Filo, trama, tessuto. Linguaggi dell'arte contemporanea

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Rachele Burgato

Filo, Trama, Tessuto Linguaggi nell’Arte Contemporanea


Elaborato Finale Corso di Laurea Magistrale in Teatro e Arti Visive Percorso Arti Visive Rachele Burgato, matr. 276926 Anno Accademico: 2013/ 2014 Relatore: prof. Paolo Garbolino Correlatrice: prof.ssa Angela Vettese Sessione di Laurea: Marzo 2015

In copertina: Alighiero Boetti, Tutto, 1989.


Rachele Burgato

Filo, Trama, Tessuto Linguaggi nell’Arte Contemporanea



Indice

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Introduzione

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1. Prodromi di un discorso tessile

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2. Antiform come inizio di un percorso

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2.1 Robert Morris 2.2 Eva Hesse 2.3 Alighiero Boetti 2.4 Marisa Merz

3. Pop art, Neo Pop, consumismo e moda

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1.1 Futurismo 1.2 Costruttivismo 1.3 Bauhaus 1.4 Dada

3.1 Claes Oldenburg 3.2 Silvie Fleury 3.3 Mike Kelley 3.4 Rosemarie Trockel

4. Propensione alla soggettivitĂ e al trauma personale

4.1 Louise Bourgeois


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4.2 Tracey Emin 4.3 Yayoi Kusama 4.4 Kimsooja

5. L’inevitabile decoratività e femminismo

5.1 Magdalena Abakanowicz 5.2 Ghada Amer 5.3 Annette Messager 5.4 Miriam Schapiro

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Conclusioni

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Bibliografia Sitografia




Introduzione

Parlare di arte contemporanea in relazione al tessuto necessita una precisazione sulle possibili direzioni da seguire e quale, tra le altre, si è deciso di percorrere con questa tesi. Il periodo di riferimento preso in esame sarà quello che parte dai primi del Novecento e che arriva fino ai giorni nostri: poiché è in questa parentesi temporale che il rapporto tra arte e tessuto diviene via via più consolidato. Una fondamentale distinzione da compiere riguarda la suddivisione di questa categoria in due sistemi: da un lato i protagonisti della Fiber Art, corrente che nasce attorno agli anni Sessanta, dove viene prediletto esclusivamente l’utilizzo della fibra come medium artistico e dall’altro i risultati raggiunti da artisti che occasionalmente hanno utilizzato il tessuto all’interno della propria ricerca, ma senza farne il loro mezzo d’eccellenza. Sarà proprio in quest’ultima direzione che si inizieranno a mappare gli sviluppi e gli utilizzi di questa pratica all’interno dell’arte contemporanea, con il fine di analizzare alcuni tra i significati attribuiti alla fibra e all’azione del cucito, secondo differenti approcci artistici. Si tenterà quindi di superare la percezione ormai consolidata che attribuisce a queste azioni una connessione con questioni di genere, sostenute, a partire dagli anni Settanta, da gruppi di artiste femministe. Non si vorrà escludere totalmente questa prospettiva, ma sarà una tra le tante declinazioni possibili all’interno di un panorama più vasto. Se si analizza in modo più attento la relazione tra fibra tessile e arte, ci si accorge di quanto siano state da sempre strettamente connesse: il supporto più utilizzato dal pittore è la tela, che nel corso del tempo è stata dipinta, lasciata bianca, rappresentata, tagliata, ricucita; o ancora in abito filosofico, e soprattutto in estetica, si è spesso fatto uso di metafore che riguardavano il mondo tessile. C. S. Peirce ha più volte citato la metafora del cavo formato dall’intreccio di più fibre che, pur non coprendo singolarmente l’intera lunghezza della corda, ne costituiscono la totalità, intrecciandosi. Spesso questa riflessione è stata utilizzata per parlare dell’impossibilità dell’arte di essere definita a partire da caratteristiche comuni a tutte le tipologie di opere d’arte,

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che, allo stesso modo delle fibre possono intrecciarsi in varie combinazioni sempre differenti senza soluzione di continuità. Ludwig Wittgenstein, che all’età di dieci anni aveva costruito una macchina da cucire in legno perfettamente funzionante, riprende in parte la metafora di Peirce, parlando della trama del tessuto, che deve la sua forza all’intreccio dei fili che la compongono. “è come per una fune: la sua forza non sta nelle singole fibre ma nel sovrapporsi di tante di esse.”1 Nel 1919, quando Duchamp crea il suo primo Readymade, oggetto preso dal mondo ed esposto come opera d’arte, sceglie questo termine dal mondo sartoriale, con riferimento all’abito prodotto industrialmente, contrapposto all’abito confezionato a mano. I fratelli Lumiére, prima di inventare il film sognano una macchina da cucire e forse, proprio per questo, il montaggio filmico può essere interpretato come una cucitura di immagini, riflessione che vede Frankenstein, l’entità composta da varie parti del corpo cucite tra loro e portato alla vita dall’elettricità del fulmine, come una perfetta metafora del film.2 All’interno dell’arte contemporanea l’utilizzo della fibra e del tessuto ha avuto una storia complessa, che parte originariamente dall’ambito dell’outsider art, un mondo quindi artigianale, secondo una visione che opponeva arts and crafts, appunto. Il problema è stato quello di sdoganare il mezzo, di non lasciarlo relegato al mondo dell’artigianato ma di farlo evolvere come linguaggio autonomo, rispetto all’utilizzo legato alle produzioni tessili artigianali. In questo procedimento il ruolo della donna è stato fondamentale, da sempre figura legata a questo medium, spesso addirittura relegata ad esso ed impossibilitata ad esprimersi in altro modo. La scuola del Bauhaus ne è un esempio: Anni Albers, la prima artista ad esporre opere tessili in un contesto ufficiale come quello del Moma, aveva dovuto frequentare il laboratorio tessile della scuola tedesca, poiché le altre arti non erano aperte alle donne. Per comprendere come l’utilizzo di questo mezzo sia riuscito a declinarsi all’interno del circuito dell’arte ufficiale, possiamo prendere ad esempio le riflessioni di Arthur Danto, uno dei più significativi esponenti del pensiero estetico analitico, che nel saggio Reflections on Fabric and Meaning: the Tapestry and the Loincloth3, organizza un discorso a proposito del significato del tessuto come medium artistico. Il pensiero di Danto si caratterizza principalmente dall’idea che l’oggetto artistico incorpori un significato, diventando una metafora del contenuto dell’opera. Da quando il significato artistico si è liberato dal criterio pittorico rappresentazionale, si è potuto parlare di presentazione e quindi di utilizzo di elementi che traevano la loro significazione dall’utilizzo e dalla funzione che avevano nella vita di tutti i giorni e non nel contesto artistico. Il tessuto e l’abbigliamento fanno parte di questo caso specifico. Danto parla per esempio del vestiario scelto dal Mahatma Gandhi per la sua lotta non violenta contro la dominazione inglese, che è stato un simbolo per l’indipendenza dell’India dal modello culturale ed economico di stile occidentale, che imponeva l’importazione di prodotti tessili dall’Inghilterra. La scelta di Gandhi quindi, spesso raffigurato affianco ad un telaio tradizionale, contribuiva a rafforzare l’idea di una volontà di indipendenza dall’Inghilterra, ma allo stesso tempo era anche uno strumento effettivo di lavoro per consentire al suo popolo di rendersi autonomo e di sviluppare una propria attività economica. In questo senso gli indumenti 1 J. Heaton, J. Grooves, Wittgenstein: per cominciare, Feltrinelli, Milano 1994, p. 131. 2 P. A. Michaud, Ciclo di conferenze, L’origine del Film, aprile-maggio 2014, IUAV, Venezia. 3 A. Danto, Reflections on fabric and meaning: the tapestry and the loincloth, in M. B. Stroud, New material as new media. The fabric workshop and museum, The MIT Press, Cambridge, 2003.

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utilizzati da Gandhi e dai suoi seguaci sono diventati un simbolo di indipendenza dal sistema industriale, che aveva reso l’Inghilterra una potenza coloniale. L’indumento di Gandhi è espressione di un messaggio proprio perché è legato all’utilizzo che ne viene fatto nella quotidianità, e sarebbe difficile pensarlo come tale se fosse inserito in un contesto differente. “Clothing does not simply cover our nakedness - it comunicates a dense array of information, which individuals who share a form of life are able to read and to integrate into differential sets of actions and attitudes toward its wearers.”4 Allo stesso modo dobbiamo vedere l’opera d’arte come veicolo di un significato e se il tessuto, la tappezzeria, il decoro sono spesso stati considerati forme di outsider art è proprio perché attraverso quell’utilizzo non riuscivano ad essere espressione di un significato. L’artigianato si è sempre contrapposto all’idea di prodotto industriale, fatto in serie; per questo le sue caratteristiche sono l’hand-made, l’unicità del prodotto, anche come espressione di una critica della società dei consumi. L’arte invece parte dal presupposto che anche la fattura industriale può veicolare un certo tipo di messaggio e quindi può essere scelta come possibilità formale. Ne sono un esempio le scelte compiute da artiste come Liubov Popova, artista sovietica che si serve di tessuti industriali, ma da lei disegnati, per la confezione di abiti o Rosmarie Trockel, che decide di far produrre in serie i suoi copricapi balaclava. Trockel e Popova, vedono nella tessitura industriale un metodo significativo e formalmente attinente a quello che doveva essere il messaggio da veicolare: per Popova un modo per rifiutare i canoni della pittura da cavalletto, per inserire l’arte all’interno della vita (funzionalità dell’oggetto) e per proseguire verso una prospettiva che vede la meccanizzazione un processo indispensabile per quella che allora era intesa come la nuova società sovietica. Per Trockel un modo ironico per sdrammatizzare l’elemento del balaclava come oggetto legato al terrorismo. Seguendo i due nodi problematici del rapporto tra gli elementi del tessile e l’arte contemporanea, e dell’autonomia del mezzo tessile rispetto ai circuiti artigianali, si ripercorrerà il percorso che ha portato il tessuto a diventare un linguaggio artistico da poter interpretare in modo analitico. Il tessuto diviene quindi testo, linguaggio dotato di regole proprie, legato a determinati significati sociali, antropologici, mitici. Se partiamo dall’etimologia della parola testo, dal latino textum - texere (tessere), comprendiamo che il testo, insieme di parti che si uniscono in un discorso, in un messaggio unitario, condivide molte regole di funzionamento con i procedimenti utilizzati per intrecciare dei fili con lo scopo di crearne un tessuto. Sono dei rapporti ordinati, che seguono un andamento, divengono dispositivo di creazione. Pensare é come filare, cioè estrarre da una matassa confusa di pensieri un filo lineare e coerente, col quale intrecciare testi come tessuti. Parlare di tessuto come testo implica un ragionamento su tutte le metafore, legate al filo e alla sua organizzazione in tessuto, che vengono utilizzate in ambito linguistico. Molti filosofi, letterati, poeti sono partiti da questi modi linguistici per esprimere concetti e pensieri, come Roland Barthes, che in Il senso della moda5, analizza il sistema dell’abbigliamento a partire da strutture di ordine linguistico. E se in semiotica si indica con la parola testo qualsiasi oggetto di studio di cui dobbiamo 4 5

A. Danto, Reflections on fabric and meaning: the tapestry and the loincloth, op. cit., p.84. R. Barthes, Il senso della moda. Forme e significati dell’abbigliamento, Einaudi, Torino 2006.

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comprendere il messaggio, da decifrare attraverso i procedimenti della materia, che analizza i significati che il testo porta al suo interno in termini di percezione di elementi figurativi o plastici che lo determinano, perché non applicare questa metodologia all’analisi del tessuto, che porta già nella sua definizione una necessità in questi termini? Come interpretare invece il medium tessile nell’arte contemporanea? Che implicazioni ha nella creazione di senso dell’opera? Il tessuto come testo quindi, è potenzialmente scomponibile in tutte quelle parti analizzabili, legate alla forma al colore, alle immagini che lo compongono e che veicolano dei messaggi. Nel testo tutto comunica, tutto è forma significante, il testo è un linguaggio che deve essere tradotto secondo le regole che lo determinano. Se L. Wittgenstein parla del filo come una forma solida, composta dall’intrecciarsi di più pezzi che ne determinano la struttura, Michel Foucault ragiona all’inverso, sostenendo anni dopo (siamo nel 1969 quando scrive Ariane s’est pendue6, e quindi in un contesto diverso a quello del cosiddetto secondo Wittgenstein) che il filo del pensiero che doveva essere così robusto si è spezzato e, reinterpretando il mito di Arianna, analizza il suo personaggio, che, dopo essere stato abbandonato da Teseo, si perde, impazzisce e si impicca (con una corda) obbligando a riscrivere tutta la storia del pensiero occidentale.7 Un filo che segna l’abbandono e l’insicurezza: una significazione che ritornerà, vedremo, in alcuni artisti (Louise Bourgeios, Kim Sooja) che proprio dalla seconda metà del Novecento utilizzano il tessuto in modo risanatore e in qualche modo guaritore: un’azione di ricostruzione a partire dalla lacerazione dovuta al trauma. Così come il ragno di J. J. Rousseau, stando al centro della sua creazione, la ragnatela, si accorge se in qualche punto essa è danneggiata e corre subito a ripararla, allo stesso modo della ferita del trauma, la riparazione psicologica passa in questo caso attraverso il rituale della cucitura. “Quando vedo queste persone credo di vedere un piccolo insetto formare con la propria sostanza una grande tela, che sola lo fa apparire sensibile mentre lo si potrebbe credere morto nel suo buco. La vanità dell’uomo è la tela di un ragno che egli estende su tutto ciò che lo circonda. L’una è tanto solida quanto l’altra, e il minimo filo che si tocca mette l’insetto in movimento; morirebbe di inedia se si lasciasse la tela tranquilla, ma se la si lacera con un dito il ragno finirà per esaurire le proprie forze piuttosto che non rifarla al momento.”8 Il ragno crea da sé il materiale da cui iniziare la sua opera, allo stesso modo l’artista parte dal trauma personale per strutturare il suo percorso artistico. Eraclito paragona l’anima al ragno e il corpo alla tela: ”Attraverso i fili della ragnatela sembra passare quel flusso continuo che costituisce per Eraclito il carattere essenziale della realtà”9. Ed è proprio la realtà traumatica, che, non potendo emergere in un modo diretto, palesandosi esplicitamente, ritorna a seguito di una continua ripetizione che passa attraverso il montaggio di più parti e che proprio da esse riesce a trasparire, a riemergere dagli intervalli, dalle feritoie che esistono tra un pezzo e l’altro dell’abito concettuale che l’artista sta confezionando. Il ragno di Rousseau, è simile a quello interpretato dal pensiero di Derrida, che parla di un essere capace di autoprodurre le sostanze che servono alla creazione. Non a caso il poeta 6 7 8 9

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M. Foucault, Ariane s’est pendue, Le Nouvel Observateur, n 229, 31 marzo - 6 aprile 1969, pp. 36 - 37. cfr. F. Rigotti, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 35. J. J. Rousseau, Emilio, cit. in ivi, p. 43. Ivi, p. 50.


è spesso associato alla figura del ragno o del baco da seta, che ordiscono a partire da un pensiero autonomo e personale, al contrario delle api, che producono partendo da materiali che trovano nell’ambiente e che elaborano per creare nuovi prodotti. “Il rapporto ape-ragno servì fin dall’antichità a evidenziare quello tra originalità e imitazione: a vincere, nel senso di fare la figura migliore, fu prevalentemente l’ape, il cui prodotto è dolce e utile, anche se non completamente originale. Il filo del ragno invece è originale sì, ma anche effimero e inutile (se non al ragno), quando non velenoso.”10 In qualche modo questa credenza si riversa nella scrittura di J. Swift che ne La battaglia dei libri, descrive l’intervento di Esopo nei confronti dei poeti moderni e antichi, paragonando alla letteratura moderna i ragni e a quella antica le api. “Il ragno, spiega padre Esopo, è paragonabile ai poeti moderni, che non vogliono essere debitori a nessuno delle loro produzioni, ma le cui costruzioni si rivelano fragili. Gli antichi, invece, come le api, hanno solo ali e voce, cioè la loro ispirazione e la loro lingua, con le quali formano i prodotti più fini, quali miele e cera.”11 Simile è anche il ragionamento di Bacone, che invece trasporta la metafora verso il mondo filosofico, attribuendo l’attitudine di originalità e autonomia del ragno ai filosofi razionalisti, mentre è degli empiristi, che ammassano informazioni e poi le rielaborano, la figura dell’ape. Ne La Nausea12, Sartre indica come sostanza vischiosa, molle e simile alla tela del ragno l’esperienza esistenziale, mentre secco e stabile è il mondo della coscienza. Il suo SpiritoRagno è un essere che non espelle ma fagocita il filamento, azione conoscitiva della realtà, e deglutendola vuole negarle il suo carattere di solidità. Letteratura, filosofia e poesia hanno sostenuto una connessione tra testo e tessuto, relazione che viene rafforzata dall’azione di alcuni artisti che utilizzano l’azione del cucito per scrivere, seguendo tre principali strategie operative: “- è un attacco all’autonomia dell’immagine. Il testo diventa metaforicamente uno strumento inteso a esplorare la separazione tra mondo a disposizione e l’immagine che si vuole analizzare o che si riesce ad ottenere. - Il testo, in quanto subdirectory addizionale all’immagine, contribuisce alla riuscita di un progetto aumentandone la percentuale di ambiguità semantica. L’opposizione testo-immagine crea uno spazio nel quale lo spettatore è immediatamente invitato a considerare possibili sotto-testi significativi che convivono con le caratteristiche di seduzione dell’immagine. - Se usato da artiste il testo domina l’immagine, o diventa immagine, asserendo di conseguenza un ruolo predominante della discorsività e lasciando simbolicamente intendere un riconoscimento della consistente tradizione della scrittura femminista”.13 Si cercherà quindi di comprendere, attraverso una piccola fenomenologia del filo, utilizzato come pratica nell’arte contemporanea, come il tessuto sia divenuto linguaggio artistico. Si analizzeranno diversi ambiti artistici di utilizzo del tessuto, che diventa dispositivo linguistico per narrare diversi sviluppi narrativi: il filo legato al tempo, al trauma, alla condizione femminile, alla memoria personale... Non interessa un’analisi esaustiva e sistematica di tutti gli artisti 10 Ivi, p. 54. 11 J. Swift, La battaglia dei libri, cit. in ivi, p. 61. 12 J. P. Sartre, La nausea, Einaudi, Torino 2014. 13 E. De Cecco, Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, Postmedia Books, Milano 2002, p. 40.

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che ne hanno fatto uso, ma una mappatura, che procede per frammenti e che non segue solamente una temporalità lineare, ma piuttosto ripercorre una logica legata a dei gruppi di senso, a delle familiarità di intenti, creati a partire dalle differenti declinazioni del mezzo all’interno della pratica artistica. Una decostruzione a partire dalle caratteristiche di questo linguaggio, per prendere coscienza di cosa ha significato durante il corso degli anni, da parte di uomini e donne lo sviluppo di opere d’arte che hanno coinvolto gli elementi presi dal mondo tessile.

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1. Prodromi di un discorso tessile

Nei primi tre decenni del Novecento il panorama dell’arte europea viene letteralmente sconvolto dal fenomeno delle Avanguardie. Il termine indica l’insieme dei numerosi movimenti che, a partire dal 1905, si impongono sulla scena artistica internazionale, con lo scopo dichiarato e programmatico di sovvertire i valori, i contenuti e soprattutto il linguaggio dell’arte tradizionale, per aprire nuove strade di ricerca e conferire un significato nuovo allo stesso concetto di arte. Le avanguardie degli anni Dieci rappresentano nella storia dell’arte una frattura, legata alla diffusione dell’industrializzazione, alle scoperte scientifiche, cesura che investe anche i metodi operativi e materiali dell’opera. La prima innovazione tecnica che le avanguardie introducono è il collage, composizione di materiali diversi su un supporto, prelievo di materiali extrartistici e il loro montaggio sullo spazio della rappresentazione. Il collage nega la manualità della pittura ed esalta la scelta, la possibilità di conferire un significato a materiali poveri e di scarto. Un andamento comune alle avanguardie, dal Futurismo, al Costruttivismo, al Dada, è la volontà di indagare nuovi mezzi prelevati da ambiti esterni a quello artistico, materiali tecnici, tra cui anche il tessuto declinato a volte nell’abito.

1.1 Futurismo Il Futurismo, che nasce in Italia nel 1909 circa, è una corrente che tende ad allontanarsi da un’arte legata alla rappresentazione fedele alla realtà, basando quindi la sua ricerca sulla resa visiva degli effetti di velocità e di movimento. La città di inizio Novecento muta il modo di vivere lo spazio e quindi di percepirlo. La nascita

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di mezzi di trasporto come l’automobile, il tram o l’aereo permette di osservare il contesto mentre ci si sposta, facendone apparire le sfumate, la non fissità dell’immagine, e dando l’idea di una potenziale compenetrazione tra oggetti e piani. L’arte, secondo la visione dei Futuristi, deve confrontarsi con queste nuove modalità di percezione, assimilandole, ragionando sulla possibile rappresentazione di un mondo che aveva iniziato ad apparire sotto un’altra prospettiva. Questa necessità si accompagna quindi ad una nuova proposta artistica antiaccademica, che vuole depurare gli occhi falsati dall’abitudine, seguendo uno spirito antirealista che coinvolge pittura, poesia, e anche la scultura. “Proclamare che nell’intersecazione dei piani di un libro con gli angoli d’una tavola, nelle rette di un fiammifero, nel telaio di una finestra, v’è più verità che in tutti i grovigli di muscoli, in tutti i seni e in tutte le natiche di eroi o di veneri che ispirano la moderna idiozia scultoria.”14 Con questa dichiarazione Umberto Boccioni, sottolinea come ci sia bisogno di un rinnovamento nel modo di fare arte, che non può più essere relegata ai canoni antichi. La volontà è quella di far emergere l’aura degli oggetti, intesa come atmosfera che li circonda, partendo dal loro nucleo centrale per andare verso l’ambiente dove sono inseriti, per scoprire quello che Boccioni chiama trascendentalismo fisico. É un’analisi, quindi, di come gli elementi plastici si confondono con lo spazio, e si lasciano intersecare da altri oggetti, secondo le regole della nuova visione dinamica, che va oltre la continuità delle linee che compongono le cose. L’interesse si sposta non tanto nel valore figurativo della cosa rappresentata, quanto in un’emersione della forma, della plasticità e dei volumi, ricerca che si sviluppa declinandosi all’interno di varie discipline, la politica, l’architettura, il design, la pubblicità e la moda. Nel 1922 i pittori Giacomo Balla e Fortunato Depero, iniziano ad interessarsi alle tappezzerie, ai tessuti e agli abiti, indirizzando la loro attenzione verso la creazione dell’abito futurista e proprio nel manifesto Il vestito antineutrale Balla proclama: “L’umanità si vestì sempre di quiete, di paura, di cautela o d’indecisione, portò sempre il lutto, o il piviale, o il mantello. Il corpo dell’uomo fu sempre diminuito da sfumature e da tinte neutre, avvilito dal nero, soffocato da cinture, imprigionato da panneggiamenti. Fino ad oggi gli uomini usarono abiti di colori e forme statiche, cioè drappeggiati, solenni, gravi, incomodi e sacerdotali. Erano espressioni di timidezza, di malinconia e di schiavitù, negazione della vita muscolare, che soffocava in un passatismo anti-igienico di stoffe troppo pesanti e di mezze tinte tediose, effeminate o decadenti. Tonalità e ritmi di pace desolante, funeraria e deprimente. Oggi vogliamo abolire: 1- Tutte le tinte neutre, “carine”, sbiadite, fantasia, semioscure e umilianti. 2- Tutte le tinte e le foggie pedanti, professorali e teutoniche. I disegni a righe, a quadretti, a puntini diplomatici. 3- I vestiti da lutto, nemmeno adatti per i becchini. Le morti eroiche non devono essere compiante, ma ricordate con vestiti rossi. 4- L’equilibrio mediocrista, il cosiddetto buon gusto e la cosiddetta armonia di tinte e di forme, che frenano gli entusiasmi e rallentano il passo. 5- La simmetria del taglio, le linee statiche, che stancano, deprimono, contristano, legano i 14 U. Boccioni, Manifesto Tecnico della Scultura Futurista, Milano, 11 aprile 1912, cit. in F. Tedeschi, Il Futurismo nella Arti Figurative. Dalle origini divisioniste al 1916, Pubblicazioni dell’ISU Università Cattolica, Milano 1995, p. 149.

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muscoli; l’uniformità di goffi risvolti e tutte le cincischiature. I bottoni inutili. I colletti e i polsini inamidati. Noi futuristi vogliamo liberare la nostra razza da ogni neutralità, dall’indecisione paurosa e quietista, dal pessimismo negatore e dall’inerzia nostalgica, romantica e rammollante. Noi vogliamo colorare l’Italia di audacia e di rischio futurista, dare finalmente agl’italiani degli abiti bellicosi e giocondi. Gli abiti futuristi saranno dunque: 1- Aggressivi, tali da moltiplicare il coraggio dei forti e da sconvolgere la sensibilità dei vili. 2- Dinamici, pei disegni e i colori dinamici delle stoffe (triangoli, coni, spirali, ellissi, circoli), che ispirino l’amore del pericolo, della velocità e dell’assalto, l’odio della pace e dell’immobilità. 4- Semplici e comodi, cioè facili a mettersi e a togliersi, che ben si prestino per puntare il fucile, guadagnare i fiumi e lanciarsi a nuoto. 5- Igienici, cioè tagliati in modo che ogni punto della pelle possa respirare nelle lunghe marce e salite faticose. 6- Gioiosi. Stoffe di colori e iridescenze entusiasmanti. Impiegare i colori muscolari, violentissimi, turchinissimi, verdissimi, gialloni, arancioni, vermiglioni. 7- Illuminanti. Stoffe fosforescenti che possono accendere la temerità in un’assemblea di paurosi, spandere luce intorno quando piove, e correggere il grigiore del crepuscolo nelle vie e nei nervi. 8- Volitivi. Disegni e colori violenti, imperiosi e impetuosi come comandi sul campo di battaglia. 9- Asimmetrici. Per esempio, l’estremità delle manche e il davanti ella giacca saranno a destra rotondi, a sinistra quadrati. Geniali contrattacchi di linee. 10- Di breve durata, per rinnovare incessantemente il godimento e l’animazione irruente del corpo. 11- Variabili, per mezzo dei modificanti (applicazioni di stoffa di ampiezza, spessori, disegni e colori diversi) da disporre quando si voglia e dove si voglia, su qualsiasi punto.”15 Tra i protagonisti del movimento compare anche Fortunato Depero, che ha utilizzato il tessuto non solo in ambito sartoriale ma anche per la creazione dei suoi famosi collage di stoffe colorate. L’avvicinamento di Fortunato Depero al Futurismo, avviene nel 1913, quando a Roma visita la mostra di Boccioni alla Galleria Futurista di Sprovieri, rimanendone profondamente colpito, iniziando a produrre un ciclo di schizzi dove l’influenza del maestro emerge nettamente. Il successivo incontro con Balla invece gli consente di entrare ufficialmente nel gruppo dei pittori e degli scultori futuristi, permettendogli di avvicinarsi ad un gusto per uno stile legato all’estetica secessionista, con opere dalla tendenza sintetico-astratta, costruite per giustapposizione di ampi piani cromatici e geometrici, che verranno successivamente sviluppati anche negli arazzi. Nel 1915 partecipa alla pubblicazione della Ricostruzione Futurista dell’Universo, manifesto che apre una nuova stagione del Futurismo, proponendo una fusione delle diverse arti e un maggior coinvolgimento dell’arte nella vita. 15 G. Balla, Il vestito antineutrale, 11 settembre 1914, cit. in http://www.futurismo.altervista.org/manifesti/vestitoAntineutrale.htm, (15.01.2015).

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La volontà di ricreare l’universo, sostituendo l’oggetto artistico alla realtà, costituisce la novità del manifesto. Viene, infatti, abbandonata l’esigenza di intervento nel reale, che aveva caratterizzato i proclami del movimento futurista fino a quella data, per un’arte che sostituisse la vita in perfetta coerenza estetica, come nei Complessi plastici costruiti con i più svariati materiali e dove compaiono per la prima volta anche le stoffe, così come i temi dei Balli plastici costituiscono il soggetto di dipinti e arazzi (I miei balli plastici, Passamani, Automi, Corteo della gran bambola), in cui l’artista esibisce un acceso cromatismo e forme piatte e stilizzate. Nel 1918, l’artista fonda la Casa d’arte Depero, dove può concentrare molteplici attività tra cui la fabbricazione dei suoi collage di stoffe colorate, originariamente incollati su cartone e poi cuciti a mano su tela grezza. In questi svariati prodotti Depero, aiutato dalla moglie, rielabora in ritmi decorativi, motivi favolistici e arcaici della produzione precedente. Lo scopo di queste produzioni – scrive Depero – “è in primo luogo di sostituire con intenzioni ultramoderne ogni tipo di arazzo-gobelin, tappeto persiano, turco, arabo, indiano, che oggi invade qualsiasi distinto ambiente; in secondo luogo e di conseguenza al primo, è di iniziare una necessaria e urgente creazione di un ambiente interno, sia salotto, sia salone teatrale o d’hotel, sia palazzo aristocratico, ambiente corrispondente ad una moda contemporanea, atto a ricevere poi tutta l’arte d’avanguardia che oggi è nel suo pieno sviluppo.”16

1.2 Costruttivismo Il Costruttivismo tenta di realizzare l’utopia del confronto diretto tra artisti e Rivoluzione. Non servono quadri, l’arte deve uscire dai propri orizzonti per confrontarsi con i materiali e i procedimenti della tecnologia della produzione. Le opere devono utilizzare l’acciaio e il vetro; devono poter essere riproducibili grazie a forme astratte e geometriche; devono contribuire all’emancipazione delle masse. Da Tatlin a Lissitsky a Rodcenko, gli artisti si vedono come ingegneri della società futura: non solo progettano opere d’arte ma si impegnano nella comunicazione, nella fotografia, nella cartellonistica, nella scenografia. I dipinti di Rodchenko, come più tardi le sue fotografie, studiano le relazioni tra superficie e forma, colore e spazio. I famosi Proun di Lissitsky, più che quadri sono proprio dei progetti di costruzione di una forma nuova. Celeberrimo è poi il Monumento alla III Internazionale di Tatlin, la torre spiraliforme, sede di radio e giornali, che doveva essere il simbolo dell’utopia concretizzata. è così forte la fiducia nelle possibilità concrete di trasformare la realtà attraverso l’arte, che i costruttivisti rifiutano di essere chiamati astratti e nel 1920 gli scultori Antoine Pevsner e Naum Gabo firmano il Manifesto del realismo per affermare la loro volontà di intervenire attraverso un arte che incide sul mondo reale. Ma questo termine assumerà tutt’altro significato intorno al 16 M. Scudiero, Depero. Attraverso il Futurismo, in M. Scudiero, D. Magnetti (a cura di), Depero futurista, catalogo della mostra, Torino, Palazzo Bricherasio, 2004, Mondadori Electa, Milano 2004, p. 20.

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1922 - 1923, quando dopo la morte di Lenin il regime impone agli artisti la retorica del realismo socialista, chiudendo progressivamente ogni via di sbocco per l’avanguardia. Nella straordinaria fucina di idee e realizzazioni della Russia negli anni Dieci, la presenza delle artiste è senz’altro tra le più cospicue dell’arte moderna. Anche se meno numerose dei loro colleghi, le pittrici sono presenti alle principali esposizioni e assumono un ruolo di primo piano nell’organizzazione di mostre, nella critica, nella sperimentazione linguistica. Natalia Goncharova, Olga Rozanova, Lioubov Popova, Alexandra Ekster, Varvara Stephanova, Nadelja Udalzova sono le maggiori esponeneti di questa corrente. Indipendenti e consapevoli dei propri risultati, scelgono i partner artistici con grande libertà, collaborano con pittori, poeti, scenografi dei gruppi d’Avanguardia e viaggiano spesso in Europa aggiornandosi sulle tendenze e i dibattiti più attuali: Goncharova ad esempio espone con il Blaue Reiter a Monaco, Udalzova e Popova soggiornano a Parigi, Rozanova espone a Roma con i futuristi. Quest’ultima, che Malevich indica come unica vera suprematista, giunge a teorizzare la necessità di una pittura non oggettiva già nel 1915, indipendentemente da Malevich stesso; nelle sue opere, similmente a quelle di altre donne artiste, è sempre dominante il colore, che pervade forme geometriche incastrate e sovrapposte. Negli anni della Rivoluzione il contributo delle donne artiste è fondamentale, per il tentativo di unire la cultura popolare alle ricerche formali dell’arte d’avanguardia: oltre a ricoprire diversi incarichi di insegnamento, esse fondano numerosi atelier in cui il decorativismo degli oggetti di folclore viene filtrato e reinterpretato dal linguaggio cubista, futurista, astratto. Popova, Stephanova, Ekster progettano tessuti, ricami, grafiche e scenografie. Non si tratta di un ripiego verso attività più convenzionalmente femminili, ma, celebrando l’aspetto utilitario della creatività artistica, esse saldano l’arte del popolo a quella per il popolo e danno vita a spazi di libera espressione che non sono facili da ricavare, né all’interno delle istituzioni né dei gruppi di ricerca artistica, comunque dominati dagli uomini. I principi di un nuovo spazio socio-culturale espressi dai manifesti futuristi e costruttivisti trovano una concretizzazione anche sul cotone stampato a motivi industriali. Nei pattern dei tessuti tornano le radici lontane, la memoria comune, quell’identità culturale alla quale guarda la società promossa dall’Avanguardia russa. “The prominence of embroidery in the work of avant-garde artists was due to the theories of the late nineteen century art movements in Russia. Artists in the 1870s had repudiated ‘art for art’s sake’, wanting to make art ‘useful’ to society. In their desires to revivify the fine arts and to create a new traditional culture they had turned to Russian peasant art, including embrodery.”17 L’arte per i costruttivisti deve fornire esperienze formali da impiegare nella produzione di oggetti e nella costruzione della vita: dall’arte alla creazione di opere alla costruzione di oggetti, dall’individualismo poetico al collettivismo produttivo, dal laboratorio all’industria. In quegli anni sorge anche il distretto tessile di Ivanovo dove Rozanova, Ekster, Goncharova e Popova sono impegnate nella realizzazione di prodotti che trovavano una costante soprattutto nella ricerca di matrice orientale. “Natalia Goncharova wrote, ‘I turned away from the West...for me the East means the creation of new forms, an extending and deeping of the problems of colour’ [...] Her claim that embroidery 17 R. Parker, The Subversive Stitch. Embroidery and the making of feminine, I. B. Tauris, London, New York 2011, p. 193.

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Varvara Stepanova, studi per tessuto, 1923 - 1924.

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extended and deepened problems of colour incidates that, as in the West, embroidery was seen as an essentially universal or intuitive medium.”18 Associando il ricamo ad aspetti funzionali e pratici legati al sentimento di riscoperta delle tradizioni della cultura russa, la visione romantica che veniva associata al ricamo viene trasformata dalle artiste dell’Avanguardia russa, impegnate nel diffondere la convinzione della Rivoluzione, che annunciava l’avvento di uno stile di vita nuovo, in cui l’artista sarebbe stato un membro integrato della società, occupato nella produzione e nel design industriale.

1.3 Bauhaus La scuola del Bauhaus, fondata nel 1919 a Weimer da Walter Gropius, è la prima scuola che persegue l’obiettivo di unire le discipline artigianali, architettoniche e di produzione industriale con l’arte, fondendo cioè il valore estetico di un oggetto, la sua bellezza, con la componente tecnica e funzionale. “In a world as chaotic as the European world after World War I, any exploratory artistic work had to be experimental in a very comprehensive sense. What had existed had proved to be wrong; everything leading up to it seemed to be wrong, too. Anyone seeking to find a point of certainty amid the confusion of upset beliefs, and hoping to lay a foundation for a work which was oriented toward the future, had to start at the very beginning. This meant focusing upon the inherent qualities of the material to be used and disregarding any previously employed device for handling it.”19 L’insegnamento è teso a proporre l’apprendimento di nuove tecniche artistiche, (oltre alle classiche pittura, scultura, incisione e grafica) come architettura e disegno industriale o campi di progettazione, sempre con tecniche di avanguardia, quali falegnameria, gioielleria, fotografia, scenografia e balletto. Sono inoltre presenti anche laboratori specifici per l’insegnamento dei metodi per la lavorazione dei materiali (legno, metalli e anche tessuti). Il campo d’applicazione preferito dalla scuola non è rappresentato dall’opera d’arte intesa tradizionalmente ma da oggetti d’uso quotidiano, in quanto il funzionalismo da concetto architettonico doveva diffondersi in tutte le discipline proposte dalla scuola. I professori del Bauhaus sono in primo luogo artisti, spesso famosi e in piena attività, maestri creativi capaci di stimolare gli allievi: tra i più noti vi erano i pittori Vasilij V. Kandinskij, Paul Klee, Josef Albers e lo scultore Oskar Schlemmer, quest’ultimo impegnato anche nella sezione delle scenografie teatrali; l’ungherese Laszlo Moholy-Nagy insegna nella sezione della lavorazione dei metalli, occupandosi inoltre di grafica. Il Bauhaus è fondamentale per lo studio del medium tessile e per la produzione di tessuti i cui disegni si sviluppano in stretto contatto con le influenze dell’arte astratta. Una delle caratteristiche principali è l’attenzione verso qualsiasi tipo di materiale e le sue caratteristiche.

18 Ibidem. 19 A. Albers, Weaving at the Bauhaus, cit. in http://www.albersfoundation.org/artists/selected-writings/anni-albers/, (07.01.2015).

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Tra i laboratori nasce anche quello di tessitura, frequentato soprattutto dalle allieve della scuola, a cui non era sempre permesso partecipare liberamente ad altre attività considerate meramente maschili. Molte donne si ritrovano così obbligate a lavorare con fili e telai per la creazione di tessuti e arazzi, anche se interessate a sviluppare conoscenze pittoriche o architettoniche. Anni Albers, tra queste, entra al Bauhaus con l’intento di approfondire la sua passione per la pittura, che abbandonerà una volta indirizzata verso il laboratorio di tessitura, dove segue le lezioni di design di Paul Klee, i cui insegnamenti influenzeranno moltissimo il lavoro di Anni con il tessuto fino a diventare lei stessa direttrice del laboratorio tessile della scuola. “One of the outstanding characteristics of the Bauhaus has been, to my mind, an unprejudiced attitude toward materials and their inherent capacities. The early, improvised weavings of that time provided a fund of means from which later clearly ordered compositions were developed, textiles of a quite unusual kind. A new style started on its way. Little by little the attention of the outside world was aroused and museums began to buy these weavings.”20 In questi anni, Albers entra in contatto con la produzione tessile precolombiana, con i tessuti andini, che ha potuto osservare nei musei etnografici in Germania. Ammirando le tecniche sudamericane, rimane incantata dalla loro particolare capacità di tessitura pittorica astratta, che utilizzava il filo come testo, portatore di contenuti e significati. Da questo stimolo inizia ad intraprendere dei viaggi in Messico, per comprendere meglio questo sistema di significazione. Nel 1933 a seguito della chiusura del Bauhaus, si trasferisce con il marito Joseph Albers negli Stati Uniti, dove insegna al Black Mountain College. Nel 1949 si tiene al Museum of Modern Art di New York la mostra Anni Albers Textiles, la prima retrospettiva dedicata al lavoro di un artista tessile mai organizzata da un museo. Un anno dopo gli Albers si spostano a New Haven, Connecticut, dove Anni continua a tessere, organizzare mostre e scrivere numerosi libri e articoli sulla sua attività tessile, come On Designing (1959) e On Weaving (1965). La grandezza di Anni Albers risiede nella forza propulsiva del suo messaggio, che si identifica nell’idea di arte come vita, nella ricerca esasperata del ritorno alla semplicità, alle origini, al grado zero che coniuga in sé passato presente e futuro. Anni trova nel tessuto il suo campo d’azione, dove esprimere appieno le proprie idee innovative. “Più di qualsiasi altro tessitore è stata in grado di suscitare una comprensione di massa della complessa struttura dei tessuti. Ha unito in un matrimonio di successo storico l’intuito scultoreo dell’artista e le antiche arti del tessitore.”21 è stata in grado di trasformare le prospettive tradizionali del mezzo espressivo legato alla tessitura, considerando i tessuti come architetture e tale affinità tra struttura tessile e costruzione degli edifici diviene anche uno dei temi ricorrenti nei suoi scritti, dove sostiene che i tessuti per interni si possono considerare come elementi architettonici, giungendo a definire il tessere come un processo di organizzazione strutturale. “What I had learned in handling threads, I now used in the printing process. [...] My prints are not transfers from paintings to color on paper as is the usual way. I worked with the production process itself, mixing various media, turning the screens. What I am trying to get across is that 20 Ibidem. 21 N. F. Weber, Introduzione in Anni Albers, N. F. Weber, P. Tabatabai Asbaghi (a cura di), Anni Albers, Guggenheim Pubblications, New York, 1999, p. 9, cit. in http://www.archiviocrispolti.it/download/albers.pdf, (02.02.2015).

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Anni Albers, campione di tessuto, 1923.

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material is a means of communication. That listening to it, not dominating it makes us truly active, that is: to be active, be passive. The finer tuned we are to it, the closer we come to art. Art is the final aim.”22 Albers riesce ad operare un trasferimento dal medium tessile a quello pittorico: la caratteristica dei materiali, come la luce riflessa dal tessuto o la sua capacità di assorbimento del suono, è infatti al centro delle sue ricerche. “The crafts, understood as conventions of treating material, introduce another factor: traditions of operation which embody set laws. This may be helpful in one direction, as a frame for work. But these rules may also evoke a challenge. They are revokable, for they are set by man. They may provoke us to test ourselves against them. But always they provide a discipline which balances the hubris of creative ecstasy. All crafts are suited to this end, but some better than others. The more possibilities for attack the material offers in its appearance and in its structural elements, the more it can call forth imagination and productiveness. Weaving is an example of a craft which is many-sided. Besides surface qualities, such as rough and smooth, dull and shiny, hard and soft, it also includes color, and, as the dominating element, texture, which is the result of the construction of weaves. Like any craft it may end in producing useful objects, or it may rise to the level of art.”23

1.4 Dada Gli artisti coinvolti nella corrente Dada credono, così come le altre Avanguardie del periodo, nella distruzione della separazione tra arte e arti applicate, pensando che questo superamento porti verso una concezione di arte connessa alla società e alle necessità della popolazione. La corrente apre uno spazio significativo all’arte delle donne e alle loro particolari capacità nelle attività tradizionali e della sfera domestica, che vengono inserite all’interno dell’arte ufficiale, accordando loro una nuova importanza. Nel movimento Dada, per esempio, la volontà di combattere il materialismo e la iper intellettualizzazione dell’opera d’arte, spinge gli artisti a rifiutare l’utilizzo della pittura ad olio e tutto ciò che la connota. Sophie Taeuber-Arp, artista e designer svizzera, si avvicina al Dada assieme al marito Jean Arp e attraverso l’attività del ricamo, interessante non per la sua potenzialità di medium artistico, ma per la sua stereotipata associazione all’intuizione, al sentimento e alla natura, inizia a lavorare alla costruzione di burattini e scenografie per gli spettacoli del Cabaret Voltaire di Zurigo. Il lungo poema del marito Jean Arp, The Spider Embroiders finisce con questi versi: 22 A. Albers, Material as metaphor, cit. in http://www.albersfoundation.org/artists/selected-writings/anni-albers/, (07.01.2015). 23 A. Albers, Work with Material, cit. in http://www.albersfoundation.org/artists/selected-writings/anni-albers/, (07.01.2015).

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Sophie Taeuber-Arp e Erika Taeuber vestite da Indiani Hopi, 1920.

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“Embroidery is more natural than oil painting, the swallows are embroidering in the sky for thousand of centuries, there is no such thing as applied art.”24 Sophie e Jean credono di aver trovato un nuovo materiale liberato dalla tradizione, collegato ad una cultura estranea alle sue regole e adeguato alle loro intenzioni. Sonia Terk Delaunay è un’altra importante artista su cui soffermarsi per approfondire il rapporto tra design del tessuto e implicazioni artistiche. Il passato da pittrice di Delaunay, nasce con il suo trasferimento dall’Ucraina in Europa, dove può iniziare una preparazione artistica, avvicinandosi a pittori come Paul Gauguin e Vincent Van Gogh. Nel 1910 sposa Robert Delaunay, orientando il suo lavoro verso quello che venne definito Cubismo Orfico. A partire dalle ricerche del marito sull’interazione dei colori tra loro e sulla rifrazione della luce, Delaunay sperimenta questi effetti sui tessuti, portandoli oltre l’ambito pittorico indagato dal marito. Dal 1913 inizia a creare tessuti simultanei, dove l’importanza dei rapporti geometrici si unisce inscindibilmente al dinamismo del colore. Per spiegare il senso della propria opera scrive L’Influences de la peinture sur le mode, in cui dichiara che una tinta che sembra uniforme è in realtà formata dall’insieme di una miriade di tinte diverse, scomposte in elementi multipli, presi dai colori del prisma, concezione che le deriva dalle precedenti ricerche sul colore e sulla percezione che avevano portato allo sviluppo in pittura del pointillisme. Da questa concezione derivano gli Abiti simultanei, fatti sostanzialmente di colori, a cui il taglio semplificato e le fogge diritte offrono campi perfettamente piani per esprimere al meglio le loro potenzialità di rapporto e interferenza. “She belived modernity could be expressed through the primacy of color in art and the dynamic interplay of its dissonances and harmonies. [...] Her textile and fashion designs were especially instrumental to this end. As well as being a form of moving paintings, textiles served as color studies for her work. Delaunay also designed costumes for various types of theatrical productions, always, in accord with her single, obsessive option of art.”25 Il tessuto in queste ricerche diventa il medium migliore con cui sperimentare questi contrasti cromatici. Il principio guida alla base della creazione di questi abiti è la giustapposizione di colori contrastanti e l’assemblaggio di tessuti diversi. Gli abiti simultanei sono costituiti da forme semplici e dal taglio dritto per far risaltare il colore, che è il protagonista indiscusso delle creazioni di Delaunay. I tessuti che compongono gli abiti sono caratterizzati da texture vivaci raffiguranti composizioni di rettangoli, cerchi, figure geometriche regolari e irregolari, linee e macchie di colore.

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R. Parker, The Subversive Stitch. Embroidery and the making of feminine, op. cit., p. 191. E. Morano, Introduction, in S. Delaunay, Art into fashion, George Braziller, New York 1986, p. 7.

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2. Antiform e Arte Povera come inizio di un percorso

L’Antiform è una corrente artistica che nasce negli Stati Uniti, attorno agli anni Sessanta e precisamente in quel momento in cui alcuni artisti sentono la necessità di creare un contraltare alla Minimal Art, basata sull’utilizzo di un vocabolario formale ridotto e di materiali innovativi, prodotti industrialmente, i cui codici erano legati al concetto di serialità Il rifiuto quindi del principio di griglia modernista, di schemi prestabiliti e di materiali rigidi porta molti artisti ad aprirsi verso una visione meno razionale dell’opera d’arte, per sperimentare maggiormente a partire da nuovi materiali, che per la prima volta si affacciano nel contesto artistico in modo così decisivo. Nel movimento Processuale, che potremmo definire più precisamente come un’inclinazione diffusa, un’attitudine, era il processo creativo più dell’opera in sé ad avere un ruolo preponderante. Contrariamente alla tendenza minimalista i materiali ispiravano, soprattutto a livello visivo, morbidezza e fluidità: lattice, cera, tessuti, materiali fuori dall’uso comune, essenza della transitorietà, della fragilità, della trasparenza, proprietà in grado di oltrepassare le rigide barriere che intercorrevano nel rapporto tra opera, ambiente e spettatore. La griglia impenetrabile e fredda dell’arte minimale si era sciolta in un fluire continuo, era divenuta ponte di una compenetrazione dell’opera nello spazio. Una tra le figure che maggiormente segnano questa svolta formale è quella Robert Morris, che proprio da un passato legato all’utilizzo di materiali industriali, fatti in serie e statici, è il primo ad utilizzare il feltro (materiale sempre creato industrialmente, ma che si oppone totalmente alle caratteristiche di quelli scelti precedentemente) per delle nuove sculture, che partono dal presupposto di duttilità e di andamento casuale del tessuto per reinventare una nuova forma di intervento nello spazio. Assieme a Morris anche Eva Hesse, diventa un’artista a cui fare riferimento in ambito Antiform. La sua capacità è quella di ripensare lo spazio, riempirlo con delle nuove presenze morbide e informi a partire da un disegno nello spazio, il quale riesce a catturare elementi presi da una disciplina (come la pittura, soprattutto quella di Jackson Pollock a cui molti si sono riferiti per

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parlare di Hesse) e di trasferirli nella scultura, sovvertendone le regole. Questi sono due esempi da cui partire per comprendere come il materiale e le sue caratteristiche, diventano la prima cosa da ricercare per la resa formale dell’opera, che assume connotati legati all’irrazionalità, all’emozione e alla forma in evoluzione. Il tessuto tra gli altri diventa elemento malleabile, in contrapposizione con la rigidità dei procedimenti industriali usati in ambito minimal; pensandoci bene, il tessuto, pur essendo esso stesso una griglia di filamenti ordinati secondo un andamento regolare, nel suo costituirsi genera un elemento unitario che formalmente non ha più a che fare con quel tipo di serialità. Un materiale che finisce per sancire quindi proprio questo passaggio da una corrente all’altra, non a caso utilizzato dai due artisti che incarnano quest’evoluzione formale. Proprio per questo è interessante osservare come il tessuto, il filo o in genere gli assemblaggi di materiali morbidi, tra i vari utilizzati, rispondano alle esigenze di una corrente che pone attenzione alla processualità della creazione artistica, e non tanto al risultato dell’opera come opera finita e fissata in determinati schemi compositivi. Si tende a rifiutare ogni rigida struttura geometrica e seriale di tipo minimalista, e ad utilizzare materiali naturali più svariati per esaltare l’espressività primaria delle loro proprietà fisiche: peso, durezza, fragilità, leggerezza, morbidezza, elasticità, trasparenza, malleabilità, fluidità, luminosità... C’è una maggiore evidenza del processo di realizzazione dell’opera e delle sue possibili evoluzioni nel tempo, elaborazione di una processualità aperta, tesa alla sollecitazione di nuove esperienze sensoriali, ottenuta grazie a installazioni vitalmente immerse nella dimensione spazio-temporale. Le attitudini, il senitire, il processo, sono mostrati nel loro farsi, e necessitano quindi di materiali che possano esprimere questa volontà di non determinazione del risultato finale. Il tessuto, tra gli altri, diventa in questo senso strumento utile perché risponde alla necessità di distanziarsi da materiali rigidi utilizzati dagli artisti minimal, per raggiungere un risultato non determinabile a priori, ma che consente di lasciar plasmare la materia, quasi un prolungamento del sentire emotivo dell’artista. Scrive Harald Szeemann nel testo d’apertura del catalogo per la mostra When Attitude Becomes Form: “Evidente è la completa libertà nell’impiego dei materiali così come la considerazione delle qualità fisiche e chimiche dell’opera. [...] Tema principale e contenuto dell’arte di oggi non è più la costruzione dello spazio bensì l’attività dell’uomo, dell’artista. [...] Opere, concetti, processi, situazioni, informazioni sono le “forme” che riflettono questi atteggiamenti artistici. Sono “forme” che non sono scaturite da idee figurative preconcette bensì dall’esperienza dello svolgersi dello stesso processo artistico. Ciò detta anche la scelta del materiale e la forma dell’opera come un prolungamento del gesto, il quale può essere privato, intimo oppure pubblico, espansivo.”26 A decretare l’importanza storica di questa corrente, sono state importanti mostre tenute a New York, come: Eccentric Abstraction (Fischbach Gallery, 1966), Anti Form (John Gibson Gallery, 1968), Nine in the Warehouse (Leo Castelli, 1968). Tendenze simili si sviluppano in Europa, con l’Art Brut e in specifico in Italia con l’Arte Povera, così battezzata nel 1967 da Germano Celant.

26 H. Szeemann, Sulla mostra (Quando attitudini diventano forma), in I. Giannelli (a cura di), Arte Povera in Collezione, catalogo della mostra, Rivoli-Torino, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, 2000, Charta, Milano 2002, p. 40 - 41.

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In questo contesto il recupero di materiali poveri, appunto, non emerge per una necessità di contrapposizione al Minimalismo, come negli Stati Uniti, ma piuttosto assume le sembianze di una riemersione di significati quasi antropologici legati ad ogni singolo materiale. Il tessuto e le fibre, in quest’ottica, svolgono una funzione decisiva: conservano le tracce antiretoriche e densamente umane del vissuto, del quotidiano (gli stracci di Michelangelo Pistoletto), ma al contempo richiamano la dimensione della natura, la sua energia primaria vitale (la lana, i sacchi di Jannis Kounellis). Viene messa in atto una revisione radicale dell’idea stessa di arte, del rapporto tra ideazione e realizzazione manuale, che ragiona sull’opposizione alla forma e su un alto grado di impegno personale ed emotivo, che permette di elegge ad arte oggetti che fino ad allora non erano considerati tali; lo spostamento dell’interesse dal risultato al processo di realizzazione, l’utilizzo di materiali poveri, l’interazione tra il lavoro e il materiale, la madre terra come materiale di lavoro e luogo di lavoro, e il deserto come concezione. Evidente è la completa libertà nell’impiego di materiali così come la considerazione delle qualità fisiche e chimiche dell’opera. “Tema principale e contenuto dell’arte di oggi non è più la costruzione dello spazio, bensì l’attività dell’uomo, dell’artista: l’atteggiamento interiore non è mai diventato opera stessa (se non rispetto al risultato ultimo, all’oggetto autonomo). Gli autori di questa mostra invece non sono autori di oggetti, bensì cercano la libertà dall’oggetto, ampliandone in questo modo i significati e, raggiungono uno status importante al di là dei confini dell’oggetto stesso. Vogliono che il processo artistico resti visibile anche nel prodotto finale, nella “mostra stessa”.27 Si cercherà quindi di comprendere in ciascun artista che ha utilizzato materiali tessili all’interno delle proprie installazioni, in che modo questi hanno apportato un cambiamento al modo di percepire l’opera, divenendo quindi a tutti gli effetti materiali non più legati ad una dimensione artigianale, ma al contrario, indispensabili per esprimere la ricerca formale proposta da questa nuova corrente.

27 Harald Szeeman, Sulla mostra (Quando attitudini diventano forma), in I. Giannelli, Arte povera in collezione, op. cit., p. 40.

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Robert Morris, Felts, 1967.

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2.1 Robert Morris Dopo aver fatto parte del gruppo dei minimalisti e aver contribuito alla nascita stessa del movimento anche grazie a diversi contributi critici, Robert Morris, negli ultimi anni Sessanta, inizia a sperimentare con altri materiali, paradossalmente antitetici a quelli industriali e freddi che aveva utilizzato fino a poco tempo prima. Morris inizia infatti ad utilizzare il feltro, per esplorarne le caratteristiche, che ne facevano un materiale che si adattava bene ad essere modificato, in modo casuale, dalla gravità che insisteva su di esso. Nel 1967 inizia ad indagare gli effetti di tagli, piegature e arrotolamenti nel feltro, che viene successivamente appeso, a creare delle forme non determinate dall’artista e che ad ogni installazione cambiano il loro aspetto, si modificano senza trovare una stabilità finale. I pezzi di tessuto appesi al muro come delle tele, ma cadenti fino al pavimento diventano degli ibridi tra quadro e scultura che, invadendo lo spazio espositivo lo fanno diventare la cornice del lavoro. In un articolo su Artforum è lo stesso Morris a coniare il termine Antiform, proclamando: “Random piling, loose stacking, hanging, give passing form to the material. Chance is accepted and indeterminacy is implied since replacing will result in another configuration.”28 L’interesse di Morris risiede proprio nel potenziale del materiale, vivo, morbido, che può assumere differenti forme ogni volta in cui viene presentato, poiché il comportamento delle fibre da cui è composto si rivela arbitrario. In un’intervista fatta da Simon Grant29, Morris insiste proprio in questo senso, sottolineando l’attenzione riposta verso le conseguenze indeterminate, che non si possono stabilire precedentemente l’allestimento dell’opera. Per questo l’utilizzo del feltro diventa essenziale, a discapito di alcuni elementi usati in precedenza, come corde o stracci. La pesantezza del feltro implica una maggiore influenza della gravità sul materiale, che quindi viene concettualmente plasmato dalla sua stessa massa e non dal volere dell’artista. “I wanted to work in a way that would subvert a priori intentions. I wanted to find a way to generate unpredictable, indeterminate consequences. The first experiments were with ropes and rags, then thin felt, then heavy industrial felt. Of course I had proposed the work Steam before using felt. The early felt works had multiple positions—sometimes thrown on the floor or hung on the wall. But once the works were photographed nobody wanted to hear about alternative positions. And of course works on the wall are easier to deal with than things on the floor so the wall option became the preferred position. I suppose this illustrates Duchamp’s remark about how art quickly loses its aesthetic smell and becomes frozen and arid. Anyway some of the works involving many separate pieces could of course never be installed twice in the same way. These maintained their indeterminate status more than the works made of larger sections.”30 28 R. Morris, Anti Form, Artforum (April 1968) cit. in https://www.msu.edu/course/ha/452/morris.html, (12.01.2015). 29 S. Grant, Untitled, 1976, Felt by Robert Morris & Interview by Simon Grant, cit. in http://wool-felt.blogspot. it/2009/05/untitled-1976-felt-by-robert-morris.html, (04.03.2015). 30 Ibidem.

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Le opere composte di materiali prodotti industrialmente, che vengono scelti dagli artisti minimal, al contrario non lasciano trapelare nulla sui metodi della loro produzione: il processo non è visibile. Quelli industriali sono materiali che vengono utilizzati per la loro qualità di essere costruiti bene, e questa qualità precede qualsiasi altra considerazione sui loro significati, seguendo solamente la logica delle forme oggettive. L’Antiform, in controtendenza, riscopre altri materiali rispetto a quelli rigidi dell’industria, per approfondire una ricerca sulle proprietà di questi elementi, riconsiderando anche l’uso degli strumenti in relazione ad essi. In alcuni casi queste ricerche si muovono dalla lavorazione dell’oggetto alla lavorazione del materiale di per sé, altre volte avviene una manipolazione diretta di un materiale dato senza l’uso di strumenti. In questi casi intervengono delle considerazioni sulla gravità, che diventa importante quanto lo spazio di inserimento dell’opera. Il focus sulla materia e la gravità come significato risulta nelle forme che non sono state progettate in modo avanzato. Considerazioni di ordine sono necessariamente casuali e imprecise e non enfatizzate. “Disengagement with preconceived enduring forms and orders for things is a positive assertion. It is part of the work’s refusal to continue aestheticizing form by dealing with it as a prescribed end.”31

2.2 Eva Hesse Il ruolo di protagonista femminile all’interno delle ricerche dell’Antiform spetta ad Eva Hesse, artista tedesca che sviluppa, durante la sua breve vita, una ricerca scultorea anticipatrice di molte tendenze artistiche degli anni Settanta, ricerca capace di apportare un cambio significativo all’interno delle regole linguistiche del mezzo. Come per i Felts di Morris, anche per i lavori di Hesse si può parlare di un utilizzo di materiali morbidi in contrapposizione con le ricerche in ambito minimalista. La gomma, il latex, le corde e i brandelli di tessuto sono utilizzati dall’artista per ricreare delle forme sinuose, tanto fragili da arrivare al limite dell’immateriale, pur emanando a volte un’intensa carica erotica. La scultura di Eva Hesse diviene inoltre luogo dell’incontro tra forze opposte, tra negativo e positivo, tra presenza e assenza, tra ordine e caos: tracce dell’intimità profonda instauratasi tra materia e artista, che nell’atto della creazione consuma un vero e proprio rito. Le sue superfici traslucide e organiche tendono ad animarsi con la luce, hanno un aspetto vagamente biomorfo, che alludono al corpo e i suoi fluidi, alle sue rotondità e alla sua deperibilità; apparentemente informi e poco rifinite, esse si ricollegano ad un’estetica non convenzionale, che non mette a proprio agio lo spettatore, richiamando ciò che viene indicato con il concetto di grottesco. Il pubblico viene colpito da qualcosa che nega il suo concetto ideale di forma, ma che al tempo stesso lo seduce, come se producesse in lui un’inconscia nostalgia erotica di qualcosa di 31

Ibidem.

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Eva Hesse, Expanded Expansion, 1969; Hung-Up, 1966; Senza titolo, 1970.

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originario che è stato rimosso. Si tratta di una decostruzione dell’idealità che circonda la figura umana e la sua prospettiva sul mondo, un processo di desublimazione, una vera e propria operazione distruttiva cui George Bataille stesso dà nome di Informe32. “For her part, Hesse wanted to make objects that were erotic and darkly humorous; she referred in her diary to ‘abstract object that produce unmistakable sensations attachable to, though not necessarily interpretable as the erotic’. The sick and weird humor at play in her crazy forms is that of the grotesque, as she aimed to keep her work in the ugly zone and out of the beauty zone.”33 L’idea dell’assurdo si riallaccia a quella della ripetizione del gesto, che amplifica questa assurdità, facendola diventare un’ossessione patologica riferita in un certo modo alle crisi depressive di cui l’artista spesso soffre. La ripetizione in questo caso non ha a che fare con i risultati ricercati dai minimalisti, ma è legata ad una soggettività infantile e viscerale, come afferma Rosalind Krauss,34 la quale vede nel lavoro di Hesse una certa attenzione verso le regole di costruzione dello spazio della pittura e delle sue leggi moderniste per meglio attaccarle. In Hang-Up (1966) è infatti chiaro come l’artista sia partita da una riflessione pittorica, che emerge dal suo elemento referenziale per eccellenza, la cornice, e dall’attenzione con cui vengono organizzate in essa le tonalità di colore, che sfumano lungo tutto il suo perimetro, mentre un cavo rigido ma modellato e incurvato si distacca da esso per evadere all’interno dello spazio tridimensionale. “Hang-Up deals with a tension between two- and three-dimensional spaces, it is a pictureless picture from whom surface a drawn line escapes into the real space.”35 I lavori che partono da metà degli anni Sessanta, sono quelli che hanno subito l’influsso degli oggetti di Marcel Duchamp, che Hesse vede per la prima volta a Berna e che le permettono di apportare una svolta nella sua concezione artistica. Se i primi lavori di Hesse sono ancora basati sull’utilizzo di immagini disegnate in bianco nero e grigio, quelli della sua fase più matura, si proiettano in una dimensione in bilico tra l’organico e il meccanico mentre il corpo evocato nelle sculture diventa informe, privo di un’organizzazione. “Con Hesse, questa dissoluzione è anche psicologica: è come se, carichi di una strana empatia nei confronti dei suoi oggetti, i nostri corpi venissero disgregati dall’interno. Invece della pittura o della scultura che riflette verso di noi in uno specchio una propria figura, un corpo ideale, Hesse evoca un corpo “deterritorializzato” da desideri e pulsioni che potrebbero essere i nostri”.36 Expanded Expansion (1969) è una scultura dove una serie di aste semitrasparenti di fibra di vetro, sono poggiate alla parete in posizione verticale e disposte in fila ad intervalli regolari. Un sottile tessuto elastico le mantiene unite con la possibilità di poter variare la larghezza della scultura a seconda della distanza tra le aste. Facendo indurire la fibra di vetro dentro tubi di cartone differenti e poi rimuovendo la massa 32 G. Bataille, Informe, Documents #7, Dicembre, 1929. 33 A. C. Chave, Eva Hesse: A Girl Being a Sculpture, in H. A. Cooper (a cura di), Eva Hesse: A Retrospective, catalogo della mostra, Yale University Art Gallery, New Haven 1992, Yale University Press, New Haven and London 1992, p.101. 34 Cfr. R. Krauss, L’inconscio Ottico, Mondadori, Milano 2008, pp. 320 - 330. 35 L. Lippard, Eva Hesse, Da Capo Press, New York 1992, p. 56. 36 Ivi, p. 323.

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solida dai tubi, l’artista voleva sottolineare l’individualità e la particolarità dei vari elementi, che sembrano identici solo a prima vista e la cui unicità è esaltata dall’ingegnoso e originale processo di esecuzione. La materialità fragile delle opere della Hesse alluderebbe al tema della fragilità, il risultato di un conflitto esistenziale riversato sull’arte e segnato in egual misura da felicità e senso di perdita.37 Ennead (1966), Right After (1969) e Untitled (1970) sono installazioni che proseguono l’idea di scultura che parte da regole e ragionamenti pittorici, per poi superarli. Gli agglomerati di corde e fibre che scendono dal soffitto e formano ragnatele informi in sospensione, richiamano alla mente i dripping di Pollock e pongono la giusta attenzione alla relazione del piano verticale con quello orizzontale. Se Pollock lasciava colare la vernice sulla tela posta orizzontalmente, per poi appenderla al muro, la scultura di Hesse emerge tridimensionalmente nello spazio, mantenendo una certa relazione con la parete di fondo, una tela da cui rimettere in questione il senso del piano e la sua presenza come condizione necessaria per la forma.38 L’idea dell’artista è proprio quella di ricercare delle forme-non forme che si posizionano tra il razionale e l’irrazionale e creare degli oggetti senza un’organizzazione fissa, dei lavori che possano essere allestiti ogni volta in modo differente; in questo l’utilizzo di materiali flessibili e modellabili è fondamentale, poiché permettono di avanzare una riflessione su una nuova modalità del fare scultura, che segue appunto la volontà dell’artista di ricercare un’arte non definibile come tale, o come è lei stessa a spiegare: I wanted to get to non art, non connotative, non anthropomorphic, non geometric, non, nothing, everything, but another kind, vision, sort. from a total other reference point… that vision or concept will come through total risk, freedom, discipline. I will do it. … it’s not the new. it is what is yet not known, thought, seen, touched but really what is not. and that is.39 Mentre molti altri artisti, continuano a dimostrare un certo interesse verso un ordine formale e concettuale, simbolo del rigore (fallico) e della finitezza del processo, Hesse privilegia strutture permeabili (caratteristica del femminile), che sono ordinate ma che possono ad un tratto non esserlo più, un caos strutturato come non caos, che fa ancora eco ai dipinti di Pollock. Questo aspetto femminile del suo lavoro è strettamente connesso all’impiego di materiali che potenzialmente possono essere in continuo divenire, e che, se da un lato sembrano vulnerabili e non durevoli, dall’altro si aprono ad un utilizzo dalle potenzialità infinite. Queste ragnatele enormi ed irregolari si riferiscono all’idea che associa la figura del ragno a quella della donna 37 38 39

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Cfr. D. Marzona, Minimal Art, Taschen, Köln 2005, p. 54. Ivi, p. 328. A. C. Chave, Eva Hesse: A Girl Being a Sculpture, op. cit. p. 102.


solitaria, che non si è creata una famiglia e che potrebbe essere una potenziale minaccia per l’uomo. Quando Hesse crea queste installazioni, si trova proprio nelle condizioni di essere una donna sola, che vive isolata, con dei forti problemi di depressione. Sotto un altro punto di vista la figura del ragno è segno anche di una certa attività artistica, all’insegna della produzione, soprattutto femminile, come per esempio ricorda Emily Dickinson, che si immagina come un ragno silenzioso che tesse i suoi versi sovversivi40. Approcciandosi alla scultura in questo modo così innovativo, Hesse declina il suo ruolo di donna, invertendone i significati, in un modello di auto creazione di potere. I suoi lavori con le corde non sono disposti in modo delicato e non hanno molto a che fare con il ricamo: sono lavori frenetici che riescono a innescare una contraddizione tra il medium e il suo utilizzo.

2.3 Alighiero Boetti Tempo, spazio, ordine, disordine, copia, coppia, sono queste alcune delle tematiche analizzate all’interno del lavoro di Alighiero Boetti, un’artista che è stato definito sciamano e showman41, portatore quindi di una sapienza che non appartiene a questo tempo, ma che deriva da altri mondi, dall’Oriente per esempio, una zona che con la sua cultura e le sue pratiche antiche segna profondamente il lavoro dell’artista. Il suo primo lavoro in cui compare l’elemento tessile è Zig Zag (1966) un’opera che può essere considerata un ibrido tra la dimensione minimal e quella processuale. Le linee nette della struttura cubica in alluminio vengono ammorbidite dal tessuto che vi si avvolge, provocando un movimento che porta ad una riflessione metalinguistica nel momento in cui può essere riferito all’andamento dell’ordito nel telaio tessile. Un’installazione che transita da una suggestione fredda e industriale ad una più morbida e sinuosa. La lettura dell’opera può essere sviluppata secondo una duplice visione. La prima riflette la volontà dell’artista di contrapporre alle rigide regole e ai materiali dell’arte minimal americana, di cui il cubo in alluminio è simbolo, la morbidezza e il colore del tessuto a righe, che rompe la simmetria del cubo inserendovi un movimento alternato, da destra a sinistra e viceversa, che spezza il vuoto dello spazio aperto. In secondo luogo il tessuto colorato diventa una sineddoche riferita alla pittura, che da sempre ha cercato di rappresentare il mondo, inserendo la realtà all’interno della cornice. La pittura, come qualsiasi processo creativo, per l’artista si riferisce sempre ad una dualità di forze che agiscono involontariamente facendo raggiungere l’intuizione. Il ritmo del tessuto porta verso i concetti di dualità e di doppio, già indicati dal nome Zig-Zag, o ancora verso un processo dalle fasi intermittenti ma costanti e ordinate. Questa seconda lettura, che sfocia nella tautologia concettuale, porta l’opera ad essere l’emblema dello stesso procedimento artistico, che senza essere autodeterminato, nasce spontaneamente, e permette all’idea di emergere tra le fasi 40 41

Cfr. Ivi, p. 108. A. Sauzeau, Shaman-Showman, Alighiero e Boetti, Luca Sossella Editore, Roma 2006, pp. 105 - 108.

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Alighiero Boetti, Zig-Zag, 1966; Ordine e Disordine, 1972; Tutto, 1989.

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alterne di sonno e veglia, illuminazione e metodo, convergenza e divergenza. L’opera così contiene in sé l’esperienza e il significato della creazione che si svolge a partire dalla relazione tra finito e infinito.42 La serie di opere più conosciute di Boetti è sicuramente quella degli arazzi ricamati (Ordine e Disordine, Mappe), iniziata durante gli anni Settanta e caratterizzata da un procedimento temporalmente e spazialmente stratificato. I disegni preparatori delle opere vengono preparati su cotone dall’artista e successivamente inviati in Afghanistan, dove le ricamatrici realizzano il disegno secondo una pratica collaborativa. Il ricamo, attività tradizionalmente femminile, interessa a Boetti per l’imposizione di tempi dilatati nell’esecuzione, opposta alla frenesia della società contemporanea. “Io ho fatto eseguire molto spesso i lavori da altre persone, anche se, in definitiva, ci terrei moltissimo a farli io. Mi piacerebbe da matti, ma non posso, non ce la faccio, dopo due minuti mi sono stufato. Però siccome una cosa mi piace, allora trovo delle persone che la fanno. Un po’ come nei paesi mussulmani: se non puoi andare alla Mecca, puoi trovare uno che va a La Mecca per te, per pregare per le tue cose. A me piacerebbe fare queste cose che prendono moltissimo tempo. Sogno di questi inverni, antichi, lontani, senza luce, senza televisione, radio, giornali. C’erano veramente tempi invernali che duravano mesi e mesi, in solitudine, dove poi l’unica grande forma straordinaria era l’immaginario, quello che uno immaginava in questo deserto totale.”43 Le Mappe (la prima del 1971), sempre ricamate dalle artigiane afgane, diventano simbolo di una ricerca che si apre verso la pluralità dei soggetti coinvolti nel processo artistico. Coprono un periodo di lavoro di vent’anni, durante i quali l’artista registra con il suo lavoro tutti i minimi cambiamenti che avvengono nel mondo a livello dei confini degli stati. Dei cambiamenti che non partono dall’idea dell’artista ma avvengono a seconda dei mutamenti geopolitici. ”Escludere la centralità tradizionale dell’artista, il suo gesto, la sua espressività, per radicalizzare l’alterità, e persino l’altrove: nel caso dei ricami, il tertium che si interpone tra lui e l’opera, è allo stesso tempo la ricamatrice, il paese lontano, e ancora di più il tempo; la durata del lavoro con l’ago. ‘Stranamente ho la pazienza di attenderle’ dirà delle sue ricamatrici. Il gesto dell’ago raffigura allegoricamente questa distanza spaziale e temporale, questa esteriorità rispetto alla normale soggettività di un artista europeo.”44 In questo modo esse creano un ponte spazio temporale che collega due parti del mondo, e pongono attenzione sulla sospensione che si crea all’interno dell’opera dal momento del suo concepimento e fase iniziale di preparazione da parte dell’artista e l’effettiva realizzazione da parte di artigiani che non condividono lo stesso tempo di Boetti, né a livello sociale e antropologico, né per quanto riguarda il tempo legato alla quotidianità. Questa scissione si ritrova in lavori successivi, che dal 1973 daranno vita all’idea di doppio, di coppia come copia, di dualità tra la figura di Alighiero e Boetti. Scrivere con due mani contemporaneamente, partendo dal centro del foglio verso le rispettive estremità, è solo uno degli esempi di questo ulteriore percorso intrapreso dall’artista, e che sarà sviluppato durante tutta la vita. 42 Cfr. M. Dantini, Zig Zag, Alighiero Boetti, in Museo Nazionale Radio Rai 3, puntata del 31. 01. 2015. http:// www.rai.it/dl/portali/site/articolo/ContentItem-3a856089-3480-4a4c-b560-72d4fb084ab9.html, (02.02.2015). 43 A. Sauzeau, Il tempo degli Ulisse e quello delle Penelope, in L. Pignatti (a cura di) Mind the map. Mappe, diagrammi e dispositivi cartografici, Postmedia books, Milano 2011, p. 60. 44 Ivi, p. 66.

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“A proposito dell’opera di Alighiero Boetti si potrebbe parlare di equilibrio entropico. Questa asserzione concettuale definirebbe di per sé uno stato di stabilità formalistica che non corrisponde affatto alla sua arte. Le Mappe lo dimostrano chiaramente, poiché per vent’anni si rappresenta un sistema che concerne un effetto, seppur astratto, tutto. O nei termini di Rudolf Clausius, l’entropia del mondo tende al suo massimo.”45 Ordine e Disordine (1972) invece, è costituito da cento piccoli quadri coloratissimi, in cui sono ricamate le parole ordine e disordine, le cui lettere sono organizzate secondo una direzione di lettura perpendicolare a quello a cui siamo abituati, dall’alto al basso, per poi risalire nella riga successiva. Le combinazioni sono infinite per l’utilizzo del colore delle lettere e dello sfondo dei singoli spazi quadrati in cui sono inserite. Questo lavoro è in dialogo con alcune ricerche compiute da Boetti sulla misurazione e la griglia quadrettata. In opere come Cimento dell’armonia e dell’invenzione (1969), o Il sistema decimale fa acqua da tutte le parti (1969), l’artista indaga, infatti, i metodi di organizzazione di serie numeriche servendosi della carta quadrettata, con lo scopo di creare dei quadrati perfetti, dove non ci siano avanzi di cifre, che romperebbero quindi, l’equilibrio formale della composizione ordinata. “Al massimo di entropia, come raggiungimento di un completo equilibrio, corrisponde un massimo di senso. Solo attraverso tale senso il sistema stesso può riflettersi, costituendo in tal modo uno stato di trasparenza che rende possibile l’elisione dei concetti: ordine e disordine nel quadrato. Un’elisione nel senso di spostamento su un altro piano.”46

2.4 Marisa Merz Tessere non significa soltanto predestinare (sul piano antropologico) e unire insieme realtà diverse (sul piano cosmico), ma anche creare, esprimere la propria sostanza, come fa il ragno che produce la tela da se stesso. Fin dalla mitologia l’azione del cucire, così i suoi strumenti e le sue pratiche, è legata al concetto di tempo. Il mito delle Parche forse costituisce l’esempio più significativo: un tempo totale, biologico, inteso come limite tra la vita e la morte. Queste creature potentissime presiedevano all’intero corso della vita umana. Figlie dell’Erebo e della notte, o di Zeus e Temi. Esse erano Cloto, che filava lo stame del destino degli uomini; Lachesi, che assegnava la sorte alla nascita e avvolgeva lo stame al fuso; Atropo, la quale tagliava il filo della vita. Le parche filano i giorni della nostra vita e la lunghezza del filo dipende esclusivamente da loro: nemmeno Zeus può modificarla.47 O ancora Penelope che nell’atto di creare e distruggere la sua tela, influenza le conseguenze del tempo, apparentemente non operativo, modificandolo al fine di prolungare quindi il 45 J. C. Ammann, Il regno intermedio nella creatività di Alighiero Boetti, in J. C. Ammann (a cura di), Alighiero Boetti. Catalogo generale, vol. 1, Mondadori Electa, Milano 2009, p. 21. 46 Ivi, p. 13. 47 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, VIII, vv 451 - 455.

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momento in cui, a lavoro finito, dovrebbe concedersi ai Proci. Forse è proprio riflettendo sulla fisicità stessa dell’azione del cucire che possiamo far nascere l’immagine di un tempo in scorrimento: il movimento rotatorio del cucire segna il percorso circolare, simile a quello segnato da una lancetta d’orologio che, avanzando sempre identica a se stessa, indica “la stessa successione temporale di stati”.48 Un tempo ciclico (rituale) che si interseca con un piano lineare di lavoro (il tessuto), finito e determinato. Due andamenti quindi antitetici e complementari, l’uno frutto dell’altro. Citando Heiddeger, il tempo è legato all’essere, non esiste se non con me, finirà con me. Il tempo quindi è azione, movimento, è cura. “Io dispongo forse dell’essere del tempo e con l’ora intendo, oltre al tempo anche me stesso? Sono io stesso l’ora e il mio esserci è il tempo? Oppure in fondo è il tempo stesso che ci procura in noi un orologio? [...] La domanda che chiede che cos’è il tempo ha rinviato la nostra considerazione all’esserci, se con esserci si intende l’ente che noi conosciamo come vita umana, nel suo essere; questo ente inteso nell’essere-di-volta-in-volta del suo essere, l’ente che ognuno di noi è, che ognuno di noi coglie nell’asserzione fondamentale: io sono. L’asserzione io sono è l’autentico asserire l’essere che ha il carattere d’esserci dell’uomo.”49 L’azione dell’ago che fora il tessuto e procede, è simbolo di un tempo, spesso privato e intimo, di creazione legata al fare che determina lo stare, l’esserci. Un tempo lento, meditativo, sempre uguale a se stesso, quasi mistico, di presa di coscienza della propria presenza. Marisa Merz, una dei protagonisti della corrente dell’Arte povera, sviluppa con il suo lavoro, composto da materiali modellabili come il filo di nylon e di rame, intrecciati e lavorati a maglia, un discorso sul tempo, legato alla sua valenza di legame vitale, a partire dalla propria vicenda personale di artista e madre. “Il suo è un porsi al di fuori del tempo, una dimensione intima e familiare, dove si condensa il senso dell’eterno ritorno, la ciclicità dell’infinito in una forma avviluppata in se stessa ma al contempo aperta, perché disponibile ad ogni trasformazione ed interpretazione.[...] Essere fuori dal tempo significa per Marisa Merz porsi prima del tempo, del tempo storico, raggiungere una dimensione ancestrale in cui le mani di mille tessitrici vengono magicamente evocate e ritrovano forma e voce nei suoi oggetti-sculture, trasparenti, leggere come un soffio, tenaci come il nylon e il rame che lei lavora e che fa riemergere scavando nelle profonde radici del tempo stesso.”50 La temporalità che identifica il lavoro di Merz è lenta, femminile, in contrapposizione ad un tempo maschile, competitivo, o ad un tempo sociale, teso alla produttività alienante ed alienata. “Un tempo comunque produttivo, ma che porta ad una consapevolezza del sentire, del percepire poiché è lavoro intimo, un affidarsi al flusso del tempo senza pretendere di dominarlo, di farne un uso efficiente secondo le pretese maschiliste, che però generano ansia e nevrosi.”51 Le sue opere sono state lette come elementi esterni al tempo storico preciso, come se provenissero da una dimensione creativa ancestrale. Il suo ruolo di madre forse ha influenzato proprio in questo aspetto la sua produzione artistica, legata ad un istinto primordiale, di donna profondamente 48 M. Heiddeger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998, p. 27. 49 Ivi, pp. 29 - 31. 50 M. Giordano, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, Postmedia Books, Milano 2012, p. 82. 51 R. Barilli, G. Dorfles, F. Menna, Al di là della pittura: arte povera, comportamento, body art, concettualismo, Fabbri, Milano 1975, p. 88.

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Marisa Merz, Senza titolo, 2011; Senza titolo, 2011.

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legata alla figlia a cui dedica molte opere, realizzate con il filo di rame, lavorato a maglia per formare piccole scarpe, altalene, oggetti per la figlia Bea. “Quando Bea era piccola stavo in casa con lei. [...] C’era un ritmo in tutto questo, e il tempo, tanto tempo. Dunque c’era Beatrice, piccola. Mi chiedeva delle cose, mi alzavo, le facevo. Tutto sullo stesso piano, Bea e le cose che cucivo, avevo la stessa disponibilità per tutto. Questo modo di intendere il tempo in maniera totalmente liberata da vincoli o doveri, non le permette di accettare mai fino in fondo la condizione espositiva, percepita come un pericolo di cristallizzazione per un lavoro che, invece, si vuole in perpetuo movimento come condizione stessa della sua esistenza.”52 Il rame, materiale legato ai processi alchemici e magici, è un materiale conduttore, propagatore di energia, che ha la capacità di incentivare un flusso che continua, che non si arresta. In questo senso si può leggere l’opera della Merz come simbolo di un’inversione della figura delle Parche e dell’interpretazione che ne deriva, il filo, quindi, che non è più legato al concetto di destino che porta alla morte. Nell’opera di Merz, l’intreccio rafforza la proprietà del rame, è quindi un concetto che si coniuga con l’avanzamento e la vita. Nel rame Marisa Merz sente una metafora del fare artistico. In un lungo scritto ad esso dedicato, quasi un omaggio al lavoro della moglie, Mario Merz ne parla come di un materiale primigenio – il rame viene dalla terra e la rispetta perché ne è un prodotto interno – che trova nella forma del filo la visualizzazione del processo a cui è stato sottoposto – la materia tirata a filo è la disposizione del rame cioè della materia nel tempo. Attraverso la sua lavorazione, Marisa Merz vuole tornare ad un ordine interiore delle cose, proprio perché avverte questa come la missione prioritaria dell’artista: così si ridà alla luce il figlio della terra. Perché l’arte è cosmica nell’essere arte di ridare, ritrovare una seconda prova della materia. in quest’ultima osservazione si percepisce come l’atto creativo sia sentito come perfettamente coincidente con quello generatore, ribadendo, quindi, la sua diversità di madre-artista.53 In questo elemento di connessione fra pubblico e privato, certamente si può leggere un parallelismo con i rivolgimenti sociali che caratterizzano l’Italia di quel momento e con i bisogni, sempre più pressanti, di ridisegnare la funzione dell’individuo, difendendone strenuamente le aspirazioni e i desideri di espressione che sembrano minacciati dall’avvento della società di massa. I materiali sono elastici, flessibili, con essi si può costruire un universo infinito di forme attraverso la ripetizione e la trama, associazioni di elementi che non creano una struttura né uno schema. Tutti i lavori di Merz dei primi anni sono caratterizzati da questa attitudine all’“estensibilità”: il processo operativo da cui nascono queste forme si esplica attraverso la semplicità del gesto, reiterato in un rituale ossessivo. Il portato costruttivo dell’atto artistico viene rimpiazzato dalla successione e della ripetizione dei gesti: nello stesso modo in cui definiscono la realtà i bambini, la ripetizione è indispensabile per introiettare e rendere possibile un universo personale. Da essa nascono le trame, potenzialmente infinite, dei suoi lavori a maglia, riformulati per esorcizzare la fine e preservare la vitalità dell’artista.

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L. Lonardelli, Della ripetizione e della differenza in Marisa Merz, Mousse Publishing, Milano 2012, p. 28. Cfr. Ivi, p. 29.


3. Pop art, Neo Pop, consumismo e moda

“La crescente stabilizzazione politica ed economica del dopoguerra portò a una rivalutazione di ciò che comunemente viene definito popolare, le abitudini e i comportamenti consumistici della società di massa furono oggetto di indagini socioeconomiche e vennero resi funzionali al marketing. Per sfruttare commercialmente i bisogni dei consumatori, i produttori non poterono più imporre strategie di vendita di loro iniziativa, ma dovettero adattarsi alle mode e alle inclinazioni di massa.”54 Il banale e il quotidiano diventano oggetto d’interesse generale, superando tutte le barriere di classe. Anche in arte, l’elitarismo proposto dall’Espressionismo Astratto deve rapportarsi con l’esigenza di una cultura di massa. La Pop Art inizia così ad occuparsi di tutti quei contenuti familiari, banali e quotidiani, rispecchiando l’evoluzione culturale che aveva aperto ad una nuova visione dell’oggetto e quindi dell’arte. Gli artisti abbandonano una visione soggettiva del fare arte, per attingere a stimoli che sono riconosciuti da tutti poiché prodotti in serie e presenti nella vita di ciascuno, stimoli del mondo esterno, creati dalla società di massa e per una moltitudine di persone senza volto e senza personalità. “Così come i designer presentano prodotti, gli artisti presentano i prodotti dei designer. Li liberano dai previsti parametri del valore d’uso e li pongono in un contesto inconsueto per stimolare la riflessione. Non definiscono posizioni univoche ma lasciano le cose sospese nell’equilibrio di ciò che effettivamente sono, le lasciano aperte sulla qualità intrinseca dell’oggetto e della sua riproduzione.”55 Per parlare di Pop art, non si possono non tenere in considerazione le posizioni critiche e contrapposte di Roland Barthes e Jean Baudrillard. Entrambi questi autori scrivono negli anni Ottanta un saggio in cui riflettono sugli sviluppi della Pop art americana degli anni Cinquanta e Sessanta, arrivando ad esprimere due visioni del 54 55

T. Osterwold, Pop art, Taschen, Köln 2000, p. 7. Ivi, p. 6.

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fenomeno diametralmente antitetiche. Entrambe concordano con il fatto che la Pop art si sia sviluppata a partire dalla volontà di desimbolizzare l’oggetto, demistificandolo attraverso l’utilizzo di procedimenti spesso meccanici, che riducono al minimo la manualità dell’artista, e che si contrappongono quindi ad una visione dell’arte come qualcosa di alto, di soggettivo ed estetico. L’uso della ripetizione presente sia all’interno del processo artistico (fotografia e serigrafia), che nel risultato finale (la serialità delle immagini di Warhol, il retino di Lichtenstein), risponde alla volontà di ragionare sulla copia, sull’appropriazione e quindi su una nuova percezione temporale, che ci pone di fronte all’oggetto artistico e non a ciò che esso rappresenta. Mentre Barthes vede questo utilizzo sovversivo dell’arte, portata oltre i suoi limiti, come una nuova forma di avanguardia, Baudrillard dall’altra parte, osserva invece una certa contraddizione in termini all’interno dei processi artistici della Pop Art. Anch’essa, secondo il filosofo, finisce quindi per diventare oggetto di consumo, legato alle regole del mercato e di un certo tipo di atteggiamento alla moda. Non a caso Baudrillard scriveva in La società dei consumi: “Viviamo così al riparo dei segni e nella negazione del reale, riflettendo sul fenomeno delle merci che si erano trasformate in simulacri.”56 Come si vedrà proprio questo aspetto porterà alcuni artisti ad insistere proprio su ciò, ricreando oggetti d’uso comune che non possono svolgere la loro funzione, che non hanno dei referenti reali, e quindi si presentano come simulacri). “Il moltiplicarsi delle merci-segno, funge da veicolo attraverso cui si crea un mondo simulato caratterizzato dalla supremazia del significante. [...] Nelle società tardo capitalistiche il significante, guadagnando autonomia mediante la manipolazione massmediatica e pubblicitaria, è in grado di fluttuare libero dagli oggetti. In quest’ottica la dimensione segnica dei beni acquista autonomia dalle pratiche quotidiane e si configura come una realtà - o iperrealtà - più vera del vero, un insieme di immagini che più che alla vita ordinaria si riferiscono, circolarmente, a se stesse.”57 Esasperazioni del concetto di merce, sono identificate, secondo il filosofo, in azioni come quello di Claes Oldenburg, e il suo Shop, un negozio in cui gli oggetti d’arte erano esposti e venduti al pubblico, seguendo le stesse logiche legate al display della merce in vetrina. Sta proprio qui il gioco della corrente artistica di essere confondibile, di porsi in modo ironico nei confronti di un certo sistema del consumo, di farne parte e quasi divenire un virus che infetta quel mondo dall’interno, passando inosservato perché fin troppo simile ai meccanismi interni ad esso.

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J. Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 2010, p. X. Ibidem.


Claes Oldenburg, Soft fur good humors, 1963.

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3.1 Claes Oldenburg “Gelati, torte, Seven-up, salumi, carni hamburger, mele morsicate, gabinetti, lavandini, vasche da bagno, mozziconi, pistole, bandiere americane e altro vengono trasformati da Claes Oldenburg in sculture ensemble, da piccoli a giganteschi, cha lasciano solo intuire il modello familiare in un’estrema operazione di allontanamento e alienazione. Attraverso l’uso di gesso e stoffa (la tela), materiali morbidi e duri, i colori stesi disordinatamente e in modo all’apparenza arbitrario, stridenti o opachi, l’oggetto originariamente attraente e disegnato con cura, finezza e dispendio, finisce per assumere un aspetto poltiglioso, informe, ripugnante, ma anche astratto ed esemplare. Qualunque fascino sembra dissolto, l’inservibilità mette in ginocchio il modello consumistico. Gli oggetti dell’industria si ritrovano, con allegra comicità o macabra ironia, esposti a un processo di disintegrazione.”58 Le Soft machines di Claes Oldenburg sono oggetti realizzati con tessuti sintetici, vinile e imbottiti con il kapok. Il concetto essenziale nel lavoro dell’artista è la metamorfosi della forma e della dimensione: oggetti di uso comune vengono ingigantiti e trasformati in presenze molli e informi, che invadono lo spazio espositivo e instaurano un nuovo rapporto con il pubblico. La morbidezza degli oggetti di Oldenburg, inoltre, è una qualità specifica che li allontana dalla tradizione scultorea e le sue tecniche, che prevedevano la lavorazione del materiale a partire dall’eliminazione della parte in eccesso, per far emergere la figura. Le sculture di Oldenburg sono modellate dall’interno con dell’imbottitura che permette di scegliere la densità stessa del materiale, che determinerà la forma dell’oggetto, più o meno solido. “L’idea elementare, la sua forma, funzione immateriale, e soprattutto la sua organizzazione ideale vengono trasformati da Oldenburg in un oggetto sorprendentemente suggestivo: la banalità sembra ora estranea e resta riconoscibile solo nelle sue caratteristiche esterne e formali, quasi come un ricordo lontano. Inserito in una collocazione pubblica, l’aspetto futile si ritrae lasciando dietro di sé un essere sconosciuto, inquietante, folle, mostruoso, provocatorio.”59 L’utilizzo che l’artista fa degli oggetti, il suo modo di alterarli, di ingigantirli e invertire le relazioni di morbido-duro, spinge il fruitore a sentirsi minacciato, visivamente e spazialmente schiacciato da essi, mentre la loro morbidezza li fa apparire sul punto di liquefarsi, di implodere in loro stessi, e nella loro stessa obsolescenza. La serie di oggetti con cui l’artista irrompe nella scena contemporanea, nascono negli anni Sessanta, dopo il trasferimento dalla Svezia negli Stati Uniti, prima a New York, poi in California. é qui che nasce il gruppo di soft sculptures più completo, che si riferisce al mondo domestico con oggetti come Soft Toilet, Soft Bathtub, Soft Washstand o Soft Four Dormeyer. Inizia con queste opere un’attenzione verso la fabbricazione commerciale e il tema della produzione tecnologica, forse influenzato dalla precedente esperienza con The Store, aperto a New York pochi anni prima, in cui aveva presentato i suoi lavori come se fossero merci all’interno di un negozio, appunto. “The style I am concerned with in these works from Los Angeles is the style of manufacturing and production, [...] a rehearsal of machine style, affecting not only the image or object 58 59

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T. Osterwold, Pop art, op. cit., p.12. J. Baudrillard, La società dei consumi, op. cit., p. X.


produced but the method of producing it. Involving others, involved technicians, visits to industries, having part made. The stye of manufacturing abstracted into production of art.”60 è di questo periodo anche Bedroom Ensemble (1963), la riproduzione di una camera di un motel, realmente esistente, dove l’artista si ritrova a soggiornare. Interessato dall’arredamento con finte pellicce di animale, e di altri materiali sintetici, inizia a lavorare ai primi prototipi dell’installazione, una copia esatta di un’ambiente che però perde la sua funzione originale: un simulacro che provoca ironia e allo stesso tempo straniamento. Eliminare l’aspetto funzionale degli oggetti, significa annientare proprio le qualità che nell’epoca moderna vengono indicate come valore e che sostengono la realizzazione dell’oggetto in rapporto esatto al mondo reale e ai bisogni dell’uomo. Di fatto, funzionale non qualifica ciò che è conformato a un fine, ma ciò che si è adattato a un ordine o a un sistema: la funzionalità è la facoltà di integrarsi in un insieme.61 Oldenburg ha descritto il suo lavoro come “an object in the shape of the artist”62; e le sue Soft Machines, relazionate all’immagine del suo corpo, servono come surrogati per il corpo umano. Nella loro invulnerabile umanità, le soft sculpture di Oldenburg sono l’opposto delle costruzioni del Cubismo con la loro rigidità non umanizzata, così come la sua mancanza di un disegno formale e fisso è l’opposto dell’insistenza cubista sulla composizione. L’amore-odio tra uomo e macchina visto dall’artista della fine del XIX secolo e l’inizio del XX è una relazione complicata, e il problema che ha l’uomo moderno nei confronti del controllo della tecnologia è lo stesso che aveva l’uomo preistorico nel confronti dei fenomeni naturali. La visione proposta da Oldenburg dà vita ad una riflessione su come la macchina, accorciando la sua distanza dall’uomo, diventa simile ad esso: il mondo di Oldenburg fatto di sculture morbide prescrive una conciliazione tra l’uomo e la tecnologia. Le soft machines sono minacciose, ma anche amichevoli e decretano la fine dell’alienazione dell’uomo nei confronti dello sviluppo dell’ambiente industriale, che Oldenburg, seguendo una filosofia post-marxista e post-freudiana, cerca di raggiungere. Si può persino arrivare a considerare queste forme come delle figure amiche, quasi delle immagini sessuali, attraenti, metafore erotiche mascherate negli oggetti. Facendo diventare gli oggetti inanimati, oggetti antropomorfi, esagerando la loro scala oltre le proporzioni naturali e alterando le loro proprietà fisiche, Oldenburg le investe di una certa vulnerabilità simile a quella del corpo umano. Pur continuando a proporre una riflessione critica in relazione alla società contemporanea e ai rapporti tra uomo e merce che nascono all’interno di essa, Oldenburg finisce per constatare come la tecnologia sia entrata a far parte della quotidianità della vita, senza essere identificata come un simbolo di alienazione per l’uomo. “His sagging, clownish objects resemble the comic-pathetic character. The message of Oldenburg’s art, like that of other works in the traditions of satire, of fool, and the clown, is of man’s fallibility and vulnerability.”63 Cambiare i materiali e la scala degli oggetti significa interrogare lo spettatore rispetto al suo rapporto con questi oggetti, con i quali di solito si identifica. 60 B. Rose, Claes Oldenburg, The Museum of Modern Art New York, New York Graphic Society, Greenwich 1970, p. 93. 61 Cfr. J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Tascabili Bompiani, Milano 2014, Kindle file. 62 B. Rose, Claes Oldenburg, op. cit., p. 139. 63 B. Rose, Claes Oldenburg, op. cit., p. 169.

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Sylvie Fleury, Bedroom Ensemble - Hommage Ă Claes Oldenburg, 1997; Dark and deep (pink), 2003; Mondrian, 1992.

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Oldenburg forza il pubblico a reagire all’oggetto, senza lasciarsi bloccare dalle aspettative imposte dal luogo in cui sono inseriti. Nello Store per esempio gli oggetti chiedono di essere toccati, di entrare in relazione con loro, così come i loro nomi ( Ice Cream, Camera Gun, etc...) indicano la modalità di utilizzo e il tipo di approccio da avere per iniziare ad instaurare un rapporto con essi. Nella sua ricerca Oldenburg distorce le forme e opera continue metamorfosi per la ricerca della verità, un inseguimento infinito all’interno del labirinto dell’illusione, continuando a porsi al di fuori di certi meccanismi della società e generando immagini e forme che criticano i suoi standard e i suoi valori sia in modo implicito che apertamente.64

3.2 Sylvie Fleury Sylvie Fleury è un’artista svizzera della corrente Neo Pop, interessata a far emergere con le sue installazioni le problematiche legate al consumismo e al fenomeno dello shopping, e ai meccanismi che spingono la massa di consumatori a comprare in modo compulsivo con lo scopo di apparire. Nelle sue esposizioni compaiono sempre oggetti costosi prodotti dalle firme del lusso, trucchi, macchine, ambientazioni che sembrano venire direttamente da immagini pubblicitarie o da sfilate di moda e che presentano gli attributi del mondo del lusso come opere d’arte. Fleury espone collezioni di scarpe per signora, borse di plastica provenienti da boutique esclusive, scritte al neon con slogan pubblicitari di costosissime creme per la pelle o costruisce immensi missili in partenza per Venere ricoperti di morbide pellicce. Sono oggetti a cui quotidianamente sono associate visioni che hanno a che fare con valori estetici, con l’apparire, con l’erotismo. A prima vista, sembra che Fleury contraddica l’ideale di artista che si pone in modo critico verso la società dei consumi, ma a ben analizzare il suo lavoro si nota come ci sia un trasferimento provocatorio che passa dalle merci e dal loro display a quello dell’opera. “Trasferendo accessori desiderabili come i profumi di Chanel in un contesto artistico, essa sembra porli allo stesso livello dell’arte. Nei prodotti artistici, come in quelli cosmetici, vi sono considerevoli differenze qualitative e questa consapevolezza è pilotata dalle iniziative del marketing. Confrontato con quello degli articoli di lusso, il mercato dell’arte è certamente più ristretto, ma le strutture che determinano il successo o il fallimento, se considerate dal mondo di Fleury, sembrano improvvisamente molto simili.”65 Forse Fleury risponde all’accusa mossa da Baudrillard nei confronti della Pop art che in realtà viene invischiata dai meccanismi del consumismo invece che criticarli. Associando la sua ricerca a quella di Oldenburg (a cui dedica Bedroom Ensemble - Hommage à Claes Oldenburg), vediamo come ci sia un ulteriore passaggio nella presentazione e nella scelta di 64 65

Cfr. Ivi, p. 179. B. Riemschneider, U. Grosenick (a cura di), Art at the turn of the millenium, Taschen, Köln 1999, p. 154.

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determinati soggetti: se in Oldenburg erano oggetti d’uso quotidiano, quasi innocui e innocenti, in Fleury vengono inseriti solo determinati segni-oggetto, che si riferiscono a precisi immaginari alla moda, e che finiscono per essere dei punti di vista critici verso l’ideale di bellezza che è imposto dalla società. In Bedroom Ensemble - Hommage à Claes Oldenburg (1997), viene riproposta l’installazione del 1963 dell’artista svedese alterandone l’effetto finale: un letto, due comodini e una cassettiera con specchio sono interamente ricoperti di un tessuto peloso, colorato e morbido. Sembra di essere all’interno di una stanza surreale, dove gli elementi sono stati ricoperti da una membrana affascinante (il tessuto) e che trasforma l’arredamento in qualcosa di molto attraente, ma che allo stesso tempo non può essere utilizzato: non ci sono cassetti nei comodini, nel letto mancano i cuscini... Il suo è un ragionamento sul feticismo della merce che, secondo la visione di Marx, illude gli uomini di vivere dei rapporti reali tra di loro, quando invece le loro relazioni sociali sono mediate innanzitutto dalla compravendita della merce, che viene personificata permettendo all’uomo di relazionarsi ad essa secondo un unico tipo di rapporto che è quello tra produttore e consumatore. “In sintesi dunque la merce nasce da un rapporto sociale alienato ed essa stessa, a sua volta, riproduce questo rapporto. La merce esiste anzitutto non per l’uso ma per essere venduta e comprata, esiste non per le sue intrinseche qualità, che aiutano a rendere migliore l’esistenza, ma per la quantità di denaro che permette di guadagnare. Essa domina incontrastata, nella società mercantile, non solo perché è frutto di una separazione tra produttore e proprietà dei mezzi lavorativi, ma anche perché il consumatore s’illude, comprandola, d’aver acquistato un bene utile, indispensabile.”66 Il lavoro di Sylvie Fleury è l’esempio perfetto di una società sazia che si accontenta della superficialità che genera attraverso la proposta di oggetti del desiderio, feticci moderni attraverso cui riconoscersi con la costruzione di un’identità omologata. Il potere del display degli oggetti e della loro apparenza magnetica dal punto di vista estetico è una cifra molto importante per il lavoro di Fleury, che per questo si serve di pellicce sintetiche colorate per avvolgere le sue installazioni in modo ironico.

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E. Gavalotto, Feticismo delle merci, in http://www.filosofico.net/feeeeetici1234smo.htm, (24.02.2015).


3.3 Mike Kelley La ricerca artistica di Mike Kelley si sviluppa a partire dagli anni Ottanta. è proprio in questi anni che all’interno del proprio lavoro assume dei connotati importanti l’oggetto artigianale e fatto a mano, in tessuto. Le sue installazioni più note comprendono infatti pupazzi e peluche assemblati tra loro, che creano delle chimere moderne, frutto del mondo del consumo massificato. La sua ricerca infatti è molto legata alla cultura di massa e ad un attenzione verso il visuale, pur sviluppando una certa visione critica verso le regole imposte dalla società, soprattutto per quanto riguarda le convenzioni a cui ci spingono le stesse famiglie in cui cresciamo. è in questa prospettiva che l’oggetto di peluche diventa un simbolo che esemplifica la relazione del bambino con il gioco, attraverso cui queste regole iniziano ad essere introiettate. In questi giocattoli logori l’artista ha visto i modelli idealizzati e asessuati che servono a far adeguare i bambini alle norme sociali e familiari, simboli del modo in cui le coercizioni si trasmettono da una generazione a un’altra. “I have a more critical relationship to mass culture. I’m not solely interested in arresting visuals; I’m more interested in questioning the conventions of reading within a given genre. I’m constantly giving clues that there’s some kind of rhetorical or critical interest operating in my work. That’s what becomes fuzzy; and that’s where you find the poetics - which include the critical. I’m not anti-critical artist, as some would propose”.67 Questi oggetti assumono dei connotati che riprendono il concetto di perturbante avanzato da Freud, in “Al di là del principio del piacere”, come una cosa familiare ma allo stesso tempo nascosta, che ha subito un processo di repressione ma che poi riemerge da esso. Il terreno del perturbante mappato da Kelley coinvolge pupazzi, manichini, riflessioni sul doppio, readymade, simulacri, il cui effetto di shock deriva dall’improvvisa defamiliarizzazione del quotidiano. In Deodorized Central Mass with Satellites (1991-1999) per esempio, gli agglomerati di pupazzi appesi sono organizzati formalmente: una quantità di colore bilancia l’altra secondo una nozione pittorica del colore. Le masse di peluche sono fissati su pulegge, di modo che si bilancino secondo il loro peso. La scelta di bloccare i pupazzi all’interno degli agglomerati, senza che vengano mai mostrati i loro volti risponde all’esigenza di non far sentire a proprio agio il pubblico, sensazione amplificata dalla presenza di strutture di fibra di vetro colorate con colori molto brillanti, appese alle pareti affianco ai gruppi di pupazzi. Queste strutture fanno sembrare gli animali ancora più decrepiti, e sporchi. L’intera installazione si può leggere come una personificazione dell’abietto, del reietto della sporcizia che si contrappone alla pulizia e come questo si applica al design. Kelley lavora a partire da quella che è la sua esperienza personale. Si avvicina sempre di più a quella che è l’estetica della classe medio bassa a cui appartiene, distanziandosi dalla metodologia dell’Arte Concettuale, indirizzata verso la diffusione di messaggi di interesse sociale, comportamento che Kelley identificava come un’ulteriore falsità che finiva per reiterare la voce della cultura dominante. L’utilizzo di elementi provenienti al mondo artigianale e tessile gli permettono, inoltre, di sfidare la concezione in base alla quale i materiali tessili sono poco 67 I. Graw, In conversation with Mike Kelley, in J. C. Welchman, I. Graw, A. Vilder, Mike Kelley, Phaidon Press Limited, London 2002, p.14.

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Mike Kelley, Estral Star #3, 1989 Craft Morphology Flow Chart, 1991; Deodorized Central Mass with Satellites, 1991-1999; Arena #10 (Dogs), 1990.

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adatti ad un uomo, venendo di solito attribuiti ad una certa sfera artistica legata ai movimenti femministi. Il percorso di Kelley che comprende l’utilizzo di elementi tessili subisce nel tempo delle evoluzioni, identificate in tre fasi, ognuna delle quali veicola significati differenti, legati al consumismo, ma anche a questioni psicologiche o economiche. Una delle prime installazioni è More Love Hours than Can Ever Be Repaired (1987), un assemblaggio di animali fatti a mano, coperte e patchwork, cuciti su tela l’uno affianco all’altro in un mosaico vertiginosamente grande di colori sgargianti e tessuti di seconda mano. Questo lavoro si concentra sul dibattito degli anni Ottanta a proposito della mercificazione e del meccanismo del dono, che lega i soggetti in un rapporto di scambio. L’interesse iniziale di Kelley per gli oggetti cuciti a mano deriva proprio dal significato che incorporano e dal loro utilizzo nel quotidiano. “Not to say that I believe that craft gifts themselves harbor utopian sentiments; all things have a price. The hidden burden of the gift is that it calls for pay-back but the price is unspecified, repressed. The uncanny aura of the craft item is linked to time”.68 Focalizzando l’attenzione sull’assenza di una normativa sullo scambio degli oggetti fatti a mano, Kelley apre un terreno di significazione dell’oggetto artigianale all’interno di un’economia psicologica, che ha a che fare con il concetto di valore misterioso, con il senso di colpa e con l’obbligo di riconoscenza e con la necessità di sdebitarsi con un ulteriore dono. Una seconda fase dell’utilizzo dell’oggetto cucito in Kelley è costituita dalle serie Arena e Dialogues, che si sviluppano a terra, su coperte e lenzuoli che delimitano l’area in cui si inseriscono i peluche, che ricreano delle scene surreali, in cui sembrano interagire tra di loro. John C. Welchman in Craft Morphologies69 riflette sulle associazioni che intercorrono tra il lavoro di Kelley e quello di Heim Steinbach, anch’esso impegnato nella presentazione di oggetti, per una riflessione sul mondo del conusmo e sui suoi prodotti, che l’artista ordina sulle sue mensole minimaliste. I lavori dei due artisti sono connessi in un dialogo incessante di differenze e sovrapposizioni. Situate a terra le coperte e i tappeti rifiutano di sollevare gli animali e le bambole che li abitano, fino all’altezza occhi della mensole minimal di Steimbach, andando in un’altra direzione. Il loro essere cuciti, ricamati e fatti a maglia, e il provenire dalla cultura della classe media, risponde a tono alla seduzione degli oggetti di consumo prodotti in serie per le masse e le vetrine delle metropoli. Se Steinbach è interessato alla posizione dell’oggetto e alle simulazioni sociali, Kelly invece è interessato alla relazione tra oggetti e alle dinamiche interpersonali. E se Stainbach si confronta con Jean Baudrillard, Kelley guarda indietro alla storia dell’oggetto transizionale, rileggendo la psicologia post Freudiana. Secondo lo psicologo D. W. Winnicott, infatti, “transitional objects broke the sequence of events which starts with the new-born infant’s fist-in-mouth activities, and that leads eventually to an attachment to a teddy, a doll or soft toy, or to a hard toy”70. Nel libro Playing and Reality,71 Winncott nota come nello sviluppo infantile umano, un oggetto transizionale sia un qualcosa, solitamente un oggetto fisico, che prende il posto del legame madre-figlio. Gli esempi più comuni di questi oggetti includono bambole, orsacchiotti o coperte. 68 69 70 71

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Ivi, p. 64. cfr. J. C. Welchman, I. Graw, A. Vilder, Mike Kelley, op. cit., p. 67. Ibidem. D. W. Winnicott, Playing and reality, Psychology Press, New York 2005.


Per ‘transizionale’ Winnicott intende una fase di sviluppo intermedia fra quella psichica e della realtà esterna, ovvero tra l’erotismo orale del bambino e il rapporto oggettuale vero e proprio. In questa area transizionale possiamo individuare gli oggetti transizionali, che accompagnano il viaggio del lattante dal puramente soggettivo e dalla sua onnipotenza, all’oggettività. La preoccupazione di Kelley per il fallimento dell’oggetto artigianale di essere all’altezza degli ideali codificati della mercificazione, si incrocia con gli esiti psicologici di negoziazione del bambino con queste forme chiave. In Kelley avviene una specie di transfert in cui l’oggetto transizionale diviene oggetto artistico e il suo ruolo di artista si pone, così come nel bambino, tra il sé e la storia dell’arte con cui avviene il confronto. L’oggetto transazionale inserito nell’ambito artistico crea una connessione tra il confronto soggettivo di Kelley e la storia dell’arte, la cultura pop, il comportamento deviato, la criminalità e le differenze incontrate tra di essi. Queste coordinate riappaiono come funzioni di comportamento generalizzato che segue l’incontro con l’oggetto, così come Winncott lo pensa attraverso la seconda vita dell’oggetto transizionale all’interno della società. Repressione-produzione si accoppiano in Kelley ai concetti di regressione-movimento, uno stato confusionale di ritorno alla fase anale, di attaccamento infantile verso l’oggetto, una fase intermedia tra l’infanzia e l’adolescenza. Kelley insiste nell’inseguire le implicazioni della regressione all’interno della cultura, correlandole ad un’indagine all’interno dei fallimenti sociali e alle disfunzionalità; ricordando che l’atto di tornare indietro, specialmente al momento confuso del divenire adulti, ha un’equivalente nel gesto del fare artistico: “Un adolescente è un adulto disfunzionale e l’arte è una realtà disfunzionale, a mio avviso”.72 La regressione associata alla funzione artistica tocca, anche se solo per un attimo, nella ricerca di Kelley, un aspetto legato alla terapia e alla riparazione. L’ultima fase della ricerca di Kelley rispetto all’utilizzo di oggetti stoffa decreta l’uscita di scena dei suoi personaggi, su cui cala definitivamente il sipario. Due i lavori emblematici di questo periodo sono Empathy Displacement: Humanoid Morphology, la serie del 1990 dove alcune bambole fatte a mano sono chiuse in scatole nere e minimali, simili a bare, e affiancate dai loro ritratti in scala umana, e Craft Morphology Flow Chart (1991) dove i peluche sono presentati su trentadue piani di tavoli, e organizzati secondo la loro grandezza, i materiali di fabbricazione e la tecnica di costruzione. Sulle pareti che circondano i tavoli sono appese delle fotografie in cui i pupazzi sono immortalati con affianco dei righelli, che ne misurano la grandezza, come se fossero dei ritrovamenti archeologici. L’organizzazione tassonomica e netta di Craft Morphology e Flow Chart è un altro esplicito riferimento che vuole andare oltre l’associazione persistente di Kelley agli oggetti artigianali legati alla nostalgia e ad un recidivo infantilismo. Gli oggetti, infatti, sono letti unicamente come residui di un trauma e di una disfunzione, creati dalle memorie represse dell’artista che viene configurato come vittima o aggressore. è per questo motivo che gli oggetti cuciti devono scomparire e tutto quello che rimane del lavoro di Kelley di metà e fine anni ‘90 sono alcune tracce di una legge selettiva che li ha espulsi dalla ricerca artistica.

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J. C. Welchman, I. Graw, A. Vilder, Mike Kelley, op. cit., p. 58.

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3.4 Rosmarie Trockel Rosmarie Trockel inizia il suo percorso artistico nel contesto degli anni Ottanta. L’artista opera con diverse tecniche quali l’installazione, il video, il disegno, ma ciò che l’ha contraddistinta in modo decisivo, e che interessa in questa sede, è il suo rapporto con la fibra tessile che comprende i copricapi Balaclava e i quadri a maglia, con cui diviene nota al mondo dell’arte. Il contesto storico di riferimento è interessante per collocare e comprendere l’intervento di Trockel; sono questi infatti gli anni in cui molti artisti rivedono le caratteristiche della Minimal Art, attraverso l’utilizzo della riproduzione e realizzazione tecnica di oggetti, la loro creazione in serie e la distribuzione in strutture reticolari rigidamente articolate. Il riferimento è ad un certo impulso anti-narrativo, che risponde alla società consumistica e ai mass-media e che già la Pop art aveva fatto proprio.73 Ci si riferisce inoltre ad un’attenzione verso i meccanismi che regolano il rapporto tra originalità e imitazione, unicità e riproduzione, e che portano all’interno del mondo dell’arte i simulacri degli oggetti di consumo per evidenziare la relazione tra uomo e realtà omologata. L’artista postmoderno è cosciente della frammentazione a cui è sottoposto il soggetto costretto ad assumere una soggettività modulare. L’oggetto di consumo, anch’esso frutto di un assemblaggio, diventa il simbolo di questa condizione di inerzia del quotidiano, che si riversa nell’attenzione posta dall’artista verso oggetti che hanno una loro funzione pratica, come i copricapi Balaclava, che di fatto sono indumenti da indossare. Nel loro insieme questi elementi possono essere visti come apripista, fughe dalle restrizioni che incentivano la propensione a creare connessioni ideologiche tra idee, emozioni e applicazioni pratiche. Spetta all’artista il compito di focalizzare l’attenzione, attraverso il proprio linguaggio, su questi meccanismi che sono diventati le regole del gioco della contemporaneità. “Tali regole trovano il proprio evidenziamento proprio nei passaggio dentro il sistema dell’arte, capace di enfatizzare il suo valore iniziale mediante la costruzione di un metodo selettivo che ne fonda anche l’eventuale plusvalore. Il plusvalore diventa l’ulteriore segno tangibile del funzionamento oggettivo dell’arte, il rafforzamento della superoggettività dell’opera che trova conferma nella superoggettività del sistema sociale che ne coglie l’importanza.”74 Un intervento ironico e allo stesso tempo critico sul valore simbolico dell’opera d’arte, da rintracciare nei meccanismi di scambio alla base del sistema dell’arte. Le prospettive insite nel consumo sociale dell’arte sono messe in scena evidenziando i meccanismi di apprendimento che essa produce, compresi quelli legati alla possibile produzione del suo plusvalore culturale. Gli Stitch Bilder (1985 - 1996) di Trockel, che riproducono sotto forma di ornamento simboli commerciali e politici, acquisiscono una carica simbolica a partire da queste riflessioni; l’opera d’arte diventa un oggetto commerciale, inserito nel meccanismo di mercato dell’arte, al pari degli oggetti di consumo venduti alle masse, con il loro logo, e i loro segni distinguibili. 73 Cfr. P. Colombo (a cura di), Rosemarie Trockel. Post-menopause, catalogo della mostra Menopause, MAXXI, Roma, 2006, Walther Konig, Köln 2006, p. 35. 74 Ibidem.

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Il coniglietto di Playboy, la falce e il martello e il logo Woolmark sono riprodotti in modo seriale e ripetitivo con la lana, facendo diventare l’opera lo specchio della cattiva coscienza dello spettatore nei confronti del feticcio. “L’arte è immagine di se stessa e della cornice sociale che la circonda. La simulazione diventa quel procedimento che evidenzia l’atteggiamento analitico e sintetico dell’arte attuale e della sua consapevolezza di abitare lo spazio culturale della civiltà postindustriale. In questo contesto l’artista sviluppa un massimo possibile della sua fuoriuscita dal solitario edonismo della creazione, attraverso un metodo severo verso l’elaborazione formale dell’opera, attento all’analisi della sua percezione e della sua collocazione dentro i meccanismi di assorbimento della società di massa.”75 Il procedimento con cui vengono realizzati i quadri è interessante per quanto riguarda la traslazione delle procedure di composizione. I disegni dei modelli sono realizzati dall’artista a computer per poi essere riprodotti da una macchina, ritornando ad essere un metodo di fabbricazione meccanico ed industriale. In questo caso la scelta di evitare il lavoro manuale porta a riflettere proprio sulla dimensione seriale e ripetitiva dei meccanismi di produzione contemporanea, diventando infine termine di paragone per le affermazioni poste da Warhol con i suoi dipinti della zuppa Campbell e le scatole Brillo. Un medium legato all’azione creativa femminile, diventa veicolo di confronto tra la tradizione artigianale, domestica e il cambiamento che l’ha investita, sostituendola con prodotti fatti in serie e omologati, dove l’ornamento ha perso il suo valore e la sua funzione socio-rappresentativa a causa della riproducibilità tecnica. Queste tematiche incrociano quelle legate alla figura dell’artista donna: il punto di vista femminile si allarga, attraverso il mezzo tessile, fino a toccare la relazione tra il suo ruolo all’interno della società e la costruzione di un’identità, che il sistema cerca di plasmare imponendo modelli culturali, sessuali e artistici. Il modello ripetuto che diventa ornamento figurativo è da riferirsi in questo senso come modello comportamentale, e dalle parole della stessa Trockel, come qualcosa che nasce per essere copiato, “in fact the meaning of the concept pattern is the model to be copied.”76 Trockel elabora opere che adottano la complessità della sua condizione femminile evitando la pura denuncia, assumendo invece in termini linguistici l’ambiguità di una condizione antropologica che punta a rendere evidente e rappresentabile il non-rappresentabile. L’arte diventa sfida, anche interna al sistema dell’arte, che permette al soggetto una produzione particolare, l’elaborazione di una forma capace non soltanto di esaltare ma di realizzare un risultato che parte dalla storia ma sconfina, coniugando insieme maschile e femminile. Con opere come Senza titolo del 2004, un wall painting fatto a maglia che instaura un dialogo giocoso con Broadway Boogie Woogie (1942) di Mondrian, l’artista ripercorre, forse anche con una certa ironia, pratiche artistiche moderniste e minimali mediante tecniche ascrivibili all’universo femminile anticipando così, in qualche modo, alcuni contenuti espressi da quello che, nell’ambito della critica femminista, è considerato un saggio oggetto di culto come Minimalism and the Rhetoric of Power di Anna C. Chave77. 75 A. Bonito Oliva, Forme in attesa, in P. Colombo (a cura di), Rosmarie Trockel. Postmenopause, op. cit., p. 37. 76 J. Koether, Intervista con Rosmarie Trockel, in Flash Art, maggio 1987, pag. 41. 77 A. C. Chave, Minimalism and the Rhetoric of Power, Arts Magazine, gennaio 1990, p. 51, in http://www.annachave.com/annachave.com/annachave_publications_files/Minimalism.pdf (12.12.2015).

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Rosmarie Trockel, Balaclava; veduta della mostra, Gladstone Gallery, 2013.

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Rosmarie Trockel, Untitled, 1985.

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4. Propensione alla soggettività e al trauma personale

“Il trauma è un abbandono della singolarità per accedere a una pluralità. Il soggetto attraverso il trauma passa da una condizione individuale prestabilita a un’identità che si scompone in più facce, multipla e acentrica, fluida emorragia ed evaporazione delle parti. L’arte per la sua propensione all’avanzamento, all’instabilità e all’incostante, inevitabilmente detiene come patrimonio il trauma: dal verbo greco titrosko (“perforare”, “trafiggere”), rimanda a un taglio, uno squarcio, “in greco trauma significa ferita”. Il trauma può spingere a una duttilità inaspettata detta resilienza. Termine derivato dalla fisica dei materiali, indica la proprietà che alcune materie hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere state sottoposte a schiacciamento o deformazione. In psicologia connota proprio la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinnanzi alle difficoltà”.78 Il trauma come ferita da ricucire viene indagato nella sfera artistica da molti contemporanei. Connettendo questa dimensione problematica all’utilizzo del cucito come risanamento della situazione, si possono scoprire numerose affinità tra il mondo psicanalitico e l’azione del cucire. La presenza di un trauma del passato emerge, in ambito psicanalitico, quando nel soggetto si attivano dei meccanismi di ripetizione. Negli anni Sessanta Jaques Lacan definisce il reale traumatico proprio a partire dalla ripetizione come schermo di un reale in cui insiste un problema irrisolto, che emerge proprio dall’attitudine a ripetere compulsivamente un’azione, che rivelava al suo interno il problema. Si assiste quindi ad una mancata riproduzione del reale, che, non potendo essere rappresentato in modo unitario, può essere solo ripetuto. “Nell’insegnamento di Lacan il registro del Reale è in riferimento a quest’elemento inassimilabile. Il Reale pertiene ad un circuito in cui il meccanismo delle formazioni dell’inconscio produce un residuo che si manifesta come nucleo irriducibile al ritorno dei significanti: ciò che dunque si ripete è il ritorno di un fallimento, il fallimento del principio del piacere che lascia spazio a 78 p. 92.

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M. Cavallarin, L’abbandono. Pratiche di relazione nell’arte contemporanea, Silvana Editoriale, Milano 2014,


un modo in cui il soggetto si pronuncia al di là del principio di piacere. Il traumatismo della ripetizione consiste dunque nell’incontro con il dispiacere. Il sogno traumatico è l’esempio del nucleo che rimane impossibile da riassorbire per il principio di piacere, ossia per il processo primario inteso come circuito significante. Se l’insistenza dei significanti è situabile dal lato di ‘ciò che non cessa di scriversi’, l’incontro con questo nucleo inassimilabile al Simbolico lo si può esprimere con la formula ‘ciò che non cessa di non potersi scrivere’.”79 Nel parlare di ripetizione e automatismo, Lacan rivela come questi siano degli strumenti di cui si serve il paziente traumatizzato, per rivivere il trauma, che lo blocca psicologicamente, senza trovare rimedio. Molti artisti hanno basato la loro pratica su questo carattere ossessivo della ripetizione. Uno tra gli altri, Andy Warhol con la sua serie di serigrafie di volti di dive, di oggetti del consumo o di scene tratte da fatti di cronaca, come in Death in America: immagini tutte uguali tra loro, ma che in realtà rivelano delle piccole incongruenze, delle sbavature, che nell’ossessione della ripetizione anestetizzano l’osservatore, ponendolo di fronte, non più ad una rappresentazione, ma ad una superficie, che comunica non attraverso la figuratività delle singole immagini ma con la ripetizione di esse, per far emergere nei suoi elementi plastici, una realtà che prima rimaneva celata. Il reale, in questa prospettiva, può emergere solo attraverso un procedimento di montaggio di più parti, anche antitetiche, che nel loro assemblarsi rivelano qualcosa che altrimenti non potrebbe emergere. “Non voglio che sia più o meno lo stesso, voglio che sia esattamente lo stesso. Perché più guardi la stessa identica cosa, più il significato se ne va, e ti senti meglio, più vuoto. [...] Quando vedi molte volte un quadro orribile, non fa più nessun effetto.”80 Dalle sue parole di Warhol emerge una volontà a non far emergere l’emozione, ma al contrario a sommergerla, per proteggersi da essa e dagli effetti che può avere. “Difendersi dall’effetto traumatico e allo stesso tempo produrlo.”81 Il trauma spinge quindi, attraverso la reiterazione, ad un montaggio di azioni automatiche che si ripetono e da cui si può trovare la chiave di svolta al superamento del trauma stesso. La pratica del cucito si fa sempre carico di una relazione intima che si sviluppa con se stessi durante l’azione stessa. Una relazione che diventa plurale e si esternalizza quando si appropria di elementi esistenziali condivisibili. Il trauma è un tema che viene indagato da molti artisti, da sempre, proprio perché è un sentimento connaturato al fare arte. Ma cosa succede quando si parla di un trauma reso esplicito attraverso gli elementi del tessile? Essendo il trauma una lacerazione, diventa subito chiaro il legame che intercorre tra esso e il risultato formale con cui lo si intende elaborare. Il tessuto ragiona seguendo la logica del montaggio di frammenti, parti che presuppongono la mancanza di una totalità, un’assenza che viene colmata dall’unione di essi attraverso l’ago e il filo. Un montaggio che è risanante, perché permette l’elaborazione lenta e processuale, intima ma tesa ad aprirsi verso l’esterno, per meglio comprendere le cause del trauma stesso. Cucire prevede la reiterazione del movimento, la ripetizione, un’ossessiva movenza rituale che insiste sulla lacerazione, forare per unificare, una sutura psicologica. 79 80 81

Ivi, p.93. A. Warhol e P. Hackett, POPism: The Warhol 60’s, Harcourt Brace Janovich, New York 1980, p. 50. H. Foster, Il ritorno del reale, Postmedia Books, Milano 2006, p. 137.

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4.1 Louise Bourgeois Louise Bourgeois è un’artista poliedrica, che ha indagato, in tutta la sua longeva carriera, ogni genere di espressione artistica, dalla scultura, alla performance, al disegno, spesso in riferimento alla pratica del cucito. L’utilizzo del filo in Louise Bourgeios, è un rimando alla figura del ragno, identificazione di sua madre, una figura centrale per la sua formazione, amata e odiata poiché non aveva saputo ribellarsi ai tradimenti del marito, il padre di Louise, con il quale l’artista aveva intrecciato in tutta la sua lunga vita un dialogo a distanza, figura da cui ha cercato ossessivamente di liberarsi. Il ragno è un simbolo legato all’idea di apprendimento e di appropriazione della propria condizione psicofisica e nevrotica, ma al tempo stesso emblema della possibilità di ricucire le ferite emotive attraverso una presa di coscienza che le ripercorre, per ritrovare la nuova linfa o un nuovo filamento, per ricostruire la tela della propria vita. è da questo nodo problematico che Bourgeois viene suggestionata, a partire dal 1947, quando inizia a lavorare sui temi dell’abbandono, dell’ansia, della solitudine e della sessualità, seguendo un percorso autobiografico che parte dal trauma subito durante l’infanzia. Il suo lavoro ricrea il vissuto soggettivo in tutta la sua profondità simbolica, esistenziale, immaginativa e morfologica. Una valenza che la Bourgeois rivendica esplicitamente, quasi come condizione imprescindibile del fare arte: “La mia infanzia non ha mai perduto la sua magia”, dice nel 1997, “non ha mai perduto il suo mistero e non ha mai perduto la sua drammaticità. Tutto il mio lavoro degli ultimi cinquant’anni, tutti i miei soggetti hanno trovato la loro ispirazione nella mia infanzia”.82 Nata da una famiglia di tappezzieri di Aubusson, in Francia, Bourgeois, proietta fin da subito nel suo lavoro gli elementi che hanno caratterizzato da sempre l’attività della sua famiglia e con cui ha un confronto continuo. L’elemento tessile diventa una firma del suo fare artistico, perché risponde a due necessità, la prima, appunto, di partire da una soggettività legata alla necessità di parlare della sua esperienza traumatica, e in secondo luogo perché vede proprio nell’azione del cucito una possibile risanazione dei tormenti che non cesseranno di seguirla durante la sua vita. Tutto in Bourgeois parla del corpo, nudo o coperto con abiti, fogli o asciugamani. “Essi emergono dal presente e dal passato di Bourgeois, rivelando l’importanza dell’emozione e della memoria nella sua arte. Questi tessuti sono trasformati in sculture, attraverso montaggi, collages e assemblaggi per creare un diario visivo che corrisponde alla sua vita emotiva”. 83 Ci sono vari modi in cui relazionare il tessuto al lavoro di Bourgeois. Il termine tessuto può essere inteso con il senso di abito, un materiale flessibile realizzato attraverso l’intreccio, il lavoro a maglia di fibre sintetiche e filamenti. La definizione si applica ad una pelle espansa di elementi interconnessi, intrecciati. Inoltre il tessuto implica sempre qualcosa che giace sotto, alludendo ad una sostanza che 82 M. Corognati, Artiste: dall’impressionismo al nuovo millennio, Mondadori, Milano 2004, p. 201. 83 G. Celant, Dressing Louise Bourgeois, in G. Celant (a cura di), Louise Bourgeois. The Fabric Works, catalogo della mostra Venezia, Fondazione Emilio e Bianca Vedova, 2010, Skira, Milano 2011, p. 11.

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sembra essere velata, se non ombreggiata. Un mondo sotterraneo, non carnale, connesso alla sofferenza e alla pena, alla felicità e alle memorie fisiche e concrete, che appaiono attraverso i lineamenti di una superficie tessuta. Una specie di descrizione di un altrove, di un segno avvolgente dalla densità persistente: un corpo scuro e nascosto da cui dobbiamo emergere. In questo modo il tessuto introduce uno spazio di significato all’interno del viaggio di Bourgeois, ma senza arrivare ad una soluzione finale; esso è indicativo di un’espansione che deve correre attraverso tutto quello che l’artista ha fatto dal 1949, come un’intima, interna, forse proibita ricchezza. Infatti se includiamo la sua giovinezza e adolescenza nel laboratorio dei suoi genitori ad Aubusson e, dal 1923, il suo lavoro di rammendo delle tappezzerie, possiamo allora dire che il tessuto è stato un luogo di desiderio per riparare la memoria e il passato. Un ricorso alla tessitura come narrazione del sé. Il tessuto può essere definito anche come indumento e non solo come abito, un ruolo che è doppio, duale, e che, come la camicia, la tunica, la maglia, si riferisce al corpo. Qualcosa all’esterno che riflette quello che c’è all’interno. La struttura di un linguaggio, tagliata per seguire il contorno di una persona e adatto al suo confine fisico e che può dirci qualcosa di quella persona e dei suoi tratti significativi. Allo stesso modo, secondo Jean Genet, la funzione dell’abito è anche sacrificale, implica la vita e la morte. Visto come un assemblaggio, richiama l’atto di creazione e di fattura. Esprime la tecnica dell’eseguire qualcosa con le mani, tagliando e cucendo, un modo essenzialmente femminile di produzione come se fosse organizzato attorno ad un filo che, come nella storia di Penelope, non ha fine.84 Questo è il motivo per cui Louise Bourgeois usa il tessuto, perché riflette le caratteristiche della sua esistenza corporea, quasi coprendola con le stigmate segrete per comporre un oggetto d’arte, una scultura o disegno, che è il prodotto di una liberazione dalla paura e dall’ansietà: una terapia. “In order to liberate myself from the past I have to reconstruct it, wonder about it, making statue out of it and read of it through making sculpture. And maybe to forget it afterall. I have been depth to the past and i liberate it.”85 Assemblare cucendo assieme pezzi di tessuto significa riconnettere a partire da un taglio, da una lacerazione, da pezzi che prima erano separati, come per i collage di Braque e Picasso, che rimontano immagini prima fatte a pezzi per ritrovare una nuova relazione con l’oggetto. Essi affondano le loro forbici nelle superfici e nelle immagini per trasmettere direttamente un’idea e una consapevolezza di un’arte che, dopo aver esaurito e distrutto la rappresentazione del reale, ha creato una realtà tutta sua: un nuovo oggetto che non interpreta ma costruisce e produce qualcosa. Tagliare e organizzare forme e figure, immagini e materiali sulla superficie e nello spazio è un processo radicale, poiché permette di modificare il modo di percepire la realtà così come di costruirne una nuova. Il cucito è relativo alla paura di Bourgeois dell’abbandono e della separazione. Cucire è un’unione di pezzi. Se il taglio è una ferita, allora il cucito rimette assieme le cose, è una forma di riparazione. La separazione, il taglio che l’artista collega al padre, sono rimediati, salvati dalla condensazione, dalla capacità di unione, che lei connette alla madre. Il progresso 84 Cfr. ivi, p. 14. 85 T. Emin on Louise Bourgeois: Women without secrets, link video: https://www.youtube.com/watch?v=TiGjzV7Nk48, (10.12.2014).

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Louise Borgeois, Untitled, 2005.

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Louise Borgeois, Untitled, 2005.

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sequenziale è diretto verso una ripetizione ritmica e modulare delle sue voci interiori, in cui sono state nascoste immagini di ansia e paura, così come la loro assunzione, quasi sempre condotta nell’ambito di una cerimonia terapeutica, ai procedimenti del suo inconscio. Un lavoro che si basa sulla memoria e sulla capacità di rielaborare il passato per comprenderlo, eliminando le paure e le conseguenze di vecchi traumi. Tutta l’opera di Bourgeois è in riferimento a questa tematica, che l’artista indaga con differenti modalità formali. Dalla scultura, al ricamo sugli abiti, ai quadri cuciti: ogni risultato diviene la proiezione visiva di un pensiero o di uno scritto. Nella serie di lavori in cui l’artista ricama delle scritte su abiti, c’è una particolare attenzione al tema della memoria. Nella performance She lost it, per esempio l’artista fa stampare su un drappo di cotone lungo cinque metri, una storia scritta da lei nel 1947: “A man and a woman lived together. On one evening he did not come back from work. And she waited. She fept in waiting and she grew littler and littler. Later, a neighbor stopped by out of friendship and there he found her, in the armchair, the size of a pea.”86 L’esibizione prevede che la garza di cotone avvolga le pareti dello spazio espositivo, diventando una membrana di contenimento dell’architettura. All’interno dell’opera sono presenti degli indumenti con ricamate a mano delle frasi che parlano della paura e dell’ansia derivate dalla perdita. “Clothing is also an execise of memory. It makes me explore the past: how did I feel when I wore that. They are like signpost in the search for the past. Time is a tributary of light, of twilight, of the night and dawn. And full daylight. That’s my madeleine. That’s what I say to myself when time has passed. It’s mostly a function of the eyes, of light. It could be a function of the heat that rises into the radiator. It could be the smell of a good meal. Or it could be the music of Mozart that filters throughout the house. That it is, it’s a function of the five senses.”87 Gli abiti per l’artista sono un esercizio per allenare la mente e mantenere in vita certe fasi del passato, per riuscire a parlare di tutte quelle cose che risultano indicibili e che grazie all’opera possono essere liberate, affinché non riemergano sotto forma di traumi. “Louise Bourgeois’ work brings out the deeper meanings of textiles’ evocation of women, In her work fabric is associated directly with the female sexuality, the unconscious and the body. Familiar with psychoanalysis, she explores the infalntile roots of female sexuality in the family through her own history, which was closely tied to textiles, as her parents ran a tapestry restoration buisness.”88 L’abito ha di per sé un forte legame con il corpo di chi l’ha indossato, quasi a diventare un’impronta delle nostre forme, che ha contenuto e che l’hanno plasmato. In ogni abito rimane inscritto il vissuto, in ogni piega s’incuneano odori, movimenti, gesti. è qualcosa di rassicurante ma allo stesso modo di terrificante, come un’entità vuota, ma che nasconde tra le sue cuciture l’anima di chi ha accolto.89 L’abito viene presentato spesso come una scultura, che permette all’artista di re-interpretare la paura, dandole una fisicità, rendendola tangibile e oggettuale, per potersene allontanare. La 86 M. B. Stroud, New material as new media, The fabric workshop and museum, op. cit., p. 54. 87 G. Celant (a cura di), Louise Bourgeois. The Fabric Works, op. cit., p. 254. 88 R. Parker, The Subversive Stitch. Embroidery and the making of the feminine, op. cit., 2010, p. XVIII. 89 P. Stallybrass, Worn World. Clothes, Mourning, and the Life of Things, in The Yale Review (vol. 81, no. 2,), New Haven, April 1993, p. 37.

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paura del passato così diventa una realtà gestibile, e analizzabile in modo oggettivo. La paura quindi, da sentimento che blocca e rende passivi, viene trasformata in elemento che permette di prendere il controllo su di essa. Le opere della serie Fabric Works, come i quadri astratti fatti di cotoni colorati cuciti a formare opere non figurative o ancora composti da fascette di stoffa intrecciate, si confrontano invece con la tradizione tessile dei primi del Novecento, con le artiste russe come Exter, Popova, Rozanova o le produzioni della scuola del Bauhaus a cui Bourgeis sembra riferirsi. L’associazione della composizione dei suoi disegni di stoffa crea delle forti connessioni emotive con i tessuti di Albers o Reichardt. L’interesse è focalizzato sulla trama, sull’ingrandimento e l’emersione delle regole che creano il tessuto, sull’ordito e la trama che si intervallano rafforzandosi a vicenda per creare una nuova identità compatta. Un elemento altrettanto emblematico in rifermento alla sua storia personale, ma anche alla sua pratica artistica è la ragnatela o la spirale. Con l’utilizzo di tessuti a righe, Bourgeoise ricava dei quadri - ragnatela, frutto di una riflessione sul suo rapporto con sua madre, spesso associata, come detto, all’immagine del ragno, ma anche alla volontà di controllo del caos. La ragnatela diventa un’architettura che sostiene, un’abitazione, un luogo che infonde sicurezza poiché frutto di sostentamento vitale per il ragno. “The spiral is an attempt at controlling the chaos. It has two direnctions. Where do you place yourself, at the periphery ar at the vortx? Beginning at the outside is te fear of losing control; the winding in is a tightening, a retreating, a compacting to the point of disappearance. Beginning at the center is affirmation, the move outward is a representation of giving, and giving up control; of trust, positive energy, of life itself.”90 Un metalinguaggio, inoltre, sul mezzo utilizzato lungo tutto la sua esperienza artistica, metafora di una ricostruzione identitaria, e con effetto risanatore rispetto alla perdita di coscienza, legata al trauma. “...To rewind is to make a spiral. And the action demonstrates the even though time is unlimited, there is a limit to how much you can put on it. As you are tightening the spiral you must take care. If you tighten too much you risk breaking it. It is the same with sewing. Sewing without a knot at the end of the thread is not sewing. In this sense the spiral is a metaphor of consistency. I am consistent in my spiral. Form me there is no break. There is never an interruption in the spiral because I can not stand interruptions.”91

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G. Celant (a cura di), Louise Bourgeois. The Fabric Works, op. cit., p. 236. Ivi, p. 108.

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4.2 Tracey Emin Tracey Emin utilizza il ricamo come medium per esporre fatti che riguardano vicende private, della sua stessa vita, non per proporle in senso politico, ma per farle coincidere con tematiche universali, nella ricerca di instaurare un rapporto con lo spettatore basato su emozioni che riguardano l’esperienza di chiunque. Spesso questo processo è affrontato con toni ironici, per esempio quando ricama lettere e frasi in arazzi colorati, che creano un forte contrasto tra ciò che vi è espresso (spesso sono frasi collegate a fatti traumatici) e il modo con cui vengono formalizzati. “In Everyone I Have Ever Slept With (1963 -1995) she sewed onto the tent walls all the people’s names, including her grandmother and her teddy bear. Her other embroidered works includes When I Think About Sex, appliqued with the words drunk or super bitch. In another piece the words There is no fucking peace are spelt out against floral rectangles which re-inforce the tension between the message and the medium. On her website Emin describes herself as producing autobiographical art with the following statement: ‘Her confessional subjects include abortion, rape, self-neglect, and promiscuity expressed with the help of gloriously old-fashione looking, hand-sewn appliqué letters. Her dad quite likes sewing, because it reminds him of his mum’.”92 Tracey Emin porta nelle sue opere la collera, la tristezza e la frustrazione per una giovinezza non felice. Gli avvenimenti della sua storia personale, vengono presentati con brusca schiettezza, per poter essere elaborati e per poter far fronte alle lesioni che questi hanno provocato. Simboli di esperienze recuperate, appassionate e dolorose, i nomi sono cuciti all’interno di una tenda da campeggio che è allo stesso tempo simbolo di rifugio e di irrequietezza. I ricordi sono il materiale, la forma è dettata dalla loro autorità. Essa ha cucito nomi, parole, interi testi su stoffe o cuscini in un atto maniacale di intima unificazione. Queste parole, portano alla luce una funzione del tempo dimenticata dall’arte, che emerge in maniera tanto brusca da turbare. Come Emin stessa ha sovente sottolineato, è una funzione d’ordine spirituale. L’aspetto sensuale del suo lavoro, si rivela in alcuni punti aspro e fortemente esplicito, tanto da sembrare una terapia d’urto, che attutisce nell’artista il ricordo del passato, reiterandolo a tal punto da farlo sembrare innocuo, con la possibilità di essere elaborato. I suoi lavori diventano così ironici ma allo stesso tempo disperati e pieni di rabbia e anche se spesso sono stati associati a ricerche in ambito femminista, riguardano le relazioni in generale, poiché perseguono l’intento di parlare di emozioni che riguardano tutti.

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Ivi, p. XV-XVI.


Tracey Emin, Another Question, 2002; There is no Fucking Peace, 2003; Nobody Knew, 2002.

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4.3 Yayoi Kusama Inserire Yayoi Kusama in questo capitolo riguardante l’utilizzo del cucito come risposta ad un evento traumatico significa in realtà osservare gli sviluppi dell’intero percorso dell’artista, composto da una totalità di espressioni, che non hanno riguardato il solo utilizzo del tessuto. Le produzioni di Kusama sono accomunate da una certa modalità di creazione ossessiva, sia per quanto riguarda i media utilizzati, dalla pittura, all’installazione, passando attraverso la performance e la moda, ma anche per le scelte formali adottate. Yayoi Kusama è un artista di origine giapponese, un paese dove tornerà spesso anche dopo il trasferimento negli Stati Uniti, alla fine degli anni Cinquanta, dove inizia a sviluppare un proprio percorso artistico molto intenso, aiutata da alcuni amici artisti che nello stesso periodo stavano avendo successo tra le correnti dell’Espressionismo Astratto, del Minimalismo e della Pop art, a cui Kusama si affianca tangenzialemente, ma senza mai farne parte. Nel 1966 partecipa, assieme a Louise Bourgeois e Eva Hesse, alla mostra Eccentric Abstractions a New York, in cui, grazie alla visione di Lucy R. Lippard, curatrice della mostra e critica, il lavoro di Kusama viene definitivamente allontanato da una visione che la associava alla freddezza e alla serialità del minimalismo, facendo diventare il suo lavoro un precursore della sensualità dell’astrazione eccentrica a cui appartengono anche Eva Hesse e Jackie Windsor tra le altre.93 A New York si avvicina ad artisti come Claes Oldenburg, Frank Stella, Ad Reinhad, Barnett Newman e Donald Judd, che per un certo periodo sarà anche suo compagno e critico. Proprio Donald Judd scrive nel 1959 su Artnews a proposito della ricerca di Kusama: “The effect of Kusama’s Infinity Net is both complex and simple. Essentially it is produced by the interaction of the two close somewhat parallel planes… At points merging at the surface plane and at others diverging slightly but powerfully.”94 Pensare a Kusama significa immaginare sale e oggetti ricoperti da una coltre di pois colorati, gli Infinity Net Patterns, che avvolgono ogni cosa, sfumandone i contorni e annullando i limiti che separano i vari piani. Oltre che nelle installazioni più mature, questa interazione si nota anche nelle prime opere pittoriche, dove tra lo sfondo e la trama interviene un’oscillazione tra l’infinito dello spazio pittorico e la presenza del materiale sulla superficie. Negli esempi migliori, il pattern accoglie questi paradigmi divergenti arrivando ad un inseparabile equilibrio. Una firma d’artista, che diventa simile ad un marchio commerciale, un logo con cui obliterare95 ossessivamente ogni produzione, per il raggiungimento di un’auto alienazione che diventa contemporaneamente un modo per riaffermarsi come persona. Il sé fisico è cancellato solo per essere ri-asserito nel motivo d’artista. La necessità di ritrovare un equilibrio psichico, a causa di una nevrosi ossessiva che la tormenta fin dalla giovane età, obbliga l’artista a trasferire 93 Cfr. L. Hoptman, Yayoi Kusama: A Reckoning, in L. Hoptman, A. Tatehata, U. Kultermann, Yayoi Kusama, Phaidon Press Limited, London 2000, p. 44. 94 J. Romaine, Yayoi Kusama’s Infinity Nets: Sublime or Spectacle?, http://www.cardus.ca/comment/article/1049/yayoi-kusamas-infinity-nets-sublime-or-spectacle/, (09.11.2014). 95 Self obliteration è una definizione che Kusama cita spesso parlando della sua opera, in riferimento all’azione di dipingere il suo corpo nudo con gli stessi pattern a pois simbolo del suo intervento artistico, su oggetti e spazi.

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Yayoi Kusama, Accumulation Alteration, 1962.

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questa ossessione nelle sue opere, che diventano l’oggetto delle sue pulsioni indomabili, fino a sfociare in una persistente serialità formale, che si esprime sia con l’utilizzo del pattern decorativo, seppur minimal, che con la reiterazione delle forme. “One day, looking at a red flower-patterned table cloth on the table, I turned my eyes to the ceiling and saw the same red flower pattern everywhere, even on the window glass and posts. The room, my body, the entire universe was filled with it, my self was eliminated, and I had returned and been reduced to the infinity of eternal time and the absolute of space. This was not an illusion but reality. I was astounded. If I did not get away from there, I would be wrapped up in the spell of the red flowers and lose my life. I ran for the stairs without thinking of anything else. Looking down, I saw the steps fall away one by one, pulling my leg and making me trip and fall from the top of the stairs. I sprained my leg. Dissolving and accumulatin, proliferating and separating. A feeling of particles disintegrating and reverberations from an invisible universe...”96 Allo stesso modo dei dipinti funzionano le sue accumulazioni di sagome falliche, costituite da installazioni di stoffe cucite e imbottite a forma di genitali maschili e applicate su oggetti o interi ambienti. La serie di questi interventi, che prende il titolo di Accumulation Alteration, è il risultato di allucinazioni e ossessioni, che hanno l’effetto di produrre una sensazione di forte straniamento e sollecitazione percettiva ed emotiva. Queste installazioni sono state riferite spesso ad una certa attenzione verso tematiche di ordine femminista, che sfociano nel feticismo. Non si può ignorare una certa attinenza con certe ricerche che si sviluppano negli stessi anni, ma anche queste opere sono da inserire all’interno della ricerca psicologico - ossessiva per la conquista di un equilibrio identitario. I falli, formati da pezzi di cotone e riempiti di ovatta, sono moltiplicati e reiterati come terapia d’urto tesa ad esaurire il timore dell’artista per queste forme. Kusama crea così campi di escrescenze, tra l’oggetto minimalista e le immagini pop e la forma fallica viene trasformata in una parodia di se stessa. Ambienti e oggetti diventano indistinti, sommersi dai pois e dai bozzoli bianchi. Ancora una volta la ripetizione diventa sintomo di un confitto non risolto che si cerca di alleviare o di superare attraverso la reiterazione di quelle istanze che l’hanno formato, mettendo in evidenza la paura e la sfida intrapresa dall’artista nei confronti dell’opera e della durata dell’atto di creazione, che diventa un processo mentale integrato al lavoro stesso. La scelta del medium artistico diventa una chiave di lettura interessante per comprendere ancora una volta la ricerca di Kusama. Nella serie Accumulation Alteration il tempo per la creazione artistica si dilata, perché assume la durata dell’azione lenta del cucito. Una dimensione intensa e intima per quanto concerne l’immersione mentale e psicologica nel processo, che trova un contraltare nella presentazione documentativa del lavoro. Nella maggior parte delle fotografie delle sue installazione, Kusama è inserita all’interno delle sue creazioni, dove le escrescenze la nascondono, la avvolgono o ne sostengono il corpo obliterato.

96 p. 37.

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L. Hoptman, Yayoi Kusama: A Reckoning, in L. Hoptman, A. Tatehata, U. Kultermann, Yayoi Kusama, op. cit.,


4.4 Kimsooja Il linguaggio specifico della ricerca di Kimsooja può essere identificato con il cucito, da quando a metà degli anni Ottanta inizia il suo percorso artistico con la ripresa e la rivisitazione di alcuni elementi provenienti dalla sua cultura d’origine, quella coreana, come i tessuti e i bottari, fagotti che hanno lo scopo di contenere gli averi di persone che si mettono in viaggio allontanandosi da casa, siano essi viaggiatori o immigranti. Il bottari è il simbolo del vagare e per i coreani che hanno dovuto andare via da casa spesso per sfuggire alla guerra e alla povertà e anche per cercare un lavoro, è parte di una scena storica del paese. Noi ricordiamo il bottari visto sulle spalle dei rifugiati, o sulle teste dei mercanti in viaggio, su camion da trasporto: è una forma di mobilità in uno spazio non limitato e allo stesso tempo un recipiente chiuso attorno al suo contenuto.97 Il lavoro di Kim Sooja con gli abiti inizia con le tecniche dei cucito e del disegno. La sua vita artistica inizia “‘with the unity of my thoughts, sensitivity, and activity. They were caused by the everyday act of sewing bedcovers with my mother.’ Emphasizing the unity of the activity, of sewing and her thinking, she makes them involve the ‘various memories, pains, and affections which have been intentionally forgotten’. For her, ‘this expresses the meaning of desperate self-salvation’.”98 L’incontro dell’artista con l’attività del cucire, viene descritta a partire da un’esperienza personale, che diventa la chiave di lettura di tutti i suoi lavori, una ricerca che parte dalle proprie radici viste come memorie familiari o legate alle tradizioni del proprio paese. “One day while sewing a bedcover with my mother, I had a surprising experience in which my thought, sensibility and action at that moment all seemed to converge. And I discovered new possibilities for conveying buried memories and pain, as well as life’s quiet passions. I was fascinated by the fundamental orthogonal structure of the fabric, the needle and thread moving through the plane surface, the emotive and evocative power of colourful traditional fabric.”99 Lei accumula una grossa varietà di vestiti preziosi e amati, alcuni dei quali ereditati da sua madre o da sua nonna, come le sete colorate, i lini, i satin, che vendono incorporati nelle sue composizioni artistiche. Nel farli suoi e nel riutilizzarli come mezzi artistici, l’artista riflette su questioni legate al concetto di memoria e assenza, sia per la morte di una persona a lei cara, sia per la rottura di un tabù, poiché nella cultura coreana, gli abiti devono continuare ad appartenere alle persone che li hanno indossati durante la vita. L’assenza, un tema importante nella ricerca dell’artista viene declinata in assenza fisica legata all’allontanamento da un luogo, dalle persone o da alcune regole tradizionali infrante, e simboleggiata dall’elemento del bottari, che di per se è l’emblema di questo processo transitorio di distacco dalle proprie origini. I tessuti che arredano casa e coprono i letti diventano l’involucro per contenere una serie di elementi legati alla propria identità nel momento in cui ci si allontana dalla propria terra. I 97 cfr. G. Matt, Kimsooja talking to Gerald Matt, in G. Matt (a cura di), Kimsooja - A Needle Woman, Vienna 2002, p. 7 - 33, cit. in http://www.kimsooja.com/texts/malsch.html, (22.01.2015). 98 J. K. Yoo, Formative Characteristics cit. in www.kimsooja.com/texts/yoo.html (23.01.2015). 99 K. Airyoung, Soo-Ja Kim: A solitary performance with old fabric, cit. in http://www.kimsooja.com/texts/airyung. html, (22.01.2015).

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Kimsooja, A Mirror Woman, 2002; Cities on the move, 1998; Untitled (Bottari Bundle), 2001.

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bottari sono veicolo di un messaggio legato ad un disagio, alla speranza di chi fugge assieme a pochi elementi che sono basilari per la sopravvivenza in un altrove non ben definito e allo stesso tempo un collegamento con il passato da cui si fugge. Gli involucri dei fagotti sono costituiti di solito da lenzuola e copriletto, che vengono donati come regali di nozze alle spose, perciò sono elementi strettamente legati alle persone che li posseggono, e spesso li accompagnano fino alla morte, anche perché i motivi con cui vengono stampati o realizzati, rappresentano un buon augurio da parte di chi li dona, per una vita serena e soddisfacente. Il cambio di utilizzo che viene compiuto all’interno della cultura coreana, e che trasforma questi indumenti domestici in contenitori di speranze, trasla questo augurio affinché assuma nuovi valori, legati appunto alla ricerca di nuovi luoghi dove cercare una stabilità per la vita. “Andarsene dalla propria terra presenta una componente positiva, la speranza di una vita migliore. Ma significa sempre tagliare le proprie radici. E al fondo di una persona sradicata c’è sempre una ferita segreta e persistente. Perché la voce di una donna è in qualche modo più pronta a dire tutto questo, a insistere sull’altro, sugli altri? Forse perché ci si pone più facilmente nella posizione del catalizzatore, passivo e ancora più vulnerabile in quanto donna. La posizione femminile è alla base di tutto il mio lavoro, a partire dal cucito, dai tessuti, dalle cose senza importanza che costituiscono gran parte della vita quotidiana delle donne. Ho cercato di restituire dignità a tutto questo, sempre con il proposito di abbracciare, di incontrare, di avvolgere.”100 Le installazioni in cui Kimsooja presenta le composizioni di bottari si dividono in più fasi formali, la prima attorno agli anni Ottanta mostra i tessuti per i fagotti composti secondo una logica pittorica. I primi Sewn Works, creati tra il 1983 e il 1992 circa, sono dei patchwork, dei montaggi di tessuti in forme geometriche, piatte, pensate per essere appese alle pareti. Essi hanno dei forti andamenti di colore piatto e astratto, che cercano di evadere dai limiti delle cornici pur essendo ancora ancorati alle regole del piano. Installazioni come The Earth and the Heaven, Portrait, The Inevitability of Life, Fall, hanno qualcosa in comune con il Post-astrattismo, dove i quadrati di tessuto cuciti assieme, mostrano un fascino geometrico e astratto, e creano un mondo pittorico esposto direttamente ai sensi. I tessuti che l’artista lavora assieme attraverso delle giunture e delle cuciture, assumono una struttura narrativa, articolandosi in una nuova struttura materica e creando un’illusione, che, secondo l’artista ha a che fare con la nostalgia derivante da numerose sofferenze legate agli affetti e a legami emotivi a lungo sepolti nella propria memoria.101 A partire da fine anni Novanta, i lavori ragionano invece sull’utilizzo tradizionale del fagotto da viaggio, che diventa protagonista di performance e video come Cities on the Move per il quale l’artista accumula i bottari nel van di un camion e viaggia in diversi luoghi collegati in qualche modo al suo passato, come in un pellegrinaggio, per un totale di 2727 km, sempre ripresa di schiena in cima al mucchio di fagotti. Una perfetta metafora non solo del nomadismo obbligatorio fra gli artisti contemporanei, ma anche del disagio epocale dei popoli esiliati, in Palestina, Africa, Balcani. “Settling down and being shuffled around, meeting and separation - these topics were always 100 M. Corognati, Artiste: dall’Impressionismo al nuovo millennio, op. cit., p. 333. 101 S. R. Suh, The Grammar and Expression of “Sewing”, cit. in http://www.kimsooja.com/texts/sung-rok.html, (23.01.2015).

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present for me. I have the mentality of a person living on a border line, and the materials, with which I work, correspond to that. Since my childhood I had a lot to do with ‘longing’ and ‘ homesickness’ with ‘memory gaps’ and ‘adjustment to the new environment’.”102 Nell’installazione del 2002, A mirror woman, i quadrati di tessuto vengono presentati nuovamente in modo decorativo, appesi ad alcuni fili, come se fossero stesi ad asciugare, mentre alcuni ventilatori li fanno ondeggiare all’interno della stanza, le cui pareti sono state ricoperte di specchi e un canto dei monaci tibetani risuona nello spazio espositivo. Viene creata quindi una forte connessione con il luogo che ospita l’installazione, quasi ad indicare una ritrovata stabilità all’insegna della ricostruzione delle proprie radici. Kim Sooja rivela così la sua esperienza personale con il mondo tessile e con il gesto mondano del cucire, mostrando una certa intimità e un armonia sorprendente con il mezzo, un’affinità in cui i suoi pensieri, la sua sensibilità e i suoi gesti si uniscono in rapporto emblematico con i tessuti stessi. Il processo artistico che rende il gesto dell’artista unico e armonioso e unisce l’uomo alla natura, nel caso di Kim Sooja si può riferire al gesto del cucito. Graficamente, il gesto del cucire esiste come medium che connette il soggetto e l’oggetto, e alle volte induce ad un’empatia tra i due. La ricerca da parte dell’artista del controllo sulla vita e la sua ricerca di una relazione con l’esistenza si sviluppa attraverso l’atto di unire cucendo: grazie a questo medium Kim Sooja misura continuamente la profondità del planetario, mentre allo stesso tempo artisticamente esplora altri aspetti del mondo in cui vive. Dal cucire, il lavoro secolare per la donna, Kim Sooja sviluppa una dimensione spazio temporale in cui sono inscritte tutte le attività vitali e sociali. Attraverso il tessuto lei forgia una connessione con il passato ed esprime la memoria delle donne e della comunità senza cadere preda della nostalgia. anche se apparentemente celebra il colore e la materia, sviluppa la sua riflessione sui collegamenti invisibili che creano il mondo di oggi. Facendo questa performance solitaria con vecchi tessuti, fa conoscere a noi luoghi, dove possiamo incontrare il diverso e poter trovare noi stessi.103

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G. Matt, Kimsooja talking to Gerald Matt, cit. in http://www.kimsooja.com/texts/malsch.html (22.01.2015). Cfr. ibidem.


5. L’inevitabile decoratività e femminismo

È la donna che dà forma all’assenza, che ne elabora la finzione, poiché ha il tempo per farlo; essa tesse e canta. Roland Barthes Una svolta rappresentativa che riguarda la connessione tra arte e cucito avviene negli anni Settanta, quando, seguendo varie tendenze che si stavano sviluppano a livello sociale, l’utilizzo delle pratiche tessili in arte viene declinato in direzione tendenzialmente politica, diventando strumento per dare voce a problematiche che riguardavano soprattutto il ruolo della donna all’interno della società e del contesto artistico in generale. La nuova consapevolezza di genere acquisita dalle artiste vicine al pensiero femminista conduce, soprattutto negli Stati Uniti, a un rinnovamento complessivo dei linguaggi e a una salda opposizione alla gerarchia tra le arti. Numerose artiste oltre a rafforzare espressioni come la performance e la fotografia, si riappropriano di tecniche associate alla sfera del femminile come il cucito e il ricamo e le piegano a nuovi contenuti e a inediti sistemi di senso, per farli divenire veicolo della presa di coscienza e della narrazione di sé.104 Il filo e i suoi significati storici e mitici, ricorda sempre l’idea di dare forma, di tramare, ordire, dare corpo ad un pensiero razionale che, se orientato politicamente, coinvolge una serie di valenze connesse all’azione individuale, di presa di coscienza e rafforzamento della propria identità. Il filo in questo senso porta con sé dei significati archetipici e mitici, sono l’emblema dell’attività femminile per eccellenza, a cui la donna è stata obbligata da sempre, unico modo per esprimere un’ambizione artistica. Nell’ambito della Fiber Art vediamo come la lavorazione del tessuto in pratiche collettive, sia stata spesso un’occasione per rendersi attivi socialmente per porre l’attenzione verso crisi o problemi che stavano affliggendo la comunità. In arte contemporanea si riprendono alcuni modi di intendere il medium, con declinazioni che 104

Cfr. M. Giordano, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, op. cit., p. 104.

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da personali aprono verso questioni condivise. “L’arte delle donne, sia visiva che letteraria, come il lavoro di altri gruppi tradizionalmente svantaggiati, ha con sé un potere straordinario: la forza creativa dell’auto-definizione. Questa può assumere la forma della rabbia, o di un’affermazione in positivo e comporta un insieme di approcci diversi alla comprensione e articolazione di quell’unica prospettiva che ci appartiene. è attraverso il lavoro delle donne che ci siamo rese conto dell’inadeguatezza dei precedenti modelli patriarcali d’arte e delle relazioni con una cultura contemporanea la cui sopravvivenza è minacciata dagli stessi modelli aggressivi e competitivi che, tradizionalmente, sono stati dominanti.”105 In questa fase il mezzo che le artiste scelgono di utilizzare è uno strumento che parla attraverso significati alle volte contrastanti: da sempre simbolo di sottomissione e autonomia, fonte di potere e piacere ma anche inevitabilmente connesso alla difficoltà con cui la donna conquista la dignità del suo ruolo. Nascono in questo periodo numerosi gruppi di artiste o di attiviste tra cui il Women Liberation Movement, il Feminist Art Movement e il Pattern and Decoration. Il Women Liberation Movement del 1970 eredita particolari aspetti della contro-cultura, come il rifiuto dei valori imposti dalla classe dirigente, che riguardavano anche regole di comportamento sessuale, con lo scopo di porre nuovamente l’attenzione verso l’importanza degli aspetti personali ed individuali e delle differenze tra individui che queste determinavano. Tutto ciò prevedeva una presa di posizione a livello politico. Il potere che alcuni gruppi avevano su altri, era reso possibile dalla modalità di organizzazione delle sfere del pubblico e del privato, del domestico e del professionale, delle emozioni e dell’intelletto, del femminile e del maschile. L’azione del cucito viene vista quindi come simbolo di un atto di liberazione da queste costrizioni, dimostrando come problemi personali sono in realtà mancanze che riguardano l’intera collettività poiché gli aspetti del privato sono il prodotto delle ideologie imposte dalla società. Strettamente connesso a questo gruppo è il Feminist Art Movement, nato negli anni Sessanta; è stato il movimento più longevo di tutti quelli sorti dal Secondo Dopoguerra. L’arte promossa dal gruppo si riferisce alle esperienze e alle vite delle donne e di come queste vengono percepite all’interno dell’arte contemporanea, con il tentativo di dare maggiore visibilità al ruolo dell’artista donna all’interno della storia dell’arte. Questo desiderio porta allo sviluppo di pratiche che entrano direttamente in contrasto con le regole formali dei maggiori esponenti del Modernismo, soprattutto con l’Espressionismo Astratto promosso da C. Greenberg. Il movimento Pattern and Decoration, invece, si pone in contrapposizione con la cultura maschile occidentale, ricercando nuove formule stilistiche e mediali minori o provenienti da altre culture. Le ispirazioni vengono cercate al di fuori della cultura degli Stati Uniti, per dirottare l’attenzione verso i paesi Orientali e le loro tradizioni tessili, cercando quindi di evadere dai limiti artistici per trovare nuove connessioni con altre discipline, come l’artigianato e l’ornamento. “P&D is an interesting counterweight to claims of uni-directional cultural influence and arrogance that America sends out but does not acknowledge the importation of cultural forms and motifs. Arguably, P&D is the first postmodern art movement because its artists utilized a broad array of source material and embraced the impermanent, the common, and the excluded in forming their content and images.”106 105 E. De Cecco, Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, op. cit., p. 35. 106 A. Swartz (a cura di), Pattern and decoration: an ideal vision in American art, 1975-1985, catalogo della mostra, Hudson River Museum, New York, 2007, in http://www.hrm.org/pressbox/Pattern.html, (03.03.2015).

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5.1 Magdalena Abakanowicz

Magdalena Abakanowicz è un’artista polacca, che inizia il suo percorso artistico negli anni Cinquanta. La sua storia personale, il fatto di essere un’artista che si è formata in Polonia, diventa un carattere che influenzerà molto lo sviluppo della sua ricerca. Alla fine degli anni Cinquanta inizia a raccontare in forme plastiche e pittoriche il trauma subito dal suo paese, la Polonia, durante il nazismo e la guerra, e la cesura totale che lo separa ormai dalla sua storia e dal suo passato. Nel decennio successivo decide di utilizzare esclusivamente le fibre naturali per realizzare singolari ambienti o sculture lavorate in fibra e fissate con la resina, corpi, spazi in qualche misura praticabili che l’artista concepisce come un organismo vivente o una specie di seconda pelle mummificata, disidratata e secca, ma adatta a contenere i corpi per proteggerli. Naturalmente questi oggetti, chiamati Abakans, non hanno una forma fissa ma risultano adattabili in relazione all’ambiente in cui vengono collocati o a “qualcosa” che può essere posto al loro interno. Non sono cose da guardare soltanto, ma anche da toccare, da abitare, in qualche misura da usare. Queste strutture prendono il nome di Abakans, dal cognome dell’artista, un segno che sottolinea come la sua opera si contraddistingua in modo totale da quella che è la tradizione artistica o gli sviluppi del periodo nel resto dell’Europa e del Mondo. Abakanowicz infatti, dal suo paese di origine non riesce ad avere un confronto costante con altri artisti, soprattutto con le correnti come l’Arte Povera, il Minimalismo, l’Arte Concettuale, che negli anni Sessanta sono al centro della rivoluzione artistica, che propone nuovi modi e approcci ai materiali e ai processi. L’utilizzo di fibre naturali, infatti, per Abakanowicz significa essere relegata all’esperienza artigianale, dove i suoi interventi spiccavano per un forte carattere radicale. Solo nel 1962 il suo lavoro esce dalla Polonia, per essere presentato all’interno della Biennale Internazionale di Tappezzeria di Losanna, un’esposizione che all’epoca non era ancora proiettata nell’ambito artistico in modo convincente. Sarà nel 1969 che il MoMA di New York includerà in “Wall Hanging” l’opera dell’artista e sempre in quell’occasione verrà acquisito dal museo uno degli Abakas che avevano partecipato all’esposizione. Gli Abakans sono “spazi da esperire”107, grandi elementi rossi, neri o gialli, realizzati con fibre che l’artista elabora disfacendo rotoli di corde di scarto trovati lungo le rive del fiume Vistola, da cui riesce a ricavale fili di fibra di sisal con cui tesse i suoi panneggi di stoffa. L’intervento artistico inizia quindi già in questa prima fase del lavoro, in cui c’è una trasformazione del medium che da industriale (la corda) torna ad essere un elemento primario e naturale, come la fibra. Pur non avendo un confronto con altri artisti europei che nello stesso periodo giungono a soluzioni formali simili, il suo processo artistico può trovare dei termini di paragone con quello di Robert Morris, tra gli altri. Se nell’artista americano il materiale viene plasmato dalla forza di gravità che ne crea le pieghe e le tensioni, in Abakanowicz il materiale viene lavorato senza un progetto specifico. La tessitura degli enormi bozzoli, avviene a mano, fuori dal telaio tessile, 107 A. Vettese, Space to experience, in A. Vettese (a cura di), Magdalena Abakanowicz. Space to experience, catalogo della mostra, Milano, Fondazione Arnaldo Pomodoro, 2009, Fondazione Arnald Pomodoro, Milano 2009, p. 38.

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Magdalena Abakanowicz, Abakan Orange, 1971.

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Magdalena Abakanowicz, Embryology, 1978 - 1981.

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e durante questo procedimento la materia invade lo spazio di lavoro, circonda l’artista stessa, che non riesce ad avere il controllo di come la forma si stia sviluppando. Così il materiale rimane fuori dal controllo persisente dell’artista, per continuare ad essere un processo di per sé stesso autonomo, in divenire costante. Le forme molli e informi inoltre, spartiscono la stessa grammatica e riflessione femminile di Eva Hesse, dove l’esperienza plastica femminile “definisce un territorio dove la scultura non è necessariamente eretta su una base che domina il mondo. L’informe o il molle hanno anch’essi un loro posto, così come l’effimero o l’aleatorio. La scultura delle donne del XX secolo presenta la vocazione a interrogare le nostre categorie mentali e le nostre maniere di vedere il mondo e gli altri, piuttosto che a produrre oggetti “belli” resistenti al tempo.”108 Gli abakans infatti interrogano lo spettatore, irrompendo nello spazio, imponendosi e creando delle tensioni che obbligono al confronto. Come delle grandi labbra che si riferiscono ai genitali femminili, pronti ad accogliere, ad essere vissuti e toccati. In Abakan Orange del 1971 la connessione anatomica è ancora più netta, in quanto la struttura appoggiata a terra riceve al suo interno una corda, che discende su di lei dal soffitto. In questo senso l’opera di Abakanowicz anticipa riflessioni sul femminile, che solo dopo anni verranno sviluppate nell’ambito del femminismo e delle sue declinazioni artistiche in riferimento all’utilizzo di materiali legati alla tradizione del cucito. Embriology (1978 - 1981), presentato alla Biennale di Venezia, è un insieme di bozzoli, di cellule cucite con cotone, canapa e sisal, che fanno retrocedere ad uno stato embrionale, quasi come se lo spettatore fosse posto dinnanzi al periodo di gestazione di esseri non ancora completi. Una fase transitoria, simile ad un limbo dove si stanno per compiere delle scelte che indirizzeranno la vita in una direzione maschile o femminile. Anche qui è in ballo il tema della tensione tra due polarità, simile alle forze che si esprimono con gli Abakans, qualcosa che prescinde il figurale e che si posiziona prima, all’interno di una dimensione ancora archetipica e universale. Così la dimensione dell’organico e del non organico incontra quella della vita e della morte fino ad arrivare al concetto di infinito, su cui l’artista ha riflettuto molto. “I feel overwhelmed by quantity where counting no longer makes sense. By unrepeatability within such quantity. A crowd of people or birds, insect or leaves, is a mysterious assemblage of variants of a certain prototype, a riddle of nature abhorrent to exact repetition or inability to produce it, just as a human hand can not repeat its own gesture.”109 Così anche il cucito diventa un’azione tesa all’infinito della ripetizione gesto, che procede apparentemente uguale a se stesso, ma che in realtà muta impercettibilmente.

108 M. Corognati, Artiste: dall’Impressionismo al nuovo millennio, op. cit., p. 255. 109 A. Starewicz, About Magdalena Abakanowicz, cit. in http://www.abakanowicz.art.pl/about/-about.php. (02.02.2015).

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5.2 Ghada Amer Ghada Amer è un’artista di origine egiziana che inizia la sua ricerca negli anni Ottanta. La sua volontà di rendersi indipendente dal linguaggio pittorico, visto come rappresentazione di regole e stilemi imposti da una certa visione maschile dell’arte, la porta a ricercare un metodo per sviluppare una propria cifra stilistica, che sia specificamente femminile e che riesca ad esprimere determinate problematiche inerenti al ruolo della donna nella società. Quando nel 1984 dalla Francia rientra assieme ai genitori in Egitto, le si affaccia una realtà sociale radicalmente mutata: le donne devono portare il velo, sono relegate al ruolo di madre e casalinga, comportamenti che hanno fatto regredire il loro stare nella società. Ghada Amer inizia in quegli anni a riflettere sul modo in cui poter utilizzare il metodo pittorico, ma senza soggiacere alle regole imposte da un certo modo fallocentrico di dipingere. L’utilizzo dell’ago e del filo si impone come strumento artistico che le permette di riflettere sul contenuto della sua opera a partire da una tecnica che da sempre contraddistingue la donna e il suo punto di vista sul mondo. La sua ricerca inizialmente la porta a rappresentare attraverso il ricamo su tela, donne impegnate in occupazioni quotidiane, come stirare (La femme qui repasse, 1992) o lo zapping televisivo (La femme qui zappe, 1992) sempre attraverso il disegno, la pittura e il ricamo. Sono modelli di donne passive, che accettano di vivere uno stile di vita imposto dalla società, che le vuole rinchiudere in quel modello. Il ricamo e il cucito non sono utilizzati dall’artista a scopo decorativo, ma più che altro narrativo: durante le varie fasi del suo lavoro sviluppa dei risultati che possono essere assimilabili ad una ricerca semiologica sulla parola e il testo, per esempio in Ken Loves Barbie, Barbie Loves Ken (1995-2004), due grandi tute di cotone ricamato dove sono cucite parole chiave come desiderio, tormento, assenza. Cucire in modo ossessivo e ripetitivo, reiterando le stesse parole e le stesse frasi diventa un mantra, un ossessione, allo stesso modo di alcune frasi, che suonano come monito da seguire per sviluppare atteggiamenti socialmente accettati e perbenisti. “I wrote obsessively those sentences like a punishment, you know when you have to write many times stupid things so that you begin to belive in them, like ‘I must brush my teeth before going to bed’ or ‘I must be polite to the teacher’ and so on”.110 Nei primi anni Novanta inserisce nei suoi quadri delle scene erotiche o autoerotiche di donne, che vengono ricamate su tela. All’interno di queste scene non compare mai nessuna figura maschile, e questa scelta può essere interpretata come una progressione naturale che deriva da domande non fatte sul desiderio femminile. L’artista concede uno spazio per la sessualità della donna, che può così avere l’opportunità di scoprirsi e rendersi autonoma. Tutto ciò risponde alla volontà di far emergere la visione di una donna emancipata, che ribalta lo stereotipo delle donne sottomesse, precedenti protagoniste della sua opera. La scelta dei soggetti così forti viene compiuta per poter parlare a tutte le donne, attraverso il contrasto che si crea tra medium e soggetto rappresentato, riferendosi all’attrito che interessa il ruolo 110 M. Reilly, Writing the body: the art of Ghada Amer, in M. Reilly (a cura di), Ghada Amer, Gregory R. Miller & Co., New York 2010, p. 19.

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Ghada Amer, Untitled, 1997; Pain, 2005.

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della donna da sempre, che deve saper essere moglie e madre, gestendo al meglio la sua sfera pubblica e privata, lavorativa e domestica. Questo salto stilistico le permette di inserirsi nella generazione che si riconosce come terza ondata di femminismo, di cui sono parte altre artiste del periodo come Martha Rosler, Miriam Schapiro, Judy Chicago o Tracy Emin, tutte artiste che utilizzano il suo stesso medium per scardinare una certa visione ottusa sulla pratica femminile del cucito, che diventa uno strumento per azionare un certo tipo di contrasto tra forma e contenuto dell’opera. Un atto familiare, delicato e confortevole come il ricamo, diventa il contraltare di azioni aggressive ma disturbate in modo tattile e visivo da escrescenze che ne impediscono la visione nitida. Sono agglomerati di fili che pendono dalle figure che lei stessa ricama sulla tela e che citano i dripping di Jackson Pollock. Questo modo di usare la citazione viene letto in chiave critica, proprio per ciò che la figura di Pollock (assieme alla filosofia di Clement Greenberg) ha significato per l’andamento della storia dell’arte e della pittura del Novecento. Quella di Amer è quindi una risposta femminile all’organizzazione della pittura secondo canoni di mascolinità. “Ritengo che quello della pittura sia un linguaggio creato dai maschi. E non è una critica, visto che io la pittura la adoro! Le artiste femmine hanno imparato la storia dell’arte e una costruzione del “quadro” come visione assolutamente maschile, e questo va anche bene purché noi donne ne siamo consapevoli. È un argomento cui sono molto sensibile e che ho sempre voluto ricostruire. Dapprima l’ho fatto usando immagini tratte da riviste pornografiche inventate da maschi, per maschi. Volevo rappresentare la donna all’interno di un veicolo che fosse manifestamente femminile al fine di potenziare le immagini (cioè quella che chiamo doppia inferenza) e liberarle tramite il potere della seduzione. […] Mi sono servita del corpo frammentato come parte importante della mia tecnica. La ripetizione è molto importante perché mi affido a essa per darmi un piano d’immagine che possa lavorare e contrastare. Ho scoperto che ripetendo le figure l’una accanto all’altra si veniva a creare uno sfondo sul quale potevo iniziare a dipingere. A quel punto dipingevo le immagini ripetute. Ho cominciato […] perché volevo dipingere senza usare la pittura e servendomi piuttosto di un veicolo femminile per trasformare l’atto del dipingere. Avevo ben chiara in mente la mia volontà di trasformare la pittura non dipingendo. A quell’epoca non sapevo esattamente come potessi riuscirci cucendo le immagini, però mi piaceva l’idea sia di sperimentare le implicazioni del cucito sia di esplorare il cucire in relazione al dipingere.”111 I quadri di Amer sono contrassegnati da una doppia percezione, se da un lato la ripetizione dei ricami li fa sembrare delle costruzioni astratte, quasi decorative, dall’altro, avvicinando lo sguardo, emergono le stringhe di figure, che come in una pellicola di film srotolata si reiterano pur mantenendo alcune lievi differenze tra loro, mentre le bave di filo in eccesso le riuniscono ricreando continuità visiva ma allo stesso tempo celandone dei dettagli.

111 D. Eccher (a cura di) Ghada Amer, catalogo della mostra Macro, Roma, 2007, Mondadori Electa, Milano 2007, cit. in http://www.exibart.com/Print/notizia.asp?IDNotizia=20222&IDCategoria=1, (05.03.2015).

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5.3 Annette Messager

Riprendendo soprattutto un’idea di Roland Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso”, Annette Messager dimostra come nella nostra società non si possa parlare della donna che a frammenti. “Quello della frammentazione è uno degli stilemi più utilizzati dalle artiste tra gli anni Sessanta e Ottanta, ma Annette Messager, a partire dagli anni Settanta, anticipa numerose pratiche artistiche che saranno successivamente approfondite da artisti e artiste. A differenza delle artiste americane la sua opera non critica i media, ma è una riflessione sul lavoro della donna artista. Ne sono testimonianza molti lavori iniziali che tendono a riportare il mondo privato dell’artista nel contesto pubblico dell’arte. In tal modo esse propongono allo spettatore quella stessa frammentazione che l’artista vive come condizione esistenziale, una costellazione di segni che rimanda ad un tipo di arte che indaga il personale mettendo in atto un’investigazione dell’intimo.”112 Il suo lavoro prevede l’uso di qualunque pratica e materiale: l’artista realizza collage, assemblaggi, sculture, disegni; utilizza fotografie, matite colorate, libri, giocattoli trovati, materiali video, e soprattutto tessuti. Le sue installazioni materializzano le sue ossessioni nei confronti della zona d’ombra dell’esperienza e delle modalità di catalogazione del vissuto. L’approccio di Messager non stabilisce delle gerarchie, ma utilizza piuttosto pratiche considerate minori tra i generi artistici, allo scopo di colmare la distanza che separa l’arte dal quotidiano. “The ‘Annette Messager, Practical Woman’ of the 1970s was a fighting woman. Embroidering 200 proverbs about women, for example, was no lightweight frivolity, but a provocative political act; the apparent acceptance of my condition as a practical woman, embroidering in the home all day long, is for me a subversive act.”113 Questo processo celebra l’immaginazione creativa tipica di un universo femminile capace di infrangere stereotipi e archetipi. Il risultato è un universo complesso in cui coesistono il bello e l’orribile in uno spettacolo toccante, spesso ironico rispetto a un universo maschile più propenso a separare e a creare gerarchie. “Sentivo che opporre questi piccoli dettagli quotidiani della femminilità all’arte alta era già di per sé un’affermazione critica. Bisogna pensare che, in quanto donna, facevo già parte di una minoranza, per cui risultava naturale fare arte anche con i mezzi che venivano sottovalutati, come la fotografia per esempio. [...] Il mio lavoro quindi non è una riflessione critica sui media, ma una riflessione sul lavoro di una donna artista. I frammenti sono segni di una disintegrazione. Tutto ciò che faccio funziona molto bene con i frammenti, con dei piccoli pezzi. è proprio l’idea di totalità, di interezza, che trovo spaventosa, per me equivale alla fine di qualcosa. Anche il mio metodo di lavoro è frammentario: dico spesso che il modo in cui lavoro assomiglia a una giornata in cui ci si sente tristi, si lascia tutto, si ha voglia di uscire, di sorridere e poi si torna 112 E. De Cecco, G. Romano, Contemporanee, Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta ad oggi, op. cit., p. 41. 113 J. L. Froment, A conversation between Annette Messager and Jean-Louis Froment, in J. L. Froment, Annette Messager. Penetrations, Gagosian Gallery, New York 1997, p. 74.

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ancora una volta, è continua frammentazione.”114 Il suo lavoro è sviluppato a partire dall’idea di essere donna e quindi segue una naturale propensione che la porta ad esaminare il quotidiano ripetitivo e banale della vita domestica in una serie di azioni e installazioni piene di ironia. Rifiutando a priori la dimensione aulica della pittura e della scultura, l’artista francese si ritaglia invece un ruolo diverso, minore, quello dell’amatore, del bricoleur, della persona pratica che utilizza la manualità. Se lo studio è la stanza dell’artista e se l’artista tradizionalmente è un uomo, se la pittura, la scultura rientrano fra le sue competenze, alla donna artista cosa resta? La risposta di Messager è una forma di narrative art, cui concorrono diverse tecniche di realizzazione dell’immagine insieme alla scrittura e al ripensamento della scrittura, o meglio del testo, specialmente il testo banale del proverbio o della massima dedicata alle donne, alla loro perversità, inferiorità, meschinità. Usando materiali semplici e immagini quotidiane in modo satirico, Messager cerca, attraverso la sua arte, di liberare la donna dal rigido ruolo assegnatole dalla società maschilista e di liberare gli stessi oggetti dal ruolo che l’essere umano gli impone. In Ma Collection de Proverbes (1974), c’è una sequenza minimal di frasi misogine che l’artista ha cucito a mano su cotone bianco, successivamente incorniciato. La sua opera coincide con i temi della frammentazione corporea, sessuale, psichica, femminile, dell’infanzia, sugli abusi, sull’innocenza e il peccato, utilizzando motivi ripetuti per esprimere la sua visione su fenomeni particolari dal carattere psicologico, culturale e sociologico. Nella sua installazione c’è una nostalgia macabra e distinta che incontra un senso risoluto di femminilità che s’interroga sul ruolo della donna nella società.115 Spesso nei suoi lavori vediamo quindi grandi installazioni composte da oggetti di stoffa, da lei cuciti, che formano delle costellazioni fatte di frammenti che nella loro totalità riescono a coprire grandi superfici e intere stanze. L’essenza di questo procedere attraverso il montaggio si rivede anche nella pratica stessa del cucito che riesce a trasformare le installazioni in tautologie, nel momento in cui vengono interpretate come assemblaggi di elementi a loro volta creati attraverso l’unione di più parti tra loro. Il cucito se letto come un’azione legata alla ripetizione, può essere associato, nell’opera dell’artista ad un atto di reiterazione che si può connettere a quello del trauma di cui si accennava nel capitolo precedente. Essendo il trauma una lacerazione, diventa subito chiaro il legame che intercorre tra esso e il risultato formale con cui lo si intende elaborare. Il tessuto ragiona seguendo la logica dell’unione di frammenti, parti che presuppongono la mancanza di una totalità, un’assenza che viene colmata dall’unione di essi attraverso l’ago e il filo. Un montaggio che è risanante, perché permette l’elaborazione lenta e processuale, intima ma tesa ad aprirsi verso l’esterno, per meglio comprendere le cause del trauma stesso. Cucire prevede la reiterazione del movimento, una movenza ossessiva e rituale che insiste sulla lacerazione: forare per unire, una sorta di una sutura psicologica. In Messager quindi il processo con cui si creano gli oggetti è tanto importante quanto il montaggio degli stessi nello spazio espositivo. 114 M. Magni, Annette Messager: Casino a Venezia, in http://www.women.it/oltreluna/vocidiartiste/messager.htm, (02.03.2015). 115 E. De Cecco, G. Romano, Contemporanee, Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta ad oggi, op. cit., p. 268 - 269.

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Annette Messager, My Collection of Proverbs, 1974; Story of Pillows, 1995-1996.

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Il medium diventa l’anticipazione del processo finale di installazione: così come il cucito dà come risultato un prodotto ricavato dall’unione di parti diverse, le installazioni nello spazio sono guidate dalla logica dell’unione di più elementi. In opere come The story of Pillows, The story of Bolsters e Anatomy (1995-1996), per esempio, sono utilizzati oggetti della quotidianità intima, collegati tra loro da una ragnatela di fili di lana. “I have been unraveling the knit from sweaters, which isn’t as easy to do as you might think! This wool was used to warm and protect our bodies and organs. Unraveled, it becomes a network of vessels, veins and arteries, which covers and joins the anatomical fragments I draw. The whole of it becomes a mass of vegetation that won’t stop growing and propagating in our bodies… on the wall…”116

5.4 Miriam Schapiro Miriam Schapiro può essere considerata a tutti gli effetti un’artista collegata alla corrente femminista. Inizialmente la sua ricerca è legata all’Espressionismo Astratto e si sviluppa attraverso la pittura, dove emergono figure geometriche che gradualmente si semplificheranno sempre più. Il primo conflitto tra il suo desiderio artistico e gli obblighi familiari scoppia qualche anno dopo la nascita del figlio Peter, e coincide con le sue prime mostre del 195759 alla galleria di André Emmerich. Le pressioni causate dalla frammentazione della sua vita privata, sociale e professionale, i dubbi e i sensi di colpa sulla propria condizione materna la portano a una crisi profonda che le impedisce persino di dipingere. Ne uscirà non senza sforzo allontanandosi definitivamente dall’espressionismo dell’epoca. In questo periodo la sua pittura diventa geometrica, simbolica. Famosi in questo periodo sono i suoi Shrines (santuari o teche) espressione dei contenuti conflittuali che la ossessionano: il rapporto col proprio corpo, l’identità frammentata, la relazione madre-figlio e soprattutto il legame travagliato con la madre. Negli anni Settanta, dopo essersi trasferita a New York e aver conosciuto Judy Chicago, organizza assieme a lei il progetto per artiste Womanhouse, all’interno del Feminism Art Program del Californian Institute of Art a Valencia. Womanhouse è uno spazio ricavato da un edificio abbandonato e trasformato in uno studio per un gruppo di donne che finalmente hanno un luogo d’incontro dove poter sviluppare le proprie attività, legate all’utilizzo di qualsiasi materiale e ricerca attraverso cui tutte le arti si combinano: dall’artigianato femminile tradizionale alla pittura, dal collage all’assemblage e alla performance. La Womanhouse diventa in poco tempo il principale laboratorio politico femminista della California. È in questi anni che Schapiro inizia un percorso d’integrazione delle arti femminili, che iniziano da ora la loro strada verso la legittimazione. Dopo anni in cui l’arte è stata plasmata dalla visione maschile, c’è la necessità di rivendicare il 116 J. L. Froment, A conversation between Annette Messager and Jean-Louis Froment, in J. L. Froment, Annette Messager. Penetrations, op. cit., p.73.

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Miriam Schapiro, Double Rose, 1978; Anatomy of a Kimono, 1976.

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ruolo della donna come portatrice di altri valori e di nuove forze. Sono questi gli anni in cui la ricerca di Schapiro si discosta definitivamente dalla pittura per proseguire il percorso iniziato con il gruppo di artiste da lei incoraggiato, verso la riscoperta di quelle pratiche considerate minori, con l’intento di ripartire da medium differenti, che non hanno a che fare con l’arte declinata al maschile, che da sempre ne determina le regole estetiche. Inizia così la realizzazione dei suoi Femmages - dalla fusione di femme e collage concetto da lei inventato per definire la sua personale tecnica che combina pennellate di colori e collage di tessuti provenienti dall’artigianato femminile tradizionale. Pizzi, nastri, broderie si alternano alla materia pittorica trasformando i quadri in strutture a rete dove i semplici oggetti del mondo quotidiano (grembiuli, fazzoletti ricamati, cuori di stoffa) assumono nuovi significati. In una dichiarazione che richiama in un certo modo i manifesti delle Avanguardie dei primi del Novecento, l’artista dichiara, in merito ai suoi Femmage: “1. It is work by a woman. 2. The activities of saving and collecting are important ingredients. 3. Scraps are essential to the process and are recycled in the work. 4. The theme has a womanlife context. 5. The work has elements of covert imagery. 6. The theme of the work addresses itself to an audience of intimates. 7. It celebrates a private or public event. 8. A diarist’s point of view is reflected in the work. 9. There is drawing and/or handwriting sewn in the work. 10. It contains silhouetted images which are fixed on material. 11. Recognizable images appear in narrative sequence. 12. Abstract forms create a pattern. 13. The work contains photographs or other printed matter. 14. The work has a functional as well as an aesthetic life.”117 Lo scopo primario dell’artista è di abbattere i pregiudizi contro questi materiali tradizionali, simboli considerati culturalmente frivoli o insignificanti. Nel 1976 compone Anatomy of a Kimono, dieci pannelli in cui viene rivisitato l’abito simbolo della femminilità sottomessa. La ricerca di elementi non appartenenti alla cultura occidentale diventa un elemento rafforzativo per l’inclinazione ad allontanarsi dall’imposizione di stili noti al mondo dell’arte ufficiale. L’opera verrà esposta nel ’79 alla mostra Pattern & Decoration (P&D) di Bruxelles. “Volevo parlare in maniera diretta delle donne e ho scelto il kimono come costume cerimoniale per una nuova donna. Volevo rivestirla col potere del suo stesso senso del dovere e della sua forza più profonda. [...] Volevo che questi abiti avessero una chiave di lettura chiara. Solo dopo ho fatto caso che anche gli uomini indossano il kimono, dunque esso possiede anche un’importante qualità androgina.”118 Un’altra serie di lavori è intitolata Collaborations (1975 - 1993), una serie di dialoghi con artiste note e meno note con lo scopo di rendere omaggio all’arte femminile di tutti i tempi e creare una genealogia artistica nella quale riposizionarsi. Il primo confronto riguarda la pittrice Mary Cassat. In questo caso, scene domestiche dipinte dalla Cassat sono incorniciate dai collages di tessuti in una specie di gioco di rimando tra presente e passato. I successivi sono dedicati alla messicana Frida Kahlo e presentano una profonda introspezione che affronta diverse tematiche comuni al movimento femminista: la relazione spesso conflittuale con il proprio corpo, oggetto della biologia e soggetto poetico. Del 1988 è il suo monumentale dipinto Conservatory col quale sosterrà, con una vena di 117 M. Schapiro, Feminist Art Statement, http://www.brooklynmuseum.org/eascfa/feminist_art_base/gallery/miriam_schapiro.php, (03.03.2015). 118 N. Broude, M. Garrard, Feminism and Art History, Happer &Row, New York 1982, p. 326, cit. in M. Giordano, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, op. cit. p. 107.

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disappunto, che davanti al disgregamento del movimento femminista il principale compito delle artiste è di preservare la memoria della propria storia. Negli anni Novanta produce la serie Mother Russia, dove intreccia la propria storia familiare a quella di artiste come Ekster e Rozanova, appartenenti all’Avanguardia modernista russa del primo Novecento e per le quali l’utilizzo di tessuti era parte essenziale del loro lavoro e del programma culturale per il rinnovamento della società. “Restituendo dignità alla decorazione, grazie all’esplorazione di pratiche tradizionali come il patchwork e il ricamo, Schapiro contribuisce a far emergere un aspetto importante della storia dell’arte del Novecento, sistematicamente sottovalutato perché considerato poco nobile, poco eroico e poco maschile riuscendo a conferire a questa cultura, la monumentalità e il respiro spaziale della cultura alta.”119

119

M. Corognati, Artiste: dall’impressionismo al nuovo millennio, op. cit., p. 187.

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Conclusioni

Il percorso affrontato con questa tesi ha fatto emergere una certa contemporaneità del medium tessile, utilizzato sempre a partire da questioni legate al privato o che derivano da esperienze personali, che successivamente si incrociano con sentimenti universali, pubblici o addirittura politici. Nell’evoluzione dell’arte contemporanea e soprattutto nelle sue ultime declinazioni dopo l’avvento della Postmodernità, si è notata una certa tendenza verso l’uso di pratiche non direttamente collegate al fare artistico e che rimandano ad attività tangenziali, riscoperte per la loro capacità di essere portatrici di messaggi universali e archetipici, tra queste le pratiche tessili. Nella decisione di proporre la ricerca di alcuni tra i maggiori artisti che hanno occasionalmente utilizzato queste forme morbide, emergono certamente delle lacune dettate dalla necessità di rappresentare alcuni gruppi di senso dell’utilizzo della pratica, considerati essenziali per mappare un certo andamento di significazione del mezzo, ma che non rappresentano la totalità delle interpretazioni. In questa conclusione vorrei quindi citare alcuni tra gli artisti più contemporanei che, sviluppando la propria ricerca a cavallo degli anni Duemila e a partire dai risultati ottenuti dagli artisti presentati nei capitoli precedenti, hanno portato la pratica del cucito in direzioni nuove, anche se strettamente connesse alle tematiche storiche che lo hanno caratterizzato. La ricerca di Francesco Vezzoli per esempio assume i toni ironici di chi, come la già citata Sylvie Fleury, pone l’arte allo stesso livello dello spettacolo e delle sue regole basate sull’apparire e sul consumismo. L’arte, sempre più invischiata nei meccanismi di mercato, si pone al centro della riflessione di Vezzoli, una ricerca coerente che si presenta come un complesso unitario di elementi eterogenei, come i suoi noti video, in cui ricrea dei finti fashion film o trailer in cui personaggi dello spettacolo si dedicano ai vizi più trasgressivi e decadenti (Caligola, presentato alla Biennale di Venezia nel 2009), o i suoi quadri ricamati, dove lacrime cucite con il filo dorato sgorgano dagli occhi di attrici e star del mondo dello spettacolo. Tutto è intriso di un forte cinismo, che rende la stessa azione dell’artista un fatto pubblico e fortemente spettacolarizzato. Il cucito, un’attività contemplativa riferita ad una dimensione

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Enrico David, Dinnisblumen, 1999.

Francesco Vezzoli, Joan Crawford was an Embroiderer, 2000.

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sentimentale fatta di crisi, ossessioni e depressioni storicamente identificate con il mondo dell’artigianato, esce dalla dimensione privata per approdare in un contesto intriso da azioni fortemente critiche e autoironiche che si palesano e si mostrano al pubblico, come in An Embroidered Trilogy (1997 - 1999), video in cui l’artista si cimenta in una performance sartoriale, mentre cantanti e attrici interpretano famosi brani musicali. Molto più narrativa è la ricerca di Enrico David, che attraverso l’uso di pratiche artigianali tra le quali anche il cucito, cerca di dare forma “all’instabilità dei sentimenti e alla loro non permanenza.”120 Con David si ritorna ad una dimensione intima del gesto, che per l’artista si riferisce alla sua storia privata, dove giocano un ruolo decisivo i legami personali. Il cucito è la pratica tramandata all’artista attraverso una certa tradizione familiare che ritorna nell’attività della madre e della sorella. Nel lavoro di David l’attenzione ricade nel corpo, depulsionalizzato e reificato proprio perché infinitamente segmentabile e ciò che ha inizio come un disegno o come un’immagine su carta trova poi altri punti d’arrivo proprio a conferma di questa sua perenne condizione d’instabilità, dello statuto di persistente incompletezza come suo presupposto fisico e semantico.121 Una ricerca di stabilità emotiva e fisica che si sviluppa all’interno di una dimensione mobile e in mutazione come quella della contemporaneità. Cora, Butterfly Woman, Stick of Rock o Dinnisblumen (1999 - 2000) le grandi tele di stoffa con cui inizia la sua ricerca, sono composte da soggetti con i volti cancellati da orchidee giganti o farfalle. Ago e filo congelano un corpo enigmatico che trae dalle sue posture acrobatiche la forza dell’equilibrio. Nick Cave, artista americano strettamente collegato al mondo della moda si inserisce invece in un contesto più dinamico, dove le sue sculture, Soundsuits, fatte di fibre, bottoni e tessuti sintetici spesso di seconda mano, diventano dei costumi cerimoniali per eventi performativi, video e parate. Queste presenze senza tratti somatici e dai colori sgargianti sembrano delle divinità archetipiche impegnate in una danza rituale. Kingsley Ng, artista nipponico, spinge il filo verso una direzione d’interattività mediale con Musical Loom, quando nel 2006 al Centre Pompidou di Parigi fa interagire il pubblico con “un telaio trasformato in strumento musicale e in una fonte di immagini, utilizzando specchi, sensori a ultrasuoni e produzioni video.”122 Un’ulteriore riflessione può essere mossa nei confronti della ricerca di Stefano Arienti, che, pur non trattando direttamente il medium tessile, esprime una sensibilità che può essere collegata ad esso. Il suo utilizzo della carta, dalla fine degli anni Ottanta, che viene intrecciata, arrotolata e piegata, può essere associato ad una certa attenzione verso i procedimenti legati alla materia, alla sua modulazione che finisce per assumere connotati simili a dei tessuti ordinati o drappeggiati con attenzione da un pittore rinascimentale. In I nomi di Ciserano (2001), Arienti riutilizza i tessuti di una collezione per creare dei cuscini dove sono scritti i nomi degli abitanti del paese che si trova nei pressi di Bergamo. Un lavoro che crea dei legami temporali e spaziali, sia per quanto riguarda la riattivazione dell’utilizzo delle stoffe, sia per il rapporto che ha interessato gli abitanti di Ciserano, a cui è stato chiesto di scegliere il nome di un 120 R. Selvaggio, Enrico David, in Flash Art 294, Giugno 2011, cit. in http://www.flashartonline.it/interno.php?pagina=articolo_det&id_art=746&det=ok&articolo=ENRICO-DAVID (01.03.2015). 121 Cfr. Ibidem. 122 M. Giordano, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, op. cit., p. 227.

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compaesano con cui si identificavano e di scriverlo nel cuscino. O ancora in Ventidue stoffe tinte di rosso (2001), dove il rapporto con la materia rimanda ancora a un accumulo di elementi provenienti da altre culture, come i tessuti collezionati dall’artista e provenienti da Oriente. Il colore rosso con cui vengono tinti ricopre le differenze cromatiche tra i vari pattern decorativi, permettendo una continua sperimentazione sul materiale specifico. Questi sono solo alcuni esempi di come la pratica del cucito possa essere dirottata verso una dimensione piÚ strettamente connessa all’attualità . Pur mantenendo il proprio universo di significazione costante, gli elementi del mondo tessile si prestano ad essere continuamente reinventati per relazionarsi a nuovi medium, come la performance o il video o le tecnologie mutimediali interattive. Il filo, la trama e il tessuto in questa loro nuova riformulazione, possono continuare ad essere linguaggi artistici contemporanei, capaci di rinnovare il loro uso in nuove combinazioni di senso, che necessiteranno ancora di essere indagate.

Nick Cave, Soundsuits.

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Stefano Arienti, I nomi di Ciserano, 2001.

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