di poter incontrare il padre della sposa. La misteriosa donna rivela di essere un’amica della madre di Rosa. Durante il chiacchiericcio, la gente scopre la vera identità della sconosciuta in Vera Verk che spinse al suicidio un ingenuo giovane, innamoratosi di lei e, dopo tante amichevoli conversazioni e la dichiarazione d’amore, lo respinse brutalmente, aggredendolo con le molle infocate, bruciandolo in molte parti del corpo, anche quelle intime, e costringendolo a fuggire con grida strazianti, fino a lanciarsi in un pozzo per lenire il dolore e morire suicida. Da allora, molte disgrazie colpirono la famiglia Sandok e si abbatterono sul paese. La donna, la sera si rifugia in un fienile per trascorrere la notte, ma imprevedibilmente giungono anche i due promessi sposi, iniziando a parlare delle difficoltà del loro matrimonio. Improvvisamente, adirato Armando si allontana, per cui Vera ha la possibilità di parlare alla giovane, presentandosi come la zia, incaricata dalla Francesca per impedire il matrimonio della figlia. Vera per raggiungere il suo obiettivo, utilizza un linguaggio traboccante di orrore e 49


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di amarezza, ma suscita lo sdegno di Rosa, che si sente oltraggiata dalle pretese della madre che odia per averla abbandonata, bambina, al suo destino. Allora Vera Verk decide di poter parlare con il padre della sposa. Durante l’attesa dell’incontro, riaffiorano nella sua mente lontani ricordi che la trascinano al momento in cui Francesca, per tutelare l’onorabilità della famiglia, la costrinse a sposare un vecchio invalido ricco, non in grado di capire i sentimenti e i sogni di Vera, per cui un matrimonio senza amore non fu mai consumato. Assetata d’ affetto, la donna cede alle lusinghe del cognato Svaldo, sposato, senza ribellarsi a tale rapporto, per non essere cacciata via da quella casa e dover tornare al paese, svergognata per sempre. Tutti sapevano anche del matrimonio di Vera imposto per interesse dalla madre e delle violenze subite dalla donna in casa Sardok e nessuno in paese avrebbe speso una parola in difesa della bisbetica, dispotica e cinica Francesca. In un’epoca storica di mutamenti e progresso industriale, mentre in Istria e a Trieste gli uomini incominciano ad organizzarsi per nuove conquiste sulla via dell’emancipazione, le donne continuavano ad occuparsi della cura della casa e dei figli. Così Vera Verk, come la suocera Francesca con i suoi due figli, si dedicò totalmente alla sua bambina, nata dall’ insano rapporto con il cognato, senza destare alcun sospetto nella famiglia, né tra la gente del paese. Intanto, quel giovane innocente frequenta la sua casa accolto amichevolmente, ma quando questi le dichiara il suo amore, Vera, frustata dalla sua vita infelice per il crollo delle sue ingenue illusioni e per l’angoscia generata dalla persecuzione del destino, in disarmonia interiore con se stessa, fa esplodere la sua ira in un gesto feroce verso il giovane, che con il fuoco addosso, si dirige verso il suicidio. Francesca, impegnata con i figli e con gli affari di casa, non aveva riflettuto sulla paternità della bambina, ma quando si rese conto dell’accaduto, cacciò via dalla casa la nuora che, oltraggiata nel suo affetto materno, si rifugiò sola nel suo paese. La nonna Francesca, vedendo Rosa diventata grande, pensò di darla in sposa al cugino Armando, ma nell’imminenza del matrimonio, Vera decise di evitare l’evento mostruoso del matrimonio, per scongiurare l’incesto. Perciò, si reca in paese e cerca Svaldo, supplicandolo a svelare il loro segreto alla figlia, ma questi si rifiuta. Allora, la madre, con l’angoscia che dilaga nel suo cuore, rivela alla figlia di essere sorella di Armando e di non sposarlo, perché, in tal caso, avrebbe compiuto un incesto. Rosa si rifiutò di credere alla rivelazione materna. Allora, la madre, come un’eroina delle tragedie greche, si abbandona ad un gesto disperato, cioè si uccide gettandosi in un pozzo, sigillando così la sua verità. L’estremo atto di immolazione di se stessa convince Rosa a credere alla confessione della madre e, traumatizzata, rinuncia alla celebrazione del rito incestuoso e si rifugia nella città in cerca di un lavoro. La tragica vicenda di Vera Verk suscita un 50


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forte senso di misericordia e di pietà, conspevole che solo nella morte potrà trovare pace e restituire alla figlia la libertà di costruirsi una vita diversa, in un contesto sociale mutato. La tragedia carsica, narrata da Tomizza tra realtà e tradizione popolare, rivela la sua osmotica partecipazione al mondo e alle sofferenze dei deboli e degli umili sempre schiavizzati dai pregiudici sociali e dall’arroganza dei potenti, come si evidenzia in tutte le sue opere. Egli non predicò la rivoluzione, ma dedicò l’intera esistenza alla realizzazione di un sogno, quello di una comunità, prima quella della sua Istria e di Trieste e poi quella dell’Europa, sconvolta dalle guerre anche nella terra da lui amata, e infine dell’intero mondo con le varie etnie reciprocamente rispettate nella loro identità e pacificamente conviventi in un concerto d’amore e di solidarietà. Vera Verk, come tutti i personaggi femminili nella narrativa tomizziana, con le loro diversità, sono le protagoniste dell’utopia dello scrittore, che osserva e somatizza le ferite e gli odi tra gli uomini, con gli occhi limpidi, stupefatti e risplendenti di candore di un bambino. Vera è descritta come un’eroina condannata alla schiavitù e al lutto, vittima e trionfatrice nella morte. Francesca, con morbidezza stilistica, è vista nell’asprezza delle sue decisioni matriarcali, nella sua bisbeticità, nella fermezza delle sue scelte, nelle storture morali e nell’assenza di scrupoli, sempre attenta ai problemi della casa e impegnata a voler difendere, a costo di ogni trasgressione etica, l’onorabilità della famiglia, manipolando i sentimenti come pedine di una scacchiera. Il dramma tragico di una famiglia popolare che volontariamente si autocondanna all’espiazione di resistenze mancate, non solo avvicina la pagina tomizziana all’eco della tragedia classica, ma fa anche trasparire le radici dell’arte di uno scrittore “naturaliter “cristiano. La “parentela” ideale con i racconti verghiani, dove amore e morte, senso di colpa ed espiazione sono particolarmente evidenti, come i vinti di Verga e i “cafoni” di Silone. Molto significativa appare la chiave di lettura psicologica, che dominerà nelle opere successive, facendo individuare in Tomizza come uno dei maggiori scrittori dell’indagine psicologica e psicanalitica dei suoi personaggi, collegati con il loro naturale contesto storico.

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L’abate Roys e il fatto innominabile Carmelo Aliberti Con La Finzione di Maria (1981), Tomizza interrompe un ciclo della sua narrativa per iniziarne uno nuovo, quello storico, attratto dal desiderio di esplorare biblioteche e archivi parrocchiali con l’intento di strappare alla polvere del tempo personaggi degni di essere ricordati nel contesto di un’epoca caratterizzata da avvenimenti e da congegni mistificatori che hanno scandito emozioni civili e religiose della gente abitante nelle terre di confine. La narrazione di un episodio di eresia, giudicato dal tribunale dell’Inquisizione, anticipa Il male viene dal Nord (1984) che a come protagonista il vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio il Giovane, nunzio alla corte di Vienna e Praga per volere di papa Clemente VII, figura ben nota durante il Concilio di Trento, come riformatore dei costumi, accusato di eresia nell’imperversare della Controriforma e chiamato a Roma da papa Pio V, cortigiano di Massimiliano I e del duca di Ferrara. Per le sue idee rinnovatrici, dopo qualche tempo, verrà processato per apostasia. Stanco della vita di corte, Vergerio, profondo conoscitore delle Sacre Scritture, decide di rinunciare alla vita di corte, per dedicarsi interamente alla sua diocesi e alla cura delle poche viti, cosa che rimarrà solo un desiderio. Accanto al manoscritto sulla storia di Vergerio, nell’Archivio di Stato di Venezia, Tomizza scopre gli atti di un processo contro gli eretici istriani, consumatosi a Dignano nel Cinquecento, che gli ispira di ricostruirne gli eventi nel romanzo Quando Dio uscì di Chiesa (1986), nato in seguito a intensi studi sulle questioni della Riforma e Controriforma, in un periodo, cioè, di famelicità di potere e di controllo totale della Chiesa sul popolo, in nome di Dio inconsapevole. La storia si svolge in un’epoca lontana in un piccolo borgo istriano, dominato dall’ignoranza e di analfabetismo, dove si diffondono le eresie di Vergerio. Nasce, surrogato dai documenti d’archivio, il quarto libro L’abate Roys e il fatto innominabile (1994). La storia si sviluppa con costante attenzione alla progressione delle azioni dei personaggi, riservando maggiore curiosità alle vicissitudini e alle passioni umane, alle minuscole e grandi vicende della Storia e della cronaca. Nel dilagare delle nuove idee, si risveglia l’atrofizzata sete di conoscenza, che allarma la censura ecclesiastica che mette all’indice (1599) moltissimi libri. Ma è impossibile arrestare l’evoluzione delle idee e dei costumi, per cui, come Tomizza dimostra con la scelta finale di Cecilia, la donna incomincia a manifestare l’esigenza di sottrarsi ad una forma di schiavitù millenaria e conquistarsi un diverso ruolo nella famiglia e nella società. Essa incomincia a diventare padrona del suo corpo e, a Venezia, la prostituzione diventa un’attività 52


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diffusa e lucrosa, tanto che i postriboli sorgono dovunque, sia negli alberghi e nelle taverne, frequentati da nobili, politici ed ecclesiastici. Si diffondono anche “case” libere, come il “Castelletto”, e le sgualdrine pagano le tasse per la loro attività, da spendere per i servizi alla comunità. Diffuse erano anche la magia, la stregoneria e altre pratiche spergiure, particolarmente da parte di donne demoniache, abili nei notturni rituali paganeggianti, e pratiche di arte pratica nel settore della medicina primitiva. Lo scrittore sottolinea che la Chiesa del Cinquecento considerava sacrileghi tali espedienti, soprattutto dopo la diffusione del luteranesimo e del calvinismo. In tale contesto, ben delineato da Tomizza con rigorosa e ben documentata metodologia storica, si svolge il l’avvenimento narrato nella diocesi di Concordia, dove pochi erano gli uomini pii, dove opera un prete privo di fede e spudorato che scaglia calunnie ed espedienti sessuali infamanti, tramandati dalla tradizione o semplici superstizioni, inventate dalla demenza di diabolici individui dissacratori, per interessi propri o per scempio egolatrico, come l’uso peccaminoso dell’”olio santo”, citato dallo scrittore come “ fatto innominabile” nella protasi investigativa come espediente sacrilego per spargere sospetti sulla protagonista da parte del prete locale. L’autore, così, nella parte iniziale della sua ricostruzione narrativa, avvisa il lettore sulla pericolosità satanica di un prete che, privo di vocazione religiosa, utilizza il suo ruolo per soddisfare la sua famelicità sessuale e non per esplicare la funzione catechistica e i doveri relativi al suo incarico di curatore delle anime dei fedeli. Il Concilio di Trento (1545-1549) decide l’obbedienza alla disciplina e alla moralità del clero e alla dottrina evangelica che costituiscono la base della formazione del clero per poter guidare spiritualmente i fedeli e svolgere, tra gli altri obblighi, il ruolo di mediazione tra l’autorità della Chiesa e le istituzioni pubbliche, al fine di contribuire a mantenere l’ordine sociale. Si consolida la struttura della Curia e il controllo del Papa sulle gerarchie ecclesiastiche che devono osservare e imporre una rigorosa ortodossia dottrinale. Nel momento in cui la Chiesa cerca di ristrutturarsi con regole temporali precise e con un evangelico codice dottrinale, papa Pio V, domenicano severo, fondatore della congregazione dell’Indice, dopo la vittoria di Lepanto sulla mezzaluna, con sconcertante sorpresa di quanti erano impegnati nella Riforma, nomina, fuori dai decreti conciliari, come prete di Summaga, un mercante veneziano corrotto, depravato, senza scrupoli morali e lontano da ogni fede, vedovo con tre figli, a dispetto del vescovo di Concordia, Pietro Guerini che fu sempre suo rivale. A Venezia, il Roys era molto noto per le sue abitudini negative, che presto furono conosciute anche in Vaticano, come segno di protesta della popolazione locale, per l’intervento della famiglia Grimani e dei Querini. Ma Filippo Roys aveva già consegnato al Papa un curriculum 53


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inattaccabile del fratello Alessandro, che gli procurarono la mitra, l’anello e il pastorale abbaziale, a dimostrazione che il potere ecclesiale è sempre indulgente con i propri membri, anche se indegni. L’abate Roys è un uomo avido e privo di sentimenti religiosi, per cui sfrutta l’incarico ottenuto, solo per interessi personali, servendosi della Chiesa come di un mercato o di un postribolo, con le finalità congrue ai due luoghi. Spasmodico è il suo desiderio di donne, perciò si porta in casa, per servirlo, Lucia, una popolana, che si porta dietro la figlioletta Cecilia che, all’età di diciotto anni, la scopre modesta e vibrante di bellezza e sensualità, che risveglia il mostro che ha dentro e diventa il suo trastullo sessuale che lo sconvolge e lo induce a coltivare inclinazioni perverse, fino a dichiarare di essere il solo padrone del suo corpo. Cecilia, coartatamente prigioniere e schiavizzata dalle vogli ossessive e dalle intimidazioni dell’abate, consapevole delle sue qualità di “ars amatoria”, decide di sfruttarle in modo migliore e personale, recandosi spesso a Venezia, per frequentare ambienti più liberi e consoni alle sue necessità di comunicazione, di libertà di scelte e di riappropriarsi della propria vita, che l’abate le ha sottratto, costringendola e di cercare altrove. Questo, trasgredendo spudoratamente ogni codice, la ricercava dovunque, anche quando, a diciannove anni, entrò nella “scoleta de dona” di madonna Medea, dove la nuova meretrice sperava di trovare la sua indipendenza. Ma le frequenti incursioni e l’arroganza del Roys di prelevare spesso la donna e di portarla via, costrinse Medea a mandar via Cecilia, che già aveva rivelato a Ursetta, figlia di Medea, “l’espediente erotico della prodigiosa unzione del sesso con l’olio santo”, a lei rivelato d una fattucchiera e ora comunicato da Medea all’abate. Travolto da ossessioni libidinose e dalla febbre di affari, si abbandona ad ogni capriccio con Cecilia, fino ad affidarla alla casa di Lisetta, per avidità di guadagni, ma presto la riaccoglie nella sua casa per non saperla nel letto di altri. La sua presenza assidua nei salotti lussuriosi veneziani, lo allontana sempre più da ogni obbligo, fino al disprezzo dell’onestà del mondo, ad essere trasgressivo verso le disposizioni e le gerarchie ecclesiastiche e talmente spregiudicato, da ricevere uomini in casa, anche per Cecilia. Questa, tra i vari frequentatori, conosce il vicentino Pilati che la riporta al “palazzetto”, dove si trovava prima. Lei si illude di aver conquistato un piccolo spazio di libertà, tanto da definire l’uomo il suo “innamorato” che, invece, è il suo nuovo sfruttatore. Ma l’abate non le consente di appartenere ad altri e, combustionato dai piaceri delle “scolete”, si allontana sempre più dalle suoi doveri sacerdotali. Cecilia, ventottenne, insofferente ormai delle sue manie erotiche, decide di allontanarsi dal prelato per sempre per esercitare liberamente la sua vergognosa attività a proprio vantaggio, mentre l’uomo, rimasto solo nel suo letto, alimenta un forte desiderio di vendetta. In tale frammento di tempo, Tomizza si soffer54


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ma sulla sua storia, intrecciandola con quella di Cecilia e di altri personaggi, sequestrati dall’istituzione ecclesiastica e minacciati dai “ tribunali della coscienza”, che controllano ogni aspetto della vita, anche privata, dei cittadini, costringendoli a vivere in un soffocante clima di restrizione di ogni soffio di libertà. Tutti sono perseguitati e, di fronte a tanta crudeltà, nobili e intellettuali si interrogano sui contenuti della propria fede, soprattutto le donne, accusate di pratiche magiche e di stregoneria da parte dei domenicani, difensori estremisti e fanatici interpreti dell’ortodossia religiosa. Lo scrittore confronta il suo segreto nomadismo di incertezze con la ghigliottinante ferocia di un’epoca che avrebbe dovuto promuovere il rinnovamento e avviare un nuovo capitolo di civiltà e di rinascimento dei valori naturali dell’uomo e, invece, ritrova, nel periodo della trasformazione positiva anelata, un segmento di ghettizzazione delle idee di libertà e delle speranze che erano state sgozzate nella sua terra d’Istria. Lo scrittore avverte nel suo dramma la condizione psicologica della sua gente materadese, riflesse in coordinate storiche di un passato apparentemente fecondo e sereno e che lo scrittore ritrova, con un’attenta ricerca, nelle tragiche vicende di una donna sfruttata nel corpo e disfatta nell’anima ossessionati dall’ardore della carne. L’abate si propone di vendicarsi, seminando dubbi su Cecilia, senza esporre passioni innominabili, per nascondere la vergogna. Con queste intenzioni, si reca presso il vescovo Querini nella sede della Concordia, per riferire maldicenze e insinuare sospetti di pratiche magiche femminili, da considerare come scandalo, e non come peccato, e ricercare la verità, spinto da un falso moralismo e da una religiosità esteriore. Il presule, consapevole della capacità dell’abate di tessere, senza scrupoli, illazioni e ingarbugliate menzogne, lo ascolta con indifferenza, ma, conoscendo la pericolosità dell’argomento nel clima della dell’Inquisizione, escogita di proseguire la commedia, prendendo le dovute distanze dalla trama delle ingannevoli menzogne del Roys, amante degli affari immorali, di ogni forma di depravazione sessuale e finto paladino nella difesa della Chiesa e della ortodossia fideistica, comportamenti e abitudini depravate dell’abate. Perciò, il Querini avvia un’azione giudiziaria presso il tribunale ecclesiastico, per dimostrare ulteriormente l’autorevolezza dell’Inquisizione. Il silenzio del vescovo si rivela troppo lungo per la fretta dell’abate che, per accorciare il tempo dell’attesa, esce allo scoperto e lancia accuse contro le sue vittime, Lucia e Cecilia. La madre, davanti all’abate che attribuisce a Cecilia, la traditrice, la sua rovina, andandosene a vivere a Morsano con il dottor Gallina, in grado di permetterle una vita dignitosa, Lucia difende la figlia con vigorosa energia, scagliando anche un pugno contro l’abate. Questi, non rassegnato alla sconfitta, con la turbinosa figura della donna che sconvolge la sua mente, scrive una lettera di minacce al prete di 55


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Morsano, ricordandogli che il “fatto innominabile “ era iniziato nella sua parrocchia e che, perciò avrebbe dovuto relazionare al vescovo per aver mal custodito gli oli santi. Perseguitato sempre dai gioiosi ricordi di Cecilia, decide di trasmettere i suoi pettegolezzi agli amici gentiluomini di Portogruaro. Costoro rimangono sorpresi dell’inaspettata intromissione dell’abate nelle loro conversazioni con calunnie che a loro non interessano, anche se fingono sorpresa. Soddisfatto di aver infangato il nome di Cecilia, ritorna a Summaga. La stessa sera, nella casa del vescovo sono invitati gli stessi gentiluomini, incontrati dal Roys la mattina, che si prendono beffa di lui, informati dei misfatti dell’abate e sollecitano l’alto prelato a riavviare il processo, convocando l’interessato. Di fronte a Sua Eccellenza Reverendissima, di non ricordarsi bene il fatto, da lui appreso molti anni prima e, accortosi di non essere creduto, s’inventa di sentirsi male e chiede un rinvio del processo, ma il Querini, deciso a concludere il processo, solo dopo avergli fatto rivelare i nomi delle donne colpevoli dell’utilizzo dell’olio santo. Il Querini, non credendo a nessuna parola di lui, convoca le due donne a deporre. Lucia, pubblicamente, difende la figlia con orgoglio e determinazione e accusa il Roys di essere ladro, bugiardo e depravato e di essere arrabbiato con la figlia che si era riappropriata della sua libertà i scelta e aveva deciso di sposarsi, nonostante gli ostacoli dell’arrogante abate. Il vescovo soddisfatto vuole un confronto con la donna per accertare definitivamente la verità. Vistosi in difficoltà, prega il capitano Raffaele Del Ghiro di intervenire presso il prete di Morsano per convincere Cecilia a non presentarsi in tribunale e di allontanarsi oltre il Tagliamento o Trieste. Le due donne non accolgono il messaggio e in tribunale Lucia dichiara la sua soddisfazione per sua figlia che ha scelta una propria vita autonoma. Cecilia, soffocata a lungo nel silenzio coatto, espone con coraggio e con precisa prontezza le sue vicissitudini con l’abate, che le imponeva di soddisfare ogni suo perverso capriccio. Sfuggita ad una realtà di totale schiavitù, si sente fiera di poter parlare liberamente davanti a gente importante e ciò la spinge ad illustrare nitidamente il suo doloroso percorso esistenziale, lastricato di ogni forma di male, di silenziosa sudditanza, di orrori morali e di inestinguibile dolore, a causa di un demoniaco individuo mascherato da prete. Ascoltare le sue parole significa ribellarsi ad una ancestrale condizione di servile opacità della donna per la prima volta ed acquisire la consapevolezza di avere il diritto di esprimere la propria libertà di fronte agli strumenti repressivi del potere ed influenzare l’opinione dominante circa la logica dell’esclusione e di subalternità all’uomo. Cecilia dimostra che l’essere umano può sempre redimersi da ogni precedente errore e rifarsi una nuova e più responsabile vita. Tomizza riconosce in Cecilia, in anticipo sui tempi, il desiderio della donna di essere libera di vivere autonomamente 56


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una condizione di dignità, liberandosi dei vincoli di ogni ruolo subalterno e di poter amare, anche dopo ogni lussureggiante sregolatezza. La giovane, prima accusata di pratiche erotiche profanatorie, diventa teste a carico, assieme alla madre e al prete di Morsano. Il vescovo, condizionato dai criteri osservati nei processi della Chiesa, alimenta una vaga sensazione di condanna. Il Querini, che si è preconfezionato una sua opinione, convoca altri testimoni favorevoli all’abate ritengono il fatto dissacrante frutto di immaginazione o esprimono il parere dell’assurdità di un fatto nefandissimo per poter essere compiuto da un uomo di Dio. Il processo-farsa, a cui furono chiamati anche “un giudice senza giustizia”,” un abate senza religione, un governatore negligente”, altre donne impudiche, legali e procuratori, scelti oculatamente dal Roys presso il Santo Ufficio di Venezia, unica istituzione preposta a condannare un religioso, dove l’imputato conosceva bene il dilagare della corruzione, si concluse con il riconoscimento del Roys, come mendace, infamatore sacrilego, corruttore, lenone e truffatore”, ma non fu pronunciata alcuna sentenza di colpevolezza, perché non c’era stato alcun segno di stima compromessa, né il riconoscimento dei limiti materiali dei ministri della Chiesa. Ciò che contava era, per la Chiesa e la Serenissima, l’impossibilità di distinguere governanti e governati, senza considerare scorrettezze e disonestà che l’autorità di Roma non fosse compromessa. Il processo-scenografico non sfiorò la reputazione, né dell’istituzione, né il Roys, che tornò a Summaga e presto si vide commensale del vescovo. Tomizza si dimostra ancora grande scrittore sia nel setacciamento dei luoghi più significativi della storia, sia nella creazione della struttura narrativa, distillando sequenze e fotogrammi nel simmetrico percorso della narrazione, con sincronici inserimenti dei personaggi e dei loro interventi nella tessitura del racconto, con collegamenti fluidi nell’articolazione del periodare, senza sovrapposizione nominale o attributiva e con fluenza tematica e stilematica razionale. Occorre anche evidenziare l’anticipazione dell’emersione del ruolo della donna dalla ghettizzazione atavica, dando voce alle sue soffocate esigenze e ai suoi naturali diritti di dignità.

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Il sogno dalmata Carmelo Aliberti II sogno dalmata uscì postumo nel 2002, in occasione del 2° anniversario della scomparsa dello scrittore. Il romanzo fu giudicato l’ultimo suo capolavoro che conclude l’anabasi tormentata di Tomizza nelle drammatiche vicende e nella lacerante problematicità di una comunità contadina, quella del destino della gente dell’Istria e, in particolare dei materadesi, suoi eroici compagni, condannati ad un nomadismo afflittivo, prima dal fascismo che si servì di metodi barbari per fascistizzare le terre istriane, poi dal titismo, durante la gestione slava di quella terra di frontiera, che aveva sancito anche la pena di morte per chi non frequentava le scuole slave e non parlava solo nella lingua dei dominatori. Furono bruciati libri e biblioteche della cultura diversa da quella dei “padroni” di turno, provocando orrore e terrore nei sudditi. Quel paesaggio istriano, risplendente di verde e di luce, che era stato il grembo di giorni sereni, riempiti dalla gioia d’amore per la famiglia, per il lavoro nei campi, per il sogno di una vita felice per i figli, pur con tante privazioni e sofferenze, dalla profonda fede nel Creatore e accettazione rassegnata di un destino crudele nel Suo abbraccio, all’esilio coatto e crudele dalla terra amata per gli interessi e gli appetiti famelici delle potenze alternativamente vincitrici, epicentro delle illusioni e delle speranze redentive delle storie e degli ingenui miraggi del giovane Tomizza, già tratteggiati nel suo lungo e doloroso percorso narrativo, il male del mondo con popoli sempre in guerra, travolti da odi etnici e da avidità di saccheggio, la devastazione della sacralità di ogni sentimento puro, le iniquità pubbliche e private per una arrogante supremazia, la solidarietà verso il prossimo e le persecuzioni degli oppressi, l’intolleranza verso i “diversi”, i gesti dissacratori verso ogni credo diverso, il cinismo dominante nell’aristocrazia verso i mendicanti, gli antagonismi etnico-religiosi che hanno sconvolto il mondo slavo, con devastanti guerre civili e stragi fratricide, lo stravolgimento di ogni etica personale e collettiva, lo sfarinamento del desiderio di pacificazione delle diverse etnie triestine, in un’era postmoderna già avviata a distruggere le ragioni della storia, a sospingere verso la follia le ricerche della scienza con la sfida demente alla miracolosa, affascinante creazione dell’universo, frantumando l’organizzazione razionale e il codice umano e razionale, ordinatore del Bene universale, l’ultima speranza di Tomizza è naufragata, lasciando straziato il suo “io”di fronte alla sconfitta. Lo scrittore, dopo aver cercato di anestetizzare il suo malessere interiore attraverso la letteratura con le diverse soluzioni affidate 58


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ai suoi personaggi, ora, già avvertendo la propria fragilità di fronte al futuro dell’umanità agonizzante, si lancia alla ricerca di una inedita certezza, per potersi riaggrappare alla vita. Lo sradicamento dai propri luoghi dagli istriani, e in particolare dei materadesi, che lui ha narrato con intensa sofferenza, lo trascina verso la terra delle radici dei suoi avi, nell’estremo sud della Dalmazia alla ricerca dell’Eden terrestre, come aveva appreso dalla tradizione familiare. In una conferenza, egli ha dichiarato che, dopo aver fatto i conti con la recente storia di un mondo di confine, conteso da due potenze ideologicamente contrapposte, una occidentale e l’altra dell’Est europeo e constatato orrori e libertà, in lui, nato in un paesino dell’interno italiano e slavo, cattolico e pagano, padronale e proletario, nasce un sentimento di odio-amore verso le due contrapposte realtà. Oscillando interiormente tra queste angosciose inquietudini, nasce il sogno, detto ”dalmata”, ultima speranza di scoprire nelle terre del capostipite della sua stirpe, Jorze Jurcan l’approdo ad un rifugio sereno, edenico, lontano dalla malvagità degli uomini, che hanno osannato il Male e impedito a due etnie di confine di poter convivere pacificamente. Al centro di tante contrapposizioni, sconfitte e illusioni, la figura femminile, nella persona della moglie Laura, qui Eleonora, gli è vicina, in questa utopica corsa verso gli Inferi del cuore, forte nella sua timidezza e fragilità, comprensiva e aperta alla comprensione e al perdono, ancoraggio infrangibile ai naufragi esistenziali dell’uomo amato nei momenti di sfiducia e di pessimismo, sprofondato nel buio e nel vuoto, sempre fedele nella vita coniugale, anche quando percepiva il sospetto di altre tentazioni nella vita dello scrittore. Il tema dell’amore è il filo conduttore della narrativa di Tomizza in una pluralità di significati simbolici. In questo romanzo-testamento, domina anche nella figura di Milena, bella studentessa, conosciuta a Zara, durante i suoi viaggi, la frequenta in circostanze festose, dove si balla, si canta, si assaggia il vino nello stesso recipiente. Con innocente malizia, la ragazza beve dove lui ha bevuto. La figura di Milena, la sua giovane età, la festosità che la circonda, il suo limpido pudore, conquistano lo scrittore che vede in lei il simbolo della gioia di vivere, la rigenerazione di una nuova vita, il sogno dalmata di abitare nella antica casa e nei luoghi amati dagli avi. Ma i catastrofici eventi della guerra esplosa nei Balcani, le atrocità e le tragedie collettive, i sanguinosi saccheggi, gli sciacalli che succhiano anche il sangue ai morti nella sua Istria, infrangono il sogno dalmata dell’autore. Nell’ora del bilancio di una vita, trascorsa nella precaria provvisorietà di effimeri slanci emotivi, ha acquistato un ruolo centrale la famiglia, incarnata nella moglie, ora Miriam, ora Ester, ora Cinzia o Eleonora, che lo ha sollevato e confortato nei momenti più dolorosi e negli squarci morali e dolorosi della sua anima, fino al traguardo della partenza finale. 59


Terzo Millennio – anno 6 – numero i/ii – giugno 2014

In nome di Concetto Marchesi umanista e politico Sebastiano Saglimbeni

Docente emerito di letteratura, poeta, scrittore e critico letterario L’umanista “Cittadini, so di parlare in un luogo dove uomini di varia parte e di varia fede sono venuti ad ascoltare un uomo di parte e di fede ed è questa una fortuna ed eccezionale occasione per esprimere il proprio pensiero, senza la pretesa che esso abbia a soverchiare il pensiero degli altri (...)”. Come prologo, questa citazione, che fa parte del discorso che il grande umanista e politico Concetto Marchesi pronunciò al Teatro “Odeon” di Milano il 30 marzo del 1955. Sentendo come mio quanto sopra, scrivo in nome di questo grande italiano, con naturalezza, senza che io ricorra - per sembrare uno singolare - ad ornamenti di ardui e complicati discorsi. Passerò, pertanto, in rassegna le fasi creative di Marchesi umanista. C’è, lungo l’arco di tempo, che va dal 1898 (Marchesi conta vent’anni di età) al 1957, una densa produzione di opere che contengono l’azione umanistica dell’uomo: sono studi di codici antichi, traduzioni, saggi, prose d’arte, scritti politici. Mentre studente, Marchesi pubblica nel 1898 presso l’editore Giannotta di Catania Duo Codices Neveleti. Che sono appena 15 pagine. Questa impresa ha lo scopo di una risposta al docente di latino Remigio Sabbadini, che aveva bocciato Marchesi ad un primo esame, in quanto non aveva risposto sui metri di Plauto. L’anno seguente, all’età di 21 anni, subito dopo la laurea conseguita a Firenze, dove si era trasferito, per gravi motivi, pubblica con lo stesso Giannotta La vita e le opere di Elvio Cinna, il poeta autore di Zmyrna. Su questo poeta del primo secolo, lodato da Catullo e da Virgilio, Marchesi compie studi rigorosi, ha a sua disposizione poca scrittura sull’uomo che fu ucciso in quanto confuso con Lucio Cornelio Cinna durante i torbidi accadimenti seguiti alla morte di Cesare nel ‘44 a. C. Quest’opera, di recente, è stata ritrovata in una biblioteca catanese da Matteo Steri, bibliofilo e fondatore in Gallarate dell’ “Archivio Concetto Marchesi”; così, volendo, si potrà compiere uno studio interpretativo per una ristampa e per divulgare questo lavoro che segna l’inizio dell’impegno ininterrotto di Marchesi, scopritore, sino alla vigilia della sua morte, avvenuta a Roma il 12 febbraio 1957, di scritture classiche latine mal note e sconosciute. Quella misteriosa fine, probabilmente, del poeta novo Elvio Cinna aveva colpito, entusiasmato il giovane studioso tanto da indurlo ad un tentativo per una ricostruzione di una storia uma60


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na e per un’operazione rigorosamente filologica. L’azione umanistica di Marchesi si intensifica con un saggio di 142 pagine sul Tieste di Lucio Anneo Seneca pubblicato presso l’editore Battiato di Catania nel 1908. Da qui a due anni pubblica sulla “Rivista d’Italia” n. XIII il piccolo saggio dal titolo Le donne e gli amori di Marco Valerio Marziale, lavoro singolare sul poeta che morì all’età di 34 anni ma che poté lasciare un’opera di 14 libri di epigrammi dove l’abilità costruttiva del disegno coincide con l’abilità del dongiovanni ante litteram, Marziale. Altri studi che il trentenne docente pubblica riguardano Il concetto dell’arte nelle Satire di Orazio pubblicato su “Rivista d’Italia” n. XIV, e Giovanni Boccaccio ed i codici di Apuleio. Siamo nell’anno 1913. Ma il valore più consistente di Marchesi umanista si evince dalle opere monografiche Ovidio, Seneca e Tacito e dalla concezione del vasto disegno Storia della letteratura latina. Di Ovidio, Marchesi sottolinea la grandezza dell’ Ars Amatoria; per Seneca costruisce una monografia giudicata dal suo biografo Ezio Franceschini la più sofferta e la più sentita di tutti i suoi lavori. Siamo negli anni durante i quali Marchesi è pure impegnato politicamente. Mentre è docente ordinario di letteratura latina all’Università di Messina, all’età di 45 anni, nel 1922, si laurea in giurisprudenza con una tesi su Il pensiero giuridico e politico di Cornelio Tacito, un lavoro che diventerà Tacito, l’opera pure monografica, poderosa, pubblicata a Messina nel 1924 presso l’editore Principato, come pure Seneca, che era uscita nel 1920. Ricordo che la Storia della letteratura latina, sempre edita da Principato nel 1925, in due tomi, è un capolavoro, “un monumento insigne per straordinaria ricchezza di acume psicologico e di umana esperienza...”, scrisse Manara Valgimigli sul “Leonardo” del 1927, n. 20. Ancora oggi si legge quest’opera come una prosa d’arte per il linguaggio limpido, per le storie sociali ed umane che avvincono, non priva, a piè di pagina, di un nutrito apparato bibliografico. Sarebbe bene che circolasse come un’opera di alta cultura, non con funzione intesa meramente scolastica. E qui si cita come Marchesi chiude l’opera Seneca: “Nell’opera di Seneca, è notevole la persistenza di talune contraddizioni, che non sono contraddizioni, ma incertezze di un proprio mondo morale”. Estraendo dalla Storia della letteratura latina, ecco come Marchesi costruisce e conclude la sua scrittura sullo sventurato poeta Cornelio Gallo, sventurato per la fine tragica, il suicidio, sventurato per la perdita dell’opera sua che segna una grande lacuna subita dalla letteratura poetica di Roma: “Le due egloghe, VI e X, basterebbero sole ad assicurare il valore di questo grande poeta dell’elegia amorosa, la cui fine disgraziata non impedì ad Ovidio di celebrare la tenerezza sug61


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gestiva dei suoi carmi. Quintiliano lo pone tra i massimi elegiaci romani dell’età imperiale, insieme con Tibullo, Properzio e Ovidio: Orazio non lo nomina: ed il silenzio di uno che maltrattava Calvo e Catullo e dileggiava Properzio è dispetto, ma anche rispetto”. Nel 1926, Marchesi approda a Padova per l’incarico di latino medioevale ed umanistico. Pubblica nel ‘31 da Principato che ora ha sede a Milano Letteratura Romana. Alcuni anni dopo, dal ‘36 in poi, si fa carico di dibattiti sulla filologia classica e pubblica a Padova, dal ‘38 al ‘40, l’opuscolo di 24 pagine Augusto tra i poeti e gli storici del I secolo e il piccolo saggio Le operette Catalepton, Dirae, Lydia, Copa e Ciris di 77 pagine. Nel periodo in cui lavora per la Costituente, di cui dirò nella seconda parte di questa mia nota, scrive l’opera Lucrezio ed il poema della natura che pubblicherà nel 1947. Negli ultimi anni, oltre agli scritti in prosa Il libro di Tersite, che è una riedizione del Letto di Procuste del 1928 e Il cane di terracotta, esegue una revisione dell’opera critica l’Eneide di Remigio Sabbadini, suo professore, come sopra abbiamo fatto cenno, e suo suocero, avendo Marchesi sposato la figlia Ada nel 1910. Ho tralasciato di citare altre opere ed operette apparse su periodici e costituite come dispense che hanno una loro importanza perché non c’è in queste la posa del filologo, ma la naturalezza, la creatività piuttosto armoniosa. E mi avvio alla conclusione di questa prima parte della nota con una citazione di Ezio Franceschini che così registra in Concetto Marchesi – Linee per l’ interpretazione di un uomo inquieto (Editrice Antenore, Padova, 1978), l’epilogo della grande esistenza dell’ umanista: “Buona era la salute, lucido il pensiero, sincera la memoria anche di cose lontane: fervida l’attività per la revisione di antichi lavori e la preparazione di nuovi: ma soprattutto impressionava il suo senso di pace, che si avvertiva in ogni sua parola, in ogni suo gesto”. E ciò da un autentico cattolico, quale fu Ezio Franceschini, suo alunno, sinceramente legato al suo maestro di opposta formazione politica. Il politico e il costituente Nel giovane che si immette nelle ardue vie della conoscenza umanistica, interpretandola per la sua professione, c’è, ovviamente, il giovane politico con idee agnostiche, positiviste, anarchiche. Nel 1894, all’età di 16 anni, in omaggio a Mario Rapisardi, l’autore del poema Lucifero, Marchesi fonda a Catania il periodico “Lucifero”. Sente fortemente l’urgenza di difendersi, di fermare le sue idee singolari controcorrente; è su questo organo che difende fervidamente gli anarchici di Parigi andati al patibolo. Viene 62


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arrestato e condannato ad un mese di reclusione che non sconta per l’età minorile. Ciò accade verso giugno, mentre nell’agosto, per aver dimostrato a favore dei condannati dal tribunale militare, subisce la violenza dei militi dell’ordine che lo prendono, nel giardino pubblico, a pugni e calci e lo trascinano nelle carceri di “S. Agostino”, ove per poco, un giorno, rimane rinchiuso. Nell’anno successivo, Marchesi ritorna all’ attacco con il “Lucifero” sul quale, con tono alla maniera tertulliana, scrive nell’editoriale: “Sequestrate pure i nostri fogli e le nostre persone, ma l’idea è troppo grande per potersi arrestare”. Si noti “l’dea è troppo grande” per intendere subito la scelta di Marchesi, la lotta, la resistenza di Marchesi, quella resistenza che, poi, come vedremo, sentirà intus et in cute, all’età di oltre sessant’anni, a Padova. Nel 1896, Marchesi compie 18 anni e la legge può colpirlo con la sentenza del 1884: diventata, infatti, esecutiva, viene arrestato mentre si trova all’Università, non in Francesco Lo Sardo aula dove sta ascoltando la lezione di Remigio Sabbadini, ma nell’atrio, in quanto il rettore si era opposto all’accesso dei militi. Sconta un mese in carcere, ma vi rimane un altro mese per offesa a pubblico ufficiale, una guardia carceraria ingiuriata “rospo”. Cosi, su questo tratto biografico, ci documenta Ezio Francescani; diversa o variante, per altri, questa vicenda riguardante l’arresto di Marchesi. Vivissime sono le polemiche per l’ingiustizia abbattutasi su un giovane studente ribelle verso la bassa, vuota politica regia, baronale. Di qui la decisione del trasferimento a Firenze. Le sue idee di anarchico si acuiscono durante l’anno di cattedra nel 1902 al liceo “Maffei” di Verona dove rimane poco, circa un anno, tra assenze per malattia e proteste al sistema clericale veronese e alla conseguente pseudo cultura. Negli anni che vanno dal 1903 al 1908, Marchesi si trova un po’ a Messina ove in segna in un liceo cittadino; spesso si accompagna a Francesco Lo Sardo, avvocato, futuro deputato (il primo eletto in Sicilia nel 1924 nella lista del Pcd’I.), arrestato due anni dopo a Messina, la sera 63


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Concetto Marchesi

dell’8 novembre e fatto morire nel carcere a Poggioreale nel 1931. E ricordo l’epigrafe che Marchesi dettò per la pietra sepolcrale di Lo Sardo: “ Vitae suae non fidei oblitus obliviscendus nulli ”. Con Lo Sardo lotta assieme agli iscritti del circolo “A. Cipriani” per la ricostruzione di Messina distrutta dal maremoto e terremoto del 1908. E qui si potrebbe aprire una breve digressione per ricordare Quasimodo che canterà nella lirica: “Al padre“ “ Dove sull’acqua / viola era Messina, tra i fili spezzati / e macerie…”. Nello stesso anno 1908 è pure a Pisa dove diventa consigliere comunale democratico. Sette anni dopo, a Pisa, dimostrano gli spazzini per il salario e scelgono Marchesi come rappresentante democratico. Sciancati, disgraziati, disoccupati percorrono le vie della città con le scope alzate e con Marchesi in testa. Dal 16 ottobre di quell’anno 1915, Marchesi ritorna a Messina dove si stabilisce sin dal 1923. Insegna – come sopra accennato – Letteratura latina all’Università; non tralascia pure di scoprire la valenza della giurisprudenza dei Romani. Ma la vera posizione e passione politica si matura nel 1921 quando con Lo Sardo - stando alle testimonianze di Francesco Lo Sardo, il nipote, della classe 1897 - si reca al Congresso di Livorno ed inizia così la sua azione di militante comunista. Scrive Franceschini: “Non prese parte alla vita clandestina attiva quando, durante il fasci64


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smo, il partito fu messo al bando, ma senza nascondere le proprie idee, visse isolato divenendo centro di attrazione per molti”. Questa sua scelta, denigrata tanto, durò dal 1923 al 1943, ma c’è una spiegazione: egli, non avendo abbandonato l’Università, il suo posto da dove, in qualche modo, poteva resistere, credeva, con il suo insegnamento, con la sua immagine fisica, di compiere un’azione ancora più forte, rischiosa, contro la dittatura fascista che i suoi colleghi avevano deplorato, senza esprimere il loro giuramento e con l’abbandono del lavoro di educatori. Tutto verrà chiarito e bene e fortemente con il discorso inaugurale dell’anno accademico 1943-‘44 tenuto nell’aula magna dell’Università di Padova il 9 novembre. Questo discorso è uno dei pezzi più significativi della storia politica dell’uomo e d’Italia. L’inaugurazione del 722° anno accademico dell’ Università patavina è dedicata ai lavoratori, agli artisti e agli scienziati, non, come si attendevano alcuni funzionari, scherani del nazifascismo, alla nascente ignominiosa Repubblica di Salò, rappresentata dal Ministro dell’Educazione Biggini, presente nell’aula magna, durante la funzione. Tutto verrà chiarito ancora con “L’appello agli Studenti”, scritto in data 28 novembre 1943 e divulgato nel dicembre. Norberto Bobbio giudicò questo appello di Marchesi “uno dei documenti più famosi della resistenza”. Lo riporto riduttivo alquanto: “Studenti dell’Università di Padova! Sono rimasto a capo della Vostra Università finché speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica, sino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio, al segreto(…). Oggi il dovere mi chiama altrove(…). Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria; vi ha gettato tra un cumulo di rovine; voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede….Liberate l’Italia dall’ignominia!” Questo il credo di una politica che si coniuga bene con la cultura umanistica di Concetto Marchesi. Il suo atto politico si estrae da un’infinità di scritti aulici, come quello prima letto e dall’azione ch’egli compie una volta che lascia il rettorato patavino per rifugiarsi in terra Svizzera all’età di 66 anni e preparare la resistenza più concretamente, assieme ad altri uomini, lì rifugiati. Ripetiamo: per preparare la Resistenza, con scritti ad esponenti civili e militari dell’antifascismo. Dal rifugio svizzero avrebbe potuto corrispondere con gli Inglesi e con gli Americani per gli aiuti concreti. E’ ospite presso la villa di Mons. Angelo Jelmini. Dalla Svizzera, Marchesi prepara programmi; scrive, tra l’altro, la famosa lettera al senatore Giovanni Gentile pubblicata nel 65


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gennaio del 1944 sul giornale clandestino “La Lotta”, ristampata nel mese di marzo da Antonio Banfi su “La Nostra Lotta” (periodico mai esistito, secondo qualche ricercatore; è il suo biografo comunque, che lo cita), ma senza firma di Marchesi e con il titolo e il finale cambiato. Una falsificazione di cui Marchesi rimane per parecchio tempo disinformato. E leggiamo il finale della sua vera lettera: “La spada non va riposta, va spezzata: domani se ne fabbricherà un’altra? Non sappiamo, tra oggi e domani c’è di mezzo una notte ed una aurora”. Si senta, invece, il finale della lettera manomessa: “La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, l’ultimo traditore fascista non sia sterminato. Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!” Questo finale, attribuito a Marchesi, gli generò il marchio dell’istigatore mentre era in vita e non del tutto cancellato perché riaffiora ogni qualvolta si parla dell’umanista: ciò da quando i partigiani toscani uccisero nell’aprile del ‘44 a Firenze il filosofo Gentile. Marchesi era stato molto amico di Gentile, sin dalla gioventù, dall’inizio del secolo scorso, quando entrambi discutevano sul “Liber philosophorum”. La lettera aperta al filosofo Gentile non è, quindi, contro costui: è contro il fascismo “che rinasceva con i carri armati tedeschi, con i tribunali, con le sue rappresaglie. Sappiamo ora, da Paolo Spriano (Storia del Partito Comunista Italiano, IV, pag. 210), che fu Girolamo Li Causi: il quale, dunque, va indicato come istigatore della morte di Giovanni Gentile: non Concetto Marchesi”, osserva Franceschini, a proposito di questa altra storia, non chiara, secondo altri. Va ricordato che Li Causi aveva scontato parecchi anni di carcere sotto il regime fascista: ritornato libero diventa uno dei più grandi dirigenti delle “P.C.I.”; Li Causi - va ricordato pure - fu colui che affrontò a viso aperto la banda Giuliano e la Mafia in Sicilia. Tanti articoli della stampa quotidiana su questa vicenda. Leonardo Sciascia, alcuni anni prima che morisse, indica sul “Corriere della Sera” Li Causi e Marchesi come i responsabili morali della morte di Gentile contribuendo (non documentato), ad intensificare la macchia caduta sulla memoria di Marchesi. Il “Marchesi politico” si evince da una serie di scritti sulla guerra di Liberazione, scritti di alto livello linguistico e storico. I discorsi sono venuti alla luce nel 1986, a trent’anni dalla morte dell’ umanista parlamentare, grazie all’allora Presidente della Camera, Nilde Iotti, che ha fatto pervenire al sottoscritto il materiale, ma pure grazie all’editore Nicola Teti che mi ha suggerito di costituire un’edizione a mia cura per le Edizioni Del Paniere. La resistenza, secondo il Marchesi, è come un altro Risorgimento perché contiene la stessa congiunzione di spiriti; nei suoi primordi è disordine 66


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ed i suoi “principii” furono torbidi. Qualcuno che oggi revisiona la storia della Resistenza non racconta alcunché di nuovo, non vuole sapere che in guerra non v’è alcuna salvezza. “Nulla salus bello: omnes te poscimus pacem”, scriveva Virgilio Marone, oltre duemila anni or sono, nel suo capolavoro l’Eneide. Sulla politica che Marchesi cura per i giovani scrive il 7 gennaio 1945 sulla “Nuova Europa” (discorso da me ripreso per il libro Liberate l’Italia dall’ignominia): “Ѐ difficile tra le aiuole fiorite rintracciare il sentiero della vita: esso è nascosto tra le rovine: e si troverà se c’è una gioventù che lo sa cercare”. Nel 1946, Marchesi viene eletto deputato per l’Assemblea Costituente, nella circoscrizione di Verona con 9.574 preferenze, poi, nel 1948, per il primo Parlamento nella circoscrizione di Venezia con 20.393 preferenze ed ancora al secondo Parlamento, nella circoscrizione di Venezia, con 12.055 preferenze. Sono studenti che lo votano, della sinistra e della destra cattolica, ma anche docenti e lavoratori. Il lavoro intenso di un umanista per i lavori parlamentari è più rivolto alla scuola, alla palingenesi di questa. Nel libro I discorsi v’è l’ultimo atto dell’umanista, che durante le stagioni dei due parlamenti, dal ‘48 al ‘57, anno della morte, si batte strenuamente per una nuova Italia. E il suo linguaggio, anche per le uscite pratiche, burocratiche è armonioso, limpido, intessuto di citazioni latine. Si racconta che lo ascoltavano, per questo, persino gli avversari che sinceramente lo applaudivano dall’ emiciclo della Camera dei Deputati. In una relazione alla Camera del 19 maggio del 1954, denunciando, sottolinea: “ E’ bene che la dittatura di talune persone finisca (...)”. Alcuni anni prima, nel 1948, aveva criticato aspramente il numerus clausus nelle Università. “Il numerus clausus? No! ” aveva gridato. “ Non coi reticolati si difende la scienza; e non vogliamo trincee nemiche per la gioventù italiana, che ha tanto sofferto per opera degli anziani”, aveva incisivamente proseguito. Marchesi dialoga con il democristiano Guido Gonella, che lo ricorderà all’indomani della morte con un suo servizio su “Società nuova” del 10.3.1957, dal titolo “Marchesi e la fede cristiana”. Ḕ un servizio, come altri, non verace, sulla conversione alla fede cattolica, mai avvenuta, di Marchesi. Marchesi assume atteggiamenti caustici negli anni al Parlamento nei confronti di quel potere bieco che Mario Scelba esercitò come Ministro dell’Interno. Non solo per i problemi atavici irrisolti dell’istituzione scolastica, l’umanista-politico si batte perché vengano risolti, ma anche si batte per le opere d’arte, come la “Farnesina”, la villa di Agostino Chigi, fatiscente. “Da tutte le parti del mondo si viene a 67


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vedere i capolavori architettonici e pittorici italiani; forse tra non molto potranno venire a vedere le rovine di non pochi di essi,” scrive nel suo “Ordine del Giorno” dell’ 8.4.1954 e continua sottolineando l’incuria abbattutasi sulla “Farnesina”: “Vi è una villa qui a Roma, ch’ Ella conosce certamente, signor Ministro, un purissimo capolavoro architettonico del primo Cinquecento, che il Vasari diceva non costruito sulla terra ma nato, spuntato dalla terra”. C’è, infine, di Marchesi una pagina a cura di G. Giolo e del sottoscritto, inserita nell’opera Il Cane di terracotta (Edizioni del Paniere, Verona, 1986), pagina che parla della rinascita del periodico messinese “Il Riscatto” che avevano fondato gli anarchici, poi socialisti, Noè e Lo Sardo: è una pagina stupenda, che denuncia la malavita messinese e nazionale. Ne cito un tratto: “Risorga “Il Riscatto” di Noè e di Lo Sardo e denunci la malavita che fermenta in questa repubblica clericale: la denunci a coloro che, pur essendo con noi, sono ancora capaci di sentire il danno e l’ingiustizia che a tutti i cittadini viene da una classe dirigente di malversatori senza scrupoli e senza fede…”. E più avanti - riduco un po’ il discorso - : “Seneca filosofo diceva un giorno a Nerone imperatore... per quanto presunti avversari tu possa ammazzare, non ucciderai mai il tuo successore…Questo impazzito imperialismo occidentale americano, per quanti strumenti di rovina possa accumulare nei cantieri della morte non distruggerà mai il suo successore, che oggi ha un nome: socialismo”. Questo è il Marchesi umanista e politico detto sinotticamente: occorrerebbero seminari per indicare la sua immagine e la sua opera più doverosamente complete. Non esagerò o tirò acqua al suo mulino, Togliatti quando, con un ampio discorso, riguardante l’esistenza dell’umanista e del politico Marchesi, lo commemorò il 14 febbraio 1957 alla Camera dei Deputati, pronunciando, come conclusione di vero: “Abbiamo perduto l’amico e il Maestro di tanti tra di noi, di tanta parte di noi stessi, di tanti giovani, di tanti cittadini italiani(...) A lungo viva nel mondo questa memoria, nelle nostre scuole, nel movimento delle classi lavoratrici, nella mente degli studiosi, nella coscienza del nostro paese”.

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Giuseppina Rando Docente, poetessa, scrittrice e saggista

Presentazione del volume Le belle parole* Sintesi degli interventi.

Giorno 7 marzo 2014 presso il Museo Internazionale delle Marionette Antonino Pasqualino di Palermo, è stato presentato il volume Le belle parole di Giuseppina Rando -Scrittura Creativa Edizioni. – 2013. L’evento è stato voluto ed organizzato dall’antropologo Antonino Buttitta, affiancato da illustre personalità e docenti dell’Università di Palermo, come Gioacchino Lanza Tommasi, Natale Tedesco e Franco Lo Piparo. Nino Buttitta ha avviato la presentazione recitando l’Enuma Elisch, il più antico testo scritto documentato sulla creazione, pochi versi tratti dal poema teogonico e cosmogonico, appartenente alla tradizione religiosa babilonese, che tratta, in particolar modo, del mito della creazione e le imprese del dio Marduk: Quando nell’alto il cielo non aveva ancora un nome [E] in basso anche la solida Terra non aveva nome… “Sono pochi versi- dice Buttitta- ma importantissimi perché si consacra “la parola”, come elemento fondante la vita stessa dell’uomo. Ho voluto fare questa citazione per dare senso e significato all’incontro di questa sera, durante il quale si parlerà appunto di un libro che tratta di belle parole. I relatori, esperti del linguaggio, ne esamineranno gli aspetti”: Natale Tedesco così si esprime: “Questo libro è fatto da una persona che ama la lettura e la scrittura e che vive in operosa solitudine; noi, che pure abbiamo scritto tanti libri, non abbiamo mai scritto un libro così denso di notizie e riflessioni. Giuseppina Rando spazia con sicurezza da filosofi a scrittori, a poeti: da Maria Zambrano a Simone Weil, da Mario Luzi a Angelo Maria Ripellino, da Etty Illesum a Dacia Maraini, e poi riflette sull’opera di Margherite Yourcenar, Marina Cvetaeva, Anna Banti e tanti altri. Per chi si sofferma alla copertina e non va oltre il titolo, le belle parole potrebbero apparire come solo retorica, ma non è così; le belle parole riguardano la conoscenza ed hanno un valore conoscitivo, lontano dalla retorica. Ad esempio la pagina dedicata a Dacia Maraini, si trova sotto la parola Coraggio e si analizza il testo I giorni di Antigone dove le parole han69


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no quel significato che danno significato a Le belle parole della Rando. …”Purtroppo le parole – si legge nell’Introduzione del libro della Maraininon hanno la perfezione e la forza assoluta di un gesto come quello di Antigone. Le parole sono sempre lì a cercare compromessi con la tradizione, con la prassi linguistica, con le idee. Le parole non sono mai totali e definitive come le azioni concrete e fisiche. Le parole appartengono a quella relatività carnosa e fragile che esprime la vita del pensiero. Io conosco solo le parole per dissentire e affermare ciò che mi ferisce e mi angustia nella vita del nostro Paese.” Di Vincenzo Consolo, l’autrice mette in risalto (come ho fatto io) – il malessere esistenziale veicolato da una prosa d’arte, in contrasto con Leonardo Sciascia che definiva Consolo tout court “realista”. Tutto il libro è solcato da pagine forti, come quelle dedicate a Laura Pariani (una scrittrice che io amo) e alla quale è assegnata la parola Perfidia. La Pariani, declinando il gran tema della sofferenza e della condizione dei più deboli, ha costruito la “favola nera” che tanto somiglia alla cronaca nera dei nostri giorni. E Giuseppina Rando appunto evidenzia come la Pariani, al di là della denuncia sociale, vuole dar volto a all’orrore e alla perfidia (che spesso sappiamo nascondere così bene, se non con la morale almeno con le apparenze esteriori) di cui in realtà siamo fatti. Anche il male, indelebile, fa parte del nostro stesso esistere- scrive la Rando. Ciò per connotare una pagina che si lega ad uno spettacolo verbale straordinario che si accompagna con lo sdegno politico della nostra (siciliana) Silvana Grasso, della quale la Rando analizza l’opera alla parola Desìo. Questo libro mi ha stupito per la quantità delle letture che la prof.ssa Giuseppina Rando ha fatto, letture diverse certo, ma tutte coniugate con l’attenzione sia al dettato scrittorio sia all’impegno che gli scrittori da lei esaminati, hanno rivolto al “mondo offeso “(per dirlo alla vittorini). Ritengo che la Rando, soltanto nella solitudine di Barcellona Pozzo di Gotto e poi nelle estati di Sant’Agata di Militello, poteva fare questo lavoro che considero una piccola enciclopedia.” Antonino Buttitta passa quindi il microfono a Franco Lo Piparo, docente di Filosofia del linguaggio. Franco Lo Piparo: “Quando ho letto Le belle parole mi sono ricordato di un aneddoto che è pieno di filosofia del linguaggio e che si riferisce a Ludwig Wittgenstein, filosofo viennese che, dopo la pubblicazione della sua prima opera, Tractatus logicus – phiolosophicus, è diventato il punto di riferimento della filosofia del Novecento e continua ad esserlo. Il Tractatus, però, ha trovato difficoltà nel trovare un editore. 70


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Si dice che Ludwig Wittgenstein accompagnava il manoscritto con una lettera dove si poteva leggere: questo testo è composto da due parti: la parte scritta e la parte non scritta, la parte non scritta è quella più importante. Sembra “una boutade”, ma non lo è perché è un principio straordinariamente importante. In un’altra lettera Wittgenstein scrive: ciò che non è detto è presente nel detto. Dico ciò perché anche Le belle parole della Rando va letto per quel che non c’è scritto. All’apparenza il libro è una specie di diario di lettura perché l’autrice, come facciamo noi, legge e scrive; è l’unico modo per pensare. Effettivamente noi pensiamo scrivendo. La scrittura mette ordine ai pensieri. A me capita così. Anche la Rando, correttamente, legge con la penna. Questo libro è il diario delle sue letture: è un piccolo Zibaldone. Ciò che in questo libro non è detto e motiva tutto e che mi ha fatto riflettere, è che si dice quello che sappiamo o sapevamo ma che lo abbiamo dimenticato: noi stiamo al mondo con le parole, anzi le parole non sono aggiuntive allo stare al mondo, organizziamo la vita con le parole. In principio erat verbum: il verbum è contenuto nel principio, nell’inizio di tutto. Pochi lo sanno, ma c’è stata una lunga disputa teologico/filosofica sulla frase in principio erat verbum in seguito alla proposta tertulliana di in principio erat sermo. In realtà la natura del linguaggio è un problema che la ricerca filosofica ha affrontato e affronta tuttora. Quello che viene fuori da “Le belle parole “, un metalibro, è un invito alla riflessione, è un ricordarci del valore delle parole come Amicizia, Apparenza, Dialogo, Esclusione, Resistenza e tante altre parole che consentono al lettore di viaggiare nell’alfabeto dell’esperienza umana.” Franco Lo Piparo analizza, a conclusione del suo intervento tre figure femminili, Anna Arend, Edith Stein e Ipazia a cui sono state assegnate dall’autrice, rispettivamente, le parole Politica, Empatia, Eminenza. Giocchino Lanza Tomasi (per ragioni tecniche- la registrazione non è chiara – si riporta una sintesi della sua relazione)

Conferma la validità del libro, un libro shock- dice- perchè mette in risalto i valori che l’attuale società trascura. Si sofferma su Irène Némirovsky, autrice validissima e ignorata per tanto tempo. Parla della crisi culturale attuale. Passa a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, del quale riporta il concetto di storia: “La storia non è una successione di eventi, ma una successione di sentimenti “ 71


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Conclude col dire che Le belle parole della Rando è un libro che dimostra che non tutto è omologato, e quindi non dobbiamo essere pessimisti e dobbiamo ben sperare. La presentazione di Le belle parole si chiude con le osservazioni di Antonino Buttitta: Il tema centrale del nostro incontro, è stato, dunque, il significato del binomio Memoria- Storia. Ci è stato in questo maestro Agostino, ne Le confessioni, dove si legge che la memoria non è il presente del passato, ma anche il presente del futuro, la memoria è ciò che rende denso e profondo quello che stiamo facendo e faremo. Lingua scritta è memoria, come in De Roberto e in Capuana. Giuseppina Rando con questo libro dimostra di aver capito il valore della Memoria. *Scrittura Creativa Edizioni, 2013

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Antonio Puddu e L’orto degli alveari Vittorio Piras

Docente e critico letterario

Antonio Puddu autore di L’orto degli alveari: un romanzo di stampo classico con una intelaiatura e un tessuto classificabili nella più nobile scuola narrativa nazionale e sarda. Un romanzo della maturità artistica e letteraria di Antonio Puddu che, con i suoi racconti e le sue opere, ha elaborato una silloge perfetta su una gente e su un mondo imbevuti di civiltà contadina, di onestà cristallina, di sentimenti e di amori fedeli, di paesaggi e di scenari animati dall’armonia del creato e da una saggezza regolata sui dieci comandamenti. Un mondo intriso di usi, di costumi e di comportamenti unici: patrimonio di una Sardegna segreta e favolosa che sfugge al frettoloso viaggiatore e la rende irriducibile alla civiltà europea. Lo scrittore ha qui realizzato un romanzo calato all’interno del suo paese natio. Racconta la storia di una famiglia per bene sullo sfondo e all’interno del divenire quotidiano, con una rappresentazione oggettiva del tempo e delle vicende. È un romanzo che ha come epicentro una tipica famiglia della seconda metà del novecento ed una giovane copia che a sua volta costituisce una nuova famiglia: due generazioni a confronto. L’orto degli alveari è un romanzo di famiglia, un epos paesano., condotto su una pluralità di punti di vista e di opinioni sul mondo: tanti quanti sono gli uomini e le donne e a seconda della realtà dei sentimenti individuali e dell’ambiente familiare e sociale di appartenenza. La storia, intesa nel senso ufficiale, vi ha una gran parte. La vita di Marcello, il protagonista che da ragazzo incontriamo già nelle prime pagine del romanzo e lo abbandoniamo da adulto nella parte conclusiva dello stesso, coincide con la seconda metà del novecento e va incontro al conflitto e alle contraddizioni del rapporto tra campagna e città. Il romanzo è strutturato in tre parti: la prima comprende quattordici capitoli, la seconda cinque e la terza undici. Il tutto popolato di vita vissuta, di storie e di personaggi ben definiti nei ruoli e nei contesti sociali. Affiorano i problemi familiari, le annate ingenerose, la piaga della emigrazione con giovani e adulti che scappano da Siddi alla ricerca di un lavoro che dia un provento sufficiente a tenere i figli agli studi in città. Sono gli anni del secondo dopo guerra con la voglia di riscatto sociale e la difesa dell’unità familiare. Erano tempi brutti. Tutti avevano fame. Molti rientrati, dopo anni di guerra, non trovavano lavoro neppure nell’agricoltura. Per scansare le miniere, molti scelsero l’emigrazione. Un esodo biblico, con emigrati 73


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che partano e che ritornano per il Natale. E per il lavoro ci si azzuffava. Così come avvenne il 24 dicembre 1948 tra il capoccia Antonino e Cabiddu di Lunamatrona mentre si spietravano le tanche nell’altopiano di don Terenzio, sindaco del paese. La storia è osservata dal basso, dalla periferia del villaggio, con la convinzione che ogni punto del mondo, con i suoi cambiamenti e innovazioni tecniche, sia il centro del mondo. E Antonio Puddu configura il suo romanzo come una intricata rete di relazioni, tra giovani e meno giovani, tra generazioni e generazioni, attraverso la quale ogni evento, oggetto o persona, intrattiene rapporti ed effetti reciproci strettamente interrelati tra loro. Si raccontano fatti e misfatti dei tempi andati. La comunità si incontra nel bar di Chicco per bere, giocare a carte, leggere poesie, ragionare di storia e di politica, parlare di lavoro e di intrighi familiari, denunciare i mali della Sardegna. Nascono amori e si confidano segreti. Si celebrano matrimoni e si accompagnano i morti all’interro. Si fanno giuramenti e testamenti. Si coltivano sogni e si parte in terre lontane con la speranza di tornare nel proprio paese con un gruzzolo che dia sollievo alla famiglia e un avvenire ai figli. Una delle grandi invenzioni del romanzo è la figura di don Valente: un “saggio contadino”, che prende corpo nella fantasia dell’autore lievitando in una sua dimensione simbolica di intenso contenuto umano, proprio nel momento in cui il romanzo assume sviluppi catartici e intensamente emotivi, come avviene in due episodi chiave della narrazione: il lascito dei beni di don Valente e donna Defenza a favore di Marcello e la decisione di Elisa di farsi suora missionaria. Due decisioni scaturite da scelte individuali che imprimono una svolta nelle famiglie coinvolte. Intanto, nel racconto, si impongono altre figure: zio Savio, Marco e Franco, autore di un libro di storia “Uras paese del Campidano dal diciannovesimo al ventesimo secolo”. E qui Antonio Puddu dà voce al proprio punto di vista con esplicite affermazioni dei personaggi: “qualcuno invidiò la moda del nuorese che ripaga con la morte le offese contro i vivi e contro i morti”, “la storia la scrivono quasi sempre i vincitori”, “quando c’era Mussolini si sapeva ciò che voleva. Adesso partiti ce ne sono tanti e ognuno la dice diversa e non si capisce più nulla”, “aver lasciato uccidere Moro come un cane”. “se gli operai accettassero di lavorare quando vengono richiesti, avremmo bisogno di meno immigrati”. Storia nazionale e problemi quotidiani della gente si intersecano e vengono rievocati attraverso il racconto che se ne fa all’interno di una realtà che avverte lo scontro tra passato e modernità, tra lavoratori e proprietari terrieri sconvolti dalla crisi dell’agricoltura, preoccupati dalla carenza di braccianti che lavorino la terra con le nuove tecnologie, angosciati dalla paura di vedersi usucapite le terre avite per gli effetti di iniqui patti agrari. 74


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E, in questo brulicante contesto, “L’orto degli alveari”, col secolare olivo, è la sede privilegiata dei sogni, è la rappresentazione dell’alterità al più alto grado. È il punto di congiunzione tra passato e presente, il locus amoenus che dà significato all’esistenza. Anche per i giovani che studiano e fanno l’amore. Anche per i diplomati che aspirano ad arruolarsi carabiniere o poliziotto o all’esercito. Anche per chi lavora in proprio, per gli altri che aspettano di trovare un lavoro che non sia in agricoltura. Anche per Giogiò dalla “natura allegra e girevole”. Un giovane “sano e laborioso, ma col marchio indelebile del sesso sfrenato senza amore” Tutto il contrario di Elisa: saggia, tutta presa dall’amore verso gli indigenti e verso Dio, vivendo lontano da casa “assieme ai poveri, alla fame e alle malattie con le bombe che le cadevano addosso”. Giogiò amoreggia passando “da una ragazza all’altra come un’ape sui fiori”. Più che sposarsi, seguendo quello che fanno tutti i coetanei, preferisce convivere come marito e moglie. Elisa invece ha il dono della fede: “quel dono che ti fa credere in un Dio che ti aiuta sempre”. Giogiò non ha fede. Pensa di risolvere la vertenza agraria con la forza. Il suo primo impatto con la realtà è il contenzioso col pastore Logena che, appellandosi alla legge, rivendica il diritto a restare nel fondo dell’azienda per altri dieci anni. Sperimenta così cosa significhi conferire col Direttore dell’Unione Agricoltori, colloquiare con i Coltivatori Diretti, confrontarsi con gli avvocati specializzati in materie agrarie su contenziosi per affitto di terre e su vendita di erba in piedi. Prende atto che la soluzione indolore è trovare un’intesa col pastore accettando un compromesso. Antonino, invece, ha commesso l’errore di aver affittato la terra a Logena e soltanto lui deve sanarlo con estremi atti di vendetta e di morte. Anche perché nel suo codice d’onore i patti e la parola data fra gli uomini hanno supremo valore: “la legge è rispettare gli impegni e io sono un uomo che non rinuncia agli impegni presi”. Ma nella narrazione fa capolino il deus ex machina che conduce alla verità. IL figlio di Cenzo, Orfeo, riferisce a Marcello che Livio Logena si è messo di prepotenza nella sua terra e non se ne vuole andare impedendogli, così, di fare il progetto delle api. E gli popone: “io, se lei mi fa il favore che voglio, a Livio Logena lo faccio andar via dalle sue terre”. Di mezzo c è la “terra scurosa: dieci ettari che Orfeo ambisce avere in affitto e che riesce ad ottenere con contratto regolare”. All’Unione Agricoltori viene firmato il contratto e la disdetta di Logena. La voce del figlio grida: “Babbo, Logena ha firmato! È tutto finito! L’ormai vecchio Antonino barcollò, poi cadde a terra con la pistola in mano”. Trionfa la giustizia su un orribile mostro, su un furfante forestiero, che millantava natali di Orgosolo per “darsi un aspetto di possanza e di ferocia”, quando invece era nato a Samugheo dove “la gente vive serena e non si azzuffa” e dove Logena tornò per assistere il vecchio e ormai malato padre e per godere a 75


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piacimento del patrimonio familiare. Zio Savio Finamore non poteva proclamarsi l’artefice del “disloggiare frettoloso della famiglia e dell’armento di Logena dalle terre di Marcello”, ma poteva finalmente andare fiero di se stesso perché un trafiletto apparso nell’Unione Sarda riportava che il defunto contadino Delfino Contu di Lunamatrona, deceduto da un mese, con uno scritto fatto pervenire al giornale, “confessava di essere stato l’uccisore di Bassu Dario di Furtei, la cui morte era stata attribuita erroneamente a Siro Finamore, assolto in forma dubitativa dopo due anni di carcere e tuttora in vita”. Nella mischianza di violente sensazioni prevalse nel paese un senso di liberazione e di piacere. Le famiglie si ricompongono nella concordia e con la speranza di un sereno futuro. Qualcuno si ricongiunge alla sua lontana infanzia: ai giochi con gli amici “nell’orto degli alveari” che zio Savio severamente custodiva”. E L’Orto degli alveari si conferma un romanzo costruito sulla pluralità di vicende umane e di opinioni sul mondo, osservando la storia dal basso, dalla periferia. Affidando il racconto agli stessi personaggi, con i cui occhi Puddu osserva e giudica ciò che li coinvolge. E ogni punto dell’universo è anche il centro del mondo, cosi come ogni vita che palpita nell’universo interferisce, in una qualche sua misteriosa maniera, su tutte le altre. E la verità per Antonio Puddu è nascosta sotto strati di verità parziali. Egli è convinto che ad ogni effetto corrisponde una pluralità di cause e che le spiegazioni apparenti dei fatti sono ingannevoli Ed ecco perché il racconto di Puddu si costruisce come ricerca di una seconda e più vera storia, nascosta sotto quella di superficie, nell’autenticità di un personaggio e di un tempo. La Sardegna e Siddi de L’orto degli alveari appartengono alla civiltà della scrittura e della modernità. Vi sono libri, studenti universitari, impiegati e avvocati. Nei campi si sono introdotte tecniche agricole all’altezza dei tempi: una trebbiatrice separa le granelle dei cereali e nel molino, dove lavora Marcello, si macina il grano. Ma Siddi fatica nel liberarsi dalle incrostazioni dell’atavica mentalità, dai costumi e dalle usanze provenienti dal passato. E L’orto degli alveari mostra con evidenza come un narratore di grande talento quale è Antonio Puddu, con sensibilità tutta contemporanea, riesca ad interpretare il modulo del romanzo realista spinto dalla coscienza e dalla saggezza critica di chi si rende conto dell’autentica realtà della Sardegna del suo tempo, che poi è la sua realtà e quella del tempo in cui egli vive con pacata ironia.. Ed è esattamente ciò che dimostra, con armonia e amenità di scenari, con squarci paesaggistici, con idilli sentimentali e coralità di voci. Con un respiro narrativo che si estende e si racchiude a seconda del significato intrinseco che ciascun personaggio conferisce a quanto gli accade e compie. 76


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Angelina Lanza Vincenzo Barbagallo

Docente emerito di Lettere e critico letterario Angelina Lanza, donna di lettere e intellettuale di vasta cultura, autrice de La casa sulla montagna (1929-30, pubblicata nel 1941), testimone di vita profondamente cristiana e scrittrice di libri, sta per essere conosciuta da un pubblico molto esteso; anche questo suo libro più famoso è sempre più apprezzato, grazie al compianto prof. Peppino Pellegrino, che ha dedicato tutta la sua vita all’opera della mistica palermitana. Il “libriccino”, se da un lato è singolare per il folklore e per il profondo sentimento verso la natura, in quanto canta la Sicilia dei contadini e dei montanari semplici e forti dei Nebrodi e delle Angelina Lanza Madonie di fine ’800, dall’altro è interessante, perché canta gli affetti più cari dell’Autrice: la casa come nido, il suo amore per i figli, la loro dolcissima adolescenza, le figlie morte, e, soprattutto, il Santuario di Gibilmanna, per attestare alla cara Madonna la sua fede e il suo amore. Leggendo il romanzo ti senti vicino al mondo poetico di Myricae e dei Canti di Castelvecchio, alla evocazione memoriale pascoliana della casa del “nido”, degli affetti familiari, dei temi più intimamente autobiografici, nel tragico destino di morte e di dolore, di tristezza e di penosa sofferenza morale. In tempi, in cui la civiltà invadente del post-moderno spazza via ogni tradizione santa, semplice e patriarcale, è bello potersi ancorare alle testimonianze di scrittori e poeti, che portano all’ombra di un campanile o al rifugio delle mura domestiche, specie, quando, come oggi, la famiglia si disgrega e non c’è più la “Religione del focolare domestico” di verghiana memoria. Nel Diario spirituale (1924-36) della stessa Angelina Lanza, curato sempre da Peppino Pellegrino, viene fuori la storia di un’anima di

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intenso sentimento poetico, di profonda esperienza mistica, di straordinaria figura di sposa e di madre siciliana. Questo libro è veramente uno stupendo testamento spirituale e riesce a comunicare con il lettore con quella tipica semplicità francescana, poiché la Scrittrice coglie, da terziaria francescana, il riverbero della divina sapienza anche nella più umile creatura. Affascina tanto che ti pare di avere vicino le stupende pagine del “Cristo” di Papini, altra grande testimonianza cristiana, sulla felicità spirituale delle scoperte morali, del ritrovo dell’Eterno, dell’Infinito, del mistero della fede e della misericordia divina, della scoperta del Vangelo; di Papini che poteva dire come Dante incipit Vita Nova, per servire “Qualcuno”. Per questo “Qualcuno” ogni pagina del Diario Spirituale di Angelina Lanza evidenzia l’offerta totale della sua vita, come pure è testimonianza della presenza nella storia di quel Dio “che atterra e suscita,/ che affanna e che consola/…”, al quale bisogna inchinarsi, in silenzio, nell’ora del dolore, come fece la Lanza, quando la morte le strappò le figliolette Antonietta e Maria Filippina o quando l’incomprensione col marito le turbò buona parte della vita. Ma il consorte morirà convertito, abbracciando il crocifisso, come un personaggio manzoniano, consolato da una “valida mano”, che scende pietosa dal cielo, che si pone accanto a lui morente, accarezzandolo. Scuola di ascesi, di purificazione, di offerta questa dei “ricercatori di Dio”, che attraverso i loro scritti lasciano un’eredità meravigliosa e, soprattutto, hanno raggiunto nella loro vita la pienezza della loro vocazione umana e artistica sulle orme di Cristo. Ma chi fu la guida spirituale di Angelina Lanza? Era il 13 giugno 1898, quando lei va per la prima volta a Gibilmanna, ridente contrada sopra Cefalù, assai nota in tutta la Sicilia per il suo Santuario, e qui, ogni anno, trascorrerà l’estate. La sua La casa sulla montagna è proprio la casa di Pianetti, dei giorni felici, del riposo dalla stancante vita palermitana, dalla beata solitudine. Gibilmanna da allora sarà sempre nel suo cuore fino al 1936, anno della sua morte e sarà sempre di stimolo per le interiori qualità artistiche, affettive, religiose; sarà il suo rifugio dalla vita assordante e snervante della sua città; qui ella troverà refrigerio, nuovo vigore per il suo senso estetico, per la sua fantasia e per una più vicinanza all’Eterno. A Gibilmanna, conoscerà p. Giustino da Patti ( al secolo Giustino Filiti, nato nel 1881 e morto a Giardini nel 1938) uomo di larghissima cultura e ingegno, innamorato e tenace amatore della verità. Fu lui, che per la prima volta le parlò di Rosmini. Il filosofo roveretano sarà per lei la sua stella polare, la forma e il sigillo del suo cristianesimo. Se in Sicilia si formò una tradizione rosminiana, sicuramente ciò si deve alla Lanza, come anche alla Biblioteca Filosofica Siciliana. Leggendo il ricchissimo Epistolario della Lanza, di suprema semplicità 78


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e recondita bellezza, ci si trova davanti ad un intenso rapporto umano, culturale e spirituale tra lei e il cappuccino; in precedenza era stata indirizzata da Giuseppe Amato Pojero, che fondò a Palermo la Biblioteca Filosofica, la quale ebbe un posto considerevole nella storia della cultura siciliana e italiana. Angelina frequentò, come tanti altri eminenti studiosi del tempo, il cenacolo culturale del Pojero, dove nacque la scuola gentiliana con il discorso sull’atto del pensiero come atto puro. In particolar modo qualche anno fa, agli studi platonici l’infaticabile Peppino Pellegrino non risparmiò energie e fatiche, per organizzare convegni a Milazzo, a Stresa e in molte altre città, in onore della mistica di Gibilmanna; si devono lui molte proposte di tesi di laurea. A Milazzo addirittura, fece sorgere con la collaborazione di p. Antonio da Patti, frate cappuccino, un centro rossiniano, dedicato ad Angelina Lanza. È interessante sapere quanto scrive Vincenzo Consolo, recentemente scomparso, nel suo romanzo Nottetempo, casa per casa, a proposito dell’amore straordinario e francescano della Lanza, nutrito e sentito verso quel luogo sperduto sulle Madonie, che è Gibilmanna con il suo Santuario, dedicato alla Madonna. Lo Scrittore, a cui questi luoghi erano molto cari, rimaneva prigioniero, quando rimaneva nella sua terra omerica, domestica, mitica e quotidiana ed aveva un legame talmente forte e indissolubile da proiettare in questo suo romanzo Cefalù in uno scenario siciliano dai tanti destini individuali, corali, di intera civiltà; ne descrisse minuziosamente l’interno della Chiesa Cattedrale e, nello stesso tempo, pose la sua attenzione su Angelina, orante. In verità sono delle pagine di estrema bellezza: nell’interno del Duomo, inondato di luce, di suoni dell’organo, di vari profumi, di mosaici si staglia nell’abside “un Dio nel suo superno albergo… di luce d’oro… trasfigurante, un Pantocratore sibillino e aperto nell’abbraccio, nel libro dei messaggi, EGO SUM LUX”, mentre in ginocchio all’estrema panca, avanti al presbiterio, avvolta nei panni “sta la Poetessa, la mistica rosminiana, la santa, la Signora Lanza scesa da Gibilmanna per la festa” (della Pentecoste) che giunge “in quell’ascensione, in quella trepidazione dell’anima, balbettio di cuore, della memoria”. Vincenzo Consolo ha dipinto, così, un quadro perfetto e ricco di ogni particolare dell’autrice de La casa sulla montagna, mentre “guarda in alto al lago d’oro, all’Amore infinito e nel momento in cui si immerge nel severo volto illuminante e consolatore di Cristo”. Questo ritratto rispecchia perfettamente la vita di una creatura, che era chiamata per amore a grandi cose, annodate ed espresse tutte in funzione della sua offerta totale a Dio. Struggente fu la malinconia di Angelina Lanza nell’addio a Gibilmanna. Era già l’ora che volge il disio 79


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ai naviganti, e intenerisce il core lo dì ch’han detto a’ dolci amici addio; e che lo nuovo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano, che paia il giorno pianger che si more. Queste due terzine del canto VIII del Purgatorio, tra le più famose e più belle del poema dantesco, indicano l’ora della compieta, l’ora che chiude l’ufficio divino, in armonia con l’inno Te lucis ante terminum, in cui si invoca la protezione divina contro la tentazione notturna, che le anime dell’Antipurgatorio intoneranno tra poco. L’atmosfera è altamente religiosa in ogni singolo verso, nel quale si respira l’estasi della preghiera, come anche il godimento musicale dell’inno. Il sole è al tramonto e vi è un uomo (Dante) che ha intrapreso la navigazione per la prima volta; in quell’ora il cuore prova una tenerezza indefinibile, sia per le amicizie e le persone care lasciate, sia perché sulla nave ha il senso dell’esilio, di essere, cioè, un’anima distaccata dalla terra in cammino verso una patria non conosciuta, al di là dello spazio e alla quale la mente pensa con nostalgia a quanto suscita nel cuore il suono della campana, all’Ave Maria nel giorno che muore. Malinconia del primo tramonto dopo la partenza… il navigante sperduto nell’immensità del mare che pensa a quello che ha lasciato e s’intenerisce al ricordo, udendo una campana… sono sentimenti che ogni uomo prova quando lascia le cose più dilette. È uno stato d’animo comune a tutti gli uomini e tutti i tempi; il dolore di Dante è il dolore di tutti gli uomini, quando devono lasciare quello che si ama! “L’ora del tramonto, la malinconia dell’Addio ai monti”, il sentimento religioso sono i registri, sui quali si sviluppa anche tanta parte della vita di Angelina Lanza. L’ultimo capitolo del suo romanzo La casa sulla montagna, ossia la via del ritorno da Gibilmanna a Palermo, è il tema elegiaco dell’esule, il canto pieno di suggestiva dolcezza e malinconia, per dover lasciare la sua casa di Pianetti. Il distacco è tra le pagine più belle del suo racconto. La sua è una casa, che si apre al paesaggio e la montagna di Gibilmanna è popolata di segni inconfondibili, che svelano una natura ricca di motivi. Il paesaggio è il soffio, che solleva il romanzo, il motivo melodico: lo sguardo sul mare, nel cielo, sulla vita campestre, sulla casa, sul Santuario della Madonna costituisce il centro affettivo. Il suo cuore è sempre su questi luoghi ed il tono con cui li descrive è quello soave di un’intima commozione umana e religiosa. Il lettore si sente immerso in una spiritualità cosmica, solenne e, nello stesso tempo, in una vita semplice, che è quella della vera Sicilia, sul cui sfondo ci sono i contadini, i pastori, il loro mondo sereno di Vita dei campi con i loro usi e i loro costumi. 80


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Dalle commoventi pagine della Lanza vengono fuori l’elegia, il lirismo dei “poveri”. Nel 1936, il 14 luglio, prima della morte, si trova a Gibilmanna, dove ritorna ogni anno, sperando che l’aria di quei monti le dia sollievo e giovamento alla sua malattia, che la mina. Sovente, infatti, scrive che il Santuario, il bosco, la casa hanno una grande importanza nella sua vita. Li ama sempre, fino al momento del distacco definitivo, fino all’ultimo momento, quando da “esule” dà l’addio a quei luoghi tanto cari, dove Cristo l’aveva visitata più volte, e a quella casa dalle cui finestre, l’anno prima può affacciarsi per vedere il Santuario, il convento dei cappuccini con il suo portico che “sembrava la porticina di un Tabernacolo”. Grande amore quello di Angelina per il Santuario, per la famiglia, per la terra, per la casa, per il giardino, dove le grida festose dei bimbi le ricordano le due figliolette: Filippina e Antonietta, morte prematuramente, sembrano che siano ancora là, che rispondono. Dolore atroce! Intanto, l’estate del 1936, l’ultima estate della sua vita, è passata. Deve lasciare Gibilmanna per fare ritorno a Palermo. La casa viene chiusa, come le finestre, tutto viene messo in ordine. Due grandi mazzi di rose e di crisantemi sono lasciati sul cassettone, che rimarranno per tutto l’inverno a parlare di lei alle immagini sante delle figliolette, affinché proteggano da lassù la sua vita faticosa in città. Il tutto si svolge nel chiuso sole di novembre. Si ode solo il belato di una capra, l’ha udito solo lei, tale è la sua squisita delicatezza con la quale presta attenzione a ogni particolare di quel luogo, cui è tanto legata e del quale conosce ogni minimo particolare. È il pianto di un animale, una capra alla quale hanno ucciso il capretto; gira lo spigolo della casa rustica, alza la testa, getta nell’aria il suo belato, corre lungo il muro, a testa bassa, fino allo spigolo. Ripetendo, sempre più desolata, il suo belato. Gira la siepe della vigna, bela ancora, cerca e cerca ancora… Ricomincia il giro disperata, passa davanti alla porta chiusa della stalla e… vede il suo piccolo pendere, sgozzato. Essa getta nell’aria, inutilmente, la sua voce di richiamo con le mammelle pregne di latte; con nel cuore il suo lamento per l’uccisione della sua creaturina. Con l’animo straziato anche l’autrice della Casa sulla montagna si allontana dal nido dei suoi sogni, dal luogo in cui ha vissuto, sofferto, sorretta sempre da una profonda fede; non ritornerà più, perché passerà da lì a poco nel bacio del Signore, che assorbirà e coprirà tutti gli affanni della sua vita terrena. Lei ha creduto sempre a questo modo soavissimo e misterioso della comunione dei santi, del rivedere i suoi congiunti e tutti i redenti in Cristo. La malinconia della partenza dell’esule nell’ora che volge il disio, nel 81


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tramonto che prelude al riposo e nel distacco dello scoramento presente, è un momento di alta, dolce e raccolta musicalità. Il tramonto è l’ora più soave del giorno;l’ora in cui intenerisce il core. Nei versi danteschi, durante la notte che sopraggiunge al tramonto, c’è l’impedimento al camminare e, quindi, non si può individuare la strada per salire verso l’alto. Ciò significa che alla virtù si arriva solo con la luce. Pertanto, la sosta è necessaria, sia essa materiale sia spirituale. Chiusa la porta di casa Gibilmanna, volto l’ultimo sguardo al Santuario, a quella chiesa, dove il suo animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore, la Lanza lascia, come il sommo poeta, ogni cosa diletta, l’ultimo vero rifugio terrestre e, con l’animo malinconico del viaggiatore, si rifugia nel sovrumano cosciente, che di lì a breve, sarebbe approdata a Dio, alla patria celeste. Certamente, come le anime dantesche, invocherà anche lei la Salve Regina alla Vergine degli uomini viventi esuli nella valle di lacrime, preghiera adatta a quelle anime ancora esiliate dal cielo e sospirose nell’attesa di Dio. Che dire del belato della capra udito prima di partire? Riporta ad un episodio tra i più belli e ammirati di Lucrezio, lo stesso che descrive la Lanza, destinato a conoscere una notevole fortuna: la scenografia è la stessa. Si tratta della giovenca e del suo vitellino sacrificato, che la madre cerca disperatamente, vagando ovunque senza darsi pace. Nella sua ricerca ne incontra tanti, ma il suo ha un odore particolare. Spesso davanti ai templi splendidi degli dei vengono sacrificati animali, che stramazzano presso le are fumanti di incenso, esalando dal petto caldi soffi di sangue. Anche il vitellino subisce la stessa sorte e la madre allora, privata del figlio, erra per le verdi brezze, esamina sul terreno le orme impresse dai bifidi piedi, scruta con gli occhi ogni luogo, per potere scorgere in qualche luogo il figlio perduto, poi, arrestandosi di tanto in tanto, riempie di lamentosi muggiti il bosco frondoso e, spesso, torna alla stalla e guarda, trafitta dal dolore per il perduto giovenco. Niente nella natura può alleviare il suo dolore; né i ruscelli, né i salici o le erbe possono consolarla, né gli altri vitelli sparsi per i rigogliosi pascoli. Essa cerca il suo vitellino. Il passo è simile a quello descritto da Angelina a proposito del ritrovamento del capretto sgozzato dalla capra. Tutti e due gli episodi sono uniti da una impronta patetica ed umanizzante, dalla precisione descrittiva della madre che, affannosamente, cerca il figlio, alla quale si accosta per antitesi, una natura dalle bellezze idilliache, ma incapace di offrire consolazione. La delicatezza dei sentimenti è tale che ricalca la pietas virgiliana. Vera scrittrice la Lanza! La sua prosa, come la sua poesia, è il sospiro, la grazia, la dolcezza di un pensoso tramonto d’autunno, accompagnata 82


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dalla preghiera e dal tono religioso; la casa sulle Madonie, a Gibilmanna, è un nido così caldo, un angolo dove rifugiarsi nei momenti di oscurità. Profondamente siciliana e palermitana, è attaccatissima alla tradizione sacra e secolare della terra dove è nata, la religione della famiglia e il focolare domestico sono per lei un tutto, intangibile e sacro. Evidenti sono nelle sue pagine le impronte del Verismo e specialmente del Verga. La letteratura è, per lei, un documento umano e sociale, una rappresentazione attenta e commossa della vita di provincia e dei campi, con i suoi costumi e consuetudini, una riflessione pensosa e patetica sulle condizioni di vita delle misere plebi contadine. Verga è il suo maestro nella descrizione dell’arretratezza economica dei suoi contadini, che vivono sulle Madonie in una società ancora feudale nella loro ignoranza e nella cieca subordinazione al padrone, ma anche con la ricchezza del loro mondo affettivo e sentimentale e con il loro tenace amore della casa e della roba, che sono il cordone ombelicale di ogni siciliano. La santità del focolare domestico, la visione dolorosa della vita, gli orizzonti della campagna siciliana sono rappresentati con notevole vigore descrittivo, cui si aggiunge la coralità, la partecipazione di tutti e l’ubbidienza di ogni singolo ed una tradizione sacra e sociale. La Lanza è Padron Ntoni, il vecchio uomo, il saggio che vive nel culto patriarcale della famiglia, della casa e del lavoro; descrive il suo mondo sulle Madonie, ancorato al buio di una civiltà arcaica, di una secolare solitudine, di una miseria infinita, di una umanità inferiore; un mondo, insomma, di poveri diavoli, che levano le braccia disperate e piegano il capo, lavorano con fatica da mattina a sera, ma ricco di affetti, di sentimenti, di umanità, con il richiamo sempre al Santuario, alla casa, al sogno di una città francescana da installare su questa terra. C’è, poi, una mirabile sintesi del paesaggio e dei personaggi; il paesaggio incastonato sui monti, nelle verdi vallate lussureggianti di viti e di uliveti con il mare lontano, mentre i personaggi contadini sono sublimati, in una visione mitico-religiosa, nelle masserie, nei lavori, in una plaga senza storia e senza tempo; sono figure primitive, fiere delle loro tradizioni: curatolo, campiere, giumentario, capraio, latitante, in compagnia di animali, dello scacciapensieri: tutta la bella famiglia d’erbe e di animali. Con la nostalgia della casa Angelina Lanza lascia, nel 1936, il suo mondo montano, per non farvi più ritorno e, con esso, le visioni belle o tristi dei tempi irrimediabilmente passati, con l’inseguimento delle figliolette perdute ed ora nella casa del Padre, nel focolare dell’eterna fiamma, dove possono dirle che, quando le pensava e le chiamava, esse l’udivano sempre, specialmente nella casa di Pianetti, preambolo del Paradiso, in mezzo ai fiori del giardino, ai canti d’uccelli, alle meravigliose albe e agli indimen83


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ticabili tramonti, alla chiesetta dei Cappuccini, con il sagrato verdeggiante di erbe e le campane che suonavano e dentro la serena pace, le pallide fiammelle e le anime oranti la Vergine di Gibilmanna. Chiusa la porta della sua casa, sotto la bella pergola, bacia la pietra della dolce soglia e chiude le finestre aperte a tutta la fragranza; guarda, per l’ultima volta, il suo monte, in suoi boschi, il verde, gli animali, lo spazio azzurro. Sono passati tanti anni da quando è venuta da sposa bambina. Dolci luoghi e dolce casa: la memoria rievoca e la voce interiore dice più non verrò, era il mio nido. Versi che ricordano il mondo pascoliano lasciatemi immoto qui rimanere… lascia ch’io viva del mio passato… nel mio cantuccio d’ombra romita ch’io pianga sulla mia vita. La Lanza sente la nostalgia dei luoghi, che deve lasciare, e, come Dante nella condizione dell’esule verso l’ignoto, scrive le sue pagine più tristi e più soavi, nell’anelito dell’esule verso l’infinito. Noi siamo figli dei greci e a loro dobbiamo tanto. Come la fine di Edipo sofocleo è nel bosco di Colono, dove l’usignolo canta senza fine, dove ci sono l’edera fosca, la selva frondosa, il sole, le rugiade, i fiori di ogni specie, così il bosco divino è la meta ultima delle sofferenze della Lanza; verso questo luogo sacro, al richiamo di una voce divina, serenamente, anche lei prende commiato dalla vita: entrambi con i loro dolori scompaiono nella beatitudine sublime, verso un tempo senza fine e senza mutamento, verso una patria non conosciuta. Il canto dantesco dell’esule così tenero, eloquente, meditativo è tra i più belli della poesia del Purgatorio e tra i più attuali e stimolanti per la nostra “distratta” generazione.

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Deaccademizzare lo studio delle discipline classiche Nino Sammartano

Docente emerito di Latino e Greco È facile sentire i nostri alunni interrogarsi (e a volte interrogarci) sull’effettiva efficacia formativa di certe “lezioni” o di certi argomenti di studio, che non riescono a sfiorare il loro interesse o di cui essi non riescono a cogliere una prospettiva di utilità. Se questo capita in varie discipline, si verifica con più frequenza in quelle classiche. Il rischio dell’accademismo Non basta più oggi, a motivare lo studio di queste discipline, la scontata argomentazione che nell’antica civiltà latina e greca troviamo le radici storiche della nostra cultura. È un’argomentazione, naturalmente, vera, fondata, che tuttavia non può essere sufficiente a giustificare la pesantezza e l’inopportunità di certo lavoro scolastico. Noi docenti di discipline umanistiche, d’altra parte, siamo forse più restii di altri a liberarci da certi schemi mentali, da una impostazione tradizionale dell’attività didattica che nutre tendenzialmente diffidenza verso le innovazioni. Facciamo fatica, per esempio, già ad immaginare di operare dei tagli all’interno del programma, ad affrontare in maniera più snella (non più superficiale o affrettata) certi argomenti o certi autori, e consideriamo strappi dolorosi gli aggiustamenti in itinere che per un motivo o per un altro siamo costretti a fare. Viviamo un disagio didattico in parte dovuto alla nostra difficoltà ad adeguare l’insegnamento delle discipline classiche alle mutate condizioni socio-culturali e ai mutati obiettivi formativi che la società oggi assegna alle istituzioni scolastiche, nel caso nostro ai licei. Perché è chiaro che le discipline, tutte le discipline, sono in funzione delle finalità formative che si perseguono; e se queste cambiano col tempo, è necessario che cambino anche la ratio e l’impostazione didattica. Se l’insegnamento del Latino e del Greco era funzionale, alcuni decenni fa, alla formazione di soggetti che avrebbero costituito la classe dirigente del paese, ed era perciò concepito in un’ottica specialistica e apertamente selettiva, oggi, grazie all’ormai raggiunta “laicizzazione” dei licei e all’affermarsi in essi di un modello formativo di tipo generalista, non lo è più. Non possiamo, perciò, continuare ad insegnare il Latino e il Greco come lo si faceva trent’anni fa. Ce lo dice il buon senso, ce lo dicono le 85


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normative ministeriali che vanno riconsiderate le finalità e, in funzione di esse, ripensate e riformulate le modalità di insegnamento di queste due discipline. Una riconsiderazione che dovrà mirare, in primo luogo, a deaccademizzare l’assetto didattico. Sì, perché l’insegnamento tradizionale del Latino e del Greco indulgeva (e indulge tuttora, laddove non ci si preoccupa di rinnovarlo) a una certa accademia, a fornire un sapere letterario immobile, codificato, da trasmettere integralmente e staticamente alle sempre nuove generazioni di studenti, indipendentemente dalle motivazioni e dagli interessi che esse potessero esprimere. Per “accademia” intendo, infatti, la lontananza di un sapere dagli interessi veri e dalla viva sensibilità culturale dei soggetti che lo acquisiscono. Quella sorta di impenetrabilità, di sacra inviolabilità, per cui si ha timore di intaccare, di rimettere in discussione, di riproblematizzare, di riaprire a nuove possibili interpretazioni, a nuove valenze ermeneutiche, un sapere concepito come solo da custodire fedelmente. Un atteggiamento, insomma, di statica ammirazione per un sapere considerato di valore paradigmatico, formativo ipso facto, per il fatto stesso cioè di essere acquisito; per cui, quanto più se ne acquisisce, di questo sapere, tanto più crescerebbe la sua efficacia formativa. Da qui una certa insistenza a trattare anche argomenti obiettivamente poco stimolanti, ma ritenuti utili e necessari per la completezza dell’informazione storica. Da qui pure quella fissità di schemi esegetici che non consente di vedere e di affrontare certi argomenti sotto nuove ottiche possibili, più vicine al modo di sentire odierno. Per una didattica antiaccademica

Ma che cosa concretamente richiede l’esigenza, anzi la scelta, di deaccademizzare la didattica del Latino e del Greco? Anzitutto la determinazione di voler elaborare, con gli alunni e per gli alunni, un sapere vivo, dinamico, che susciti risonanze di interesse nella loro mente e nel loro animo: un sapere significativo, capace di interessare non per la prospettiva di esiti formativi futuri, non facilmente percepibili da parte dei nostri alunni, ma per la vivacità degli stimoli, di contenuto e di metodo, trasmessi e per l’efficacia dei processi di apprendimento messi in opera. Un sapere diventa vivo e dinamico quando incuriosisce, interpella; quando chi lo acquisisce lo fa in maniera euristica, lo elabora e lo ridefinisce, come costruendolo ex novo; quando acquisirlo significa 86


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non immagazzinare informazioni preconfezionate, ma problematizzare contenuti, entrarci dentro, sentirli e farli propri, aprirli a ulteriori sviluppi. È chiaro che una tale vivacizzazione del sapere dipende soprattutto, direi quasi unicamente, da un atteggiamento didattico di base di noi docenti. Richiede poi, l’esigenza di deaccademizzare, la disponibilità e l’attitudine a ridimensionare i contenuti disciplinari. Questa espressione, questa parola, “ridimensionare”, non ci deve far pensare, subito e unicamente, a un’operazione di riduzione quantitativa dei programmi, degli argomenti oggetto di studio, ma ad una risistemazione degli stessi, riconsiderando l’importanza dei singoli contenuti alla luce degli obiettivi formativi e lo spazio didattico da assegnare ad essi. Ridimensionare significa, in sostanza, rivisitare i contenuti disciplinari e modificarne la portata, all’interno della programmazione e dell’attività didattica, in funzione degli obiettivi fissati e conformemente a interessi suscitati o emersi dal gruppo-classe. Significa anche ridurre, in una scuola in cui i tempi scolastici effettivi risultano sempre inferiori rispetto a quelli programmati, lo spazio da dedicare ad argomenti di accertato scarso interesse per gli alunni o di non elevata valenza formativa. Un argomento da ridimensionare, per esempio, può essere la ben nota “questione omerica”, a cui in passato si dedicavano (ricordo la mia esperienza di studente) varie lezioni, ripercorrendone la storia dalla filologia alessandrina fino agli studiosi del XX secolo, senza magari analizzare qualcuno dei passi dell’Iliade e/o dell’Odissea che hanno posto in essere e alimentato la questione stessa (facendone, così, uno studio indiretto, arido, per niente motivante). Non è certo argomento da meritare ampio spazio nell’attività didattica ordinaria (eccezion fatta per qualche possibile approfondimento da affidare a singoli allievi), ma da sintetizzare nei suoi elementi essenziali, magari facendolo emergere come problema ermeneutico da qualche brano letto piuttosto che proporlo come elemento standard della biografia del poeta. Oppure la questione dell’origine della tragedia greca, argomento obiettivamente non tale da suscitare vivo interesse e che è bene per87


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ciò trattare in maniera molto sintetica, recuperando tempo prezioso che può essere più opportunamente e proficuamente dedicato alla lettura diretta, per esempio, e all’analisi di passi di tragedie che affrontano tematiche a cui è più facile interessare gli alunni. Oppure ancora la lettura di Cesare, a cui si è in genere dedicato uno spazio notevole anche, o soprattutto, per la linearità della sua prosa e l’agevole traducibilità dei suoi testi, e che può essere utile invece ridurre a vantaggio della lettura di altri autori e di altri testi, magari più impegnativi ma anche più significativi. È questo, infatti, l’altro aspetto del ridimensionamento dei contenuti disciplinari: la scelta di dedicare più spazio ad argomenti di indiscutibile valore formativo o nei quali gli alunni possano trovare, guidati da noi docenti, stimoli maggiori. Deaccademizzare significa anche puntare didatticamente all’essenzialità dei saperi: nel caso del Latino e del Greco, all’essenzialità del sapere letterario. La tradizione degli studi classici ha creato intorno agli auctores e alle loro opere un corredo di studi filologici, saggi critici, interpretazioni e ricostruzioni storico-letterarie, che certamente giovano alla loro comprensione e al loro approfondimento, ma che vanno ben distinti, come strumenti didattici, dai testi originali degli scrittori e dei poeti, che restano ovviamente la fonte principale del sapere letterario e la cui diretta conoscenza ne costituisce gli elementi fondanti. Una didattica dei saperi essenziali, dunque, applicata alle letterature latina e greca, saprà promuovere la centralità e il primato della lettura dei testi (in lingua originale o in buone, fedeli traduzioni) rispetto al lavoro di codificazione critica e saprà fondare quest’ultimo sulla lettura dei testi, condizione necessaria per l’efficacia dell’elaborazione critica. Deaccademizzare significa ancora motivare o rimotivare lo studio dei singoli argomenti. È chiaro che ogni argomento di studio ha la sua ragion d’essere nell’economia di una disciplina, tanto più se collegato ad altri argomenti che lo precedono o lo seguono. Ma questa ragion d’essere può restare, almeno per le discipline letterarie, una motivazione esterna, non tale da offrire stimoli agli alunni, se non si colgono altre ragioni per cui un dato argomento possa rivelarsi importante sul piano formativo. 88


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Motivare lo studio di un argomento vuol dire trovare le ragioni che lo rendono significativo in sé, per la spinta di ricerca che può mettere in moto, per le acquisizioni che esso consente di realizzare, per gli obiettivi formativi che consente di perseguire, non in vista di altri argomenti da affrontare o per il mero completamento di un programma prefissato da rispettare. Vuol dire preparare all’argomento oggetto di studio, suscitare interrogativi e curiosità intorno ad esso, problematizzarlo e creare attese, sensibilizzare culturalmente alla tematica. Deaccademizzare significa, infine, attualizzare gli argomenti di studio. E attualizzare significa cercare di interpretare con categorie culturali moderne o contemporanee fatti letterari ed opere del passato: significa cogliere in testi di tanti secoli fa criteri di giudizio, valori, modi di pensare e di sentire vicini alla sensibilità odierna. Ma questo senza forzature, senza voler attualizzare ad ogni costo, senza scadere in facili interpretazioni modernizzanti: nel rispetto, cioè, della verità e della dimensione storica degli autori e delle loro opere. Non mancano, nelle letterature latina e greca (non è necessario, credo, ricorrere ad esempi), opere che possono essere lette con chiavi di interpretazione e con sensibilità moderne e attuali. Sarà attenzione di noi docenti coniugare la lettura storica e la lettura attualizzata degli autori classici senza ingiustificate sovrapposizioni. Ma è chiaro che un lavoro serio di attualizzazione non può che arricchire di motivazioni e di interesse, agli occhi degli alunni, lo studio delle discipline classiche. Un’altra considerazione ancora, a conclusione di questo scritto. Liberare dai rischi dell’accademismo l’insegnamento del Latino e del Greco richiede a noi docenti non solo la padronanza delle discipline specifiche, ma anche una buona conoscenza della cultura moderna e contemporanea, non esclusa la conoscenza della cultura giovanile. Questa, in particolare, ci consentirà di capire meglio il vissuto dei nostri alunni, di lavorare più consapevolmente sulle loro motivazioni e sui loro interessi, di rendere più vivo e fecondo il loro incontro col mondo classico.

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Carmelo Aliberti

La poesia di Bartolo Cattafi*

Tra negativo esistenziale e ansia metafisica Nota dell’autore Il barcellonese Bartolo Cattafi (1922-1979) scoprì la poesia nel 1943, durante un periodo di convalescenza – per una malattia contratta durante il servizio militare nella Seconda Guerra mondiale – presso la sua villa, in contrada Mollerino di Terme Vigliatore (Messina), in preda ad una forte depressione, aggravata davanti agli iniziali orrori della guerra, rendendo più fragile la sua resistenza alla vita. Nell’inebriante profumo delle zagare, nell’azzurro delle acque del mare di Marchesana scintillanti d’argento, in cui si scioglieva l’infinito celeste del cielo, il poeta ricorda: Cominciai a scrivere versi non so come, ero in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, dolci. Le mille cose che quella snervante primavera mi poneva, erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia, cominciai ad enumerare le cose amate, a compilare in versi un ingenuo inventario del mondo. Tutt’intorno lo schianto delle bombe… Me ne andavo nella colorita campagna, nutrendomi di sapori, colori, immagini; la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso una viottola.

In questa confessione, si possono cogliere i nuclei essenziali dello sviluppo della poetica cattafiana: la visione del reale, colto nella sua polpa, un inventario dei particolari del mondo, la trasfigurazione della realtà nella bellezza della natura, l’ebbrezza della vita, il sotteso sentimento del tragico colto nel flusso naturale delle cose, la poesia come folgorazione improvvisa, pronta a catturare fulmineamente il profilo e la sostanza di ogni metamorfosi naturale e ogni esplosiva scheggia degli oggetti, attraverso la musicalità scoppiettante dei versi. La poesia fluisce sul piano delle cose, riuscendo a strappare con gli strumenti del verso affilato, il respiro segreto del reale. Poesia è dunque per me avventura, viaggio negli interstizi del contingente, scoperta dello sconosciuto, vitale reperimento degli ideali della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso dei frammenti del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale”. Si evidenziano in queste affermazioni, le tensioni più forti della vita, di fronte al microcosmo “dell’inconnu”.

Già ne Le mosche del meriggio (1958), i versi cattafiani vibrano, dentro il guscio delle apparenze, di una tensione pura che si sprigiona dall’attrazione del contorto enigma della figura contratta degli oggetti, dove il po90


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eta coglie il senso metaforico nella scorza della concretezza visiva. Si veda la poesia “Domani”: Domani apriremo l’arancia/il mondo arancia nel verde domani,/si poserà la nuvola lontana/con le zampe guardinghe di colomba/sopra il tetto di tegole vecchie/sopra il tempo piovuto rugginoso. Cattafi viaggiò a lungo attraverso diversi paesi d’Europa, non solo per conoscere nuovi paesaggi, ma forse anche per appagare l’innata esigenza di pervenire al centro del mondo, ma anche per acquisire la consapevolezza della sua presenza di creatura, con la certezza della terra conosciuta. Allora, il viaggio fisico diventa esigenza di verità assoluta, denotazione di un viaggio metaforico alla ricerca di assiomi epifanici di conoscenze assolute, al fine di poter captare le effrazioni del mistero esistenziale dell’uomo. Già nella raccolta L’osso, l’anima (1964), il poeta è risucchiato in un vortice abissale, appeso al filo della ragione, per indagare nel buio ontologico e riuscire ad individuare lo strappo luminoso che lo guidi nella sua “discesa al trono” dell’inconoscibile, con l’anelito di conquista di un grumo di verità assoluta. Dopo una lunga parentesi di silenzio poetico, nel 1971, in una mattina di marzo, alle quattro del mattino, si sveglia e riprende a scrivere. Il tormento segreto della poesia non lo ha mai abbandonato in tanti anni di autoesclusione da ogni forma di esibizione letteraria. La poesia è stata costantemente il suo mito esistenziale che ne ha anestetizzato le lacerazioni interiori, aggravate dal dilagante male del mondo e dall’angoscia di vivere nel deserto esistenziale. La sua ombra gli stava accanto nei vagabondaggi ideali nella stanza della tortura della solitudine. Schizzano sulle pagine bianche, nella raccolta, pubblicata l’anno successivo L’aria secca del fuoco, come un’oasi di sopravvivenza al fallimento dei suoi progetti gnoseologici, elementi vegetali e zoomorfici, come i fichi dell’inverno, le lumache, le olive, le api, lo scarabeo, come in una rassegna di vitalità e di bellezza apparente che, tuttavia, non riescono a caricare di significato concreto la sensazione dell’effimero e della morte, esalata dal ciclone del tempo che travolge tutto. La ricognizione delle manifestazioni della natura, tuttavia, lo inducono ad ipotizzare un “archè” creativo dietro la bellezza e 91


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grandezza dell’universo, che sospinge il poeta ad ascoltare un ignoto più intenso e diverso pulsare nel battito del cuore. I fichi invernali/chiusi sodi caparbi/…sono rossi di dentro come un tramonto/gelido senza giallo/… Giunti inaspettati/se ne vanno così/come sono venuti/frammenti erranti/ nel vuoto e nel buio/per un attimo colpiti dalla luce (“I fichi dell’inverno”). Ma l’uomo dentro non è un “frammento errante” confuso con gli oggetti, ma si trascina il peso della spiritualità, l’anima, di cui ha percepito il sussulto nell’osservazione dell’esistente, si rivela una realtà molto seria e sacrale che l’uomo deve ben custodire, alimentandola con i fiori del bene e con sopportazione che inducono a creare regole certe: Non puoi mandarla mica sulla forca/arrotolata nella cesta della roba sporca./Ti arrangi ficcato tra le spine/te la tieni addosso te la piangi (“Te la piangi”). Nella successiva raccolta, intitolata Marzo e le sue Idi, la speranza dell’approdo alla conoscenza si arresta al di qua del muro che ne ostruisce il passaggio. Il poeta, razionalmente stremato, sembra rinunciare all’impossibile impresa di oltrepassare il guado delle ombre e rimane rinchiuso nelle anguste pareti umane, in attesa di un improvviso evento soprannaturale che rischiari il percorso verso le spiagge dell’aldilà: Non c’è scalata/ per il frutto dell’al di là/sul ramo arcuato/sul frutto spalmato di sapone/c’è il salto il volo (“Per il frutto”). Cattafi ora scivola verso le nebbie del pessimismo, avverte il vuoto della vita, sentendosi sconfitto nella titanica lotta per poter riempire il nulla di comprensibili significati, vivendo, con amara ironia, il tempo dell’attesa delusa: attesa che qualche scatola s’apra/cateratta celeste/che il fuoco investa/terre bruciate/umili prati/all’oscuro di tutto (“All’oscuro di tutto”). Con le parole-chiave “attesa”, “fuoco”, il poeta crede di poter rovesciare “il lato tombale delle cose”, per poter scoprire la parte invisibile di esse: …il vero disegno/il volto luminoso/il regno il regno il regno (“Dall’altra parte delle cose”). Cattafi, tuttavia, non può arrendersi senza riuscire a trovare un vero significato della vita e, oscillando con l’io sul ritmo delle onde splendenti delle acque o inghiottendo la celeste luminosità del cielo che lo riveste o ascoltando le limpide e irresistibili voci della natura profumata, di fronte alla barbarie umana che semina guerre, ingiustizie, massacri di innocenti e morte globale, avverte il grido delle vittime che lo scuote dal letargo nocivo e un soffio di preghiera sibila sulle sue labbra. Appaiono, allora, confusamente le sagome delle cose visibili e invisibili che evidenziano la forza catartica della rivelazione e del miracolo. Ora il poeta, di fronte agli “argi92


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ni” esistenziali, ai vicoli bui della ragione, al dominio della morte, si inginocchia davanti all’eterno e “nelle tue mani mi metto”, cioè a Dio affida il suo destino metafisico. È stata la poesia che gli ha consentito di pervenire a una così alta meta, perché solo essa ha il potere di captare: …Le parole impalpabili/perdute sull’altro lato della vita. Il passaggio terrestre della creatura umana si riduce alla sosta di un insetto stordito e l’enigmatica precarietà della vita, racchiusa in un frammento di tempo che l’uomo deve ben consumare, rafforzano il sentimento religioso, l’urgenza della preghiera, il grido di pietà, il tutto espresso con versi chiari, visivi, accartocciati e pronti a scattare per coagularsi in un’immagine affilata e circoscritta dal ritmo breve dei versi. Certamente dovette influire, sulla conquista della fede, la moglie Ada sposata nel 1967 in Scozia con rito civile e nel 1978 con quello religioso. Anche nella raccolta Segni, in vista di un possibile, totale naufragio, la fede del poeta accentua i suoi toni di preghiera, ormai consapevole dell’esistenza di Dio: Oh! Sì, non alzo/abbasso le mie ali/ai tuoi piedi mi metto (“Occhio della fede”), tra alberi profumati, acque e cieli azzurri, percepì il risuono del richiamo di Dio. *Giambra Editori, 2014

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Carmelo Aliberti

L’altra letteratura siciliana contemporanea* Nino Famà

Professor Emeritus University of Waterloo, Canada Carmelo Aliberti, è un poliedrico scrittore siciliano le cui opere poetiche e i suoi saggi di critica letteraria sono ampiamente conosciuti sia in Italia che all’estero. La sua poesia prende spunto da una realtà meridionale e in particolare da quella siciliana. Nelle sue composizioni, il lettore osserva un io poetico che si sommerge nella storia, nel mito, nella realtà socio-economica per poi diventare coscienza della sicilianità, voce dell’ingiustizia sociale, messaggero della tragedia delle classi subalterne. È il pianto d’un io poetico indignato che fa sue le sofferenze e le ingiustizie perpetrate ai danni delle classi sofferenti. Ma la poesia di Aliberti va al di là delle ingiustizie sociali per diventare missione morale. Il poeta s’immedesima con l’angoscia spirituale dell’uomo del suo tempo assediato dall’ingordigia di una società consumistica che vuol giustificare la vita umana con le leggi del mercato. La poesia di Aliberti spazia dalla realtà locale a quella universale, dalla questione meridionale alla condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Carmelo Aliberti è anche un raffinato maestro della lingua. Il suo stile, l’uso di immagini, di metafore, lo collocano nel contesto della poesia universale, rendendolo uno dei poeti più apprezzati della sua generazione. La sua poesia gode della stima di rinomati critici in Italia ed è apprezzato soprattutto dalla critica straniera. La sua poesia è stata tradotta in varie lingue: francese, inglese e in numerose altre lingue ed è stata oggetto di studio in varie università straniere. Aliberti è anche un apprezzato critico. Ha scritto saggi su famosi scrittori: da Michele Prisco a Fulvio Tomizza, da Carlo Sgorlon a Ignazio Silone, da Melo Freni a Bartolo Cattafi. Aliberti è anche un indefesso promotore della cultura, ha fondato e diretto riviste letterarie, ha pubblicato parecchie antologie tra le quali spiccano Letteratura siciliana contemporanea (2008) e L’altra letteratura siciliana contemporanea (2013). Questo preambolo ci attesta che Aliberti è un esperto nel campo letterario, un conoscitore dei movimenti artistici e del rapporto che esiste tra arte e realtà. Egli conosce bene la scena artistica universale e può parlare di Proust, di Joice, di Steinbeck o di Garcia Marquez con la stessa autorità con cui parla di Dante o di Petrarca. Quindi, chi più qualificato di lui per affrontare l’arduo lavoro di compilare una antologia! Nella Letteratura siciliana contemporanea (Pellegrini Editore, 2008) 94


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Aliberti ha voluto percorrere, con una profonda e perspicace valutazione critica, la letteratura dell’Isola ad iniziare da classici come Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, eccetera, per poi arrivare ai nostri giorni con Vittorini, Brancati, Sciascia, Consolo, Bufalino, Camilleri e molti altri. Dopo aver dedicato alla letteratura siciliana “Il più strenuo e fruttuoso studio critico, con sapienti e suasive interpretazioni, analisi e commenti” (ci dice Giorgio Barberi Squarotti nel prologo a L’altra letteratura siciliana contemporanea) Aliberti, ora, propone al lettore questa nuova antologia di autori siciliani. Poiché il difficile e faticoso lavoro di compilare una antologia implica anche il doloroso compito di scegliere quali autori includere e quali lasciare fuori, il lavoro può diventare veramente straziante. Nella premessa al volume, l’autore parla dei criteri che hanno guidato la sua selezione. Ci dice: “Ho infatti riflettuto che su certi autori, considerati perlopiù maggiori ed esponenti in toto della letteratura anche nazionale (tanto per fare alcuni nomi: Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, Quasimodo, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia) … di cui il giudizio critico oggi si può considerare definitivamente acquisito e che essi sono in genere abbastanza noti al pubblico dei lettori, che li conosce anche attraverso la mediazione di buone antologie, scolastiche e non. Ho scelto, allora, di rivolgere la mia attenzione agli autori meno o poco noti, o sulla cui opera non si registra ancora una valutazione da parte dei critici pressoché concorde”. In ogni caso, ciò non significa che i grandi nomi della letteratura siciliana siano del tutto assenti in questa nuova antologia. Stefano D’Arrigo, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Giuseppe Bonaviri, Andrea Camilleri, Bartolo Cattafi, Ignazio Buttitta, Lucio Piccolo, Jolanda Insana e molti altri autori di spicco fanno parte di essa. L’antologia è composta da due sezioni, la prima dedicata alla narrativa, mentre la seconda si occupa di poesia. Come afferma l’autore stesso nella premessa, la saggistica non formerà parte del volume. Per ogni autore, Aliberti usa un formato semplice, consistente ed efficace per dare al lettore, in sintesi, la distillata essenza dell’opera di ciascun autore. Quindi viene tracciato un profilo biografico letterario, passando in rassegna le opere più significative dell’autore. In seguito al profilo si propone un brano tratto da un’opera rappresentativa e quindi una guida alla comprensione, una chiave di lettura e interpretazione del testo. L’excursus si conclude con una bibliografia. Lo stile è semplice e facilmente comprensibile, i brani sono scelti con cura per incentivare ulteriori letture su ciascun autore, in realtà sono assaggi per stimolare la curiosità del lettore o dello studente delle scuole superiori. In sintesi, l’antologia offre una pregevole panoramica della letteratura siciliana contemporanea. La medusa Editrice, 2013. 95


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Nino Famà

L’oceano nel pozzo* Carmelo Aliberti Nino Famà, nato a Barcellona P. G, ( Messina ) vive da moltissimi anni in Canada ove emigrò negli anni Sessanta. Negli anni Settanta, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca (Ph. D.) presso la State University of New York at Buffalo (USA), ottiene la cattedra di letteratura latino americana prima alla University of Victoria (British Columbia, Canada) poi presso la University of Waterloo (Canada) dove ha insegnato fino alla pensione. Oggi è professore emerito di quest’ultima università. Il suo esordio narrativo risale al 1996, con il volume di racconti Don Gaudenzio e altre storie, dove l’influenza verghiana è evidente, sia nelle storie, che nella tecnica narrativa. Nel suo primo romanzo La stanza segreta il giovane protagonista Nicki per superare le sue difficoltà esistenziali e psicologiche ritorna nella terra delle radici, la Toloma siciliana. Questo ritorno è necessario per rigenerarsi e ritrovare la sua vera identità nei sereni e mitici luoghi delle origini di cui il nonno magnificava, nei ricordi affidati al nipote. L’anziano infonde nel ragazzo la sublime bellezza della natura, il trasparente azzurro del cielo e le incantevoli Isole Eolie che si ergevano come perle sulle acque mitiche del Mar Tirreno. La trama di questo suo primo romanzo oscilla tra autobiografia e accensioni fantastiche che, sotto il travestimento simbolico-fantastico, rivela, in realtà, il filo segreto di una storia che vivono molti sradicati.“La stanza segreta” del nonno pienadi opere letterarie e pittoriche della migliore tradizione siciliana e gravide di infinite interpretazioni simboliche lo riconducevano a quel ritratto d’amore per la sua terra lontana. Quel repertorio di cose segretamente custodite come in un sacrario, facevano acquistare maggiore consapevolezza al giovane della sua condizione. Così, su consiglio dello psicologo, va a cercare nella terra del suo antenato la cura al suo malessere. Nel recente romanzo L’oceano nel pozzo (titolo fortemente simbolico), al tema dell’emigrazione si affiancano il tema dell’amore, della fede e lo strazio interiore di Stefano, sospeso tra l’incanto del sentimento per Milena e la sua tormentata fede in Dio, che non vorrebbe tradire, dopo aver trascorso tanti anni in seminario. Il conflitto nella sua anima tra la seduzione d’amore e la sua scelta di servire Dio lo corrode interiormente e inefficaci si rivelano i tentativi di dissuasione di padre Adelmo, suo padre spirituale. Dopo infiniti interrogativi, Stefano riesce a darsi una convincente risposta, 96


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concludendo che amare sinceramente una donna, assumendosene tutte le responsabilità è un modo più concreto di servire Dio. Allora, d’accordo con Milena, progettano di realizzare il loro sogno. Ma a tal fine, occorre un lavoro, per cui Stefano decide di partire per l’America, dove, dopo aver messi da parte un po’ di risparmi, sarebbe tornato per sposare Milena e ripartire insieme. Nel Nuovo Continente, dopo i primi giorni senza speranza, un bottegaio conterraneo, commosso dal suo caso, gli suggerisce di bussare alla porta di don Vincenzino, un uomo di origine siciliana che aveva accumulato una fortuna inun centrodi distribuzione di frutta e verdura che aveva ereditato dai suoi avi. Una domenica, impensabilmente, don Vincenzino invita Stefano a pranzo, coltivando così un rapporto familiare con il giovane. Alcuni mesi dopo, don Vincenzino propone al ragazzo un incarico delicato e di fiducia, cioè passare, alla fine di ogni mese per alcune persone, affittuarie dei tanti appartamenti di don Vincenzino per riscuotere il canone. Stefano è contento del nuovo incarico, tanto che ora decide di sposare Milena. Ma un tragico evento tronca i sogni del giovane, quando don Vincenzinoviene assassinato da uno sconosciuto. Dai giornali e dal chiacchiericcio della gente, Stefano apprende che questi era il capomafia della zona e che non era un possessore di moltissimi appartamenti, ma un estortore che taglieggiava i commercianti della zona. L’inchiesta riconosce Stefano come complice del capomafia e il processo lo vede condannato a quattro anni di carcere. Crollano, ora, tutte le speranze del giovane che non sa come comunicare la sua condizione a Milena e a sua madre. Alla fine, si decide a scrivere alle donne e informarle dell’accaduto. La madre si abbandona ad un continuo pianto, mescolando amarezza e pietà per la sfortunata sorte del figlio. Milena, invece, sparisce per alcuni giorni, lasciando nel dolore i genitori che non hanno più notizie di lei. La ragazza, per alleggerire il proprio dolore, si è allontanata da casa per distrarsi, come comunica ai genitori, dopo aver visto un articolo sulla Gazzetta locale che ne segnalava la scomparsa. Alle Eolie, la ragazza intreccia una relazione amorosa, spinta dall’angoscia del suo destino crudele. Intanto, Stefano è la vittima innocente dell’intrigo della malavita e continuamente si chiede: “Sono il criminale che giace in questa cella o il ragazzo timido, generoso e altruista del seminario?” Nella sua cella trasferiscono Ricki, un condannato a cinque anni perchérenitente alla leva per la guerra del Vietnam. Le conversazioni con il condannato politico rendono più concreta e realistica la visione della realtà, per cui Stefano sogna ancora di poter sposare Milena. Scontata la pena, il giovane si illude di potersi ricostruire una nuova vita in America, matutto si capovolge quando viene informato che a causa della sua fedina penale, il rimpatrio è obbligatorio. 97


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Prostrato, torna al paese, dove viene informato della vicenda di Milena. Ma l’amore è più forte del dolore e i due si perdonano vicendevolmente e decidono di vivere insieme. La struttura della trama fondata essenzialmente sulla travagliata storia d’amore dei due protagonisti è simmetricamente elaborata sul filo di una lineare razionalità e, con il supporto di altri personaggi, lo scrittore esplora temi e vicende che scandiscono le inique condizioni misere e degradanti del ghetto, la politica americana, cariata da abissali iniquità sotto le parvenze della giustizia e della libertà. Sotto il profilo etico-spirituale dominante è lo scontro tra Amore e Fede, tra i valori eterni dei poveri e la squallida schiavitù dei ricchi all’egolatria e allo sfruttamento degli emarginati da parte degli esportatori di democrazia. Il linguaggio si adegua, su un livello di semplicità comunicativa e coinvolgente, pur nella sua lineare razionalità, su cui limpidamente scorrono gli avvenimenti, senza accumuli bizantineggianti, ma con un purismo linguistico che rende fluida e affascinante la storia e colloca l’opera di Nino Famà tra le piùlimpide e valide, dopo tanta letteratura definita “spazzatura” dalla critica non prezzolata e più esigente. *Cosenza:Pellegrini Editore, 2013

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Matteo Collura Giornalista letterario e scrittore

Sicilia. La fabbrica del mito* Carmelo Aliberti Il più recente volume di Collura si intitola Sicilia. La fabbrica del mito (Longanesi, Milano 2013), nato da un sogno fatto in Val in Val Pusterla, in cui vede la sua terra, sempre viva nell’anima e seduttrice, che racconta con amore e indignazione, un’isola “irredimibile con i suoi atavici mali e con gli incantesimi con le costanti implosioni mitiche, che lo scrittore esplora con lucida razionalità in ogni risvolto e con la verifica documentaria tra mitizzazione ed esposizione obiettiva e analitica degli eventi e dei personaggi indagati, innalzati a mito, nella mentalità dei siciliani, assetata di idoli protettori, come scudo alla Matteo Collura loro dolorosa e millennaria schiavitù, da cui lo scrittore vorrebbe svincolare, fornendo nuovi elementi riscoperti e necessari ad una più libera interpretazione delle statiche convinzioni ed esaltazioni di personaggi ed eventi negativi. Collura, in tal modo, fornisce in questo libro (che completa la sua trilogia siciliana, dopo In Sicilia (2004) e L’isola senza ponte (2007) documenti ed indagini obiettive per denudare il vero della storia e contribuire alla gente siciliana di liberarsi dalle interessate falsificazioni e mistificazioni di episodi spesso poco chiari e riappropriarsi della propria “redimibile” identità. In tale ottica, lo scrittore continua il suo viaggio, nel tentativo di far chiarezza, nel variegato cuore della sua terra, in storie di personaggi discussi, nelle contraddizioni, nella labirinticità di aggrovigliate e indecrittabili vicende, la tragedia e la commedia di maschere, di misteri, di ossessione per il sesso, di stragi mafiose, di processioni religiose, l’estremizzazione di manifestazioni di follia e di cinismo come metodologia di fuga dal contingente malessere, come avviene nella fuga dai “mostri” invisibili del principe di Palagonia. 99


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L’eroica figura di Franca Viola, la ragazza che, dopo essere stata stuprata, rifiuta le nozze riparatrici, anzi denuncia lo stupratore, suggerendo col suo gesto coraggioso e rivoluzionario, la via della redimibilità sia alla donna siciliana, che a tutte le donne vittime dello stesso atto, anticipando impensabilmente le leggi recenti sui diritti e difesa delle donne violentate, ma anche indicare al popolo siciliano soluzioni di riscatto da ogni servaggio con scelte rivoluzionarie. Le ricerche di Collura in archivi e documenti ufficiali servono allo scrittore per fornire al lettore e alla storia elementi concreti e “fotografici” per rallentare l’assedio del mistero e consolida la possibilità di percezione di una sagoma di verità mascherata sotto forme misteriose attraverso cui si rivela l’ambiguità di storie sommerse e mistificate. Tra i personaggi riesaminati, sono le figure di Enrico Mattei e la sua inquietante fine nell’esplosione dell’aereo su cui viaggiava verso la meta di una società italiana del petrolio per sottrarre l’Italia al monopolio delle multinazionali, e Ippolito Nievo misteriosamente scomparso in un inspiegabile naufragio della nave, mentre si dirigeva con un ingente tesoro per consegnarlo allo Stato dei Savoia. Colpisce molto l’attenzione riservata al drammatico destino di Bellini che, dopo aver dato lustro alla sua Sicilia, muore in amara solitudine in una casa parigina, abbandonato da tutti. La fine del grande musicista è emblematica della condizione della cultura e dell’arte, in un periodo storico dominato dall’aristocrazia interessata solo alla scapigliata vita mondana e al soddisfacimento dei propri capricci, di cui l’arte della musica era uno strumento, a discapito del drammatico destino dei geni e degli intellettuali, abbandonati a marcire nella miseria e nella ghettizzazione, quando non servivano più all’egolatria imperante. Collura denuncia, anche in questa storia che solo la cultura può eliminare i soprusi, le prevaricazioni, le repressioni, le iniquità, la barbarie, gli annientamenti degli indifesi e degli umili, ma i governi che si sono avvicendati nell’isola l’hanno solo espoliata di tutto e soffocata nell’analfabetismo, per facilitare la loro gestione del potere. Chi trionfa sono gli impostori come Cagliostro che utilizza la propria cultura per ordire inganni, beffe soprusi e oltraggi con cinico sadismo. Nè poteva sfuggire allo scrittore la focalizzazione di un incandescente momento della storia siciliana, di cui è protagonista Salvatore Giuliano, il bandito idolatrato dai poveri, ingannato e tradito da noti personaggi del sistema che lo convinsero a sparare sui braccianti in rivolta, il 1° maggio del 1947, a Portella delle Ginestre, compiendo una strage di innocenti, che rivendicavano i loro diritti. La strage fu pubblicizzata come atto terroristico. Genco Russo viene presentato come rappresentante della vecchia mafia, un’associazione a delinquere con regole tradizionali, con interessi e metodi molto lontani dal prevalente ricorso allo stragismo e dal rapporto inquinato mafia-politica. Con la profilatura di altri personag100


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gi e l’esplorazione di ambiti oscuri, Collura completa la radiografia dell’isola, terra di miti ereditati, in parte ereditati dall’antica Grecia e ricreati in Sicilia con ulteriore arricchimento di connotazioni che la tendenza fisiologica della gente dell’isola alla mitizzazione di tutto ciò che è misterioso e surreale, come hanno fatto nella storia tutti gli uomini. In tal senso, la Sicilia rimane metafora del mondo, continuando a sacralizzare l’ignoto e l’invisibile, con un comportamento di protezione. Al setacciamento delle negatività, Collura contrappone realtà incontaminate e, come un poeta in esilio, canta il magico splendore della natura, filmata nell’incanto delle sue colline rivestite di verde, nelle luminose pianure estese fino all’orizzonte, nell’azzurra intensità del mare e del cielo, che sembrano baciarsi come gli innamorati, nell’irresistibile profumo delle zagare che inebriano lo scrittore ad ogni discesa nell’isola, da dove si è allontanato da 35 anni, nella sublime che l’avvolge, nel paesaggio che sente come amico, dove, in un angolo solitario, lo scrittore percepisce il sussurro dei luoghi, un tempo tempio della civiltà contadina. Un linguaggio lineare, geometrico, privo di ristagnanti orpelli, in perfetta e trasparente simmetria con la scansione del narrare, la strutturazione razionale del periodare con il supporto di documenti inoppugnabili, caratterizzano l’originalità della creazione colluriana. Come Garcia Marquez, anche Collura ha un luogo da raccontare, la sua Sicilia che, per la tipicità universale delle apparenze e delle assenze della storia, per il dolore e l’angoscia dei suoi reclusi, viene identificata come metafora del mondo. Pertanto, Matteo Collura viene considerato dalla critica come uno degli scrittori più rappresentativi della migliore letteratura. *Longanesi, Milano 2013

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Annella Prisco Saggiomo

Appuntamento in rosso* Carmelo Aliberti Antonella Prisco Saggiomo, docente di materie letterarie, attualmente funzionario della Regione Campania nel settore cultura e spettacolo, collaboratrice con vari Enti e con diversi quotidiani e periodici, tra cui la redazione napoletana de “La Repubblica”, ha esordito nel 1998 con il romanzo Ricordi senza memoria, scritto a quattro mani con Monica Avanzini, cui hanno fatto seguito Chiaroscuri d’inverno (2005) e Trenincorsa (2008), una raccolta di interviste a trenta personaggi del panorama culturale italiana, da Dacia Maraini a Claudio Magris, ecc. Ora è in vetrina con il romanzo Appuntamento in rosso, edito dall’editore Guida di Napoli. Racconta la storia di Irene Bellucci, una giovane ricercatrice presso il Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove si è trasferita dalla casa familiare di Mercogliano nella città partenopea, al Vomero, per svolgere meglio la sua attività vicino all’università, dopo anni di intenso studio, corsi di formazione e seminari di specializzazione. Si applica al lavoro con entusiasmo che non sfugge all’attenzione della direzione dell’Istituto di Filologia, per cui una mattina dalla fiduciaria della Preside viene convocata nell’aula Magna, perché eletta come componente del Consiglio, per una conoscenza di nuovi componenti eletti e per uno scambio di idee di progettazione. La donna, nonostante i successi ottenuti nella sua carriera e le prospettive di più alti traguardi, spesso è assalita da una sensazione di vuoto, mentre si attende l’arrivo del responsabile del Dipartimento, il prof. Arturo Buscaroli, che tarda ad arrivare, fino a quando appare nell’aula una sagoma di persona, alta un metro e ottanta. L’uomo, dall’aria severa e contrita, chiede scusa per il ritardo, venendo da lontano. Nel tono della voce, nel linguaggio severo e preciso, occhi grigioverdi, l’uomo suscita in Irene un inconscio fascino. Un improvviso rossore dipinge le guance della donna, mentre stringe la mano all’uomo, che ha fissato una data per un nuovo incontro programmatico, raccomandando a tutti di non mancare. In preda ad emozioni inesplicabili, corre verso casa, dove desidera rimanere sola, per assaporare, nel ricordo delle sfumature di quanto vissuto la mattina e quale tristezza nasconde il docente dietro quella freddezza impenetrabile che trasmette una inspiegabile tensione. Irene confessa all’amica Eleonora le forti emozioni che l’anno ammaliata e il suo desiderio di conoscere il segreto nascosto da quell’uomo misterioso. Il suo mondo interiore ora è colmo di euforia, convinta di aver anche lei acceso in lui un particolare interesse. Ma un giorno 102


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il prof. diserta l’appuntamento, senza alcuna spiegazione. Irene inutilmente ne attende il ritorno, sprofondando nuovamente nell’aridità quotidiana. Inaspettatamente un giorno l’arrivo di una lettera di convocazione, presso la sede della Regione, la sorprende, ignorandone il motivo. Al secondo piano, Le viene comunicato dal capo del personale di essere stata scelta, per i suoi meriti, per un importante incarico della Regione, nelle relazioni e per la rappresentanza culturale con Enti e altre regioni. Senza rimpianti, Irene accetta la proposta e la realizza in modo esemplare. Ora, nel nuovo ambiente di lavoro, è molto stimata e i risultati eccellenti nello svolgimento del suo lavoro, tanto che le promozioni si susseguono velocemente. Così, dimentica le pareti ammuffite del Suor Orsola, anche se il ricordo del prof. Buscaroli e del suo mistero affiora spesso nei suoi pensieri. Negli intrecci e nelle strategie regionali e nella promozione culturale, la fama si diffonde vastamente, tanto che un giorno la telefonata di una sconosciuta, che si rivela come incaricata dal Rettore dell’Università di Urbino, Le comunica di essere latrice di un messaggio del Rettore che la invita ad un convegno culturale, al quale partecipano rappresentanti di numerose Università. Dietro le sue insistenti richieste di conoscere il nome dello sconosciuto Rettore, apprende che è il prof. Arturo Buscaroli. I ricordi dei giorni emozionanti trascorsi al Suor Orsola riemergono dal passato, ma non la scuotono più. Lei è soddisfatta della sua carriera, non tornerà più a percorrere altre vie, anche se decide di non disertare l’invito al nuovo appuntamento, come un’altra sfida del destino. Annella Prisco in questo romanzo rappresenta uno squarcio della più scottante problematica contemporanea, di cui Irene, la protagonista, è la speculare rappresentante. Essa non è un personaggio negativo che narcisisticamente si arrovella nella delusione o nella sconfitta, né un personaggio che affonda nella negatività dell’esistenza, ma è il prototipo ideale della nuova generazione, animata dalla speranza e dal coraggio di non inciampare negli agguati del cuore, ma di realizzare con determinazione le scelte della propria vita. Il messaggio positivo della Prisco, indirizzato soprattutto ai giovani del nostro tempo, colloca la scrittrice come rappresentante di un modello di letteratura edificante, ricaricandola di significati e di valori necessari ad una visione edificante della vita, ingredienti sostanziali che riescono a rivalorizzare il ruolo della letteratura, come strumento indispensabile alla rinascita etica dell’uomo che oggi vive insaziabilmente l’egolatria, l’inseguimento del benessere con ogni mezzo, dell’avere, del successo e del sesso, distruggendo la limpida gioia di vivere e inoculando nei giovani, fragili e inermi, l’abbaglio del malessere esistenziale, inducendoli alla negazione della stessa vita. Irene rappresenta anche un modello di donna emergente, che si afferma con le armi della cultura, e non di spudorati compromessi come, purtroppo, frequentemente avviene, 103


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con la mercificazione della propria dignità morale e umana. La struttura del romanzo è simmetrica e organizzata con limpido periodare, senza ingorghi argomentativi e senza soprastrutture evasive o baroccheggianti. La disposizione verbale, nominale a aggettivale, corrisponde al fluire trasparente e razionale del susseguirsi di eventi e di epifanie interiori che contribuiscono alla delineazione di una figura esemplare, calamitandola nelle connotazioni essenziali, attraverso cui la scrittrice consegna al lettore una lezione di gioia di vivere e di trasformarsi in creatore del proprio percorso esistenziale. Una lezione di pulizia interiore e di linguaggio lindo e puro per chi ricorre ad espressioni e rappresentazioni morbose ed oscene che deturpano le pagine della letteratura e la sua catartica funzione. *Guida Editore, Napoli, 2013

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Carmelo Aliberti

L’altra letteratura contemporanea siciliana* Giuseppina Rando

Poetessam critico letterario, scrittrice Carmelo Alberti, poeta, saggista e critico letterario, autore di 32 volumi di poesia e di importanti opere di saggistica sul Novecento, pubblicando l’ultima sua fatica L’altra letteratura contemporanea siciliana, dà in dono alle Scuole superiori di secondo grado, un testo utilissimo per tutti quegli insegnanti e studenti anche universitari) che desiderano avere una visione completa della letteratura italiana, puntando l’attenzione su un consistente numero di autori siciliani contemporanei. L’altra letteratura contemporanea siciliana si può considerare un complemento o un controaltare alla canonica letteratura italiana, che oggi nei testi in uso o proposti, sia per i tagli inflitti dalle recenti riforme ministeriali, sia per esigenze legate a fattori di tempo e spazio, non sempre dà un panorama fedele né rende giustizia alla vera letteratura, quella che si identifica con la vita. E identificarsi con la vita implica identificarsi con tutti gli aspetti della vita stessa, implica “conoscere non solo la primavera in fiore, ma anche i terremoti”, implica conoscere autori meno noti, autori che si sono impegnati ed hanno contribuito a cambiare il mondo non solo a rappresentarlo. Gli autori siciliani di cui Carmelo Aliberti si occupa, dicevo, sono tanti certamente la sua scelta è stata sofferta!); alcuni sono stati già “consacrati” dalla critica, altri “meno o poco noti, non ancora adeguatamente valorizzati”. Per i narratori si va da Vincenzo Consolo ad Angelo Fiore a Maria Messina, per i poeti da Angelo Maria Ripellino a Ignazio Buttitta, e poi ancora Rosso di San Secondo, Ercole Patti, Antonio Pizzuto, Beniamino Joppolo, Mario Rappazzo, Stefano D’Arrigo, Gesualdo Bufalino, Pasqualino Fortunato, Melo Freni, Emilio Isgrò, Andrea Genovese, Matteo Collura, Nino Famà, Giuseppe Bonaviri, Andrea Camilleri, Silvana Grasso, Angelina Lanza Damiani. e tanti altri. Aliberti si muove in un’area variegata nella consapevolezza che la pluralità delle voci riveli valori al di fuori dei canoni dominanti. Scrivere un testo di letteratura significa distinguere, giudicare, chiarire, scegliere e Carmelo Aliberti, che ha insegnato nei licei per lungo tempo, possiede non solo vaste conoscenze, ma anche gli strumenti, le metodolo-

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gie e soprattutto il coraggio di confrontarsi con la molteplicità di prodotti per arrivare ad esprimere giudizi critici con perizia. L’impianto costruttivo facilita l’impatto con il lettore che può leggere, dopo il profilo di ogni autore, diversi brani significativi, tratte dalle sue opere. Utilissima poi “la chiave di lettura e l’interpretazione del testo letto “senza per questo pretendere – scrive Carmelo Aliberti nella Premessa – di predefinire la fruizione da parte del lettore o di volerne precludere sviluppi interpretativi personali”. Come opportunamente precisa Giorgio Bàrberi Squarotti, in quarta di copertina, il critico deve anzitutto spiegare, commentare e rilevare, nel modo più efficace, il valore del singolo componimento all’interno della singola vicenda letteraria dell’autore…il commento permette di chiarire anche la lingua che l’autore adopera, le sue posizioni, ideali, morali, politiche…” Sì, politiche perché Carmelo Aliberti sa bene che un’opera letteraria anche se nasce da una particolare situazione personale, si rivolge a tutti e, in conseguenza, se ha un messaggio morale, quest’ultimo diviene anche un messaggio politico : entra nella vita, nei pensieri, nei sentimenti della comunità. In questo nostro tempo mercantile, intessuto di slogan e barzellette, di volgarità e narcisismi, di storie senza ethos e senza pathos, credo che Carmelo Aliberti, scrivendo L’altra letteratura contemporanea siciliana, abbia compiuto non soltanto un’opera intellettuale, ma soprattutto un atto etico: è un ottimo strumento di sicura utilità per la formazione e l’educazione all’umano, è letteratura siciliana che “scorre al di là e al di qua del bene e del male, se rappresenta una rosa, sa – come diceva un gesuita e grande poeta mistico tedesco del seicento, Angelus Silesius – che la rosa non ha perché e fiorisce perché fiorisce “ C.Magris) E fiorisce L’altra letteratura contemporanea siciliana nella lettura agevole, capace di promuovere il gusto della ricostruzione storica, quello della ricognizione estetica e l’interesse per la fenomenologia culturale e sociale sullo sfondo della civiltà siciliana e italiana nel XX e XXI secolo. *La Medusa Editrice, Marsala 2013

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Papa Pio X, al secolo Giuseppe Sarto: “gli insegnamenti della storia e il messaggio della modernità” Un libro per il centenario della morte di Papa Sarto

Domenico Trovato

Presidente Comitato Cultura S@rto, Dirigente scolastico emerito

In occasione del Centenario della morte di Papa San Pio X, anche la nostra Scuola, Scuola Media “Sarto” (oggi Istituto Comprensivo 2° di Castelfranco Veneto), intitolata nel 1951 all’augusta figura, ha voluto ricordarlo con un apposito programma. Il Comitato Cultura dell’Istituto, formato da genitori e da docenti, si è perciò prodigato, fin da dicembre 2013 a predisporre delle iniziative che dessero visibilità all’evento. Si voleva non soltanto “commemorare”, ma anche riscoprire la lungimiranza delle scelte ecclesiali e culturali di Papa Sarto, come pure le contraddizioni del suo pensiero, temperate sempre da un tocco di umanità, retaggio della sua origine contadina. Ci si proponeva inoltre di avvicinare i giovani di oggi a quel mondo, per loro così lontano e forse senza esplicite continguità culturali. A tal fine sono state programmate e realizzate le seguenti azioni: *laboratorio didattica pluridisciplinare “Fotografa la storia…sulle tracce di San PioX”, realizzato dagli alunni della Cl. 2C, sotto la guida di alcuni insegnanti e con la supervisione del Dott. Tommaso Ferronato dell’Università di Padova. Prodotto: un fumetto/fotoromanzo dalla significativa cifra multimediale; *partecipazione al Convegno organizzato il 22 Marzo, alla Scuola Grande di S. Rocco, dal Centro Culturale Laguna di Venezia “San Pio X dal Veneto a Roma”, con la presentazione del nostro volume sul Papa; *ricognizione, quasi un “censimento”, in corso di documentazione, delle “testimonianze” riconducibili alla vita e al ministero sacerdotale di Giuseppe Sarto nel suo territorio: la passione per le meridiane, la sua azione pastorale svolta nei Comuni di Tombolo, S. Martino di Lupari, Treviso, il suo interesse per l’arte, etc. 107


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*la pubblicazione di un volume monografico collettaneo, con documenti ed immagini riguardanti la sua storia personale, quella del suo Pontificato, quella del periodo storico di riferimento. E proprio di questa pubblicazione, dal taglio pluridisciplinare, che vogliamo brevemente argomentare in questa presentazione. Lo sguardo preminente è rivolto alla temperie culturale a cavallo tra l’800 e il ‘900, ricca di fermenti: rivoluzioni, avanguardie, riforme. Le scelte del Papa riesino hanno introdotto un nuovo “stile pastorale” che rimane ancor oggi stimolo d’indagine, per capire fin dove “la Chiesa possa pienamente realizzare il progetto di riforma pastorale avviato dal Concilio Vaticano II”. Le novità di questo volume emergono dall’analisi dei diversi autori che, scavando nella cronaca e confrontandosi con saggi critici dedicati, hanno messo in risalto molti aspetti condivisi o discordanti. La storia è cultura se si riesce a spiegarla anche attraverso curiosità, aneddoti e scenari entro cui si sono svolti determinati fatti. Le radici culturali, storico-antropologiche di certi “fenomeni sociali” appaiono e rifioriscono laddove il solco era stato inciso: il razzismo non nasce per caso, come del resto l’idea di glorificare un santo o una santa a fini patriottici, nazionalisti. Santa Giovanna d’Arco è un esempio cardine del panorama socio-politico europeo cristianizzante. Opportuna è stata la scelta di porre l’accento sulla presenza iconografica di questa e di altri santi francofoni nella chiesa di Vedelago, paese natio della madre di Pio X, Margherita Sansòn, che, guarda caso, porta il nome della Santa implorata, sul patibolo (assieme a San Michele e Santa Caterina d’Alessandria) dalla Pulzella d’Orléans. Come del resto non era opportuno dimenticare la straordinaria vicenda della marchesa gardesana Alessandra di Rudinì, amante per diversi anni di D’Annunzio, che si convertì monaca e donò tutto alle Carmelitane francesi, aprendo tre nuovi monasteri, di cui uno a Montmartre di Parigi. Risaltano poi, tra storia e cronaca, le vicende familiari degli imperiali d’Austria, educati nella presunzione di essere i diretti “padroni del mondo” e “benedetti dalla Chiesa”. Sissi, “una donna senza pace”, Rudolf, “il rivoluzionario ussaro a caccia di donne e di roulettes russe”, Francesco Giuseppe “il padre del popolo”, sono entrati nella storia, assieme a Luigi Luccheni, l’anarchico ripudiato dalla madre e all’amante reale del principe Rudolf, Mizzi Kaspar. Scrivere del “profilo” di San Pio X, dimenticando queste storie parallele, è come parlare dell’involucro, ma non del contenuto. Il volume è impreziosito da un apparato iconografico, che correda e accompagna i singoli contributi, costituendo un vero e proprio mini-album fotografico, di efficace impatto visivo. 108


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Marcello Crinò

Tessere di microstoria* Domenica 16 febbraio, nella sala conferenze dell’ex Monte di Pietà di Barcellona Pozzo di Gotto, è stato presentato il libro dell’architetto Marcello Crinò, dal titolo Tessere di microstoria, pubblicato dalle Edizioni Smasher di Barcellona. La serata è stata organizzata dall’associazione Genius Loci e della Smasher. Il libro raccoglie una serie di articoli aventi come filo conduttore la ricerca storica riguardante prevalentemente il territorio di Barcellona, e alcuni eventi culturali particolarmente significativi, assieme a recensioni di libri, pubblicati tra il 1986 e il 2010 sulla stampa quotidiana (Giornale di Sicilia), sulla stampa perio- Marcello Crinò durante la presentadica locale, e qualche testo inedito. zione di Tessere di microstoria Moderati da Carmen Fasolo, direttore editoriale della Smasher, sono intervenuti: l’assessore comunale ai beni culturali professoressa Raffaella Campo, il dottor Bernardo Dell’Aglio, presidente della Genius Loci, il professore e giornalista Francesco Lanzellotti, l’architetto Luigi Lo Giudice, ed infine l’autore del libro. Dai vari interventi è emersa la volontà di Marcello Crinò di valorizzare il territorio, l’amore e la voglia di raccontare un patrimonio di edifici, personaggi, eventi, per mantenere viva la memoria storica, documentare eventi recenti su cui spesso mancano informazioni. In conclusione il pianista Federico Lanzellotti ha voluto omaggiare i presenti con Notturno, un brano musicale scritto quest’anno dal giovane compositore barcellonese Marco Infantino. Marcello Crinò, ricercatore infaticabile volto alla riscoperta del passato della sua città, con questo Tessere di microstoria, il cui sottotitolo recita Alla ricerca della storia perduta, è giunto alla sua quinta pubblicazione. Ha iniziato con i colleghi Giuseppe Caruso e Giovanni Pantano, pubblicando una ricerca sulla formazione e sviluppo urbanistico di Barcellona Pozzo di Gotto, edito dall’Ordine degli Architetti di Messina. Con il collega Giuseppe Candioto ha pubblicato (edito dall’Amministrazione Comunale) un libro sui quartieri di Barcellona. Per l’editore Experiences di Messina ha curato il volume di ristampe di storie municipali Barcellona Pozzo di 109


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Gotto tra Otto e Novecento. Per lo stesso editore ha curato la monografia sull’abate messinese Eutichio Ajello: Eutichio Ajello dalla Sicilia alla Spagna. Un lavoro molto accurato che approfondisce per la prima volta in Italia la figura di questo grande personaggio, oggi abbastanza dimenticato, vissuto dal 1711 al 1793. Crinò collabora con la stampa locale, ha realizzato una pianta con i beni culturali della città e dal 2012 tiene un corso sui beni culturali di Barcellona presso l’Università della Terza Età. Nel 2013 ha ricevuto dal Movimento per la divulgazione culturale una targa per l’impegno culturale volto alla riscoperta del passato. I titoli degli articoli pubblicati in Tessere di microstoria: Gaspare Camarda pittore pozzogottese del ‘500; L’uso dello spazio scenico; Un vecchio palazzo per l’arte di oggi; Facciamone un bel museo; San Francesco di Paola; A Calderà la torre del «Pirata» di Bellini; Alessandro Manganaro (1917-1994); Computer e video arte. A Barcellona un convegno nazionale; Emilio Isgrò e Barcellona; Silvestro Maurolico. L’Abate basiliano di Gala; Architettura e città 1910-1930; Una vita dedicata alla Biblioteca (Alberto Torre, 1908-1998); La follia di Aiace… (Michele Stilo, 1929-2000); Il mosaico della memoria ricompone le tessere di tre secoli d’arte locale; Il genio di Mandanici nella produzione sacra (Placido Mandanici, 1799-1852); Rivisitare la storia di Barcellona; Non è San Basilio, ma …; Viaggio-sogno nell’aldilà (Iris Isgrò, 1923-2008); Una vita per il teatro (Michele Mazzù, 1931-2003); Dov’era la misteriosa Longane?; Gli architetti Suppa e Maffei e l’antico Duomo di San Sebastiano; Le carte perdute di Manganaro; La chiesa degli Agonizzanti; Papa Leone II tra storia e leggenda; Era una chiesa bizantina?; Evoluzione e trasformazione del toponimo Pozzo di Gotto; L’alchimista nel monastero e i codici scomparsi; Le due processioni del Venerdì Santo; Sogno di una notte di mezz’estate barcellonese; Arte, computer, estetica sperimentale (Carmelo Genovese, 1917-1997); Salvatore Crinò, pittore e scultore; Il mistero del sarcofago salvato dalla distruzione; L’archeologo Vincenzo Tusa; Una fucina di giornali locali; La chiesa delle Grazie ricostruita due volte; Il culto di Santa Venera nel barcellonese; La collezione faunistica di Francesco Cambria; Giovan Battista Vaccarini e i Basiliani di Gala; Eutichio Ajello, dalla Sicilia alla Spagna. Il libri di Marcello Crinò: Giuseppe Caruso, M arcello Crinò, Giovanni Pantano, Formazione sviluppo caratteristiche architettoniche ed evoluzione urbanistica della città di Barcellona Pozzo di Gotto, I Quaderni dell’Ordine degli Architetti di Messina, 1995. 110


saggi

Giuseppe Candioto e Marcello Crinò, I quartieri di Barcellona Pozzo di Gotto, Amministrazione Comunale di Barcellona P.G., 2006. A cura di Marcello Crinò, Barcellona Pozzo di Gotto tra Otto e Novecento, Experiences editore, Messina, 2010. Raccolta di quattro storie municipali, pubblicate tra il 1898 e il 1933: Antonio De Trovato, Antonino Di Benedetto, Sebastiano Mazzei, Santi Emanuele Barberini. Marcello Crinò, Eutichio Ajello dalla Sicilia alla Spagna, Experiences editore, Messina, 2012. Marcello Crinò, Tessere di microstoria, Edizioni Smasher, Barcellona P.G., 2013. Edizioni Smasher, 2013

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Versi senili Tre nuove effinzioni Poesie di

Antonino Grillo

Docente emerito di grammatica latina e greca, Università di Messina Perché si piange Stava male il mio Archy Disteso sul lettino immobile mi guardava con i suoi occhi quasi chiusi e senza luce “Architto, che hai” solo son riuscito a sussurrare già quasi in lacrime Un impercettibile movimento della coda la sua risposta Ho creduto si sentisse morire e di stargli accanto mi chiedesse e sostenerlo nell’ora del trapasso Mi sono seduto a terra proprio al suo fianco ed ho pianto senza volerlo proprio tanto 112


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Le mie carezze e le cure premurose di tutta la famiglia sembra abbiano avuto per fortuna un buon effetto Ora guardo confortato il caro vecchio Archy tornato quasi vispo come prima E se ripenso al mio dirotto pianto mi viene il dubbio che non per il mio fido amico quel mare di lacrime io ho versato quanto per me stesso (ed un po’ me ne vergogno) Forse la sua condizione mi aveva proiettato con un certo anticipo del buio fatale tunnel all’imbocco

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La vita, il suo fascino, i suoi dolori Piange la vita che viene alla luce soffre la vita nel tempo che muore Tra l’inizio e la fine vicende differenti di vario sapore momenti soavi pieni di gioia ed ore amare nel segno del dolore Ai più comunque vivere piace e pure chi certo non può dirsi felice al mondo si aggrappa più che l’edera tenace Fin quando la vita pur travagliosa qualcosa di buono concede quasi nessuno la vorrebbe lasciare Poi la vecchiaia con tutti i suoi fastidi a farla finanche odiare pian piano provvede Ha dunque una funzione per gli umani la non lieve sofferenza Un po’ meno sgradita rende a ciascuno l’ineluttabile fatale dipartita

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Mirabile visione Complice Morfeo mi ritorna sovente assai gradita mirabile visione In un bel prato verde cosparso di fiori di mille colori sullo sfondo azzurro e trasparente animato d’alberi ondulanti con le cime all’in giù rivedo all’improvviso LEI in piedi splendente velata di nebbia La veste è a terra morbido scalino dove poggiare riverente il ginocchio e mormorare a fior di labbra una preghiera

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Primavera Poesia di

Mimmo Di Stefano

Docente di Lettere, poeta Puntuali al suono di un magico flauto germogliano tenere gemme e petali rosati sui rami di pesco. Ondeggia lieve al mite zefiro lo svettante ciliegio già fiorito e gioca con la sfilacciata nuvoletta da un tiepido sole attraversata. Volano zigzagando le farfalle leggiadre danzatrici colorate. Svolazzano nel cielo nere rondini ritornate per istinto al vecchio nido. Suggono il nettare api laboriose, sono al lavoro formiche operose. Vortici d’insetti tra i noccioli son modellati dal vento leggero. Tutta la natura grida alla vita. Ma chi dipinge di verde i prati, chi dà ai fiori luminosi colori e ordina agli uccelli i canti più belli?

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Fiore di zucca Poesia di

Mimmo Di Stefano Da pianta flessibile e strisciante sboccia col buio della notte il fiore di zucca, guardando verso il cielo. Teme di giorno il sole: si chiude, dorme, sogna. Breve il suo profumo, la vita.

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Gli alberi Poesia di

Mimmo Di Stefano Sono il sorriso d’Amore Infinito, che del suo palpito anima il tutto. Intorno ad essi fiorirono miti, in cui si fondeva il mistero di vita. Furono sacri agli dei immortali: l’olivo ad Atena, la vite a Bacco, il melograno a Era, l’alloro a Febo, il frassino alle Melìadi, la quercia a Zeus. Campioni di longevità, nel tempo furon garanti degli impegni assunti, chiamati a testimoni d’alleanze da governanti e condottieri armati. Il tiglio di Macugnaga garantì le sagge decisioni popolari, come in molte regioni teutoniche consacrò i patti di compravendita. Il “Castagno dei Cento Cavalli” di Sant’Alfio protesse regina e scorta e il pino di Sant’Eufemia d’Aspromonte vide ferito l’Eroe dei due mondi. Tra i silenzi e l’ombra delle piante meditabondi si fermaron i Santi, tesero orecchio in mistiche ascensioni oltre il breve suon del nostro moto. Nel folto bosco del Subasio pregò e sul monte Verna il Santo d’Assisi ebbe la visione del Crocifisso, che di stimmate segnò gli arti e il petto.

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Il santo Antonio da Lisbona nell’amena campagna padovana si fece costruire una capanna su un alto noce in Camposampiero. L’“Olivo di Sant’Emiliano” di Trevi assistette alla preghiera e al martirio; sotto il “Faggio Santo” di Vallombrosa quiete trovò Giovanni Gualberto. Fruscianti monumenti naturali, polmoni verdi della nostra vita, filtrano fumi e polveri nocive di ciminiere e scappamenti d’auto. Saldi con le radici fino all’Ade trattengono il terreno dalle frane, sfidano l’irosa tramontana, ospitano i canori tra le chiome. Svettano le cime fino al cielo, profumano di fiori a primavera. Quanta delizia c’è nei loro frutti, che maturano al sole a poco a poco! Sotto le piante della mia campagna bambin giocai giulivo e spensierato e segreti e sogni a loro confidai. O ombra amica di quei fronzuti alberi!

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L’ortolano, mio vicino Poesia di

Mimmo Di Stefano Oggi il vecchietto, che zappa l’orto, ha sulla testa il berretto storto. Un solco traccia dalla sorgente, ma una fitta sente assai pungente. Quel suo dolore, quel suo tormento lo tiene per sé, non l’affida al vento. Chiude nel cuore il malumore. Poi guarda il sole col suo splendore, pensa alla vita, che gli é sfuggita e s’è girata come una ruota. Ricorda il padre: alla sua età se n’é andato nell’aldilà. Come sua madre gli ha insegnato, ringrazia Iddio per quel che ha donato, per la famiglia che ha formato, per tutti i frutti che ha raccolto. Poi si ripiega per il dolore, guardando il sole col suo splendore. 120


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Comunicato stampa Rivista letteraria Arenaria n. 4/2014 Diretta da Lucio Zinna “Arenaria”, fondata nel 1984 a Palermo da Giovanni Cappuzzo e Lucio Zinna come “rivista mediterranea di letteratura”, prosegue in internet la sua terza serie, nella nuova configurazione di “collana di volumi collettanei di letteratura moderna e contemporanea” (www.quadernidiarenaria.it), in continuità con la seconda serie cartacea, voluta e diretta da Lucio Zinna, che ne è stato ed è il curatore. È uscito recentemente il quarto volume, che presenta, nella sezione “Saggi”, un profilo storico-critico di Marina Caracciolo sulla grande poetessa messicana del Seicento Juana Inés de la Cruz, una “meditazione” di Carmen De Stasio su Vincenzo Consolo e un’ampia e articolata analisi di Domenico Muscò sul romanzo Canditi e caffè caldo di Riccardo Bardotti. Nella sezione “Archivi”, Nicola Romano narra di un incontro con Mario Luzi, avvenuto nel 1993, traendone motivo per soffermarsi sulla poesia dei quaranta anni, con riferimento al noto testo luziano “Nell’imminenza dei quarant’anni” (da Onore del vero del 1957) e al poemetto, del 1960, Capo Quaranta, del poeta casentinese, anch’egli scomparso, Vittorio Vettori. Lucio Zinna traccia un excursus della pluridecennale e intensa produzione poetica di Carmelo Aliberti, ponendone in evidenza alcuni motivi ricorrenti, quali l’attenzione al “negativo esistenziale” e “l’impegno etico”. La nuova sezione “Primo piano”, riservata a un poeta contemporaneo di particolare rilievo, è dedicata a Guido Oldani, di cui sono pubblicate poesie inedite “per un realismo terminale”. In “Antologia”, poesie inedite di Gianmario Lucini, Ivan Pozzoni, Anna Vincitorio, V.S. Gaudio, con un racconto di Carmen De Stasio. Apre la sezione “Arene e Gallerie” Marco Scalabrino con una singolare “intervista immaginaria” al decano dei poeti siciliani, Salvatore Camilleri, sul suo poema La Barunissa di Carini, mentre Matteo Veronesi si intrattiene sulle “singlossie senza immagini” di Ignazio Apolloni. In “Girolibrando” sono riproposti testi poetici di Vincenzo Anania, Giorgio Bonacini, Lucetta Frisa e Primo Levi. Il volume si conclude con le consuete sezioni dedicate ai libri: “La battola” (schede di informazione libraria), “Scaffale” (recensioni a firma di Marina Caracciolo, Mirella Genovese, Maria Grazia Insinga, Paolo Ragni e Sergio Spadaro) e “Segnalazioni librarie”.

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