VITA DI GIULIO ALBERONI, IL CARDINALE I DUCHI E LA STREGA

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Ciro Paoletti

Il cardinale, i duchi e la strega – vita di Giulio Alberoni

Roma, CISM, 2022


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INDICE Premessa Capitolo I Dalla nascita a Ravenna…………………………………………………………………… pag. 7 Capitolo II Da Ravenna a Piacenza, da Barni a Roncovieri, da chierico ad abate...…………………pag. 15 Capitolo III Parma, Piacenza e la Successione Spagnola………………………………………………. pag. 19 Capitolo IV I due duchi d’Alberoni……………………………………………………………………....pag. 25 Capitolo V L’abate in guerra…………………………………………………………………………… pag. 31 Capitolo VI Attesa.. ……………………………………………………………………………………….pag. 41 Capitolo VII L’abate torna in guerra, perde un duca e trova la fortuna……………………………….pag. 47 Capitolo VIII La sposa di burro, la Strega di Spagna…………………………………………………… pag. 59 Capitolo IX I progetti politici d’Alberoni………………………………………………………………. pag. 67 Capitolo X Una nuova vita di breve durata: 1714-1719………………………………………………. pag. 71 Capitolo XI La riorganizzazione di uno Stato………………………………………………………….. pag. 81 Capitolo XII Un concordato, un cappello, una flotta…………………………………………………… pag. 95 Capitolo XIII Le paure del duca………………………………………………………………………….. pag. 101 Capitolo XIV L’impresa d’Italia: primo atto – la Sardegna……………………………………………. pag. 109 Capitolo XV L’impresa d’Italia: secondo atto – la Sicilia………………………………………………pag. 115 Capitolo XVI La congiura di Cellamare…………………………………………………………………. pag. 119 3


Capitolo XVII Il crollo………………………………………………………………………………………pag. 123 Capitolo XVIII La “fuga”…………………………………………………………………………………… pag. 129 Capitolo XIX I manifesti d’Alberoni……………………………………………………………………... pag. 141 Capitolo XX Ricercato e nascosto………………………………………………………………………...pag. 147 Capitolo XXI Il primo conclave…………………………………………………………………………... pag. 153 Capitolo XXII Il denaro d’Alberoni………………………………………………………………………..pag. 163 Capitolo XXIII Il processo……………………………………………………………………………………pag. 173 Capitolo XXIV La quiete dopo la tempesta…………………………………………………………………pag. 187 Capitolo XXV Il collegio…………………………………………………………………………………….pag. 199 Capitolo XXVI Legato di Romagna nella Successione Polacca…………………………………………... pag. 203 Capitolo XXVII La spedizione a San Marino………………………………………………………………..pag. 215 Capitolo XXVIII Il quarto conclave…………………………………………………………………………...pag. 223 Capitolo XXIX Il primo periodo della Legazione a Bologna………………………………………………pag. 231 Capitolo XXX Legato a Bologna nella Successione d’Austria….………………………………………...pag. 241 Capitolo XXXI Tra Piacenza e Forte Urbano nella Successione d’Austria................................................pag. 251 Capitolo XXXII Gli ultimi anni.........................................................................................................................pag. 259 Note di riferimento bibliografico…………………………………………………………..pag. 265 Bibliografia………………………………………………………………………………….pag. 275 4


Premessa Una biografia di Giulio Alberoni non è facile a farsi, perché di lui ci si è occupati poco; perché la propaganda estera contro di lui ha continuato a produrre i suoi effetti per trecento anni, la contropropaganda nazionale l’ha esaltato a priori, attribuendogli fini inappropriati alla sua mentalità e, infine, perché la sua vita è stata influenzata, più di moltissime, da quanto era stato fatto da altri molto tempo prima di lui, o in luoghi assai distanti. Alberoni, per quanto sia stato importante, non ebbe mai modo d’imprimere ai fatti del suo tempo una svolta decisiva. Non fu un re, né un generale vittorioso e influente, ma solo – cosa che si dimentica sempre – un servitore del duca di Parma, cioè un vaso di coccio fra i vasi di ferro, uno strumento che, quando non servì più, fu tramutato in capro espiatorio. Non si può fare una sua seria biografia senza fermarsi ogni momento ad approfondire e spiegare il contesto in cui si trovava, da quali forze era determinato e da quali persone erano messe in moto. E’ un quadro talmente complesso da rendere impossibile comprenderlo senza ridurlo a una sintesi da presentare a un lettore poco esperto, pur se la sintesi obbliga a lasciar da parte molti aspetti, molti personaggi e il loro operato. So che con questo darò un grosso appiglio alle legioni di sedicenti esperti, più o meno accademici, incapaci di produrre un lavoro – bé, magari in vita loro ne fanno uno o due, giusto il necessario per andare in cattedra e poi si fermano – e abilissimi nel puntare il dito accusatorio, rimarcando cosa contavano di trovare e non hanno trovato (e naturalmente ben guardandosi dal provare a scriverlo loro; il critico non si abbassa a produrre: troppa fatica!), ma non me ne importa nulla. So pure che molte delle cose da me scritte sono state trattate meglio o in modo più approfondito da altri – Arata, Bourgeois, Castagnoli, tanto per citare i primi tre che mi vengono in mente – però so pure quanto fosse utile questo lavoro per sfatare i pregiudizi e i luoghi comuni ancora correnti su Alberoni, nati dalla propaganda del tempo e mai smentiti con successo. C’è un motivo per cui han tenuto banco così a lungo. La fortuna di Alberoni dipese sempre dal favore di altri, più potenti e socialmente superiori. Loro dirigevano il gioco, lui doveva eseguirlo, cercando d’uscirne col minor danno possibile, più che col maggior vantaggio. Per questo occorre capire la posizione dei duchi di Parma e di Vendôme, a loro volta influenzati da ciò a cui miravano e dal contesto in cui vivevano. Dunque, per comprendere Alberoni, non basta conoscere la situazione della Spagna, di Roma e dell’Impero, della Francia e della Gran Bretagna; bisogna tener presenti una miriade di altri fattori, come le condizioni politiche e finanziarie di Parma e le ambizioni e le paure del suo penultimo duca, i fini politici dei bastardi di Luigi XIV, la posizione internazionale di Vittorio Amedeo II di Savoia e le mire dell’ultima discendente dei Farnese, i piani di protagonisti come Luigi XIV e Carlo VI, l’atteggiamento di comprimari come il Papa e Genova, o di figure apparentemente minori come Portocarrero, i del Giudice, la principessa Orsini, i marchesi Grimaldo e Scotti a Madrid, i marchesi Grimaldi a Genova e Monti a Parigi e Bologna Infine va considerata la parte più complicata in assoluto, quella del triennio 1717 – 1719 in cui la molteplicità degli attori politici sulla scena internazionale, la mancanza d’una linea netta da parte di molti se non d’ognuno, la conseguente loro mutevolezza, gli ampliamenti del conflitto di volta in volta causati o anche solo ipotizzati da Alberoni, provocarono un tale insieme di interessi, interazioni, mutue influenze e scambievoli rappresaglie, così distorto dalla propaganda d’allora, da rendere difficile darne un quadro, difficilissima una sintesi, obbligatorio lasciarne fuori qualcosa, come, ad esempio, i rapporti della Spagna cogli insorti d’Ungheria, la Svezia, la Russia e i Giacobiti, lo sbarco in Inghilterra e le spedizioni africane, per non parlare di parecchie riforme e dei loro aspetti nella metropoli e in colonia. Purtroppo solo conoscendo questo ordito si riesce a comprendere l’operato di Alberoni e a collocarlo nella sua giusta posizione. Sarà complicato. Si può cominciare.

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Capitolo I Dalla nascita a Ravenna “Giulio f.° di M.r Gio: Maria et Mad.ª Laura iugalli delli Albaroni, nato adi vinti uno Maggio mille sei cento sessanta quatro è statto batezzato il giorno medemo dà me Gio: Bernardo delli Homini Preposito di S. Nazaro, Comp.e m. Bernardo delli Masini et mad.ª Angela Maria delli Criminosi V.S. tutti S. Nazaro”1 cioè: “Giulio, figlio di messer Giovanni Maria e madonna Laura coniugi degli Alberoni, nato addì ventuno maggio 1664 è stato battezzato il giorno medesimo da me, Giovanni Bernardo degli Uomini, preposto di San Nazzaro, compare messer Bernardo delli Masini e madrina Angela Maria delli Criminosi V.S. tutti S. Nazaro.” Con queste parole, in Italiano anziché nel Latino previsto dal Rituale Romano e usato dai parroci dell’epoca, don Gianbernardo degli Uomini, canonico regolare lateranense e preposto dei Santi Nazario e Celso in Piacenza, annotava la nascita di uno dei più discussi, odiati, criticati e temuti cardinali del XVIII secolo e di tutta la storia della Chiesa di Roma: Giulio Alberoni. Primogenito di un ortolano – Giovanni Maria – originario di Vigolo Marchese,2 paese del Piacentino e feudo dei Pallavicini, e di una filatrice di lino – Laura Guidotti – Giulio ebbe il nome del nonno e fu il primo di sei figli, l’ultimo dei quali nacque poco dopo la morte del padre.3 La famiglia non era ricca ma non stava nemmeno tanto male. Il nonno del futuro cardinale già nel 1658 aveva preso in affitto per 520 lire una casetta, che dovrebbe essere stata quella, poi demolita, in cui abitò Giulio, nella stradina detta ai suoi tempi Cantone di Pochettino e poi ridenominata Cantone Stoppo e infine Cantone Alberoni, consistente in due camere sovrapposte,4 con annesse otto pertiche d’orto, più altre sette fuori dalle mura.5 Successivamente era riuscito a comprare trentaquattro pertiche di terra a Vallera, che aveva poi rivenduto nel 1663 per 3.000 lire. Con quei soldi aveva fatto la dote alle figlie e lasciato loro anche qualcosa, oltre a quanto sarebbe andato in 1

Archivio della Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, Liber Baptizatorum, vol. III, anno 1664, pag. 188, n. 34, in Archivio della Parrocchia basilicale di San Sepolcro, Piacenza. Don Stefano Bersani scrisse nella nota 1 a pag. 48 della sua Storia del Cardinale Giulio Alberoni, per la quale cfr. ultra, che la sigla “V.S.” fu copiata da don Degli Uomini perché si trovava in altre fedi di battesimo prima della parola Nazarii e significava Viciniae Sancti, cioè “delle vicinanze di San Nazario”, mentre coll’interpolazione della parola “tutti”, prima di “S. Nazaro” la sigla V.S. diveniva pleonastica e non significava più nulla. In realtà questa sembra essere una prova dell’ignoranza del Latino da parte del parroco e spiegherebbe perché la registrazione del battesimo sia stata fatta in Italiano. 2 I documenti parrocchiali di Vigolo Marchese riportano tre famiglie Alberoni, o Albaroni – un padre e quelle dei suoi due figli maschi – già nel 1576. 3 Dopo Giulio vennero Giustina Maria; Camilla Domenica, morta a sei anni nel 1675; Giovanna Maria, scomparso a nove mesi nel 1672; Bernardo, deceduto a quindici mesi nel 1675 e Gian Maria defunto a nove anni nel 1686. Giustina Maria, nata nell’ottobre 1666 e morta nell’aprile 1706, sposò il capitano Fiorenzo Faroldi dal quale ebbe un figlio e due figlie. Il primo, Alessandro Francesco, ordinato prete, divenne abate, monsignore, aggiunse al proprio il cognome dello zio e della madre e morì nel 1759 a Roma, segretario della Sacra Congregazione dell’Immunità. Delle figlie la maggiore si fece francescana nel convento di Santa Maria Valverde in Piacenza col nome di Suor Maria Giulia; l’altra, Maria Gertrude Faroldi, prima, auspice il duca di Parma, sposò il conte Lodovico Marazzani nel febbraio 1720 e poi, rimasta vedova e senza figli, si rimaritò col marchese Gian Battista della Penna, castellano del Forte Urbano, fuori Bologna e non ebbe alcuna discendenza. Il padre del Cardinale era il quinto di nove fratelli e sorelle e fu l’unico ad avere figli, per cui la stirpe si estinse con monsignor Alessandro Faroldi-Alberoni e per trovare altri Alberoni parenti di Giulio occorre cercarli fra i discendenti di tre cugini del padre, figli dei due fratelli maggiori del nonno del cardinale. Cfr. albero genealogico in ROSSI, G.F., Gli antenati del Cardinale Alberoni, in ROSSI, Giovanni Felice, Cento studi sul Cardinale Alberoni, 4 Voll., Piacenza, Collegio Alberoni, 1978, vol. 1, pag. 44. 4 Le case medievali e cinquecentesche italiane della gente non ricca avevano un solo ambiente per piano, al centro del quale c’era una botola, di solito tenuta aperta, da cui partiva la scala che scendeva al piano inferiore e al lato della quale ce n’era un’altra che saliva alla botola nel soffitto attraverso la quale si entrava nel piano superiore. 5 La pertica era un’unità di misura tanto lineare che di superficie e variava a seconda della zona d’uso; quella piacentina equivaleva a 762,0186 metri quadrati, perciò 8 pertiche erano uguali a 6.096,14 metri quadri, 7 a 5.334, 13 e l’insieme a poco più d’un ettaro, cioè a 11.430,27 metri quadri. 7


eredità ai due maschi ancora vivi alla sua morte: Giambattista, padre del futuro cardinale, e suo fratello, caporale delle truppe ducali. Si sa che da piccolo Giulio aiutò il padre e che lo perse il 16 giugno 1674, quando aveva appena compiuto i dieci anni. Mancano informazioni precise, ma sembra che in seguito sia stato preso come sacrestano dalle suore di Santa Maria Valverde. Risulterebbe poi “chierico di sagrestia” nella sua parrocchia, San Nazzaro, dove avrebbe imparato a leggere e scrivere. In realtà le notizie tramandate dai biografi sui suoi primi anni sono poche, confuse, spesso contrastanti.6 Anche la biografia manoscritta dal prevosto Filippo Diego Bellardi,I il quale dovrebbe aver avuto tutte le notizie dallo stesso Alberoni, va presa spesso con beneficio d’inventario e, del resto, Bellardi non spese molte parole sugli anni giovanili del Cardinale. Dunque l’unica fonte sicura resta quella scaturita dai quattro decenni di studi archivistici fatti e coordinati dal padre Giovanni Felice Rossi, i cui risultati, raccolti e pubblicati nel 1978 in quattro volumi come collezione di saggi, sono però spesso da analizzare comparativamente. Poiché lui e gli altri quarantaquattro studiosi i cui lavori compongono un mosaico di 183 studi alberoniani, hanno scrupolosamente attinto agli archivi, nei casi dubbi conviene dar loro credito, visto che quasi tutte le loro affermazioni sono sostenute da precise citazioni documentali. Se ne ha una prima sorpresa. Il ritratto sociale del Cardinale è assai diverso da quello tradizionale, che lo vuole d’umilissime origini e volto a farsi strada con ogni mezzo, creato in sostanza dalla biografia di Rousset de Misy,II pubblicata quando Alberoni era in vita e sotto processo in contumacia.7 In effetti seguendo Rousset avremmo subito una prima forzatura, nata da un equivoco sul significato d’una parola, chiara per chi viveva allora, oscura per chi venne dopo. In un periodo in cui la società si divideva in nobili, cittadini e plebei, chiunque non fosse iscritto nel Libro d’oro della nobiltà o in quello rosso della cittadinanza era ipso facto un plebeo, non importava quanti soldi avesse e, in quanto plebeo, cioè figlio di una persona non importante, non illustre, non “clara” o “praeclara”, era per definizione “di oscuri natali”. Dunque la plebe includeva un ampio spettro di condizioni, che andavano dalla mendicità a quella che sarebbe stata poi definita classe media, cioè composta da persone che non si dedicavano alle professioni liberali, quali la medicina o la legge, ma all’artigianato, al commercio e anche all’industria. Se e quando le loro sostanze si fossero accresciute abbastanza, avrebbero potuto acquisire il diritto all’ascrizione al Libro rosso8 e dunque alla cittadinanza e, se se ne fosse presentata l’occasione, forse avrebbero potuto un giorno, 6

Nel Nuovo Dizionario Istorico, edizione italiana del 1796 del Nouveau Dictionnaire historique, ou, Histoire abrégée de tous les hommes qui se sont fait un nom par une société de gens-de-lettres, pubblicato nel 1772 a Parigi dal padre Benedettino Louis-Mayeul Chaudon, si legge “Nacque a Piacenza nel 1664 di un Padre giardiniere, e coltivò la terra anch’egli fino all’età di 14 anni. Il giovanetto, che divenne poi primo Ministro di Spagna, credette allora di aver fatto la sua fortuna, ottenendo un posto di Chierico nella Cattedrale di Piacenza. Fu fatto prete, ed il suo Vescovo lo fece suo Maestro di Casa, e poi gli diede un Canonicato nella sua Chiesa.” Cfr. Nuovo Dizionario Istorico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri…, 12 voll., Bassano, Remondini, 1796, vol I, pag. 173, ad vocem “ALBERONI (Giulio).” Il testo però era stato copiato da un’altra fonte più vecchia, perché si trova con quasi le stesse parole nel breve profilo posposto alla notizia della morte del Cardinale data vent’anni prima dalla Storia dell’Anno 1752, Amsterdam (ma Venezia), Pitteri 1753, pag. 320, e, a giudicare da alcune notizie riportate e dal modo in cui lo sono, dovrebbe essere la biografia scritta da Rousset de Misy di cui alla successiva nota II. 7 Alberoni ne possedeva una copia, sulle cui pagine annotò le sue correzioni, limitandosi agli aspetti di maggior rilevanza politica e apparentemente non toccando quelli sulla sua vita privata. Non se ne può essere certi perché – come spiegò con dovizia di particolari nel 1963 il padre Rossi nel suo saggio La Storia del Card. Alberoni postillata da lui stesso, pubblicato nel vol. IV dei Cento Studi citati, da pagina 320 a pagina 334, qualcuno, già nel Settecento, rimosse le pagine da 9 a 16 comprese, per cui eventuali postille relative ai 35 anni del periodo dalla sua nascita alla nomina a precettore del nipote del vescovo Barni scomparvero senza lasciar traccia. Altre due postille furono eliminate tagliandole dalle pagine 45 della prima parte, in cui si parlava dell’arrivo in Spagna, e 87 della seconda parte, dove si menzionava la rivolta della Bretagna. 8 Denominati dal colore del taglio delle pagine, il Libro d’oro e il Libro rosso esistevano in tutte le città di tutti gli Stati italiani dell’epoca come registri della locale nobiltà e dei cittadini. La maggior parte fu bruciata all’arrivo dei soldati rivoluzionari francesi dopo il 1796. 8


loro o piuttosto i loro discendenti, comperare od ottenere un titolo e l’ammissione al Libro d’oro e alla nobiltà. Allora, tornando ad Alberoni, la sua famiglia era plebea, dunque “oscura” e per questo lui poteva essere definito “di oscuri natali”, ma ciò non significava né che non avesse una famiglia, né che i suoi famigliari fossero del tutto privi di mezzi o di istruzione, come invece molti pensarono e scrissero. Già nell’Ottocento don Stefano Bersani per primo aveva notato l’apposizione della M. davanti al nome del padre di Alberoni ed aveva rilevato: “…credo sia l’iniziale di Messere e corrisponde al mad.ª, madama o Madonna posto davanti al nome della Madre: i quali titoli in queste fedi non si danno a tutti, ma solamente ai Signori e proprietari. Alberoni non era ricco, ma era proprietario della Casetta in cui abitava, e dice una Cronaca che nel giorno della nascita di questo suo figliolo pagò splendidamente il Campanaro affinché suonasse a festa tutto il giorno. Lo stesso titolo di Messere gli viene dato in altre fedi dove egli Gio: Maria degli Albaroni comparisce come Padrino di altri battezzati.”III Rifacendosi a fonti meglio documentate e meno leggendarie di quelle più diffuse, per quanto riguarda i suoi primi studi risulta, anche se non è chiaro da dove venga la notizia, che il padre gli avesse fatto frequentare una scuola privata, tenuta dal sacerdote Giambattista Tabaglio in casa propria. Certo è che, di lì a poco, spostatosi nella vicina chiesa di Santa Brigida, retta dai padri Barnabiti, Giulio apprese il Latino e i rudimenti di “Umanità”, cioè lettere, filosofia, retorica e tutte le materie umanistiche allora alla base dell’insegnamento, e, si dice, venne nutrito talvolta nella loro cucina. Questo non sarebbe necessariamente un indice di povertà, ma potrebbe solo voler dire che a volte si fermava là a mangiare durante la giornata scolastica. Secondo altri, però, Alberoni dalla scuola privata di Giambattista Tabaglio nel 1676 sarebbe passato direttamente a quella di San Pietro dei Gesuiti, per interessamento del conte Roncovieri.9 Come si vede, occorre fare molta attenzione a non cadere nella leggenda, figlia di quegli “oscuri natali”, che vuole Alberoni nato di infima condizione e dunque povero. Plebeo si, non ricco si, ma povero no. I genitori non erano ricchi, però, lo si è accennato, non stavano nemmeno male, anzi…. Se no come avrebbero potuto farlo studiare? Lo dimostra comunque – e per tabulas – la divisione notarile dei beni del nonno del Cardinale, Giulio anche lui. A Gianmaria, suo figlio quintogenito, ma maschio più anziano ancora in vita e padre del Cardinale, erano andati alcuni crediti, biancheria, sementi e, soprattutto, due casette, contigue e riunite nel Cantone di Pochettino, per le quali e per l’annesso orto di una pertica, doveva pagare un affitto annuo perpetuo di 20 lire al Collegio degli Inglesi. In più, se il vecchio Giulio, nonno del Cardinale, era stato analfabeta, Gianmaria e il fratello sapevano almeno firmare, come si vede in calce ai capitoli dotali del 1662 di sua moglie Laura Guidotti.10 Dai medesimi si ricava non solo che ella portò 2.000 lire di dote, ma che aveva un fratello sacerdote, Camillo Guidotti, il quale nel 1669 sarebbe divenuto prebendario della cattedrale di Piacenza, come poi lo sarebbe stato anche il nascituro Giulio, e, probabilmente, visto che morì solo nel 1686, fu proprio don Camillo Guidotti a darsi da fare per aiutare e indirizzare il nipote alla vita ecclesiastica. 9

La prima versione si trova tanto in BERSANI, Stefano, Storia del Cardinale Giulio Alberoni, Piacenza, Solari, 1861, pag. 54, quanto in CASTAGNOLI, Pietro, Il cardinale Giulio Alberoni, 3 voll., Roma, Ferrari, 1929, 1° vol., pag. 4; però Castagnoli sicuramente la riprende dal Bersani. La seconda invece è data, ma senza riferimenti, da Giovanni Felice ROSSI nel suo saggio La formazione filosofica e teologica del Card. Alberoni, in ROSSI, Giovanni Felice, Cento studi sul Cardinale Alberoni, 4 Voll., Piacenza, Collegio Alberoni, 1978, vol. 1, pag. 49. 10 Quello del cognome della madre di Alberoni restò a lungo un altro problema finché Giorgio FIORI non lo risolse nel 1964. Castagnoli ed altri le attribuirono il cognome Ferrari, ma Fiori ritrovò e pubblicò il contenuto e gli estremi archivistici del contratto matrimoniale dei genitori di Alberoni nel suo saggio, La famiglia del Cardinale Giulio Alberoni, poi incluso in ROSSI, Giovanni Felice, Cento studi sul Cardinale Alberoni, cit., vol. 1, pagg. 11-24. 9


Un altro protettore della famiglia fu certamente il tutore dei figli del defunto Gianmaria, il conte Guglielmo Roncovieri, il cui fratello, monsignor Alessandro, da vicelegato di Romagna e poi da vescovo di Borgo San Donnino sarebbe stato determinante per le fortune del giovane Giulio.11 Dunque, dotato di qualche bene di famiglia, per quanto inficiato da un paio di prestiti contratti dal padre poco prima di morire, instradato dallo zio prete e prebendario della cattedrale, protetto dai conti Roncovieri, non c’è troppo da stupirsi se nel 1680, all’età di sedici anni, Giulio Alberoni sia stato ammesso alle scuole di San Pietro tenute dai Gesuiti. Il fatto che all’epoca la Compagnia di Gesù difficilmente accettasse allievi di famiglie non in grado d’affrontare la spesa dei lunghi anni di studio è una seconda dimostrazione della solvibilità degli Alberoni: non erano ricchi, ma potevano permettersi il lusso d’un’istruzione di buon livello. Lo dimostrano indirettamente pure le 4.000 lire ricavate dalla vendita alla famiglia Lezzi della casa nel Cantone Stoppo, fatta continuando però gli Alberoni ad abitarvi almeno fino al 1683. Dunque, l’abbia avuta la famiglia, l’abbia data lo zio, l’abbiano garantita i Roncovieri, resta il fatto che Giulio Alberoni aveva, secondo i Gesuiti, una solvibilità sufficiente ad ammetterlo nella loro prestigiosa scuola. Alcuni sostengono che da piccolo fosse divenuto campanaro della cattedrale e che, per interessamento dei canonici, tutti delle più importanti famiglie, avesse ottenuto l’ammissione sia al collegio, sia agli ordini minori. Può darsi, non si può negare né confermare, ma, alla luce di quanto trovato negli archivi, sembra alquanto dubbio. E’ possibilissimo che sia stato chierichetto, un primo passo quasi necessario sulla via per diventare prete, e che in tale veste abbia anche tirato le corde delle campane. Nulla vieta che i canonici si siano interessati a lui e che abbiano contribuito ad appoggiarne l’ammissione alla scuola dei Gesuiti. Resta il fatto che Giulio studiò, fu tonsurato il 16 dicembre del 1678 e arrivò agli ordini minori nel 1681. Intelligente, seppe sfruttare le possibilità di relazione offerte dalla sua parrocchia che, come vedremo, gli furono spesso d’aiuto nei primi anni. Qui occorre una parentesi. La carriera di Alberoni fu una delle più eccezionali che si siano mai viste e già da sola basterebbe a testimoniare la sua intelligenza e le sue capacità. Partire da figlio di un ortolano e arrivare, non tanto a cardinale, quanto all’equivalente d’un primo ministro di una Potenza internazionale, sarebbe stato difficilissimo nel secolo XX, ma ai primi del XVIII, cioè assai prima dell’avvento della borghesia sulla scena politica e della rottura del monopolio dell’aristocrazia, era impossibile al di fuori della Chiesa di Roma e quasi impossibile anche nel suo interno. Per trovare un rango pari a quello da lui rivestito occorre rifarsi a quello di primo ministro e i cardinali divenuti tali al di fuori dello Stato Ecclesiastico nell’arco di tutto il Settecento si contano sulle dita di una mano,12 su due quanti lo furono in tutta la storia della Chiesa.13 A questo andava aggiunta la concorrenza dei cadetti di nobile famiglia. D’abitudine, il primogenito d’un aristocratico ereditava titolo e beni, il secondo era destinato alla carriera delle armi, dal terzo in poi si finiva ecclesiastici o militari, a piacere del signor padre. La Chiesa dava potere e denaro; la fede era accessoria. Il primo veniva quando si arrivava a vescovo, il secondo dalle rendite di abbazie, benefici e feudi ecclesiastici, che potevano essere attribuiti a chiunque, purché li si sapesse domandare attraverso i giusti canali. Di conseguenza, per sistemarsi bene, per aiutare la famiglia e darle lustro, per far carriera, i nobili cadetti cominciavano subito col ricevere un canonicato o un’abbazia. Se non erano dei totali disastri, proseguivano con un vescovato e, in molti casi, terminavano col cappello rosso cardinalizio, anticamera dell’eventuale ascensione alla tiara papale, che, in teoria, non era vietata nemmeno ai plebei.14 La Chiesa infatti era 11

Il padre CASTAGNOLI, nella sua biografia di Alberoni, suggerisce che possano essere stati suoi protettori anche i Tedeschi-Radini, che avevano tenuto a battesimo il quinto e ultimo fratello di Giulio, Giovanni Maria, nato poco dopo la morte del padre, ma non sembrano aver rivestito alcun ruolo negli anni seguenti e non se ne trova traccia praticamente mai nella vita del Cardinale. 12 Portocarrero e del Giudice in Spagna, Dubois e Fleury in Francia. 13 Basta aggiungere ai precedenti i cardinali Jimenes de Cisneros e Boeyens (poi papa Adriano VI) in Spagna e Richelieu e Mazzarino in Francia. 14 In quel periodo però, per trovare un papa plebeo, occorreva risalire a Innocenzo IX, morto nel 1591. Poiché papa Clemente XIV Ganganelli era si il figlio d’un medico, ma d’una famiglia ascritta al patriziato di Sant’Angelo in Vado 10


l’unica entità che permettesse a chiunque di diventare sovrano e, al tempo stesso, era l’unica che proteggesse in tutto e per tutto i suoi esponenti. L’unica via sicura di ascesa sociale era la Chiesa. Commercio, finanza, medicina e legge non consentivano altro che un benevolo sguardo da parte dei nobili e dei sovrani, a meno che non si trattasse di re pragmatici come Vittorio Amedeo II di Savoia. La carriera delle armi vedeva preclusi ai non nobili gli alti gradi e in molti Stati anche quelli da ufficiale inferiore. L’insegnamento non era considerato, perciò restava solo la tonaca a consentire l’accoglienza rispettosa in qualsiasi palazzo. Alberoni dunque seguì quella strada e cominciò presto ad introdursi nell’ambiente ecclesiastico. Alla fine del 1682, quindi all’età di diciotto anni, era già sindaco della Congregazione del Santissimo Sacramento nella Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, a quanto risulta dai rogiti fatti dai notai Groppi, nel 1683, e Carlo Speciotti nel medesimo 1683 e nel 1684. Non era cosa da poco perché, fin dalle origini i parrocchiani, che avevano creato la Parrocchia nel 1025, si erano riservati il diritto di scegliersi il parroco e, dal 1596, grazie ad una bolla papale, lo facevano appunto tramite la Congregazione. Era, quella di sindaco, una carica non importantissima, ma rilevante, perché i sindaci coadiuvavano il priore della Congregazione, eletto anche lui dall’assemblea, al quale spettava amministrarne il patrimonio e, quando necessario, provvedere alle nomine dei due benefici semplici15 eretti nella stessa chiesa. Nel frattempo Alberoni continuava a studiare, ben sapendo che le relazioni sociali contavano, ma sarebbero servite a poco senza una solida preparazione. Per un plebeo come lui, il divario fra una vita quotidiana fatta di lavoro manuale dall’alba al tramonto per la pura sussistenza e quella sicura, agiata, con un po’ di denaro da parte e nessuna fatica fisica, passava per lo studio e poi per la Chiesa, che lo avrebbe sostenuto solo se avesse visto che sapeva qualcosa, che valeva qualcosa, che a qualcosa poteva servire. Avrebbe scritto due secoli più tardi un penalista toscano, parlando della scuoletta tenuta da un falegname di paese, che questi: “dopo aver magnificati i vantaggi dell’istruzione… prometteva a’ suoi piccoli alunni un futuro pan bianco da esser mangiato in pace e tranquillità nella cucina d’una fattoria, o nel salotto d’una canonica.”IV Sembra nulla; era tutto; era un altro mondo: era la fuga dal bisogno e dalla fame quotidiana placata – e spesso nemmeno tutti i giorni – col grossolano ed economico pane nero o con la polenta. Per questo Alberoni curò la sua preparazione teologica e culturale. Sappiamo con precisione cosa studiò e per quanto tempo, perché la sua, essendo una scuola dei Gesuiti, seguiva la Ratio studiorum del 1599, valida per tutte le scuole della Compagnia di Gesù. Il corso cominciava dopo le scuole elementari, durava dodici anni ed era diviso in tre anni di Grammatica, uno di Humanitas, uno di Retorica, tre di Filosofia e quattro di Teologia. Nelle tre classi di Grammatica – inferiore, media e superiore – si studiavano Latino e Greco, leggendo molto Cicerone. Il quarto anno, Umanità, era propedeutico allo studio della retorica, e ci si basava sulle opere di San Cipriano. L’anno seguente, in Retorica, si studiavano tecniche oratorie e poesia, adoperando Cicerone, Aristotele e Padri della Chiesa come San Giovani Crisostomo, San Basilio e San Gregorio Nazianzeno.

dal secolo precedente, per trovare il successivo pontefice non nobile sarebbe stato necessario attendere fino a San Pio X, eletto nel 1903. 15 Per chi non lo sapesse, un beneficio consisteva nell’assegnazione della celebrazione delle messe per l’anima di uno o più defunti, i quali nel loro testamento avessero lasciato ad una certa parrocchia od ordine religioso una somma per pagarle, a volte specificando pure su quale altare di quale cappella di quale chiesa andassero celebrate. Alcuni lasciti erano per un certo numero di messe, raggiunto il quale si smetteva; altri in perpetuo. 11


Il triennio di Filosofia prevedeva lo studio della filosofia, della filosofia morale e della matematica. I testi erano quelli di Aristotele – di logica, fisica e metafisica, secondo gli anni – e di Euclide per la matematica. Nei quattro anni di Teologia si studiavano Sacra Scrittura, Ebraico, Teologia scolastica e Casistica, poi chiamata Teologia morale e naturalmente la base era nelle opere di San Tommaso d’Aquino. Il tutto era rigorosamente e sempre in Latino: quella era la lingua da usare cogli insegnanti, quella era la lingua da usare fra studenti. Scendendo nei particolari, sappiamo che nel collegio di Piacenza Alberoni, avendo fatto Humanitas alla scuola dei Barnabiti, fu ammesso direttamente al corso di Retorica, che frequentò dal 1676 al 1678. Poi passò a studiare filosofia col padre Agostino Varoto negli anni 1678-1680 e, come d’abitudine allora, ne trascrisse le lezioni. Di quel periodo sono restati, nella biblioteca del Collegio Alberoni, due volumi manoscritti da lui, contenenti la logica aristotelica, il commento alla Fisica di Aristotele, il trattato De homine e la parte del De Deo remuneratore relativa all’inferno. Don Stefano Bersani riferì che ne esistevano altri cinque tutti di mano d’Alberoni e cioè due intitolati In universam Theologiam, due In Institutiones imperiales e l’ultimo che conteneva una descrizione geografica dell’Europa. Risulta inoltre – e questo è degno di nota per stabilire i suoi movimenti, vedremo poi perché – aver seguito il corso di teologia del padre Franzini nel 1686. Quanto al resto, nel Collegio Universitario dei Giudici e dei Dottori di Piacenza studiò diritto civile e canonico nel 1682 e 1683 e, forse, anche nel 1684, anno in cui, il 1° ottobre, fu nominato Notaio Pubblico e Giudice Ordinario.V Ora, secondo gli statuti, poteva essere inserito fra i dottori e i giudici del Collegio solo chi era nativo di Piacenza e vi avesse conseguito il dottorato, e fin lì tutto andava bene, ma a condizione di non aver mai esercitato un lavoro manuale e di non esser figlio o fratello di gente che lavorasse manualmente. Questo non era il suo caso; ma nel 1684 divenne ugualmente notaio pubblico e giudice ordinario. Come fece? Aggirò l’ostacolo e, palesemente, ci riuscì grazie alle conoscenze fatte in parrocchia. Nel 1683, ancora studente, aveva presentato domanda al Collegio dei Protonotari Apostolici “de numero” di Roma, per sostenere l’esame da notaio apostolico e giudice ordinario. Sisto V nel 1586 aveva consentito a quel Collegio il diritto di conferire baccellierato, licenza e dottorato in diritto canonico e civile con le stesse prerogative delle università e di creare notai – “Notariosque et Tabelliones publicos creandi” – dietro esame e giuramento. Il 14 gennaio del 1684 il Collegio rispose ad Alberoni con un Breve – cioè una lettera – in cui gli si concedeva di essere sottoposto ad esame. Se l’avesse superato, poteva giurare ed essere poi creato notaio apostolico e giudice ordinario, con facoltà di esercitare in tutto il mondo. Alberoni portò il Breve al reverendo Odoardo Piazza, arciprete della Collegiata di Bilegno ma residente nella parrocchia dei Santi Nazario e Celso, la stessa sua: ecco il primo segno delle buone relazioni offerte dalla parrocchia. Piazza era Protonotario Apostolico extra Urbem in Piacenza e comunque il più a portata di mano. Viene pure da pensare che possa essere stato lui a suggerire al giovane Alberoni tutto l’iter presso il Collegio dei Protonotari, ma non ce n’è prova. Invece è certo che sottopose Alberoni all’esame, lo promosse, lo creò notaio apostolico e giudice ordinario, lo fece giurare e infine, presentandogliene le insegne, lo investì degli uffici di notaio apostolico e giudice ordinario. Poi, il 1° ottobre 1684, chiamò in casa propria uno dei notai di Piacenza, Carlo Speciotti. Come sappiamo, pure lui era parrocchiano dei Santi Nazario e Celso e conosceva bene Alberoni, avendo fatto proprio l’anno prima il rogito in cui Alberoni era citato come sindaco della Congregazione. Speciotti, col collega Cristoforo Gobbi e in presenza di due testimoni, stese un “istrumento pubblico” dal quale risultava la collazione del titolo e l’investitura del notariato e dell’ufficio di giudice ordinario fatta al chierico Giulio Alberoni.VI Si trattò, comunque sia andata, di una faccenda organizzata assai bene: non si dové nemmeno uscire dai confini della parrocchia! Da questo si potrebbe essere indotti a pensare che Alberoni non fosse stato un granché come studente e s’appoggiasse più alle amicizie che allo studio, ma non dovrebbe essere così. Anche se 12


non lo si conosce nei dettagli, si può affermare che il suo profitto sia stato piuttosto buono e, comunque, quanto fece in seguito l’avrebbe dimostrato a usura,16 perché mai nessuno lo tacciò d’ignoranza. Poiché non sembrano esserci rimaste carte, si è potuto ricostruire il suo cursus studiorum solo in linea generale e resta la lacuna di quali persone abbia frequentato e di chi fossero i suoi amici. Di questi non se ne conosce che uno, il dottor Ignazio Gardini, ravennate, uditore delle cause criminali a Piacenza, che lui aiutava nel disbrigo delle cause e nelle attività legali. Non c’è da stupirsi di una simile attività. La formazione data da una scuola religiosa valeva per la carriera tanto forense che ecclesiastica. Il Latino era la lingua della legge, oltre che della Chiesa e delle scienze, e il dottorato “in utroque”, cioè in utroque iure, canonica ac civile – nell’uno e nell’altro diritto canonico e civile – apriva la carriera forense ed ampie prospettive, dal notariato alla magistratura. Giulio Alberoni sapeva, come abbiamo detto, che se studiava poteva andare avanti, ma che senza appoggi avanti non sarebbe andato. In altre parole: a un plebeo come lui erano necessari studio e amicizie. Nihil sub sole novum, si dirà, ma a questa massima, sempre valida, Alberoni si attenne per tutta la vita. Evitò il più possibile gli urti, cercò d’ingraziarsi sempre tutti e fu merito delle amicizie che seppe farsi se, anche nel momento peggiore della sua esistenza, riuscì a non precipitare del tutto e a risollevarsi. Gardini era l’Uditore criminale di Piacenza, carica di enorme importanza. L’Uditore era uno solo, coadiuvato da dieci attuari, ed aveva competenze vaste e poteri enormi. La carica, assai antica, antecedente al dominio farnesiano, dava giurisdizione su tutte le cause criminali della città e del territorio, comprese quelle che violavano la maestà di qualsiasi altro tribunale, colle sole eccezioni dei reati di natura annonaria e daziaria, ma inclusi quelli militari e relativi alla caccia. L’Uditore aveva facoltà d’applicare la tortura e qualsiasi pena, inclusa quella di morte.17 Dunque, per un giovane uomo di legge, fresco di laurea come era allora Alberoni, l’appoggio dell’Uditore criminale significava un grandissimo aiuto per cominciare la carriera forense e trovarsi una vasta clientela. Però – e questo è il primo fatto oscuro della vita di Giulio Alberoni – ai primi del 1685 lui e Gardini furono esiliati da Piacenza e dagli Stati Farnesiani e finirono a Ravenna. Perché? Non si sa. Gli archivi criminali sono, o almeno sembrano essere, privi delle carte processuali. I biografi successivi, primo fra tutti in ordine di tempo il padre Poggiali, che scrisse pochi anni dopo la morte del Cardinale, evitarono accuratamente di dire quanto si sapeva, tacendo, o asserendo, come Poggiali stesso, che erano motivi: “che non è necessario, né forse conveniente qui riferire”,VII arrivando addirittura, come fece Rossi, a sostenere che Alberoni si fosse recato a Ravenna in un altro periodo e che non fosse vero nulla. In realtà il bando ci fu, e come, altrimenti Poggiali non si sarebbe sentito costretto a parlarne. L’unica traccia, assai labile, è data da don Stefano Bersani che, nella sua biografia, pubblicata nel 1861, in una nota scrisse: “un manoscritto mostratomi dal Sig. Conte Bernardo Pallastrelli afferma che l’Alberoni era per siffatto modo una cosa sola col Gardini che quasi non si distingueva l’uno dall’altro, né anche nell’esercizio della magistratura: ed essendo stato esiliato il Gardini per vero o supposto abuso di autorità, come accennano altre scritture, Alberoni gli fu compagno nella disgrazia come complice nella prevaricazione.”VIII

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Il padre ROSSI riporta nel suo saggio La formazione filosofica e teologica del Card. Alberoni, a pagina 49, il commento contenuto nella biografia manoscritta del Bellardi, secondo il quale il futuro Cardinale era “di spirito vivace e di intendimento aperto… indefessa applicazione agli studi…e…alla fatica”, per cui destava l’ammirazione dei suoi maestri e l’invidia dei suoi compagni, molti dei quali appartenevano alle principali famiglie di Piacenza. 17 Le giurisdizioni e competenze dell’uditore sono esposte in extenso in DI NOTO, Sergio (a cura di), Le istituzioni dei ducati parmensi nella prima metà del Settecento, Parma, STEP, 1980, nella relativa parte “Uditore criminale”, da pag. 91 a pag. 106 e nelle pagg. 270-71. 13


E’possibile. Si tratta non solo di uno dei pochi casi in cui un magistrato sarebbe stato cacciato senza misericordia, ma pure d’un reato che avrebbe fatto dire ai numerosi critici dell’appena defunto Cardinale – quando Poggiali scriveva non erano passati dieci anni dalla sua morte – che il buon giorno si era visto dal mattino. D’altra parte Gardini non abbandonò subito la zona, anzi: lasciata la moglie a Piacenza, si trattenne a lungo nelle vicinanze, sperando di poter comporre i propri affari; ma alla fine rinunciò e tornò in Patria. Alberoni, a lui legato e negli stessi guai, lo seguì, ma – ecco la Provvidenza – dal male gli venne il bene. L’esilio lo portò con Gardini a Ravenna; e a Ravenna…

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Capitolo II Da Ravenna a Piacenza, da Barni a Roncovieri, da chierico ad abate. Il Papa regnava sugli Stati Pontifici, al plurale. I Territori di Marittima e Campagna, Patrimonio di San Pietro, Sabina, Orvieto e Perugia; i Ducati di Benevento, Castro e Spoleto, i Governatorati di Pontecorvo e Città di Castello, le Marche di Fermo, Ancona e Macerata, le Legazioni di Avignone, Urbino e, nella Pianura Padana, di Bologna, Romagna e Ferrara componevano un variegato mosaico, che viveva tranquillo nel comodo letto delle autonomie locali e dei piccoli privilegi di cui ogni comunità godeva. Le Legazioni erano tradizionalmente rette da un legato, spesso un cardinale, il quale badava agli affari temporali e lasciava ai vescovi diocesani quelli spirituali. Ogni Legato aveva sempre al suo fianco un vice-legato e quello di Romagna, che risiedeva a Ravenna, era, nel 1685, monsignor Giorgio, nobile dei conti Barni. Lodigiano, trentaquattrenne, laureato in utroque, monsignor Barni era ben introdotto a Roma e in buoni rapporti coi vescovi diocesani e il clero della sua legazione, tra i quali, a Rimini, c’era monsignor Alessandro nobile dei conti Roncovieri,18 fratello dell’antico tutore di Alberoni. Fu probabilmente grazie a lui che Giulio poté conoscere monsignor Barni, dal quale ottenne il permesso di tornare a Piacenza, tant’è vero che, come sappiamo, già nel 1686 Alberoni risulta avervi seguito il corso di teologia del padre Franzini; perciò, data la durata del corso, esiliato nel 1685, è chiaro che fosse rimasto assente da Piacenza meno d’un anno. Al rientro riprese il percorso verso l’ordinazione. Evidentemente, seppure avesse avuto l’idea d’avviarsi alle professioni legali, il bando da cui era stato colpito con Gardini gliele doveva aver precluse, lasciandogli aperta la sola strada della Chiesa. Era stato tonsurato chierico nel 1678, il 16 dicembre, venerdì delle Tempora, dal vescovo Giuseppe dei marchesi Zandemaria, insieme ad altri trentuno giovani, in premio – dice la biografia manoscritta del Bellardi – per la vittoria riportata in una pubblica disputa di dottrina cristiana fatta nella chiesa di San Sepolcro in Piacenza, a cento metri dalla sua parrocchia. Dopo il 1681 ricevé gli ordini minori, ma non si sa dove e, secondo Rossi, in realtà potrebbe averli avuti proprio e solo nel 1686 a Borgo San Donnino, cioè dopo il suo rientro nel Ducato. Comunque sia, nel maggio del 1688, dopo sette anni di sede vacante seguiti alla morte di monsignor Zandemaria, fu nominato vescovo di Piacenza il vicelegato di Romagna, monsignor Barni. Fu una nomina non così rapida o impreveduta come sembra a leggere alcune biografie del Cardinale. In primo luogo il Papa lo scelse nell’autunno del 1687 su richiesta del Duca di Parma, trovandosi però davanti ad un ostacolo: monsignor Barni non era prete, anzi, non aveva nemmeno gli ordini minori, che avrebbe ricevuto in rapida successione a fine ottobre. Qui si colloca la prima lettera nota di Alberoni: non si sa a chi. Fu pubblicata nel 1902 da Mensi e di nuovo nel 1978 dal padre Rossi, il quale la suppose destinata al conte Alessandro Roncovieri oppure al conte Ottavio Arcelli. E’ impossibile dirlo. Inizia colle parole “Illustrissimo Signore Padron Colendissimo”, di solito rivolte ad un laico di alto livello sociale, non a un chierico ordinato, a cui ci si sarebbe rivolti con un “Reverendo”, per cui l’ipotesi d’una richiesta ad un nobile pare valida. Resta ignoto il destinatario, al quale Alberoni domandò i soldi per il viaggio, scrivendo: “Ill.mo Signore Padron Col.mo Questa mattina si è verificata la nuova da me tanto desiderata di Monsignore Giorgio Barni. Dimani parto per Lodi per ricevere a bocca alcune comunicazioni del fratello di detto monsignore, che così ne tengo ordine espresso. Hora affidato nella di lei somma 18

Nato a Piacenza il 17 novembre 1642, era stato ordinato sacerdote a Borgo San Donnino solo il 29 dicembre del 1686, all’età di 44 anni e si sarebbe laureato in utroque a Parma nel 1696, a 54 anni. 15


bontà ed affetto, sono a pregarla di qualche sussidio sufficiente per fare il viaggio con saputo mentre con tal’andata sono certo di servire Monsignore in notizie et altro al medesimo molto care et per ciò m’attende con gran desiderio. Supplico per tanto V.S. Ill.ma per quanto so e posso aiutarmi in questa mia congiuntura così importante, mentre attendendo con ogni celerità possibile qualche benignissima risposta accompagnata dai suoi stimatissimi comandi Le faccio profondissima riverenza. Della S.V. Ill.ma Dev.mo et oblig.mo servitore Giulio Alberoni.”IX

Piacenza primo ottobre 1687

Il padre Rossi scrisse che “monsignor Barni si deciderà infatti ad accettare la nomina a Vescovo della Chiesa piacentina dopo la visita dell’Alberoni.”X Questa frase è un po’ strana, come se monsignor Barni non fosse tanto propenso ad’accettare e fosse stato convinto da Alberoni nella visita seguita al viaggio a Lodi del 2 ottobre. Sia come sia, aveva convocato per lettera Alberoni. Lo incontrò nelle Marche, a Fermo, in quello stesso mese d’ottobre e quanto meno gli promise la nomina a suo mastro di casa, ordinandogli di rientrare a Piacenza per aspettarlo.19 Fu un’attesa un po’ lunga, perché Barni per prima cosa dovette ricevere gli ordini minori il 26 ed il 28 ottobre, poi l’ordinazione sacerdotale il 2 novembre 1687. Ufficializzata la nomina il 17 maggio 1688, raggiunse la sua sede episcopale il 28 ottobre, perché, ammalatosi, aveva sostato a lungo a Parma. Nel frattempo Alberoni riceveva gli ordini maggiori a Borgo San Donnino e senza grande anticipo sull’arrivo del nuovo vescovo. Infatti, come risulta dal Registro delle Ordinazioni, il 18 settembre 1688, sabato, l’ordinario diocesano, monsignor Nicolò Caranza, conferì a vari chierici, il sesto dei quali era Giulio Alberoni, l’ordine del suddiaconato. Il 19 settembre, domenica, con dispensa pontificia perché in giorno festivo, i suddiaconi piacentini Giovanni Rossi e Giulio Alberoni ricevettero la promozione a diaconi e, l’indomani, lunedì 20 settembre 1688, furono promossi “ad Sacrum Presbiteratus Ordinem.” Il biennio seguente vide Alberoni salire lentamente. A quella di mastro di casa il 26 gennaio 1689 aggiunse la carica di procuratore generale per la Mensa Vescovile di Piacenza. Poi, secondo Bersani, essendosi monsignor Barni accorto che quell’incarico non gli si addiceva, lo nominò precettore di suo nipote, il dodicenne Giovanni Battista Barni, futuro cardinale, allora residente presso lo zio. L’opinione di Bersani non si sa su cosa poggi, visto che nella quietanza del 13 febbraio 1690 monsignor Barni fece scrivere al notaio Giuseppe Cremonesi che “et positis calcoli reperierit dictum M.R.D. Albaronum uti Praefectum domus praedictae bene se gessisse in exactione praedicta”XI – controllati i conti si trovò che il detto Molto Reverendo Signor Alberoni come Prefetto della predetta casa si fosse comportato bene nella predetta esazione. Questo avallo annulla l’affermazione di Bersani. Del resto, se Alberoni fosse risultato un cattivo amministratore, non sarebbe stato spostato ad un altro incarico, ma congedato. E’ dunque probabile che, come scrisse il padre Rossi nel 1961, la nomina a precettore, che non lasciava tempo per altre occupazioni, sia stata il vero motivo per cui Alberoni fu sollevato dalle mansioni precedenti. Nel frattempo aveva cominciato a ricevere qualche beneficio con cui mantenersi e non aveva mai abbandonato la parrocchia. Nel dicembre del 1687 era stato eletto priore della Congregazione del 19

Invece secondo la biografia di don Stefano Bersani, Alberoni, saputa la nomina, sarebbe andato di sua iniziativa a congratularsi col nuovo vescovo a Ravenna, ottenendone la nomina a maestro di casa. Scrivo “quanto meno gli promise”, perché da una quietanza del 1690 pubblicata dal padre Rossi nel 1961 nel suo saggio L’Alberoni Maestro di Casa del Vescovo di Piacenza Mons. Giorgio Barni e Procuratore della Mensa Vescovile e poi Precettore del conte G.B. Barni, in Rossi, Cento Studi, cit., vol. I, pag. 125, Alberoni il 13 febbraio scrive: “Esatti per me Giulio Alberoni in qualità di Procuratore di monsignor ill.mo Giorgio Barni Vescovo di Piacenza dal 15 agosto 1688, a tutto il di 10 febraro 1690…” dal che si deduce che Alberoni avesse iniziato ad agire come procuratore dal Ferragosto del 1688 in esazione, mentre dalla stessa quietanza si evince che cominciò a pagare dal 30 ottobre 1688, cioè due giorni dopo l’insediamento di monsignor Barni nella cattedra di Piacenza. 16


Santissimo Sacramento per l’entrante anno 1688, venendo confermato pure per il 1689, anno in cui, il 23 novembre, divenne prebendario della Cattedrale. Lo era stato un tempo suo zio don Guidotti, adesso toccava a lui, col titolo del beneficio di San Martino, che implicava un’entrata annua di 40 ducati d’oro20 e una casa nel chiostro del Duomo, in cui si trasferì insieme alla madre.21 Il 16 dicembre fu ammesso fra i canonici della Cattedrale e all’effettivo possesso della prebenda.XII L’anno seguente il parroco dei Santi Nazario e Celso, che era ancora don Gianbernardo degli Uomini, ormai sessantacinquenne, dopo trent’anni di prepositura rassegnò al Papa le sue dimissioni a favore di don Giulio Alberoni, in quel momento a Roma col conte Barni. Anche il duca Ranuccio II si doveva pronunciare, ma non vi fu ostacolo, perché tanto il principe ereditario Odoardo quanto la zia, la principessa Maria Maddalena, si dichiararono favorevoli alla nomina di Alberoni. Quando sembrava tutto sistemato, don Gianbernardo ritirò le proprie dimissioni e un gruppo di congregati lo sostenne. Venne fuori un vespaio di polemiche durato circa un anno e terminato nel febbraio 1691 lasciando don Gianbernardo preposto.22 Alberoni dové aspettare ancora tre anni per ottenere qualche altro beneficio, perché solo l’11 dicembre 1694 monsignor Barni gliene fece avere tre, ossia la cappella campestre di San Martino di Muzzolano nel distretto della chiesa di San Giovanni in Montecanino, il legato pio – o “canonicato” – nell’arcipretura della Pieve di Dugliano e un altro canonicato nella Pieve di Travazzano, per un totale di 24 ducati d’oro di rendita annua.23 A questi nell’aprile del 1697 aggiunse la cappellania di Santa Barbara nella chiesa di San Sisto, i cui redditi venivano da undici luoghi di monte – cioè obbligazioni – del Banco, anzi, “dei Banchi” di San Giorgio di Genova. Intanto Alberoni era stato conosciuto pure a corte, anche se non si sa da quando e grazie a chi. Se già nel 1690 il principe ereditario Odoardo e la principessa Maria Maddalena Farnese si erano espressi a suo favore per la nomina a parroco dei Santi Celso e Nazario, evidentemente il suo nome non era ignoto nemmeno al nuovo duca Francesco, il quale, di lì a poco, avrebbe cominciato ad impiegarlo per fini molto politici e poco ecclesiastici. Nel frattempo monsignor Alessandro Roncovieri aveva lasciato Rimini e il 12 dicembre 1697 era partito insieme al marchese Anguissola per un lungo giro dell’Europa col principe Antonio Farnese, fratello minore del duca Francesco e futuro ultimo duca di Parma della Casa Farnese. Il viaggio durò tre anni. Visitarono diverse capitali europee, sempre ricevuti dai sovrani del luogo.24 Si fermarono a lungo a Versailles e nella primavera del 1700 a Roma, dove monsignor Alessandro, su richiesta del duca Francesco, il 28 maggio ricevé da Innocenzo XII l’investitura della diocesi di Borgo San Donnino, venendo consacrato vescovo il 31 dello stesso mese. Un altro ingranaggio del complicato meccanismo della vita di Alberoni era andato al suo posto. 20

Si tratterebbe di poco meno di 1.200 lire di Piacenza. Rinunciò alla prebenda nel 1714 in favore di don Carlo Borella, cfr. CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 10. 22 Il padre ROSSI, nel suo saggio Il Poggiali può dirsi “storico dell’Alberoni”? in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, riporta a pag. 382 l’elenco degli atti notarili che Poggiali trovò e citò, ma che poi scomparvero dall’archivio parrocchiale dei Santi Nazario e Celso e scandirono la vicenda: Rinuncia della parrocchia dei Santi Nazario e Celso da parte di don Degli Uomini nelle mani del Papa a favore d’Alberoni; Procura di don Degli Uomini a don Giambattista Capocefali, dimorante in Roma, perché rassegnasse la parrocchia nelle mani del Papa a favore d’Alberoni; consenso dei parrocchiani perché a don Degli Uomini subentrasse Alberoni. Questi tre rogiti furono menzionati da Poggiali senza la data e il nome del notaio rogante, a differenza degli altri tre, tutti del notaio apostolico Reggi e cioè: Rogito del 25 gennaio 1691 con la revoca della Procura di don Degli Uomini a don Capocefali, perché rassegnasse la parrocchia nelle mani del Papa a favore d’Alberoni; Rogito del 20 febbraio 1691 con la revoca d’una parte dei parrocchiani a don Degli Uomini per la rinuncia a favore d’Alberoni; Rogito dello stesso giorno, con la revoca della rinuncia di don Degli Uomini alla prepositura. Non si sa perché Poggiali non menzionò le date e i nomi dei notai dei primi tre rogiti: non c’erano? Le omise lui e in tal caso perché? Comunque, senza quei documenti, è impossibile capire il motivo della ritrattazione della rinuncia in favore d’Alberoni. 23 Poco più di 700 lire di Piacenza. 24 Da Parma andarono a Milano e a Torino e di lì in Francia, con una lunga sosta a Versailles. In Inghilterra furono ricevuti da Guglielmo III, tornarono per la via dei Paesi Bassi e della Germania. Nel novembre del 1699 giunsero a Vienna, dove l’Imperatore li ricevé con estrema distinzione. Scesero a Venezia dove restarono per il carnevale del 1700, proseguendo per Roma, Napoli e Palermo. Rientrarono a Parma nel novembre del 1700, dopo tre anni di viaggio, che pare fosse costato oltre due milioni di lire parmensi. 17 21


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Capitolo III Parma, Piacenza e la Successione Spagnola E’ adesso il momento di fermarsi a spendere qualche riga sulla Patria e sui tempi della gioventù di Alberoni, perché alla collocazione geografica ed alla famiglia regnante della prima, i secondi stavano per far giocare un ruolo notevole. La Pianura Padana si estende come un enorme triangolo rettangolo, dai vertici molto smussati, infilato di punta da est verso ovest, dal mare Adriatico a separare l’arcuata catena montuosa delle Alpi – a nord – dai più bassi Appennini a sud, i quali sono la sua ipotenusa e si uniscono alle Alpi in Piemonte, poco sotto il vertice occidentale della Pianura Padana stessa. Questa è solcata in tutta la sua lunghezza, quindi per oltre 650 chilometri, dal Po, che ha le sorgenti nelle Alpi Occidentali e la foce in Adriatico, qualche decina di chilometri a sud della Laguna di Venezia. Sulla riva destra, uscendo dal Piemonte, il Po all’epoca di Alberoni bagnava cinque Ducati: Parma e Piacenza, feudi della Chiesa affidati ai Farnese; Guastalla, allora indipendente e di proprietà dei locali duchi, ramo dei Gonzaga; Mirandola, appartenente ai Pico, discendenti del famoso umanista dalla straordinaria memoria; e Modena, degli Este e feudo imperiale. Dopo il Ducato di Modena e fino al mare, la destra del Po segnava il confine settentrionale degli Stati Pontifici, che in quella zona erano retti dai Cardinali Legati e presidiati da fortezze imponenti ma che non sparavano un colpo da cinquant’anni. Piacenza, lo si è detto, apparteneva ai Farnese. Nel 1545 papa Paolo III Farnese aveva approfittato delle guerre tra Francia e Spagna per nominare il figlio Pierluigi duca di Parma e di Piacenza, confermandolo, in quanto tale, vassallo della Santa Sede e dando così inizio al bisecolare dominio di Casa Farnese, della cui fine Alberoni sarebbe stato testimone e in parte attore. La vita del Ducato era stata tutt’altro che semplice nel Cinquecento e lievemente più calma nel Seicento, quando ormai i diritti farnesiani erano sembrati acquisiti. Ma alla fine del Seicento e all’inizio del Settecento il problema vero per Parma e Piacenza era l’Impero. Infatti, fin dai tempi di Carlo Magno, l’Italia a nord del confine pontificio rientrava feudalmente nel Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, anche se dall’epoca di Federico Barbarossa aveva fatto di tutto per svincolarsene coll’aiuto della Chiesa, la cui affermazione di superiorità rispetto ad ogni potere terreno risaliva proprio all’incoronazione di Carlo Magno a Roma. Con quell’atto il Papa aveva voluto dimostrare d’essere colui che, in nome di Dio e come Suo vicario, dava le corone e, al tempo stesso, era superiore a qualunque sovrano. Ne conseguiva che pure il dominio papale era svincolato da qualsiasi giurisdizione terrena e che qualsiasi territorio vassallo della Chiesa solo alla Chiesa avrebbe dovuto rispondere e da essa sarebbe stato protetto. L’erezione di Parma e Piacenza in feudi della Chiesa aveva dunque ammesso i Farnese all’indipendenza dall’Impero, ma l’Impero non l’aveva mai riconosciuta e la questione era rimasta in sospeso. Col passare del tempo, le guerre a est e in Germania, i Turchi e le crisi finanziarie avevano indebolito gli Imperatori e nel corso del Seicento la loro autorità era tanto affievolita sia in Italia che in Germania da essere rispettata solo da chi voleva farlo. Così i Farnese avevano vissuto sicuri dei loro diritti per oltre un secolo. Il Papa non dava noie, l’Imperatore era lontano, la disputa era dimenticata e non si scorgevano crisi all’orizzonte, o, almeno, non crisi tali da destare preoccupazioni. Ma alla fine del Seicento ne arrivarono due: una interna, l’altra esterna. La prima era la progressiva estinzione di Casa Farnese: nascevano solo femmine; e l’erede maschio per la continuità della Dinastia e l’indipendenza del Ducato non si vedeva. L’altra era simile, ma più pericolosa: anche il Re di Spagna non aveva eredi. Che sarebbe successo, specie nel confinante Ducato di Milano, di cui il Re di Spagna era titolare come feudatario dell’Impero? Così, mentre Alberoni trascorreva le sue giornate a fare il sacerdote, il precettore e il maestro di casa, nubi oscure si addensavano su Piacenza e sul mondo, spinte da un vento nato lontano e assai indietro nel tempo, sul fiume Bidassoa, più di quarant’anni prima; un vento che avrebbe avuto un 19


impatto decisivo sui Farnese e su Alberoni stesso, elevandolo alla potenza del ministero e alla gloria della porpora, per poi precipitarlo in un abisso di sventure. L’ultima volta che il Ducato aveva conosciuto un conflitto era stato a metà del Secolo XVII. Si era trattato di uno strascico della Guerra dei Trent’Anni, aveva coinvolto tutta l’Italia settentrionale nella contesa fra Spagna e Francia ed era finito nel 1659, col Trattato dei Pirenei concluso sull’Isola dei Fagiani, al centro del Bidassoa, che segnava il confine franco-spagnolo. Durante i negoziati preliminari la direttiva principale della politica francese era stata d’impedire l’unione dell’Austria alla Spagna e ci era riuscita col matrimonio tra Luigi XIV di Francia e l’infanta di Spagna Maria Teresa d’Asburgo. Così facendo, il primo ministro di Francia, il cardinale Mazzarino, aveva evitato le già progettate nozze fra lei e il cugino imperatore, Leopoldo d’Asburgo, che avrebbero ripresentato il vecchio pericolo, allontanatosi coll’abdicazione di Carlo V cent’anni prima, della riunione dei dominii dei due rami asburgici – di Spagna e d’Austria – nelle mani di un solo monarca. Leopoldo I aveva poi sposato un’altra figlia di Filippo IV ma era comunque passato in secondo piano in caso d’eredità. In seguito, nel 1678, col trattato di Nimega Luigi XIV aveva imposto alla Spagna, da lui appena vinta, il matrimonio tra una figlia di suo fratello Filippo – Maria Luisa – e il malaticcio re Carlo II, mettendo così sul trono madrileno una regina che, fino alla morte, nel 1689, aveva fatto del suo meglio per staccare Carlo II dall’antifrancese Lega d’Augusta formata dai Principi tedeschi. Questa politica, detta comunemente “dei matrimoni spagnoli”, aveva posto una consistente ipoteca francese sui dominii degli Asburgo di Spagna ma, per maggior sicurezza, fin dal gennaio 1668, Luigi XIV aveva anche stipulato un accordo con Leopoldo I d’Austria a proposito della successione a Carlo II se fosse morto senza eredi. Vent’anni dopo, nel 1688, le cose erano cambiate, perché, nel pieno della crisi della Lega d’Augusta, che di lì a poco si sarebbe tramutata nella Guerra della Grande Alleanza, Olanda e Inghilterra avevano invece garantito a Leopoldo tutta intera l’eredità spagnola, la “Successione di Spagna”. La pace di Rijswijk aveva concluso la Guerra della Grande Alleanza e rimesso sul tavolo la questione. Nei tre anni seguenti, i negoziati si erano succeduti quasi senza soste, raggiungendo un accordo di spartizione tra Francia, Olanda e Inghilterra, ma senza l’imperatore Leopoldo, che voleva tutto, e, omissione non da poco, senza tener conto dei desideri di Carlo di Spagna. Questi, sempre più sofferente, conscio d’essere moribondo, premuto da ogni parte e per questo ancor più incerto, nell’estate del 1700 aveva irrevocabilmente deciso almeno una cosa: i dominii costituenti la monarchia spagnola dovevano restare indivisi; ma chi sarebbe stato l’unico erede? Designare un figlio dell’Imperatore significava la guerra contro la Francia, la prima potenza militare d’allora, contro cui nulla avrebbe potuto la debole Spagna; e ben poco aiuto avrebbe dato l’Imperatore, debole anche lui. Non si poteva fare: allora era meglio preferire uno dei suoi eredi francesi, specie considerando che proprio a loro sarebbe toccata la corona secondo le leggi spagnole. Ma, si domandava Carlo, gli era moralmente lecito privare l’altro ramo della sua stessa dinastia, i suoi parenti austriaci, dell’eredità che tutte le leggi di successione fuori di Spagna stabilivano loro? Qui era il dubbio più atroce. Allora, consigliato dal cardinale Portocarrero, chiese consiglio al Papa. Il duca d’Uzeda consegnò la lettera di Carlo a Roma il 3 luglio a Innocenzo XII. Questi si sentiva abbastanza filofrancese e inoltre considerava il passaggio agli Austriaci dell’eredità spagnola come un ritorno ai tempi in cui gli imperatori tedeschi avevano minacciato i Papi accerchiandoli. Se gli Asburgo avessero avuto di nuovo l’Italia, la Germania e la Spagna, chi li avrebbe fermati? Lo spettro del sacco di Roma del 1527 e delle prepotenze di Carlo V era vivo nella mente di ogni successore di Pietro e specialmente in quella di Innocenzo. Riunì allora una Congregazione Speciale, composta dai cardinali Albani, Spada e Spinola, la quale, considerate le leggi spagnole, emise un parere favorevole alla Francia. Innocenzo lo accettò volentieri e in tal senso scrisse a Carlo. E quest’ultimo, confortato dalla parola del Capo della Chiesa, il 2 ottobre 1700 firmò il testamento, nominando erede universale il proprio nipote Filippo di Borbone, duca d’Angiò e secondogenito del Delfino, il principe ereditario di Francia, a condizione che rinunciasse a 20


qualunque pretesa di successione al trono francese. Poi, tranquillo, si spense neanche un mese dopo, il 1° novembre del 1700. Il potere a Madrid fu assunto da un Consiglio di reggenza, presieduto da Portocarrero. Fu aperto il testamento e lo si inviò a Luigi XIV con la preghiera di far accettare l’eredità al duca d’Angiò. Per la prima volta nella sua vita il Re Sole conobbe una settimana di grandi perplessità. Era legato a Olanda e Inghilterra da un trattato la cui violazione avrebbe potuto portare gravi conseguenze ed era indubbio uno scontro coll’Impero: che fare? Lo chiese al Delfino e ai ministri, appositamente convocati in consiglio il 9 novembre. Torcy, titolare degli esteri, era favorevole, come lo stesso erede al trono. Il duca de Beauvilliers, presidente del consiglio delle finanze era contrario. Il Re esitava. Il 12 scrisse al proprio rappresentante in Olanda che avrebbe tenuto fede ai patti; ma tre giorni dopo, il 15 novembre 1700, decise di autorizzare il nipote ad accettare l’eredità di Carlo II. La notizia fece il giro d’Europa e del mondo. A Madrid, Bruxelles, Napoli, Milano, Cagliari, Palermo e in tutte le altre capitali dei Regni e degli Stati componenti la monarchia spagnola, Filippo di Borbone fu acclamato re col nome di Filippo V. Contemporaneamente Luigi XIV notificò alle Potenze Marittime la decadenza del trattato e la volontà di difendere le proprie decisioni contro l’Imperatore anche con le armi. Inghilterra ed Olanda protestarono: il trattato era firmato e ratificato da tempo, dunque andava osservato. Luigi rispose con un manifesto in cui definiva Filippo V un sovrano indipendente. Gugliemo III d’Inghilterra e il pensionario d’Olanda Heinsius l’accettarono obtorto collo e sperando d’evitare una nuova guerra, ma contemporaneamente fecero sapere all’Imperatore di non essere soddisfatti di quanto stava accadendo. Il 18 febbraio 1701 il nuovo re di Spagna entrò a Madrid. Nel frattempo Luigi XIV cercava di garantirsi il maggior numero d’alleati in Germania e in Italia. Ebbe successo. Alla fine di marzo quattro principi tedeschi erano pronti a sostenere in armi Filippo V contro l’Imperatore e ad ammettere truppe francesi nelle proprie fortezze, consentendo loro il passaggio del Reno e la marcia fino al confine austriaco. Per di più, sfruttando la nuovissima alleanza cogli Spagnoli, in meno di ventiquattr’ore e senza sparare un colpo i Francesi si impadronirono di tutte le fortezze a guarnigione ispano-olandese che, dalla fine della Guerra della Grande Alleanza, costituivano la Barriera antifrancese nelle Fiandre spagnole. Adesso potevano fare quanto volevano: ammassare ingentissime forze dietro e dentro di esse, per poi aspettarvi un’offensiva nemica e spezzettarla in un’infinita serie d’assedi, oppure vibrare un attacco per primi, sapendosi colle spalle e le linee di comunicazione coperte dalla Barriera, e arrivare in pochi giorni a controllare la navigazione sul basso Reno, impedendo l’invio di rinforzi anglo-olandesi agli Imperiali. Per Luigi XIV si trattava non soltanto di indebolire Leopoldo I, ma d’un oculato calcolo strategico. La guerra era certa, ma in Germania. L’Italia dava poche preoccupazioni. Al di là dell’adesione ai Borboni dei viceré di Napoli, Sicilia e Sardegna, quello che più contava, il governatore del Ducato di Milano, il lorenese Carlo Enrico principe de Vaudémont, aveva dichiarato agli emissari imperiali di essere pronto a morire per sostenere i diritti di Filippo V sul Milanese e, così facendo, aveva distrutto la libertà di manovra dell’unico principe italiano militarmente pericoloso, cioè Vittorio Amedeo II di Savoia. Chiudendo il Piemonte tra la Francia e la Lombardia datasi ai Borboni, automaticamente Carlo Enrico aveva aperto all’esercito francese la via delle Alpi e chiuso quella della Pianura Padana agli Imperiali. Circondato, Vittorio Amedeo II non aveva potuto dire di no all’offerta avanzata da Versailles: alleanza ai Borboni e matrimonio di una delle sue figlie, Maria Gabriella, con Filippo V di Spagna. L’adesione sabauda aveva messo a posto un altro ingranaggio della vita d’Alberoni e definitivamente spalancato alla Francia la via dei monti. Il maresciallo Catinat aveva traversato le Alpi, il Piemonte e la Pianura Padana, arrivando sul Mincio senza opposizione. Parma e Piacenza si erano trovate nelle retrovie borboniche, lontane dal teatro di guerra, per cui la scelta di Vaudémont era andata benissimo al Duca di Parma, perché continuava a tenere l’Imperatore fuori dal Ducato di Milano e quindi lontano da Parma. Non andavano invece bene le nubi di guerra che si stavano addensando. Infatti anche gli Imperiali stavano mettendosi in moto e 21


avevano solo due strade: scendere per il lago di Garda e il Mincio fino a Mantova, oppure da Trento, per la Valsugana, fino a Vicenza – territorio veneziano – e da là proseguire nella pianura verso ovest. Scelsero la seconda, perché la prima era stata interrotta dai Francesi, causando una mossa e una contromossa che preoccuparono tutti i principi italiani. Il terminale del viaggio fluviale costituente la prima strada era, abbiamo detto, Mantova, ma in quel periodo il duca Ferdinando Carlo di Gonzaga-Nevers era stato raggiunto da un ultimatum borbonico. Fin da febbraio aveva chiesto che le truppe pontificie occupassero Mantova. Il 28 marzo gli era stato recapitato il breve coll’assenso papale. Ma già il 5 aprile i Francesi erano arrivati davanti a Mantova con circa 10.000 uomini ed un treno d’artiglieria e avevano minacciato il Duca di bombardargli la capitale se non cedeva. Il Papa non aveva potuto far giungere il suo aiuto; i ministri di Francia e di Spagna in Mantova avevano minacciato e premuto per la resa e, alla fine, Ferdinando Carlo aveva accettato e ottenuto il grado, nominale, di generalissimo delle truppe delle Due Corone. La nomina fu la sua rovina, perché convinse l’imperatore Leopoldo dell’esistenza d’un’intesa segreta tra lui e i Borboni, per cui l’accusò d’aver tradito la fedeltà dovuta come vassallo dell’Impero, il che implicava il giudizio per fellonia e la sicura condanna alla privazione dei feudi. Era un avviso a tutti: i feudatari dell’Impero che si fossero schierati contro di esso sarebbero stati spogliati dei loro beni. Certo, sarebbe accaduto solo in caso di vittoria dell’Impero stesso, cosa che in quel momento appariva assai improbabile, però poteva capitare, per cui i duchi di Modena e di Parma, per non parlare di quelli di Guastalla e Mirandola, dovevano fare attenzione a come si schieravano. Mettersi coll’Impero contro la Francia in quel momento era follia pura, significava essere spazzati via dal mattino alla sera, ma contro l’Impero insieme alla Francia si poteva fare? Si, finché gli Imperiali non erano nella Pianura Padana, ma se fossero arrivati? Arrivarono. Mantova in mano francese aveva lasciato agli Imperiali solo la strada della Valsugana. Si trattava comunque di traversare il Veneto Dominio di Terraferma; e Venezia era neutrale, si, ma armata e, secondo le abitudini dell’epoca, consentì a tutti i contendenti il libero passaggio e stazionamento nel Veneto Dominio di Terraferma, nonché il sostentamento delle truppe sul territorio. L’esempio veneziano, che salvò le città e le fortezze, ma condannò le campagne al saccheggio peggiore degli ultimi duecent’anni per intensità e durata da parte imperiale, fu più o meno seguito dagli altri Stati italiani prossimi al teatro delle operazioni, cioè i ducati di Parma, Modena e lo Stato Pontificio, con una netta preferenza per i Francesi. Del resto si spiegava. Considerando la situazione generale, era in quel momento piuttosto improbabile, per non dire assurda, una vittoria dell’Impero, le cui truppe erano inferiori alle sole francesi nella proporzione di 1 a 5, che saliva a circa 1 a 6,5 se si computavano anche quelle dei vari dominii italiani della Spagna. Mentre Luigi XIV da solo allineava circa 250.000 uomini, l’esercito imperiale nel suo complesso poteva schierarne in quel momento non più di 100.000 tra Germania Ungheria ed Italia. Eppure, nonostante tutto, si sapeva che l’Imperatore voleva la guerra. Le prime voci d’una spedizione austriaca in Italia si erano udite nel luglio del 1700. Il 31 di quel mese l’ambasciatore veneziano a Roma, aveva informato il Senato che in Curia se ne parlava molto, sostenendo che ne sarebbe stato affidato il comando al principe Eugenio di Savoia, e ciò – aveva aggiunto – faceva presumere che, data la parentela fra Eugenio e Vittorio Amedeo II di Savoia, quest’ultimo avesse raggiunto qualche accordo segreto con Leopoldo I.XIII Non era proprio così, ma lo si sarebbe scoperto solo tre anni dopo, con notevoli conseguenze anche per Parma e per Alberoni. Per il momento l’Armata delle Due Corone borboniche era in Italia al comando del maresciallo di Catinat, includeva anche le truppe piemontesi e aveva Parma e Piacenza nelle retrovie. Il Duca di Parma aveva fatto il possibile per proteggere sé e i suoi Stati. Nella sua qualità di feudatario di Santa Romana Chiesa, aveva subito chiesto aiuto e protezione al Papa e si era dichiarato neutrale. Al principio del 1701 aveva comunque nominato un comandante generale delle armi del Ducato e cominciato ad arruolare truppe. Il 1° luglio 1701 a Piacenza l’abate di San Sisto 22


aveva benedetto le bandiere delle 14 compagnie di soldati arruolati nel Piacentino; Piacenza aveva poi accolto un Commissario ed un presidio pontifici e l’11 febbraio 1702 il Duca vi fece addirittura alzare la bandiera papale. A tutto questo, Francesco Farnese aveva aggiunto la presenza di suoi agenti presso entrambe le armate. Per quella borbonica aveva scelto a rappresentarlo presso il Maresciallo Catinat Giulio Alberoni; e si sa, da quietanze di rimborsi spese, che lo aveva già impiegato al proprio servizio almeno nell’agosto del 1700, anche se non se ne conosce il motivo. Ben presto però Catinat fu accusato di poca energia. Da Versailles venne a prendere il comando il maresciallo de Villeroy, e Francesco confermò ad Alberoni l’incarico di rappresentarlo insieme a monsignor Roncovieri anche presso Villeroy. Nonostante una certa sicumera, Villeroy non era riuscito né ad impedire il passaggio del Mincio agli Imperiali, né a sconfiggere Eugenio di Savoia, facendosene invece battere pesantemente due volte. Quando la campagna del 1701 terminò, gli Imperiali erano nella Pianura Padana orientale e i Borbonici tenevano più o meno la linea tra Oglio e Mincio, delimitata a sud dalla sponda sinistra del Po. La minaccia della presenza imperiale si stava avvicinando a Parma e stava per mettere in moto tutto il meccanismo che avrebbe modificato profondamente l’esistenza di Alberoni.

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Capitolo IV I due duchi di Alberoni In quel primo biennio di guerra la preponderanza borbonica in Italia sembrava tale da far dormire sonni tranquilli; ma Eugenio di Savoia era una peste e non dava requie. Se il 1701 era passato lasciando la guerra lontana da Parma, il 1702 l’avvicinò pericolosamente e tutti gli ingranaggi che si erano lentamente collocati ognuno al suo posto nell’arco di tanti anni, in Italia e in Europa, si misero in moto e cambiarono la vita e la carriera di Alberoni. Uno, apparentemente di poco conto, fu la conoscenza col marchese Antonio Felice Monti, dal 1702 colonnello al servizio del Re di Francia e dal 1719 senatore di Bologna. Li per lì fu solo una simpatica amicizia. In meno di vent’anni sarebbe divenuta un’ancora di salvezza. Quanto agli ingranaggi maggiori e dall’effetto più immediato, furono messi in moto da Eugenio di Savoia, quando allargò la sua zona d’occupazione con una serie di fortunate operazioni e col grosso andò ad acquartierarsi nel Mantovano, deciso a dilatarsi nei Ducati di Modena e Parma. Arrivato alla confluenza dell’Enza nel Po e al controllo dell’accesso al Ducato di Parma, Eugenio mandò il colonnello Locatelli a chiedere d’introdurre una guarnigione imperiale a Piacenza, ma, come ho detto, il Duca, feudatario della Santa Sede, aveva già ottenuto l’intervento di Roma e rifiutò, protestando la propria neutralità. Era ormai iniziato l’inverno del 1701-1702. Le operazioni, come d’abitudine allora e in quella stagione, ristagnavano, però, mentre tutto pareva tranquillo e Alberoni si trovava presso Villeroy, Eugenio meditò un grosso colpo. Non poteva proseguire sulla riva destra del Po perché l’ingresso a Parma avrebbe comportato troppe complicazioni politiche con Roma, già abbastanza filofrancese per conto suo, però c’era l’altra sponda, per cui aveva cominciato a considerare l’idea di un colpo di mano su Cremona. Molti anni dopo don Bellardi avrebbe scritto che Alberoni ne avrebbe avvertito Villeroy dicendogli: “il Principe Eugenio con 4 mila uomini e 4 pezzi di cannone marcia verso Parma; per la conquista di tal Città poche sono e le Truppe e l’Artiglieria; per occupare Monticelli sono troppe, dunque Signor Maresciallo tutta la necessità si rivolge a ben guardare il suo Ponte, che ha sul Po in faccia a Cremona.”XIV Bellardi aggiunge che: “Se al fervore con cui parlò l’Alberoni corrisposto avesse la prontezza del maresciallo, non sarebbero i Tedeschi per la strada furtiva di una chiavica penetrati in Cremona.”XV Infatti Eugenio eseguì il suo colpo di mano nella piovosa notte dal 1° al 2 febbraio 1702. Mancò la vittoria di un soffio, ma catturò Villeroy. I Francesi dovettero trovarsi un altro generale e per Alberoni fu la svolta che segnò la sua vita. Scrisse poi Voltaire: “il duca di Vendôme fu subito nominato per andare a comandare in Italia…. Non passava per uno che meditasse i suoi piani colla stessa profondità del principe Eugenio, e che intendesse come lui l’arte di far sussistere gli Eserciti. Negligeva troppo i dettagli; lasciava perire la disciplina militare; la tavola e il bere gli rubavano troppo tempo, altrettanto facevano a suo fratello. Questa mollezza lo mise più d’una volta in pericolo d’essere preso; ma un giorno d’azione riparava tutto grazie a una presenza di spirito e a dei lumi che il pericolo rendeva più vivi; e quei giorni d’azione lui li cercava 25


sempre; meno fatto, a quanto si diceva, per una guerra difensiva, e altrettanto adatto all’offensiva che il principe Eugenio.”XVI In realtà Vendôme, ottimo generale, di sangue reale perché discendente da un bastardo di Enrico IV e di Gabrielle d’Estrées, cugino primo del Principe Eugenio di Savoia in quanto figli di due sorelle, omosessuale notissimo, sifilitico tanto grave da aver dovuto passare due volte la cura del mercurio ed averci perso un pezzo di naso, era una persona tutt’altro che semplice. Il Duca de Saint-Simon, che lo conobbe di persona, lo descrive così: “Era d’una taglia ordinaria per l’altezza, un po’ grosso ma vigoroso, forte e sveglio, un viso assai nobile e dall’aria altera, grazia naturale nel portamento e nella parola, molto spirito naturale, che egli non aveva mai coltivato; un eloquio facile, sostenuto da un naturale ardimento, che si mutava spesso nell’audacia più sfrenata; molta conoscenza del mondo, della corte, dei personaggi di successo e, sotto un’apparente noncuranza, un’attenzione ed una cura continue a profittarne in tutti i modi; soprattutto ammirevole cortigiano e che seppe trar vantaggio finanche dai suoi vizi più grandi, protetto dal debole del Re per la sua nascita; gentile per arte, ma con una scelta ed una misura da avaro, insolente all’eccesso dal momento in cui credeva di poterlo essere impunemente e, allo stesso tempo, familiare e popolare con la gente comune per via d’un’affettazione che nascondeva la sua vanità e lo faceva amare dal volgo; in fondo era l’orgoglio in persona e un orgoglio che voleva tutto, che divorava tutto. A misura che il suo rango si elevava e che il favore di cui godeva aumentava, la sua alterigia, la sua scarsa cortesia, la sua testardaggine fino all’incaponimento crescevano in proporzione fino a renderlo indifferente a qualsiasi specie di consiglio ed inaccessibile salvo che a un numero assai ridotto di intimi ed ai suoi valletti. Le lodi, poi l’ammirazione, infine l’adorazione furono l’unico canale per il quale si poteva avvicinare questo semidio, che sosteneva delle tesi assurde senza che nessuno osasse non dico contraddire, ma non approvare. Conobbe ed abusò più di chiunque della bassezza dei Francesi. A poco a poco accostumò i subalterni, poi, dall’uno all’altro, tutta l’Armata, a non chiamarlo altro che Monsignore e Vostra Altezza… Controllava poco l’Armata di persona, si affidava ai suoi intimi, ai quali assai spesso non credeva. La sua giornata, di cui non si poteva turbare l’andamento ordinario, non gli permetteva affatto di fare altrimenti. La sua sporcizia era estrema; se ne vantava; gli sciocchi lo trovavano un uomo semplice. Il suo letto era pieno di cani e di cagne che vi facevano i loro cuccioli accanto a lui. Lui stesso non si limitava in nulla. Una delle sue tesi era che tutti facevano lo stesso, ma che non avevano la buona fede d’ammetterlo come lui… Quando era all’Armata si levava assai tardi, si metteva sulla sua seggetta, vi provvedeva alle sue lettere e dava gli ordini del mattino. Era il momento di parlargli per chi aveva da fare con lui, cioè i generali e la gente distinta. Aveva abituato tutto l’esercito a quest’infamia…. Era una semplicità di costumi, secondo lui, degna dei Romani più antichi che avevano condannato tutto il fasto ed il superfluo degli altri. Finito tutto questo, si vestiva, poi giocava forte al picchetto o alle ombre o, se proprio bisognava montare a cavallo per qualche cosa, era quello il momento. Dati gli ordini al rientro, tutto era finito presso di lui. Cenava abbondantemente coi suoi intimi: era un gran mangiatore, d’un gusto straordinario, non si rifiutava alcun piatto, amava molto il pesce, e ancor più quello non fresco e sovente quello che puzzava più di quello fresco. La cena si prolungava in 26


tesi, in dispute e, soprattutto, in lodi, elogi, omaggi, ogni giorno e da tutte le parti. Ciò fece la fortuna del famoso Alberoni.”XVII Con queste premesse non c’è da stupirsi del resoconto che, circa trent’anni dopo i fatti, Saint-Simon scrisse nelle sue memorie, facendolo divenire la versione ufficiale dell’incontro fra Alberoni e Vendôme: “Il duca di Parma ebbe a trattare col Signor di Vendôme: gli mandò il vescovo di Parma,25 che si trovò assai sorpreso nell’essere ricevuto dal Signor di Vendôme sulla sua seggetta e più ancora di vederlo alzarsi nel mezzo dell’incontro e pulirsi il culo davanti a lui. Ne fu così indignato che immediatamente, senza dire una parola, se ne ritornò a Parma senza finire ciò che l’aveva portato là e dichiarò al suo padrone che non vi sarebbe ritornato in tutta la sua vita dopo quello che gli era capitato. Alberoni era figlio d’un giardiniere, che sentendosi dello spirito, aveva preso la tonaca per, sotto una veste da abate, arrivare dove il suo gabbano di tela non avrebbe avuto accesso. Era un buffone: piacque al Signore di Parma come un infimo valletto del quale ci si diverte; divertendosene, gli trovò dello spirito e che poteva non essere incapace negli affari. Egli non credé che la seggetta del Signor di Vendôme richiedesse un altro inviato: l’incaricò d’andare a continuare e finire ciò che il vescovo di Parma aveva lasciato da fare. Alberoni, che non aveva alcun orgoglio da conservare e che sapeva assai bene che tipo era Vendôme, risolse di piacergli a qualsiasi costo per venire a capo della sua commissione come voleva il suo padrone e di farsi strada presso di lui. Trattò dunque col Signor di Vendôme sulla sua seggetta, rallegrò il suo affare con degli scherzi che fecero ridere il generale tanto di più quanto l’aveva preparato a forza di lodi e omaggi. Vendôme fece con lui come aveva fatto col vescovo: si pulì il culo davanti a lui. A questa veduta Alberoni gridò: O culo d’angelo! e corse a baciarlo. Niente fece avanzare i suoi affari più di questa infame buffoneria. Il Signore di Parma, che nella sua posizione aveva più d’una cosa da trattare col Signor di Vendôme, vedendo con quanta fortuna Alberoni aveva cominciato, si servì sempre di lui e gli diede incarico di piacere ai principali valletti, di familiarizzarsi con tutti, di prolungare i suoi viaggi. Egli fece al Signor di Vendôme, che amava i piatti non comuni, delle zuppe al formaggio ed altri intingoli strani, che egli trovò eccellenti. Volle che ne mangiasse con lui Alberoni, che in questa maniera entrò in buoni rapporti con lui e, sperando maggior fortuna in una casa di zingari e di fantasie che alla corte del suo padrone, dove si trovava troppo in basso, fece in modo di farsi partecipe delle orge con lui e di far credere al Signor di Vendôme che l’ammirazione e l’attaccamento che aveva concepito per lui gli facevano sacrificare tutto quello che poteva sperare quanto a fortuna a Parma. Così cambiò padrone e, ben presto, senza cessare il suo mestiere di buffone e di cuoco di brodi e di ragù bizzarri, mise il naso nelle lettere del Signor di Vendôme, vi riuscì come sperava, divenne il suo principale segretario e quello a cui l’altro confidava tutto ciò che aveva di più intimo e di più segreto. Questo spiacque molto agli altri, la gelosia vi si mise al punto che, essendosi messo a discutere durante una marcia, lo fecero correre per più di mille passi a colpi di bastone, alla vista di tutta l’armata. Il Signor di Vendôme trovò la cosa malfatta, ma questo fu tutto e Alberoni, che non era uomo da mollare la presa per così piccola cosa, e su un così bel cammino, se ne fece un merito presso il suo padrone, che, gustandolo sempre di più e confidandogli tutto, lo ammise a tutte le sue cose e sul piede d’un amico di fiducia,

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In realtà monsignor Alessandro Roncovieri. 27


piuttosto che d’un domestico al quale i suoi ed anche quanto di più importante c’era nell’armata facevano la corte.”XVIII Saint-Simon è attendibile, benché polemico, quando scrive da testimone oculare; spesso non lo è quando riferisce quanto detto da altri: questo è un caso. Poiché aveva lasciato l’esercito già da anni, non poté avere notizie che da altri. Resta da vedere se questi altri avessero parlato per sentito dire o fossero stati a loro volta testimoni oculari e, in questo secondo caso, resta da valutare quanto fossero attendibili. Gli errori fattuali nel testo di Saint-Simon sono evidenti.26 Non solo si parla – errore perdonabile – del vescovo di Parma anziché di Borgo San Donnino, ma anche della presenza sua e di Alberoni come di una prima visita al campo francese, il che non poteva essere. Alberoni era un inviato permanente dall’inizio dei movimenti militari. Era stato accreditato presso Catinat nel 1701 e lo era rimasto sotto Villeroy, giunto in tarda estate. La corrispondenza d’Alberoni diretta al duca Francesco dimostra che era stato al quartier generale francese stabilmente nel corso della campagna del 1701 e, dopo circa un anno di contatti coi vertici militari, doveva aver conosciuto non solo Villeroy e Catinat, ma pure i duchi di Mantova e di Savoia, rispettivamente tenente generale e generalissimo, benché nominale, dell’Armata delle due Corone, e i generali duca di Villars ed Albergotti, arrivati con Villeroy. In più al quartier generale conosceva senza dubbio molti altri militari e civili, dai quali, come sempre succede in simili casi, aveva sicuramente raccolto quante più notizie possibile su Vendôme quando se n’era saputa la nomina. Anche monsignor Roncovieri, che a suo tempo era stato in Francia per conto del duca Francesco, non poteva non conoscere Vendôme almeno di fama, per cui poteva non solo aspettarsi la scena della seggetta – Vendôme andava famoso per cose del genere – ma addirittura aver già concordato la reazione con Alberoni, stabilendo che, se la sua dignità di vescovo e nobile non poteva accettare di restare dopo un simile trattamento, quella di Alberoni, semplice prete e plebeo, non ne avrebbe sofferto troppo e gli avrebbe consentito, rimanendo, di mantenere i contatti e salvaguardare gli interessi del duca di Parma. Ammesso e non concesso che l’episodio possa essere anche solo parzialmente vero, che Alberoni, uomo di spirito e pronto alla battuta, vista l’altra faccia di Vendôme possa averla lodata, è possibile; che sia arrivato a baciarla invece no: non era né fu mai nel suo stile e non l’avrebbe consentito la dignità di inviato parmense e di sacerdote. E chi mai a quei tempi avrebbe osato bastonare un sacerdote, per di più in pubblico? E senza una punizione del reo subito dopo? Non regge: è’più probabile che Saint-Simon, anni dopo, abbia raccolto, più che la verità, un astioso resoconto di qualcuno dei presenti, dalle tinte caricate dall’invidia e dal desiderio di abbassare chi aveva fatta una rapida e grandiosa carriera. Sia come sia, Alberoni seppe farsi strada e, sembrerebbe, senza far supporre a nessuno, o facendo scordare a tutti, che continuava ad agire, benché sempre più copertamente man mano che il tempo passava, come agente del duca di Parma, cosa che alla fine, molti anni dopo, gli sarebbe costata cara. L’altro duca di Alberoni, infatti, quello vero, il “Padrone” o il “Serenissimo Padrone” come si definivano allora in Italia i duchi sovrani, era un tipo da prendere con molta cautela. Francesco Farnese era nato nel 1678. Quartogenito e secondo maschio del duca Ranuccio II, era salito al trono alla morte del padre, nel dicembre del 1694, essendo deceduto un anno prima il 26

Come ho già accennato, esiste nella biblioteca del Collegio Alberoni una copia della Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R. *** tradotta dallo Spagnuolo, stampata all’Aja nel 1721 e nel 1724, a cui Alberoni appose di sua mano cinquantun postille. Quella su questo incontro, a pag. 35 del 1° volume, dice: “Il co: Roncovieri non ebbe alcun negoziato col Duca di Vandomo”. Resta da capire se con questo Alberoni intendesse dire che monsignor Roncovieri non incontrò mai il Duca o se non fosse mai stato incaricato di alcun negoziato, il che fra l’altro corrisponderebbe alla realtà. A sua volta l’avvocato Anton Domenico ROSSI nel suo Ristretto di storia patria – ad uso dei Piacentini, 5 voll., Piacenza, dai torchi del Majno, 1833, nel volume 4°, a pagina 289 dice che monsignor Roncovieri, afflitto da podagra, consigliò al duca di sostituirlo presso Vendôme con Alberoni, visto il grande successo che già aveva incontrato. Infine Emile BOURGEOIS, nell’introduzione all’epistolario d’Alberoni col conte Rocca, Lettres intimes de J.M. Alberoni adressées au comte I. Rocca, ministre des finances du duc de Parme, Paris, Masson, 1892, pagina VI, dice “l’abate fu così aggregato all’armata di Vendôme, non,come ha detto Saint Simon, in grazie d’una sudicia ossequiosità, che gli sarebbe valsa dei favori, ma per una missione ufficiale dei Farnese.” 28


fratello Odoardo, il quale, premortogli a un anno e mezzo d’età il piccolo primogenito Alessandro Ignazio nel 1693, aveva lasciato solo una figlia, di nome Elisabetta, nata nel 1692 e che Alberoni avrebbe reso regina di Spagna. La posizione di Francesco Farnese non era delle migliori. aveva ereditato la corona nel mezzo della guerra della Lega d’Augusta, in cui la Francia stava contro tutto il resto d’Europa. Parma era neutrale, ma l’Impero no e questo era stato un guaio. Le regole imperiali prevedevano che in caso di guerra i Principi dell’Impero dovessero dare uomini e denaro. Se in passato la cosa poteva essere stata trascurata, adesso, con un forte contingente imperiale in Piemonte, non lo era stata più. L’imperatore Leopoldo aveva ordinato al suo comandante in Italia, Caraffa, di imporre ai Principi italiani considerati feudatari imperiali contribuzioni in denaro e in quartieri invernali. Il drenaggio di denaro e risorse in termini di cibo, legna e foraggi era iniziato nel 1690 ed era stato spaventoso. Quando la guerra in Italia finì, nel 1696, arrivò un’altra mazzata. Leopoldo impose a quelli che considerava i suoi feudi italiani il pagamento del soldo e delle spese di viaggio alle truppe di ritorno in Germania, per un totale di 300.000 doppie. Non c’era molto da discutere: quelle erano le leggi dell’Impero, le cui truppe erano là e potevano farle rispettare armata manu, perciò la Toscana versò 75.000 doppie; il duca di Modena 40.000. Ferdinando Gonzaga 40.000 come duca di Mantova e 25.000 in quanto marchese del Monferrato, Genova 40.000, Lucca 30.000, il Papa contribuì volontariamente con 40.000 e Parma, ormai retta da Francesco Farnese, dové pagarne 36.000. Ecco perché già all’assunzione della corona Francesco aveva dovuto inaugurare una politica di risparmi e tagli per rimettere in sesto le finanze ed ecco perché aveva sposato la vedova di suo fratelllo, Dorotea Sofia di Neuburg: evitava di restituirne la dote e manteneva i contatti politici coll’Impero. Disgraziatamente, benché giovani – Dorotea aveva otto anni più di lui, cioè 25 quando si sposarono – non ebbero figli. Nemmeno l’altro fratello, Antonio, ne aveva, né sembrava intenzionato a sposarsi, per cui una delle preoccupazioni maggiori di Francesco era di spingerlo al matrimonio e di preparare, in caso, la successione all’unica erede, sua nipote Elisabetta; ma questo implicava sia la fine della Dinastia, sia molta attenzione in politica per evitare chissà quali conflitti di spartizione in futuro. In più dal 1640 c’era un contenzioso aperto con la Santa Sede a proposito dei ducati di Castro e Ronciglione, antichi feudi farnesiani nel Lazio, regione d’origine della famiglia. Erano stati persi alla fine di due guerre – la Prima e la Seconda Guerra di Castro – conclusesi con una totale sconfitta nel 1649 e incorporati negli Stati Pontifici nel 1667, lasciando però ai duchi grandi speranze di poterli riavere, tant’è vero che, proprio per quello, nel 1697 Francesco aveva inviato il marchese Pier Maria dalla Rosa al congresso di Rijswijk, però senza risultati. Dunque, nella Guerra di Successione Spagnola Francesco doveva tenersi buoni gli Imperiali perché bene o male il Ducato rientrava nell’Impero, la Santa Sede perché ne era feudatario ed aveva in sospeso il contenzioso per Castro e, infine, la Francia, perché oltre ad essere la potenza egemone in Europa, era quella il cui esercito era intorno e dentro ai suoi Stati. Insomma, non doveva alienarsi nessuno e mantenere con tutti dei rapporti tanto buoni da fargli evitare qualsiasi danno futuro e, se possibile, riottenere Castro nel prossimo congresso di pace. Come tutti i vasi di coccio, doveva fare molta attenzione, pesare ogni mossa ed essere sempre pronto ad agire per interposta persona, per poter scaricare ogni responsabilità sui suoi emissari. Era questo un atteggiamento che Alberoni aveva capito bene, ma le cui conseguenze non poteva evitare e dal quale sarebbe comunque restato schiacciato di lì a quindici anni. Per il momento però tutto gli andava bene. I Francesi reggevano, o addirittura vincevano. Il Duca, come vedremo, gli passava sottobanco le notizie sui movimenti imperiali che lui poi forniva ai Francesi ed era contento di lui; Vendôme pure, sia grazie alle informazioni che gli faceva avere da Parma, sia grazie ai piatti che gli preparava; infine, entrambi gli lasciavano tempo sufficiente a badare ai propri interessi a Piacenza, raggranellando soldino su soldino per garantirsi un’agiata e tranquilla vecchiaia. Insomma: al canonico Alberoni tutto lasciava presagire un roseo futuro.

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Capitolo V L’abate in guerra Vendôme era giunto a Milano il 18 febbraio 1702 col compito di tenere il Ducato di Milano e liberare Mantova bloccata dal nemico. Si fece spiegare la situazione da Vaudémont e, qualche giorno dopo, sottopose a Luigi XIV un piano per cacciare definitivamente gli Imperiali dal Parmigiano, accompagnando l’azione con puntate dimostrative sul basso Oglio. Intanto Filippo V era venuto in Italia e, visitata Napoli, era arrivato al nord. Il 18 giugno 1702 entrò a Milano e al principio di luglio fu visitato a Cremona da Francesco Farnese, che ripartì il 9 luglio. Cinque settimane dopo, a ferragosto, le operazioni borboniche ebbero un’improvvisa battuta d’arresto, quando Eugenio di Savoia piombò sui Franco-Spagnoli a Luzzara e li malmenò tanto da indurli a ritirarsi e in pratica a metter fine alla campagna del 1702. In autunno gli eserciti andarono ai quartieri d’inverno. Le operazioni furono sospese, come d’abitudine nell’età barocca durante la cattiva stagione, e ripresero nella primavera del 1703. Sei mesi dopo, in settembre, si verificò un evento inaspettato: i Savoia cambiarono fronte. Nel convulso periodo subito prima del principio della guerra, Leopoldo I aveva fatto proporre all’ambasciatore sabaudo marchese di Priero, noto alla piemontese come marchese di Priè, un trattato d’alleanza fra la Savoia e l’Impero. Vittorio Amedeo II aveva voluto vedere dei fatti concreti e aveva lasciato tutto in sospeso. Il primo fatto concreto era stato l’arrivo in Italia dei Francesi di Catinat, quando gli Austriaci stavano ancora progettando e ritardando. Vittorio aveva allora invitato Leopoldo ad affrettare l’invio delle truppe dal Trentino alla Lombardia, ma i cronici ritardi della burocrazia imperiale avevano tanto rallentato l’operazione, che non era ancora nemmeno avviata quando, nella primavera del 1701, la Francia l’aveva dolcemente costretto a firmare un trattato d’alleanza triennale, con cui dava la propria figlia Maria Gabriella in moglie a Filippo V e s’impegnava a portare personalmente le sue truppe entro il mese d’agosto al campo dell’esercito franco-spagnolo, del quale avrebbe assunto nominalmente il comando supremo fino a tutto il 1703. A Londra e all’Aja si era riconosciuto che non avrebbe potuto fare altrimenti. A Vienna il Consiglio Aulico avrebbe invece preteso un suo impegno diretto ed immediato contro i Francesi, senza pensare che ne sarebbe stato schiacciato. Vittorio Amedeo però non aveva la minima intenzione di farsi rinserrare tra i Borboni, perché sarebbe stata la sua fine politica e il prodromo dell’assorbimento del Piemonte da parte della Francia, perciò l’11 aprile 1701, cinque giorni dopo la firma del trattato, aveva fatto assicurare all’Imperatore che non cercava di meglio che poterglisi alleare. Arrivato al campo franco-spagnolo il 1° luglio 1701, Vittorio Amedeo era passato di delusione in delusione. Ben presto gli era apparso chiaro cosa poteva aspettarsi da Madrid e Versailles se avessero vinto la guerra e conservato la Lombardia, per cui l’unica via da seguire per la sopravvivenza politica del Ducato era l’alleanza austriaca. Di conseguenza aveva intavolato negoziati colle corti imperiale e inglese per un capovolgimento di fronte, finché, nel maggio del 1703, Leopoldo I nominò un suo plenipotenziario a Torino per trattare l’alleanza. Le spie francesi erano dovunque e la notizia filtrò lentamente fino a Versailles. Il 21 agosto 1703 Vittorio Amedeo fu avvertito che Luigi XIV sapeva. Fece smentire tutto; ma intanto era cominciato un gran traffico di corrieri tra il campo francese e Versailles, dove la sua probabile defezione non era vista bene. La notizia, di per sé già cattiva per la Francia, lo diventava ancora di più alla luce della situazione generale, che era di sostanziale parità. Il capovolgimento di fronte dei Savoia avrebbe interrotto le comunicazioni tra la Francia e l’armata in Lombardia, impedendole di ricevere i rinforzi e, nel peggiore dei casi, accerchiandola e 31


votandola alla distruzione completa; perciò Luigi XIV decise di annientare subito l’esercito sabaudo e ne spedì l’ordine a Vendôme, che intanto aveva premuto gli Imperiali fino a Trento. Dal Trentino il Maresciallo si spostò nella Pianura Padana in pochi giorni e prescrisse ai circa 3.000 uomini del contingente sabaudo di farsi passare in rassegna, quindi colle armi scariche, il 28 settembre 1703 al campo di San Benedetto Po, dove i Francesi intervennero colle armi cariche e li fecero prigionieri. Il 3 ottobre la notizia della “cattura di San Benedetto Po” giunse a Torino. Subito Vittorio Amedeo fece arrestare gli ambasciatori ed i sudditi di Francia e Spagna, chiamò alle armi tutti gli uomini che poté e in brevissimo tempo rimise in piedi un esercito, inferiore a quello nemico in arrivo, ma sufficiente a resistere, appoggiandosi alle fortezze piemontesi fino all’arrivo dei soccorsi imperiali. Pensava che ci avrebbero messo poco: impiegarono tre anni. Infine, con la data ufficiale dell’8 novembre 1703, firmò l’alleanza coll’Austria, che s’impegnava a cedergli al termine della guerra il Monferrato e parecchie altre terre. La Francia gli dichiarò ufficialmente guerra il 3 dicembre 1703, ma già in ottobre i Francesi erano entrati in Savoia, mentre il 20 di quel mese il generale imperiale marchese Annibale Visconti si era diretto verso Torino alla testa di 1.500 cavalieri di rinforzo. Qui, secondo don Bellardi, di nuovo entrò in scena Alberoni, che, come già aveva fatto con Villeroy, avvertì i Francesi di quanto facevano gli Austriaci. In precedenza aveva avvisato Vendôme di un agguato che gli Imperiali avevano teso a Ponte di Nure. Era restato da qualche tempo il solo rappresentante farnesiano presso i Francesi. Monsignor Roncovieri, ammalatosi, già nel 1703, aveva infatti ottenuto l’esonero dall’incarico, proponendo lui in sua vece. Il duca Francesco era stato d’accordo. Alberoni aveva cominciato a fargli da tramite coi Francesi e adesso fu proprio lui ad avvertire Vendôme a Casale Monferrato della presenza del corpo di soccorso di Annibale Visconti, consentendogli d’intercettarne la retroguardia a San Sebastiano, infliggergli perdite per 800 uomini e obbligarlo, come fece, a buttarsi verso Genova. E – aggiunge don Bellardi – se il generale spagnolo delle truppe milanesi Colmenero, “non avesse tenuta in bilancio la fede che il Vendomo prestar doveva al favellar dell’Abate, avrebbe anticipato di otto giorni la marcia e non sarebbesi salvato appena un sol cavaliere tedesco. L’arte del Colmenero tendeva a far mancare il colpo al Vendomo, e perciò sforzavasi di persuaderlo, che il distaccamento del Visconti avrebbe tenuta la strada della valle de’ Ratti e non quella di San Sebastiano; mà l’intrepido Abate indicò il distaccamento, e individuò la strada che tenne, e così facendo diè campo al Vendomo di fare il colpo, e di scuoprire in Colmenero27 l’idea di un tradimento.”XIX A dispetto dei Francesi e passando per Genova, Visconti riuscì a entrare in Piemonte da sud coi superstiti. Allora il comandante interinale imperiale, Guido Starhemberg – il Principe Eugenio quell’anno era a Vienna – decise di muovere un secondo corpo di soccorso e, il 25 dicembre 1703, partì alla volta del Piemonte con 10.000 fanti, 4.000 cavalieri e 16 cannoni. Ma anche lui fece le spese della vigilanza alberoniana. Scrisse Bellardi che il duca di Parma aveva avuto notizia della marcia di Starhemberg con sei mesi d’anticipo e che, tramite Alberoni, avvisò Vendôme, in quel momento in Piemonte. Questi, dubbioso, si spostò a San Benedetto Po. Alberoni lo raggiunse il 23 dicembre 1703, cioè due giorni prima che gli Imperiali si mettessero in marcia. Vendôme non era ancora convinto. Alberoni fece il possibile per fargli cambiare idea e la notizia della partenza dei nemici li colse di sorpresa mentre erano a tavola. Alberoni allora consigliò di buttarsi all’inseguimento e tanto fece e disse che alla fine i Francesi si mossero e poterono 27

E’ opportuno ricordare che nel 1707 Colmenero, comandante del Castello di Milano, dopo il crollo borbonico in Italia avrebbe accettato d’arrendersi e sarebbe passato al servizio imperiale, facendovi una bella carriera. 32


quantomeno agganciare e battere la retroguardia imperiale,XX ma, non essendo riusciti ad impedire la congiunzione degli Austriaci coi Piemontesi, furono poi costretti a procedere con maggior lentezza all’occupazione del Piemonte. Una nota che vale la pena di fare riguarda la frase rivelatrice di don Bellardi secondo il quale il duca di Parma aveva saputo della marcia di Stahremberg e tramite Alberoni avvisò Vendôme. E’ un’ammissione fra le righe di quale fosse il vero ruolo di don Giulio. Le sue lettere dal fronte arrivavano a Parma con regolarità, indirizzate al conte Ignazio Rocca, e con altrettanta regolarità riceveva informazioni e ordini. Eseguiva i secondi e passava le prime a chi di dovere. In altre parole: Alberoni era il contatto tra lo spionaggio parmense e i Francesi ai danni degli Imperiali. Era il perno di un’alleanza di fatto, segreta ma attiva, tra Parma e la Francia. Del resto non è credibile che, per quanto bravo, un semplice abate con pochi mezzi e nessuna autorità potesse organizzare una rete informativa tanto vasta da fargli conoscere ogni mossa degli Imperiali e tanto rapida da consentirgli d’avvisarne in tempo Vendôme. Poteva aver saputo per caso una mossa, ma non tre e, soprattutto, non tre di quella portata. Solo il duca di Parma aveva i mezzi e l’autorità per riuscirci e, anche ammettendo l’assurdo che Alberoni avesse potuto e saputo mettere in piedi un’organizzazione del genere, con occhi e orecchie in centinaia di paesi e strade della Pianura Padana, mai avrebbe potuto agire senza il beneplacito del Duca, pena la libertà o la vita una volta scoperto. Come ogni agente segreto che si rispetti, il suo Governo lo sosteneva bene. Non solo lo pagava, ma dal 1705 gli aveva messo a disposizione a Piacenza, per ordine del Duca e ammobiliandoglielo con roba proveniente dai magazzini ducali, un appartamento di palazzo Landi, in cui riceveva parecchi Francesi, guadagnandosene sempre più la fiducia e facendosi sempre più amici. Alberoni, insomma, era un fedele esecutore delle direttive farnesiane e lo sarebbe sempre stato, quali che fossero. Lo era per convinzione, ma sapeva pure che, fino a quando non avesse raggiunto una posizione di assoluta indipendenza, i Farnese avrebbero potuto annientarlo con un tratto di penna o con un cenno. Questo era ancora lontano nel tempo, perciò in quel momento Alberoni serviva con zelo gli interessi del Serenissimo Padrone, i quali erano tutti volti al mantenimento e, se possibile, all’accrescimento, dei dominii parmensi. Un esempio fu la questione di Brescello. I Duchi di Modena ne avevano sempre considerato la fortezza il fiore all’occhiello delle loro opere difensive e, per lo stesso motivo, era invece vista come il fumo negli occhi dal Ducato di Parma. Nel corso del Seicento i due Stati si erano accordati per demolire le rispettive fortezze di Poviglio e Brescello; ma mentre il Farnese aveva distrutto Poviglio, l’Este aveva lasciato in piedi Brescello. Cominciata la Guerra di Successione di Spagna, l’Impero aveva obbligato il duca Rinaldo d’Este a cedergli Brescello per metterci una guarnigione; poi erano arrivati i Franco-Spagnoli e avevano preso la fortezza. Francesco Farnese allora aveva chiesto ad Alberoni d’intervenire per ottenerne la distruzione. Gli avevano dato ascolto, perciò, per ordine del Cristianissimo, Brescello venne ora rasa al suolo, a partire da maggio ed entro novembre del 1704, coll’aiuto di ben 3.000 lavoratori, tratti dalla Milizia Suburbana parmense. Nel frattempo Alberoni, sempre al seguito di Vendôme, si era spostato in Piemonte. Ai primi di maggio del 1704 Vendôme, che aveva ricevuto rinforzi per mare ed aumentato il suo esercito a 36.000 uomini, passò la Sesia. Colla sua superiorità numerica obbligò i Piemontesi e i loro rinforzi imperiali a chiudersi nel sistema difensivo fortificato sabaudo per contendergli il territorio fortezza dopo fortezza e lasciare come ultimo centro di resistenza la cittadella di Torino. Poi arrivò una terza armata francese. Era comandata dal generale La Feuillade, che, presa con 10.000 uomini la Savoia, si diresse nelle Valli Valdesi per coprire le spalle a Vendôme, impegnato, secondo gli ordini avuti da Versailles, ad assediare Vercelli dal 5 giugno, mentre Vaudémont fronteggiava gli Imperiali ad est. Dopo un mese di combattimenti e bombardamenti durissimi, il 20 luglio la guarnigione di Vercelli batté la chiamata e il 24 luglio si arrese cogli onori militari. 33


Alberoni, presente all’assedio al seguito di Vendôme, entrò in città e, con un tono fra l’allibito e il compiaciuto, riferì a Parma: “stragrande fu il bottino; si presero inoltre 72 cannoni, settantamila palle e una immensità di polvere per far l’assedio di quattro Torini se vi fossero….i guasti recati dai Francesi furono enormi, non si vede una casa che non sia ruinata.”XXI Cadute anche Ivrea e Bard, a Vittorio Amedeo rimasero solo Torino, Cuneo, Chivasso ed il sistema fortificato Carbignano-Verrua-Crescentino. Sotto quest’ultimo si presentarono il 14 ottobre 46 battaglioni e 47 squadroni francesi di Vendôme e La Feuillade. L’assedio fu più lungo e sanguinoso di quanto chiunque si fosse aspettato. Solo il 9 aprile 1705 i 1.241 superstiti della guarnigione, dopo aver sparato tutto quello che avevano e privi di viveri da due giorni, fecero saltare in aria tutte le fortificazioni rimaste e si arresero. Ai Francesi Verrua era costata 20.000 palle di cannone, 50.000 bombe, sei generali, 527 ufficiali, 30 ingegneri e 12.500 soldati morti. Era un successo, pagato a carissimo prezzo, ma sempre un successo e un passo in più verso la sperata vittoria delle armi francesi. L’anno prima, parlando di Vendôme, Alberoni aveva scritto dal campo di San Germano al duca Francesco “Questo è un principe da coltivare e noi, grazia a Dio, n’habbiamo la maniera superiore ad ogni altro.”XXII Adesso, nonostante la vittoria di Pirro sotto Verrua, continuava a tesserne le lodi entusiastiche – ed effettivamente il Maresciallo era bravo – e ad informare sistematicamente la corte farnesiana di ogni movimento. Non era un lavoro da poco il suo; e al duca Francesco serviva per sapere come regolarsi fra le due fazioni ed uscire dalla guerra col minor danno possibile. Infatti gli Imperiali si erano riaffacciati in Lombardia, e, mentre Vendôme accorreva a fermare Eugenio di Savoia e La Feuillade assediava Chivasso, Vittorio Amedeo ordinò la ritirata verso Torino, dove riparò in autunno con tutte le truppe che era riuscito a conservare. I Francesi lo seguirono ma decisero di rimandare l’assedio alla primavera successiva, tornando per il momento ai quartieri d’inverno. La resistenza di Torino era la calamita che attirava gli Imperiali verso ovest e quindi preoccupava Francesco Farnese, che vedeva il Principe Eugenio riavvicinarsi all’Oglio nell’estate del 1705. Alberoni lo rassicurava, scrivendo, in francese, al conte Rocca e riferendosi a Vendôme: “Son sicuro che sarete ben contento di veder liberata la regione bassa dell’Oglio. Bisognerà ora pensare a risalir questo fiume ed io vi assicuro che il buon compare pensa bene e agisce meglio.”XXIII Più di due mesi dopo, nel commentare la notizia della battaglia di Cassano, con cui il 16 agosto Vendôme aveva bloccato il tentativo imperiale di passare l’Adda, l’abate gongolava: “il Principe Eugenio era venuto all’imboccatura del Serio, ma ha trovato il buon compagnone che l’ha saputo giocare in un modo che egli non si sarebbe mai aspettato.”XXIV Faceva davvero solo lo spettatore Alberoni, o, come di prassi, aveva passato qualche informazione vitale? Viene da domandarselo a causa d’una strana lettera di cinque giorni dopo, scritta in francese al conte Rocca il 21 agosto, le cui prime tre righe sono sibilline e riferiscono un messaggio di Vendôme. Dicono: “Al Campo di Rivolta, questo 21 Agosto 1705 Signore 34


ho mostrato la vostra lettera a S. Altezza che mi ordina di farvi molti suoi complimenti, e di pregarvi di ringraziare da parte sua tutti quelli che han preso parte nel felice avvenimento della battaglia di Cassano.”XXV Poiché, a quanto si sa, nessun suddito parmense, tranne Alberoni, si trovò a Cassano, cosa intendeva dire Vendôme pregando Rocca “di ringraziare da parte sua tutti quelli che han preso parte nel felice avvenimento della battaglia di Cassano”? In che modo dei Parmensi potevano averlo fatto? C’è una sola spiegazione: ancora una volta lo spionaggio farnesiano era riuscito a sapere in anticipo le mosse imperiali ed a comunicarle ai Francesi tramite Alberoni, causando – e solo per un soffio – l’unica sconfitta mai subita dal principe Eugenio in tutta la sua carriera. Ecco perché dei termini così sibillini: non si poteva scrivere per lettera nulla di più esplicito; ed occorrevano le lettere perché l’abate era ormai da tempo un ospite fisso del quartier generale francese. Aveva smesso di fare la spola grazie a una personale richiesta di Vendôme, il quale aveva scritto: “…al Duca di Parma, perché lo lasciasse continuamente presso di lui. E a ottenerlo scrisse adducendogli non tanto il motivo del suo interesse, quanto il pericolo, a cui esponevasi la vita di codesto Abate nel mandarlo sovente dalla Città al Campo, e da questo alla città in tempo di Guerra, come portava il bisogno, ed assicurò inoltre il Duca, che l’avrebbe presso di se tenuto in grado di buon amico, sempre a portata di rendere al Sovrano ogni possibil servigio. Non seppe il Duca di Parma negare ciò, che a lui giovava di accordare; onde l’Abate Alberoni restò presso il Vendomo.”XXVI Nello stesso anno il Maresciallo gli fece ottenere una pensione di 1.000 lire tornesi da Luigi XIV e, andato l’esercito ai quartieri invernali, nel febbraio del 1706 se lo portò a Versailles per presentarlo al Re Sole. La seguente campagna del 1706 portò ai Francesi un rovescio dopo l’altro in Fiandra e in Italia. Il 23 maggio gli Anglo-Olandesi li batterono a Ramillies e li costrinsero a una rotazione di generali. Perciò il mese dopo Vendôme passò l’Italia a Filippo di Borbone, duca d’Orléans, figlio del fratello di Luigi XIV, per assumere il comando in Fiandra in luglio e chiese al duca di Parma di lasciargli Alberoni. Francesco ci pensò, ci trovò la sua convenienza e disse di si, purché come suo agente. Le istruzioni che diede ad Alberoni erano chiare ma di non facile esecuzione: doveva tener viva nei Borboni l’idea della convenienza d’avere uno Stato – Parma – segretamente alleato nel bel mezzo d’un’Italia ormai sottomessa al controllo imperiale. Nelle postille alla propria biografia, il Cardinale spiegò di suo pugno, ma in modo oscuro, riferendosi a Vendôme: “Nel mese di Giugno fu chiamato dal Re per il commando dell’armi in Fiandra, ove condusse seco l’Alberoni con dirne il Duca di Vandomo al Duca di Parma che secondo le apparenze si farebbe la Pace, alla quale Alberoni avrebbe potuto intervenire per promuovere i vantaggi della Casa Farnese spalleggiata dai Ministri della Francia. Anche il Duca d’Orleans, sortendo dall’Italia il Duca di Vandomo, pregò S.A. di Parma di continuargli appresso l’Abbate Alberoni. Giunto alla Corte il Duca di Vandomo presentò di nuovo Alberoni al Re da cui fu accolto graziosamente e con segni di stima, e gli disse sarebbe stato l’istromento e il canale per il quale sarebbero camminati gli affari più segreti che dovevan passare fra S.M. e il Duca di Vandomo.”XXVII E così Alberoni, ufficialmente e pubblicamente sempre agente diplomatico di Parma, andò in Fiandra come intermediario tra il Re di Francia e il suo Maresciallo. 35


Ciò che non viene ricordato quasi mai è che, per non dare nell’occhio alle spie imperiali, ufficialmente l’abate Alberoni scomparve, reincarnandosi in un ufficiale italiano al servizio francese, il quale scriveva al fratello in Italia, raccontandogli mille storie a proposito del suo colonnello: il fratello era Rocca, il colonnello Vendôme. Dopo la sosta a Versailles, Alberoni e Vendôme arrivarono a Valenciennes il 6 agosto 1706. Un mese dopo, Eugenio di Savoia travolse i Francesi a Torino in una rotta totale e il duca d’Orléans riparò ferito in Francia con una larva d’esercito. Le truppe franco-spagnole in Lombardia, tagliate fuori dalla rapida avanzata d’Eugenio, si arrangiarono come poterono, ma le fortezze lombarde caddero una dopo l’altra e, alla fine, nella primavera del 1707, un armistizio consentì ai Borbonici l’evacuazione verso la Francia. A Parma, si cominciò a sentire e quindi a temere il giogo dell’Impero subito dopo la battaglia di Torino e di conseguenza si diradarono le risposte alle lettere di Alberoni, troppo apertamente compromesso coi Francesi. La prima infatti gli arrivò il 24 ottobre 1706, un mese e mezzo dopo la battaglia, e gli recò notizie della mutata situazione italiana. Poi ebbe poco fino a dicembre, mese in cui si recò a Versailles per riferire al Re quanto succedeva in Fiandra, dove, in verità, la stasi era assoluta. Vendôme aveva dovuto rimettere insieme i pezzi di un esercito semidistrutto e non poteva permettersi grandi iniziative. Anche per questo gli era necessaria l’opera d’Alberoni, che a Versailles continuava ad incontrarsi con tutti, stringeva nuovi contatti e si insinuava dovunque. Era aiutato da cospicui invii di formaggi, vini, salsicciotti e altre prelibatezze, che sollecitava continuamente a Parma perché, come scriveva al conte Rocca “sono i piccoli regali della tavola che conservano il ricordo e l’amicizia dei francesi.”XXVIII Uno dei risultati migliori della sua incessante attività di quel periodo fu l’amicizia, importantissima e di lì a poco risolutiva, stretta col duca d’Alba, ambasciatore di Spagna. Le amicizie sono sempre utili, ma in quel caso erano fondamentali, perché, come sappiamo da Saint-Simon, la corte di Versailles era divisa in tre partiti e Alberoni, essendo al seguito di Vendôme, era automaticamente inquadrato in uno di essi. Le tre fazioni, le tre cabale, delle quali due formavano altrettanti fronti opposti e irreconciliabili, erano entità pericolose, sempre in lotta fra loro, le quali sarebbero riemerse anni dopo, creando ad Alberoni, che allora sarebbe stato al governo in Spagna, notevoli complicazioni con quella che sarebbe poi stata chiamata la congiura di Cellamare. Avrebbe scritto Saint-Simon: “Dividevano la corte tre partiti che ne raccoglievano i principali personaggi e dei quali appariva assai poco allo scoperto…. Per esser meglio intesi, diamo un nome alle cose e chiamiamo questi tre partiti: la cabala dei signori, nome che le fu donato allora, quella dei ministri e quella di Meudon.”XXIX E’ assai complicato riassumere in breve i tre schieramenti. Diciamo che nell’ultimo ventennio di Luigi XIV, la cabala di Meudon comprendeva i bastardi del Re e in parte i principi della Casa di Lorena residenti in Francia, che si appoggiavano al Gran Delfino, padre del re di Spagna e del duca di Borgogna, e prendeva il nome dal palazzo del Gran Delfino, che era a Meudon. A questa cabala apparteneva Vendôme e, di conseguenza, Alberoni vi si trovava suo malgrado. La cabala dei signori e quella dei ministri si opponevano a quella di Meudon ma erano pure in concorrenza fra loro. Quella dei signori si raccoglieva intorno alla Maintenon, moglie morganatica del Re, e comprendeva i marescialli Boufflers e Villeroy, il cancelliere Voysin, il ministro Pontchartrain, il duca d’Harcourt – dunque uno dei Lorenesi – e altri minori, tra cui molti generali. Tutti i suoi componenti però avevano cura di tenersi in buoni rapporti con la duchessa di Borgogna – sorella della regina di Spagna – e col Gran Delfino. La cabala dei ministri raccoglieva i duchi di Beauvilliers e de Chevreuse, i ministri Torcy e Desmarets, il padre Tellier, il vescovo di Cambrai monsignor Fenelon e puntava tutte le sue carte 36


sul duca di Borgogna, che era in pessimi rapporti col padre, il Gran Delfino. Entrambe le cabale puntavano a fare saltare i due pilastri di quella di Meudon, cioè il ministro Chamillart e Vendôme. In realtà la situazione era assai complessa. Lo scontro era fra i bastardi del Re – cioè la cabala di Meudon – da una parte e la sua discendenza e parentela legittima dall’altra. Ma coi bastardi stava di fatto il Gran Delfino, discendente legittimo del Re. D’altra parte la cabala dei signori, per quanto avversa ai bastardi, si raccoglieva intorno alla Maintenon, che se non li appoggiava quantomeno non li sfavoriva troppo, perché era stata la loro governante ed era affezionata a tutti loro. I bastardi miravano a prendere il potere, o almeno a prenderne il più possibile, raggiungendo la parità coi legittimi discendenti del sovrano e garantendosi la precedenza sui duchi e pari di Francia. Si giovavano in questo di due vantaggi: il debole di Luigi XIV per i suoi figli naturali, avuti perlopiù dalla marchesa di Montespan, e quello per Vendôme stesso, il quale, benché di terza generazione, era nelle loro stesse condizioni: loro nascevano da Luigi XIV, lui dalla linea originata da Enrico IV, nonno di Luigi. L’avanzata dei bastardi era continua e sembrava inarrestabile. Anno dopo anno riuscivano ad ottenere sempre qualcosa di più. Una era stata fatta sposare al principe di Borbone-Conti, un’altra era divenuta duchessa d’Orléans; il conte di Tolosa comandava la Marina, il duca del Maine – il più amato dal padre e il più potente di tutti – sarebbe stato designato reggente alla morte del Re Sole. Chi rischiava di più in prospettiva era la linea legittima: non tanto il Gran Delfino Luigi, quanto suo figlio maggiore, il Delfino Luigi, duca di Borgogna, fratello del Re di Spagna Filippo V e marito di Maria Adelaide di Savoia, a sua volta sorella della regina di Spagna Maria Gabriella. Entrambi gli schieramenti cercavano incessantemente alleati e appoggi negli strati superiori della nobiltà, della magistratura, del clero e dell’esercito. La lotta era senza quartiere ma aveva cominciato a vedere una lenta prevalenza dei legittimi quando, qualche anno prima, alla fine del secolo precedente, era entrata in campo Maria Adelaide di Savoia, il cui ascendente su Luigi XIV non temeva rivali. Sposata al Delfino come condizione della pace che aveva messo fine alla Guerra della Grande Alleanza in Italia e quindi in Europa, Maria Adelaide, benché figlia d’una figlia del fratello di Luigi XIV, era una Savoia in tutto e per tutto, non lo scordava e, inoltre, teneva moltissimo a suo marito. Grazie a lei lentamente la bilancia era ritornata verso l’equilibrio; ma i bastardi avevano giocato la carta di Vendôme: tanto lui otteneva e tanto costituiva un precedente per far avere le stesse cose a loro. Se il Re tollerava che lui si facesse chiamare Altezza, perché loro no? Se il Re gli concedeva una distinzione, perché a loro no? E Luigi assentiva e concedeva. Vendôme era quindi l’ostacolo da abbattere per poi distruggere i bastardi. Se i suoi vizi e la sua condotta non riuscivano a scalfirne l’ascendente sul Re, occorreva trovare qualche altra cosa. Alberoni non poteva non essere al corrente di quanto a Versailles sapevano e vedevano tutti, di conseguenza badò più che mai a stringere buoni rapporti con tutti e ad evitare di farsi nemici, nell’interesse suo e del Serenissimo Padrone di Parma. Un po’ a corto di denaro per le forti spese di rappresentanza sostenute nell’inverno e non rimborsate da Parma, ripartì per il fronte ai primi d’aprile del 1707, andando a Mons e poi, dalla fine di maggio, spostandosi a Charleroy, per terminare la campagna a Lilla, da dove scrisse alcune lettere al conte Rocca in novembre. In Fiandra la campagna non ebbe storia, in compenso in Italia ci furono prima l’invasione austropiemontese della Francia meridionale, con un assedio di Tolone da cui la flotta francese del Mediterraneo uscì distrutta, poi la perdita di tutte le basi alpine che i Francesi erano riusciti a tenere e, infine, la caduta del Regno di Napoli in mano a una piccola armata austriaca. Questo era ancora nulla. Stava per arrivare il 1708, anno che non sarebbe stato dei migliori per Alberoni. Cominciò a veder accrescersi le sue difficoltà già nell’inverno 1707-1708, quando Parma gli tagliò i fondi, perché il Duca, in quanto feudatario dell’Impero, aveva dovuto accettare di far svernare gli Imperiali sul suo territorio. Il costo dei quartieri d’inverno era stato stabilito in 85.000 doppie di Spagna, di cui 14.250 da pagarsi dagli ecclesiastici, tra cui Alberoni. Il Papa, incoraggiato dalla Francia, s’infuriò perché il pagamento era stato intimato come obbligo feudale del Ducato nei confronti dell’Imperatore e scomunicò gli Imperiali, i quali non si 37


scomposero e prepararono l’invasione degli Stati Pontifici. Per contrastarli, Versailles promosse una lega antiaustriaca dei principi italiani, che si sfasciò prima di nascere quando si vide che i Francesi non mantenevano nemmeno l’ombra delle loro grandi promesse. Di conseguenza la Toscana si defilò, le Legazioni pontificie furono invase e messe a contribuzione; e i Ducati padani, capita assai bene l’antifona e ricordandosi di Mantova, che proprio in quel periodo fu tolta ai Gonzaga, assorbita dall’Impero e unita al Ducato di Milano, pagarono fino all’ultimo soldo,28 mentre undici battaglioni di fanteria prussiana e due reggimenti di cavalleria in ottobre venivano a svernare nel Piacentino. Alberoni si tenne a galla perché Luigi XIV gli aumentò la pensione di altri 3.000 franchi all’anno,29 ma subito dopo, al principio di gennaio del 1708, seppe che in Italia gli volevano levare pure l’appartamento assegnatogli a Piacenza. Allora, scrisse al conte Rocca che avrebbe continuato il suo servizio in Francia senza chiedere in avvenire il minimo aiuto e aggiunse: “Ho sentito che si fanno dei progetti riguardo alla mia casa. Sarebbe un colpo molto sensibile per me… e vi scongiuro di risparmiarmi un tal dispiacere, se è possibile. Io non ho alcun merito, è vero, ma non credo di aver neppure demeritato.”XXX Gli risposero che si era pensato di farlo perché ritenevano lontano il suo ritorno. Ribatté che così facendo lo sarebbe stato forse molto di più, intendendo che dire ci avrebbe messo poco ad abbandonare il servizio farnesiano per una migliore sistemazione. Però continuò disciplinatamente a mandare informazioni a Parma e il 2 maggio 1708 annunciò che erano stati comandati alla testa dell’armata di Fiandra i duchi di Borgogna, erede al trono, di Berry, suo fratello minore, e di Vendôme, al cui seguito, il 12 maggio 1708, pure lui arrivò a Mons. Cominciava una campagna dura e sanguinosa, al cui termine tutto sarebbe restato come prima militarmente, mentre molto sarebbe cambiato nella vita di Alberoni. La prima mossa fu dei Francesi. Misero gli Inglesi in una brutta situazione, ma l’arrivo di Eugenio di Savoia sconvolse tutto: rovesciò completamente il fronte e portò l’11 luglio 1708 l’esercito alleato a varcare la Schelda vicino ad Oudenarde sotto gli occhi dei Francesi. Vendôme ordinò di attaccarlo mentre era in crisi di movimento, ma il generale Puységur, noto per espertissimo della zona, disse che lo impediva un acquitrino davanti a loro. Non esisteva, ma gli si credé e l’attacco non si fece. Eugenio prese l’iniziativa e poche ore dopo inflisse ai Francesi una disfatta tremenda. A notte, nella confusione generale dopo lo scontro, quasi tutta l’ala destra francese si diede alla fuga. Una parte della cavalleria andò verso Tournai; un’altra, insieme a migliaia di fanti e dragoni sbandatisi nei boschi, verso Lilla; altri ancora, diecimila si disse poi, verso la frontiera francese. Alle nove di sera gli Alleati cessarono il fuoco e si sdraiarono sul posto in attesa dell’alba. I Francesi invece tennero un breve consiglio di guerra. Vendôme voleva riorganizzare le truppe, profittare della notte per radunare il resto dell’esercito e riaccendere lo scontro la mattina dopo. 28

Tre mesi dopo la vittoria di Torino, il 14 dicembre 1706 venne accettata l’imposizione d’una pesantissima contribuzione al duca di Parma, il quale, pur continuando a protestarsi vassallo di Santa Romana Chiesa, non aveva potuto sottrarsi alla minaccia delle truppe imperiali. La convenzione, di cui nel primo volume della Istoria del cardinale Alberoni, sono riportati solo il proemio, gli articoli I, II, III e IX e la conclusione alle pagine da 17 a 22, fu firmata a Piacenza dal plenipotenziario imperiale, il piemontese marchese di Priero, e per il duca di Parma, dal governatore di Piacenza Francesco Malpeli, dal conte Gianfrancesco Marazzani Visconti e dal marchese Annibale Scotti. Prevedeva il pagamento di 90.000 doppie di Spagna, o del loro equivalente, per i quartieri d’inverno delle truppe imperiali, di cui 63.750 andavano versate dai laici e le restanti, come preannunciato all’articolo I e specificato al IX, dagli ecclesiastici. Malpeli ottenne lo sconto di 5.000 doppie in pagamento del pane fornito da Parma e Piacenza agli Imperiali nell’agosto precedente, l’allontanamento dei reparti di cavalleria e il differimento del pagamento di due terzi della cifra dovuta dai laici fino all’aprile del 1707, mentre il terzo restante sarebbe stato versato in due rate, ad agosto e a ottobre, dai banchieri parmensi; ma fu tutto ciò che riuscì a patteggiare. 29 Dall’unica nota del padre Rossi esistente a pagina 46 nel suo citato saggio Gli antenati del Cardinale Alberoni, risulta che nell’aprile del 1708, cioè tre mesi dopo l’aumento da 1.000 a 4.000 franchi della pensione datagli da Luigi XIV, Alberoni ne avesse un’altra di 3.000 franchi dal Re di Spagna pagabile a Parigi. La concessione della prima ha come riferimento archivistico: Archivio Alberoni 113; quella della seconda: Archivio Alberoni 120. 38


Nessuno fu d’accordo. Uno dopo l’altro tutti i generali dissero che il caos era già tale da sconsigliare un prolungamento della lotta; aspettare l’alba avrebbe significato aspettare la distruzione dell’esercito: l’unica soluzione era ritirarsi a Gand. “Molto bene signori” urlò allora Vendôme inferocito, “vedo che tutti ritenete sia meglio ritirarsi. E voi, Monsignore,” aggiunse rivolto al duca di Borgogna “avevate da tempo questo desiderio.”XXXI Già aveva zittito bruscamente l’erede al trono al principio della discussione, ricordandogli che era lui a comandare. Ora questo nuovo insulto, che lasciava ancor più allibiti i generali e il Delfino stesso, lo distruggeva. Vendôme non lo sapeva, ma non avrebbe avuto più un comando. Per il momento però era ancora la notte dall’11 al 12 luglio del 1708 ed il vero comandante era sempre lui. Non ne ebbe altro che svantaggi. Dopo Oudenarde le cose andarono di male in peggio. Eugenio di Savoia aveva ormai l’iniziativa e ne combinava una dopo l’altra. La prima, già lo stesso 12 luglio, fu l’approvazione da parte del consiglio di guerra alleato dell’assedio di Lilla. Sembrava una pazzia e invece era un rischio calcolato. Lilla era il perno occidentale del sistema difensivo francese di frontiera, una piazza di prim’ordine e, diceva Eugenio, proprio per questo la sua caduta sarebbe stata rovinosa. Prenderla significava forare la cintura fortificata nemica separandone l’estremità e tutto il dispositivo costiero dal resto. Se ci si riusciva la via della Francia e di Parigi poteva essere aperta. Così un enorme convoglio alleato di munizioni e cannoni sfilò sotto gli occhi dell’inerte Vendôme, che da Gand non provò nemmeno a intercettarlo. Il duca di Berwick, che presidiava la frontiera francese e aveva il tassativo ordine di non muoversi, lo scongiurò d’intervenire. Non ci fu verso e l’assedio cominciò, mentre gli Inglesi iniziavano a riprendere tutte le città fiamminghe perse all’inizio della campagna e Piccardia, Artois e Fiandra Francese venivano accuratamente taglieggiate dagli Alleati. Davanti alla mala parata, Vendôme tentò di reagire per interposta persona e si servì d’Alberoni per scaricare le sue colpe sugli altri. A fine mese a Parigi si sparse una lettera data 24 luglio 1708 “du Camp de Lonvendegem”, cioè dal campo francese di Lovendegem nelle Fiandre orientali, in cui, scrivendo al conte Pighetti, ambasciatore farnesiano in Francia, l’Abate smentiva “tutti i discorsi che si fanno”, lodando Vendôme per aver salvato la situazione dopo Oudenarde, “malgrado l’avviso di tutti gli ufficiali generali, che l’hanno pure perseguitato per tre giorni prima d’abbandonarli, dicendo che bisognava cercare di raggiungere l’armata del Signor Duca di Berwick.”XXXII Nel 1953 il padre Pozzi, esaminatane la minuta a Parigi, fra i manoscritti del Fondo Francese della Bibliothéque Nationale de France, rilevò:XXXIII “Le correzioni molteplici (di altra mano), di carattere tecnico, militare e forte, lasciano pensare che siano state poste dallo stesso Vendôme, o da un suo segretario. La firma dice già qualcosa: “L’Abbé sec. de M.r de Vendosme” è stata corretta così “L’Abbé Alberoni prez de Mr. de Vendosme”: la correzione è contemporanea.”XXXIV Insomma, senza menzionarlo, Alberoni – e tramite lui Vendôme – scaricava ogni colpa sul Duca di Borgogna, implicitamente incluso fra “tutti gli ufficiali generali.” Il gioco era scoperto, ma a Versailles dovettero accettarlo. Il 10 agosto Chamillart scrisse a Vendôme una vera rampogna, in apparenza contro Alberoni per essersi occupato di cose delicate di cui avrebbe dovuto serbare il segreto ed aver dimenticato la parte che “Monsignore il Duca di Borgogna poteva aver avuto” nella vicenda. Concluse che il Maresciallo non avrebbe mai fatto abbastanza per impedire all’Abate di rifare una cosa del genere, ed ammise che “Sua Maestà è del tutto persuasa che voi non avete avuto alcuna parte in tutto ciò ch’è stato diffuso a Parigi e alla Corte.”XXXV Questo in realtà significava esattamente il contrario ed era un’esplicita ammissione di saperlo e non volerlo dire, una sorta d’ultimo avviso. Vendôme lo capì benissimo e spedì Alberoni a Versailles a riferire al Re, più per salvarsi le spalle che per altro. L’Abate vi rimase il tempo necessario, perché a settembre era a Tournay e a Mons e in ottobre a Bruges, ma quando tornò al campo la campagna era virtualmente già persa. Lilla si difendeva, ma i tentativi di sbloccarla erano falliti ed era chiaro che la città aveva i giorni contati e che l’anno seguente ci sarebbe stata l’invasione della Francia. 39


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Capitolo VI Attesa Il 14 novembre 1708 Alberoni riaccompagnò Vendôme a Versailles: cominciavano i guai. La cabala dei signori e quella dei ministri erano in fermento e pronte a sfruttare fino in fondo quanto accaduto in Fiandra. Le campagne di Vendôme in Italia fino al 1706 e quella in Fiandra del 1707 non avevano offerto grandi appigli, ma la campagna del 1708 si. Il Duca di Borgogna e il fratello avevano avuto il comando nominale, Vendôme quello effettivo. Se le cose fossero andate bene, ci sarebbe stata gloria per tutti. Erano andate male e ora se ne doveva trovare il colpevole. L’esame della campagna del 1708 non è mai stato fatto alla luce delle complicazioni dinastiche e dell’attività dei gruppi di potere francesi. Alcuni hanno sostenuto che la condotta operativa del Duca di Borgogna sia stata assai insufficiente – e certamente lo fu – mentre, come scriveva Alberoni a Parma, se avessero lasciato mano libera a Vendôme le cose sarebbero andate in tutt’altra maniera. A Oudenarde forse, benché là non si possa far carico di nulla al Duca di Borgogna e la direzione della battaglia, errori inclusi, sia tutta di Vendôme; mentre all’assedio di Lilla ci fu poco da fare per contrastare gli Alleati. Resta però il fatto che, se è vero che il Duca di Borgogna non seppe o non volle impedire ai nemici il transito della Schelda, consentendo loro di soccorrere Bruxelles e vanificando così il tentativo di Vendôme di distoglierli dall’assedio di Lilla, lo stesso Vendôme si fece passare sotto il naso i due convogli che portavano a Lilla le munizioni e l’artiglieria d’assedio, il secondo dei quali consisteva in due colonne parallele, ognuna lunga venticinque chilometri, perciò relativamente facile da attaccare. Così il negativo risultato della campagna fu attribuito a Vendôme. Non che non ne fosse almeno in gran parte responsabile, ma c’erano parecchi conti in sospeso e glieli fecero pagare tutti, profittando della sconfitta. Inoltre, come poi scrisse Saint-Simon, si pensava che Vendôme avesse appositamente fatto andare male le cose per mettere in pessima luce il Duca di Borgogna a vantaggio proprio e della cabala di Meudon. Questo aveva inferocito Adelaide di Savoia in particolare, che ora non si lasciò sfuggire l’occasione. Attratta nella sua orbita la Maintenon, appena poté gli saldò tutti gli arretrati a nome proprio, del marito e, sotto sotto, anche di suo padre Vittorio Amedeo II, i cui Stati – il suo Piemonte – Vendôme aveva abbondantemente devastato nelle campagne del 1704, 1705 e 1706. Con queste premesse Alberoni poteva imprecare quanto voleva contro “le due megere” come chiamava nelle sue lettere a Parma Maria Adelaide e la Maintenon, ma non c’era speranza: era sul cavallo perdente. Se Vendôme fosse stato meno arrogante, la caduta non ci sarebbe stata; ma col suo atteggiamento aveva tutti contro: il Delfino, la Delfina, il Duca di Berry, i duchi pari del Regno e gli altri marescialli di Francia, per cui l’unica cosa che poteva aspettarsi era quella che ebbe, il confino nelle sue terre, anche se le cose non andarono così in fretta come ci si sarebbe aspettati. Al suo rientro dal fronte il Re gli aveva accordato una sola udienza, assai breve. Non era un buon segno, ma nemmeno tanto cattivo. Si sarebbe potuto riprendere, ma disgrazia volle che, col caratteraccio che si ritrovava, cominciasse a dir peste di tutti e, in particolare, a scaricare parte della colpa del disastro di Oudenarde sul tenente generale Puységur. Non aveva del tutto torto, perché proprio l’errata informazione di Puységur sul famoso acquitrino aveva impedito l’attacco immediato agli Alleati e una seconda azione che avrebbe risollevato le sorti della giornata, ma Puységur aveva due vantaggi: godeva di tutta la fiducia del Re e gli parlava quando voleva, perciò, quando tornò dal fronte, Luigi a quattr’occhi gli chiese conto dell’accaduto e 41


lui sparò a zero su Vendôme in un’udienza di due ore, riesaminandone impietosamente le campagne d’Italia – dove anche lui era stato – e di Fiandra, mettendone in luce ogni manchevolezza e distruggendolo del tutto. Il Re gli diede ampio credito e Puységur, uscendo, s’imbatté in Vendôme con cui ebbe uno scontro violento e per di più pubblico. La cabala dei signori l’appoggiò, quella dei ministri pure, perché appoggiarlo significava contribuire a scaricare da ogni responsabilità il Duca di Borgogna e, come risultato, nella seguente primavera del 1709, grazie a una chiara richiesta di Maria Adelaide di Savoia, Vendôme fu allontanato da Versailles per sempre, o almeno così sembrava, e confinato nelle sue terre, con Alberoni sempre nella sua orbita e privato della sua pensione. Con questo la vittoria della cabala dei signori e di quella dei ministri parvero definitive. Non lo furono del tutto, ma gli strascichi sarebbero stati alla base del pasticcio della congiura di Cellamare di lì a meno di dieci anni. Intanto l’inverno del 1708-9 si stava rivelando durissimo. In Fiandra i soldati e i cavalli morivano assiderati, mentre sotto terra marcivano le sementi. Larghe porzioni del Mare del Nord in prossimità della costa erano tanto ghiacciate da permettere ai carri più pesanti di viaggiarci sopra. Gelò l’intera laguna di Venezia; e in gran parte d’Europa gli alberi da frutta, gli olivi ed i vigneti furono bruciati dal freddo. In primavera gli ortaggi ed i cereali che erano riusciti a germogliare marcirono a loro volta per il maltempo, facendo salire alle stelle i prezzi; e in ogni parte del Regno di Francia scoppiarono sommosse contro la guerra, il costo della vita e la corte. Furono soffocate, ma il dissesto alimentare ed economico era così esteso che Luigi XIV decise di chiedere la pace. Era incoraggiato a farlo dai contatti presi fin dalla primavera precedente cogli Alleati. Quando però, verso la fine di febbraio del 1709, questi ultimi seppero che disastro l’inverno avesse fatto cadere sulla Francia, cominciarono a pensare che forse avevano più possibilità del previsto d’ottenere una pace vittoriosa. Senza raccolto Luigi non avrebbe potuto sfamare l’esercito e senza esercito non avrebbe potuto combattere. A questo si aggiunse un allargamento dei negoziati segreti, dovuto all’arrivo d’un emissario di Filippo V con delle proposte di pace. L’apertura spagnola permise in marzo di rendere ufficiali le trattative, che però si arenarono e poi ripartirono a fatica. Quando venne la notizia che Luigi XIV aveva mandato in Olanda il ministro Torcy in persona a presentare nuove proposte, la ripulsa alleata delle precedenti, il rango del nuovo plenipotenziario e la situazione interna della Francia fecero supporre che stavolta la resa incondizionata fosse certa e vicina. E così era. In quel momento Versailles era disposta praticamente a tutto, anche alla “grande cessione”, come fu chiamata allora la rinuncia dei Borboni al trono spagnolo. Alla fine, dopo discussioni accesissime, il 24 maggio 1709 Torcy chiese agli Alleati di compilare un promemoria comprensivo di tutte le richieste avanzate nel corso dei lavori. Tra la sera del 24 e la giornata del 25 esso venne stilato ed il 27 maggio gli fu consegnato. L’indomani partì per Versailles. Ad Eugenio di Savoia disse che gli avrebbe fatto sapere la risposta del Re entro il 4 giugno. Luigi sentì Torcy la sera stessa del suo arrivo, il 1° giugno; prese visione del memoriale alleato e decise d’accettarlo, ma prima di rendere nota la sua scelta in via ufficiale agli Alleati e alla Spagna, convocò il Consiglio per la mattina seguente. Il 2 giugno 1709 la seduta si aprì nella convinzione che ne sarebbe uscita l’accettazione della pace. Non fu così. Ci fu qualche brontolio a proposito delle gravose cessioni richieste e un notevole abbattimento alla lettura dell’articolo IV che, nel caso in cui Filippo V avesse rifiutato di abbandonare la corona, obbligava il Re a unirsi agli Alleati per “concertare insieme misure convenienti onde assicurarsi la piena esecuzione sopraddetta.”XXXVI Non fu però fatto il minimo cenno a iniziative militari. L’esplosione si ebbe solo verso la fine, quando fu esaminato l’articolo XXXVII, il quale affermava che la cessazione delle ostilità si sarebbe avuta solo se “l’intero reame di Spagna” fosse stato ceduto a Carlo d’Asburgo e se entro due mesi la Francia avesse restituito quanto le veniva imposto ed adempiuto a ciò che i precedenti 42


articoli stabilivano. Allora il Gran Delfino fece esplodere la sua rabbia di padre. Colui che nove anni prima si era detto orgoglioso d’essere figlio di re e padre di re, difese gli interessi del suo secondogenito con una violenza inaudita a Versailles. In una corte abituata a tremare davanti a un semplice aggrottare della fronte del Re, abituata a considerare rifiuti secchi e inappellabili semplici frasi come i “non lo conosco” con cui Luigi XIV negava i favori che gli venivano sollecitati in pro di questo o quel cortigiano, la sfuriata del Gran Delfino davanti a suo padre fu clamorosa. Notato che gli articoli IV e XXXVII, letti insieme, significavano che la Francia avrebbe dovuto impegnarsi a combattere insieme agli Alleati contro Filippo V se avesse rifiutato di farsi spogliare della corona offertagli dalla Spagna stessa, Luigi di Borbone bollò con parole di fuoco quanto il consiglio e il Re suo padre stavano facendo. Ricordò ai ministri che un giorno lui sarebbe stato il loro re; che, se Filippo V fosse stato abbandonato al proprio destino, a lui ne avrebbero dovuto rendere conto e, concluse, se doveva fare la guerra preferiva farla ai propri nemici anziché ai propri figli. Poi si alzò e abbandonò la seduta. Le porte si riaprirono poco dopo per far uscire Torcy. Raggiunse il Gran Delfino e davanti a tutta la corte gli comunicò ufficialmente la volontà del Re: Filippo V non sarebbe stato abbandonato, la guerra sarebbe continuata. Mentre si svolgevano le trattative, Vendôme, pur avendo avuto il permesso di ripresentarsi a corte, era sempre in ritiro nelle sue terre e Alberoni, confinatosi con lui, non sapeva che fare. Da un lato avrebbe voluto abbandonare tutto e tornare a Parma, dall’altro non poteva rassegnarsi. La sua situazione era pessima. Da Parma non aveva più nulla, da Luigi XIV nemmeno e le sue rendite piacentine, che non erano gran cosa, avevano rischiato di sparire poco prima, quando il vescovo aveva tentato di levargliele sollevando la questione della sua lunga assenza. L’aveva salvato il Duca; del resto in quel momento Alberoni gli era ancora utile, perché Vendôme era in auge, ma adesso? Essendogli irrimediabilmente legato, era chiaro che, o Vendôme tornava a galla a vantaggio di tutti e due, o la rovina era certa. Insomma, se non trovava una via d’uscita per rimettere in sella il Maresciallo, Alberoni rischiava di restare ad Anet o a La Ferté Alais per sempre, a distribuire formaggi e salsicce parmensi agli amici e senza un soldo di suo; poi ebbe un’idea. Continuava a tenersi in contatto col Serenissimo Padrone attraverso il conte Pighetti, ministro farnesiano a Parigi,30 al quale il 9 maggio 1709 spedì dal castello di La Ferté Alais una lettera che in quel momento aveva dell’incredibile ma che, nell’arco di un anno e mezzo, risultò essere stata l’enunciazione di un programma accuratamente preparato ed eseguito. Riferendosi a Vendôme, scriveva Alberoni: “Sua Altezza mi ha incaricato di pregarvi di voler presentare i suoi complimenti al signor Duca d’Alba e assicurarlo della sua amicizia. Egli dice esser cosa da augurarsi per il bene del Re di Spagna che il signor Duca d’Alba diventi suo ministro di stato e che, sotto il suo ministero, Sua Altezza possa comandare la sola armata di Spagna, giacché egli assicura che darebbe ancora da pensare ai nemici.”XXXVII La mossa era intelligente. Filippo V era in grosse difficoltà e mancava di buoni generali. L’esercito francese in Spagna si assottigliava sempre più e si concentrava a nord per cercare di contrastare l’invasione alleata; quello spagnolo forse sarebbe bastato, però non aveva chi lo comandasse. Vendôme era in disgrazia, per cui non avrebbe avuto altri comandi, a meno che non fosse richiesto da qualcuno per un altro esercito. 30

Vale la pena di dire che tanto Anet quanto La Ferté Alais sono a una settantina di chilometri da Versailles, la prima ad ovest, nella Loira, l’altra a sud e, come Versailles stessa, nell’Ile de France, perciò non erano così lontane da impedire contatti veloci e quotidiani con la corte. Lo spostamento dall’una all’altra a seconda dei periodi spiega perché, dalla sua corrispondenza col conte Rocca, il recapito di Alberoni risulti a Parigi dalla fine di novembre del 1708 all’agosto del 1710: da lì potevano inoltrargli la corrispondenza ad Anet o a La Ferté senza ritardi, secondo dove si trovava. 43


L’unico esercito straniero che poteva farlo era quello spagnolo, ma perché quella richiesta fosse accettata doveva venire dal Re; e perché il Re la facesse, qualcuno doveva suggerirgliela. Ora, l’unico tramite di cui Alberoni poteva disporre per arrivare a Filippo V era il duca d’Alba, del quale tutti i Borbone si fidavano. Se il duca d’Alba comunicava al suo Re che Vendôme era disponibile, considerando che Filippo V non aveva la minima intenzione di farsi detronizzare e aveva solo bisogno d’un buon generale, c’era la speranza che la situazione si sbloccasse. Ventiquattr’ore dopo aver spedito la lettera e ricordato al duca d’Alba che lui esisteva, il 10 maggio 1709 Alberoni partì per Parigi e cominciò a muoversi. Non si sa cosa abbia fatto e detto e che impegni abbia preso e fatto prendere dal duca d’Alba per la Spagna, quel che è certo è che il 5 giugno scrisse a Parma più o meno ripetendo quanto aveva già comunicato a Pighetti un mese prima. Tutti i biografi d’Alberoni danno a lui il merito di quanto accadde in seguito. Non intendo dar loro torto, però, per come andarono le cose, è molto difficile capire se la sua iniziativa originò quanto accadde, o semplicemente si accompagnò a qualcosa di cui lui o Vendôme avevano avuto sentore. E’ comunque probabile che la sua iniziativa abbia smosso le acque a sufficienza da indirizzare i fatti nella direzione che poi presero, benché non subito e, almeno all’inizio, non proprio come aveva desiderato lui. Certo è che molti operarono con discrezione per il successo del piano. fra loro il marchese Monti, adesso colonnello comandante il Reggimento Royal Italien, il quale fece spesso la spola fra Anet, Versailles, La Ferté Alais e Parigi. Ad ogni modo occorse tempo, molto tempo. Andiamo con ordine. Il 15 luglio 1709 si ebbe un primo segnale: Filippo V chiese ufficialmente a suo nonno Luigi XIV il gran favore di mandargli Vendôme, o – cosa che di solito viene taciuta – se proprio non poteva, il duca di Berwick31 o il principe de Vaudémont,32 l’ex-governatore di Milano. Come si vede, Vendôme non fu oggetto d’una richiesta nominativa, ma il suo fu uno dei tre nomi domandati. Se Luigi avesse mandato in Spagna Berwick o Vaudémont, la cosa sarebbe finita lì e Vendôme sarebbe rimasto a ingannare il tempo tra La Ferté Alais ed Anet; e Alberoni con lui. Luigi rispose di no, perché sarebbe stato un esacerbare il nemico – per di più proprio in un periodo in cui aveva spedito Torcy in Olanda a tentare di negoziare – e chiese al nipote di cedere all’elettore di Baviera cinque piazzeforti nelle Fiandre. Sentiti i suoi ministri e vista la loro ferma opposizione, Filippo rifiutò e al principio del 1710 ripeté la richiesta. Luigi convocò il consiglio e di nuovo venne data una risposta negativa. La guerra era andata male nel 1709 e ci si aspettava che sarebbe andata peggio nel 1710: Vittorio Amedeo II stava imperversando sulle Alpi, i Francesi erano stati clamorosamente sconfitti a Malplaquet e le Fiandre erano perse, la Spagna sembrava in mano ai sostenitori di Carlo d’Asburgo e le prospettive erano nere. Per questo il partito della pace a Versailles si rafforzava col passar del tempo e l’aumentare delle difficoltà in cui si dibatteva la Francia. La stessa madame de Maintenon spingeva il Re in quella direzione e i duchi di Borgogna e di Berry, fratelli di Filippo V, parevano propendere anch’essi per la pace. Luigi XIV era tentato, però non era ancora ridotto a dover accettare una pace incondizionata. Molto dipendeva dai negoziati. I precedenti erano pessimi: gli Olandesi avevano mostrato un’insolenza – si diceva a Versailles – mai vista prima e gli altri Alleati non erano da meno. Si proseguirono le discussioni a 31 James fitz James duca di Berwick era il figlio naturale di re Giacomo II d’Inghilterra e d’Arabella Churchill, sorella del duca di Marlborough. La parola “fitz” si usava in Inghilterra dal tempo dei Normanni ed era la trascrizione fonetica del francese fils, figlio, per cui James fitz James significava Giacomo – il questo caso il duca – figlio di (re) Giacomo e serviva da cognome, non potendo il Duca, in quanto discendente naturale, adoperare il cognome Stuart. 32 Carlo Enrico di Lorena, principe di Vaudémont era un cugino primo di Luigi XIV e apparteneva alla Casa di Lorena, essendo il titolo di Vaudémont appannaggio di quei cadetti. La Lorena faceva parte dell’Impero, perciò Carlo Enrico era un principe dell’Impero e in quanto tale nel 1698 era stato nominato governatore del Ducato di Milano. Era soprannominato “il vecchio principe di Vaudémont” per distinguerlo dal suo unico figlio maschio, Carlo Tommaso, noto a sua volta come “il giovane principe di Vaudémont”, nato nel 1670 e che era morto al principio della Guerra di Successione Spagnola, militando in Italia agli ordini d’Eugenio di Savoia. 44


Gertruidenbeg, ma gli Alleati ripeterono che si doveva abbandonare la Spagna e i negoziati si insabbiarono. Poi, il 15 marzo 1710, Luigi XIV disse al consiglio e il 17 fece sapere con una lettera a Filippo V che, se le trattative in quel momento in corso cogli Alleati non avessero avuto l’esito sperato, gli avrebbe mandato Vendôme; e questa volta cominciò a correr voce che l’avrebbe fatto. Il 14 aprile Alberoni ne diede parte al conte Rocca. Ci furono ancora molte titubanze, ma ai primi di giugno Vendôme fu chiamato a corte e ai primi di luglio vennero interrotti i negoziati e richiamati i plenipotenziari. Il 30 luglio 1710 Luigi XIV stabilì d’iniziare una campagna di guerra in Catalogna e mandare a Filippo V un nuovo ambasciatore e il duca di Vendôme. “Sua Altezza va a comandare in Spagna e io ho l’onore di seguirlo” strillò Alberoni a Rocca, e poi “Sospendete pure i regali di salsiccie e formaggi.”XXXVIII L’attendevano Madrid, la porpora e la rovina.

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Capitolo VII L’abate torna in guerra, perde un duca e trova la fortuna La Spagna che accolse Alberoni nell’estate del 1710 era un Paese di per sé povero, ulteriormente stremato da quasi un decennio di guerra ininterrotta, che dipendeva dalla Francia per la sua difesa e dall’oro e dall’argento americani per sostenersi. All’incoronazione di Filippo V nel 1701 avevano fatto seguito lo sbarco d’un contingente imperiale, l’insurrezione di alcune province, prima fra tutte la Catalogna, che sarebbe stata l’ultima a cedere alla fine del conflitto, l’entrata in guerra del Portogallo e l’arrivo d’un corpo di spedizione inglese. La Spagna si era divisa fra i sostenitori degli Asburgo, considerati i legittimi eredi per motivi di famiglia, e dei Borboni. I combattimenti avevano devastato la Penisola Iberica per anni e, complici le comunicazioni marittime rese difficili dalle flotte inglese e olandese, il conseguente minor afflusso di denaro dalle colonie americane e il parallelo aumento delle spese di guerra, ai primi del 1710 la situazione di Filippo V era assai poco invidiabile e nessuno avrebbe immaginato che la sua dinastia non solo entro venticinque anni si sarebbe espansa stabilendo due rami in Italia, ma avrebbe continuato a regnare per secoli dopo che il ramo primogenito, da cui si era staccata, avesse perso definitivamente la corona di Francia. Nato il 19 dicembre 1683, Filippo non aveva nemmeno 17 anni quando era salito al trono di Spagna. Insicuro, piuttosto malinconico, tanto da essere sempre considerato affetto da depressione, era stato istruito, come il fratello maggiore Luigi, duca di Borgogna e Delfino di Francia, dall’abate Fenelon. Come il fratello, era assai religioso e coscienzioso, dunque molto diverso dal nonno che, dubitando delle di lui capacità, l’aveva fatto accompagnare da persone scelte una per una fra quelle di cui si fidava. Il nuovo re di Spagna all’arrivo a Madrid, nel febbraio del 1701, si trovò circondato da intrighi e manovre di ogni genere da parte dei Grandi di Spagna, i quali tendevano ad esautorare da ogni incarico i Francesi del suo seguito e che, per di più, lui non comprendeva, perché non sapeva una parola di Spagnolo. La tensione fu tale da causargli i primi attacchi di depressione, tanto forti da farlo rimanere a letto per giorni. Intanto il nonno gli cercava una moglie e, come abbiamo visto, ne faceva una condizione del trattato d’alleanza imposto a Vittorio Amedeo II di Savoia, quella meglio riuscita. Maria Luisa Gabriella di Savoia, in quanto figlia d’una figlia di Filippo d’Orleans, fratello di Luigi XIV, era cugina di secondo grado di Filippo e appariva gradita a tutti. Fu una scelta assai felice, anche se di relativamente breve durata, visto che sarebbe morta nel febbraio del 1714. Il Re Sole curò attentamente anche la composizione della casa della nuova regina e, in particolare, assegnò la carica di Camarera Mayor ad Anne Marie de la Tremoïlle, principessa Orsini, che lui conosceva da molti anni e di cui si fidava in pieno. La carica di Camarera Mayor era fondamentale perché, secondo la rigida etichetta spagnola, era lei il tramite fra la Regina e il resto della corte, incluso il Re. “La camareira-major” scrisse poi Saint-Simon, che, oltre ad aver conosciuto di persona la principessa Orsini, era stato ambasciatore a Madrid dopo la guerra: “riunisce le funzioni del nostro sovrintendente, della nostra dama d’onore e della nostra dama di compagnia; è sempre una grande di Spagna, vedova ed ordinariamente vecchia e pressoché sempre della primaria distinzione: alloggia al palazzo, presenta le persone di qualità alla regina, entra da lei a qualsiasi ora e condivide il comando della camera col maggiordomo maggiore. La sua carica corrisponde in tutto a quella del coppiere del corpo. Ha cura degli abiti e delle spese personali della regina, che non deve mai lasciare, ma seguire dovunque vada. 47


Entra praticamente sempre da sola, ma di diritto, per prima nella carrozza in cui è la regina, quando non vi è il re, e non è che per gran favore e distinzione se, assai raramente, qualche altro grande di Spagna vi è chiamato. I sottufficiali di camera la servono in parecchie cose, anche nei suoi alloggi. Adopera molte dotazioni della casa della regina, a cura della quale è inoltre ammobiliato il suo appartamento al palazzo.”XXXIX Come si vede le prerogative della Camarera mayor erano ampie ma pure piuttosto vaghe, per cui potevano essere ampliate a dismisura senza commettere alcun abuso formale e arrivare, in pratica, a controllare la Regina in tutto e per tutto, come infatti accadde. Ma poiché la principessa Orsini rispondeva a Luigi XIV, di fatto, tramite lei, Luigi XIV controllava strettamente e concretamente ogni atto di Filippo V e di Maria Luisa Gabriella. I due sposi si incontrarono per la prima volta il 3 novembre del 1701 in Catalogna e diedero inizio a un matrimonio riuscitissimo sotto tutti i punti di vista, presto allietato dalla nascita di quattro figli, due dei quali, don Luigi e don Ferdinando, avrebbero cinto la corona. Il matrimonio e la famiglia furono tra le pochissime soddisfazioni di Filippo nei dieci anni seguenti. Dopo aver visitato i suoi possedimenti italiani, si trovò coi nemici in casa, perché i Portoghesi gli si schierarono contro nel 1704, gli Inglesi presero Gibilterra e ci rimasero e l’arciduca Carlo d’Asburgo sbarcò in Spagna per contendergli la corona, mettendosi alla testa delle truppe alleate ed entrando a Madrid. Filippo si gettò a capofitto nella guerra, ma ebbe poca fortuna e, fra alti e bassi, si trovò a dipendere sempre più dal sostegno francese. Quando, in seguito alla crisi finanziaria causata dalla carestia del 1709, la Francia cominciò a pensare d’abbandonarlo, visse i giorni più neri. Le autorità spagnole avevano scoperto un complotto – o almeno così fu detto – del duca Filippo d’Orleans, cugino di suo padre e zio della Regina, che, dopo essere stato sconfitto a Torino nel 1706, aveva avuto il comando delle truppe francesi in Spagna e, a quanto si diceva e si poteva provare, avrebbe avuto in animo di prendere il trono e addirittura avrebbe spedito in Spagna suoi emissari per avvelenare Filippo V. La realtà era più complessa e Filippo V, come poi scoprì Alfred Baudrillart circa duecent’anni dopo, la conosceva. La Francia, cioè suo nonno Luigi XIV, stava seriamente pensando di lasciarlo solo contro gli Alleati e dunque d’obbligarlo a rinunciare al trono. Se fosse accaduto, allora, col tacito ma non per questo meno esplicito assenso di Luigi XIV, il Duca d’Orleans, avrebbe accettato la corona di Spagna, se gli fosse stata offerta. La reazione di Filippo V fu dura ma tutto sommato contenuta. Fece arrestare e confessare gli emissari, trovò i documenti e chiese spiegazioni e punizioni. Luigi XIV difese con tenacia, ma con molto imbarazzo, il figlio di suo fratello dalle accuse del nipote, il che di per sé era già una mezza ammissione di complicità. La cosa fu più o meno messa a tacere grazie all’incalzare delle cattive notizie di guerra, ma scavò un solco tra Filippo V e Filippo d’Orleans, il quale pochi anni dopo sarebbe imprevedibilmente divenuto reggente di Francia, e costituì la base su cui sarebbe stata fondata una parte delle dicerie nate intorno alla congiura di Cellamare. Per il momento, però, la conseguenza più immediata fu che gli Spagnoli non solo assunsero un atteggiamento assai poco amichevole, ma dissero abbastanza apertamente che, se la Francia li avesse abbandonati, se li sarebbe trovati contro come nemici. In questa complicata situazione Filippo V non aveva mai smesso di chiedere che gli si mandasse Vendôme. O meglio, al principio, prima del suggerimento di Alberoni al duca d’Alba, aveva chiesto il mantenimento del corpo di spedizione francese e un generale a comandarlo. Poi, come abbiamo visto, rendendosi conto che la progressiva riduzione delle truppe francesi in Spagna preludeva a un quasi certo sganciamento, aveva chiesto semplicemente un buon generale – e quello di Vendôme era stato uno fra tre nomi – fino a puntare direttamente sul solo Vendôme. L’assenso di Luigi XIV era però complicato da due elementi diversi. Da un lato non poteva mandare un bravo generale in Spagna senza compromettere le trattative cogli Alleati, perché 48


sarebbe stato uguale a dire di voler continuare la guerra, anziché lasciare la Spagna al suo destino come loro chiedevano. Dall’altro, non aveva generali veramente bravi, di quelli capaci di risollevare una situazione grave o disperata. Berwick, Boufflers e Tallard conoscevano bene il mestiere, ma, non bastavano; Catinat era morto da anni, per cui di quelli migliori gliene restavano solo due: Villars e Vendôme, ma Villars era stato gravemente ferito a Malplaquet nel settembre del 1709 e non si sapeva se e quando avrebbe potuto riprendere servizio, dunque, nell’inverno 1709-1710, quando Filippo V insisté, restava solo Vendôme; e quando fu deciso di continuare la guerra, Villars stava meglio e Vendôme ebbe ordine di partire. Al corrente di tutti questi retroscena e della situazione spagnola, Alberoni arrivò in Spagna nell’autunno del 1710 al seguito di Vendôme, che guidava 36 battaglioni di fanteria e 28 squadroni di cavalleria in rinforzo a Filippo V. Nel viaggio si fermarono a Baiona per una visita di cortesia che destò un certo scalpore, diede dei vantaggi ad Alberoni e creò dei dissapori fra Vendôme e una parte della corte di Filippo V: andarono a trovare la vedova di Carlo II, che era stata fatta allontanare da Madrid per le sue inframmettenze, vere o temute, a favore della Casa d’Asburgo. Alberoni ne uscì benissimo e, comunque, era un obbligo dal quale non si sarebbe potuto esimere, perché la regina vedova di Spagna, la seconda moglie del defunto Carlo II, era la sorella della duchessa di Parma e dunque la zia dell’erede al ducato, Elisabetta Farnese. Fu una mossa gravida di conseguenze, perché a Madrid la fazione francese trovò in questa visita materia d’accusa contro Vendôme, ma per Alberoni, scusato agli occhi del mondo perché doveva fare quanto faceva il suo signore, cioè Vendôme, significò lo stabilimento d’un contatto che in futuro l’avrebbe messo al riparo da qualsiasi guaio. In più, in quanto suddito di Parma, per lui la visita era un obbligo assoluto, dal quale mai si sarebbe potuto esimere. Di nuovo occorre aprire una parentesi. All’indomani della morte di Carlo II, l’avvento dei Francesi era stato visto malissimo dalla nobiltà spagnola, perché erano universalmente ritenuti dei libertini senza Dio. Se il religiosissimo Filippo V si era rapidamente conquistato il rispetto e poi l’affetto dei suoi sudditi, i suoi accompagnatori no; e la nobiltà dissenziente aveva allora guardato alla regina vedova. Le posizioni di lei e dei nobili non erano esattamente le stesse. Loro accettavano il re francese, ma volevano eliminarne i consiglieri per sostituirli con Spagnoli e mantenere le cose come in passato; lei invece puntava all’avvento di Carlo d’Asburgo. Poiché le due posizioni avevano in comune il primo passo, cioè l’eliminazione dei Francesi, parecchi nobili le si erano coagulati intorno e per distruggere la loro opposizione e, più in generale, ogni opposizione, la principessa Orsini – d’ordine di Luigi XIV – aveva ottenuto da Filippo V che la regina vedova fosse esiliata in Francia. Renderle visita passando per Baiona era per Vendôme un obbligo. Per quanto nemica fosse, era una sovrana e l’etichetta lo costringeva a riverirla. Farlo con la cordialità e deferenza che Vendôme vi mise, implicava, che lui lo volesse o no, rendersi amica la nobiltà spagnola all’opposizione e nemica la principessa Orsini; ma per Alberoni, in quanto subalterno di Vendôme e quindi costretto a fare quanto lui faceva, questo significava semplicemente che la nobiltà l’avrebbe visto con occhio favorevole, perché così era stato guardato dalla regina vedova, ma che la Orsini non lo avrebbe necessariamente visto male, perché non poteva attribuire a lui la responsabilità né della visita, né della maniera in cui era stata fatta. Di conseguenza Vendôme ne usciva schierato, Alberoni avvantaggiato. Dopo la visita il viaggio continuò. Appena giunti nei pressi di Baiona, Vendôme e Alberoni avevano avuto la notizia, vera, che i Borbonici erano stati sconfitti sotto Saragozza e, falsa, che lo stesso Filippo V era mortalmente ferito. Vendôme, per di più colpito da un attacco di gotta, aveva deciso di tornare indietro, Alberoni l’aveva convinto ad andare avanti e alla fine arrivarono a Valladolid, dove i reali di Spagna si erano ritirati dopo l’entrata di Carlo d’Asburgo a Madrid. L’accoglienza fu ottima e, in particolare, come scrisse nelle postille alla sua biografia, Alberoni fu ricevuto assai bene dalla regina Maria Luisa Gabriella, che lo volle vedere tre volte, ogni volta per tre ore, concertando con lui il modo di stare in corrispondenza. 49


Alberoni del resto era già noto ai sovrani, per cui non ci sarebbe troppo da stupirsi di un simile benvenuto. Dovrebbe essere stato presente all’incontro fra il duca di Parma e Filippo V nel 1702 e sicuramente di lui aveva parlato il duca d’Alba nei suoi rapporti nell’ultimo anno e mezzo. La cosa più degna di nota è però che, come a suo tempo Luigi XIV gli aveva detto che se ne sarebbe servito come tramite con Vendôme, adesso Maria Gabriella lo fece suo corrispondente dal campo e, poiché tutti sapevano ciò che lui non aveva mai nascosto, cioè d’essere l’agente del duca di Parma, è straordinario notare come i Borboni continuassero a servirsi per alcuni dei loro affari confidenziali d’un agente di una potenza straniera, pur se assai piccola. Non ha molta importanza quanto Alberoni fece e disse in questo suo terzo periodo militare. Disse e si disse che avesse sempre dato buoni consigli, anche strategici, a Vendôme, ma è difficile provarlo e, comunque, non è rilevante. Certamente fece del suo meglio per far sapere in giro quanto valesse e quanto stesse operando per la causa borbonica, sia per farsene dei meriti personali, sia perché convinto partigiano borbonico, sia, infine, perché più lui era considerato in Spagna e Francia, più poteva fare a favore di Parma e dei Farnese, ai quali era sinceramente devoto e agli occhi dei quali avrebbe visto aumentare la propria utilità, se non la propria importanza. Sia come sia, Vendôme batté il nemico e consentì a Filippo la liberazione di Madrid, poi spedì Alberoni a fare un giro per le province dei regni di Valenza e di Aragona, a saggiare l’umore e le propensioni della popolazione e questi – si disse – riuscì così bene che, se la Casa di Borbone poté conservarli, lo si dové in gran parte a lui. Quegli anni consentirono ad Alberoni d’allargare la cerchia delle sue amicizie, specie fra i numerosi Italiani presenti a corte, molti dei quali gli sarebbero poi stati di grande utilità. Conobbe così il conte d’Aguilar, comandante delle Guardie Spagnole; il duca di Popoli, della famiglia napoletana dei Cantelmo, generale dell’esercito spagnolo; il principe Caracciolo di Santo Buono e, soprattutto, i fratelli del Giudice sui quali occorre fermarsi. Figli del genovese Nicola del Giudice, principe di Cellamare e duca di Giovinazzo, i fratelli Domenico, duca di Giovinazzo, e Francesco, arcivescovo di Monreale e cardinale di Santa Romana Chiesa dal 1690, avevano posizioni importanti. Domenico era Grande di Spagna, consigliere di Stato e grande scudiero della regina; Francesco Grande Inquisitore di Spagna. Entrambi erano molto quotati a corte, assai potenti grazie ai loro incarichi e ritenuti estremamente affidabili e capaci. Alberoni ebbe a che fare con tutti e due, insieme o separatamente, perché Vendôme lasciava a lui tutta la parte organizzativa e logistica dell’esercito. Il reperimento, pagamento, distribuzione e inoltro di viveri e rifornimenti passava per le sue mani e i risultati erano così buoni che Vendôme continuava a vincere e cresceva a dismisura nella stima dei sovrani; dava pubblicamente una parte del merito ad Alberoni; e Alberoni cresceva con lui. L’ascesa di Vendôme dava ombra alla persona che fino a quel momento era stata la padrona incontrastata della corte: la principessa Orsini. Nata nel 1642, dunque sessantottenne quando Alberoni la conobbe, Marie Anne de la Tremoïlle conosceva bene la Spagna e da molto tempo. Da giovane, in prime nozze, aveva sposato il conte Talleyrand de Chalais, il quale nel 1663 aveva ucciso in un duello un amico di Luigi XIV e trovato riparo a Madrid, dove lei l’aveva raggiunto, restandoci a lungo. Allora aveva imparato a conoscere a fondo la Spagna, i suoi usi e la sua mentalità e stretto delle buone amicizie, che in seguito le sarebbero state assai utili, come ad esempio l’abate Portocarrero, rivisto a Roma da cardinale e ritrovato in Spagna da primate e primo ministro. I coniugi Talleyrand de Chalais si erano infatti spostati a Roma dopo il non breve soggiorno a Madrid; lui per morire a Mestre mentre andava a Venezia per cercare d’entrare al servizio della Repubblica; lei per consolarsi della vedovanza risposandosi con don Flavio Orsini, duca di Bracciano, e ottenere, essendo morto Chalais, di rientrare nel favore di Luigi XIV e divenirne un’attiva agente, dividendo la propria attività fra Roma e Versailles, con lunghi soggiorni nell’una e nell’altra. La sua conoscenza dell’Italiano e dello Spagnolo, delle corti di Madrid e di Roma, il suo attivismo e il suo rango l’avevano resa ben presto assai utile al Re Sole. 50


Rimasta in condizioni finanziarie poco floride dopo la morte di don Flavio Orsini e venduto Bracciano agli Odescalchi, Anne Marie si era ritirata a Roma, aveva assunto il titolo di principessa di Bracciano e, all’avvento al trono di Filippo V, aveva sia sostenuto il di lui matrimonio con Maria Luisa Gabriella di Savoia, sia, tramite madame de Maintenon, di cui era amica di vecchia data, posto la propria candidatura ad accompagnarla in Spagna. Luigi XIV era andato più in là e l’aveva scelta come Camarera Mayor della nuova regina. Se ne fidava. L’aveva collaudata nell’arco di trent’anni nelle più svariate mansioni, ne aveva ascoltato i pareri e la sapeva un’agente fidata e sicura, che avrebbe anteposto il servizio e gli interessi del Re Cristianissimo a qualsiasi altra cosa. Filippo V aveva ovviamente accettato perciò, verso la fine del 1701, la principessa Orsini era entrata in carica, divenendo in breve la persona più potente dell’intera corte spagnola e, comunque, una figura di cui non si poteva essere nemici. Ma Vendôme lo era. Lui e lei non si sopportavano. Entrambi volevano la parte di primo piano e lo scontro si evitava solo perché evitavano d’incontrarsi. Perciò Vendôme decise che, sia in quanto costretto a restare al campo, sia per i suoi cattivi rapporti con la Camarera Mayor, era meglio delegare il disbrigo di quanto gli occorreva a corte ad Alberoni. L’abate sapeva tutto della principessa Orsini, incluso il fatto che dietro di lei c’era Luigi XIV, di conseguenza fece del proprio meglio per piacerle e ci riuscì in pieno, divenendo sempre più insostituibile, almeno finché fosse durata la guerra, cioè ormai non molto. Se l’estate del 1710 aveva fatto toccare a Filippo V il fondo della disperazione coll’occupazione di Madrid e la richiesta di Luigi XIV d’una sua abdicazione, già l’autunno gli portò delle belle sorprese. Il 17 ottobre Vendôme riuscì in un solo colpo a impedire la giunzione fra Portoghesi e Imperiali sul Tago e fare quella del suo esercito con quello spagnolo dell’Estremadura, il che, un mese dopo, gli permise di costringere il nemico a ritirarsi da Madrid a Toledo. Da lì l’obbligò a ripiegare verso nord, inseguendolo e, il 10 dicembre, agganciandolo e battendolo clamorosamente a Villaviciosa. Di conseguenza, indeboliti dalle perdite e con Vendôme alle calcagna, il 23 dicembre gli Imperiali corsero a rifugiarsi a Saragozza e poi si ritirarono su Barcellona. La gloria di Vendôme accresceva di riflesso l’importanza d’Alberoni, sia a Madrid, sia a Versailles, sia soprattutto a Parma, dove l’abate non mancava di inviare regolarmente le sue lettere, con tutte le più accurate informazioni per il conte Rocca perché le riferisse al Duca. Nel gennaio del 1711 i Reali di Spagna decisero di recarsi a seguire da vicino le operazioni e partirono per Saragozza. Alberoni fu mandato da Vendôme ad accoglierli a una ventina di chilometri dalla città. Scrisse poi a Rocca: “Le Loro maestà mi fecero un mondo di complimenti. La Regina, in piena anticamera mentre andava alla Messa, si rivolse a me chiedendomi notizie del Vendôme che chiamava suo salvatore, e disse a voce alta: “Ebbene, abate Alberoni, eccoci in una situazione ben diversa da quella di Valladolid, e questo meraviglioso e sbalorditivo cambiamento io lo debbo a Dio e al signor duca di Vendôme.” Finita la Messa, mi fece l’onore di condurmi nel suo privato appartamento, trattenendomi insieme col Re per quasi un’ora e parlandomi di molte cose, specialmente della guerra.”XL Una lettera così significava dire a Parma: “guardate quanto sono benvoluto qui, non per la mia qualità di suddito parmense, ma per quanto so fare; tenetene conto e non scordatevelo”. Proprio in quel periodo i rapporti fra Vendôme e la Orsini si guastarono molto. La cosa era complicata dal fatto che in pratica si stava ripresentando a Madrid un caso analogo a quello che aveva distrutto Vendôme in Francia due anni prima. Pure qui si trattava di cricche e cabale, ma, a differenza di Versailles, qui re, regina, principessa e duca erano tutti dalla stessa parte, anche se tra duca e principessa le cose non andavano per niente bene. 51


Alberoni appianò tutto, ma si convinse che la Orsini prima o poi andava levata di torno: troppo altera, troppo potente, troppo longa manus di Luigi XIV. Mentre rifletteva su questo, venne fuori un altro impaccio, stavolta causato dall’ambasciatore francese, il duca di Noailles. Di per sé appartenente alla cabala dei signori di Versailles, aveva sposato una nipote di madame de Maintenon e, una volta in Spagna, aveva fatto e faceva del suo meglio per riabbassare la stella di Vendôme. Il suo gioco era finissimo: poiché Vendôme vinceva le battaglie, l’unico mezzo per neutralizzarlo consisteva nel finire la guerra; ma per farlo occorreva che la Spagna accettasse la pace. Questo rientrava perfettamente nelle vedute se non del Re di Francia, quanto meno dei suoi ministri, per cui Noailles scrisse che la Spagna – nazione indolente – non aveva saputo cogliere i frutti della vittoria di Villaviciosa – e infatti gli Imperiali erano ancora a Barcellona – e che l’unica era finire la guerra con una pace che obbligasse gli Spagnoli ad accettare quanto ai Francesi sarebbe piaciuto far loro avere. Questo era un grave errore di valutazione, perché l’ostacolo principale alla pace negoziata non erano gli Spagnoli, quanto lo stesso Filippo V; e Luigi XIV lo sapeva perfettamente. Nondimeno, in Francia si pensò di far diventare primo ministro di Spagna un cardinale italiano – Del Giudice, Francesco Acquaviva, o l’ex-nunzio in Francia Gualterio – ritenendo che sarebbe stato più malleabile verso una pace negoziata, tanto desiderata dal Papa. Al corrente della manovra, Alberoni riuscì a sventarla rappacificando Vendôme sia coi più importanti suoi avversari spagnoli, sia con la Orsini e fu premiato dal re Filippo con una pensione. Mentre le operazioni ristagnavano ancora, improvvisamente, il 7 aprile 1711, l’imperatore Giuseppe I, figlio del defunto Leopoldo I e fratello del pretendente al trono di Spagna, Carlo, morì senza eredi maschi, lasciando la corona proprio a Carlo. Questo complicò le cose, perché, se Carlo d’Asburgo avesse vinto la guerra, avrebbe riunito nelle sue mani i possedimenti spagnoli e imperiali in un insieme come non si era visto nemmeno ai tempi di Carlo V, cioè in un’entità anche più minacciosa dell’unione franco-spagnola contro cui gli Alleati stavano combattendo per sostenerlo. Evitare la ricostituzione d’una simile potenza era un presupposto della politica britannica. In più gli Inglesi volevano il controllo dei punti militarmente e commercialmente strategici in alcuni scacchieri importanti e un impero austro-spagnolo non l’avrebbe consentito. Già al tempo dei primi negoziati in Olanda, l’ambasciatore austriaco, capito come sarebbe andata a finire, aveva cercato di convincere l’Imperatore ad essere più elastico e disponibile al compromesso. Ma la morte di Giuseppe aveva complicato ogni cosa, perché Carlo d’Asburgo, adesso Carlo VI imperatore, voleva tutto e non ammetteva altre soluzioni. Questo portava allo scontro coll’Inghilterra. Infatti, tralasciando quello che per Vienna era il nocciolo della questione, cioè la presenza d’un Borbone sul trono spagnolo, dal punto di vista inglese il re di Spagna ideale sarebbe stato un sovrano fidato, cioè alleato alla Gran Bretagna, non forte, dunque incapace di condurre una politica contraria a quella di Londra, e disposto a concedere al commercio inglese l’apertura dei mercati spagnoli in Africa, Asia, America ed Europa. Filippo V non era l’ideale ma poteva andare. Però, onde evitare il ripetersi delle ingerenze francesi viste dopo la sua salita al trono, sarebbe stato molto meglio qualcun altro, comunque non Carlo d’Asburgo, la cui potenza era ormai tale da risultare eccessiva se unita a quella della Spagna. Partendo da questi presupposti, è facile capire perché ormai la politica inglese mirasse ad un accordo coi Francesi, più che a una guerra a oltranza. Tutto stava nel vedere se e quanto Luigi XIV e Filippo V avrebbero accettato le proposte britanniche; e la cosa sembrava molto più probabile del vederle accettare da Carlo VI. Infatti l’Austria era poco disponibile alla pace, visto che le sue cosiddette “richieste specifiche” si potevano riassumere in tre parole: “tutto o niente”, dove però “niente” significava la prosecuzione a oltranza della guerra. Dall’Olanda, sede dei colloqui, un torrente di lettere inondava la Hofburg e tutte dicevano la stessa cosa: bisognava avvicinarsi alle posizioni inglesi e olandesi per trovare una linea comune, o l’Austria rischiava d’essere abbandonata a sé stessa; ma si scontravano contro il “Partito Spagnolo”, composto dagli intelligenti arrivisti radunatisi intorno a Carlo in Spagna, e contro la stessa 52


pervicacia di Carlo VI, che di abbandonare quanto spettava “alla nostra nobile Casa” non voleva neanche sentir parlare. Nella primavera del 1712, non curandosi del rifiuto asburgico, gli Inglesi arrivarono a un passo dall’obbiettivo del 1709. Luigi XIV era disposto a non sostenere più il nipote e, se Filippo V avesse accettato di lasciare Madrid, la guerra sarebbe stata terminata. Ma il destino volle far abbattere la sua scure sulle decisioni degli uomini. In dieci mesi la morte colpì ripetutamente la Casa di Francia, portando nella tomba il Delfino, padre di Filippo V, i duchi di Borgogna e di Berry, rispettivamente fratello maggiore e minore di Filippo V e, l’8 marzo 1712, anche il piccolo Duca di Bretagna, figlio maggiore del Duca di Borgogna, precedendo di pochi giorni nella tomba sua madre, la duchessa di Borgogna Maria Adelaide di Savoia, sorella della regina di Spagna. A Luigi XIV rimasero così solo due eredi legali e diretti: il bisnipotino Luigi, duca d’Angiò e Filippo V. E – ci si domandò in tutta Europa – se il piccolo e malaticcio Duca d’Angiò non fosse sopravvissuto, la corona a chi sarebbe passata? Al ramo cadetto degli Orléans o a Filippo? La questione era gravissima perché si ripresentava lo spettro dell’unione di due potenti corone. Londra chiese ed ottenne che Filippo scegliesse se restare a Madrid o passare in Francia, nel qual caso la corona di Spagna sarebbe andata a Vittorio Amedeo di Savoia.33 Nonostante l’offerta di Napoli, della Sicilia e della Savoia se avesse optato per la Francia, il 29 maggio 1712 Filippo scelse la Spagna. Davanti a questo primo punto fermo, il 17 giugno furono presentate al Parlamento britannico le condizioni di massima per la pace, ottenendone l’assenso e cominciando finalmente il vero lavoro per la chiusura del conflitto. Ciò portò a due risultati. Da un lato furono accelerate le trattative coi Francesi, dall’altro l’accessione olandese ai negoziati fece capire a tutti gli Alleati che o salivano sul carro della pace o sarebbero restati soli contro la Francia. Così gli ambasciatori di Portogallo, Prussia e Savoia fecero sapere che pure i loro sovrani erano disposti alla pace. Per Londra restavano due questioni importanti, entrambe legate alla Spagna. Quella commerciale era in via di soluzione mediante accordi di vario genere, tra cui il monopolio della tratta degli schiavi – l’Asiento, l’appalto – in tutta l’America spagnola, ma non era risolto soddisfacentemente l’assetto mediterraneo. Agli occhi marinareschi dei commercianti e dell’Ammiragliato d’Inghilterra, le chiavi del Mediterraneo erano due: Gibilterra e la Sicilia. La prima era già inglese, ma la seconda no e non doveva nemmeno diventarlo. Un dominio sulla Sicilia sarebbe stato troppo difficile da mantenere contro le pretese imperiali e francesi e avrebbe implicato un esborso eccessivo in termini militari. Meglio sarebbe stato applicare alla Sicilia su scala minore i canoni già previsti per la Spagna, metterla cioè in mano a un sovrano debole, fedele alleato di Londra e non amico di Versailles e Vienna. A chi, dunque, se non a Vittorio Amedeo? In un solo colpo si sottraeva il controllo del Mediterraneo alle potenze maggiori, ci si garantiva la perpetua riconoscenza della Casa di Savoia, si adempiva alle promesse fattele elevandola al rango regale, si accontentava la regina Anna d’Inghilterra di cui Vittorio Amedeo era parente e ci si assicurava un dominio commerciale su tutto il Mediterraneo, giovandosi d’una base marittima di prim’ordine, il cui mantenimento sarebbe stato a spese dei Savoia: meglio di così… Ma agli Spagnoli non sarebbe andata giù tanto facilmente ed entro sei anni ne avrebbero fatto il motivo e l’obiettivo di una guerra. Intanto però Versailles accettò l’ipotesi, anche perché la cessione della Sicilia non implicava minacce dirette al proprio confine alpino, né vere e proprie perdite per Filippo V. L’Austria non trovò l’accordo cogli altri e si andò alla firma senza di lei.

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Nel testamento di Carlo II d’Asburgo Vittorio Amedeo era stato nominato quarto in linea di successione, perché la sua bisnonna Cristina Michela, consorte del duca Carlo Emanuele I, era figlia di Filippo II di Spagna. 53


L’11 aprile 1713, dopo averle offerto un’ultima volta d’aderire, venne esclusa dalla pace. Il conflitto che da oltre dodici anni insanguinava il mondo era finito. La Francia perse pochissimi territori, che peraltro aveva presi in passato ai Duchi di Savoia, e si garantì, rimanendo Filippo V re di Spagna, la tranquillità sui Pirenei. La Spagna perse tutti i possedimenti italiani e le Fiandre; ma il suo sovrano aveva accettato quella soluzione obtorto collo e non aspettava altro che una buona occasione per riprendere tutto. L’Austria per il momento si teneva i Ducati di Mantova e di Milano, Orbetello e lo Stato dei Presidii, i Regni di Napoli e Sardegna e le Fiandre Spagnole. Gli Olandesi ebbero la facoltà di presidiare la loro Barriera di fortezze nelle Fiandre ora austriache, come garanzia contro eventuali aggressioni da sud. Il duca di Savoia ebbe gran parte di ciò che del Piemonte ancora non gli mancava34 in cambio di Barcellonetta, ceduta ai Francesi, e la corona di Sicilia, che non gli fu riconosciuta da Carlo VI. Infine l’Inghilterra: la vera vincitrice della guerra, aveva fatto sì che le Potenze continentali uscissero dal conflitto divise in due blocchi, borbonico ed asburgico, di forza equivalente. La Spagna era controllata da Gibilterra e Minorca e dal Portogallo, commercialmente legato a Londra. La Francia era tenuta d’occhio, a nord, dall’Olanda che, coll’acquisizione della Barriera era costretta a distogliere la propria attenzione dal commercio marittimo, lasciandovi un vuoto che gli Inglesi avrebbero colmato e ad est dagli Stati germanici, tra i quali l’Hannover, il cui sovrano, oltre ad avere voce diretta nelle questioni dell’Impero, essendone uno degli Elettori, sarebbe stato re d’Inghilterra dal 1714 col nome di Giorgio I. A sud, infine, anche Vittorio Amedeo II aveva aperto i suoi Stati al commercio britannico ed era un’altra utile pedina da muovere contro Vienna o contro Versailles quando una delle due avesse turbato il nuovo equilibrio europeo; così la Gran Bretagna poteva, nel caso che uno dei due blocchi fosse divenuto troppo minaccioso, allearsi coll’altro e sconfiggerlo. Iniziava la "Balance of Powers", che sarebbe stata la costante della politica britannica fino alla fine della seconda guerra mondiale. Londra aveva in mano buone carte; e la sua attività non avrebbe girato a vuoto né si sarebbe fermata per mancanza di fondi. Intanto nel piccolo mondo di Alberoni, un’altra morte aveva portato un grosso cambiamento. Scriveva il 10 giugno 1712 al conte Rocca da Vinaròs, dove Vendôme aveva da un mese fissato i suoi quartieri: “Voi resterete ben sorpresi sentendo la notizia della morte del Duca di Vendôme, senza aver saputo nulla della sua malattia. Ecco come finiscono gli uomini. Le lacrime non mi permettono di dirvi di più.”XLI La lettera seguente, l’indomani, fornì i dettagli. Vendôme il 25 maggio era stato assalito da vomito e ritenzione urinaria; era peggiorato in fretta, il 9 gli avevano dato i sacramenti e poi era morto. Che poteva fare adesso Alberoni? Solo obbedire: al Re, che gli faceva sapere di volerlo a Madrid; alla principessa Orsini, che lo spronava, perché la corte l’attendeva con impazienza e, in fondo, al duca di Parma, che preferiva lasciarlo in Spagna. Dunque abbandonò l’esercito, il cui comando era passato al suo amico il duca di Popoli. Non aveva soldi, disse. Questo però non era vero. Lo sappiamo da un memoriale da lui presentato nel 1725 a Filippo V per avere tanto la pensione promessagli sulle rendite della diocesi di Malaga, quanto i suoi fondi rimasti in Spagna dopo la sua cacciata e in quel memoriale scrisse d’aver depositato in Spagna, nella banca di Melchiorre Seminati, 60.000 scudi, una parte dei quali aveva portato a Madrid quando c’era venuto alla morte del duca di Vendôme.

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Il trattato tra Francia e Savoia fissava il confine alpino sulla displuviale: là dove le acque piovane fossero scese a est sarebbe stata terra dei Savoia; a ovest del Re di Francia. Questo significava che, quando il confine vi fosse passato, la cima del Monte Bianco sarebbe stata equamente divisa in due; e poiché quella parte del trattato del 1713 non è mai stata abrogata o modificata, così è ancora oggi, anche se le carte francesi, del tutto arbitrariamente e senza alcun fondamento, assegnano la cima alla Francia. 54


E’ un esempio di quanto occorra stare attenti alle affermazioni d’Alberoni, prendendole con molta cautela e possibilmente verificandole con ciò che risulta da altre fonti, magari assai posteriori. Sia come sia, dichiaratosi senza soldi, ebbe un prestito dal marchese Giuseppe Casali, inviato straordinario di Parma a Madrid, e coll’aiuto del suo vecchio amico bolognese, il marchese Monti, comprò una carrozza e due mule e partì. Con un caldo feroce si spostò a Madrid, inviando sempre il suo rapporto settimanale a Parma, col che si smentisce quanto sostenuto da alcuni a proposito di un suo viaggio in Francia. Del resto lui stesso, nelle postille alla biografia avrebbe scritto: “Morto il Vandomo, Alberoni si portò a Madrid ove poco dopo fu destinato Inviato Straordinario alla corte di Madrid dal Duca di Parma, e da dove non partì che licenzia[to] dal Re.”XLII Il 26 giugno 1712 era ad Agreda. Il 4 luglio scriveva al conte Rocca da Madrid d’essersi presentato a corte e che: “…dopo la grande disgrazia che mi è capitata c’è da ringraziare Dio, perché mi dà la gioia di vedere che si è contenti di me.”XLIII Per ordine del duca di Parma, alloggiò presso il marchese Casali. E poiché era inutile avere due agenti parmensi in Spagna, il conte Rocca, o meglio, il duca Francesco tramite il conte Rocca, ordinò a Casali il rientro e ad Alberoni di sostituirlo a partire dal maggio del 1713, con la paga di 50 doppie al mese, più il rimborso delle spese di rappresentanza. E’ difficile dire quali elementi abbiano pesato in questa scelta. Da un lato è vero che Casali da tempo aveva chiesto il rimpatrio, ma è pure vero che sostituire un nobile con un plebeo in un’ambasciata era degradante per chi lo mandava e un insulto per chi lo riceveva. Ci sono però due elementi che contribuiscono a spiegare la scelta di Francesco Farnese. Il primo è che il marchese Casali non aveva alcun riconoscimento ufficiale da parte della corte spagnola. L’equidistanza tenuta dai Farnese fra Asburgo e Borboni aveva implicato la necessità di riconoscere a Carlo VI i titoli regali delle Spagne, di Napoli e di Sicilia che pretendeva, ma che erano prerogativa di Filippo V. I Farnese non potevano fare altrimenti, ma gli Spagnoli non potevano ammettere d’avere nella loro capitale l’inviato di uno Stato che non riconosceva i titoli e la legittimità del loro sovrano. Da qui la scappatoia. Casali c’era e funzionava regolarmente da inviato; ma era formalmente considerato un privato. Di conseguenza a Madrid non esisteva alcun inviato parmense, per cui le mansioni della posizione diplomatica – formalmente vacante – potevano essere adempiute anche da un plebeo. Restava il problema di quanto Filippo V potesse sentire la nomina del plebeo Alberoni come una mancanza del rispetto dovutogli in quanto re, ma, se il cautissimo Francesco Farnese la fece, evidentemente doveva aver avuto una formale assicurazione da parte del Re stesso che la nomina d’Alberoni gli sarebbe stata gradita. Castagnoli ipotizza che a favore di don Giulio si siano mossi tutti i suoi amici. E’ possibile, ma non rilevante. Se il Re non avesse voluto, tutti gli amici del mondo non avrebbero ottenuto nulla. Dunque, se Alberoni ebbe la nomina, fu, evidentemente, perché lo stesso Filippo V la gradì e fece sapere di gradirla; e tanto basta. Restano due aspetti da considerare. Il primo è la sorprendente constatazione che ancora una volta i Borboni avrebbero accettato di valersi dell’agente – prima segreto, ora pubblico – d’un sovrano straniero per dei loro incarichi di Stato piuttosto riservati. Viene da pensare che non ritenessero l’influenza di Parma pericolosa per la loro politica ed effettivamente fino allora così era stato; ma entro sei anni avrebbero scoperto che si sbagliavano. L’altro aspetto è quello finanziario. Lo dico qui e non ci tornerò sopra, ma bisogna ricordare che fu una costante. La taccagneria del duca Francesco lasciò sempre Alberoni in pessime acque: 80 doppie mensili fra stipendio e rimborsi spese erano poche. Come lui stesso scrisse nell’estate del 1713 per rintuzzare le accuse di sprechi mossegli da Parma, l’inviato di Toscana – anche lui formalmente un semplice privato – prendeva uno stipendio triplo: 150 doppie al mese, cioè 1.800 all’anno, più il rimborso delle spese straordinarie di ogni genere, inclusi i pranzi diplomatici. Gli inviati di Genova e di Baviera stavano entrambi a 1.600 all’anno. Alberoni da un fisso di 600 55


arrivava a malapena a 960 grazie ai rimborsi e in più da Parma lo tampinavano, chiedendogli conto di ogni minima spesa.XLIV D’accordo che in quel periodo Francesco Farnese doveva risparmiare su tutto per pagare i quartieri invernali alle truppe imperiali, per i quali aveva appena avuto una stoccata da 6.000 doppie, ma in seguito avrebbe potuto concedere qualcosa di più, solo che non lo fece, mai. L’inizio fu particolarmente duro, perché Casali aveva trascurato sia le due carrozze e le mule dell’ambasciata, sia le livree di rappresentanza dei lacchè e, in un luogo come la Spagna dove l’apparenza era tutto, non era cosa da poco. I problemi d’Alberoni erano cominciati presto. Nell’estate del 1712 da Parma gli avevano chiesto che contasse di fare – modo gentile per richiamarlo – e lui l’8 agosto aveva scritto una tortuosa risposta, dicendo che era vero quanto gli scrivevano da Parma dei tanti intrighi esistenti a Madrid, ma ce n’erano da tutte le parti, che lui si trovava bene perché là dov’era sapeva come scansarli e che, nonostante gli Spagnoli fossero quanto di più altezzoso e superbo esistesse, lui ci andava d’accordissimo e ne era trattato assai bene. Di sfuggita menzionava il fatto che la vita costava il triplo che a Piacenza e, implicitamente, dal contesto faceva capire che buon’idea avrebbe avuto il Duca a tenerlo lì. Quando gli era stato risposto di restare, apparentemente non gli era stato mandato un soldo e aveva scritto d’essersi dovuto far prestare 600 pistole di Spagna dal cardinale del Giudice. La pensione spagnola non gli bastava e, comunque, era veramente troppo pretendere che l’ambasciatore si mantenesse coi soldi pagatigli dalla Spagna. Per tagliar corto, Alberoni mise Parma davanti al fatto compiuto. Cambiò le livree, cambiò le mule e comprò due carrozze nuove, dato che le vecchie erano così malconce da essere inutilizzabili e invendibili, poi mandò a Rocca la richiesta di rimborso. Tira e molla, alla fine l’ottenne, ma, disse il Duca, solo per quella volta e in futuro gli facesse sempre sapere prima cosa voleva comprare. Nel complesso i Farnese non si potevano lamentare: Alberoni costava meno della metà di qualsiasi altro ambasciatore e rendeva infinitamente di più. Godeva di gran credito a corte, specie da parte della Regina e della principessa Orsini, ed era già riuscito a convincere Filippo V a fare un passo a vantaggio di Parma. La vittoria austro-sabauda di Torino del 1706 aveva infatti messo tutti gli altri Stati italiani davanti alla necessità di decidere se riconoscere o no Carlo d’Asburgo come re di Spagna. Modena non aveva trovato difficoltà e adesso Parma, Lucca, Genova e Venezia erano state messe davanti alla scelta; e non riconoscere Carlo significava guai, per cui l’avevano fatto. Filippo V si era adirato e aveva pubblicato un decreto con cui in rappresaglia vietava nei suoi Stati il commercio con le tre Repubbliche e con Parma. Ebbene: Alberoni era riuscito a convincerlo a escludere Parma dal decreto: il Ducato era debole, non protetto – aveva detto al Re – in balia dell’Impero, nei confronti del quale aveva una certa, ancorché discussa, dipendenza feudale, mentre le tre Repubbliche erano del tutto indipendenti, per cui loro erano colpevoli, perché nessuno poteva obbligarle, ma Parma no. E poi non si doveva dimenticare quanto il duca Francesco aveva fatto a favore della causa borbonica durante i primi cinque anni di guerra. Questo successo diplomatico era stato decisivo e Francesco si era convinto che lasciare Alberoni a Madrid fosse la scelta migliore. Ecco perché nei primi mesi del 1713 arrivarono disposizioni da Parma e a metà aprile i primi ordini precisi. Da quel momento, a cominciare dalla sua prima missiva in qualità di inviato straordinario ducale, il 17 aprile 1713, Alberoni smise di scrivere al conte Rocca in Francese come aveva fatto per dieci anni e riprese l’Italiano, dicendo: “Praticarò il carteggio nella forma prescrittami ed usarò quella piena libertà e sincera confidenza che deve essere fra buoni e veri amici, già che mi fate l’honore di tenermi per tale.”XLV Casali partì il 30 aprile. Da quel giorno, per sei anni, qualunque cosa facesse per la Spagna, Alberoni restò l’inviato straordinario di Parma, però non ufficialmente. Lo si ricava esplicitamente da una lettera del Duca al conte Rocca a proposito di don Carlo Rosellini. Questi era stato il 56


segretario privato del marchese Casali a Madrid e, in quanto tale, era ripartito con lui il 30 aprile. Alberoni aveva chiesto a Parma di non rimandarglielo, perché sapeva che sarebbe tornato malvolentieri a Madrid e perché già Casali se n’era lamentato parecchio per le sue scarse qualità. Rocca allora aveva interpellato don Carlo al suo arrivo a Piacenza e si era sentito rispondere che, essendo Alberoni plebeo come lui, avrebbe accettato solo se nominato segretario del ministro di Sua Altezza Serenissima a Madrid. Informato della cosa, il Duca aveva scritto: “Non avremmo noi difficoltà a decorare del titolo di Segretario del nostro Ministero in Spagna D. Carlo Rosellini, quando Don Giulio Alberoni avesse anch’esso qualche carattere. Nella presente positura però delle cose voi ben vedete non potersi dire, che colà sia ne alcun nostro Ministro, ne in conseguenza verificarsi il Ministero, a cui il detto D. Carlo bramerebbe che si appoggiasse una tale dichiarazione, ed anzi sarebbe egli qualche cosa di più del detto D. Giulio… Stimeremmo più conveniente, ch’egli si contentasse d’una nostra lettera, colla quale gli spiegassimo, che trattenendosi l’Alberoni in Madrid per alcune nostre commissioni ed interessi, ed abbisognandoli qualche aiuto singolarmente per scrivere le lettere, fosse nostra mente che egli a tal’effetto si restituisse a quella Città assicurandolo del gradimento che da noi s’avrebbe per quella continuazione dello sperimentato suo fedele ed attento servigio.”XLVI Al di là delle questioni di etichetta, come quella della necessità di farsi rappresentare ufficialmente da un nobile anziché da un plebeo, il Duca di Parma non poteva rischiare di istituire relazioni ufficiali con la corte spagnola adoperando proprio il più che compromesso Alberoni e, soprattutto, in un periodo in cui l’Impero, rifiutate le conclusioni della pace di Utrecht, aveva deciso di continuare da solo la guerra contro Francia e Spagna. E così Alberoni rimase ufficiosamente il rappresentante di Parma per tutto il periodo della sua permanenza in Spagna e in tale veste divenne factotum del re di Spagna e cardinale; e solo dopo la sua partenza, nel dicembre del 1719, sarebbe stato ufficialmente installato un ministro parmense nella persona del marchese Annibale Scotti. Ma la cosa più strana fu che se Parma non gli riconobbe alcun incarico ufficiale, lo fece invece Filippo V e Alberoni lo comunicò raggiante a Rocca. Paragonandosi a Casali, scrisse: “L’altro si tolerava semplicemente come persona particolare, oggi io non solo sono considerato tale, ma di più incaricato degli affari del Duca di Parma, grazia accordatami dalle Maestà Cattoliche con grandissimo ribrezzo del Consiglio di Stato.”XLVII Per i Farnese però questo non sembrava valere – del resto potevano giustificare così e per questo lo scarso salario che gli davano – e Alberoni continuava a non essere il ministro di Parma. Di conseguenza pure don Carlo Rosellini si contentò di quanto gli si offriva. Accettò una modesta paga di 30 doppie all’anno, più la speranza di un’elemosina del Duca di 25 soldi per una messa quotidiana da celebrarsi “secondo la mente di V.A.”, obbedì all’ordine di tornare e, dopo 97 giorni di non facile viaggio, rientrò a Madrid il 26 novembre 1713, unendo le sue sorti a quelle d’Alberoni fino a condividerne l’esilio sette anni dopo. Per il momento Alberoni stava attraversando un periodo di metamorfosi. Era di fatto l’agente di Parma. Era stato capace di rappacificare la principessa Orsini con Vendôme nonostante gli fosse vicinissimo. Era riuscito a farsi apprezzare da lei, specie perché le si dimostrava umile, sapeva stare al suo posto e non la contrariava in nulla di quanto faceva o diceva, ben sapendo che dietro di lei continuava a stagliarsi Luigi XIV. Cominciava per lui un periodo transitorio, breve, ma che richiedeva grande attenzione e nel quale di nuovo la morte avrebbe avuto una parte importante.

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Capitolo VIII La sposa di burro, la Strega di Spagna Nell’estate del 1712 l’esercito spagnolo aveva continuato a vincere in Catalogna contro gli Imperiali e, alla fine, viste le spese, le difficoltà crescenti e l’imminente pace con la Francia, nel dicembre di quell’anno Carlo d’Asburgo decise d’abbandonare Barcellona alla sua sorte. A Madrid si era capito già in agosto, dopo la vittoria francese a Denain, che la pace si approssimava, o che almeno se ne poteva discutere concretamente. La Regina l’aveva detto al duca di Popoli, convocandolo appositamente e d’urgenza l’8 agosto, interrompendogli il pranzo, e con lui aveva convocato Alberoni che era suo ospite a tavola. Popoli era stato da lei incaricato, d‘ordine del Re, di trattare direttamente coll’inviato inglese lord Lexington e un mese dopo il Duca aveva passato la cosa ad Alberoni, che se n’era sbrigato bene e col solito contorno di pranzi, cene e gentilezze. In gennaio Alberoni comunicò a Parma che Carlo d’Asburgo aveva lasciato Barcellona. La fine era un po’ più vicina, ma se le cose in superficie marciavano, la sostanza non cambiava. In marzo, infatti, da vecchio politico, prima della firma dei trattati di Utrecht già faceva presente a Rocca che l’imminente pace non avrebbe portato a nulla: “Caro signor conte, sarà una pace alla diavola e state sicuro che la commedia non è ancora finita. Già si scoprono i giri e rigiri che ciascuno ha giocato per ingannarsi a vicenda, ma siccome tutti si trovano nella necessità di voler la pace, ne segue che ciascuno già sogna ora di vendicarsi al più presto possibile.”XLVIII Questo era vero specialmente per Carlo VI e Filippo V, che si ritenevano defraudati l’uno dall’altro. Filippo intanto aveva cominciato una profonda ristrutturazione dello Stato. In realtà una prima riorganizzazione era stata imposta da Luigi XIV fin dal 1701. A Versailles era apparso subito chiaro che, senza un riordino dell’amministrazione, la Spagna non si sarebbe mai retta in piedi e anzi avrebbe potuto trascinare con sé la Francia nel baratro. I primi tempi di Filippo V erano stati marcati da contrasti feroci tra i nobili spagnoli e i Francesi imposti da Luigi XIV, i quali, lentamente, erano riusciti ad ammodernare l’amministrazione e ridurre una parte degli ostacoli dovuti alle autonomie locali ed alla cattiva ripartizione del denaro. Con molta fatica la Spagna era riuscita a rimettersi in piedi, ma barcollava ancora parecchio. La fine della guerra aveva sensibilmente ridotto alcune spese e fatto partire molti Francesi, consentendo la nomina di sudditi spagnoli ad alcune cariche di primaria importanza. Ad ogni modo Filippo V nella primavera del 1713 aveva chiesto e ottenuto dal nonno il ritorno di Jean Orry per riordinare le finanze, aveva affidato la Marina al genovese marchese Mari, l’esercito al principe di Cellamare e al duca di Popoli e ogni cosa sembrava cominciare a funzionare meglio, però sempre sotto il controllo di Luigi XIV, attenuato ma non cessato. Al centro di tutto restava infatti l’agente del Re Sole, la principessa Orsini, che Alberoni non cessava di tenersi buona. L’Abate adoperava con lei lo stesso sistema usato in Francia dei numerosi regali gastronomici. Non dimenticava le altre personalità della corte, dalla duchessa d’Havré ai del Giudice, dal duca di Aguilar al marchese di Mejorada, dal duca di Popoli al duca d’Atri, ma la Principessa aveva la precedenza. Vino italiano, maccheroni, formaggio e salsicce ricominciarono a viaggiare con funzioni diplomatiche, riscossero il successo di sempre e resero Alberoni più ascoltato dalla Principessa. Ce n’era bisogno perché si stava profilando una grave crisi: la Regina stava morendo. Maria Luisa Gabriella di Savoia aveva la tubercolosi. Era una malattia dal decorso variabile ma all’epoca non perdonava e nel 1713 ne fu evidente l’aggravamento. I più attenti se n’erano accorti presto dall’ingrossamento delle ghiandole del collo, da lei mascherato con trine e veli, e si erano 59


posti il problema del dopo. Alberoni, pur non accennandone mai nelle sue lettere al conte Rocca, era fra loro. Una lunga vedovanza del Re si poteva escludere: Filippo si sarebbe sicuramente risposato; ma con chi? Nel gennaio del 1714 Alberoni espose al duca di Parma la sua idea: proporre Elisabetta Farnese. Il duca Francesco fu sorpreso, ma tutt’altro che dispiaciuto e ai primi di febbraio gli ordinò di procedere, mantenendo il più totale segreto e raccogliendo tutte le informazioni possibili.XLIX Maria Luisa morì il 14 febbraio 1714. Filippo ne ebbe il cuore a pezzi e si ritirò nel palazzo del duca di Medinaceli il giorno stesso. La principessa Orsini si preparò a raggiungervelo coi principini e qui abilmente s’inserì Alberoni. Ce lo dice lui stesse nelle “postille”: “morta la Regina, Alberoni amicissimo della Principessa Orsini gli disse tre giorni dopo la detta morte, che pensasse che il re non resterebbe gran tempo senza una moglie.”L La Principessa non diede seguito, per il momento, ma poi, nel ritiro del palazzo Medinaceli, dove nessuno o quasi era ammesso, cominciò a riflettere. Filippo aveva 32 anni ed era molto propenso alle donne; però era troppo religioso per farsi delle amanti, di conseguenza si sarebbe risposato di sicuro. Ma una nuova regina avrebbe potuto scegliersi una nuova camarera mayor e lei che fine avrebbe fatto? Era vecchia, aveva settantadue anni ed era priva di mezzi. Filippo le aveva regalato un principato sovrano nelle Fiandre, ma Carlo VI, presa la provincia col trattato di pace, non gliel’aveva riconosciuto. Se avesse perso la posizione di camarera, che le sarebbe rimasto, tranne il tornare a Parigi senza alcun potere, dimenticata da tutti e costretta a dipendere dalla carità altrui? Il pericolo sembrava vicino. L’ambasciatore di Savoia si era già fatto avanti proponendo una delle due sorelle ancora nubili della defunta regina, Maria Vittoria o Isabella Luisa. L’ambasciatore di Baviera era passato sopra i suoi precedenti cattivi rapporti con la principessa Orsini pur di proporre Maria Carlotta di Wittelsbach; poi si parlava d’una figlia del re di Portogallo, della regina vedova di Polonia… ce n’era anche troppo. La cosa però aveva aspetti più ampi e complessi, trattati a un livello superiore. Non si trattava solo dell’avvenire d’una vecchia, c’era assai di più. La principessa Orsini controllava i Reali di Spagna e dipendeva in tutto e per tutto da Luigi XIV, perciò a Luigi XIV premeva che conservasse il suo posto, per continuare a controllare il Re di Spagna. Il controllo durante la guerra si era svolto su due assi diversi: i funzionari e l’esercito. A rigore i funzionari dipendevano da Filippo V, nei fatti da Luigi XIV tramite la Principessa. Il contingente militare francese a sua volta dipendeva in teoria da Filippo V, ma in realtà da Luigi XIV tramite il comandante sul campo, fosse Vendôme, Berwick o il duca d’Orléans. Adesso, dopo la pace, l’esercito francese era partito, non avendo più motivo di rimanere in Spagna, perciò il controllo esterno degli affari spagnoli si svolgeva solo lungo l’asse amministrativo, il cui cardine era la Principessa. Una nuova regina avrebbe potuto scegliere una nuova camarera mayor, segnando la fine del controllo francese. Questo non doveva accadere; e non sarebbe accaduto se la nuova regina fosse stata gradita a Luigi XIV. Alberoni tutto questo lo sapeva benissimo e aveva ben chiaro come regolarsi. Intanto aspettava. Avrebbe poi scritto al duca Francesco il 16 aprile: “Dal primo istante, che morì la Regina, mi posi in aguato per penetrare ogni più profondo arcano, e promuovere con tutta destrezza le disposizioni, quando l’avessi potuto credere favorevoli.”LI E, ripetiamolo, nelle “postille” avrebbe annotato: “morta la Regina, Alberoni amicissimo della Principessa Orsini gli disse tre giorni dopo la detta morte che pensasse che il Re non resterebbe gran tempo senza una moglie.”LII In realtà la scena fu cinicamente agghiacciante. Era il giorno dei funerali di Maria Gabriella e Alberoni e la Orsini erano a una finestra del palazzo reale a guardarli. Lei, seccata dalle inframmettenze di ogni genere – l’ambasciatore sabaudo si era procurato una raccomandazione di una nipote di madame de Maintenon e un’altra del medico di Filippo V – iniziò a elencare le principesse europee che potevano andar bene. Alberoni ascoltava e lasciava cadere solo qualche 60


obiezione di tanto in tanto. Sapeva benissimo che ciò che la Orsini cercava era una donna docile, sottomessa, che le lasciasse mano libera come prima; e sapeva pure che il gioco andava fatto con attenzione perché dietro la Orsini si stagliavano la figura di Luigi XIV e la potenza della Francia. Per questo don Giulio si limitava a sottolineare che occorreva una donna di buon carattere, aliena dagli affari di Stato e disposta ad accettare la preminenza della principessa. La Orsini concluse la sua lista ad excludendum e chiese ad Alberoni se non avesse qualche nome da proporre. Lui assentì: “fra le altre Principesse che verrebbero proposte, aveva anch’egli sua di Parma a proporre e forse quella che converrebbe più d’ogn’altra al Re e a lei ancora: ch’era una buona lombarda, impastata di butirro e di formaggio che ne avrebbe fatto quello che avrebbe voluto, che sarebbe venuta in Spagna con quelle leggi che avrebbe la Principessa prescritte.”LIII La scelta pareva ottima sotto tutti i punti di vista. Alla Orsini conveniva perché Elisabetta – secondo Alberoni – era nata e cresciuta in una piccola corte provinciale, assai famigliare, dove l’avevano abituata ad occuparsi di merletti, ricami e telai, per cui, essendo un carattere “di butirro e di formaggio che ne avrebbe fatto quello che avrebbe voluto” non le avrebbe tolto nulla, anzi, le sarebbe stata grata per un innalzamento da Parma al trono delle Spagne. A Luigi XIV conveniva perché Elisabetta Farnese apparteneva a una casa regnante ma non reale, dunque da un lato non poteva avanzare pretese di alcun genere, dall’altro portava di fatto in dote la futura eredità di Parma e Piacenza, i diritti sulla Toscana dove si intuivano i Medici prossimi all’estinzione e, con qualche difficoltà, i diritti sui feudi di Castro e Ronciglione e sull’isola di Ponza, a tutto vantaggio dell’ingrandimento della Casa di Borbone. Per di più durante la guerra i Farnese avevano aiutato i Francesi quanto avevano potuto, senza rovinarsi come i Gonzaga, per cui li si poteva considerare amici, ammesso che in politica esistessero le amicizie. Certo, dal punto di vista di Luigi XIV poteva andare meglio, ma poteva pure andare assai peggio. Per il momento la cosa finì lì. Alberoni non ci tornò sopra in maniera diretta e non prese iniziative, ma seguì attentamente la situazione, tenendo aggiornato il Duca e sottolineando che tanto il confessore del Re quanto il marchese di Mejorada gli avevano detto che Filippo non avrebbe retto molto senza risposarsi. Negli ultimi giorni di marzo del 1714, durante la Settimana Santa, la principessa Orsini mandò a chiamare Alberoni e gli chiese se era anche lui uno di quelli che avevano la smania di dare una moglie al Re. L’altro, finissimo, le rispose d’esser sicuro “che ella non lo credeva capace di tale pazzia”, il che non era esattamente rispondere di no. Lei fece finta di nulla e proseguì, dicendo “che sinora non credeva disposizione alcuna nel Re di rimaritarsi, però che potrebbe darsi col tempo che gliene venisse voglia, che a quest’effetto voleva essere informata delle Principesse nubili.”LIV Si rifece la stessa disamina del giorno dei funerali e stavolta Elisabetta Farnese vi fu inclusa e fu l’unica che superò l’esame. Dopodiché la Orsini disse ad Alberoni di chiederne subito un ritratto a Parma per presentarlo al Re. A Parma la questione assunse subito la massima importanza e fu coperta dalla più totale segretezza. Solo il Duca, il conte Rocca e Alberoni ne erano al corrente; e Rocca certi particolari comunque non li sapeva. Ripercorrere ogni passo della preparazione del matrimonio è noioso e di nessuna utilità. Ciò che importa è sapere che Alberoni curò tutto nei minimi particolari e nel più profondo segreto. “Fu il trattato condotto con tutta segretezza: non si seppe che dal Re, principessa Orsini, duca di Parma e Alberoni. Prima che fosse conchiuso n’ebbe un cenno la principessa di Parma dalla madre Lampugnani, Abbadessa di S.ª Maria di Valverde, in

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occasione che detta principessa si portò in detto monastero: la quale abbadessa aveva in educazione una sorella35 dell’Alberoni.”LV Ai primi di maggio fu segretamente spedito a Parigi Chalais, nipote dell’Orsini, coll’incarico di tenersi pronto a comunicare a Luigi XIV il nome della futura sposa non appena gliel’avessero detto da Madrid. Il 10 giugno la Principessa tenne Alberoni a colloquio per due ore e il matrimonio fu deciso. Subito partì l’ordine a Chalais di recarsi a riferirlo a Luigi XIV, il quale, non del tutto entusiasta perché avrebbe preferito una principessa portoghese, il 27 giugno diede il suo benestare. Il 2 luglio Chalais ripartì per Madrid e Filippo V mandò un messaggio al cardinale Francesco Acquaviva d’Aragona, protettore della corona di Spagna a Roma, incaricandolo ufficialmente di chiedere la mano d’Elisabetta e provvedere al matrimonio. Intanto al palazzo del Pardo andava in scena una commedia delle parti, i cui due protagonisti affettavano reciprocamente la massima cortesia, ma prendevano le rispettive misure per distruggersi. La principessa Orsini aveva cominciato a temere per il suo potere e fece la prima mossa: chiese il congedo. Né Filippo V, né Luigi XIV le consentirono di lasciare la Spagna, ma almeno il secondo comprese i suoi timori e si mosse a sostenerla. Dal canto suo Alberoni, ignaro di cosa stava succedendo, ma proprio per questo assai più guardingo, circondava la principessa delle cure e delle attenzioni più umili e solerti; ma nel segreto delle proprie stanze riempiva lettere su lettere di consigli su come Elisabetta dovesse comportarsi, con ben chiaro in mente l’obiettivo di sbarazzarsi dell’Orsini. Il 23 luglio, dopo qualche ritardo, arrivò a Madrid il ritratto d’Elisabetta fatto fare appositamente e piacque molto al Re: non gli davano una brutta sposa; anzi. Ma più crescevano le attese di Filippo V e più si preoccupavano sia Luigi XIV che l’Orsini. La seconda non poteva fare altro che aspettare, ma il primo, con tempismo perfetto, si fece sentire. Spedì a Parma il generale conte Albergotti come latore del suo consenso di capo della Casa di Borbone. Il 5 settembre 1714 Albergotti ebbe udienza a Parma. Aveva istruzioni assai precise. In sostanza doveva non troppo velatamente ordinare a Elisabetta di confermare nei suoi incarichi la principessa Orsini e d’eliminare gli Italiani da corte, sostituendoli con altrettanti Spagnoli. La mossa veniva giustificata col fatto che la defunta regina aveva escluso parecchie dame della primaria nobiltà spagnola dal suo seguito e ciò non era bene, ma in realtà era chiaramente contro Alberoni. Albergotti doveva osservare attentamente le reazioni di Elisabetta e riferire subito a Versailles se avesse dimostrato di non accogliere bene quei discorsi, specie nella parte a proposito della vecchia Principessa. Ma l’udienza andò benissimo. Albergotti fu ingannato in pieno, tanto da scrivere che Elisabetta era “dolce, modesta, attenta a tutti i suoi doveri” e che a Parma tutti ritenevano che l’Orsini governasse assai bene. Le lettere di Alberoni erano state lette e ben comprese. Il 16 settembre le nozze per procura furono celebrate dal cardinale Gozzadini, legato pontificio di Romagna e il 22, giunta la notizia che le navi spagnole erano a Sestri, Elisabetta si mise in viaggio. S’imbarcò e arrivò a Genova il 30, con dolori di testa e febbri dovute al mal di mare. Ripartì il 6 ottobre via terra, visto che il mare non le si confaceva e avanzò lentamente verso la Spagna. Tutti l’aspettavano al porto d’Alicante o a quello di Vinaròs; lei invece sarebbe giunta dai Pirenei. Fu davvero un caso il cambio di programma? Non c’è prova che sia stato architettato da Alberoni. Castagnoli sottolinea che in una lettera datata 10 settembre, quando non solo ancora non era stato mutato nulla, ma non era nemmeno stato celebrato il matrimonio, nell’annunciare a Parma che la corte spagnola si era mossa verso la costa per accogliere la nuova regina, Alberoni scriveva: “Tutti 35

Questa postilla autografa è inspiegabile, quantomeno alla luce degli studi esistenti. Nel 1714 tutte e tre le sorelle Alberoni erano morte, ultima Giustina Maria nel 1706. Non si sa se vi fossero sorellastre dal secondo matrimonio della madre, Laura Guidotti, contratto nel 1691 e, se anche ve ne fossero state, nel 1714 dovevano aver passato da un pezzo l’età per essere educate in convento, perciò o il Cardinale scrisse sorella per errore, intendendo invece una delle figlie di sua sorella Giustina Maria, cioè Orsola, poi suora nello stesso convento, e Maria Gertrude, o è impossibile capire a chi si riferisse. 62


si fermeranno in Valencia per ivi essere a portata di correre a Vinaròs o ad Alicante ove dicono sarà lo sbarco della Regina, e sarebbero ben burlati se seguisse in altra parte.”LVI Poiché era impensabile che il comandante del convoglio non approdasse dove gli era stato ordinato, questa frase era quantomeno insolita, se non del tutto fuori di luogo; e allora, si chiedeva Castagnoli, perché scriverla? Comunque, a meno che, è non è impossibile, non fosse un segreto fra lui e il duca Francesco, a giudicare dalle sue lettere a Rocca neppure lui sapeva molto, tanto che rientrò a Madrid, dove fu raggiunto dalla notizia dell’arrivo d’Elisabetta per via di terra, annunciata dal marchese Mulazzani, espressamente inviato ad avvertire il Re. Alberoni, in quanto artefice delle nozze, era sulla cresta dell’onda. Il duca di Parma l’aveva fatto conte. Il Re lo voleva sempre vicino e dalla fine d’agosto l’aveva incaricato d’andare a ricevere la Regina a Vinaròs. Nel frattempo l’Orsini aveva inviato alcuni emissari a spiare il viaggio d’Elisabetta, contro la quale aveva cominciato apertamente a prendere posizione: era brutta – diceva – e aveva il collo troppo lungo e il viso macchiato dal vaiolo; si attardava e non dimostrava alcuna impazienza di raggiungere il Re, né alcuna considerazione e rispetto per la di lui attesa. Quello che non sapeva era che Elisabetta, lungi dall’essersi dedicata solo al ricamo e al rosario, nella sua piccola corte provinciale aveva imparato a parlare e scrivere italiano, latino, francese e tedesco e studiato danza, musica, pittura, geografia, astronomia, storia, retorica e filosofia, il che, unito a un carattere tutt’altro che docile, per cui i nemici l’avrebbero soprannominata “La Strega di Spagna”, e ad una mente pronta, l’avrebbe resa una pericolosissima concorrente nella lotta per il potere. Invece l’unica cosa che si era saputa era il cambio d’itinerario di Elisabetta; e Alberoni, nella seconda metà di novembre e in cattive condizioni di salute, si era messo in viaggio verso Pamplona, per aspettarla alla discesa dalle montagne. La nuova Regina continuava ad avvicinarsi a piccole tappe. Invece di seguire la costa del Mediterraneo, non potendo passare da Barcellona, ancora in mano agli Imperiali, traversò la Francia meridionale verso il Golfo di Biscaglia. Il 29 novembre incontrò a Pau sua zia, la regina vedova di Spagna, che l’accompagnò fino a Saint-Jean Pied de Port, dove si lasciarono il 9 dicembre, dopo aver parlato a lungo, cosa che diede molto da pensare agli emissari della principessa Orsini. Traversati i Pirenei, l’11 dicembre Elisabetta arrivò a Pamplona. Alberoni era ad attenderla. La principessa Orsini invece no: si mosse il 19 dicembre; e fu un altro errore. Si recò ad attendere la Regina a Jadraque, poco più di cento chilometri a nordest di Madrid, come era stato stabilito, ma così facendo lasciò ulteriormente il campo ad Alberoni, il quale ebbe quasi due settimane di tempo per istruire la Regina, perché l’incontro coll’Orsini avvenne solo il 23 dicembre. L’Abate non aveva perso tempo, come fece poi sapere a Parma, prima in una lettera in chiaro datata 25 dicembre e poi in un lungo rapporto, redatto il 31. A Rocca il giorno di Natale scriveva: “Amico caro, le conferenze a quattro occhi havute da Pamplona sino a Cadarache hanno conseguito quella felicità in cui oggi si trova la Regina nel vedersi padrona del marito e che non sarebbe senza havere levato di mezzo l’impedimento.”LVII L’ultimo dell’anno spiegava al Duca: “Infiniti sono stati i discorsi e le riflessioni che furono fatte tra S.M. e me nel corso di dieci sere, le di cui conferenze la minima fu di tre hore e mezza a porte chiuse e dal modo che avrebbe tenuto la Dama fu concertata e stabilita la risoluzione a prendersi da S.M.”LVIII Questo passo, cifrato per sicurezza, indicava senza possibilità d’errore che era stata accuratamente preparata la trappola per l’Orsini. Alberoni la conosceva bene e sicuramente si aspettava quanto poi successe. Non solo: doveva anche aver dato disposizioni assai chiare sia al seguito sia alla scorta, altrimenti non si capisce come abbiano fatto le cose a svolgersi così in fretta. 63


Il 20 dicembre 1714 Elisabetta Farnese giunse ad Almazán, a un’ottantina di chilometri da Jadraque, e spedì alla principessa un biglietto gentilissimo, in cui, chiamandola “mia carissima ed amatissima cugina”, onore non da poco, si scusava di non averle potuto rispondere prima e, assicurandola del suo affetto, concludeva dicendosi impaziente d’abbracciarla. Il 23 Alberoni precedé la Regina a Jadraque per verificare che tutto fosse in ordine e, verrebbe da dire, per accertarsi che l’Orsini fosse irritata al punto giusto. Lo era. Appena si incontrarono, la Principessa diede la stura a un torrente di rimproveri sulla lentezza del viaggio e sulla decisione della Regina d’andare a Guadalajara il 24: non si addiceva a una sovrana presentarsi senza avere il tempo d’abbigliarsi convenientemente e correre dal marito come un donnicciola del popolo, ma, aggiunse, le qualità di questa regina erano ben diverse da come le aveva descritte Alberoni e si vedeva dalla ridicolaggine delle sue azioni e perfino dal suo “mangiare da paesana.” Era perfetto: la Principessa era irritata quanto serviva, anzi, più di quanto bastava a garantire il successo della manovra. Elisabetta arrivò a Jadraque alle otto di sera del 23 ed ebbe il primo sgarbo. La Principessa non si mosse dal palazzo dove alloggiava e le scese incontro solo fino a metà della scala. Era una mancanza di riguardo pesante già nei confronti d’un pari; verso una sovrana era uno sfregio pesantissimo. Impassibile, Elisabetta l’abbracciò calorosamente e l’introdusse nell’appartamento che le avevano preparato, dove si intrattennero a quattr’occhi; e la trappola scattò. Dopo pochissimi minuti si sentirono le due voci salire di tono e divenire concitate. Poi si udì la Regina chiamare ad alta voce Alberoni, che era in anticamera, e ordinargli di far venire Amezaga, il comandante della scorta. A lui, nello sbalordimento generale, Elisabetta gridò, indicando la principessa: “Arrestate questa pazza, quest’insolente, ve l’ordino. Preparate una carrozza e conducetela alla frontiera con cinquanta uomini di guardia. Lasciatele soltanto una cameriera ed un lacché, tutti gli altri suoi domestici siano imprigionati. Partite subito e che non le sia permesso né di scrivere né di parlare ad alcuno.”LIX Stranamente, carrozza e scorta erano già pronte, con tutto l’occorrente per il viaggio. L’Orsini tentò di reagire dicendo ad Amezaga che era necessario il beneplacito del Re, ma si sentì rispondere che lui aveva avuto un ordine dalla Regina e doveva obbedire, perciò si sbrigasse a raccogliere le sue cose perché bisognava partire subito. E così fu. Prima di rendersi conto di cosa era veramente successo, Marie Anne de la Tremoille principessa Orsini si ritrovò in viaggio, in una fredda carrozza, che in una notte gelida correva verso il nord, scortata da cinquanta guardie e con due ufficiali di sorveglianza e una cameriera insieme a lei. Cosa era successo esattamente? Non lo sappiamo che per sommi capi. Riferì poi Alberoni: “Apena furono S.M. e la Dama nella Camera, che questa vene ai sol.ti rimproveri, ed in certo modo alle minaccie, credendo forsi fosse bene far prova se si potesse sul principio intimorire una Principessa giovine, la quale con spirito superiore si vide portata a quel giusto risentimento da lei usato in diffesa del suo decoro, e della Maestà del Re oltraggiata nella sua persona.”LX Il duca di Saint-Agnan, inviato francese a Madrid, scrisse a Versailles che la Regina si sarebbe infuriata sentendo l’Orsini dire che “poteva star sicura che l’avrebbe sempre trovata tra il re e lei per mantener le cose nello stato in cui dovevano essere.”LXI Da dove Saint-Agnan avesse avuto questa versione dei fatti non è chiaro, sicuramente non dall’Orsini, in viaggio verso la frontiera e che sarebbe riuscita a parlare con qualcuno solo oltre il confine franco-spagnolo. Certo è che il suo racconto non contraddice quello d’Alberoni e, per la parte pubblica, relativa alla chiamata d’Alberoni e poi d’Amezaga e al successivo arresto, è confermato dalla relazione del ministro Grimaldi alla Repubblica di Genova. 64


In realtà già all’epoca i pareri furono discordi. Rousset de Misy sostenne che Elisabetta avesse ottenuto da Filippo l’allontanamento dell’Orsini e che, essendo il Re troppo tenero di cuore, le fosse stato facile farsi lasciare piena autonomia quanto al modo di cacciarla.LXII Il marchese Ottieri nella sua storia scrisse che l’idea era stata suggerita a Elisabetta da sua zia Marianna di Neuburgo, l’esiliata vedova di Carlo II da lei visitata prima d’entrare in Spagna, a sua volta aizzata contro l’Orsini dal cardinal del Giudice.LXIII Entrambe le ricostruzioni sono poco credibili. E’difficile che Elisabetta potesse aver avuto da Filippo un simile permesso – necessariamente per lettera od interposta persona – senza che nessuno se ne accorgesse. L’unico tramite poteva essere Alberoni, il quale però non avrebbe avuto motivi di tacerne con la corte di Parma, mentre nella sua corrispondenza non c’è traccia d’un simile accordo col Re. Questo è pure quanto dice il cardinal Baudrillart, il quale dimostra abbastanza bene che Filippo fosse del tutto all’oscuro di quanto sarebbe successo.LXIV Invece è plausibilissimo che avesse ottenuto lei, o Alberoni per lei, l’ordine di Filippo ad Amezaga d’obbedirle in tutto e per tutto. Su questo non c’è dubbio, perché un ordine così era nella natura delle cose. Non solo nessun Re avrebbe esitato un momento ad impartirlo, ma in Spagna la sacralità del Re e di conseguenza della Regina era tale, “che venendo il caso che fosse in qualche pericolo, vi sarebbero di color, che non ardirebbero di toccarla, ancorché si trattasse di salvarle la vita.”LXV Porre dei limiti all’esecutività degli ordini dati dalla Regina in assenza del Re sarebbe stata una limitazione dell’autorità del Re stesso, della cui persona la Regina era, come i principi ereditari, un’emanazione. In un secolo in cui le offese arrecate ad un lacchè erano ipso facto inflitte al suo padrone, tanto che in caso di condanna corporale si aveva cura di levare ai servitori la livrea dei loro padroni perché non venisse offesa dalle percosse, una mancanza di rispetto alla Regina era grave d’una minima sfumatura meno che se fatta al Re; e come tale inconcepibile e da evitare a qualsiasi costo. Dunque è naturalissimo che fosse stato chiesto a Filippo l’ordine ad Amezaga e a tutti d’obbedire ciecamente e immediatamente a qualsiasi ordine della Regina, anzi, per come stavano le cose a quel tempo, un ordine del genere era del tutto superfluo. Infine, quanto a un suggerimento di Marianna d’Austria a Elisabetta di sbarazzarsi dell’Orsini, è possibilissimo che ci sia stato, ma sfondava una porta spalancata, perché tutto era già pronto. Intanto, in quella stessa notte dell’antivigilia di Natale del 1714, mentre la carrozza della Principessa si apriva la strada verso i Pirenei, Alberoni non perse tempo. Elisabetta scrisse immediatamente e di suo pugno al Re che – come riferì Grimaldi – la principessa le aveva mancato di rispetto, offendendo nella sua persona quella del sovrano, per cui aveva ritenuto necessario allontanarla, ma che comunque gli rimetteva ogni decisione definitiva. L’indomani, vigilia di Natale, Alberoni consegnò la lettera di persona; ce la fece sul filo dei secondi. Filippo rimase assai sorpreso, o almeno così sembrò, poi si mise a redigere la risposta. Mentre scriveva, entrò Orry, appena avvertito dell’accaduto da un lacchè dell’Orsini. Chiese ad Alberoni se c’erano novità; no, nessuna, aveva solo portato a Sua Maestà un biglietto di complimenti da parte di Sua Maestà la Regina. Filippo finì di scrivere, sigillò e consegnò la lettera all’abate, che uscì e lasciò campo libero a Orry. Aveva fatto appena in tempo. Orry, spalleggiato da Chalais e Lante, nipoti della Principessa, riuscì a convincere Filippo: non si poteva lasciare una povera vecchia in viaggio nel gelido inverno, senza bagagli, senza domestici e trattata come una delinquente. Il Re ci cascò e spedì Chalais e Lante a portare l’ordine di sospendere il viaggio della loro zia. Poco dopo arrivò Elisabetta. La stessa mattina ebbero luogo il matrimonio religioso, celebrato dal Patriarca delle Indie, e un colloquio a quattr’occhi fra i due sposi, in seguito al quale partì un messaggero coll’ordine di far riprendere il viaggio della Principessa verso il confine. Anne Marie principessa Orsini era definitivamente fuori gioco e sarebbe tornata a Roma. Il campo era alla sposa di burro: “La strega di Spagna” era arrivata.36 36 In realtà gli inglesi la chiamarono “the Termagant of Spain”, cioè, secondo il dizionario Italiano-Inglese del Baretti, per restare nel medesimo secolo, la diavolessa di Spagna, anche se la traduzione corrente più appropriata dovrebbe essere “l’indiavolata di Spagna”, o “La virago di Spagna”. 65


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Capitolo IX I progetti politici d’Alberoni Arrivati a questo punto occorre una sosta per capire i motivi che avevano spinto Alberoni a proporre Elisabetta Farnese in sposa a Filippo V. A partire dalla biografia scritta nell’Ottocento da don Stefano Bersani, si sviluppò una corrente interpretativa che fece d’Alberoni un precursore del Risorgimento e un auspice dell’unità d’Italia. Ettore Rota negli anni ’30 del XX secolo fece sua questa tesi e la sostenne a spada tratta, ma, a ben vedere, sia lui che Bersani si erano spinti troppo oltre. Andiamo con ordine. Che Alberoni fosse antitedesco è indubbio. Le sue lettere dal 1703 in poi traboccano d’astio contro i Tedeschi, gli Asburgo e l’Impero. Che volesse adoperare la Spagna per cacciarli dall’Italia è altrettanto certo e che, in questo quadro, la collocazione d’Elisabetta sul trono di Spagna fosse di fondamentale importanza e funzionale al perseguimento dei suoi obiettivi politici è fuori discussione. Ma i suoi obiettivi politici davvero consistevano nella totale liberazione e unificazione dell’Italia? La risposta è si quanto alla prima e no quanto alla seconda. Vediamo perché. Innanzitutto Alberoni era un piacentino e un suddito devoto del duca di Parma. A sua volta il duca di Parma era un feudatario pontificio minacciato dal ripristino della sovranità imperiale nell’antica Italia imperiale di cui abbiamo già parlato. La politica ducale consisteva nel tener fuori dall’Italia gli Asburgo d’Austria e con loro l’autorità dell’Impero ed era iniziata nel 1690, quando, con la guerra della Guerra della Grande Alleanza, erano arrivate le prime esazioni da parte dei commissari imperiali. Si trattava dell’applicazione all’Italia di quanto si faceva da tempo in Germania. I feudatari dell’Impero dovevano provvedere con truppe o denaro alla difesa dell’Impero stesso e, poiché i principi italiani, a differenza dei Tedeschi, si erano ben guardati dal prendere partito durante la guerra, tenendo i loro piccoli eserciti neutrali, il non aver fornito truppe implicava l’obbligo dell’esborso in denaro, molto malvisto ma impossibile da scansare. Già il duca Ranuccio aveva cercato d’opporsi alle richieste imperiali, presentategli con la giustificazione che, avendo lui acquisito il feudo dei Pallavicini, che era soggetto all’Impero, era divenuto anch’egli, almeno per una parte dei suoi Stati, suddito dell’Imperatore. Ma lui sapeva bene che dietro l’angolo era pronta la resurrezione della Reichsitalien, con tutti gli obblighi annessi e connessi, perciò aveva cercato d’organizzare una resistenza dei principi italiani, ma non c’era riuscito. Nel 1696 Francesco Farnese aveva dovuto pagare la sua parte dei 300.000 scudi imposti dall’Impero all’Italia e aveva capito che le cose sarebbero peggiorate. Nel 1697 ne aveva avuto conferma. Il 9 giugno di quell’anno era stato pubblicato a Roma dall’ambasciatore imperiale conte Martinitz il decreto del 29 aprile con cui Leopoldo I imponeva a tutti i feudatari italiani di fornire entro tre mesi le prove documentali dei loro diritti sui feudi da loro ritenuti. In caso di contese, ritardi o di dubbi, il primo che avesse fornito i documenti avrebbe preso il feudo, ne fosse o meno il detentore in quel momento. A parte il fatto che più antico era l’infeudamento e più ingarbugliata era la situazione, non solo ogni feudatario doveva notificare la successione e chiedere l’investitura entro un anno e un giorno dalla morte del suo predecessore, ma doveva pagare forti diritti di cancelleria. Ora, nel caso non risultasse il pagamento, erano prevedibile salate multe per sanare le omissioni del passato, ma soprattutto c’era all’orizzonte un problema politico: parecchi feudatari minori erano a un tempo soggetti all’Impero ed al proprio sovrano, il quale era a sua volta feudatario dell’Impero e allora perché pagare al sovrano e all’Impero quando si poteva dipendere direttamente dall’Impero e pagare meno? Il decreto conteneva i germi d’un terremoto politico capace di cancellare tutte le signorie italiane e la reazione era stata rapidissima: il 17 giugno 1697 il Papa l’aveva annullato, domandando l’appoggio francese. Luigi XIV l’aveva immediatamente concesso. 67


Erano in corso a Rijswijk le trattative di pace per terminare la Guerra della Lega d’Augusta; e scatenare un simile terremoto in Italia poteva avere conseguenze assai gravi. Leopoldo aveva lasciato perdere, ma i principi italiani ne avevano tratti i peggiori auspici e deciso di fare di tutto per evitare il ritorno degli Imperiali in Italia. Ecco perché nel 1701 Francesco Farnese aveva alzato bandiera pontificia e, conscio che non bastava, ecco perché aveva sostenuto la Francia con tutta l’efficacia dei suoi servizi segreti, adoperando Alberoni come intermediario. Questo non l’aveva salvato. Come sappiamo, nel 1706 aveva dovuto accettare di pagare i quartieri d’inverno imperiali, sborsando 90.000 doppie nel corso del 1707. Poi, nel 1708, l’Impero aveva vibrato di nuovo il colpo del 1697, intimandogli di prendere entro quindici giorni l’investitura di Parma e Piacenza e dunque di riconoscersi feudatario dell’Impero e non più del Papa. Era una situazione pericolosissima e senza uscita, perché un principe dell’Impero non poteva più avere una politica autonoma, a meno che non fosse abbastanza forte da poter affrontare una guerra. In tutto l’Impero lo potevano solamente Prussia, Baviera e Savoia e comunque solo a condizione d’avere un potente alleato come la Francia. Inoltre qualsiasi deviazione dalla fedeltà assoluta all’Imperatore avrebbe implicato il deferimento davanti alla Dieta coll’accusa di fellonia e la condanna alla privazione del feudo, come era appena successo al Duca di Mantova; ce n’era più che abbastanza per essere spinti a cercare un modo qualsiasi di cacciare l’Austria. Alberoni, a sua volta, oltre che un suddito sinceramente devoto al suo sovrano, era altrettanto filofrancese, perché era altrettanto antitedesco. Quando nel 1694 Ranuccio II aveva protestato una prima volta a Vienna contro i gravami impostigli per la guerra, Alberoni aveva già trent’anni e alla fine dell’anno avrebbe ottenuto i tre benefici datigli da monsignor Barni, per cui ricordava benissimo le pesantissime ristrettezze i cui tutti, dal Duca al popolano, passando per la corte e il clero, si erano trovati per pagare le cifre chieste dai generali imperiali. Si era arrivati a un tale impoverimento che lo stesso Duca, malato “se morìa non v’era denaro per farlo seppellire.”LXVI L’impoverimento era durato a lungo, nessuno aveva gradito l’idea di aggravarlo quando nel 1703 si era profilata la stessa situazione; ed Alberoni non aveva certo fatto eccezione. La vista di quanto accadeva in Italia non poteva che confermarlo in questo atteggiamento. Un’ulteriore spinta l’aveva avuta dalla posizione raggiunta presso il comando borbonico, che l’aveva portato a identificarsi sempre di più coi Francesi e quindi ad accentuare la sua avversione agli Imperiali. La fine della guerra aveva visto Alberoni innalzato ad un altissimo livello sociale e politico grazie ai suoi amici, che erano i nemici dell’Impero, il quale a sua volta era da lui visto come un nemico dei Farnese. Per un suddito devoto, questa era una ragione in più per avversare gli Asburgo. Ma ce n’era una terza, da non sottovalutare: l’Impero aveva prima minacciato e poi aggredito e sconfitto il Papa. Per quanto critico potesse essere Alberoni nei confronti di Clemente XI, di cui avrebbe scritto che “non ha mai dato segno d’essere capace d’esser Papa”,LXVII non poteva certo accettare che un laico desse addosso alla Chiesa e al Pontefice. L’atteggiamento imperiale era insomma un’aggressione ai gruppi di cui lui faceva parte, era un’aggressione fatta anche a lui. Era aggredito in quanto suddito farnesiano, in quanto italiano nel senso d’abitante della Penisola e d’appartenente alla cultura italiana, in quanto sacerdote di Santa Romana Chiesa e, infine, cosa non meno importante, in quanto persona d’un certo livello nelle corti borboniche, da dove traeva pensioni e onori. Occorreva reagire. L’aggressore andava punito e neutralizzato e, poiché gli Italiani non erano abbastanza forti per farlo, bisognava trovare chi lo facesse per loro. La vedovanza di Filippo V aprì la strada. La Spagna aveva perso dei territori e voleva riprenderli. Una Farnese sul trono avrebbe garantito che l’impegno spagnolo in Italia non andasse a scapito della Dinastia, della quale si intuiva e si temeva la prossima estinzione. Uomo del proprio tempo, Alberoni parlava d’Italia libera dallo straniero e là si fermava. Gli Italiani dovevano tornare come prima dell’invasione di Carlo VIII di Francia, senza presenze straniere nella Penisola, ognuno padrone a casa sua. Ogni principe italiano doveva conservare i suoi diritti. Questa era la libertà dell’Italia per Alberoni, questa e nulla più. 68


In quest’ottica si capisce perfettamente che il rientro della Spagna in Italia doveva servire solo a restaurare più o meno integralmente la situazione anteriore alla Successione Spagnola. Il raggiungimento dell’obbiettivo fu articolato in mosse distinte. La prima fu l’ottenimento da parte del duca di Parma d’un breve pontificio con cui Roma autorizzava la successione in linea femminile per gli Stati Farnesiani. La seconda fu il matrimonio d’Elisabetta e Filippo, la cui notizia provocò una vera sollevazione della corte imperiale e dei suoi ministri contro il Papa, perché appariva chiaro che, in mancanza d’un erede maschio, Parma e Piacenza, insieme alla sempre più probabile e prossima eredità di tutto il Granducato di Toscana, sarebbero svaniti sotto il naso degli Asburgo per cadere nelle mani d’un Borbone, col quale la Spagna avrebbe rimesso saldamente piede nell’Italia centrosettentrionale. Difficile invece che Alberoni avesse previsto pure il mantenimento dell’indipendenza parmense e il ripristino di quella napoletana grazie all’affidamento delle relative corone ai figli d’Elisabetta Farnese in quanto prevedibilmente esclusi dalla successione a Filippo V; sarebbe attribuirgli doti divinatorie. Che ci abbia pensato e l’abbia pianificato è un conto, un altro che nel 1714 potesse prevedere quanto sarebbe successo di lì a vent’anni e redigere un programma politico di conseguenza. C’erano troppe incognite: Elisabetta sarebbe vissuta abbastanza da avere dei figli? E ne avrebbe avuti? Avrebbe avuto dei maschi? Sarebbero vissuti abbastanza a lungo? Si poteva esser certi che l’ultimo duca Farnese non avrebbe avuto eredi? Ovviamente no. Non si poteva dare una risposta certa a nessuno di questi dubbi. Come vedremo, la nascita di don Carlos, il futuro Carlo VII di Napoli e III di Sicilia, poi Carlo III di Spagna e iniziatore della linea di Borbone-Napoli, e di don Felipe, il futuro Filippo I di Parma, iniziatore della linea di Borbone-Parma, fornirono l’occasione di rivendicare l’eredità farnesiana, ma solo quando questa diventò vacante per la morte senza eredi dell’ultimo duca nel 1729, cioè quindici anni dopo il matrimonio d’Elisabetta e Filippo. No, con tutta la buona volontà, non si può pensare che Alberoni potesse prevedere il futuro; e infatti non lo previde: fece dei programmi, questo si, però ben sapendo che l’uomo propone ma Dio dispone. Per tutti questi motivi non gli si deve attribuire il titolo di precursore del Risorgimento inteso come liberazione dallo straniero e raggiungimento dell’Unità e indipendenza italiana. Alberoni voleva la liberazione, ma, con la sua mentalità di farnesiano e prete del primo Settecento, non poteva concepire l’unità, tranne che, al limite, nella forma d’una federazione dei principi italiani formalmente vassalli del Papa. Ad ogni modo, il matrimonio fu accompagnato da un trattato segreto fra Spagna e Parma in funzione antiaustriaca e il 25 agosto la firma del contratto di nozze previde per Elisabetta una dote di 100.000 doppie. Il duca di Parma aveva tutti questi soldi!? E piangeva miseria per non aumentare lo stipendio d’Alberoni? Comunque: non era un po’ poco per una futura regina di Spagna? La risposta è articolata: era la metà della dote portata diciott’anni prima da Maria Adelaide di Savoia al duca di Borgogna, fratello maggiore di Filippo V, perciò questa d’Elisabetta era piuttosto esigua; Parma effettivamente non aveva molta liquidità e il totale di 100.000 doppie si raggiungeva solo calcolando pure il valore dei gioielli d’Elisabetta: era un trucco notarile rimasto in auge fino almeno alla prima metà del Novecento, ma non era inusuale, perché metà della dote d’Adelaide di Savoia era venuta dalla quietanza a Luigi XIV di 100.000 doppie ancora dovute a Vittorio Amedeo II per la dote di sua moglie Anna d’Orléans. Infine in realtà la dote non era poco: la sua parte più consistente era il Ducato, tutto intero, con tutti i diritti e le pretese connessi, perché “A tant'onore di degnanza un tanto Genero, pensò il Farnese corrispondervi alla men con promesse, unendo alla dote la sostituzion, l'eredità eventuale di questi stati per sopradote.”LXVIII Questo significava creare in prospettiva una situazione dall’apparenza semplice, ma via via più complicata se si entrava nei particolari e che implicava un aspetto non da poco: legava la Spagna a Parma, facendone di fatto la tutrice dei dominii farnesiani. 69


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Capitolo X Una nuova vita di breve durata: 1714-1719 E’ venuto il momento d’una nuova lunga parentesi per alcune spiegazioni. La vita privata d’Alberoni ne sarà l’oggetto. A dire il vero è un argomento abbastanza piatto. Del periodo piacentino d’anteguerra non sappiamo nulla, salvo quanto fu attento – come tutti, del resto – a raggranellare benefici in vista della vecchiaia. Non paiono esserci mai stati scandali né mormorii sul suo conto, perciò si deve concludere che condusse una vita privata se non esemplare, almeno impeccabile. Non abbiamo notizia di cosa fece e come vivesse durante la guerra in Italia, ma è plausibile che avesse poco tempo per sé e passasse la giornata e parte della notte fra gli impegni del quartier generale francese e quelli dell’attività informativa e di collegamento parmense. Più o meno lo stesso dev’essergli capitato nel periodo al seguito di Vendôme in Francia e in Spagna: vitto, alloggio, relativamente pochi soldi, presenza presso Vendôme, corrispondenza continua con Parma, discontinua e di cui non sappiamo nulla quanto alla frequenza, all’entità e ai contenuti, con Versailles. In sostanza nel decennio dal 1701 alla morte di Vendôme, Alberoni non ebbe mai tempo per sé stesso, né ebbe una vita privata. Per l’epoca, e data la sua condizione sociale, era del tutto normale e nella sua corrispondenza non mostra mai alcun segno d’insofferenza o di stanchezza, alcun desiderio di qualcosa di diverso. Si preoccupò molto della famiglia. Collocò in seminario suo nipote, figlio di sua sorella e, una volta cardinale, ne seguì la carriera ecclesiastica, trovandogli una sistemazione a Roma, prendendolo come suo primo conclavista e nominandolo suo erede. Un’altra sorella – come abbiamo visto – fu educata nello stesso convento dell’erede al trono ducale Elisabetta e, nel complesso, lui fece quanto poté per provvedere ai suoi parenti più stretti e garantirsi un futuro sereno e, possibilmente, agiato. Ne sono esempi il tentativo di mantenere l’appartamento in Palazzo Landi pur essendo da tempo via da Piacenza e l’aver lasciato quello nel chiostro del Duomo solo nel 1714, quando ormai era del tutto sistemato a Madrid e nulla faceva prevedere un suo ritorno in Italia. Nel periodo madrileno, specie nel quinquennio del suo massimo potere, le cose in sostanza non cambiarono. Alberoni non fu un mecenate, non ebbe intrighi con donne, non ammassò denaro sfacciatamente e non corruppe nessuno; peggio: non fu nemmeno corrotto da nessuno, allora che ne parliamo a fare? Ecco, è proprio per via di tutto ciò che non fece: per sottolineare quanto altri avrebbero fatto al posto suo ma lui non fece. A che serve? A comprendere meglio sia lui, sia il crollo di tutte le accuse mossegli in seguito, fondate sul nulla, su delle calunnie rivelatesi così apertamente tali da far svanire ogni addebito non appena esaminate in tribunale. A costo d’essere noioso, devo ribadire un punto fondamentale: Alberoni sapeva d’essere un vaso di coccio fra vasi di ferro, sapeva che un nulla poteva perderlo per sempre e che essere perso per sempre non significava solo sparire dalla vita pubblica, ma finire povero e magari in carcere, o sul patibolo. Da giovane aveva subito l’esilio insieme al potentissimo e apparentemente intoccabile Gardini, aveva visto crollare il duca di Vendôme a dispetto di tutta la possanza del rango e delle glorie militari, aveva visto cacciare dalla Spagna il duca d’Orléans cugino del Re, aveva cacciato lui stesso la temutissima principessa Orsini: cosa poteva indurlo a pensare che, a loro modo, tutti quegli esempi non dicessero pure a lui “Hodie mihi, cras tibi” – oggi a me, presto a te? E infatti lo sapeva e ne teneva conto. Gli serviva un riparo. L’unico era il cardinalato. Una volta cardinale, nessuno l’avrebbe più toccato. Poteva finire forse in Castel Sant’Angelo, ma per reati gravissimi e conclamati e solo dopo un giudizio da parte d’un gruppo di suoi pari; e fino a quel momento non era successo si può dire mai. 71


Per arrivare al cardinalato doveva essere proposto e poi sostenuto fino al conferimento della dignità ed all’imposizione del cappello. Gli unici a poterlo fare erano i Reali di Spagna, perciò doveva restare in ottimi termini con loro; per restarci doveva rimanere a Madrid; per rimanere a Madrid doveva far sì che Francesco Farnese ce lo lasciasse; per esserci lasciato doveva contentarlo in tutto e per tutto, o, almeno, in tutto quanto era possibile; e non era facilissimo. L’ideale sarebbe consistito nel non avere nemici, ma era impossibile. Di conseguenza occorreva sminuire e screditare quelli esistenti, ricorrendo a tutti i mezzi, incluse le lettere false, come fu testimoniato durante l’inchiesta preparatoria del suo processo. Occorreva neutralizzare i potenziali nuovi avversari, per piccoli che apparissero, e cercare d’evitare il più possibile di creare dello scontento da cui ne sarebbero nati di nuovi, aumentando invece il consenso, creandosi una platea di amici e sostenitori mediante la somministrazione di favori e benefici. Per riuscirci era necessario pesare attentamente ogni minima parola, ogni azione, valutandone a fondo le possibili conseguenze, perché tutto gli si poteva ritorcere contro. Qualsiasi cosa facesse o dicesse doveva essere in funzione del risultato finale, a corte, fuori della corte e, soprattutto, in casa. Là erano i pericoli maggiori, là dove chiunque tende a rilassarsi, ad abbassare la guardia, a controllarsi meno, o a non controllarsi per nulla, ebbene là Alberoni era più cauto che mai. Le sue vicissitudini seguenti gli diedero ampiamente ragione: parecchi del personale al suo servizio gli avrebbero testimoniato contro, pur se è impossibile capire se per convinzione, malanimo o per obbedire a minacce o pressioni dall’alto, ma nessuno sarebbe mai riuscito a portare prove appena decenti delle colpe attribuitegli. Per tutti questi motivi, rimandando gli aspetti legati alla carriera politica ed ecclesiastica al capitolo dopo, qui ci occuperemo della vita privata di Alberoni, privata pure perché, mi si passi il gioco di parole, era piuttosto privata di tutto, poiché, dall’alba a notte fonda, di tempo per sé in pratica non ne aveva mai. Nonostante questo, i suoi nemici, quando fu il momento, cercarono di colpirlo su due punti: i soldi e le donne, solo che non conclusero niente, perché, come stabiliva il diritto feudale “Là dove non c’è nulla pure il Re perde i suoi diritti” e qui, infatti, non c’era nulla. Era veramente così? Per il denaro no, ma lo vedremo dopo; per la vita privata certamente si. Va ripetuta una cosa, evidente dai fatti, ma mai scritta da nessuno: Alberoni non si fidò mai di chi lo circondava. Aveva degli amici, questo si, ma sapeva chi poteva fare cosa, cosa lui poteva chiedere a chi e cosa non doveva chiedere a chi, o non doveva chiedere in assoluto. A Madrid cominciarono a capire quanto valesse solo dopo il matrimonio fra Filippo ed Elisabetta. Prima non era stato così. L’aveva fatto apposta e lui stesso l’ammise scrivendo al conte Rocca: “il credere poi che io possi dare passi favorevoli nel fare avanzare gente ecc, ben vedo che non siete informato delle idee di qui. Sappiate che il credere il contrario è stato uno di que’mezzi che hanno persuaso a contribuire di porre la nostra Heroina sul trono.”LXIX L’esperienza gli aveva insegnato che in un mondo in cui, per dirla volgarmente, il più pulito ha la rogna, era circondato non da rognosi, ma da lebbrosi e doveva comportarsi così da non consentir loro nemmeno la minima accusa contro di lui. Gli piacesse o meno, ci fosse portato o meno, la sua condotta doveva essere moralmente irreprensibile. Era una questione di vita o di morte. Un minimo allentamento, un istante di rilassamento avrebbe potuto avere conseguenze gravi quanto irreparabili. Prendiamo il caso più evidente: il conte Rocca. Alberoni per tutta la vita in ogni sua lettera non fece altro che chiamarlo suo amico. Rocca – scriveva – aveva tutta la sua fiducia, godeva di tutta la sua confidenza, era degno della massima sincerità….. Tutto falso. Ammesso e non concesso che Alberoni fosse mai stato per un istante preso dall’idea d’essere sincero con lui, sapeva fin troppo bene come ogni sua parola sarebbe finita sotto gli occhi del duca di Parma, rimanendo negli archivi fino al giorno in cui non gli sarebbe potuta essere ritorta contro per rovinarlo per sempre. Perché allora tante professioni di amicizia e sincerità? Per giocare la parte dell’ingenuo; per poter dire un giorno di non aver mai mentito, d’essere stato sempre sincero, per 72


impedire che altri potessero impugnare i suoi atti e la sua corrispondenza accusandolo d’aver mentito. Come avrebbero potuto affermarlo se lui era sempre stato sincero, non nascondendo mai nulla al conte Rocca nel quale riponeva la massima fiducia e del quale godeva l’amicizia? E Rocca, ovviamente, capiva perfettamente il gioco, come lo capiva Francesco Farnese, ma non avevano modo di smentirlo. Non esisteva un appiglio al quale, all’occorrenza, attaccarsi per scaricare Alberoni, per cui – come successe al momento della crisi decisiva – non lo si poteva mettere in cattiva luce in alcun modo sul piano morale per screditarlo o sostenere d’esserne stati ingannati. Non si poteva accusarlo di nulla: non di profittare della sua carica, non d’avere una condotta reprensibile, non d’aver servito altri… niente. Alberoni era d’una cautela assoluta, estrema, qualsiasi cosa facesse o dicesse, a voce o per lettera. Evitava di lanciare accuse a chicchessia pure a chi le avrebbe meritate. Del marchese Scotti faceva le lodi più sperticate, del marchese Mulazzani pure: tutti erano ottimi, tutti erano perfetti, insostituibili; ma sapeva quanto volentieri avrebbero preso il suo posto a costo di qualunque bassezza. Mulazzani scrisse contro di lui già nel febbraio del 1715, accusandolo di non avergli ottenuto da Filippo V le gratifiche e il gioiello che si aspettava per aver accompagnato la Regina in Spagna. Scotti, il quale a suo tempo era stato uno dei pochissimi accompagnatori d’Elisabetta nello stesso viaggio, brigava già per prendere il posto d’inviato di Parma a Madrid e arrivò a parlare tanto male di lui a Parigi che Alberoni dovette darne avviso a Rocca fin dal giugno del 1716, dicendo d’aver saputo da “un Personaggio d’alta sfera” di Roma: “che il marchese Annibale Scotti inviato di S.A.S. di Parma in Parigi teneva discorsi tali da far credere fosse poco amico mio, e sa il signor marchese che io non gli ho mai parlato, quando havrei potuto mostrarli la lettera.”LXX Non solo non gliel’aveva mostrata, ma una settimana dopo supplicava Rocca di dargli da parte sua “un cordialissimo e devotissimo abbraccio.” Al contempo si trovava a fronteggiare una quantità di richieste da parte di tutta la nobiltà piacentina e parmense. Fin dal principio la pressione fu tale da costringerlo a scrivere a Rocca d’adoperarsi per farla cessare, o almeno ridurre. Nei primissimi tempi dopo il matrimonio Elisabetta era stata raggiunta da un profluvio di lettere, ma – avvertiva Alberoni – oltre al fatto che, su quaranta giunte con un solo corriere, la metà erano di gente del tutto sconosciuta alla Regina, in Spagna nemmeno i Grandi di prima classe37 osavano rivolgersi direttamente ai sovrani e, se volevano domandare qualcosa, presentavano un memoriale a chi di dovere. Questo suo avviso – a quanto si può dedurre dalla corrispondenza con Rocca – ridusse il flusso, ma lo deviò tutto su di lui, rendendolo responsabile dell’esito, con risultati comunque non positivi: la grazia era accordata? Non gli si doveva nulla. La grazia non arrivava o non era soddisfatta nei termini desiderati? Era colpa sua e ci se ne sarebbe lamentati col Duca. I casi di Mulazzani e Scotti furono esemplari ed emergono nella corrispondenza con Rocca da un mare di 37

Nella Spagna medievale erano definiti “Grandi” i capi delle più potenti famiglie fondate da principi di sangue reale. Il Grandato – “la Grandeza” – fu regolato dall’imperatore Carlo V, re di Spagna col nome di Carlo I, il quale nel 1520 stabilì una differenza fra i semplici “titolati”, cioè i normali nobili, e i “Grandi”, a cui il sovrano concedeva una grazia che si accompagnava al titolo nobiliare. I Grandi godevano del già esistente trattamento di “cugini”, i titolati solo di quello di “parente”, il Grandato, dignità ereditaria, dava il diritto di cobertura, cioè quello di rimanere a capo coperto in presenza del re e, fra le altre, le prerogative di potersi sedere in sua presenza e di non poter essere arrestati se non dietro suo espresso ordine. Va notato qui di sfuggita che, stando ad Alberoni, dal 1713 Filippo V lo chiamava “Parente” nelle lettere indirizzategli, benché tale titolo non sembri essergli stato mai attribuito in pubblico, nè risulta essergli mai stata concessa alcuna patente spagnola di nobiltà grande o piccola, salvo quella connessa ai suoi titoli ecclesiastici. Secondo quanto stabilito nel 1520, furono riconosciuti “Grandi” i possessori dei venticinque principali e più antichi titoli nobiliari dell'epoca, fra i quali non si faceva alcuna differenza di rango. Loro e quanti si videro poi conferire il Grandato da Filippo II, vennero indicati come Grandi di Prima Classe. Nel corso del XVII secolo il Grandato fu riconosciuto ad altri nobili e ai primi del Settecento Filippo V lo concesse ad alcuni Pari di Francia. 73


nomi per i quali Alberoni riferisce d’aver chiesto, a volte aggiungendo cosa ha chiesto e, quando può, annunciando il risultato positivo, o pregando di pazientare poiché per certe cose occorrono tempo e occasioni propizie, o, infine, spiegando perché il risultato non potesse essere pari alle attese, del resto in certi casi nemmeno dette in precedenza. E tutto questo sempre colla massima gentilezza, asserendo la gioia d’essere stato utile a persone di cotanto valore, le quali – diceva – non facevano altro che meritare ciò di cui le loro qualità le rendevano degne. Chiaramente questo continuo stare in guardia aveva un prezzo. Soggiaceva ad una tensione nervosa tremenda e si sfogava in due modi: urlava e ingrassava. L’Alberoni del periodo spagnolo era assai diverso da quello del ritratto ufficiale in veste cardinalizia opera del Mulinaretto, che tutto sommato è una versione solenne e invecchiata della miniatura fattagli da trentenne. L’Alberoni spagnolo era un bassetto corpulento, con un faccione marcato da due baffi scuri a manubrio, alla spagnola, e da un pizzetto, vestito sempre in abito corto38 nero, con una papalina nera al sommo del capo e dal carattere iracondo, come venne poi riferito al Papa: “Ogni giorno si lasciava trasportare dalla collera, prorompendo in terribili accessi d’ira e non perdonando a chiunque si fosse, o ecclesiastico o costituito in dignità, principe o signore, insultando tutti generalmente. In queste collere che erano in lui frequenti, giurava il santo nome di Dio, con sommo scandalo e mal’esempio di quelli che lo sentivano.”LXXI Dati gli stupidi, gli incapaci, gli sfaticati e i profittatori in malafede con cui aveva regolarmente a che fare, non c’è da stupirsi che s’infuriasse ogni giorno, anzi: se gli capitava solo una volta era sicuramente già una buona giornata. Però va detto che con gente del genere la cortesia è sprecata e gli urli – bestemmie a parte – funzionano a meraviglia; e chiunque abbia un po’ d’esperienza in materia sarà d’accordo. A questo si sommava un altro aspetto: “Ha scandalizzato molti, nelle sue conversazioni, con parole oscene e da trivio che proferiva.”LXXII Qui occorre spiegare una cosa, non tanto ovvia e legata alle origini non sociali ma regionali d’Alberoni. Nell’Italia e specialmente nell’Emilia del tempo, l’uso di parole forti, molto forti, era normale nelle classi basse come in quelle più alte, fra gli uomini come fra le donne. Il conte Prospero Lambertini, cardinale arcivescovo di Bologna, di qualche anno più giovane d’Alberoni e divenuto papa Benedetto XIV nell’ultimo conclave a cui parteciparono entrambi, era talmente noto per le sue interiezioni colorite che, stando ai suoi biografi, aveva incaricato il suo segretario di riprenderlo ogni volta che ci cascava, salvo ordinargli di stare zitto quando – di solito non oltre la terza volta – non ne poteva più e attaccava a sfogarsi. Parliamo d’un conte e senatore di Bologna e il suo eloquio, bestemmie a parte, era lo stesso del figlio dell’ortolano piacentino. A chi conosceva l’Emilia e la Romagna non veniva certo da stupirsi; agli altri forse si e comunque, se erano amici suoi ci passavano sopra; se nemici, aspettavano di poterne approfittare per metterlo in cattiva luce, come in questo caso; infatti i nemici d’Alberoni iniziarono a farsi avanti molto presto. Non appena parve aver sbrigato il grosso del lavoro, rimettendo la Spagna in condizioni abbastanza buone da essere lucrativa, gli avvoltoi cominciarono a planare. A settembre del 1716 ebbe un primo 38

L’abito corto era un normale abito civile nero, senza ornamenti o ricami, perciò costituito da panciotto, veste, pantaloni fermati sotto al ginocchio e calze e scarpe nere, camicia pure nera e collarino con due bande rettangolari rovesciate in avanti, di solito nere bordate di bianco, o, più raramente, bianche. Alberoni, in quanto cardinale, portava le calze e la papalina rosse e poteva indossare la croce pettorale d‘oro cardinalizia. L’abito corto restò in uso con questa foggia fino agli ultimissimi anni dell’Ottocento. Mentre con la talare, la veste lunga, abbottonata fino ai piedi, si portava la classica berretta sormontata dal fiocco a pon pon entrata in uso nel Cinquecento, o, più raramente, il cappello tondo a falda circolare piatta, l’abito corto prevedeva un cappello civile senza bordature né ornamenti, perciò nel Settecento un tricorno, che i vescovi e i cardinali alla base della cupola ornavano d’una cordoncino cremisi o porpora, con una nappa dello stesso colore pendente dall’estremità posteriore destra. 74


segnale di pericolo: Rocca gli suggerì le dimissioni. Il pretesto veniva dalle reiterate lamentele dell’Abate a proposito della fatica, delle spese, del nessun vantaggio che ne aveva. Alberoni capì d’aver tirato troppo la corda e si salvò quasi elegantemente, dicendo che il ritirarsi non gli sarebbe costato: “né pena, né pentimento, se non quel dolore di vedermi forsi post discessionem meam intrare lupi rapaci, ben prevedendo, amico mio stimatissimo, che ogni avantaggio che io possi ricevere non servirà che a fabbricarmi maggiori e più pesanti le catene. In fine questo inutile discorso non serve che per rispondere a’ vostri savi e affettuosi consigli, i quali, quantunque buonissimi, se haveste maggior cognizione di quello che havete delle cose di qui e foste sul luogo, direste che non sono adatti al caso, e vedreste che non si può sminuire il peso soprabbondante.”LXXIII E’, questa, una lettera d’un’ipocrisia somma. Nessuno nega che Alberoni cercasse in buona fede di fare del suo meglio, ma che restasse al suo posto per puro spirito di servizio e vedesse come forieri di ulteriori aggravi tutti i suoi possibili futuri vantaggi è veramente troppo da mandar giù ed assai dubbio che Rocca ci abbia creduto, tanto più che sapeva benissimo come stavano le cose riguardo al cardinalato di cui già si parlava. Ad ogni modo Alberoni sapeva con chi trattava, faceva finta di nulla, conscio d’essere il solito vaso di coccio plebeo fra quelli di ferro aristocratici e rispondeva affettando sempre umiltà e ingenuità. Ovviamente ben pochi gli erano veramente grati, ma lui sapeva chi erano e al momento opportuno seppe valersene, certo che non ne sarebbe stato tradito; e infatti non si sbagliò. Passiamo alla vita privata, cioè al nulla quasi assoluto. La prima casa madrilena d’Alberoni apparteneva ai Padri Mercedari e lui vi stava in affitto. Era relativamente piccola, senza una cappella privata. A sua detta era decorosa e niente più. Vi rimase tre anni, poi il Re gli diede l’uso gratuito d’una residenza assai vicina al Palazzo Reale e su vari piani. Lui abitava nell’appartamento al pianterreno, esteso attorno a un giardino e che includeva un piccolo oratorio. Ai piani superiori c’erano gli alloggi del personale – a quanto si capisce una camera a testa – e il guardaroba. La “famiglia”, cioè l’insieme delle persone di servizio, era numerosa, pur se per i canoni d’un ministro dell’epoca era scarsa. Si trattava d’una quindicina di persone, in maggioranza italiani. Di don Carlo Rosellini ho già parlato e aggiungerò qualcosa poi. Dopo di lui, in ordine di rilevanza veniva Camilla Bergamaschi. Piacentina, cinquantenne, “donna di governo”, cioè governante d’Alberoni a Piacenza dal 1697, separatasi dal marito – un muratore scioperato che le aveva consumato la dote prima di sparire e poi mettersi a servizio di qualche nobile piacentino – aveva abitato con Alberoni fin da allora col figlio, ancora piccolo.39 Rimasta a Piacenza nell’appartamento di Palazzo Landi per sette anni dopo la partenza dell’abate per la Francia, era stata da lui chiamata a Madrid nel 1713 e ci era andata col figlio, accompagnando don Carlo Rosellini che ci tornava. Camilla si occupava degli abiti, dell’argenteria e della biancheria del Cardinale e riceveva solo vitto, alloggio e vestiario; era l’unica donna di casa, oltre alla servetta.40 Suo figlio, don Giuseppe Bergamaschi, aveva fatto da aiutante di camera d’Alberoni ricevendo vitto, alloggio e vestiario, finché l’uno non divenne cardinale e l’altro sacerdote. Da allora, oltre a 39

In quanto governante, sovrintendeva all’andamento della casa, ma non eseguiva i lavori domestici, per i quali tanto a Piacenza quanto a Madrid c’era una donna di fatica, di solito una ragazza. 40 In tutto il periodo madrileno ce ne furono solo due: la prima, di nome Giovanna Gravier, figlia d’un maniscalco, aveva circa 14 anni, era analfabeta e fuggì per sposare un ortolano dopo circa un anno e mezzo di servizio. Alberoni allora andò al Collegio di Santa Elisabetta insieme al Patriarca delle Indie e scelse una ragazzina, di nome Marina Eler – Marijna di Martino d’Eler – detta Mariquita, di circa quindici anni, per sostituire in tutto e per tutto la fuggita e ormai sposa Giovanna. L’una e l’altra in casa sua abitavano in una stanzetta il cui unico accesso era attraverso la stanza di Camilla Bergamaschi. 75


celebrare la messa che sentiva Alberoni o a servirla all’altro prete che la celebrava, ebbe due paoli al giorno, passò ad indossare gli abiti ecclesiastici smessi dal cardinale – sempre rigorosamente quelli corti – e lo seguiva o restava in casa secondo quanto gli veniva ordinato. Oltre a questi tre personaggi c’erano un segretario, Paolo Laveli, un milanese che aveva un suo alloggio nel palazzo e viveva collo stipendio “d’una piazza di capitano d’artiglieria”;41 un mastro di casa, un borgognone di nome Genest; un coppiere, spagnolo, di nome Andrea Marrazo; due camerieri, uno piemontese e l’altro romano; due lacché, uno italiano e l’altro fiammingo;42 un cuoco francese e finalmente un piccolo moro, tipico delle grandi case dell’epoca, un cocchiere e il personale di scuderia. Come per la Bergamaschi, ognuno aveva vitto, alloggio e vestiario, cui Alberoni aggiungeva una mezza doppia di gratifica per Natale. Alcuni di loro – Laveli, Marrazo e Marina Eler – rimasero a Madrid quando lui se ne andò. Altri furono congedati per strada, come accadde a Camilla e al figlio, dai quali il Cardinale si sarebbe separato a Savona, dando loro il necessario per le spese di viaggio fino a Piacenza, dove li avrebbe fatti alloggiare presso il canonico Francesco Faroldi,43 in attesa che si rendesse libera una casa di sua proprietà. Come ho detto, il Cardinale non si fidava del suo personale. Sapeva perfettamente che ognuno di loro poteva divenire o essere già una spia d’un suo nemico attivo o potenziale; e infatti un paio di loro furono testimoni a suo carico nel corso dell’inchiesta seguita alla sua partenza dalla Spagna, mentre sia Camilla sia don Giuseppe Bergamaschi sarebbero stati interrogati dal tribunale diocesano di Piacenza, però nessuno depose mai nulla di rilevante contro di lui. Non fidandosene, il miglior sistema per neutralizzarli consisteva nel comportarsi in maniera irreprensibile e, in caso, nello screditarli in partenza, a freddo, in tempi non sospetti, per poter poi dire che a gente del genere non si poteva dare credito. Carlo Rosellini fu messo in cattiva luce fin dall’estate del 1714, scrivendo a Rocca che era uno spendaccione imprevidente, il quale in anni ed anni di salario e gratifiche in ambasciata non aveva messo da parte nulla e di tanto in tanto chiedeva piccole somme alla “famiglia”, cioè al personale di servizio in casa. Era sensibile alle donne, senza però arrivare ad intaccare i voti ecclesiastici, nondimeno: “Haveva un’amicizia con una convertita in un convento vicino di casa, la quale continuamente lo smungeva; ha havuto intimazione di non accostarsi più al detto convento; però se non vi sarà questa sanguisuga, ve ne sarà qualche altra.”LXXIV A questa lettera ne seguirono alcune altre nell’inverno 1715-1716 in cui Alberoni l’accusava blandamente di capire tutto a rovescio e d’informare Parma di conseguenza. Rosellini – a quanto si deduce – aveva fatto fronte comune coi nemici parmensi d’Alberoni e cercava di screditarlo a più non posso nella propria corrispondenza tanto privata, di cui Rocca veniva a conoscenza, quanto di servizio, diretta a Rocca stesso e senza passare per Alberoni. Un bel po’ di fastidi glieli diede Laura Pescatori, giunta a Madrid il 10 settembre del 1715. Era stata la balia d’Elisabetta Farnese, che l’aveva chiamata ad assisterla nella fase finale della gravidanza e nell’allevamento dei figli. Ben presto si sarebbe rivelata una nemica pestilenziale del Cardinale. Avendola inizialmente ospitata in casa propria, Alberoni lo capì, ma attese l’occasione buona prima di cominciare a screditarla, per di più su un argomento a cui il Serenissimo Padrone era assai sensibile: i soldi. 41

Aveva cioè uno stipendio pagato dall’erario per un posto da capitano d’artiglieria lasciato vacante. I lacché seguivano il padrone fuori dal palazzo. Sulla carrozza stavano in piedi o seduti all’esterno sul retro. I camerieri servivano nel palazzo. Gli uni e gli altri vestivano una livrea coi colori dello stemma del padrone. 43 Il canonico don Francesco Faroldi era il fratello del marito di Giustina Alberoni, sorella del Cardinale. 76 42


Scrivendo così da far apparire quanta cura prendesse delle spese ducali – il che poi era vero – avvertiva Rocca nell’agosto del ’16: “Il signor marchese Annibale Scotti mi scrive che cotesto birbante del marito della nutrice dimanda maggior treno ed equipaggio per il viaggio di quello ebbe la Regina. Sappiate che costoro costeranno alla Regina più di mille e duecento doppie del suo miserabile borsillo, oltre a quello che hanno ricavato dal Re. Arpia più avara non ho conosciuto. In fine il denaro che gli somministrerete vi sarà rimborsato.”LXXV Se la spesa gravava sulla borsa delle Regina e se il denaro speso da Parma sarebbe stato rimborsato al Duca, perché occuparsene? Perché prendersi il disturbo d‘avvertire Rocca? Che importanza poteva avere farlo? Al di là dell’indignazione per un simile sfruttamento e al di là dello zelo nel servizio c’erano due motivi: da un lato per mettersi al sicuro nei confronti di future possibili accuse di negligenza, dall’altro perché un domani avrebbe potuto controbattere qualsiasi accusa da parte della Pescatori come dettata da malanimo per non averne avallato le pretese in denaro e tutto colla testimonianza a suo favore d’un nemico come Scotti. Nelle lettere successive non mancò mai di battere sempre sul tasto dell’avidità di Laura Pescatori: era un argomento a cui sapeva che il duca Francesco avrebbe fatto molta attenzione. Non era una vita divertente la sua e non era nemmeno riposante. La giornata era d’una monotonia totale: sveglia, messa44 – per la quale, secondo le regole d’allora, doveva essere digiuno dalla mezzanotte – e poi lavoro, lavoro e lavoro. Le uniche interruzioni erano quelle per leggere ogni giorno il breviario e, di tanto in tanto, per confessarsi. Questo contrasta con quanto i detrattori d’Alberoni sostennero quando l’accusarono di non averlo mai visto celebrare messa, comunicarsi e confessarsi, perciò, trattandosi d’un ecclesiastico, occorre spendere qualche parole di chiarimento. Nella Spagna dell’epoca tutti dovevano adempiere al precetto Pasquale, confessandosi e comunicandosi – come di prassi – almeno a Pasqua e ricevendo l’apposito biglietto di conferma dal confessore. Chi non ottemperava, laico o religioso che fosse, vedeva il suo nome scritto nella lista pubblicamente affissa sul portone della sua chiesa parrocchiale, con brutte conseguenze. Ora, al di là del fatto che Alberoni fu sempre molto scrupoloso nell’adempimento dei suoi doveri sacerdotali, questo non consta essergli mai capitato. Non solo un fatto del genere sarebbe bastato a perderlo irrimediabilmente agli occhi di Filippo V e di tutta la corte, ma, se anche ci fossero passati sopra a suo tempo – e non l’avrebbero fatto – si può star sicuri che, al momento d’accusarlo dopo la caduta, non avrebbero mancato di parlarne con ampiezza di particolari, invece si limitarono a un’accusa generica, benché pericolosa nei confronti d’un sacerdote. Il Cardinale la smontò nel manifesto del maggio 1720, indicando i nomi di parecchi preti e frati in grado di testimoniare a suo vantaggio, fra i quali in particolare don Juan de la Madre de Dios, dell’Ordine dei Mercedari, sacrestano della chiesa di Santa Barbara in Madrid, “nella qual Chiesa prima ch’io fossi Cardinale, hò più volte adempito, per di lui mezzo, alle parti di vero Religioso Cattolico, e, per le di lui mani, essendo Cardinale, hò più volte nella mia Cappella ricevuto la Santa Comunione.”LXXVI Questo fu confermato nella deposizione rilasciata da Camilla Bergamaschi al tribunale ecclesiastico di Piacenza nel 1720. Pur essendo presumibilmente all’oscuro di quanto aveva pubblicato Alberoni 44 Camilla Bergamaschi depose che il Cardinale aveva a malapena il tempo di sentire la messa la mattina presto prima d’andare al Palazzo Reale; cfr Deposizione di Camilla Bergamaschi al Tribunale diocesano di Piacenza il 15 maggio 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 103. 77


per difendersi pochi giorni prima a Genova, ella, dopo aver detto che a suo tempo a Piacenza andava sempre a sentire la messa celebrata da lui quando era prebendario della Cattedrale, asserì: “Nel tempo che è dimorato in Spagna, Sua Eminenza non ha mai celebrato messa, è ben vero che la sentiva ogni giorno e ve la celebrava o don Carlo Rosellino, o mio figlio, o altro cappellano; e lo so perché s’era presente in quel tempo tutta la famiglia, e sentivo poi qualch’altra messa in casa, mentre se ne dicevano ogni giorno tre o quattro, et io poi ordinariamente sentivo una di queste altre, doppo quella che sentiva il signor Cardinale, atteso che la sentiva a buonissima hora. Alle feste principali dell’anno, come al Natale, alla Pasqua, alla Madonna d’ottobre,45 alla festa di tutti i Santi, veniva un tal Padre Giovani, Sagristano maggiore della chiesa di S. Barbara e confessava Sua Eminenza,e poi diceva la messa nell’oratorio, ed indi comunicava esso signor Cardinale.”LXXVII Per noi resta però un punto da sviscerare: nel suo manifesto Alberoni evitò di parlare della mancata celebrazione della Messa da parte sua, come mai? Il motivo è semplice e nasce da un errato pregiudizio diffuso fra i laici. A dispetto di quanto si pensa, un sacerdote non è obbligato a dire la messa quotidianamente, anzi: mentre gli occorre il permesso del suo vescovo per celebrarne più d’una al giorno, non ha, per converso, alcuna quantità minima di messe da celebrare obbligatoriamente nel corso dell’anno. Può concelebrare, può assistere alla messa e in questo caso può ricevere la comunione – come Alberoni disse d’aver avuto – però, ripeto, pur se può sembrare un po’ insolito, non è obbligato a celebrarla né quotidianamente né in assoluto,46 per cui non è strano né che il Cardinale abbia scritto: “hò più volte nella mia Cappella ricevuto la Santa Comunione”, perché quello è un precetto da rispettare, né che i giudici incaricati del processo contro di lui non abbiano toccato l’argomento. Torniamo alla giornata lavorativa d’Alberoni. I suoi incarichi lo costringevano a passarla a disposizione dei Reali. Stava “ai piedi della Regina” all’inizio anche cinque ore filate ogni mattina, poi di più. Andava a caccia con lei qualsiasi tempo facesse, dopo ogni tiro le passava il nuovo fucile carico e continuava così fino alla fine della partita. Fu un sollievo esserne esentato in seguito alla nomina a cardinale nel 1717. Dopo la cena, a cui assisteva regolarmente fin dai primissimi giorni del matrimonio, restava altre tre o quattro ore e poi poteva ritirarsi, mangiar qualcosa – nei primi tempi d’Elisabetta a Madrid era l’unico pasto che faceva nelle 24 ore – e andare a dormire.LXXVIII Fosse a palazzo, dove aveva un appartamento, a colloquio coi ministri, o al seguito dei Reali al Pardo dove era fra i pochissimi ad avere un alloggio, di quattro piccole camere, o in missione fuori Madrid, la sua vita era quella del servitore, sempre presente, sempre disponibile, sempre di buon umore, né poteva essere altrimenti: spiacere al Re o alla Regina poteva significare la fine. Non aveva amici? Si e no, dipende da cosa s’intende con questa parola. Frequentava molta gente, invitandola a pranzo o a cena a casa sua, dove ad esempio veniva spesso il Patriarca delle Indie, il cardinale Carlos de Borja Centellas y Ponce de León, cappellano di corte ed elemosiniere del Re. 45

Dato il Secolo, dovrebbe essere la Festa della Madonna del Rosario, il 7 ottobre, a meno che, trattandosi della Spagna, non fosse quella della Madonna del Pilàr. 46 ll Codice di Diritto canonico, Libro II, Parte I, Titolo III “I Ministri Sacri o Chierici” nei Canoni da 273 a 289 elenca gli obblighi dei sacerdoti e diaconi, fra i quali la recitazione delle Ore, che è la preghiera ufficiale della Chiesa ed è partecipazione sacramentale alla preghiera personale di Gesù, ma non parla di quella della Messa. Il Canone 904 del medesimo Codice, Libro IV, Parte I, Titolo III raccomanda di celebrarla ogni giorno, ma non obbliga a farlo e infatti dice: “Sempre memori che nel mistero del Sacrificio eucaristico viene esercitata ininterrottamente l’opera della redenzione, i sacerdoti celebrino frequentemente; anzi se ne raccomanda vivamente la celebrazione quotidiana, la quale, anche quando non si possa avere la presenza dei fedeli, è un atto di Cristo e della Chiesa, nella cui celebrazione i sacerdoti adempiono il loro principale compito”; cfr. Codice di Diritto canonico, Libro IV “La funzione di santificare la Chiesa”, Parte I “I Sacramenti”, Titolo III “La Santissima Eucaristia,” in Codice di Diritto canonico, liberamente consultabile su https://www.vatican.va/archive/cod-iuris-canonici/cic_index_it.html 78


Era in ottimi rapporti col padre Daubenton, confessore di Filippo V, così come con molti altri ecclesiastici e laici, però, se per amici intendiamo parlare di persone con cui confidarsi fino in fondo, direi di no, sarebbe stato troppo pericoloso. Se invece ci limitiamo a gente a lui congeniale, capace di gratitudine e tutto sommato disinteressata, sicuramente si, tanto in Spagna che altrove e lo si sarebbe visto nel lungo periodo delle sue difficoltà, nei quattro anni dalla fine del 1719 a quella del 1723. Coll’esperienza di uomini e cose maturata in tanti anni, probabilmente era capace di valutare le persone al volo, prendendone i lati buoni e tenendo conto di quelli cattivi. Nei rapporti cogli altri sapeva di dover essere il propagandista di se stesso – motivo per cui, come abbiamo visto, non mancava mai di raccontare nelle sue lettere chi conoscesse, di chi fosse amico, a chi fosse ben accetto – e sapeva che solo così sarebbe apparso importante. Era conscio del fatto che apparire importante implicava sentirsi chiedere dei favori i quali non necessariamente sarebbero stati ricambiati e, anzi, nella maggior parte sarebbero stati presto dimenticati. Sapeva infine che per ottenere dei favori doveva ricambiare con altri favori, il che implicava un infinito bilanciamento, domandando a questo quanto gli premeva far ottenere a quello, al quale avrebbe poi chiesto di far qualcosa per un terzo, i cui parenti, forse, gli sarebbero stati utili per un quarto, dal quale un domani avrebbe potuto ottenere un favore per chi glielo stava facendo adesso. Era dura, era la sua vita, è difficile dire se valesse la pena di viverla così, ma lui lo credeva e tanto basta.

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Capitolo XI La riorganizzazione di uno Stato Divenuto la figura più importante della corte di Spagna, Alberoni mise mano alla riorganizzazione dello Stato. Nelle sue intenzioni, come abbiamo detto, la Spagna andava potenziata per consentirle di riaccendere la guerra in Italia, levando territori agli Austriaci per darli ai principi cadetti di Borbone nati dal matrimonio di Filippo ed Elisabetta. Qui occorre chiarire un altro punto. Per trecent’anni Alberoni è stato ritenuto e spesso apertamente definito come il primo ministro di Filippo V. Questo è sbagliato. Non fu mai nominato ministro e non ebbe mai l’incarico formale d’un dicastero; mai. E allora cos’era? E’ facile rispondere in poche parole, più difficile spiegarlo. Alberoni era l’uomo di fiducia dei sovrani, prima e innanzitutto della Regina, poi del Re. Ufficialmente non era nulla, in realtà era tutto. Rousset de Misy scrisse: “sotto il nome di Agente del Duca di Parma, divenne egli il consigliere segreto della Regina, che a poco, a poco, indusse il Rè a servirsene anch’esso nel Gabinetto.”LXXIX Questo è un bell’esempio di disinformazione teso a confermare la leggenda d’Alberoni arrivista, motore di ogni macchinazione, per cui si lascia intuire che lui si insinuò nell’animo dell’incauta Elisabetta e la indusse a convincere Filippo ad ammetterlo fra i ministri. In realtà, come abbiamo visto dallo svolgersi della sua vita in Spagna, era già abbondantemente nelle grazie di Filippo V assai prima del matrimonio con Elisabetta Farnese. Dopo, semmai, la sua posizione divenne sempre più forte, ma non ebbe mai alcuna carica stabilita e proprio per questo era importantissimo. La sua parola era quella del Re. Vanno spese due parole su Filippo V. Gli storiografi del suo secolo e del seguente lo dipinsero come un depresso tanto incapace d’iniziativa da sembrare abulico, quasi pazzo e divenire il burattino di sua moglie e dell’intrigante Alberoni. Era davvero così? No; era depresso, questo si; passava da periodi di grande eccitazione a giorni, mesi di depressione, silenzio e isolamento, ma era estremamente intelligente, aveva le idee chiare su chi era e cosa voleva e sapeva come pretenderlo. Allora perché ritrarlo come un fantoccio nelle mani dei due perfidi italiani, l’intrigante Alberoni e la strega Elisabetta? La risposta è semplice: per scagionarlo. Valendosi del trito e ritrito luogo comune degli Italiani machiavellici, arrivisti, sleali, falsi, truffatori e intriganti, la propaganda di allora, abbastanza grossolana ma priva di contraddittorio e dunque efficace, incolpando Alberoni mirava a giustificare Filippo: se era malato, non era responsabile di quanto era stato fatto in suo nome e in sua assenza, perciò usciva libero da ogni accusa. Questo atteggiamento lo vedremo soprattutto al momento della crisi del 1719, poi di nuovo nella lunga storia del processo ad Alberoni; ma era vero? Le cose stavano davvero così? Davvero Filippo era così manovrato dai due machiavellici e malvagi italiani: sua moglie e il cardinale? No, per niente: era lui a fare tutto. La ponderosa biografia di Filippo V scritta dal cardinal Baudrillart, già alla fine dell’800, per quanto intrisa d’un forte patriottismo francese, non poté fare a meno d’ammettere la verità, anche se in maniera molto indiretta: nei trent’anni dopo la fine della Guerra di Successione, il vero motore della politica spagnola fu solamente Filippo V. Certo, all’inizio, quando era salito al trono poco più che adolescente, era stato sotto il controllo del suo potentissimo nonno. Qualunque cosa dicesse o facesse, era stata prima approvata a Versailles. Le reprimende di Luigi XIV a suo nipote erano state dure, altrettanto la scuola a cui l’aveva formato ma alla fine della guerra Filippo si era già reso conto delle proprie capacità: sapeva di poter regnare da solo e, quando il nonno morì, lo fece. La storiografia iniziò a rivalutare Filippo V assai tardi, in pratica non prima dell’ultimo quarto del XX secolo e in maniera tanto sommessa da passare quasi del tutto inosservata. Resta però il fatto 81


che, ad esaminare bene la vita sua e quella di Alberoni alla luce degli avvenimenti che man mano si verificavano, appare chiaro che a decidere era il Re, non la Regina e non l’Abate. Elisabetta era stata ammessa al consiglio insieme ai ministri. Poteva dare un parere, poteva cercare d’influire sul marito e magari riuscirci, poteva chiedere una grazia o un favore, ma era Filippo a decidere e non con un semplice si o no a quanto gli sottoponevano altri, ma dicendo chiaramente cosa voleva e come e quando lo voleva: dettava la politica spagnola all’interno e all’estero. Lui era il Re, assoluto, e gli altri dovevano ubbidire. Li ascoltava, certo, ma potevano parlare, come era abitudine dell’epoca, solo quando ne avessero avuto licenza da lui; e se non voleva ascoltarli, non dovevano nemmeno aprir bocca, perché al Re si rispondeva soltanto; e solo se chiedeva lui per primo. Non gli si poteva rivolgere alcuna domanda e nemmeno la parola finché non si era interrogati, ma esclusivamente attenderne gli ordini. Poiché il Re era al vertice e sceglieva e decideva, era ovvio che ai suoi sottoposti toccava solo realizzare le sue idee e curarne i particolari. Alberoni era il collegamento fra la volontà di Filippo e la sua attuazione da parte di ministri e funzionari e aveva successo, perché la pratica degli affari non gli mancava. Un tirocinio di dieci anni in pace e in guerra, in Italia, Francia, Fiandra e Spagna, a Versailles e a Madrid, gli aveva insegnato tutto ciò che poteva servirgli. Devo sottolineare un aspetto di metodo. La complessità dell’operato d’Alberoni negli anni fra il 1714 e il 1719 fu tale da impedire di seguirne l’evoluzione in senso cronologico. Si può fare, beninteso, ma diventa difficile per chi scrive e impossibile da seguire per chi legge. Ogni giorno l’Abate doveva tener dietro ai Reali e agli affari di Stato, sia interni sia esteri. Finché agì solo in rapporto agli affari interni e coloniali della Spagna, cioè fino al 1717, le cose andarono in maniera complessa però ancora possibile da seguire, a dispetto di tutte le opposizioni attive e passive e di tutte le macchinazioni contro di lui e delle contromisure da lui attuate. Quando poi iniziò la crisi sfociata nell’occupazione di Sardegna e Sicilia, il numero di attori politici da considerare aumentò a dismisura, rendendo un resoconto in ordine strettamente cronologico difficilissimo e tanto dispersivo da impedire a qualsiasi lettore di potervisi orientare. Parliamo d’un periodo, quello dalla primavera del 1717 al dicembre del 1719, in cui Alberoni ogni giorno doveva tener conto delle informazioni ricevute dall’estero sulle decisioni e le iniziative di Francia, Inghilterra, Olanda, Impero e Sublime Porta, Svezia, Russia, Venezia e Sicilia, Santa Sede e Parma, senza dimenticare che nella vicina Francia i movimenti andavano seguiti guardando al Reggente e ai coinvolti in quella poi nota come la Congiura di Cellamare, mentre a Roma, oltre al Vaticano, occorreva seguire l’esiliata corte inglese degli Stuart. Stiamo parlando d’una dozzina abbondante di centri decisionali attivi nello stesso momento. Le informazioni su di essi giungevano ad Alberoni con ritardi variabili da sette a trenta giorni rispetto a quando erano avvenuti i fatti, per cui andavano valutate con attenzione e molti dubbi. Per di più in quel periodo nessuna Potenza riusciva ad avere una linea tanto decisa da risultare prevalente e capace d’indurre le altre ad adeguarsi, come era successo durante le due guerre precedenti. Ogni capitale faceva per sé, con iniziative slegate e scoordinate pure rispetto ai suoi alleati formali e sempre cercando di regolarsi su quanto stavano facendo gli altri, per cui la complessità e la farraginosità della politica estera di quel triennio raggiunsero vette forse mai toccate in seguito. Quotidianamente Alberoni doveva tener conto d’una quantità di variabili quasi infinita, molte delle quali erano state valide il giorno in cui era partita la notizia a lui destinata, ma non lo erano già più quando l’aveva ricevuta. Quanto alla politica interna il discorso era meno difficile da seguire, perché meno complesso fin quando si restava a livello prettamente interno, ma si complicava per via dell’inframmettenza dei Francesi e della Santa Sede, i primi in ambito politico, la seconda nella gestione del clero e delle sue rendite, la cui disponibilità poteva pesare molto nella conduzione della politica interna e sulle decisioni del Re. In politica a questo punto si potrebbe dire: oltre all’attività interna ed estera tertium non datur, ma in una biografia datur, eccome datur, perché il tertium è l’oggetto della biografia colto nell’insieme dei suoi rapporti personali e privati con una 82


costellazione di persone tanto varia e numerosa da non poter essere seguita altro che nella testa del protagonista della biografia. Per tutti questi motivi, da qui in poi ho preferito evitare di procedere giorno per giorno e ho organizzato la stesura per argomenti. Ci saranno dei salti avanti e indietro rispetto ai capitoli precedenti e successivi, ma almeno si capirà fino in fondo di che parlo. Tornando alla riorganizzazione interna della Spagna, cominciamo col ripetere che una parte del lavoro era stata già fatta durante la guerra e subito dopo, sia da Amelot che da Orry, per cui non si partiva da zero, benché non ancora da una posizione di forza. Lo si vide nel 1715 quando si cominciò la revisione dei conti di Orry, appena congedato. Commentava Alberoni: “Qui ogni giorno più si vanno scoprendo le piaghe lasciate da Orri e, se fossi stato creduto, si sarebbero scoperte prima di lasciarlo partire. Si sono fatte giunte per lasciare le cose in pristinum da quel furbo in un caos di confusioni. Haveva trovato il modo d’aggravare l’azienda regia con ministri inutili di stipendi che ascendono alla somma di cinquecento ottantamila pezze da otto. La sola riforma fatta di 17 Intendenti guadagna al Re venticinque mila doppie. Se costui durava ancora sei mesi in Spagna, perdeva interamente la Monarchia.”LXXX Chi e quando avrebbe dovuto dar retta ad Alberoni? Viene da chiederselo perché Orry, uomo della principessa Orsini e cioè di Luigi XIV, era inattaccabile, perciò come si può pensare che Alberoni fosse stato così poco avveduto da parlarne male finché la Principessa era stata in Spagna? E’ un piccolo esempio di quanto granum salis occorra nel leggere le lettere di Alberoni, tutte le lettere, perché tutte sono state scritte allo scopo di mettersi nella luce migliore e al tempo stesso nella posizione per lui potenzialmente meno dannosa, ed è bene ricordarlo sempre; per tutte, sempre. Nove mesi dopo, il 16 dicembre 1715, Alberoni, nel pieno delle sue attività di riorganizzazione, chiese al conte Rocca “Ditemi, vi prego, il modo che si pratica nel regolare le finanze di S.A.S. cioè il rapporto fra la tesoreria e la computisteria.”LXXXI La lettera è stata spesso considerata la richiesta d’un esempio al quale adeguare la tesoreria spagnola in corso di riorganizzazione. Può essere, certo è che non ci sono menzioni di una tale necessità, né inducono a crederlo tanto la missiva del 20 febbraio 1716 con cui Alberoni ringraziava il Conte per il regolamento, speditogli il 17 gennaio, quanto il contesto delle lettere di quel periodo. Sono tutte a proposito di rimborsi a corrieri in pagamento della corrispondenza con Parma, delle spese di viaggio di questo o quel personaggio – dalla balia Laura Pescatori alla compagnia di commedianti attesa dall’Italia – e degli invii di vini – i piacentini non reggevano il viaggio, perciò occorreva spedire quelli “di Fiorenza” – e quadri, salumi e formaggi destinati alla Regina, per cui viene da pensare, viste le continue reprimende sulle spese sempre ritenute eccessive, che Alberoni volesse solo capire come regolarsi per evitare intralci formali fra il pagamento da parte sua e il rimborso da ottenere dalla Tesoreria ducale dietro presentazione delle pezze d’appoggio. Lo dimostrerebbe, indirettamente la lettera scritta appena una settimana dopo, l’antivigilia di Natale del 1715, in cui Alberoni chiedeva: “Con reiterarvi le mie suppliche circa il stabilimento, metodo e regola che da voi si pratica nella guardaroba di S.A. per introdurne qui uno molto simile, assai necessario per quello ha conosciuto la maestà della Regina nostra Signora.”LXXXII Se spiegava esplicitamente perché gli servivano certe notizie per una questione toccante la sola Casa della Regina, a maggior ragione avrebbe dovuto farlo chiedendone per la riorganizzazione della finanze spagnole, ma non lo fece, non in quel momento, perciò, ripeto, evidentemente in quella famosa lettera stava solo domandando come regolarsi lui nei confronti della tesoreria per i

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rimborsi.47 E infatti quando poi lo chiese, nell’autunno del ’16, disse esplicitamente cosa gli occorreva sapere e perché. Piano piano fu incaricato della supervisione di parecchi affari, i quali erano sbrigati dai vari ministri. La Marina toccava al marchese Mari, ma prendendo gli ordini del Re tramite Alberoni, il che significava che Filippo diceva molto in generale cosa voleva ottenere, Alberoni trasmetteva l’ordine a chi di competenza per l’esecuzione, ma nella realtà prendeva il posto del Re in tutto il lavoro, fino al compimento. Per una nazione le cui risorse principali venivano dalle colonie americane, erano vitali le comunicazioni marittime; di conseguenza quando nel giugno del 1716 Alberoni intraprese la riorganizzazione della Marina, sapeva di dover prima sistemare l’amministrazione finanziaria del Regno e poi la produzione di quanto occorreva alla Marina stessa, dai cordami alle navi. Scriveva a Rocca: “Hora ho intrapreso a vedere il stato della marina, la quale bisogna spurgare di tutto il cattivo e restringersi al numero sufficiente di Vascelli, ma che veramente si possino dir tali. Nella settimana ventura si porranno all’incanto ad una le Rendite Generali tenute sin hora in una confusa amministrazione con un ladroneccio infame. Senza una risoluzione dolorosa non ho potuto ricavare il conto degli ultimi tre anni da’ quali prenderò norma per i nuovi affitti. Nelle Rendite Provinciali non vi posso per hora metter la mano, durando tuttavia l’affitto per l’anno venturo in Impresari indegni, i quali per il corso di 15 anni ed in uno disordine sommo che ha regnato, hanno fatto millioni a spese de poveri popoli e de’ quali tuttavia si vanno rimborsando nelli detti molti, né si può indurre il re alla rescissione di contratti sì iniqui, mosso dal scrupolo di conscienza e dalla delicatezza della parola. Questo è il mio dolore, ed il campo di battaglia dove spesso mi trovo a combattere con armi disuguali.”LXXXIII Il ristabilimento della potenza spagnola non era affare da poco e richiedeva tempo e spese ingenti. Tempo ce n’era, o così sembrava. Quanto al denaro: poteva esserci, ma a condizione di avere assicurate e protette le rotte d’America, perché oro e argento venivano da là. La situazione finanziaria spagnola sotto Filippo V ebbe alcune variazioni. Quando era salito al trono la corona era decisamente a corto di denaro. I consiglieri francesi mandati in Spagna da Luigi XIV avevano preso i primi provvedimenti. La guerra ne aveva imposti altri. C’erano state parecchie riorganizzazioni delle spese e, se la pace aveva condotto al richiamo d’Orry, non aveva però implicato una completa razionalizzazione degli incarichi né una riduzione della burocrazia. A dispetto di tutti gli sforzi, dopo la guerra alcune entrate ancora non passavano attraverso l’amministrazione centrale, nonostante la creazione nel 1718 della Tesoreria General, incaricata di raccogliere tutte quelle spettanti alla corona; e la situazione sarebbe restata sfuggente almeno fino all’inizio della Guerra di Successione Austriaca, nel 1741, anche se sarebbero stati tenuti dei conti accurati, specialmente delle spese di ogni spedizione militare.

47 Per di più, il 20 gennaio 1716, nell’annunciare la nascita di Carlo di Borbone, il futuro Carlo VII di Napoli e Carlo III di Spagna, Alberoni tornava sull’argomento del guardaroba, lamentando l’eccessiva sintesi delle informazioni ricevute e chiedendone di particolareggiate: “L’informazione della Guardarobba è tanto succinta che non può darmi alcun lume per quello ho bisogno. Con la spedizione del cavaliere inviatemene una ben diffusa e circostanziata. Il principale punto è di sapere chi fa le spese de’ mobili ed altro che entra nella Guardarobba, l’ordine che si tiene nella scrittura e libri ed infine il carico e l’incombenza di tutti quelli che servono nella medema. A bocca potrete pure informare il Cavaliere acciò con più accerto mi comunichi in voce quello forsi non verrà posto in scritto. Come è cosa essenziale ed indispensabile a stabilire in questa Corte, ho bisogno di ricevere tutte le cognizioni sopra ciò anche le più minime. di grazia vi supplico d’una particolare attenzione in favorirmi.” Cfr. Alberoni a Rocca, 20 gennaio 1716, in BURGEOIS, op. cit., pag. 436; e ancora la seguente del 27 gennaio, in idem, pag. 438. 84


E’ un dato acclarato che con la pace la pressione fiscale diminuì, ma non calò subito la spesa, o, almeno, non sembra averlo fatto con una proporzionalità diretta all’allentamento fiscale, il che obbligò Orry a trovare denaro nelle maniere più impensate. Alcuni ostacoli al reperimento di fondi nascevano dalla sopravvivenza della struttura feudale medievale della Spagna, o meglio, delle Spagne, al plurale. Filippo infatti non era re di Spagna, ma re d’Aragona, di Castiglia, di Granada, di Siviglia, di Navarra e di Leon. Ognuno dei regni era retto da un viceré – esattamente come lo erano stati in suo nome i regni italiani di Napoli, Sicilia e Sardegna e lo erano quelli sudamericani – e aveva i propri privilegi, ottenuti nell’arco dei secoli, che Filippo salendo al trono si era impegnato a rispettare e conservare. I privilegi ovviamente avevano un rilevante aspetto finanziario. Le entrate della corona derivavano dalle rentas reales, provinciales e generales menzionate da Alberoni nella sua lettera dell’8 giugno, cioè da monopoli e tasse dirette e indirette sui beni più diversi e di maggior consumo. Ma i Regni e gli altri Stati avevano un loro diritto d’esazione, che variava in entità e oggetto dall’uno all’altro, e decidevano se dare o meno al Re il denaro di cui aveva bisogno e sotto forma di donativo. Era un regalo, una concessione fatta volta per volta e il cui ammontare variava; in più non costituiva un precedente vincolante. Il donativo poteva essere aumentato o ridotto e poteva anche non essere dato. Un esempio si era avuto durante la guerra, quando l’Aragona aveva concesso molto meno del previsto, perché la Regina non vi si era fermata quanto i rappresentanti degli Stati avrebbero voluto; un altro nel 1703 e di nuovo nel 1707 quando Napoli aveva rifiutato al viceré ulteriori imposizioni per le spese di guerra. Alberoni se ne dové occupare senza saperne niente. Ammise: “Io sto sbalordito e confuso dal numero infinito de’ tributi di questi regni, tutti concessi dalle Provincie, che si esigono precario nomine, e niuno di questi può dirsi legale; ed infine che ricerca un numero infinito di gente per esigerli, però con la disgrazia che né meno la metà va nell’erario regio.”LXXXIV Cominciò seguendo un’idea del marchese Scotti riguardo ai guadagni ottenibili da un’alterazione delle monete, sia nel peso, sia nella lega. Non avendogli Scotti spiegato molto, nell’autunno del 1716 lasciò perdere e domandò a Rocca lumi sui metodi di valutazione e tassazione delle proprietà: “Desidero pure sapere il metodo che costì si tiene sopra il perticato,48 sopra i fuochi49 ed ogni altro tributo posto sopra cotesti stati, che cosa sia estimo civile e rurale, come paga il paesano e la differenza che è tra questo e il nobile in materia di tributo.”LXXXV Subito dopo chiese altre due cose: “Una è inviarmi il stato della vostra Tesoreria, cioé come va regolata, se ha connessione col Presidente della Camera e Questori; quali siano le incombenze di questi, quale quella della Computisteria, formando pure uno stato e relazione di questa; chi è che fa gli affitti degli impresari, a chi ricorrono questi in caso di qualche preteso defalco o altro, se vi è una cassa separata per i Militari, che cosa è la Tesoreria che aveva il marchese Novati, ed in una parola come vengono amministrate, esatte e pagate le rendite Ducali. … L’altra fatica è d’inviarmi una esatta relazione dell’annona: quale connessione è tra il Governatore e il Vicario, quale sia la Giurisdizione dell’uno e dell’altro e in somma quanto concerne il Governo toccante l’annona. 48 Termine derivante da pertica nel senso di misura di superficie: con queste parole Alberoni domandava come si determinassero le dimensioni e il valore d’un fondo per poterlo poi tassare. 49 Termine d’uso comune per indicare le famiglie, intese come gruppo radunato intorno allo stesso focolare. 85


Questa attenzione di Governo praticata in tutte le parti qui non si conosce, e per questo tutti i commestibili vengono adulterati e causano continue gravi infermità nel Popolo. Il Macellaro vende carogne e se gli permette. Il Bottegaro pone nell’oglio mille infamie. Il peso sta all’arbitrio d’ognuno et sic de singulis.”LXXXVI Come avrebbe spiegato poco tempo dopo, non intendeva applicare il metodo parmense alla Spagna, voleva solo capire come funzionasse un sistema fiscale e amministrativo per essere in grado di comprendere quello spagnolo, le sue pecche e le correzioni più adatte a migliorarlo. Una difficoltà non da poco consisteva nell’essere straniero, per quanto naturalizzato. Era difficile da superare e lo diveniva tanto di più in quanto a loro tempo i Francesi – e parecchi non Spagnoli – erano stati imposti da Versailles prima della guerra e per la sua durata, ma alla fine di essa la nobiltà spagnola aveva iniziato a domandarsi e a domandare quando avrebbe riavuto gli incarichi più importanti, fino allora restati in mano agli stranieri. Come riassunse Alberoni a Rocca, c’erano a Madrid cinque agglomerazioni nazionali con influenza più o meno marcata sugli affari: Spagnoli, Francesi, Italiani, Fiamminghi e Irlandesi “le quali tutte hanno parte nel ministero, o politico, o economico, o militare.”LXXXVII Italiani e Fiamminghi, in quanto antichi sudditi di territori della dominazione spagnola, erano considerati quasi Spagnoli; gli Irlandesi no, ma si erano ambientati in fretta. Il discorso era diverso coi Francesi, assai malvisti. Non è facile capire quanto Filippo stesso se ne volesse sbarazzare, ma è certo che di loro non si fidava: erano stati tutti agenti di suo nonno, adesso lo erano del cugino di suo padre, il reggente Filippo d’Orléans e prima se ne andavano meglio era. Alberoni sfruttò l’occasione. La sostituzione dei Francesi con elementi locali consentiva in un colpo solo di farsi dei meriti col Re, eseguendone perfettamente gli ordini, e coi nobili spagnoli, favorendoli, o facendo loro credere di favorirli, nell’assegnazione di questa o quella carica. Nella mutevole situazione che si verificò allora, Alberoni fu tanto intelligente da sapere dove fermarsi. Non cercò alcuna carica, non la chiese neppure, evitò di parlarne e scartò qualsiasi ipotesi che in tal senso gli fosse ventilata. Sapeva bene d’avere due svantaggi: non era nobile e non era spagnolo. La nomina a conte ai primi d’agosto del 1714 da parte del duca di Parma per aver combinato il matrimonio tra Elisabetta e Filippo non solo non lo metteva su un piede di parità cogli aristocratici spagnoli, ma poteva addirittura aggravare la situazione rendendolo ridicolo: dov’erano i suoi antenati e in che battaglie avevano guadagnato il titolo? Dov’erano le sue terre avite? Dov’era il suo stemma e che arma portava? In un mondo in cui la nobiltà di spada quasi nemmeno guardava quella di toga per quanto antica potesse essere, in un mondo in cui solo per potersi far uccidere in mare da cavaliere di Malta occorrevano quattro quarti di nobiltà antica e provata, il che significava avere almeno tutti i propri trisavoli nobili e proprietari terrieri, un conte, figlio d’un ortolano la cui unica proprietà era stata di si e no cinquanta pertiche di terra, faceva meglio a non menzionare nemmeno per un istante il suo titolo di freschissima data; e infatti Alberoni lo faceva con attenzione, come del resto – e ciò era significativo e sintomatico – lo facevano alcuni altri. L’abate Alberoni era accettato, il conte Alberoni a volte era meglio non nominarlo. Di conseguenza Alberoni era a un punto morto. Era conte, ma non gli serviva; era uomo di fiducia del Re, ma fino a quando? Tanti prima di lui, non ultima la Orsini, avevano avuto molto per rimanere con nulla in mano. Gli serviva una sistemazione definitiva, che non gli si potesse levare e lo riparasse da qualsiasi guaio, o, almeno, da quanti più era possibile. Per uno come lui ce n’era una sola: il cardinalato, e si mosse in quella direzione. E’ impossibile dire da quando abbia iniziato a pensarci: sicuramente fin da quando era chierichetto; ma un conto sono i sogni dei bambini, un altro la meditata scalata al potere, fatta d’attenzione e scaltrezza. Finché non fu proposto a Roma, sembra esistere un solo accenno al cardinalato nella sua corrispondenza – per di più implicito e molto indiretto, come vedremo poi – e non pare che alcuno dei suoi contemporanei l’abbia sentito dire di desiderarlo. 86


Questo però faceva e fa parte del gioco: ammettere di volere la porpora significava ipso facto rendersene indegno sotto la taccia di carrierista, perciò bisognava affettare umiltà, non parlarne e, se altri lo facevano, schermirsi, e dire di non pensarci affatto. Certamente dopo il matrimonio di Filippo ed Elisabetta iniziò a considerare il cardinalato non più una velleità, ma una possibilità. Man mano che la politica di Filippo V si indirizzava e poi si approssimava allo scontro coll’Austria, Alberoni deve aver valutato il rischio crescente d’essere sacrificato se le cose fossero andate male ed è probabile che, per ottenere il sospirato cappello, abbia premuto quanto più poteva via via che vedeva avvicinarsi il disastro. Se fu così, fece bene, perché si salvò per un soffio: il cappello precedé i guai di pochissimo, un anno e mezzo scarso. Per divenire cardinale, nel XVIII secolo bisognava essere conosciuti dal Papa o proposti da un sovrano cattolico, meglio se tutte e due le cose. Alberoni era noto a Roma e nelle grazie del Re Cattolico. Era una buona base di partenza ma non bastava: serviva ancora molto lavoro. Per prima cosa doveva conservarsi il favore del Re di Spagna e questo significava essergli devoto come non mai. Al tempo stesso doveva continuare a fare l’interesse di Parma, sia per essere lasciato a Madrid da Francesco Farnese, sia per non inimicarsi né lui né la Regina, sia, infine, perché, da buon suddito farnesiano e patriota, l’interesse di Parma gli stava veramente a cuore. Ciò che ad Alberoni premeva era l’espulsione dell’Austria dall’Italia. In questo le sue vedute coincidevano perfettamente con quelle del Re e del Duca e sapeva bene che era difficile e forse impossibile senza una guerra. Per farla occorrevano molti soldi e non era cosa da poco trovarli. Le uscite della Corona erano alte. Fra il 1714 e il 1718 si attestarono sui 230 milioni di reali50 annui, con una marcata tendenza all’aumento. Le riconquiste della Catalogna e di Majorca fra il 1713 e il 1716, assorbirono non meno di 180 milioni di reali all’anno, cioè poco più del 78% dell’intero bilancio. Né le cose migliorarono molto in seguito, visto che le imprese di Sardegna e di Sicilia, fatte a gran distanza dalle basi, avrebbero implicato non solo le spese necessarie al mantenimento della flotta e del corpo di spedizione, ma anche un’offerta di 15 milioni di reali, sette e mezzo ciascuno, a Pietro il Grande e a Gustavo di Svezia per un loro intervento contro gli Inglesi. La riorganizzazione del settore economico, come si è già detto, era uno degli strumenti per evitare gli sprechi e razionalizzare le uscite. Iniziata nel 1701, fu segnata da continui aggiustamenti ancora fra il 1713 e il 1716, ma avrebbe avuto un termine solo nel 1720, coll’istituzione formale della Segreteria di Stato per le Finanze, una delle nuove cinque segreterie di Stato. Ad ogni modo, le riforme fatte durante la Guerra di Successione avevano consentito un primo grande passo, permettendo di compensare la perdita delle entrate da Napoli, Milano, Fiandre, Sicilia e Sardegna e i loro risultati cominciarono a vedersi quando l’attività militare diminuì. Nel 1715 l’ambasciatore inglese stimava aumentati d’un terzo gli introiti dalla sola Castiglia, che, insieme all’Aragona, forniva la maggior parte delle rendite della corona, di cui però il 10% se ne andava per pagare gli interessi cedolari dei prestiti emessi dai predecessori di Filippo V. E’ vero che dopo la fine della guerra si era cercato di razionalizzare il debito istituendo la Pagadoria General de Juros; cioé l’ufficio di pagamento generale delle obbligazioni, ma la situazione non migliorò molto: il denaro continuava a sparire in un baleno. Perché è presto detto: serviva a rimettere in piedi Esercito e Marina per riprendere i territori perduti. Si era partiti dalla Marina, perché bisognava agire in proiezione di potenza e senza navi non si poteva. Il primo obbiettivo era stato la riconquista di Barcellona, bloccata dal mare negli anni 1713 e 1714 e poi caduta; ma il secondo era l’Italia. Sardegna, Sicilia e Napoli andavano ripresi, anche se 50

Il sistema monetario delle Spagne era d’una complessità spaventosa. Ognuno dei cinque regni della Penisola iberica aveva le sue monete, solo alcune delle quali correvano legalmente pure negli altri. Normalmente – ma non sempre – quelle di metallo vile avevano corso solo nel Regno in cui erano state emesse. Una delle poche accettate dovunque era il reale – reàl – coniato per la prima volta nel XIV secolo e che nel periodo di Alberoni era di due tipi, real de plata – reale d’argento – e real de vellon – reale di biglione. Quello di biglione, lega d’argento e rame, valeva 34 maravedì, quello d’argento ne valeva due di biglione e dunque 68 maravedì. Occorrevano 8 reali d’argento per fare un pezzo da otto e ce ne volevano 16 per uno scudo d’oro, o escudo, o dobla – doppia – o doblone. Perciò uno scudo valeva 16 reali d’argento o 32 reali di biglione e, comunque, 1088 maravedì. Qui si parla di reali d’argento. 87


non necessariamente in quest’ordine, pertanto vennero creati dei cantieri navali e fu dato impulso alle relative industrie, dai cordami, alla tele, alla siderurgia, non dimenticando i cannoni e, dal febbraio del 1714, la flotta fu ufficialmente indicata come la Real Armada. Tra la fine della Guerra di Successione e il 1717 la spesa per la Marina passò da poco meno di 15 milioni di reali a più di 41, ma, come si sarebbe visto nel 1718 in Sicilia, a Capo Passero, i risultati, benché numericamente rilevanti, potevano essere annullati in un giorno. Iniziata la ricostruzione della Marina, bisognava pensare a quanto avrebbe trasportato, cioé l’Esercito. Prima di Filippo V i Re di Spagna avevano avuto differenti eserciti, stanziati nei loro vari Stati e composti sia da truppe arruolate localmente, sia da reggimenti provenienti da altri loro territori. Era un’applicazione del divide et impera, per cui, ad esempio, nel 1647 a Napoli si erano impiegati contro Masaniello dei militari fiamminghi e spagnoli, oltre che italiani, mentre i Napoletani erano a combattere contro gli Olandesi in Brasile. Persi i possedimenti europei extra-iberici, la corona si dové adattare a truppe solo spagnole, con qualche reggimento di levata estera, come le Guardie Vallone o le truppe irlandesi. Per quanto si riesce a capire dalle fonti coeve, nell’estate del 1717 l’esercito reale allineava 79 battaglioni di fanteria, la metà dei quali in Catalogna, più cavalleria e artiglieria, per un totale che si stimava attorno ai 73.000 uomini. Molti di questi stazionavano però in guarnigioni fisse in Spagna, nelle Filippine, in America e nei territori africani rimasti, per cui gli uomini disponibili per le desiderate riconquiste erano relativamente scarsi, circa la metà. Alberoni sovrintese alla riorganizzazione delle forze di terra, così come aveva fatto per quelle di mare. Sotto il suo controllo il comando e gli uffici furono accentrati e, quanto alla logistica, fu creato un nutrito gruppo di ispettori, incaricati di sorvegliare l’operato degli intendenti dell’Esercito e da cui dipendevano i commissari di guerra. Sempre ad Alberoni si dové una rivitalizzazione dell’industria spagnola delle armi, tanto leggere quanto pesanti. Dire come ci riuscì è una faccenda lunga e, per quanto mi riguarda, di poca rilevanza, perché già nota e abbondantemente studiata. Se ne accenno qui è perché qualche sedicente esperto ha ritenuto di poter parlare di resilienza della Spagna ignorando del tutto quanto fece Alberoni, per la semplice ragione che nei documenti d’archivio da lui visti non ne ha trovato il nome. Perché non ci fosse è chiaro: non era ministro, per cui non da lui partivano le istruzioni formali e non a lui si indirizzavano le risposte. Ciò nondimeno era lui a muovere tutto. In buona sostanza, Filippo V stabiliva i fini e dettava la politica generale. Alberoni eseguiva. Per eseguire doveva riorganizzare; per riorganizzare doveva avere gente fidata. La cercò, la trovò, la propose al Re, ne ebbe beneplaciti e nomine e iniziò a lavorare. La prima riforma fu quella del Guardaroba della Regina. Implicò dei notevoli risparmi e parecchi malumori per la soppressione di cariche inutili e dei relativi stipendi. Da quella riforma fu evidente che gli sprechi erano ovunque ed occorreva riordinare ogni settore, specie perché la corona era gravata da una gran quantità di debiti, dalle pensioni arretrate, ai conti non saldati e la processione dei creditori sembrava senza fine: “Da ogni parte usciscono debiti, e debiti che gridano…. Io non penso che a ristabilire il credito” LXXXVIII scriveva a Rocca nel febbraio del 1717, aggiungendo in aprile d’aver pagato in quel primo quadrimestre del 1717 1.200.000 scudi di debiti fatti per le spese militari risalenti alle prese di Barcellona e di Majorca. Convinto il Re dei vantaggi, dall’aprile del 1716 Alberoni si preoccupò di rinvigorire il commercio, però sapeva di non poterlo fare se prima non ne migliorava il credito e i mezzi, cioè le monete con cui era svolto e la marina mercantile per effettuarlo. La marina richiedeva uno sforzo costruttivo non indifferente, da farsi dopo aver preparato le necessarie infrastrutture cantieristiche ed arsenalizie, perché lui voleva che tutto fosse prodotto in Spagna, dai cordami alle vele, fino allora comperate in Olanda, passando per i chiodi la pece e, possibilmente, il legno, da prendere sui Pirenei anziché in Norvegia come si faceva in quel periodo. Si profilava una rinascita economica, mossa dall’oro e dall’argento in arrivo dall’America, i quali, a differenza del passato, sarebbero stati spesi in Spagna e non all’estero. Certo, per spenderli 88


andavano tramutati in denaro, usandoli per battere moneta e le monete erano un altro tasto dolente, perché durante la guerra avevano subito parecchie alterazioni, alle quali si doveva porre rimedio. Bastava confrontare una pezza da otto spagnola del 1710 con una coniata in Perù o in Messico per accorgersi della differenza. Nell’inverno 1716-1717, si fece una prova. Per eguagliare il peso d’una pezza da otto detta “segoviana”, molto ben accetta perché composta da una lega inalterabile, dovevano bastare sedici monete da mezzo real: bilancia alla mano ce ne vollero ventuno, tanto erano limate o alterate.51 Il Re mise in piedi una giunta per la riforma monetaria; si sarebbe dovuta riunire nelle stanze d’Alberoni a Palazzo Reale, ma lui rifiutò: la materia gli era estranea e aveva già troppi avversari. Alla fine del 1716, dopo contatti continui colle Potenze Marittime, la ripresa del credito commerciale spagnolo poteva dirsi ben avviata, mentre era in atto la ricostruzione della marina – che necessitava di tempi lunghi – e restava in sospeso la riorganizzazione della valuta. Contemporaneamente furono decise migliorie dei porti del Ferrol e di Cadice, destinando al primo 200.000 scudi per opere da finire in un anno e mezzo e altri 100.000 per quelle entro tre anni, pari a 600.000 pezzi da otto. A Cadice furono assegnati 60.000 pezzi da otto. Queste iniziative ebbero ottimi risultati in poco tempo. Il primo fu il recupero del credito di cui godeva la Corona, il che permise la ripresa dei convogli per le colonie. A fine 1716 se ne mandò uno di quattro vascelli verso l’America del Sud, preparandone un secondo di dieci per le Indie, cioè per l’America Centrale, da far partire a maggio del 1717. Per andare in America, i due convogli avevano avuto bisogno d’un forte investimento iniziale. Lo Stato non aveva liquidità, perciò aveva contrattato colle case commerciali spagnole, ottenendo subito dei grossi prestiti a tassi molto inferiori a quelli del 10 o del 12% chiesti in passato. D’altra parte Alberoni si era fatto un po’ di conti e si aspettava dai due convogli un guadagno non inferiore al 70%. La riuscita era vitale. Gli imprenditori gli avevano infatti dimostrato che la produzione industriale per rifornire le colonie americane, le Indie, poteva essere iniziata, ma si sarebbe retta a condizione d’avere un flusso continuo di smercio verso l’America, per il quale era necessario un convoglio mercantile annuale di navi normali e uno biennale di galeoni.52 Quanto accadde per la marina implicò interventi in tutti i rami dell’apparato dello Stato ad essa direttamente o indirettamente legati. Saltarono teste e prebende, ci furono risparmi di denaro, si ridusse il tempo necessario alle decisioni e l’amministrazione se ne avvantaggiò, ma ne venne uno strascico di polemiche e rancori. Ogni iniziativa si scontrava con una forte resistenza passiva, seguita da pettegolezzi, maldicenze, tentativi, mezzi ricatti e minacce d’appellarsi al Re. Era tempo perso, perché Alberoni metteva Filippo non davanti al fatto compiuto, ma davanti al fatto che proprio Filippo aveva voluto compiuto, solo che al Re nessuno attribuiva nulla e tutti i fulmini si scaricavano sull’abate. “Può ella immaginarsi” – scriveva al conte Rocca nel giugno del 1718 – “cosa si dice di questo maledetto italiano che ha voluto, per rendersi dispotico del comando, attirare su di sé tutta quella autorità che stava divisa in più sacri consessi venerati, non che rispettati da tanti gloriosi Re Cattolici.”LXXXIX A dicembre del 1716 la riforma dei consigli entrava nel vivo. A gennaio del 1717 crollava il Consiglio di Castiglia, poi toccava a quello delle Indie e a quello di Guerra. 51

Alberoni ne parlò nella lettera a Rocca dell’8 marzo 1717, cfr. BOURGEOIS, op. cit., pag, 528, diffondendosi in particolari sui conii in atto e in progetto. La questione restò irrisolta e nel 1744 si diceva ancora tranquillamente che le specie “di oro e di argento in Ispagna sono miserabilmente tosate, cosicché non si può prenderle in buona fede, se non si pesano”, cfr. Stato presente dei Paesi etc, cit., pag. 412. 52 La partenza dei galeoni, descritta dal padre domenicano francese Labat, nel terzo capitolo del suo Voyage d’Espagne et d’Italie (trad. italiana Un monaco francese nell’Italia del ‘700, Tivoli, Chicca, 1951) era preceduta da una solennissima cerimonia religiosa per l’imbarco sull’ammiraglia dell’immagine della Madonna del Rosario, alla quale erano riservate una cabina e un’anticabina sia all’andata che al ritorno. 89


Cambiati parecchi titolari dei diversi dicasteri, le riforme alberoniane investirono l’economia, la finanza e l’ambito militare, trovando sempre un’ostinata resistenza passiva. Nel medesimo 1717 il giovane inviato britannico George Bubb, molti anni dopo nobilitato come Lord Melcombe, riferendosi all’insieme dell’amministrazione statale spagnola, riferiva a Londra: “c’è molta poca fiducia fra questi signori ed Alberoni, perché lui non permette loro di fare quanto desiderano, però ciò che lui fa deve passare per le loro mani, cosicché ogni cosa assume un mirabile aspetto di confusione e disordine.”XC E aggiungeva: “Io con lui non posso ottenere che sia fatto molto; ma senza di lui è del tutto impossibile fare qualsiasi cosa. Alberoni ha ammesso con me che ci sono cose che lui non fa perché non è in suo potere farle e che questi signori del Consiglio gestiscono ogni cosa, al solo fine di distruggere i suoi piani ed in questo gli credo.”XCI Nonostante tutto, fu dato impulso alla creazione di fabbriche tessili, chiamando operai dall’Olanda e facendo sì che quelle di Guadalajara producessero tele e drappi di elevata qualità. Fu creata una scuola di navigazione. Il commercio marittimo fu riorganizzato, fissando le partenze dei mercantili e sorvegliando tutto il traffico coll’estero. Alberoni sovrintese poi alla repressione del contrabbando nella Biscaglia e fece creare i sovraintendenti ai porti per evitare abusi. Venne abolita l’antica divisione in regni separati e furono presi parecchi provvedimenti per assicurare all’erario i proventi del commercio del tabacco. Infine iniziò una stretta vigilanza contro il traffico abusivo tra le Canarie e l'America. Fu lavoro enorme, che diede all’economia spagnola un volto nuovo e garantì alla monarchia dei mezzi militari quali non se ne vedevano da oltre mezzo secolo. Per condurre a termine il programma era necessario che Alberoni conservasse a lungo l’autorità acquistata. Come spiegò Montesquieu “…se il Re avesse voluto attendere cinque o sei anni, egli avrebbe ben bene imbrogliato il Reggente e re Giorgio;”XCII ma quei cinque o sei anni mancarono. Nel gennaio del 1717 Filippo V effettuò un radicale cambiamento nelle posizioni apicali, estromettendone un gran numero di persone di cui aveva avuto modo di dolersi. Alberoni, dietro suo ordine, riformò l’Azienda, cioè la gestione del denaro pubblico in tutti i suoi rami, cambiandone completamente i vertici. Riorganizzò la parte fiscale radunando per prima cosa gli uffici in un solo posto: “tutte le officine concernenti le Rendite Reali e tutti i Tribunali, li ho uniti tutti in un Palazzo vicino a quello della Corte.”XCIII e nella primavera del 1717 ridusse le contadorie, cioè gli uffici di contabilità generale, da quindici a soli tre. Contemporaneamente, alla fine del 1716, aveva eliminato una gabella che decurtava d’un terzo le rendite della nobiltà: una mossa con cui guadagnò forti consensi negli ambienti che contavano. Però più cercava di mettere ordine e più si trovava davanti a insospettate sorprese, tanto da fargli esclamare scoraggiato nel maggio del 1717: “Moltissimi sono tuttavia gli acquedotti per i quali va il denaro regio e trovo tali e tanti labirinti che è impossibile a uscirne. La moltitudine della gente inutile che vive alle spalle del Re è infinita.”XCIV Nonostante questo, dall’esterno si notava un netto miglioramento. Già nel 1715 Bubb riteneva che “le entrate di Filippo V eccedano d’un terzo quelle dei suoi predecessori e le sue spese non arrivano alla metà.”XCV E’ difficile dire quanto in realtà si dovesse ad Alberoni e quanto ad altri. Resta il fatto che era lui ad apparire il deus ex machina e l’animatore di tutto. Patiño in seguito avrebbe ricordato che Alberoni: “riduceva le impossibilità a mere difficoltà.”XCVI Alberoni arrivò al punto di far venire da Parma delle famiglie di contadini da installare ad Aranjuez per fornire burro alla Corte, perché per venti miglia intorno a Madrid non si vedeva una casa di 90


campagna, né un albero, né un frutto e già che c’era si fece mandare pure delle cassette di sementi. Era un bel progetto, ma nell’autunno del 1717 i contadini chiesero ed ottennero il rimpatrio, sostenendo d’essere trattati troppo male.XCVII Militarmente parlando, nella primavera del 1717 era attiva a Barcellona una fonderia di cannoni che per maggio aveva già prodotto oltre novanta pezzi d’artiglieria e doveva arrivare a farne duecento entro la fine dell’anno, tutti destinati a guarnire la nuova cittadella, i cui lavori erano molto avanti e per i quali ben 100.000 doppie erano state stanziate. Si stava lavorando alla cittadella confinaria di Pamplona ed ai cannoni ad essa destinati e Alberoni aveva messo a capo dell’artiglieria il tenente generale don Marco Araciel, però questi erano aspetti marginali delle sue riforme; erano solo alcuni dei mattoni che componevano una grandiosa costruzione di cui andava fiero. Come scrisse orgogliosamente al conte Rocca nel 1718 annunciandogli l’allestimento della spedizione contro la Sicilia: “Facci un poco di riflessione a quello che si faceva due soli anni sono e a quello che si fa oggi, e vedrà che differenza. Da sei mesi soli a questa parte, si sono vestite tutte le truppe, armate e reclutate. Immagini cosa costerà l’havere vestito settantamila homini. …il vestuario di quest’anno costa centocinquantamila doppie. La rimonta della Cavalleria, novantamila doppie: l’artiglieria, nuova, fatta da dieci otto mesi a questa parte, importa più di cento mila doppie; Si sono fabbricati, da un anno a questa parte, cento pezzi di cannone di bronzo da 24 con le armi di Spagna e della Serenissima Casa Farnese.”XCVIII “…le fabbriche d’armi, balle, polvere ed altro simile, ottantacinque mila doppie…. …La marina, parlo di vascelli nuovi e peltrechi53 posti ne’ magazzeni, importano più di duecento cinquanta mila doppie.”XCIX “Quattrocento sono le vele che compongono l’armata navale ed i legni di trasporto che si sono noleggiati importano cento venti mila pezze il mese.”C “facci indi conto, la missione d’una armata navale che porta trentatre mila soldati effettivi, che col seguito d’attiraglio de’viveri, munizioni, ed altra gente necessaria al seguito d’un esercito simile e d’una armata navale sarà almeno d’altri dodici mila homini. “Oggi il Re si trova con settanta cinque mila homini effettivi e con certo aumento, al quale si travaglia presentemente, d’alcuni homini di più per compagnia, arriveranno a ottanta mila.”CI “Tutto questo ne è fatto col denaro del Re, del quale altre volte se ne faceva un indegno uso, e questa è quella pietra filosofale che alcuni Francesi dicono che ha trovata il Cardinale, potendo il mondo intero essere persuaso che io non ho denaro mio da dare al Re di Spagna.”CII Nello stesso periodo, tirando le somme, Alberoni poté descrivere a Rocca quanto aveva fatto in tutti i settori dell’amministrazione, vantandosi d’aver riportato la corona dalle condizioni d’una repubblica a quelle d’un regno assoluto.CIII Erano scomparsi i giurì introdotti da Carlo V. Il Consiglio delle Indie, senza la cui controfirma nessun ordine del Re era valido nelle colonie, era stato svuotato d’ogni potere dopo averne cassato cinque membri “infamemente.”CIV Il Consiglio delle Finanze era stato messo in riga e reso meramente esecutivo; quello di Guerra adesso funzionava e, mentre in passato era stato a malapena in grado di tenere in armi 20.000 uomini mal equipaggiati, le cui paghe erano sempre in arretrato di tre o quattro mesi, adesso ne amministrava quasi 80.000 regolarmente retribuiti.

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Peltreco, tratto dallo Spagnolo antico, indicava qualcosa che faceva una bella figura, un oggetto d’apparato. 91


Infine il Consiglio di Stato, senza la cui approvazione i Re di Spagna non avevano mai potuto far nulla, né i ministri indirizzarsi al sovrano, era stato ridotto a tre consiglieri, esautorato in tutto e per tutto ed i ministri avevano il divieto di rivolgerglisi. Senza voler nulla togliere a quanto Alberoni aveva fatto e suggerito, la Spagna di Filippo V somigliava talmente tanto alla Francia di Luigi XIV da far venire il dubbio che le idee d’Alberoni, se non erano in realtà quelle del Re, avessero trovato un’ottima accoglienza perché collimavano in pieno con quanto il Re aveva in mente. In politica estera la situazione era complessa. Se la Spagna voleva eliminare l’Austria dall’Italia, doveva in primo luogo isolarla. Per farlo, bisognava cattivarsi le Potenze Marittime, forse la Francia e, comunque, tutte quelle confinanti coll’Impero o che all’Impero potevano dare noie: Turchia, Russia, Svezia, Polonia e Prussia, non dimenticando alcuni principi italiani. Ma le cose andarono male. Alberoni ricorse a tutte le sue arti per ingraziarsi gli Inglesi. Riuscì in pieno coll’inviato a Madrid Bubb, ma a Londra non ci cascò nessuno. Una volta rinnovato il trattato di commercio nel dicembre del 1715, Bubb ebbe un bello scrivere, come fece nel febbraio del 1716, che la Spagna poteva essere un’utile alleata: agli Inglesi non interessava, anzi, avevano gli occhi talmente ben aperti che in primavera non esitarono a firmare coll’Austria il Trattato di Westminster, il cui fine era quello di: “difendersi a vicenda e mantenersi in possesso delle provincie e dei diritti che ciascuno attualmente possiede in Europa al momento di questa alleanza, ed anche di quelli che essi acquisteranno di comune accordo nel tempo che essa durerà.”CV In realtà il fulcro della politica britannica risiedeva nel timore di Giorgio I di vedere gli Svedesi impadronirsi del suo Elettorato tedesco dell’Hannover, per conservare il quale gli diveniva fondamentale l’aiuto imperiale. Da lì nasceva tutto il negoziato condensato nel Trattato di Westminster; ma, visto da Madrid, questo significava che l’Austria avrebbe aiutato l’Inghilterra a tenersi Gibilterra e Londra avrebbe aiutato Vienna a conservare l’Italia e ad allargarvisi. Più antispagnoli di così non si poteva essere. Quando lo seppe, Filippo fece una sfuriata tremenda ad Alberoni, che poi la raccontò a Bubb, lamentandosi che il Re l’aveva rimproverato d’averlo indotto ad abbandonare i suoi vecchi alleati nella speranza di stringere dei legami con Londra e l’Aja.CVI Era molto commovente, peccato però che, come tutti sapevano, la Spagna di alleati non ne avesse da quattr’anni, perciò chi mai poteva aver abbandonato? Intanto anche l’Olanda aveva aderito; ed ecco fatto: la Spagna era isolata. Ora si trattava di vedere che avrebbe fatto la Francia. Intanto, appena letta nel Trattato di Westminster la clausola della reciproca garanzia degli acquisti futuri, Alberoni aveva capito il disegno generale e avvertito il pericolo: bisognava supporre che pure Filippo d’Orléans fosse in trattative. Quando a Madrid si seppe cosa stava succedendo fra i plenipotenziari britannici, francesi, olandesi e imperiali ad Hannover, i quali, “per assicurare una solida pace”, avevano stipulato una lega e deciso, in aperta violazione del Trattato di Utrecht, di togliere la Sicilia ai Savoia per darla all’Imperatore, Alberoni capì che la guerra era certa. Non lo era il momento in cui sarebbe scoppiata, ma si poteva supporre che non sarebbe stato prima della fine di quella ormai imminente dell’Austria coi Turchi. Tutto stava a vedere quanto a lungo la Sublime Porta avrebbe retto. Per il momento consigliò pazienza a Filippo V, ordinò l’incremento dell’esercito e accelerò l’allestimento della marina. Le corti di Parigi e di Londra comunicarono a quella di Madrid la lega hannoverese ed invitarono il Re Cattolico ad aderirvi. Alberoni consigliò di rispondere che, esaminati i capitoli e comparatili con quelli di Utrecht, Sua Maestà non trovava “clausola che avesse bisogno d’essere confermata.” Due erano i casi: o quanto era stato firmato a Utrecht era valido e allora non serviva conferma, o non lo era, e allora cosa si doveva confermare? 92


L’invito dei collegati era stato accompagnato da vaghe promesse a proposito della successione di Parma. Alberoni non ci cascò e accantonò la cosa, poi, tenendosi sul vago, accennando alla Sicilia senza nominarla, fece rispondere che la Spagna altro non chiedeva che l'osservanza dei trattati di Utrecht; ove fossero stati per qualsivoglia pretesto violati, Madrid avrebbe saputo far valere i suoi diritti. Alberoni cercò comunque d’ingraziarsi Londra rinnovando il trattato dell’Asiento ai primi d’agosto del 1716 e stabilendolo del tutto il 7 settembre. Spedì ambasciatori all’Aja e in Inghilterra a garantire che Madrid non pensava affatto ad un’unione delle corone di Spagna e di Francia sulla stessa testa, ma, al tempo stesso intavolò negoziati segreti con tutte le Potenze che potevano servire contro quelle Marittime e contro l’Austria. Di conseguenza si intensificarono i contatti con lo Zar e il Re di Svezia, per danneggiare gli interessi anglo-olandesi nel Baltico e più in generale nel Nord, e si intrapresero contatti addirittura con la Sublime Porta di Felicità, che aveva appena assalito i Veneziani in Grecia e che sicuramente si sarebbe volta contro l’Austria. Nel frattempo Alberoni aveva altro per la testa. Volendo fare un gioco di parole, aveva per la testa cosa mettersi in testa: il cappello da cardinale.

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Capitolo XII Un concordato, un cappello, una flotta La prima idea di fare Alberoni cardinale si dice sia stata del marchese Antonio Monti, quando era ancora a Parigi alla corte del Reggente. Avrei qualche dubbio. Con un po’ di dietrologia, viene da domandarsi se, essendo amico dell’Abate, non si sia prestato a far apparire come sua un’idea che in realtà era del medesimo Alberoni. Lo dico perché Alberoni, nel febbraio del 1715, ad Elisabetta, apparentemente scherzando: “a una sola cosa gli ho detto essere io sensibile, la quale è d’esser Papa e prima ancora d’havere sessanta anni: in questo caso gli ho detto che lei in Spagna ed io a Roma potessimo forsi burlarsi del mondo…. m’ha fatto l’honore di dirmi che, se fosse in sua mano, sarei io Papa dimani.”CVII “Ridentem dicere verum”? Dire la verità ridendo, come scrive Orazio?CVIII Probabile, perché ad esaminare con cura la frase salta fuori un programma politico ben definito: la corte di Madrid che ottiene il cappello per Alberoni e poi l’appoggia con tutto il suo peso al primo conclave per avere un papa favorevole alla Spagna e più in generale alla Casa di Borbone. Scherzando, Alberoni era stato chiaro: lui a Roma e la Regina a Madrid potevano cooperare e “burlarsi del mondo”, cioè avere una politica comune senza essere condizionati da nessuno. Divenire papa prima dei sessant’anni significava prima del 1724; ne mancavano nove e in quei nove occorreva farlo nominare cardinale. Papa Clemente in quel momento era già sessantacinquenne, poteva viverne altri nove anni, poteva, come gli capitò, morire prima: chissà. Quanto ad Elisabetta, rispondere che “se fosse in sua mano” Alberoni sarebbe stato “Papa dimani” significava che poteva benissimo premere sul marito perché a sua volta si adoperasse con Roma per il cappello, preliminare indispensabile per entrare in conclave e uscirne Papa. Era davvero solo uno scherzo? Non lo sapremo mai, però c’è da dubitarne e, ammesso che fosse cominciata come scherzo, l’idea piacque a Filippo e a Elisabetta. Ciò che loro importava era non tanto far avere ad Alberoni un meritato riconoscimento, ma il prestigio e l’influenza politica che dalla nomina sarebbero derivati alla corona spagnola e dunque a loro; e poi il resto. Nel 1716 partì la richiesta, poi sostenuta dal nuovo nunzio in Spagna, monsignor Pompeo Aldrovandi, che sperava, appoggiandola, d’ottenere anche lui la porpora. Di prassi, infatti, le nunziature a Parigi, Madrid, Lisbona e Vienna54 alla fine del mandato davano, e dettero fino alla metà del XX secolo, il cappello cardinalizio. Ai primi del Settecento però, nelle pessime condizioni in cui erano i rapporti fra Roma e la Spagna, il nunzio poteva scordarsi la porpora a fine missione. Se invece la situazione fosse stata sbloccata poteva sperare di nuovo. La nomina d’Alberoni, chiesta ufficialmente dal Re Cattolico, poteva sbloccarla ed ecco un primo motivo per cui Aldrovandi – divenuto poi cardinale nel 1734 – l’appoggiava. Ce n’era un secondo: Aldrovandi si era trovato ad affrontare una situazione difficilissima, in parte originata dalla Guerra di Successione Spagnola e in parte esacerbata dall’ostinazione ed alterigia di Filippo V. Durante il conflitto, la corona aveva tassato il clero, ottenendone però la facoltà non da Roma, ma dalla buona volontà del clero stesso, il quale aveva stabilito di concorrere alle spese di guerra con un donativo, dunque con un atto originario e spontaneo, che non poteva, né doveva, costituire un precedente su cui fondare alcuna pretesa o principio di tassazione dei beni ecclesiastici in futuro. La corona invece, un po’ perché spinta dal protrarsi delle operazioni in Catalogna, un po’ per via della consueta mancanza di fondi, 54 Cioè i legati apostolici al Cristianissimo Re di Francia, al Re Cattolico di Spagna, al Re Fedelissimo del Portogallo e al sovrano sedente in Vienna nella sua duplice qualità di Sacro Romano Imperatore della Nazione Germanica e di Re Apostolico d’Ungheria. 95


aveva continuato ad esigere denaro. A questa, che era di per sé una notevole fonte d’irritazione per Roma, se n’era aggiunta nel 1716 una seconda: la guerra coi Turchi. Profittando dell’apparente isolamento veneziano, dell’altrettanto apparente esaurimento austriaco e della recente vittoria sui Russi, nel 1714 improvvisamente i Turchi avevano assalito la Morea, in mano veneziana dal 1699. Le guarnigioni venete sparse in sei piazze principali in tutto il Peloponneso fra tutte non arrivavano a 7.000 uomini, mentre gli Ottomani ne avevano 100.000 e concentrati. Andò come doveva andare: le fortezze veneziane, aggredite separatamente, caddero una dopo l’altra, la Morea fu persa e gli Ottomani si affacciarono in Adriatico. Venezia chiese aiuto. L’Austria nicchiò perché temeva un intervento spagnolo in Italia. Il Papa fece da intermediario con Madrid; e la Spagna promise di non muoversi contro l’Impero e d’aderire alla guerra coi Turchi. Clemente XI allora bandì la Crociata, a cui risposero pure l’Ordine di Malta e i Principi italiani, come d’abitudine, compreso il Duca di Parma. Anche Alberoni fu rapidissimo nei preparativi, ma la Spagna si mosse con relativa lentezza, perché il Re voleva così. C’erano in sospeso tutte le questioni che poi sarebbero state risolte col Concordato del 1717 e, se Filippo accettava i vantaggi della Bolla della Crociata, che gli consentiva ufficialmente d’adoperare parte delle rendite del clero spagnolo per le spese militari, non accettava di non essere soddisfatto nelle sue richieste a Roma Comunque a febbraio del 1716 Alberoni poté scrivere al conte Rocca: “Queste Maestà hanno risoluto soccorrere il Papa, quando veramente voglia essere soccorso. Il suo timore è di Costantinopoli, però non so se debba essere maggiore quello di Vienna.”CIX Usando pure i soldi della Crociata, nel corso dell’anno furono messe a disposizione del Papa dieci navi, ma qui si verificò un intoppo che ebbe poi notevoli conseguenze. Il Re non era ancora disposto all’intervento; Alberoni e la Regina invece si, tant’è vero che a maggio l’Abate scriveva d’aver ricevuto il nunzio Aldrovandi, col quale: “…non ho poco faticato per più cose, e particolarmente per il soccorso, per cui ho havuto a combattere otto giorni continui questi Consigli, i quali col pretesto specioso che prima partissero i legni da Cadice era necessario riportare dal Papa le dovute sicurezze, la quale proposizione se havesse avuto luogo addio soccorso. La conclusione è stata che questa Maestà li ha abbandonati generosamente a S.S. la quale vi farà porre i suoi stendardi e ne disporrà come vorrà. Vi assicuro che sei vascelli e cinque galere come quelle che si danno da questo monarca non si vedranno in tutta l’armata de‘ Principi Cristiani. Ogni galea ha d’augmento quaranta marinari e trenta granatieri ed il simile de’ vascelli a proporzione. Hanno viveri e munizioni e denaro per sei mesi.”CX Il 27 maggio le navi erano in armamento a Barcellona, però non si sarebbero mosse prima di altri dieci o dodici mesi, infatti Alberoni, senza entrare in troppi particolari, scriveva: “con tutte queste ed altre spedizioni marittime ho portato il Re a pubblicare la partenza della flotta dentro quest’anno, la quale certamente partirà da Cadice dentro il prossimo marzo.”CXI Entrò però nella questione il cardinale del Giudice, Grande Inquisitore di Spagna e zio dell’ambasciatore in Francia. Vecchio nemico della Principessa Orsini, era stato spedito in Francia poco prima della fine della guerra e poi eliminato dal novero dei ministri. La caduta della Orsini l’aveva rimesso in auge e nel febbraio del 1715 era stato nominato prima ministro per gli affari di 96


giustizia ed ecclesiastici, poi governatore dell’erede al trono, don Luigi principe delle Asturie, ottenendo infine pure il controllo degli affari esteri e divenendo di fatto il primo ministro. Adesso del Giudice stava silenziosamente complottando contro Alberoni, cercando di tirare dalla sua Laura Pescatori, l’antica balia d’Elisabetta da lei chiamato in Spagna una volta regina. Alberoni l’aveva capito e stava contromanovrando con una bella lettera falsa in cui si accusava del Giudice d’essere filo-francese, ma il cui risultato sarebbe stato dubbio, quando il Cardinale di rovinò colle sue mani: suggerì al Re di non mandare i vascelli ad aiutare i Veneziani a Corfù, ma di fermarli a Porto Longone, ricattando il Papa col minacciare di non farli muovere se Roma non avesse ceduto su tutto il contenzioso con Madrid. Questo fece infuriare Elisabetta e bastò a far sì che nel luglio del 1716 del Giudice perdesse sia gli incarichi ministeriali, sia il governo del Principe delle Asturie. Rimase Grande Inquisitore, ma da quella carica in passato aveva avuto complicazioni serie, che erano state all’origine dei suoi guai precedenti e altre se ne poteva aspettare adesso, per cui, quando il 12 luglio 1716 ebbe il biglietto con cui lo si esonerava, rispose chiedendo che d’accettare le sue dimissioni pure dal Grande Inquisitorato e il permesso di ritirarsi nel suo arcivescovato di Monreale, vicino a Palermo. Filippo fu d’accordo e propose al Papa di nominare nuovo Grande Inquisitore monsignor Giuseppe Molinos, reputatissimo in Spagna e in quel periodo a Roma. Ne sarebbero venuti dei guai. In questa complicata situazione Alberoni come uomo del Re doveva fare quanto gli ordinava Filippo, come ecclesiastico quanto gli ordinava il Papa, come Alberoni trovò un compromesso. Avrebbe preferito evitare l’intervento. La notizia della vittoria imperiale a Petervaradino il 5 agosto 1716 non gli piacque affatto: “…quelle bestiazze de’Turchi si sono fatte battere sì mal a proposito e con così poco giudizio; quando dovevano per ogni ragione mettersi dietro la Sava o sotto il cannone di Belgrado e vedere l’esito di Corfù… Questa vittoria, se è tale e quale la pubblicano, sarà fatale per la povera Italia.”CXII C’era infatti da attendersi che, una volta liquidata con successo la partita nei Balcani, l’Impero rafforzasse ulteriormente la sua presenza ed autorità in Italia, il che implicava un’ulteriore perdita d’autonomia per Parma. Con quelle prospettive l’ideale sarebbe stato non far partire la squadra, ma poteva esimersene? Ovviamente no. Comunque: armarla era un conto, che poi partisse un altro, perciò nell’inverno del 1716-17 la preparò per la campagna imminente. Il 5 aprile 1717 scrisse al suo vecchio amico marchese Monti, assicurandogli che: “Vi do parola che la squadra in caso vaddi farà strepito in Italia e da per tutto ove comparirà. E’ con i fiochi. Vassello a parte per i viveri, altro per l’ospitale, in somma siate sicuro che servirà d’ammirazione. Ho fatto fare per questa spedizione un Intendente generale di tutta la marina di Spagna homo ottimo di gran comprensione e di grande capacità nella professione. Vi parerà cosa particolare, e pure è vero e col tempo intenderete parlare di quest’homo. E’ fratello del Marchese di Castellar, però tutto differente. E’ stato 18 anni Giesuita.”CXIII Si trattava di Giuseppe Patiño y Rosales, un quarantenne che avrebbe fatto una splendida carriera. Era stato fino allora Intendente della Catalogna con ottimi risultati e ciò aveva indotto Alberoni a proporlo al Re per la nomina a Intendente de la Real Armada, cioè della Marina, che avrebbe riformato e riorganizzato da cima a fondo in modo encomiabile. Una settimana dopo, il 12 aprile 1717, Alberoni tornava sull’argomento e scriveva, sempre a Monti: “Sedici vascelli saranno pronti a partire la metà del venturo, quando voglia così il Papa, e vi ho scritto che stanno provvisti in supremo grado e che sarà una spedizione 97


con i fiocchi. Tanto mi assicura Pattigno. E’certissimo che io non ho mancato quanti danari m’han dimandato.”CXIV Infine, il 25 maggio, rilevando come in otto mesi scarsi avesse armato una flotta di circa trenta legni, cosa che in Spagna non si faceva da tre secoli, scriveva: “si sono armati quattro grossi vascelli con viveri per 14 mesi per il mare del Sur; due per Buenos Aires; due per Onduras, due per l’Havana che partirono quindici giorni sono, carichi di diversi generi…; tre per la flotta che sortirà di Cadice fra quindici giorni; uno per Cartagena che porta il nuovo Vice Re ed infine dodici altri per la squadra di Levante, con due fregate una per i viveri o sia magazzeno l’altra per ospitale, con il di più di due brulotti. Questa squadra ha viveri per otto mesi, e porta seco danaro fisico55 per altri quattro mesi. Sta tripolata56 di perfetta marineria e soldati scielti; ha buonissimi Comandanti, con 240 guarda marina tutti giovani nobili di bella presenza e vestiti uniformi” e concludeva “La squadra parte senza niuna condizione e s’abbandona alla autorità del Papa.”CXV Ce n’era a sufficienza per proporlo cardinale? Altri avevano avuto la dignità per molto meno. A Roma pure il duca di Parma spezzò una lancia in favore d’Alberoni, perché avrebbe avuto un suo suddito nel Sacro Collegio e dunque una voce nell’elezione del futuro Pontefice; però gli ostacoli erano molti e il più irriducibile era nella volontà del Papa: Clemente XI non ne voleva sentir parlare. Non pare che in quel momento avesse ancora nulla di personale contro Alberoni, ma ce l’aveva con la Spagna. Incaricato delle trattative con Roma, commentava l’Abate a Rocca nell’estate del ‘16: “Toccante le pendenze colla Corte di Roma, se chi le ha trattate havesse avuto un poco di carità cristiana, le haverebbe terminate tanto tempo fa. Separazione di commercio e di interessi non può haversi con quella Corte, a meno che non si voglia seguitare l’esempio dell’Inghilterra.”CXVI Ovviamente per commercio si intendevano le pure e semplici relazioni e queste righe significavano: trattando col Papa, o si fa uno scisma e si continuano le relazioni diplomatiche, o bisogna rassegnarsi a mescolare gli affari interni a quelli diplomatici. La faccenda non fu semplice e Filippo V vi s’impuntò come forse mai nessuno prima di lui. La spuntò il 10 maggio 1717: “Tenne lunedì mattina il Papa il Concistoro Segreto…. L’eminentissimo Aquaviva non intervenne in questo Concistoro, in osservanza degli ordini venutigli da Madrid di non andarvi, se prima non venghi effettuata la dimandata Promozione al Cappello dell’Abbate Alberoni; e si conferma, che Monsig. Aldrovandi habbia da quella Corte ricevuto l’ordine a Perpignano di non avanzarsi ne’ Regni di Spagna, finche non segua la sudetta Promozione.”CXVII L’indomani a Madrid Filippo V ordinò pubblicamente che la squadra destinata al Levante non si mettesse agli ordini del Papa come l’anno prima e si unisse direttamente ai Veneziani, cosa che l’ambasciatore veneto s’affrettò a comunicare alla Repubblica. Pure questo era un segnale d’estrema freddezza e la promozione d’Alberoni sembrava essere il nocciolo della questione. 55 56

Per denaro fisico si intendeva denaro in contanti, cioè non in lettere di cambio. Tripolata è uno spagnolismo che significa “equipaggiata”, dallo spagnolo “tripulaciòn”, che vuol dire “equipaggio”. 98


Il 14 giugno si seppe dell’arrivo di monsignor Aldrovandi a Madrid e d’una sua udienza dal Re: evidentemente – si dedusse – le diatribe con Roma erano finite. Dopo lunghe discussioni l’accomodamento fu trovato e a fine giugno del 1717 Alberoni poté annunciare a Rocca d’aver firmato il concordato come plenipotenziario del Re Cattolico.CXVIII Poi, lunedì 12 luglio, si giunse alla conclusione. “Il Papa tenne lunedì mattina il Concistoro Segreto, nel quale, doppo date le consuete Udienze a’ Sig.ri Cardinali, e proposti diversi Vescovati, creò Cardinale dell’ordine de’Diaconi l’abbate Giulio Alberoni Parmeggiano, raccomandato dal Duca e Duchessa d’Angiò:57 S.S. fece al medesimo un’Eloggio, come Persona sì bene merita della Santa Sede, per considerarsi dallo stesso composte le differenze trà questa e la Corte di Madrid, & ottenuto dal detto Duca che mandasse le 12 Navi di linea ed altri minori Legni in ajuto de’Veneti à richiesta di Sua Santità.”CXIX Commentava Alberoni a Rocca il 3 agosto: “Ecco terminata la famosa pendenza con la mia promossione al cardinalato, con indicibile contento di queste Maestà.”CXX A dicembre fu proposto dal Re per la sede vescovile di Malaga e il Papa gliene spedì le bolle a volta di corriere. Malaga però non parve abbastanza. A chi? Ad Alberoni, sostenne poi il marchese Ottieri; ma il diretto interessato, scrivendo al conte Rocca il 21 novembre, la mise giù diversamente: “…passo a V. S. Ill.ma come interessata ne’ miei vantaggi la notizia havere queste Maestà usato meco nuovi generosissimi effetti della loro reale beneficenza nel nominarmi all’insigne Arcivescovato di Siviglia vacato per la morte de fu Sig. Card. Arias.”CXXI Diceva la verità? Come saperlo? L’iniziativa era stata dei Reali, certo, ma l’idea era loro o gliel’aveva suggerita Alberoni come quando aveva insinuato alla Regina la possibilità di farlo papa? Forse Siviglia, più ricca e più grande, era più importante perché arcidiocesi, mentre Malaga era una suffraganea di Granada? Però entrambe erano state rette da cardinali intervallati da vescovi, per cui non si può attribuire la nomina a Siviglia all’essere una diocesi adatta a un cardinale; e poi Alberoni non era ancora stato consacrato vescovo. Secondo Rousset de Misy l’Austria si fece sentire a Roma: come pensavano che Sua Maestà Imperiale potesse aver piacere di vedere investito dell’arcidiocesi di Siviglia chi aveva appena scatenato la guerra contro la Sardegna? E il Papa stavolta differì la spedizione delle bolle, provocando la reazione della Corte spagnola. In seguito Alberoni postillò così la sua copia della biografia: “Il Cardinale pregò le loro Maestà a non romperla col Papa. Al che gli fu risposto dalla Regina che essendo Cardinale poco curava dei diritti del Re vulnerati dal Papa. E dal Consiglio e Camera di Castiglia furono fatte grandissime rimostranze al Re di doverli difendere e conservare.”CXXII Insomma è difficile stabilire chi avesse ragione e conviene contentarsi di conoscere entrambe le versioni: di Ottieri e di Alberoni, tanto non ha molta importanza. Importa invece sapere che alla fine di quello stesso anno il Re lo nominò amministratore dell’arcidiocesi di Tarragona, dalla quale, per sua esplicita ammissione, avrebbe tratto “da sessanta a settanta mila pezze” cioè fino a 70.000 pezze da otto.CXXIII Bisognerà ricordarsene. 57

Il duca e la duchessa d’Angiò sono Filippo V ed Elisabetta, indicati così perché questa notizia fu stampata a Vienna e l’Imperatore Carlo VI non riconosceva loro la corona di Spagna, che reclamava sua come Carlo III. 99


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Capitolo XIII Le paure del duca Il 5 marzo 1729 Montesquieu, allora a Roma, andò a trovare Alberoni. Lo interrogò a lungo a proposito dell’impresa d’Italia del 1717 e annotò poi: “Dice che si era convenuto con il re di Svezia di fare lo sbarco in Inghilterra; che egli poi cambiò idea e che rinviava a dopo l’assedio di Frederikshald, e che perciò non riteneva di dover disporre del denaro che era stato mandato in Olanda a questo scopo. Alberoni gli rispose: che egli non pretendeva di dare consigli ad un principe come lui, e che pertanto egli si rimetteva completamente alla sua saggezza; che gli sembrava che dopo la spedizione progettata quella che egli intraprendeva sarebbe stata più facile; e che, quanto al denaro, dato che era un re ad avere a che fare con un altro re, lo supplicava a nome del suo padrone di disporne; non soltanto per i suoi progetti, ma anche per i suoi capricci. Dice che avrebbe sconfitto gli Inglesi con una squadra di 5 o 6 vascelli nelle Indie, che avrebbe depredato le loro navi mercantili; con alcuni vascelli sulle coste dell’Oceano, e del Mediterraneo, per attaccare ancora le loro navi mercantili; che aveva fatto portare via tutta la lana che gli Inglesi compravano anticipatamente, allo stesso prezzo e sempre anticipatamente, che infine Peterborough, fornito di 100.000 lire sterline inglesi, e d’altrettante francesi, lo spodestò. Essi portarono dalla loro (mi è stato detto) anzitutto il defunto duca di Parma, a cui piaceva dare consigli, e di cui l’Alberoni non aveva fatto gran caso. Dice che si è guadagnata la fiducia delle truppe spagnole facendo fare carriera a dei buoni ufficiali che aveva visti agli ordini di Vendôme e che non avevano avuto promozioni. Aveva mandato un brevetto di colonnello a chi non se lo aspettava: lo indirizzava al capitano generale, e l’uno e l’altro ne rimanevano stupiti. Aggiunge che, se il Re avesse voluto attendere cinque o sei anni, egli avrebbe ben bene imbrogliato il Reggente e re Giorgio; che avrebbe avuto 50 vascelli di linea, e Forbin, con 50 ufficiali per comandarli.”CXXIV E’ plausibile che nel 1729 Alberoni desse un quadro molto pro domo sua di quanto era capitato dodici anni prima, ma è possibile che a Montesquieu abbia detto la verità. Però, se quei piani erano così dettagliati, perché attaccò quando non era pronto? Semplice: gli forzarono la mano e dové ubbidire, non poteva fare altro. Adesso occorrerà procedere con calma, perché il nocciolo della persecuzione e della fama d’Alberoni è tutto qui, in ciò che fece e nel fatto che fu obbligato a farlo e poteva dimostrarlo. La storiografia tradizionale sostiene che la politica madrilena dalla fine della precedente guerra era stata incerta fra due intese: coll’Inghilterra contro l’Austria per recuperare i territori italiani, o coll’Austria contro l’Inghilterra per riconquistare Gibilterra e Minorca e svincolarsi dai privilegi commerciali forzatamente concessi in Sud America. L’intesa coll’Inghilterra, come abbiamo visto, era sfumata al principio del 1716 colla firma del Trattato di Westminster; o meglio: se ne sarebbe potuta avere una a condizione di rinunciare a qualsiasi tentativo in Italia, ma questo non andava bene né al Re né alla Regina. Filippo voleva quanto era stato della Spagna; Elisabetta che la Toscana passasse ai Farnese e l’assicurazione d’un trono in Italia, dunque per forza a spese dell’Austria, per i suoi figli, Carlo e Filippo, allora praticamente esclusi dalla successione alla corona spagnola dall’esistenza di Luigi e Ferdinando di Borbone. A questi due elementi se ne aggiunse un terzo di stampo prettamente farnesiano: la conservazione del Ducato. L’Austria era in Italia; e, come sappiamo ciò che un tempo era stato un 101


vago vassallaggio nei confronti di un Imperatore debole e lontano, dal 1690 si stava trasformando in una serie di pesanti obblighi nei confronti d’un Imperatore potente, militarmente forte e confinante. Preoccupato, il duca di Parma ordinò allora al suo vecchio agente Alberoni di darsi da fare per ottenere un intervento spagnolo contro l’Austria in Italia. Va detto subito che qui non svelerò nulla di ignoto; dimenticato si, ma ignoto no, perché già nel 1910 Emile Bourgeois, nel suo Le secret des Farnèse, aveva detto quanto sto per scrivere.CXXV Ci saranno parecchi dettagli in più, qualche ulteriore conferma, ma non delle vere e proprie novità. Se dovessero apparire tali, sarà perché evidentemente pochi hanno letto Bourgeois e ne han tenuto conto. Cominciamo. Moltissima storiografia corrente, ancora imbevuta della propaganda d’allora e all’oscuro delle ricerche di Bourgeois, nonostante coll’inizio del terzo millennio abbiano compiuto un secolo d’età, continua a sostenere che la causa scatenante dell’attacco spagnolo contro l’Italia sia stato l’arresto del nuovo Grande Inquisitore di Spagna, monsignor Molinos, avvenuto nel Ducato di Milano il 2 giugno del 1717. Ci arriveremo. Per ora basti dire che non fu così. L’arresto di Molinos ebbe un peso, ma la miccia fu accesa da qualcun altro e in un altro modo. Nominato da Clemente XI Grande Inquisitore di Spagna il 24 dicembre 1716 in sostituzione del cardinale del Giudice, don José Molinos partì per Madrid il 19 aprile del 1717. Il nunzio in Spagna, Aldrovandi, l’aveva avvertito di non traversare gli Stati imperiali: a Milano non tirava una buona aria ed era meglio passare direttamente in Liguria e di lì proseguire. Molinos non gli diede retta e Alberoni poche settimane dopo avrebbe scritto di lui: “è uno di quegli homini che ha passato appresso questa nazione per un Oracolo, quando parmi che in tutto il suo ministero non si sono vedute che stravaganze, ed operazioni del tutto irregolari,”CXXVI Aveva un’ottantina d’anni e, al di là del fatto che non potesse fare il viaggio per mare per via dell’età, pare che confidasse abbastanza nella sua importanza e molto sia nel passaporto pontificio datogli dal cardinal Paolucci, che nelle assicurazioni di impunità avute a Roma dal cardinale Schrottenbach. Nel maggio del 1717 entrò nel Ducato di Milano e il 27 fu chiuso nel Castello Sforzesco, d’ordine del governatore Löwenstein: ci sarebbe morto due anni dopo.58 La notizia provocò a Madrid la furia del Re: l’affronto era grave e calcolato; ma era davvero così grave? Tanto da scatenare una guerra? No, per la Spagna no; per Parma è un altro discorso. Francesco Farnese stava tramando molto copertamente per un intervento spagnolo contro l’Austria, senza rendersi nemmeno lontanamente conto di cosa poteva provocare. Visti i precedenti, temeva che alla fine dei combattimenti nei Balcani l’Imperatore avrebbe ripreso a occuparsi dell’Italia, tornando a gravare su Parma. Occorreva evitarlo e una dimostrazione di forza poteva servire da deterrente. Parma non poteva farla, la Spagna si, perciò Francesco iniziò a preparare il terreno. Il 17 maggio, una decina di giorni prima dell’arresto di Molinos, aveva già spedito una lettera ad Alberoni, dicendogli che occorreva: “prendere sollecita prevenzione per opporsi alle vaste ed ambiziose idee dell’Imperatore” che probabilmente sarebbero state messe in atto dopo la fine della Guerra di Morea.CXXVII 58

Riportarono gli Avvisi Italiani: “Milano 2. Giugno. Giunto qui da Roma Monsig. Molines, Inquisitore Generale Angiuino di Spagna, è stato il medesimo arrestato in questo Reale Castello, e segli è fatta la ricognizione delle scritture e di quanto portava seco. Si attende il ritorno del Corriere spedito a Vienna, per havere nuove disposizioni sopra tale arresto; e si è anco spedito a Roma un Espresso, per dare conto de’motivi, che hano persuaso a tale risoluzione.”, cfr. “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1717”, “Il corriere ordinario”, pag. 96, Giorno di Posta XLIVIII, 16 giugno 1717, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1717. Nel successivo avviso pubblicato il 23 giugno, fu spiegato il motivo: Molinos era stato preso per “non haver havuto il necessario passaporto Cesareo.” 102


Arrivata a Parma la notizia dell’arresto di Molinos, Francesco Farnese il 27 maggio stesso mandò due lettere a Madrid: una pubblica ed ostensibile, una segreta e non ostensibile, con cui richiamava in servizio il suo agente segreto Giulio Alberoni. La prima parte era uguale per entrambe e narrava l’affare Molinos. Poi la prima lettera diceva: “Voi sapete per quali motivi che voi stesso siete in grado di giudicare, noi non abbiamo creduto conveniente di impiegare questo incidente a un’impresa diretta in Italia.”CXXVIII La seconda, quella vera e segreta, invece ordinava: “Dal predetto incidente di Mons. Molinos comprenderete come si osservi la neutralità d’Italia, e quali possano essere le segrete intenzioni dell’Imperatore. Potete voi considerare se questa fosse un’occasione opportuna per far volgere a quella parte i Vascelli e rispondere con qualche dimostrazione di risentimento.”CXXIX Per maggior segretezza, le due missive erano state mandate a Vincenzo Bacallar Sanna, marchese di San Filippo, nato in Sardegna, ambasciatore spagnolo a Genova, con preghiera di inoltrarle a Madrid e di aggiungervi un incitamento a misure molto forti. San Filippo eseguì, indirizzando il suo rapporto direttamente al Re, come doveva. Le due lettere dunque proseguirono e arrivarono a destinazione nella notte fra il 7 e l’8 giugno 1717. Alberoni capì al volo cosa si rischiava in generale e cosa rischiava lui. La firma del concordato era fissata al 17 giugno; dal concordato dipendeva il cappello, dal cappello la sua relativa incolumità. Scatenare una guerra non avrebbe ritardato la firma, però avrebbe fornito materia per un ulteriore diniego della porpora, specie se quella guerra fosse iniziata usando la flotta promessa al Papa contro i Turchi. Decise di prendere tempo e l’indomani rispose al Duca: “L’attentato è barbaro, però pazza è stata la condotta di quel miserabile Molines nel passare per lo Stato di Milano; questo è uno di quegli homini che ha passato appresso questa nazione per un Oracolo, quando parmi che in tutto il suo ministero non si sono vedute che stravaganze, ed operazioni del tutto irregolari.”CXXX Poche righe dopo aggiungeva che qualsiasi cosa si decidesse sull’impiego della squadra navale, non bisognava dimenticare la parola data al Papa. Questo non era l’atteggiamento sperato da Francesco Farnese e nemmeno da Filippo V, che dall’Escuriale chiese il parere del duca di Popoli, in quel momento a Madrid, su una spedizione in Italia. La risposta del Duca fu chiara: “Signore, havendo fatta seria riflessione abbenché per brevissimo tempo sopra il contenuto del Real Dispaccio di Vostra Maestà, e della lettera del marchese di S. Filippo, devo rappresentare a V.M. che è innegabile che tutti li Passi, che hanno dati gli Alemanni, doppo il Trattato della Neutralità de Italia, sono stati o sono tali, come succede in questo ultimo di D. Giuseppe Molines, che pongono Vostra Maestà in precisa necessità di servirsi delli suoi diritti, e delle forze che Iddio ha poste nelle sue Reali Mani per reprimere l’orgoglio de’ suoi nemici e vendicarsi di loro senza che il Mondo possa avere il minimo motivo di considerare Vostra Maestà per infrattore della riferita neutralità. Il tempo, secondo discorre Vostra Maestà colla Sua alta comprensione, non può essere megliore, né più favorevole per la così viva diversione della Guerra al Turco, e così sono di parere, Signore, che V.M. subito ordini che si facciano tutte le disposizioni necessarie si delli Vascelli che sono pronti, come di quelli che si possono armare delle Truppe, munizioni, viveri e mezzi, acciocché le forze di V.M. passino con la maggior brevità che si potrà a tentar l’invasione o sia del Regno 103


di Napoli, o di quello di Sardegna, la cui elezione richiede più tempo per pesarla bene.”CXXXI Questo era un netto incitamento alla guerra. L’indomani il duca di Popoli precisò meglio le sue idee: “Doppo varie riflessioni sarà conveniente al Real Servitio di Vostra Maestà, che si tenti in primo luogo quella di Napoli, come opera di maggior importanza e la più essentiale” se però, aggiungeva “quei cittadini oppressi dalla forza e dall’abbattimento loro non havessero coraggio di rompere le sue catene, in questo caso puol la flotta passare a mettersi avanti Cagliari per tentare il medesimo.”CXXXII Ove pure quel tentativo fallisse, la flotta poteva essere mandata “in un sito per soccorrere le Armi ausiliarie nella Guerra di Levante.”CXXXIII L’ultimo consiglio che si dava era d’affidare il comando della spedizione al marchese van Leeden, il cui cognome era ispanizzato in De Lede. Militarmente parlando il duca di Popoli aveva dato delle indicazioni giuste, ma non aveva considerato le implicazioni politiche e le conseguenti reazioni. Nemmeno Filippo V era propenso a farlo. Consegnò le due lettere ad Alberoni per dimostrargli quanto differisse dal suo il parere d’un militare esperto. Lettele, Alberoni, preoccupatissimo, scrisse al duca di Popoli e cercò di spiegargli la situazione: “Il Re mi ha posto in mano i fogli di V.E. toccanti un affare la di cui prima proposizione mi fece orrore e spavento, vedendo a mio corto giudizio, che quando riuscisse potrebbe porre a repentaglio questa povera Monarchia abbattuta e che non può respirare senza il beneficio d’una longa pace. Andiamo dunque a considerare il motivo degl’insulti, e violenze, che fanno i Tedeschi, e fra questi diciamo, che la violenza fatta a Mons. Molines è una infrattione di Pace o sia neutralità accordata all’Italia nel trattato d’Utrecht. Io domando a V.E. se tra il Re di Spagna e l’Arciduca vi è amistà o animistà; se vi è amistà dunque ha da parere straordinaria qualunque represaglia che faranno i Tedeschi sopra i Vassalli del Re Cattolico, e di questa represaglia crederà V.E. che le Potenze Marittime e la Francia la prenderanno per una infrattione alla suddettà neutralità. Ma supponiamo che veramente si possa dire infrattione: con quali forze, con qual denaro può tentare oggi giorno il re Cattolico una invasione nel Regno di Napoli? Però voglio ancora che vi siano due milioni di pezzi in contanti, che vi sia flotta, e che vi siano legni di trasporto, che vi siano viveri, monitioni, artigliaria, che si vada a Napoli, che tutto il Paese sia per il Re, che si possa mantener nel Regno di Napoli. Tutto questo treno poi non vi è oggi, diciamo, Signor duca di Popoli, quanto tempo ci vorrà per unirlo? Ignora V.E. che per la spedizioni di Maiorca vi volesse dieci mesi? Bisognando sì lungo tempo per far simili preparativi si dovrà lasciare in un Porto di Cadice o di Barcellona una squadra destinata a sì gloriosa impresa perire nell’otio, con vergogna e scandalo di tutto il mondo. Consideri V.E. che l’Arciduca prima di dichiarare la guerra al Turco, volle che il Papa si assicurasse che il Re di Spagna non attaccherebbe i Stati che possiede in Italia, ed infatti il Re nostro Sig.re diede questa parola al Papa: potrà il Re Cattolico prendere la represaglia di Mons. Molines per una infrattione di neutralità ed in conseguenza motivo di ritirar la parola data? Sig. Duca mio Sig.re, la Garantia delle Potenze Marittime e della Francia sopra la detta neutralità è stata non si portino le armi in Italia, ne che s’alteri il possesso di quelli che vi hanno Dominii, però se succedono represaglie non devono considerarsi fra due Potenze nemiche. Supposto dunque lo sbarco e le nostre Truppe al possesso interno del Regno, io considero che 104


questa nostra felicità e vantaggi si potrebbero desiderar da’Tedeschi, mentre li daressimo una fondata raggione di venire all’esecuzione di quella vasta idea la quale credono li possi venir contrastata, quando la tentassero senza qualche motivo di raggione; può credersi dunque per indubitato, che alla prima notizia, che ricevesse Vienna di un tal Disbarco, o farebbe la Pace subito col Turco, o si porrebbe su la difensiva e con un distaccamento solo di 18 mila huomini calasse in Italia, e impossessandosi subito de’Stati di Parma e Piacenza, ed indi della Toscana. Supposto il nostro felice disimbarco e pacifico possesso del regno, bisognerà tener sempre la flotta a Napoli, tutti i legni nolegiati per il trasporto, senza i quali potrebbe arrivare che il Re non potesse ritirare le sue Truppe. Che diranno gl’Olandesi di veder simile tentativo nel tempo che assicurano voler far lega colla Spagna, e di voler riconciliare il Re Cattolico coll’Arciduca? Che dirà l’Inghilterra conscia di tal trattato, che lo sollecita? Che dirà la Francia, che offre di portar le Potenze Marittime ad assicurare presentemente per l’Infante Don Carlos gli Stati di Parma, Piacenza, e la Toscana? Ah, Signor Duca mio, queste sono idee guaste, questo è un pensiero da tirar le ultime sciagure sopra questi Re Giovani ed innocenti, ed in una parola far credere al mondo savio, che pochi Italiani Pazzi nelle passioni del loro Paese anno portato questi Re all’ultimo sterminio e tutta la Spagna al total eccidio. Senza Collegati non può il Re Cattolico pensare a far conquiste in Italia” e concludeva dicendosi felice che, comunque fosse andato l’affare, “...tutto il mondo sappi, che il mio cortissimo intendimento non l’aveva approvato.”CXXXIV Conservò entrambe le lettere e la minuta della sua risposta: potevano servire. Popoli, bloccato in casa dalla gotta, gli rispose giustificandosi: aveva creduto la decisione già presa e che il Re gli stesse domandando come eseguirla, non se convenisse farla. Piegò la lettera d’Alberoni nella sua risposta, sigillò e fece avere il plico al marchese Grimaldo.59 Poi preparò una nuova lettera a Filippo V in cui, affermando d’aver avuto uno scambio di vedute con Alberoni, sostanzialmente smentiva quanto aveva scritto il giorno prima, facendo sue le osservazioni sulle difficoltà logistiche enunciate da Alberoni. Sigillò e fece avere pure questa lettera a Grimaldo, che doveva recarsi all’Escuriale il giorno dopo. L’indomani il marchese andò dal Re e sappiamo da una sua lettera al Duca di Popoli cosa avvenne. “Colla lettera di V.E. nella notte passata, ho ricevuto questa mattina quella che veniva per il Re, da me posta immediatamente nelle sue mani reali. E portando con essa nel mio cappello le altre due che venivano indirizzate al conte Alberoni e marchese del Surco,60 osservò S.M. le medesime e disse: queste pure sono di Popoli. Si signore, risposi, e presasi da S.M. quella dell’Alberoni, suppongo fosse per consegnargliela.”CXXXV Filippo aprì la lettera di Popoli, ci trovò quella d’Alberoni, lesse entrambe, chiamò il padre Daubenton, gliela mise in mano e gli ordinò di portarla ad Alberoni, chiedergli se la riconosceva come sua e dirgli che “Sua Maestà era molto mal soddisfatta” di quanto aveva scritto. Daubenton eseguì e Alberoni non solo ammise tutto, ma chiese e ottenne che Daubenton la autenticasse, scrivendoci sopra, come fece: “Per ordine del Re ho restituita questa lettera al Signor conte Alberoni.”CXXXVI La conservò. Poteva servire. 59

Benché lo si trovi a volte indicato come Grimaldi, questo è José de Grimaldo y Gutiérrez de Solórzano, marchese di Grimaldo, Primo segretario di Stato e del Dispaccio di Stato, nato a Madrid il 13 luglio 1660 e mortovi il 3 luglio 1733. 60 Fernando Suárez de Figueroa, marchese del Surco era il governatore del primogenito del Re, il principe delle Asturie don Luigi. 105


Gli ordinarono di procedere, sicché l’indomani, 11 giugno, scrisse a Patiño convocandolo a Madrid e ordinandogli di mandare intanto la squadra a Barcellona. Patiño stava allestendo le navi per la campagna in Levante contro i Turchi fin dal gennaio di quell’anno su ordine d’Alberoni. Il 15 maggio aveva avvertito d’essere praticamente pronto; il 19 Alberoni gli aveva risposto di far partire la squadra per il Levante appena pronta e di darne avviso a Madrid perché lo si potesse comunicare a Roma, per cui adesso questa convocazione era inaspettata ma non insolita: obbedì e partì per la capitale. Il 14 giugno Alberoni scrisse in cifra a Francesco Farnese di non valersi più di San Filippo, perché le sue lettere andavano in mano ai ministri – notoriamente non amici del duca di Parma – e le notizie trapelavano, come pure occorreva non fidarsi di chi era in contatto colla Corte giacobita in esilio a Roma, perché era piena di spie inglesi per sorvegliare gli Stuart. Rousset de Misy affermò che Alberoni avesse indotto Filippo V a correre alle armi per difendere i suoi diritti sugli stati persi a Utrecht, tanto più che proprio il trattato di pace lo autorizzava a farlo visto quanto accadeva in Sicilia. Nella sua copia personale, il Cardinale postillò quel passaggio e scrisse: “Tutto falso. La massima dell’Alberoni era che il Re di Spagna dovesse star contento del Continente di Spagna, e dell’Indie, considerando tutto il resto di peso, e di pregiudizio alla Spagna.”CXXXVII E poco oltre ribadì: “Tutto falso. e si vede nella lettera che Alberoni scrisse al Duca di Popoli.”CXXXVIII Nel punto, infine, in cui Rousset sosteneva che avesse convinto a Filippo V a sfruttare l’affare Molinos come casus belli, commentò: “Tutto il contrario. Alberoni disse in voce ed in scritto al Re che l’arresto di Mons. Molinos non era motivo sufficiente per far la guerra all’Imperatore in Italia. furono il Duca di Parma e Marchese di S. Filippo Inviato del Re a Genova che sollicitarono la Corte di Madrid a vindicare l’affronto dell’arresto.”CXXXIX Non ci fu nulla da fare. Il Re riteneva d’essere stato offeso a sangue, odiava l’Imperatore e voleva riprendersi gli Stati italiani persi cinque anni prima, perciò doveva scatenarsi la guerra. Alberoni doveva obbedire, che altro se no? All’ultimo istante, come stiamo per vedere, riuscì a ottenere una mezza misura: invece di Napoli sarebbe stata presa la Sardegna. Patiño arrivò a Madrid e si presentò ad Alberoni il 24 giugno. Fu ricevuto con marcata indifferenza, senza una parola sulle navi e gli fu consigliato d’andare a riposarsi. Chiese di riverire il Re e gli fu risposto che la visita non era necessaria: poteva ritirarsi e si sarebbero rivisti a cena. La sera, a cena da Alberoni, si parlò di molte cose ma non della flotta. L’indomani Patiño domandò all’Abate che l’avesse chiamato a fare. Alberoni sembrò svegliarsi di colpo e gli rispose che il Re era al corrente del ritardo e del cattivo modo in cui era stata allestita la squadra e l’aveva fatto convocare a renderne conto con una relazione scritta. Patiño, irritatissimo, offrì le sue dimissioni seduta stante; e allora Alberoni cambiò atteggiamento per la seconda volta e “gli disse, che il Rè aveva risoluto di fare una spedizione per la conquista del Regno di Napoli, e doveva esserne esso incaricato.”CXL Vedendosi cadere una simile tegola in testa, Patiño fece un monte di difficoltà; e come dargli torto? Un conto era andare ad unirsi alla forte flotta veneziana contro i Turchi per una campagna navale, tutt’altro affare mettere in piedi contro l’Impero in pochi giorni un’operazione anfibia a lunga distanza, per la quale non c’era nulla di pronto, a partire dal contingente da sbarco. Alberoni tagliò tranquillamente corto: lo spiegasse al Re nell’udienza imminente. In una riedizione del Vangelo, Patiño si vide sbattuto da Caifa a Pilato quando Filippo V lo sbrigò in quattro e quattr’otto dicendogli d’accordarsi con Alberoni. 106


Al Re non si poteva obbiettare nulla, perciò il povero e disorientato Patiño tornò dall’Abate, il quale, dopo le prima parole, lo piantò lì e andò dal Re. Tornò e gli diede un contrordine: niente Napoli, la spedizione andava in Sardegna; Patiño ne rimaneva incaricato ma doveva aspettare l’arrivo d’un corriere straordinario da Roma e intanto mantenere il più rigoroso segreto. Lo straordinario giunse pochi giorni dopo e portava la nomina d’Alberoni a cardinale: la spedizione poteva partire. Furono mandati ordini per l’allestimento del contingente di terra e il 12 luglio 1717, mentre a Roma il Papa annunciava l’elevazione d’Alberoni alla porpora, Filippo V fu informato che la flotta per l’Italia era pronta a Barcellona e attendeva l’ordine d’imbarcare truppe e provviste per poi salpare. Alberoni non era contento. Riassunse le sue opinioni in un biglietto senza data a Francesco Farnese: “Partirà la consaputa squadra li 17 del corrente dal Porto di Barcellona e anderà alla conquista del’Isola di Sardegna come la più facile a conservarsi, unico motivo che ha dissuaso quella del Regno di Napoli. Questo sarà un pretesto all’Imperatore a far la pace col turco e a calar con le sue forze in Italia. Si raccomanda il segreto.”CXLI

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Capitolo XIV L’impresa d’Italia: primo atto – la Sardegna Nell’estate del 1717 l’Austria era impegnata a fondo nei Balcani. Da giugno il suo esercito, guidato dal principe Eugenio, assediava Belgrado e, pur se non si sapeva che ci sarebbe restato fino alla seconda metà di settembre, era chiaro che la cosa sarebbe andata per le lunghe. C’erano state delle vaghe notizie di cambio di piani e deviazione della flotta contro gli Imperiali raccolte dagli ambasciatori esteri a Madrid. Erano voci, ma potevano dare fastidi. I ministri stranieri non credevano affatto ad una partecipazione spagnola alla guerra coi Turchi. Alberoni si intratteneva spesso coll’ambasciatore veneziano Mocenigo e col nunzio Aldrovandi, riempiendoli di notizie false e loro riferivano a Venezia e a Roma che il Cardinale non desiderava altro che la fama di restauratore della causa della Cristianità. Non erano così creduli i ministri di Francia e d’Inghilterra, perché, come riferì a Torino l’abate Doria del Maro, quando gli avevano chiesto spiegazioni sull’imminente spedizione Alberoni aveva risposto che il re di Spagna non s'inframmetteva nelle risoluzioni dei governi di Versailles e di Londra, per cui quelle Corti non potevano pretendere di sapere nulla più di quanto già sapevano, comunque, la benignità di Sua Maestà consentiva che fossero informate e assicurate che le armi di Spagna intendevano soltanto mantenere la pace, l’inviolabilità dei trattati, l’equilibrio dell’Europa e, ovviamente “il decoro di S. M. Cattolica.” Aveva aggiunto qualcosa di vago su una “poderosa diversione contro le forze del comune nemico della Cristianità”, mediante la conquista di Orano. Non ci aveva creduto nessuno. I sospetti erano aumentati e l’abate del Maro, già di per sé poco amico d’Alberoni, avvertì Vittorio Amedeo che secondo lui la Sicilia correva dei rischi, pur se, commentò, la Spagna era ancora troppo debole per un simile sforzo e la sua flotta non avrebbe retto a uno scontro. Vittorio Amedeo II il 17 luglio 1717 avvertì il conte Maffei, suo viceré di Sicilia, che la flotta spagnola non poteva essere destinata contro i Turchi e “crediamo non possa essere indirizzato che a Sardegna, Napoli, i porti di Toscana o Sicilia,” salvo poi indovinare e, il 4 agosto, avvisare Maffei: sarebbe stata invasa la Sardegna.CXLII Alberoni era in difficoltà serie. Non aveva voluto la guerra perché era troppo presto. Aveva cercato d’evitarla in tutti modi e ora doveva barcamenarsi come poteva, sperando che le cose non andassero troppo male. La flotta spagnola salpò da Barcellona, ma dovette sostare per rifornirsi d’acqua e arrivò davanti a Cagliari solo il 20 agosto, sicché il marchese Rubbi, spagnolo, da circa un mese insediatosi come viceré asburgico della Sardegna, ebbe tempo di ricevere dei rinforzi, uscire dalla capitale con 150 cavalieri e lasciare il comando della difesa al marchese della Guardia e al colonnello Carreras, i quali avrebbero resistito più del previsto. Il 22 gli Spagnoli sbarcarono 2.000 uomini, ai quali la guarnigione dell’Isola oppose dapprincipio solo 500 cavalieri, di cui 200 di milizia. De Lede spedì una partita di cavalleria ad inseguire il Viceré. Lo raggiunsero a un’ottantina di chilometri da Cagliari, agganciarono e distrussero la sua scorta, ma lui riuscì a scamparla e, nascostosi in un bosco e vestitosi da contadino, arrivò ad Alghero. Cagliari rifiutò d’arrendersi e il marchese de Lede, passò ad un assedio in piena regola, aprendo la trincea il 14 settembre e mettendo in batteria 36 cannoni. Sotto un bombardamento incessante, il presidio imperiale – 400 tedeschi nel castello e 1.000 miliziani – resse due settimane, alzò bandiera di resa il 29, capitolò il 30 e consentì l’ingresso agli Spagnoli il 1° ottobre. Alghero fu assediata il 19 ottobre e cadde il 28, come del resto Sassari e Castellaragonese – divenuta poi Castelsardo – arresasi il 30, per cui tutta l’isola tornò spagnola per la fine di novembre, mentre agli Austriaci nel 1707 erano bastate 24 ore. 109


L'Europa strillò, si indignò, ma non si mosse; del resto la stagione era troppo inoltrata per le operazioni terrestri e a quelle navali, in Mediterraneo, d’inverno non si doveva nemmeno pensare. L’operazione era stata facile, perché l’isola era presidiata solo da due reggimenti di fanteria lombarda al servizio austriaco; così i 20.000 uomini del marchese de Lede, poterono prepararsi allo sbarco in Sicilia l’anno dopo, mentre i 40 legni da guerra e i 276 trasporti e 123 tartane che li avevano portati andavano ai raddobbi invernali. L’aspetto militare era d’importanza minima rispetto a quello politico e alle sue conseguenze. Alberoni era in difficoltà serie. La notizia dell’attacco alla Sardegna era trapelata con largo anticipo e tutte le parti in causa si stavano trovando su un terreno sdrucciolevole. La Spagna poteva fermarsi, come voleva Alberoni, ma poteva anche proseguire e in quel caso non sapeva dove si sarebbe fermata. L’Austria avrebbe dovuto reagire, ma non aveva una flotta; e la guerra nei Balcani, per quanto procedesse bene, non era terminata, impegnava circa 100.000 uomini e non si sapeva quando e come sarebbe finita. Questo impediva di rinforzare il Regno di Napoli, che poteva essere il prossimo bersaglio, ma poteva pure non esserlo se gli Spagnoli fossero andati in Sicilia. L’Inghilterra era preoccupata dall’attacco alla Sardegna, ma poteva solo agire sul mare, il che non avrebbe risolto la situazione contro una potenza terrestre che combatteva a terra. Sarebbe servito l’aiuto francese, ma il Reggente non sembrava disposto a darlo, per cui la situazione restava in stallo. Infine c’era il duca di Parma, deluso perché la Sardegna era lontana e la sua presa non aveva mutato il quadro politico, caso mai l’aveva peggiorato. Era conscio d’essere sospettato dall’Imperatore come responsabile, essendo sua nipote la regina di Spagna ed Alberoni un suo agente, ma un conto erano i sospetti e un altro le certezze. Per mettersi al riparo, Francesco Farnese chiese ed ottenne dal Papa il permesso di reinnalzare la bandiera pontificia e tanto bastò. Per Vienna non era il caso d’assalirlo: avrebbero messo in allarme i Principi italiani, si sarebbero guastati i rapporti col Papa e in definitiva sarebbe stato aperto un altro fronte di guerra prima di chiudere quello già attivo. In tutto questo complicato intrico d’interessi e timori cominciò a profilarsi all’orizzonte una minaccia per Alberoni: sembrava destinato a far da capro espiatorio e non impiegò molto a capirlo. Il primo segnale arrivò da Roma nel settembre del 1717. Gli osservatori notavano che il concordato fra Spagna e Santa Sede era stato firmato il 17 giugno. La flotta era partita un mese dopo ed era giunta in Sardegna senza difficoltà. C’era stato forse un accordo fra Roma e Madrid per una commedia a spese di Vienna? L’Imperatore poteva pensarlo, anzi lo pensava e lo diceva chiaramente. Rousset de Misy, solitamente ben informato,61 anni dopo pubblicò che il Papa si fosse trovato in gravi ambasce: da un lato intendeva dissipare eventuali sospetti dell’Imperatore, dall’altro non voleva guastarsi con l’appena rappacificata Spagna. Clemente XI convocò riservatamente i cardinali del Giudice e Acquaviva, protettore della corona di Spagna a Roma, espose loro il dilemma e convennero di rappresentare una specie di commedia per impressionare l’ambasciatore imperiale e, tramite lui, tener calmo Carlo VI. Detto fatto, alla prima occasione Clemente, in pubblico, si lamentò pesantemente del mancato invio della flotta e di quanto stava accadendo. Minacciò Acquaviva di richiamare il nunzio da Madrid; e il Cardinale rispose “fieramente” che il Papa era padrone di farlo, ma in tal caso la corona di Spagna non avrebbe ricevuto più alcun nunzio nei suoi Stati; dopodiché il 25 agosto 1717 il Papa scrisse a Filippo V. Ricordato che la Spagna aveva impiegato contro la Sardegna le navi più volte promesse contro i Turchi, gli annunciava d’aver inviato un espresso a monsignor Aldrovandi coll’ordine di consegnare un breve con la disposizione di sospendere quelli, fra gli indulti concessi per la guerra contro i Turchi, che non fossero ancora stati eseguiti. Va notato che, essendolo stati già tutti, il 61

Se si fa un confronto fra la Storia delle guerre avvenute in Europa dal 1696 al 1725 del marchese Ottieri e la Vita d’Alberoni di Rousset de Misy, salta agli occhi come la prima segua perfettamente e pedissequamente la vulgata del tempo, mentre la seconda è assai più vicina alla realtà e ai motivi dei fatti, riuscendo attendibile all’ottanta per cento, come del resto dimostrano le postille d’Alberoni. 110


breve era una pura formalità che lasciava le cose come stavano e serviva solo a gettar fumo negli occhi: a chi? Lo si vide dieci giorni dopo, quando, il 4 settembre, seguì un secondo breve, stavolta però ai nunzi e ai legati apostolici in Germania, cioè a Vienna e negli Elettorati cattolici. Il Papa rendeva noto a tutti loro d’aver scritto a Filippo quanto fosse stato addolorato e meravigliato dalla notizia che le navi promesse contro i Turchi avessero preso una via contraria alla pietà, lealtà e dovere d’un re cattolico e che, temendo che Filippo di Spagna fosse stato mal consigliato da cattivi consiglieri e indotto ad abbandonare la causa comune e a contravvenire alle sue promesse, lo scongiurava di ascoltare i suoi paterni ammonimenti anziché le insinuazioni di uomini di malafede e a rimettere le cose come stavano prima. Quali furono le conseguenze di tanto rumore, intimazioni e scritture? Aldrovandi non lasciò Madrid, checché il Papa avesse minacciato e nonostante avesse convocato una congregazione particolare deputata a valutare la sua condotta; Filippo continuò a riscuotere le decime che la bolla della Crociata gli dava diritto di prelevare sui beni del clero e della lettera del 25 agosto con cui il Papa glielo proibiva e che Aldrovandi avrebbe dovuto ricevere e presentare non si sentì più parlare. Cosa restava, allora? Che tutti i nunzi in Germania, e anche fuori, avevano saputo che il Papa aveva detto – e come avrebbe potuto mentire il capo della Cristianità? – che il re di Spagna era stato “mal consigliato e indotto ad abbandonare la causa comune e a contravvenire alle sue promesse da cattivi consiglieri” e aveva ascoltato e ascoltava “insinuazioni di uomini di malafede.” E chi erano mai costoro? E quanti erano? E…. se fosse stato uno solo? Ma allora non era forse…? Non si sa quando l’abbia appreso, ma certo, appena lo seppe, Alberoni capì subito da che parte tirava il vento, però non poteva farci nulla, almeno non direttamente. Se pure avesse avuto dei dubbi – e non ne aveva – la sospensione dell’invio da Roma delle bolle per l’arcivescovato di Siviglia glieli tolse completamente: gli avrebbero fatto pagare il conto per tutti. Fece pubblicare un manifesto: l’Austria non aveva mai osservato i patti di Utrecht – il che era ovvio perché non li aveva sottoscritti – e non aveva mai cessato di macchinare a danno di Filippo V. La Spagna aveva sopportato gli affronti fino al giorno della cattura di monsignor Molinos; allora l’onore di Sua Maestà Cattolica era stato offeso e un tale insulto non poteva passare senza reazione, ecco perché la flotta destinata in Levante era andata in Sardegna. Ma il Re, che non desiderava ingrandimenti territoriali, non avrebbe perturbato la Cristianità proseguendo la guerra; avrebbe invece richiamato le navi in Spagna e non avrebbe ripreso le armi senza provocazione. Il manifesto diceva cose molto nobili e belle, ma cosa era una provocazione del punto di vista spagnolo? Quali atti avrebbero fatto ripartire la flotta? Nel frattempo Alberoni stava spargendo un’altra notizia confidenziale quanto falsa: la spedizione in Sardegna era stata fatta d’accordo col reggente Filippo d’Orléans, il quale ora protestava solo pro forma. Dal punto di vista alberoniano l’unico modo per uscirne con pochi danni era che il conflitto s’allargasse. Gli interessi di Carlo XII e dello zar Pietro, in guerra fra di loro, cominciavano a collidere con quelli inglesi e dell’Impero: era un’occasione. Alberoni si mise in mezzo per cercare di pacificare Russi e Svedesi, poi la Spagna li avrebbe sostenuti con denaro in quantità purché lo Zar entrasse in Germania con 150.000 uomini e Carlo sbarcasse in Scozia a sostenervi il Cavalier di San Giorgio con 30.000 svedesi. Nel frattempo il gabinetto spagnolo si occupava della Francia: sosteneva i Protestanti delle Cevennes, i separatisti bretoni e, soprattutto, complottava col duca del Maine in quella che sarebbe poi stata nota come la Congiura di Cellamare. Alberoni arrivò al punto d’offrire un’alleanza a Vittorio Amedeo II per cacciare l’Austria dall’Italia. Il re di Sicilia rispose con un’ambasciata speciale, che doveva ufficialmente trattare d’alcune controversie riguardanti il feudo di Modica, ma in realtà capire che volesse davvero il Cardinale. Quest’ultimo aveva fastidi pure col “Serenissimo Padrone”. Avvertito dell’impresa di Sardegna in luglio, Francesco Farnese aveva subito cominciato a mostrarsi insoddisfatto e a dettar legge. Secondo lui l’azione spagnola doveva essere più incisiva e sulla terraferma italiana, non sulle isole. Di nuovo aveva impartito ordini al suo agente Alberoni, con cautela. Il 23 luglio con una lettera 111


cifrata gliene aveva annunciata una seconda, che sarebbe stata spedita il 27 luglio, ma datata falsamente da Napoli il 15 luglio e firmata Gennaro Felicioni: “La notizia comunicatami dell’impresa a cui è per accingersi la squadra consaputa sarà custodita con segretezza impenetrabile. In questo proposito dovendole io scrivere diffusamente con darle alcuni lumi, che mi vengono da buona parte e con palesarle qualche mia considerazione, per non stancarla con una lunga cifra, ho pensato di inviarle per la strada di Genova una lettera che partirà col primo ordinario di martedì mattina e siccome sarà sottoscritta con un nome finto così anche porterà la data di Napoli, il nome sarà Gennaro Felicioni.”CXLIII La doppiezza del Duca era evidente quanto cauta. Se intercettata, una lettera, anche in cifra, sarebbe stata riconosciuta come inequivocabilmente sua, ma una lettera separata e in chiaro, firmata e datata falsamente, poteva essere un semplice inoltro fatto ad Alberoni per tenerlo al corrente di qualche chiacchiera e del resto le lettere “di un gentiluomo a un amico”, o con intestazioni simili, erano materia corrente in tutta Europa nel giornalismo e nella propaganda di allora. Soltanto chi avesse avuto la lettera con cui il Duca comunicava d’essere Felicioni avrebbe potuto smascherarlo, ma quella l’aveva solo Alberoni e di lui ci si poteva fidare. Di lì a trenta mesi Francesco Farnese avrebbe cominciato a pentirsene e se ne sarebbe pentito fino alla morte, ma in quel momento non lo sapeva. La missiva del 27 luglio datata da Napoli il 15 è lunga, è stata già pubblicata da Luigi Arezio nel suo studio del 1906 sull’impresa di Sardegna e perciò, per quanto sia introvabile, mi limiterò a citarne solo i punti più importanti.CXLIV Iniziava con accuse all’Imperatore di star turbando la neutralità d’Italia coll’arresto di Molinos. Seguiva una lunga esposizione dei timori nutriti dai vertici vicereali napoletani riguardo ad un attacco spagnolo. Venivano dati i numeri – molto contenuti – delle forze a piedi e a cavallo nel Regno, l’elenco delle guarnigioni che si stavano incrementando e nel complesso, se erano veri, già così ce n’era più che a sufficienza per accusare Francesco Farnese di tradimento, in quanto principe dell’Impero che svelava al nemico i punti deboli del dispositivo imperiale. Ma non finiva qui. Sostenendo facilmente prossima una tregua coi Turchi, Felicioni/Farnese consigliava d’attaccare subito Napoli per cacciarne gli Imperiali prima che potessero rinforzare il Regno, ipotizzando che ciò avrebbe non solo impedito l’arrivo di rinforzi, ma anche consentito di coagulare intorno alla Spagna i Veneziani, i Savoia e lo stesso Papa. Prima di chiudere, Farnese/Felicioni scriveva: “spero che il chiaro intendimento di Vostra Eminenza saprà pienamente quindi comprendere che l’occasione che oggi si presenta non si dee in modo alcuno tralasciare, e che se subito non si abbraccia, non mai più forse comparirà così favorevole.”CXLV Questo penultimo paragrafo era, per quanto possibile in una lettera del genere non firmata ufficialmente dal Duca, un ordine chiarissimo: Alberoni doveva far assalire Napoli. Il 10 agosto Francesco Farnese tornò alla carica. Preoccupato d’allontanare da sé ogni minimo sospetto, era allarmato dall’arrivo in Italia delle voci raccolte a Madrid dai diplomatici stranieri sul cambiamento dei piani spagnoli. Gliene avevano dato avviso da Roma e da Milano il 10 agosto e già c’era chi lo sospettava coinvolto, se non colpevole; e uno di quelli che lo sospettavano era Clemente XI e gli stava chiedendo delle spiegazioni in tono minaccioso. Di nuovo il Duca ricorse alle lettere doppie. In quella ostensibile diceva d’essere sospettato e chiedeva a “V.E. d’interporre ogni più valida opera sua perché S. Santità resti soddisfatta, ed io non corra alcun pericolo.”CXLVI La seconda era segreta, scritta lo stesso giorno, e in pratica dettava ad Alberoni la risposta che avrebbe dovuto dare alla lettera ostensibile. 112


Alberoni eseguì e scrisse quanto gli era stato chiesto. In sostanza il Duca voleva che Filippo V dichiarasse d‘essere sceso in campo per vendicar le numerose infrazioni alla Neutralità d’Italia da parte dell’Imperatore, elencandone le maggiori: l’arresto di monsignor Molinos. la richiesta delle contribuzioni ai Principi d’Italia, l’intenzione dichiarata dall’Imperatore d’aprire alcuni porti e introdurre in Adriatico una nuova navigazione e un nuovo commercio sotto bandiera austriaca, sostenendoli con le armi e dunque usurpando il monopolio veneziano, e, infine, l’intenzione maturata a Vienna di porre un presidio a Livorno nel prossimo inverno. Alberoni obbedì il 27 agosto, ma attenuò la parte che a Francesco Farnese interessava di più. Non scrisse di non avergli detto nulla, ma solo: “sono più che sicuro che l’avere la Maestà del Re Cattolico in un subito voltate le armi contro l’Arciduca destinate in Levante avrà sorpreso V.A.S.” il che non era quanto il Duca aveva chiesto, pure se gli si avvicinava; ma il Cardinale stava sicuramente sentendo odore di bruciato e cominciava a guardarsi sempre più attentamente le spalle. Dirsi certo che il Duca era rimasto sorpreso non significava che non ne sapesse nulla. Dire invece che non ne sapesse nulla avrebbe significato scaricarlo da ogni colpa e non era il caso di farlo, chissà cosa riservava il futuro. Vittorio Amedeo II di Savoia, re di Sicilia, temeva che Palermo potesse essere il prossimo obiettivo al posto di Napoli, ma pure lui mancava d’una flotta e non era in grado di organizzare un grosso esercito in Sicilia in tempi brevi. Il Papa era preso tra la Spagna con cui aveva appena concluso il concordato e l’Imperatore che proprio per quello poteva sospettarlo di connivenza, con conseguenze difficili da prevedere. C’erano altre difficoltà di contorno: la Sicilia era inquieta e Vittorio Amedeo aveva un contenzioso aperto con Roma. La burocrazia sabauda, formatasi di recente e brillantemente collaudata nel periodo bellico, aveva iniziato ad esaminare tutto, decisissima a mettere ordine ovunque ed a consolidare il potere regio. Montesquieu seppe dal Commendator Solaro che Vittorio Amedeo: “quando ebbe il Regno di Sicilia, lo stava risanando. Primo, eliminò le frodi delle dogane; si fece pagare il trasporto del grano ed eliminò le frodi che vi si facevano: fece osservare le leggi che provvedevano all’ordine pubblico e che rendevano i signori responsabili dei delitti che si compiono sulle loro terre (ne fece mettere uno in prigione per un caso del genere, che vi restò fino alla rivoluzione; questo solo esempio fermò tutti gli altri); costrinse i gentiluomini a pagare i debiti; insomma, amministrò la giustizia. Avrebbe risanato quel paese.”CXLVII Mettendo ordine vennero fuori varie cose che non andavano e una, che di ciò che non andava era il fondamento ed il baluardo, cioè la raccolta degli atti dei Parlamenti di Sicilia, fu bruciata nel 1717 per ordine del Viceré. Insieme alle pergamene i nobili videro andare in fumo indipendenza e privilegi; e gran parte di loro decise di sbarazzarsi dei Piemontesi alla prima occasione, che non avrebbe tardato a presentarsi.

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Capitolo XV L’impresa d’Italia: secondo atto – la Sicilia Se prima della spedizione in Sardegna era trapelato qualcosa, prima di quella in Sicilia trapelò tutto, o quasi, solo che nessuno ci credé. L’ambasciatore sabaudo a Madrid, Doria del Maro, aveva avvertito. Non era stato il solo, ma non servì a nulla. Come poi riferì Montesquieu: “L’abate Del Marro scriveva continuamente al Re di Sicilia che Alberoni ce l’aveva con la Sicilia; il segretario della Commissione, che era dalla parte di Alberoni, gli scriveva che egli ce l’aveva col regno di Napoli; e nè Napoli nè la Sicilia erano pronti: ciascuno si credeva al sicuro.”CXLVIII Era davvero opportuno assalire la Sicilia? Secondo Alberoni no, però il Re voleva continuare e ai suoi ordini si poteva solo obbedire. Come mai la Sicilia e non Napoli? Sempre per una questione di sostenibilità logistica. I Piemontesi erano più deboli degli Imperiali e la Sicilia presentava ai difensori, privi di flotta, più problemi logistici che agli attaccanti, ben dotati di navi; inoltre il Cardinale era convinto che la flotta inglese sarebbe restata inattiva – perché non c’era stato di guerra fra i due regni – o non avrebbe potuto schierare altro che poche navi; e infatti Alberoni spiegò nella ventottesima postilla alla sua biografia: “Dopo che il Cardinale non poté portar il Re alla Pace, disse che bisognava andare all’acquisto della Sicilia come facile a conservarsi, e non a quello del Regno di Napoli impossibile a conservarsi, come dice nella lettera scritta al Duca di Popoli.”CXLIX Alla fine di maggio del 1718 Alberoni scrisse al conte Rocca da Balzain, non lontano da Granada, riferendosi al corpo di spedizione: “Si sono fabbricati, da un anno a questa parte, cento pezzi di cannone di bronzo da 24 con le armi di Spagna e della Serenissima Casa Farnese, e questi si vedranno tutti nella spedizione.62 Quattrocento sono le vele che compongono l’armata navale ed i legni di trasporto che si sono noleggiati importano cento venti mila pezze il mese… Porta seco viveri tanto per la marina che per l’esercito per cinque mesi effettivi. Tutte le truppe sortono di Spagna pagate per tutto il mese di maggio, e per l’avanti si sono imbarcate un milione e duecento mila pezze da otto. Il di più sino a due milioni sono in lettere di cambio sopra Genova, Livorno e Roma pagabili a tutto agosto. Vi sono quindici mila quintali di polvere, centomila balle, trenta mila bombe, ottantamila istrumenti da muovere terra, fino centomila fascine s’imbarcarono, ed infine trentatre mila homini effettivi da sbarco.” CL Il 21 giugno poté annunciare la partenza: “La flotta, o per meglio dire la grande armata, partì il giorno del Corpus.63 Tiene sei leghe di spazio in mare, composta di cinquecento vele.”CLI Esattamente lo stesso giorno arrivò un gran brutto segnale: la lettera con cui il Papa richiamava il nunzio. Alberoni se ne dolse col conte Rocca senza mostrare di dare eccessivo peso alla cosa, ma il significato a lui era chiaro: Roma – sempre cauta – si era schierata coi nemici della Spagna e per 62 A questi andavano sommati 25 pezzi da campagna e 40 mortai, mentre la scorta di polvere era salita a 20.000 quintali, come Alberoni riferì a Rocca nella lettera del 6 giugno 1718, in BURGEOIS, op. cit., pag. 584. 63 Il giorno del Corpus Domini, cioè il 19 giugno 1718. 115


tornare in buoni termini Madrid aveva due sole vie: vincere la guerra od offrire la sua testa. Poteva vincere la guerra? Molto dipendeva da quanto stava per accadere in Sicilia. Dieci giorni dopo, il 1° luglio 1718, la flotta spagnola mise a terra il corpo di spedizione a Bagheria e andò alla fonda in rada a Palermo, ma le cose andarono meno bene che in Sardegna. Nonostante la sproporzione di forze fosse pure qui di tre a uno a favore degli attaccanti, i Piemontesi si dimostrarono molto più coriacei degli Imperiali l’anno prima. Poiché le sue truppe ammontavano a 10.000 in tutta la Sicilia, il viceré Maffei prudentemente decise di ritirarsi. Lasciò una guarnigione di cinque compagnie nel castello di Palermo, che si arrese relativamente in fretta, ed un’altra di 635 uomini nella piazzaforte di Termini, subito assediata da 4.000 spagnoli e costretta alla resa in otto giorni, nonostante una bella sortita del presidio che distrusse le trincee nemiche. Il 3 luglio Maffei colla moglie, il seguito e 1.900 tra fanti e cavalieri, si era ritirato a Piana dei Greci. Da là, in quattro giorni, passando per Corleone, Vicari e Vallelonga giunse a Caltanissetta. Dopo un vittorioso scontro a fuoco coi 400 uomini della milizia civica, che si opponevano al loro ingresso in città in esecuzione dei perentori ordini diramati dal marchese de Lede, che ingiungevano di non farli passare e di non rifornirli, i Piemontesi rimasero a Caltanissetta fino a tutto il giorno seguente. Poi, transitando per Piazza Armerina, incontrando ogni sorta di resistenze da parte del popolo, sobillato dai nobili lungo tutto il percorso, arrivarono a Siracusa il 16 dopo aver perso in complesso 113 uomini per le fatiche della marcia e si chiusero nelle fortificazioni in attesa degli Spagnoli. Questi, raggiunta la città, si limitarono a bloccarla e ad occupare Augusta che era stata sgomberata. Era una questione di precedenze. Non si potevano disperdere le forze; e le truppe del conte di Montemar cominciarono coll’accerchiare e assalire Termini e Messina, tenuta dai 6.000 uomini raccolti dal marchese d’Andorno. Evacuata la città su istanza della popolazione, i Piemontesi si chiusero nella cittadella e gli Spagnoli si apprestarono a farli sloggiare. Il 27 luglio cadde il forte di Castellaccio, il 31 quello di Mottagrifone. Il 4 agosto i difensori persero anche il forte Gonzaga e si ridussero in quello del Salvatore, dove resisterono fino al 29 settembre. Poi avviarono trattative di resa, capitolarono e uscirono diretti a Reggio il 19 ottobre con tutte le armi e i bagagli. Gli Spagnoli intanto erano andati a Milazzo e l’assediavano dal 7 ottobre con circa 10.000 uomini. La difendeva il tenente colonnello Misseglia con soli 800. Il 15 gli assedianti dovettero distaccare 9.300 uomini per contrastare il passo a una colonna di 6.000 imperiali guidati da Caraffa. Non riuscirono a fermarla e, persi 1.700 uomini per parte, gli Austriaci poterono entrare a Milazzo e rinforzarne il presidio. Questo capitava perché, mentre il viceré Maffei continuava a tenere Siracusa, il quadro politico internazionale era divenuto del tutto sfavorevole alla Spagna. Il 2 agosto 1718 Francia, Inghilterra, Olanda ed Austria s’erano unite in una Quadruplice Alleanza. Gli Imperiali avevano concentrato 10.000 uomini a Reggio Calabria e sostenevano i Piemontesi. Per di più l’11 agosto la flotta spagnola era stata aggredita a sorpresa e distrutta da quella inglese a Capo Passero, l’estremità meridionale del Golfo di Noto.64 L’indomani, 12 agosto, ignaro di quanto era accaduto a Capo Passero, ma sospettando la possibilità di qualcosa del genere e perciò munito d’un salvacondotto a prova di guerra e di rappresaglia, lord Stanhope arrivò a Madrid. Aveva combattuto a lungo in Spagna durante la guerra precedente e adesso era l’artefice del trattato della Quadruplice Alleanza. Fu alloggiato in una residenza a un miglio dall’Escuriale e aprì i negoziati, annunciando al Cardinale l’accessione olandese al trattato. Incontrò anche il Re, il quale davanti a lui si comportò con grande moderazione, lamentandosi dell’atteggiamento inglese al quale la Spagna non aveva dato adito in alcun modo.

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Secondo Alberoni si salvarono una ventina di navi tra vascelli, fregate e galere. 116


Il guaio fu che Filippo non intendeva mollare un millimetro delle conquiste fatte, però lasciò il lavoro ingrato al Cardinale, per cui Stanhope credé che il Re fosse tutto sommato abbastanza disposto a fare quella pace che Alberoni apertamente osteggiava in tutti i modi, mentre era proprio il contrario. Quando il Cardinale gli presentò uno schema in otto duri articoli, Stanhope ribatté con un altro, già pronto, di soli cinque, che in sostanza era un ultimatum con scadenza a tre mesi. Non se ne uscì e si tornò alle armi. Pur avendo costretto alla resa il 27 novembre 1718 il presidio di Trapani, la Spagna si dové piegare; ma Vittorio Amedeo fu obbligato, secondo la convenzione del 29 dicembre 1718, a cedere la Sicilia agli Asburgo ricevendone in cambio la Sardegna, ancora presidiata dagli Spagnoli, che vi sarebbero rimasti fino al 1720. Man mano che la politica voluta da Filippo V ampliava l’alleanza antispagnola, le cose si facevano sempre più difficili e Alberoni vedeva approssimarsi la possibilità di pagare il conto per tutti. Sapeva cosa rischiava ma contava di riuscire a salvarsi, almeno fin quando fosse rimasta neutrale la Francia. Quello che non sapeva era che razza di altro pasticcio gli stava per cadere addosso da Parigi: la congiura di Cellamare.

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Capitolo XVI La Congiura di Cellamare Mentre l’impresa in Italia andava più o meno avanti e gli alleati anglo-austro-olandesi, una volta distrutta la flotta spagnola non sapevano che altro fare, non potendo, in mancanza della Francia, minacciare efficacemente il territorio metropolitano spagnolo, cadde dal cielo l’occasione tanto attesa per convincere il Reggente: la Congiura di Cellamare. Il complotto, che prese il nome dal principe di Cellamare, ambasciatore spagnolo a Parigi, fu uno dei più colossali pasticci mai gestiti da un diplomatico. Il suo obiettivo era togliere la reggenza a Filippo d’Orléans per darla a Filippo V e coinvolgeva diversi illustri personaggi, il più importante dei quali era il duca del Maine. Luigi Augusto di Borbone, duca del Maine era quello che Luigi XIV aveva amato di più tra i suoi figli naturali. Il Re Sole gli aveva fatto sposare un’altra Borbone, Anna Luisa Benedetta, nipote del Gran Condé, e da molti si era visto in questo una predestinazione a grandi cose. Era vero. Molti anni dopo, nel suo ultimo testamento, il Re Sole aveva designato il duca del Maine reggente di Francia fino alla maggiore età del piccolo Luigi XV. Restava una questione aperta: se fosse morto pure Luigi XV e vista la rinuncia formale fatta da Filippo V, chi avrebbe cinto la corona? Il duca del Maine o il secondo erede legittimo in linea di successione, cioè Filippo duca d’Orléans? Era chiaro che chi fosse stato reggente all’eventuale morte del piccolo Luigi XV avrebbe posto una fortissima ipoteca sulla corona di Francia, perciò Filippo d’Orléans, subito dopo la scomparsa di Luigi XIV, avvenuta il 1° settembre del 1715, aveva impugnato il testamento e, sostenuto dal Parlamento, dalla nobiltà e dall’esercito, il 15 settembre l’aveva annullato, si era preso la Reggenza e aveva estromesso il duca del Maine dalla vita politica. Questo poteva leggersi come l’ultimo atto in ordine di tempo dello scontro fra le varie cabale che aveva avvelenato l’aria di Versailles dieci anni prima, quando il duca del Maine era stato uno dei pilastri della cabala di Meudon, la stessa a cui aveva appartenuto Vendôme e in cui, di conseguenza, Alberoni si era trovato suo malgrado. Adesso però c’era un convitato di pietra, che aveva molti diritti e non intendeva perderli. Al di là di tutte le firme estorte, delle scelte imposte e delle dichiarazioni obbligate, dopo Luigi XV in linea di successione veniva immediatamente Filippo di Spagna e poi c’erano i suoi figli. Se si aggiungeva la ruggine fra lui e lo zio, ora Reggente di Francia, ce n’era a sufficienza per capire che a Madrid non si sarebbe stati con le mani in mano. Nella peggiore delle ipotesi, di fronte ad un’opposizione europea all’unione delle due corone, nulla avrebbe impedito a Filippo V di designare re di Francia un suo figlio. Nel 1715 ne aveva già due – don Luigi e don Ferdinando – dal primo matrimonio, un terzo, don Carlo, da Elisabetta Farnese, e non sembrava intenzionato a fermarsi lì. Questo era abbastanza perché a Londra ci si sentisse minacciati. Lo stesso valeva all’Aja. A Vienna Carlo VI considerava la permanenza di Filippo V a Madrid un insulto, perciò non era stato difficile trovare un accordo e formare un’alleanza antispagnola il 4 gennaio 1717. Restava un’incognita: che avrebbe fatto la Francia? I due Filippi, quello di Madrid e quello di Parigi, benché parenti, avevano poche cose in comune, tra queste un abate come uomo di fiducia. Filippo V aveva Alberoni, Filippo d’Orléans aveva Dubois. Il primo era un prete, il secondo un abate laico. Il primo era tutto sommato un idealista costretto a sporcarsi le mani; il secondo un corrotto ben lieto di sporcarsi mani, braccia e tutto il resto. Entrambi plebei, entrambi intelligenti, avevano carriere diversissime e fini divergenti. Alberoni voleva il bene di Parma e un minimo di sicurezza per sé. Dubois voleva il bene di sé stesso e moltissimi vantaggi, sempre per sé stesso. Alberoni lavorava per cacciare l’Austria dall’Italia; Dubois per cacciarsi lui in mezzo al potere e ai soldi. Alberoni era di costumi illibati; Dubois batteva i peggiori campioni della Reggenza. Entrambi avevano trovato all’esterno un appoggio alla loro politica personale: Alberoni in Spagna; ma Dubois in Inghilterra e questo contava molto. 119


Dubois in un certo senso era un antesignano di quell’accordo fra Londra e Versailles che fu poi la mira costante di Talleyrand e si concretò nel corso del XIX secolo. Era stato a Londra come agente più o meno segreto durante la Successione Spagnola, andava d’accordissimo cogli Inglesi e ne sosteneva la politica. Poiché il Reggente, di cui era stato precettore, gli dava molta retta, non gli era difficile tenere Versailles sulla rotta voluta da Londra, o, quantomeno, far sì che non se ne discostasse troppo; ma un conto era non scostarsene, un altro aderire; e questo il Reggente non lo voleva fare. Firmata l’alleanza antispagnola, Londra, Vienna e l’Aja si erano rese conto che Alberoni era un osso duro e stava già prendendo delle pericolose contromisure. Nel 1717 l’Austria temeva i contatti fra Madrid e Costantinopoli, contro la quale era appena dovuta entrare in guerra. Si, è vero, la Spagna aveva promesso che non avrebbe attaccato l’Italia e aveva fatto partire un’enorme flotta per combattere contro gli Ottomani, ma per il momento era in rada a Genova, mentre da Madrid l’ambasciatore sabaudo inondava Torino di rapporti dicendo che era in realtà diretta contro l’Italia. Dal canto loro l’Olanda e l’Inghilterra avevano avuto notizia che Alberoni stava promettendo denaro a sacchi allo Zar e alla Svezia, il che significava probabili guai nel Baltico, a tutto detrimento del commercio anglo-olandese. Non era tutto: a Londra ci si preoccupò parecchio quando si scoprì che il perfido italiano si stava accordando coi maledetti Giacobiti per favorire un’insurrezione in Scozia, per di più con tutto il favore e le benedizioni di Santa Romana Chiesa e, forse, pure di Santa Madre Russia. Come fermarlo? Il guaio era che la Spagna non era attaccabile dal mare e non poteva essere raggiunta da terra. Si poteva sbarcare in Portogallo, oppure attraversare la Francia. Ma sbarcare in Portogallo era costoso, rischioso e impossibile senza un grosso esercito e una spola navale per sostenerlo, mentre, se la Francia avesse aderito all’alleanza, le sue truppe avrebbero solo dovuto passare i Pirenei per essere una minaccia concreta e immediata contro la Spagna; solo che da quell’orecchio il Reggente non sembra sentirci, qualsiasi cosa Dubois potesse dire o fare. Poi arrivò la Congiura di Cellamare e fu l’occasione perfetta. La radice di tutto era nell’ira della duchessa del Maine contro Filippo d’Orléans. Nel 1715 Anna Luisa era stata a un passo dal vedere il marito reggente e se stessa quasi regina di Francia; e non era accaduto per colpa di Filippo d’Orléans, cioè d’un esponente di quella cabala dei signori che già in passato si era opposta a quella di suo marito. La storia della congiura è nota e non vale la pena rifarla qui. La fonte principale dei fatti centrali è data dalle memorie di madame de Staal-Delaunay, dama di compagnia d’Anna LuisaCLII e, con meno particolari, da quelle di altri partecipanti, incluso il duca di Richelieu. In sostanza la duchessa del Maine aveva deciso di rivolgersi direttamente a Filippo V per detronizzare Filippo dì’Orléans. In un certo senso si faceva rinascere la cabala di Meudon, con la sola differenza di Filippo V al posto di suo padre il Gran Delfino e d’Alberoni al posto di Vendôme. Anna Luisa non poteva andare a Madrid, né mandarci qualcuno, perciò sfruttò l’ambasciatore del Re di Spagna, Antonio del Giudice, principe di Cellamare. La persona era perfetta. Filippo V l’aveva scelto nel maggio del 1715, dunque prima della morte di Luigi XIV, come suo legato e gli aveva dato istruzioni assai precise: doveva scoprire se effettivamente il Re Sole avesse escluso Filippo V dalla reggenza per Luigi XV e, in caso affermativo, avrebbe dovuto protestare non col Re, ma coi ministri, così da far arrivare la notizia alle orecchie dello stesso Re; infine avrebbe dovuto cercare di creare un gruppo di pressione favorevole all’assegnazione della Reggenza a Filippo V. La notizia della morte di Luigi XIV avvenuta il 1° settembre e dell’apertura del testamento che designava reggente il duca del Maine arrivarono a Madrid dopo alcuni giorni e diedero luogo a profonde discussioni. Il Re voleva esigere la tutela nella sua qualità di discendente legale diretto del defunto e di parente più stretto rimasto all’erede. Il cardinale del Giudice e il duca di Popoli erano d’accordo; Alberoni no e diceva che, per il bene di tutti e la tranquillità dell’Europa, era meglio lasciar stare. Alla fine la spuntò: Filippo V non avrebbe chiesto la tutela. 120


Poche ore dopo questa decisione arrivò un corriere. Portava la notizia del colpo di Stato del 15 settembre e della reggenza a Filippo d’Orléans. Questo spazzò via qualsiasi piano, contatto o sogno Cellamare avesse avuto ordine di creare, ma non cambiò le idee del Re. Filippo V continuò ad attendere il momento opportuno, si manifestò non propriamente amico della Francia e diede ad Alberoni istruzioni per vari contatti e negoziati da intraprendere. Alberoni da Madrid e Cellamare a Parigi dovevano agire per coagulare l’opposizione interna francese al Reggente, negoziare con Svezia e Russia in funzione antibritannica, aggiungendovi possibilmente pure la Prussia e far presente ai diplomatici e ai principi italiani che il Re di Spagna voleva la loro libertà. Nella migliore delle ipotesi, si sarebbe creato un ampio fronte contro le Potenze Marittime e l’Austria e a vantaggio del passaggio della reggenza a Filippo V; nella peggiore si sarebbe quantomeno evitata l’adesione della Francia all’alleanza antispagnola sancita a Westminster. In questo quadro, la mossa della duchessa del Maine arrivava a proposito. Il duca del Maine era un personaggio di primo piano e gli si poteva dar credito, o almeno così pensava Filippo V, non sapendo che aveva poco seguito e delle idee assai vaghe in testa. Naturalmente tutto passava per le mani di Alberoni, come al solito, solo che lui non era del tutto convinto. Diffidava del Reggente, almeno fin dalla primavera del 1716, e stava in guardia, però nel corso del 1717, con troppe cose da seguire, aveva tenuto d’occhio prevalentemente le trattative con Roma, per cui forse non era stato dietro agli affari di Francia quanto necessario, anche se, per come andarono le cose, non avrebbe potuto impedire il pasticcio che ne scaturì. Cellamare e i duchi del Maine avevano deciso di rapire Filippo d’Orléans; e poteva pure essere facile se lo si sorprendeva in una delle sue orge fuori dal palazzo. Poi avrebbero annunciato l’assunzione della reggenza da parte del Re di Spagna, infine avrebbero convocato gli Stati Generali per averne l’appoggio a ciò che a quel punto sarebbe stato un fatto compiuto. Il piano faceva acqua da molte parti, specialmente nella tempistica; ma il fallimento totale si ebbe quando i congiurati spedirono i documenti per Alberoni nel sottofondo della carrozza dell’abate Portocarrero, che tornava in Spagna, facendoli prima copiare a uno scrivano dell’ambasciata. Costui perse un appuntamento con una delle ragazze del bordello di Madeleine Fillon e, per scusarsi, le raccontò di non essere potuto venire per i tanti dispacci avuti da scrivere prima della partenza di Portocarrero. La ragazza lo riferì alla tenutaria. Questa aveva fra i suoi clienti il Reggente e soprattutto Dubois, col quale era in rapporti a dir poco ottimi. Lo avvertì; e Dubois preparò la trappola. I nomi coinvolti erano troppo in alto per agire su base indiziaria e per di più così debole. Occorreva la flagranza; inoltre Cellamare era coperto dall’immunità diplomatica. Di conseguenza Dubois ordinò di far partire Portocarrero e d’intercettarlo per strada. Lo raggiunsero a Poitiers il 5 dicembre 1718, gli perquisirono la carrozza, trovarono quanto cercavano e lo lasciarono andare. Portocarrero spedì subito un messaggero a Cellamare: arrivò due ore prima di quello della polizia al Reggente, ma, mentre quest’ultimo differì d’altre quattordici ore la faccenda perché non gli andava, l’ambasciatore le sprecò senza far nulla, cosicché, quando le guardie gli piombarono in casa, trovarono documenti, nomi e prove. Cellamare fu accompagnato alla frontiera il 9 dicembre, il cardinale di Polignac nell’abbazia d’Anchin e gli altri congiurati alla Bastiglia. La politica consigliò di non toccare troppo i duchi del Maine e di non parlare di Filippo V, ma un colpevole doveva pur esserci, per cui si scaricò tutto sul bieco e insinuante Alberoni, che, alla fin fine, aveva la sola colpa d’aver eseguito gli ordini del Re e trovandosi a dover usare degli incompetenti. Il complotto consentì a Dubois di convincere il Reggente a schierarsi contro la Spagna. Perciò la Francia aderì al trattato, tramutandolo in Quadruplice Alleanza e il 9 gennaio 1719 seguì l’esempio inglese: dichiarò guerra alla Spagna. Adesso iniziavano i guai più seri.

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Capitolo XVII Il crollo Alla fine di maggio del 1719 un corpo di spedizione imperiale al comando del generale Mercy sbarcò in Sicilia, a Marina di Patti, rilevò i Piemontesi che cominciarono a rientrare in Patria e costrinse gli Spagnoli a sbloccare Milazzo e Siracusa. De Lede fece ritirare le truppe bruciandosi dietro ogni cosa per impedire la sussistenza al nemico. Mercy lo seguì, ricevé formalmente la Sicilia da Maffei, proseguì fino a Palermo, poi tornò indietro verso Messina con 21.000 uomini e batté i 21.000 di de Lede a Francavilla il 27 giugno 1719. Mentre si combatteva in Sicilia, i Francesi si erano affacciati oltre i Pirenei. Filippo V continuava ad avere una personalissima visione degli affari di Francia, non del tutto errata, ma pericolosamente poco aderente alla realtà. Per meglio dire: aveva delle informazioni corrette, ma ne traeva delle deduzioni sbagliate. Sapeva quanto fosse impopolare il governo del Reggente, perché da molto tempo riceveva lettere e suppliche dalla Francia in cui nobili, magistrati e cittadini lo scongiuravano di tornare e cacciare il dissoluto zio che portava la nazione alla rovina. I malumori – lo sapeva – erano forti e diffusi e in alcuni casi, come in Bretagna, molto prossimi all’insurrezione ed erano stati forse il motivo principale dell’esitazione di Filippo d’Orléans davanti ad una dichiarazione di guerra alla Spagna: si rischiava la guerra civile; e anche questo era noto a Filippo V. Dubois da parte sua aveva voluto e voleva la guerra, però conosceva i rischi e se ne preoccupava. La Congiura di Cellamare era stata ottima per convincere il Reggente a dichiarare la guerra, ma come indurlo a farla sul serio? L’opinione pubblica era fortemente contraria a marciare contro il nipote di Luigi XIV, le cui lettere aperte ed i cui manifesti, stando ai memorialisti d’allora, venivano approvati dalla larghissima maggioranza di chi li leggeva, mentre la contropropaganda preparata da Dubois non aveva alcun seguito. Con molte esitazioni dovute a tutti questi motivi si mise in piedi un esercito abbastanza grosso, lo si diede al duca di Berwick e al principe di Conti e lo si mandò alla frontiera. Filippo V montò a cavallo e ci si portò pure lui. In base a quanto sapeva, era certo – e lo disse e scrisse; e questa fu la deduzione sbagliata tratta dalle informazioni giuste che aveva – che i soldati francesi gli si sarebbero inginocchiati davanti, passando dalla sua parte e seguendolo fino a Parigi. Alberoni non era certo di nulla del genere. Conosceva il mondo, il Re e il Reggente e stava da tempo prendendo alcune misure per smarcarsi. La prima consisteva nel chiarire chi avesse voluto il conflitto e intendesse continuarlo. Neanche tre settimane dopo la dichiarazione di guerra aveva infatti scritto al marchese di Nancré, inviato speciale francese in Spagna mandato nel 1718 a cercare di convincere Filippo V: “io credo che S.A.R. sia più che mai persuasa che io sia l’autore di questa guerra e che ella imputi a me il rifiuto di S.M.C. di non averne voluto accettare il progetto. Un tal pensiero non va d’accordo colla stima che S.A.R. dice d’avere della mia persona, quando essa mi creda uno sputafuoco, capace d’incendiare tutta l’Europa. Tuttavia S.A.R. crederà tutto ciò che vorrà ed io lascerò al tempo di disingannarla riguardo a me. Bisogna proprio aver l’onore di praticare il re di Spagna per conoscere il suo carattere.”CLIII E, sempre riferendosi al Re, continuava: “E’ persuaso che è contro il suo onore l’accettare il detto progetto, e S.A.R. può contare che lui lascerà mettere a fuoco i quattro angoli della Spagna a meno che non si 123


trovi qualche espediente da proporgli per persuaderlo che il suo onore è al sicuro. Sta a S.A.R. fornirmene qualcuno e vedrà come agirò.”CLIV La risposta del Reggente riferita da Nancré era stata interlocutoria: se il Cardinale gli avesse suggerito uno spunto, non avrebbe mancato di metterlo in pratica, ma, come poi rimarcò il cardinal Baudrillart, disgraziatamente era sulla base stessa della cosa che ci si rifiutava d’intendersi. Come la mise giù Alberoni, rispondendo sempre a Nancré, era: “una strana situazione di due principi: uno che dice che non può né deve cedere sulla minima cosa di quanto ha proposto; l’altro che protesta che non saprebbe consentirvi senza ferire il proprio onore e la sua dignità e che vuole morire piuttosto che vedersi imporre una legge barbara dai suoi nemici.”CLV Alberoni sapeva perfettamente che ogni sua parola scritta a Nancré sarebbe stata letta dal Reggente. Ciò che non poteva prevedere era che sarebbe finita sotto gli occhi di qualcun altro e da lì in mano a Filippo V stesso entro dieci mesi. Per il momento era ormai la primavera del 1719, gli eserciti entrarono in campagna ed andò tutto diversamente da come ci si aspettava tanto a Madrid quanto a Parigi. Contrariamente a tutte le sue aspettative, Filippo V scoprì che i soldati francesi non solo non gli si inginocchiavano davanti, ma volgevano le armi contro i suoi. Per contro, se a Parigi e Londra ci si era attesi una campagna rapida e vittoriosa, si rimase assai delusi. Al di là degli scampanii per i successi ottenuti, l’aver vinto a Behobia, San Marcelo, Castel Folit e Santa Ysabel non significava un bel nulla. Sotto il profilo strategico contavano poco, e le truppe francesi non sembravano capaci d’andare molto oltre i Paesi Baschi. Le prese di Fuentearrabia e San Sebastian furono un po’ più importanti. L’incendio delle navi trovate sugli scali nei cantieri di Santoña pure, specie per gli Inglesi, ma si era ben lontani dai risultati necessari a vincere sul serio. C’era un’altra difficoltà: l’esercito francese aveva ordine assoluto d’evitare, in tutti i modi, di catturare Filippo V. Se fosse successo, la guerra civile poteva scoppiare in Francia immediatamente, o almeno questo temeva Dubois, il che complicò non poco la condotta delle operazioni. Visto come stavano andando le cose, Alberoni aveva stabilito da tempo che l’unico modo per fermare il conflitto consistesse nel portarlo in casa del nemico. Accordatosi con Giacomo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, iniziò organizzando una spedizione nelle Isole Britanniche per sostenere la rivolta giacobita. Il 7 marzo 1719 fece partire da Cadice un convoglio di ventiquattro trasporti, scortato da una piccola squadra navale: portava in Scozia i 5.000 uomini del duca d’Ormond; ma una tempesta lo disperse e l’operazione fallì. Alberoni non si dette per vinto e riprovò, però con una forza minore: 300 fanti sbarcarono in Scozia al comando di Lord Keith, maresciallo di Scozia, e si unirono agli insorti giacobiti. Le truppe inglesi li agganciarono e sconfissero una prima volta in maggio e una seconda in giugno, mettendo fine alla rivolta. Gli Inglesi prepararono il contrattacco, ma ci misero quattro mesi e solo in ottobre riuscirono ad eseguire un’incursione a Vigo e nell’interno. Fecero parecchi danni, mentre, il 18 dello stesso mese, in Sicilia gli Austriaci finalmente prendevano Messina. La mossa seguente del Cardinale consisté nel sostenere il malcontento del Poitou e della Bretagna i cui primi sintomi si erano avuti fin dal 1717. Nel primo non successe praticamente nulla, in Bretagna in autunno cominciò un’insurrezione, andò inizialmente bene, ma poi si spense, soprattutto per il ritardo dell’aiuto spagnolo, ritardo non imputabile ad Alberoni e che lo fece infuriare quando lo apprese; però troppo tardi per rimediare. Quella era stata l’ultima speranza; adesso era il caso di trattare; ma non era facile. 124


Gli Alleati, o meglio gli Inglesi e Dubois, avevano deciso di levare di torno il Cardinale e trovarono un aiuto non del tutto inatteso a Parma. Francesco Farnese, l’apprendista stregone che per timore d’un ipotetico rafforzamento dell’autorità imperiale aveva scatenato tutto quel putiferio, ora aveva davvero paura. Le maggiori Potenze d’Europa erano in guerra fra loro e, dopo quanto avevano fatto al ben più armato Vittorio Amedeo II, adesso parlavano tranquillamente di Parma e della Toscana come d’una normalissima merce di scambio. Occorreva uscirne, saltasse pure qualche testa, purché non fosse la sua, e quella d’Alberoni si prestava magnificamente. All’oscuro di quanto gli stava preparando il Serenissimo Padrone, il Cardinale da docile, leale e disciplinato suddito si prestò al gioco che doveva distruggerlo. Il 5 settembre 1719, dopo un silenzio di oltre due mesi, scrisse a Rocca lamentandosi d’essere riuscito a convincere il Re a mandare il marchese Scotti in Olanda per far la pace, ma d’averlo visto fermare dai Francesi: gli avevano rifiutato il passaporto perché mancava il consenso degli altri Alleati.CLVI In realtà Scotti era giunto a Parigi, ma la missione era fallita per tutt’altro motivo, perché, come Stanhope aveva detto a Dubois e al Reggente, occorreva innanzitutto eliminare Alberoni. Era l’artefice della resurrezione spagnola: eliminare lui eliminava il pericolo che la Spagna restasse forte e pericolosa. Questo era successo prima dell’insurrezione bretone, lo scoppiò della quale proprio in quei giorni fu l’ennesima dimostrazione della pericolosa ed energica attività di cui erano capaci il Cardinale e la Spagna, finché la guidava lui. Il 18 novembre una convenzione anglo-franco-imperiale conclusa all’Aja stabilì di offrire di nuovo un termine di tre mesi a Filippo V per aderire alla Quadruplice. Se l’avesse fatto, non gli sarebbero stati considerati decaduti i diritti su Parma e la Toscana levatigli per non aver aderito all’offerta precedente. L’esercito francese appoggiò l’intimazione entrando in Catalogna, ma non riuscì a procedere molto più in là d’Urgel, a ridosso del confine. Del resto la stagione era ormai inoltrata, specie nella zona pirenaica, e si doveva andare ai quartieri invernali. Intanto, il 29 novembre, accennando indirettamente alle trattative dell’anno prima con Stanhope, il Cardinale scriveva al conte Rocca: “Perdono a V.S. Ill.ma come ho perdonato a tant’altri che hanno creduto essere io inimico della Pace. Volesse Iddio che fosse stato in mia mano l’accettarla, che l’assicuro sarebbe stata fatta nel mese d’Agosto dell’anno passato.”CLVII Non sapeva ancora che i contendenti si stavano accordando per fare la pace a sue spese. I due nobili piacentini Beretti Landi e Scotti, nella loro qualità di rappresentanti del Re di Spagna, erano riusciti a farsi ascoltare dagli Alleati. La condizione principale su cui articolare le trattative era stata il congedo d’Alberoni. A Madrid il Re l’aveva accettato, convinto, o volendosi convincere, che fosse l’unico punto, mentre per gli Alleati non era l’unico, ma il primo d’una lunga serie; però, sapendo quanto pericoloso fosse il Cardinale, non fecero nulla per chiarire l’equivoco, ammesso che se ne fossero resi conto. A questo si sommava un tradimento dei più neri. Francesco Farnese, premuto da Londra e da Parigi per spingere Filippo V alla pace, gli aveva scritto una lettera autografa. Il marchese Scotti in persona la consegnò al Re e la bomba esplose: il duca di Parma oltre a spiegare come e qualmente Alberoni fosse l’ostacolo tra la Spagna e la pace, rivelava, viste le lettere scritte a Nancré – e qui riporto le non obiettive parole del cardinal Baudrilart – “la falsità di questo ministro, che, nelle sue lettere segrete, osava attribuire la guerra alle sole passioni del Re suo padrone.”CLVIII Alberoni aveva osato dire la verità!? Che vergogna! Andava cacciato! Lo fu. Indignato per essere stato svergognato, ancorché in privato, e convinto che l’eliminazione d’Alberoni avrebbe risolto tutto, il 5 dicembre 1719, a un anno esatto dal fermo di Portocarrero a 125


Poitiers, Filippo V diede a don Miguel Duran un decreto di propria mano perché lo consegnasse al Cardinale; poi se ne andò a caccia colla Regina. Alberoni l’aprì e seppe d’essere stato esonerato dai suoi incarichi: doveva non presentarsi mai più davanti alle Loro Maestà, uscire da Madrid entro otto giorni e dalla Spagna entro tre settimane. Si pubblicò poi a Vienna: “Che alla partenza di queste Lettere nacque la voce, dell’esser il suddetto Cardinale Alberoni caduto in disgrazia appresso il Duca d’Angiò, d’ordine del quale il Marchese Grimaldi65 portò un Decreto ad esso Cardinale, con cui questo viene rilegato da Madrid, addossandogli tutti gli scompigli sorvenuti alla Spagna nella presente Guerra, la quale non potendo dal Duca d’Angiò essere sostenuta più longo tempo contro sì Potenti Alleati, la Pace sarebbe conchiusa al più tardi frà 2 à 3 Mesi.”CLIX E’ un testo degno di nota. Quell’addossandogli tutti gli scompigli diceva chiaramente chi l’Imperatore ritenesse responsabile della guerra e quanto la disgrazia d’Alberoni apparisse un ripiego del Re per giustificarsi e un offa lanciata ai nemici per calmarli. Era già tutto stabilito, se no come si sarebbe potuto dire che “la Pace sarebbe conchiusa al più tardi frà 2 à 3 Mesi”? In effetti si sapeva abbastanza bene che le Potenze della Quadruplice avevano posto l’allontanamento d’Alberoni come condizione per la pace. Erano consce di quanto la sua energia avesse giovato alla Spagna, per cui levarlo di torno per loro era già un successo. Caso mai veniva da domandarsi se tale allontanamento fosse davvero stato voluto da Filippo V senza il consenso d’Alberoni. Gli Austriaci stamparono voci in merito già pochi giorni dopo. Sottolinearono che il Cardinale era stato lasciato partire senza alcuna obiezione e – favoleggiarono – con somme enormi, senza toccare alcuna delle sue proprietà, come si pubblicò a Vienna il 27 gennaio: “Madrid 21. Dicembre 1719 Il Marchese Scotti si trattiene tuttavia in questa Corte, pare però che sarà mandato verso alcune Corti Estere, per travagliarvi negli affari della Pace Universale: intanto non si può capire, ch’il Cardinale Alberoni non solamente nel giorno della sua disgrazia, ma eziandio nel susseguente, era stato appresso il predetto Ministro in longo abboccamento, giacché constà, che questi aveva non poco contribuito alla partenza d’esso Cardinale. & era stato il primo, che ne mandò l’avviso all’Abbate di Bois in Francia; laonde bisogna che questi abboccamenti habbiano toccato delle concernenze di grandissima importanza; lequali ci aprirà forse il tempo: in questo mentre qui molti vogliono sostenere, che l’inimicizia di quelli due Signori non sia troppo grande; e la disgrazia verso quel Porporato non troppo seriosa; lusingandosi, che la sua partenza, e spedizione in Italia, sarà alla nostra Corte altrettanto vantaggiosa quanto la sua presenza. Peraltro si ha ancora risaputo, che esso Cardinale prima di partirsene, haveva ricevuti da tutti li Ministri Esteri li Complimenti di Congedo, che gli si sono lasciati tutti i suoi Beni, & entrate, che ha in Ispagna, anzi si dice che habbi preso seco più di 3 Milioni in Denari, e Gioie.”CLX Era davvero così? All’indomani del congedo Alberoni aveva scritto a Rocca una lettera che indurrebbe a pensarlo, pur se potrebbe essere stata una mossa per farsi credere ancora saldo al potere e in buoni rapporti col Re. Se era così, si sbagliava di grosso ed ignorava – ancora – la parte giocata dal duca di Parma contro di lui. Scriveva dunque a Rocca: “Ill.mo Signore Dal nostro Signor Marchese Annibale Scotti intenderà V.S. Ill.ma quanto passa. 65

Quello riportato qui come Grimaldi è il Primo segretario di Stato marchese di Grimaldo. 126


Era il minore sacrificio che si potea fare per dare la pace all’Europa. Sarò in questo modo più da vicino per godere delle sue nuove.”CLXI Nessun risentimento, nessuna parola men che misurata e quell’ “Era il minore sacrificio che si potea fare per dare la pace all’Europa” sembrava proprio confermare una misura non subita, ma presa d’accordo fra il Re e il Cardinale. In realtà non era così. Alberoni era spaventato da quanto stava accadendo e furibondo col re di Spagna, tanto da vendicarsene, come vedremo, in maniera durissima, praticamente passando al nemico peggiore: al Reggente di Francia Per il momento radunò le sue cose, ricevé davvero le visite di circostanze dei diplomatici stranieri, prese le sue precauzioni, chiese ed ottenne passaporti per l’estero dalle Potenze nemiche e sfruttò i suo contatti genovesi. Sopratutto fece subito sparire i suoi soldi, tutti, ma questo lo vedremo in seguito. Qui ci basta sapere che tramite la sua solita banca Baccio, Piti & Compagni ebbe delle lettere di cambio per 24.000 pezzi da otto66 su Genova, pagabili su Giovan Battista Cambiaso. Grazie al marchese Grimaldi ottenne l’ospitalità della Repubblica di Genova, vi spedì il grosso dei bagagli via mare facendoli passare da Alicante e il 12 dicembre 1719 lasciò Madrid.

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Un pezzo da otto spagnolo pesava 550,209 grani spagnoli, pari a 27,468 grammi d’argento, purezza al 930,55‰, il che significa che conteneva effettivamente 25,560 grammi d’argento puro. Poiché il cambio all’epoca si faceva a peso e il pezzo da otto era da un secolo – e lo sarebbe rimasto fino alla fine del ‘700 – la moneta più usata negli scambi internazionali. Dato il suo peso e il valore dell’argento, possiamo dire che 50 Luigi d’oro francesi, e dunque pressappoco 100 scudi d’oro pontifici, equivalevano a 100 pezzi da otto; perciò i 24.000 pezzi da otto d’Alberoni equivalevano a 24.000 scudi romani d’oro. Vedremo nella nota 70 e poi nel capitolo XXI che cosa accadde a questa lettera di cambio. 127


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Capitolo XVIII La “fuga” Contrariamente a quanto molti sostennero poi, il viaggio d‘Alberoni non ebbe l’aspetto né la velocità d’una fuga e probabilmente nemmeno i disastri che quei molti pensarono e scrissero. A dire il vero, viene da chiedersi se non fosse stato preparato già da tempo. E’ difficile credere che in soli otto giorni, colla lentezza dell’epoca, il Cardinale potesse aspettarsi d’avere riscontro dell’ospitalità da parte di Genova. Anche ammettendo che la risposta gli giungesse in viaggio, il che spiegherebbe in parte i movimenti di lettere colti dalla sua scorta in Francia, poteva trovarsi davanti ad un diniego mentre era ancora in Spagna, o già in Francia. Se Grimaldi non ci fosse riuscito che avrebbe fatto? In fondo per la Repubblica una richiesta del genere poteva essere molto imbarazzante, per di più da parte d’uno che non era nemmeno suddito genovese. Cosa poteva capitare ad ospitare un cardinale così discusso e con tanti nemici fra i quali il re di Spagna, una cui parola poteva ledere gli interessi genovesi per milioni e milioni? E’ perciò plausibile che Alberoni si fosse organizzato con molto anticipo e che Grimaldi, quando gli giunse la sua richiesta, da tempo avesse persuaso chi di dovere, così da evitare imprevisti. Non solo: questo spiegherebbe pure come mai il Cardinale partì con una lettera di cambio di sole 24.000 doppie, quando – come vedremo – ne aveva almeno il triplo, se non il quadruplo, e la voce pubblica gliene avrebbe attribuite 400.000. Lasciò Madrid il 12 dicembre con don Carlo Rosellini, Camilla Bergamaschi, il di lei figlio, quattordici domestici, di cui solo sei giunsero con lui in Francia67 e una scorta di cinquanta ufficiali e soldati. Il corteo comprendeva una carrozza alla francese per lui e don Carlo e quattro all’italiana per il seguito e la parte più importante del bagaglio, il resto del quale era su nove mule. Il traino era di complessivamente venti cavalli: una media di quattro a carrozza. Il bagaglio includeva un letto da campo per il Cardinale, due cofani di vasellame d’argento, il fornimento per la cappella del Cardinale, quello per la cappella ordinaria di don Carlo, il guardaroba, provviste, attrezzi da cucina e tutto il bagaglio dei domestici. Era un convoglio d’un centinaio di metri, che non poteva avanzare molto in fretta e copriva in media da 30 a 40 chilometri al giorno, come si vide poi in Francia. Mi dilungo su questi particolari perché, come vedremo poi, sono importanti per determinare la veridicità di alcune descrizioni del viaggio. Alberoni aveva chiesto il permesso d’uscire dalla Spagna per Pamplona, ma gli fu risposto che l’unica via per lui era per Saragozza e Barcellona, che avrebbe ricevuto i passaporti in viaggio, a Lerida o Girona e che le autorità lungo il percorso dovevano considerarlo un semplice privato. Adesso deve premettere che la versione del suo viaggio che sto per dare non coincide per nulla con quanto scrissero tutti, a partire da Bersani, Poggiali e Castagnoli, ma è quella vera. Il Cardinale segnò le tappe sulla sua copia de l’Imitazione di Cristo.

67 Dopo averlo incontrato oltreconfine, il Signor de Marcieu riferì al Reggente “Sua Eminenza ha per il suo seguito particolare soltanto nove persone, cioè un certo don Giuseppe, giovane ecclesiastico suo nepote che avrà 26 o 27 anni e che il cardinale fa passare per suo cappellano; poi la madre di questo nepote e quindi cognata del cardinale, donna di circa quarantasei anni che viaggia però in disparte. Un altro cappellano si chiama don Carlo, di spirito in apparenza molto limitato ed anche, a quanto sembra e a quanto dice, molto povero di denari, però molto attaccato al suo padrone, il quale da parte sua lo tratta con grande fiducia, ma soltanto per le cose di minore importanza; egli è da molto tempo al servizio del cardinale. Ci sono ancora: una specie di mastro di casa, per nome Genest, nativo di Tonnerre in Borgogna, molto capace ma tenuto in poco conto dal suo padrone; due camerieri, uno piemontese e l’altro romano; due lacché, italiano l’uno e fiammingo l’altro; un cuoco francese e finalmente un piccolo moro. Questi quattro sono con sua Eminenza da poco tempo e pare che non siano affatto al corrente degli affari…”, cfr. De Marcieu, Mémoire, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 32-33. 129


Ne sappiamo qualcosa solo grazie a Poggiali, perché già Bersani non riuscì a ritrovarla e dovette contentarsi, come Castagnoli e me, di quanto aveva scritto Poggiali, il quale invece l’aveva vista68 e riferì che il Cardinale: “partì da Madrid il giorno 12 (siccome trovo notato di proprio carattere di lui in fine di un Tommaso a Kempis de Imitatione Christi, colla cui lettura dovett’egli consolarsi alcun poco in tanta sua disgrazia) alla volta dell’Italia, con disegno di passare in Genova.”CLXII I segnali di pericolo iniziarono presto. Alberoni aveva lasciato Madrid da alcuni giorni69 quando a Saragozza fu raggiunto da una staffetta che gli chiese di restituire il codicillo. Era quello apposto dal Re al proprio testamento dell’autunno 1717, con cui, in caso di morte prima della maggiore età del primogenito, confidava la reggenza alla Regina e ad un Consiglio di Reggenza presieduto dal Cardinale. Questi rispose di non sapere che fosse. L’ufficiale tornò a riferire. Filippo decise che Alberoni mentiva e, secondo il postscriptum della lettera che Scotti mandò a Parma il 22 dicembre, ordinò a Grimaldo di far sapere al Cardinale che, rifiutando di consegnare il codicillo stando ancora in Spagna, si metteva in un brutto pericolo.CLXIII Il corriere ripartì, raggiunse di nuovo Alberoni, ormai a Lerida70 ed insisté per avere: “quell’atto che S.M. aveva fatto in sua malattia, e che aveva ordine di riportarlo a Madrid.”CLXIV Come Scotti riferì al duca di Parma il 1° gennaio71 e il Cardinale scrisse nel suo quarto manifesto, Alberoni rispose d’averlo stracciato e proseguì il viaggio.CLXV 68

Oltre ad averla vista se l’era pure presa e tenuta. Il padre Rossi, nel suo dettagliatissimo e dotto studio Il Poggiali può dirsi “storico dell’Alberoni”?, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pag. 357 e segg., a pagina 376 scrisse che “questo preziosissimo cimelio, che dovette essere concesso per studio al Poggiali, probabilmente non fu più restituito all’Archivio del Collegio (non è registrato nel primo catalogo della biblioteca steso sul finire del secolo XVIII) né si sa dove sia finito”, pur ipotizzando più oltre, a pagina 383, che “se i documenti alberoniani rimasti presso il Poggiali passarono poi nelle mani del Canonico Vincenzo Bissi, potrebbero trovarsi ancora fra le sue carte alla biblioteca Comunale di Piacenza.” 69 Bersani scrisse il 14, cioè due giorni dopo la partenza da Madrid, ma, come vedremo, si sbagliava di sicuro. 70 Il 6 marzo gli “Avvisi italiani” riportarono una notizia da Madrid del 3 febbraio, che crea più confusione che altro ma che trascrivo per completezza “E da LERIDA s’è ricevuto aviso, che subito giunto colà esso Cardinale Alberoni, un’Uffiziale gli dimandò le Chiavi delli suoi Coffani, per parte di questa Corte, e trovatesi più Chiavi che Casse, S. Emin. asserì d’havere mandata parte delli suoi Bagagli per la via d’Alicante; Doppo che detto Uffiziale hebbe fatta la visita delli Coffani, e trovate le Scritture da esso cercaste, se ne tornò à Madrid, ove ha portato altresì li pezzetti d’una Lettera di Cambio di 25000 Doppie, la quale il Cardinale haveva stracciate in sua presenza.”. Cfr “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1720”, “Corriere ordinario”, Giorno di Posta XIX, 6 Marzo 1720, Madrid 3 Febraro, pag. 40, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1720. Va detto che dell’ispezione dei cofani e del sequestro delle carte ci fu, oltre ad un appunto del Cardinale, una relazione indiretta, che attribuì l’una e l’altro al governatore di Lerida. Lo sappiamo da una lettera di Francesco Farnese, che scrisse a Scotti d’averlo saputo dal suo agente a Piacenza Politi, cui l’aveva riferita il padre Barbieri, il quale riportava quanto gli aveva detto fra’ Giovan Battista Berri, in contatto epistolare con Alberoni, i cui interessi curava nel Piacentino durante la latitanza, perciò siamo davanti ad una notizia di quinta mano, ma coincidente col quarto manifesto d’Alberoni e riferita nella lettera di Francesco Farnese a Scotti, datata Colorno, 17 settembre 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, appendice, docum. 18, pag. 336. 71 Ricordiamoci delle date del postscriptum del 22 dicembre e della successiva lettera del 1° gennaio, perché occorre spiegare le ulteriori discordanze fra i suoi vari biografi, discordanze a cui è bene fare attenzione, perché dimostrano che non videro il quarto manifesto, il quale non è né nella prima né nella seconda edizione di Rousset de Misy, ma, essendo stato pubblicato integralmente dal padre Rossi nel 1978, evidentemente non era introvabile. In esso Alberoni descrisse con sintetica precisione tutta la storia. Secondo Bersani, che si basava molto sul lavoro di Poggiali e un po’ sulle lettere d’Alberoni, quando il Cardinale fu raggiunto la prima volta era a circa cinque chilometri, più esattamente “a tre miglia da Barcellona”. Onestamente, che coi mezzi e sulle strade d’allora un convoglio di cinque carrozze e nove mule, in pieno inverno, avesse coperto la distanza da Madrid a Barcellona in due giorni era assolutamente impossibile. Fra le due città ci sono circa 500 chilometri. La velocità massima che un cavallo può tenere sulle lunghe distanze non supera i 15 130


In seguito avrebbe spiegato, raccontando entrambe le fermate: “Questa Scrittura dissi, essendo che dopo risanato per grazia di Dio e per gloria del Mondo tutto quel sì pio e degno Monarca, più a nulla serviva, non l’avevo io conservata come cosa di riglievo, ed, in effetto, in compagnia di certe facoltà concessemi nel tempo del mio Ministero,furono trovate nel Baullo di Don Carlo Rosellini, che diceva di volerle conservare, per attestato della somma confidenza, e meglio averebbe detto clemenza, e generosa benignità, che il Ré avea per mé avuta. Detta Scrittura, sotto nome di Codicillo, mi fu ricercata dal Segretario Sig.Marchese Grimaldi, con Corriere che mi trovò in Saragozza. Confesso che simile dimanda mi sorprese, e rispedii il Corriere con rispondere che non solo non avevo il Codicillo, che mi si richiedeva, ma tampoco sapevo l’avesse fatto S.M.”CLXVI Come dice Castagnoli, arrivato a Saragozza, Alberoni si fermò un’intera giornata alla locanda detta el Meson del Silar e, senza che se ne accorgesse, fu sorpassato da un corriere, che portava al comandante della piazza di Lerida72 l’ordine di impadronirsi delle sue carte. Lo sappiamo dal Cardinale stesso, il quale scrisse nel suo quarto manifesto che, dopo la visita subita a Lerida e mentre il corriere rientrava alla capitale: “Prima però che arrivasse il Corriere à Madrid, con questa mia seconda risposta, fu spedito altro Corriere a certi Ufficiali di Lerida, perché si portassero di là da Barcellona, ove seguì la sudetta perquisizione.”CLXVII Sempre secondo Castagnoli, l’andarono ad aspettare a “Sant’Andero”, allora a una lega, cioè circa quattro chilometri e mezzo, da Barcellona e quando arrivò lo depredarono di tutto. Prima d’andare avanti, occorre fare attenzione a un’altra cosa: Sant’Andero non esiste. A circa quattro chilometri e mezzo da quello che oggi è il centro della città e che nel Settecento era tutta la città di Barcellona, esiste Sant Andreu, ma è in uscita da Barcellona per chi va a nord, verso Girona, come Alberoni, non è in entrata per chi arriva da Saragozza e Lerida come lui. Perciò se la perquisizione fu là, avvenne dopo l’uscita dalla città, non prima d’entrarvi. Alberoni arrivò a Barcellona il 28 dicembre e si fermò alla locanda del Meson del Monserrat. Il 29 dicembre da Barcellona scrisse due lettere, di cui parlerò dopo per evitare troppa confusione e, intanto, assodato che Sant Andero non esiste né sulla strada da Lerida a Barcellona, né in assoluto, che invece esiste un Sant Andreu su quella da Barcellona a Girona, possiamo ammettere che fu là, il 31 dicembre 1719, che, uscito da Barcellona, Alberoni fu raggiunto da un reparto misto di cavalleria chilometri orari, mentre una mula carica di bagagli può viaggiare a 5 chilometri orari, forse pure a 10, ma per tappe non superiori alle tre o quattro ore al giorno. Questo coincide con le valutazioni successivamente date da testimoni oculari che il convoglio d’Alberoni coprisse circa 40 chilometri al giorno. Ora, a 15 chilometri orari, la distanza fra Madrid e Barcellona necessiterebbe, si, di trentacinque ore, ma a condizione di farle tutte di seguito, senza le soste per il cambio, notte e giorno su strade sterrate e non illuminate, il che è impossibile; perciò due giorni soli per coprire il percorso in quelle condizioni sono assolutamente da escludere. Per questo l’ispezione che subì o non fu due giorni dopo aver lasciato Madrid, o non fu nei pressi di Barcellona; ma Bersani scrisse che fu a tre miglia da Barcellona lasciando intendere che fosse prima dell’entrata in città evidentemente per cercare di far quadrare i tempi e non ci riuscì. Ad ogni modo Bersani riferisce che, quando fu raggiunto per la seconda volta, il Cardinale subì la perquisizione e venne privato di quasi tutte le sue carte, mentre, come vedremo, ciò accadde non la seconda, ma la terza volta. Del resto, se effettivamente fosse stato a sole tre miglia prima di Barcellona quando fu raggiunto la prima volta, avrebbe avuto il tempo d’entrare in città prima d’essere raggiunto per la seconda volta e perquisito. Allora, teniamo a mente che, quando Bersani dice che “due giorni dopo aver lasciato Madrid” Alberoni fu perquisito e privato di tutte le sue carte, sbaglia. 72 Castagnoli menzionò un ordine al comandante della piazza di Barcellona, ma fu Alberoni stesso a parlare d’un ordine alle autorità di Lerida d’andare ad attenderlo all’uscita da Barcellona, cfr. Quarto manifesto dell’Alberoni al card Paolucci: da rifugio segreto senza data, rip. in ROSSI, G. F., Antologia di scritti alberoniani, in ROSSI, Giovanni Felice C.M., Cento studi sul Cardinale Alberoni, cit., vol. IV, pag. 659. 131


e granatieri. Gli rivoltarono la carrozza da cima a fondo e gli presero tutte le carte che aveva, compresi gli originali delle lettere di Francesco Farnese. Ricordò Alberoni nel suo quarto manifesto che nell’ispezione: “…mi furono levati per sino i Brevi, ed altre facoltà di testare, che si concedono, come V.E. ben sa, à Cardinali, non che ogn’altre lettere, e scritture, segno chiaro che non si cercava la denunziata Scrittura per S.M., mà si faceva servire questa di pretesto per levarmi quelle giustificazioni, che potevo avere della mia condotta, senza che io, per tutte le maggiori istanze fatte, potessi ottenere Inventario, è ricevuta di quanto mi fu levato.”CLXVIII Se anche avesse avuto dei dubbi su quanto lo minacciava, quel sequestro glieli tolse tutti. Riassunse Castagnoli duecent’anni dopo: “Lo separarono dai suoi e cominciarono la perquisizione con l’ordine di sparare contro chiunque ardisse opporsi con atti o con parole. Bauli, casse, carrozze, tutto fu esaminato accuratamente: lo stesso cardinale fu personalmente perquisito da un ufficiale, il quale giunse fino a esaminargli la camicia. Radunate così trentotto libbre di documenti, il gruppo di soldati ritornò a Barcellona, mentre il comandante della spedizione salutava dicendogli: “ed ora andatevene con Dio, o meglio, col diavolo che vi porti.”CLXIX L’indomani, sempre sulla strada fra Barcellona e Hostalric, a Trentapassos, non lontano da Sant Celoni – che Castagnoli riporta come San Saloni – il convoglio d’Alberoni fu assalito da una banda di 250 micheletti. Castagnoli dice che si salvò a stento, ma quattro soldati della scorta e un servitore furono uccisi ed un ufficiale fiammingo e un conducente gravemente feriti, “mentre l’Alberoni, saltato a cavallo, riusciva a farsi largo e fuggire, salvando anche tutta la sua roba.”CLXX E’ un quadro drammatico, romanzesco, cinematografico, ma…. ci possiamo fidare? Verifichiamo la fonte di Castagnoli: è il cavalier de Marcieu, colonnello del Reggimento dei Vascelli, mandato dal reggente di Francia incontro ad Alberoni per scortarlo con 30 uomini dal confine spagnolo ad Antibes e intanto sorvegliarlo e sondarlo. Marcieu, che incontrò Alberoni il 6 gennaio oltre Perpignano, riferì tutto questo al Reggente nel primo rapporto, datato appunto 6 gennaio 1720. E da chi aveva saputo tutto questo il signor de Marcieu? Da Alberoni stesso.CLXXI Era la verità? Potrebbe, dovrebbe esserlo stata. Però Bersani riporta una cosa un po’ diversa: “Tra Lerida e Girona fu assalito dai Micheletti, e benché avesse una buona scorta fu costretto a salvarsi a cavallo entro un bosco, cambiando abiti per non cadere nelle loro mani.”CLXXII Da Lerida e Girona c’è un sacco di strada. Ci si può andare direttamente; ma anche triangolando per Barcellona; e Alberoni passò da Barcellona, come il padre Castagnoli ha dimostrato ed Alberoni scritto nei suoi appunti. Bersani da dove prese queste notizie? Da una lettera aperta indirizzata al cardinal Paolucci, segretario di Stato da… Alberoni! E cosa scrisse Alberoni a Paolucci? “Parlo del consiglio dato alla M.S. di non lasciarmi uscire dalla Spagna per altra strada che quella della Catalogna, benché reiteratamente fosse fatta da me supplicare di permettermi quella della Biscaglia, per sottrarmi al preveduto e pericolo incontro de’micheletti che infestavano quella parte. Grande Iddio! Se quando fra Lerida e Girona fui assalito da 150 di essi, che fu per l’appunto nel giorno seguente a quello in cui avevo sofferto lo spoglio di tutte le mie scritture, toltone quelle poche, che Iddio 132


volle misericordiosamente, per gran parte della mia giustificazione, occultate alle diligenze di chi ne faceva la ricerca, se allora, dico, che assalito dai micheletti fui obbligato uscire di sedia, mettermi a cavallo e salvarmi, dopo vedutomi uccidere un calessiere e un soldato, e quattro altri essere mortalmente feriti, avessi dovuto soccombere, come poco o quasi niente vi mancò, chi avrebbe mai potuto levar di bocca ai nemici del nome glorioso del re cattolico, che non m’avesse egli inviato al macello?”CLXXIII Bene, è meglio fare qualche riflessione. Prendiamo o no per buono il quadretto della perquisizione, incluso il finale ed ora andatevene con Dio, o meglio, col diavolo che vi porti ? Lo dice Castagnoli, che lo prende da de Marcieu, che riporta quanto gli ha detto Alberoni e più o meno coincide con quanto scritto da Bersani, che si rifaceva a Poggiali, che lo sapeva da Alberoni. Insomma: le due fonti diverse in realtà sono una sola: Alberoni. Ci fidiamo? Fidiamoci. Passiamo ai micheletti. Qui di nuovo ci sono delle discordanze. De Marcieu il 6 gennaio 1720 riferisce di 250 micheletti – tanti gliene ha menzionati Alberoni – che però il 15 maggio 1720 sono già scesi a 150, quanti ne indica sempre Alberoni nella lettera aperta a monsignor Paolucci pubblicata a Genova. Ora, che abbiamo qui? Che, limitiamoci al minimo, 150 micheletti, cioè 150 montanari che fanno i banditi da strada e sono tanto celebri per la loro mira da essere inquadrati in appositi reggimenti di fanteria leggera da montagna, tendono un’imboscata ad un lento convoglio di cinque carrozze e nove mule lungo cento metri e cosa succede? Nella versione del 7 gennaio, 250 micheletti uccidono quattro soldati della scorta e un servitore e feriscono un ufficiale e un conducente; in quella di maggio 150 micheletti uccidono un conducente e un soldato e feriscono altri quattro soldati. In cinque mesi c’è un marcato calo di attaccanti e di perdite. In entrambi i casi Alberoni, ormai cinquantaseienne, obeso e certo non agile, ha il tempo d’uscire dalla carrozza, saltare a cavallo, scappare in un bosco, cambiarsi e sfuggire all’attentato; e del convoglio si salvano….. cinque carrozze, nove mule e tutto il bagaglio!? Ma che razza di ladri da strada e ottimi tiratori sono se in 150 – peggio se in 250 – non riescono a fare un colpo così facile? Alla prima scarica 150 tiratori mettono fuori combattimento….. mezza dozzina di persone che si muovono lentamente, in gruppo e allo scoperto? E non riescono a impadronirsi né del bagaglio, né del Cardinale? In 150? E non insistono? E da chi abbiamo questa notizia? Da Alberoni.73 E come sappiamo che non riuscirono a portargli via nulla? Perché il cavalier de Marcieu vide coi propri occhi, sei giorni dopo l’agguato, sia il convoglio, sia il contenuto dei bagagli, diligentemente ispezionati già a Narbona dai direttori e dai commessi dell’intendenza di finanza, e in cui c’erano: “milleduecento doppie di Spagna (ne aveva 1500 partendo da Madrid), alcune medaglie d’oro, alcuni gioielli di poco valore, tra i quali non c’è che una croce vescovile, smeraldi piatti ma assai belli e grossi, alcuni altri smeraldi, zaffiri, ametiste ed altre pietre di poco valore adattate per ornare una mitra, un paio di pendagli e un paio di orecchini, alcune pietre tagliate a para che gli erano state mandate come campione dei diamanti fini per la Regina di Spagna, ed infine una dozzina di tabacchiere ed altri ciondoli di poco valore.”CLXXIV E pensare che c’è gente che a parlato d’un Alberoni fuggiasco, seminudo, giunto in Francia derubato di tutto dopo essersi difeso pistola alla mano! Malignamente, viene da domandarsi se davvero i micheletti fossero 150, o non piuttosto una decina scarsa; se davvero fossero in attesa d’Alberoni e non del primo che passava e se infine, fatta la prima scarica e capito d’aver mancato il 73

Alberoni incontrò de Marcieu e la scorta francese al confine. Giunse il 9 gennaio a Montpellier e ripartì l’indomani per Nimes. De Marcieu scrisse subito al Reggente, mentre il pubblico di Parigi ne seppe qualcosa solo un po’ prima del 21 gennaio grazie a lettere da Montpellier, sulla cui base la storia fu pubblicata a Vienna il 7 febbraio, riferendo come perdite un aiutante di camera morto e un numero imprecisato di feriti tra seguito e scorta. De Marcieu riferì che Alberoni sospettava Grimaldo e la sua cricca d’averlo voluto far uccidere. 133


colpo, non si fossero dati alla macchia, causando una gran paura e fornendo ad Alberoni un’occasione di propaganda, senza che la corte di Spagna ci fosse entrata per nulla. Il Reggente conosceva sia Filippo V che Alberoni. Detestava il primo e tutto sommato non si curava del secondo; perciò per il Cardinale rendergli noto, tramite de Marcieu, d’aver subito un tentativo d’assassinio ordito da Filippo V era una salvaguardia: significava dare prova d’essere in pessimi rapporti col re di Spagna e dunque accettabile, o almeno tollerabile, dal reggente di Francia. Nell’imminenza della ripresa delle operazioni, a Filippo d’Orléans e a Dubois interessava capire se il viaggio non nascondeva qualche strano trucco e scoprire quanto più possibile il vero ruolo ricoperto da Filippo V, ad esempio nella Congiura di Cellamare, su cui Alberoni poteva raccontare molto. Il Cardinale disse subito quel che pensava: “Signor de Marcieu, parliamo chiaro, da gente di probità e d’onore: Sua Altezza Reale. v’ha inviato degli ordini al vostro Reggimento per venir piuttosto a esaminare la mia condotta in Francia che per provvedere alla mia sicurezza durante il mio cammino, dite la verità, perché non bisogna essere molto abili per comprenderlo. Questo si deve ed è molto naturale. Abbiate la bontà di comunicare a Sua Altezza Reale che vi ho incaricato di dirgli che la mia condotta in Francia sarà tale quale debba essere e fuor di Francia tale quale quel Principe potrà desiderarla.”CLXXV Detto questo, parlò di tutto meno che di cose importanti; quelle le scrisse, come vedremo dopo. In orari strani preparò delle lettere che svanirono misteriosamente, fu visitato da persone che scomparvero altrettanto misteriosamente e per il resto non diede la minima noia durante tutto il viaggio; ed era meglio così. Aveva un’ottima ragione per non dare fastidi e così evitare inchieste ed ispezioni: le lettere più compromettenti per la Spagna erano ancora nelle sue mani, anzi, sotto i suoi piedi. Lo raccontò nel settembre del 1720 non il Cardinale, ma il suo agente, il francescano Giovan Battista Berri al confratello padre Barbieri, il quale fece sapere al duca di Parma che delle lettere portate da Alberoni via da Madrid erano: “… restate al Cardinale le più importanti, mentre nella perquisizione che gli fu fatta dal Governatore di Lerida non seppe egli trovarle a causa d’essere state nascoste in una cassetta di danari, che sempre teneva nella sua sedia e a’ suoi piedi il Cardinale medesimo ed in un altro Bavullo nel quale siccome nella detta cassetta era un segreto d’una tavola che formava un fondo finto, ma restando più alta del vero fondo, lasciava luogo tra l’uno e l’altro di tenervi celate le stesse scritture. Asserisce che fece il Cardinale grande strepito per la detta perquisizione, ma che poi segretamente se ne burlava per essergli rimaste le scritture di maggior rilievo, che dice contenere trattati di leghe e di segrete intelligenze contro l’Imperatore, ed essere però abilissime ed utilissime perché possa il Cardinale far la guerra a’ suoi nemici.”CLXXVI Conscio d’essere in grado di minacciare i suoi avversari, il Cardinale aveva due questioni da sistemare: arrivare a Genova e provvedere ai suoi interessi e lo fece con le lettere scritte a Barcellona il 29 dicembre, indirizzate a due suoi fidati amici: uno era il canonico Giovanni Francesco Bertamini, di Fiorenzuola d’Adda, l’altro era citato nella medesima lettera: “Con altra mia, che indirizzai al Sig. Francesco M. Grimaldi di Genova, havrà il mio caro Sig. Can.° l’uscita mia di Spagna e come mi incamminarò a Antibo, ove spero essere verso il 20 del prossimo Genaro e trovarvi una Galera della Repubblica a cui effetto ho scritto al sod.° Sig. Grimaldi. Ho pensato sbarcare in Sestri di Levante, ed ho pregato il d.° Sig. Grimaldi farmi trovare una casa o almeno in quelle vicinanze. Io replico al mio caro Sig. Can.° il vivo desiderio che ho di vederla e di darle un abbraccio, e siccome mi haveva fatto sperare 134


che farebbe il viaggio di Spagna, così mi lusingo non lascierà di fare un sì corto camino per darmi una sì gran consolazione e per discorrere seco alcuni miei negozij.”CLXXVII Due note sono qui necessarie: stando a Fiorenzuola d’Adda, nel piacentino, Bertamini era suddito farnesiano. E’ possibile quindi che la sua corrispondenza sia stata spiata, ma non è certo. E’ sicuro invece che il Duca sapesse quando e dove Alberoni sarebbe giunto in Italia, perché Bertamini andò a Genova incontro al Cardinale, portandogli una lettera del conte Rocca.74 Non avrebbe potuto agire diversamente. Non fosse che per il dover chiedere la fede di sanità e il permesso di lasciare gli Stati Farnesiani, era costretto spiegare dove andava e perché; e Alberoni lo sapeva benissimo. Resta il fatto che, sulla base del Carteggio Bertamini custodito nell’Archivio Alberoni, il padre Rossi duecentocinquant’anni dopo poté definire il Canonico “uno dei grandi amici dell’Alberoni: gli curò gli interessi, gli custodì grosse somme; gli fu procuratore”CLXXVIII per cui nell’incontro si trattò molto probabilmente di questioni di denaro. E infatti nel marzo del 1720 giunsero a Bertamini dalla Spagna attraverso diversi banchieri cinque rimesse75 per un totale di 116.000 pezzi da otto, pari ad altrettanti scudi romani: sarà il caso di ricordarcene.CLXXIX La seconda nota riguarda il protettore di Alberoni. A chi non si occupa di Settecento, il nome del marchese Francesco Maria Grimaldi non dice nulla, ma era una delle persone più influenti nella Genova del suo tempo. Membro d’una famiglia che includeva i principi di Monaco, il marchese Francesco Maria aveva grandi interessi immobiliari e commerciali. Nipote del da poco defunto cardinale Grimaldi, aveva un fratello, Girolamo, che nel 1731 sarebbe divenuto anch’egli cardinale e che in quel momento era assistente al soglio pontificio a Roma. Francesco Maria era stato l’inviato straordinario della Repubblica di Genova a Madrid dal gennaio del 1713 al dicembre del 1715, vi aveva rilevato Ambrogio Imperiale e conosciuto benissimo Alberoni, il quale, avendolo aiutato per un affare concernente l’appalto delle saline spagnole, sapeva che rivolgersi a lui era una garanzia: la Repubblica gli avrebbe spalancato le porte. Questo consente d’aprire una parentesi sul perché Alberoni andò a Genova. Non sapeva se poteva recarsi a Parma, avrebbe scoperto di no solo all’arrivo e comunque Parma non aveva approdi né confine diretto colla Francia. Modena e Venezia potevano essere raggiunte solo traversando altre terre; gli Stati Sabaudi non erano la destinazione più adatta a chi li aveva appena privati della Sicilia e infatti gli vietarono l’ingresso nel Nizzardo; restavano l’Italia del sud e la Lombardia in mano all’Impero, la Toscana, ancora neutrale e indipendente, Roma e Genova. Perché non Roma, naturale destinazione d’un cardinale? Per un motivo evidente: il Papa, in quanto suo superiore gerarchico e religioso, si sarebbe trovato subito davanti a una pressione diplomatica spaventosa per farlo condannare, non sarebbe riuscito ad opporsi ed avrebbe scelto la soluzione più facile: Castel Sant’Angelo. Perché non l’Impero? Non per divieti od altro, poiché, come il residente farnesiano a Milano ne avvertiva Rocca il 17 gennaio: “Uno straordinario di Vienna quale porta lettere de 7 del corrente… fu spedito per recare l’ordine à questo sig. Co: Governatore di dare il Passaporto per i Domini di S.M.C. al sig. Card. Alberoni, giacché S.A.R. il sig. Duca Reggente, ed il Milord Stairs per l’Inghilterra avevanglieli concessi, ma il sig. Benterieder,76 pur esso richiestone erasi iscusato non poterlo dare, di dove ne spediva con corriere a Vienna l’istanza 74 Il 25 gennaio 1720 Rocca scriveva ad Alberoni: “Trasferendosi costì il Sig. Canonico Bertamini, stimo mio debito di riverentemente felicitare Vostra Eminenza pel suo arrivo in cotesta Città e di avanzarle con la viva voce del Canonico le più riverenti Proteste d’ossequio e di rispetto.” L’originale, riportato dal padre Rossi nella nota 3 del suo saggio A Godiasco nel palazzo Malaspina ecc., si trova nell’Archivio Alberoni, Epistolario Carte Bertamini, 86 e dimostra indirettamente che, se Rocca sapeva dell’arrivo del Cardinale, lo sapeva pure Francesco Farnese. 75 Rossi non riportò i nomi dei banchieri e, certo per brevità, pur indicando la collocazione archivistica come Epistolario Alberoniano Fa. 1212 nell’Archivio del Collegio Alberoni, non li menzionò, limitandosi a elencare le rimesse: “24.000 pezze, 20.000 ducati, 40.000 pezze, 1.500 doppie, 4.500 ducati.” Darò il dettaglio nel capitolo sul denaro d’Alberoni. 76 Il barone Johann Christoph von Penterriedter fu dal 1719 al 1722 l’ambasciatore imperiale a Parigi e Alberoni gli si era rivolto perché non ce n’era uno a Madrid, a causa delle pessime relazioni fra Carlo VI e Filippo V. 135


venutagli, su la quale gionto l’ordine a questo sig. Co: Governatore si è dall’Ecc. S. mandato a Genova il Passaporto.”CLXXX Dunque, se Alberoni aveva il passo libero per i territori imperiali, poteva raggiungerli traversando la Francia fino al Reno, o passando per la Repubblica di Genova e quest’ultima era la maniera più veloce. C’erano molti altri vantaggi. Da Genova poteva passare a Parma e a Milano. A Genova conosceva tantissima gente, a partire dal doge in carica, a molta della quale aveva fatto dei grossi favori; è c’era presumibilmente un altro motivo per andarci, un motivo della massima importanza: i suoi soldi erano là. Ci tornerò sopra nel capitolo dedicato alle sue finanze. Qui mi limiterò a dire che a Genova c’erano almeno quelli trasferiti da Baccio su Cambiaso, ma, secondo me, erano in ottima, numerosissima e occulta compagnia. Comunque, per il momento, prendiamo per buono che vi fossero solo le 24.000 doppie per le quali aveva avuto la lettera di cambio e andiamo avanti. L’11 gennaio 1720 Alberoni era a Nimes. Là scrisse al Reggente giustificando il suo operato, allegando le copie di nove lettere originali ancora in suo possesso e di cui intendeva servirsi e terminando con un lungo memoriale in tre parti, che ai Francesi risultò utilissimo e fu una tremenda vendetta contro il re Filippo.CLXXXI Senza entrare in troppi particolari, qui basta dire che esordiva consigliando al Reggente di non adeguarsi alle proposte di Stanhope, perché la Spagna era in ginocchio e costretta alla pace incondizionata, e proseguiva con una serie di suggerimenti, di cui i più dirompenti erano d’imporle la restituzione dei privilegi locali ai regni d’Aragona, Valenza e Catalogna, senza dimenticare di provare a far lo stesso per la Biscaglia; di rifiutare l’eventuale richiesta di Castro e Ronciglione, sostenendo il Papa contro i Farnese pure a costo di coinvolgere gli Imperiali; di non far uscire le truppe spagnole dalla Sicilia e dalla Sardegna finché non fosse stata firmata la pace, facendo lasciar loro lì tutta l’artiglieria, così da privare Filippo V d’un esercito numeroso e agguerrito. Seguivano una serie di suggerimenti volti ad indebolire la Spagna esaurendone le finanze: imporre il pagamento dei due milioni di piastre per l’impresa congiunta fatta nei Mari del Sud, perché quel denaro stava giungendo dal Perù, per cui Madrid non poteva fingere di non averlo; poi pretendere il pagamento di tutto il dovuto ai fornitori di viveri, mezzi, navi ed uniformi per le imprese di Sardegna e Sicilia e degli arretrati dovuti alle truppe francesi dal tempo della Successione di Spagna. Infine bisognava evitare che la Francia lasciasse la Louisiana come preteso dagli Spagnoli, sostenuti in questo da Inglesi ed Olandesi, i quali, spiegava il Cardinale, avevano tutto l’interesse a levarsi di torno i Francesi in America Settentrionale. Alberoni andava più in là e specificava punto per punto i motivi dei suoi suggerimenti, il più micidiale dei quali era la restituzione dell’autonomia ai tre Regni, perché: “rendono molto alle L.M.C., [Loro Maestà Cattoliche] cioè trecento mila pistole la Catalogna, duecento mila l’Aragona e centosettantacinque mila Valenza, senza contare le entrate e i diritti particolari che il re ha sopra ciascuna città. Le dette imposte sommano a un terzo delle entrate generali del regno che sono di diciassette milioni di scudi. Bisogna anche ricostituire a Madrid il Consiglio di Aragona, che era il sostegno di quei tre regni e serviva di briglia ai re di Spagna. Uno dei grandi del regno ne era sempre il presidente; quindi ciò sarà molto duro per le L.M.C., ma molto gradito ai grandi di Spagna e ai tre regni.”CLXXXII Dubois lesse attentamente e, quando si giunse ai negoziati finali, sapeva a perfezione cosa intimare alla Spagna, di cui conosceva tutti i punti deboli e le trattative in atto cogli altri membri della Quadruplice.77 77 E’ curioso il fatto che, nella sua copia della biografia di Rousset de Misy, la dove si diceva che aveva scritto “una lettera al duca Reggente, offerendogli (si disse) di somministrargli i modi di mandare in rovina affatto e in poco tempo la Spagna” il Cardinale postillò, secco: “è falso”. Possibile che negasse pure a sé stesso d’aver mandato il memoriale 136


Il 21 gennaio, sempre scortato da de Marcieu e 30 soldati a cavallo, Alberoni arrivò ad Antibes per imbarcarsi. Il 27 gennaio la Repubblica di Genova gli mise a disposizione una galera, mentre un’altra veniva concessa al generale imperiale Stampa, diretto alla Spezia. Obbligato dai venti contrari a una sosta a Savona di tre giorni, durante i quali scese a terra una sola volta per andare a teatro dietro insistente invito del governatore, il 4 febbraio 1720 passò davanti a Genova, salutato dalle salve d’artiglieria dovute a un cardinale e il 5 sbarcò a Sestri, dove donò 55 doppie al comandante ed agli ufficiali della galera. Ancora una sottolineatura: in una nazione marinara come Genova molti avevano delle navi proprie e chiunque poteva facilmente noleggiare una galera o una nave a vela privata, perciò una galera della Repubblica significava il riconoscimento pubblico del rango d’Alberoni. Grimaldi aveva lavorato bene, ma, vale la pena di ripeterlo, è difficile pensare che ci fosse riuscito in meno di tre settimane, che, dedotti i tempi di percorrenza dei corrieri e una giornata di navigazione della galera da Genova ad Antibes, scendevano a forse quindici o dieci giorni. Comunque Grimaldi era ad attenderlo a Sestri Levante insieme ad altri, fra cui il canonico Bertamini. Gli aveva trovato alloggio, come richiesto, perciò, quello stesso 5 febbraio, Alberoni, sempre accompagnato da don Carlo Rosellini, fu ospitato nella casa dell’abate Giuseppe Gandolfi.78 Secondo alcune voci sarebbe dovuto restarci “fino a maggior apertura, che dovrà dare il Congresso di Pace.”CLXXXIII Peccato che di aperture non se ne vedessero. Filippo V aveva spedito le proprie condizioni ai plenipotenziari alleati in Olanda ed erano quelle d’un vincitore: conservazione della Sardegna, tanto per cominciare, e poi una lista di pretese fra cui quella di riavere Porto Mahon e i feudi farnesiani di Castro e Ronciglione. La risposta alleata era stata cortesemente negativa: erano assai addolorati, ma così non si andava da nessuna parte. Seppur qualcuno avesse avuto dei dubbi, era ormai evidente chi avesse voluto la guerra, altrimenti perché Filippo avrebbe insistito così rigidamente su condizioni assolutamente inapplicabili a una Potenza isolata e in difficoltà come la sua e chiaramente destinata alla sconfitta? C’era da rimpiangere Alberoni. Questi stava in guardia e i suoi amici pure. Sicuramente immaginavano cosa stava per succedere e si erano già preparati. Il Papa era la chiave di tutto. Alberoni era un cardinale e toccava a Roma deciderne le sorti, o meglio: tutti i coinvolti nel colossale pasticcio a Parma ed a Madrid sarebbero stati ben contenti di provvedere, ma dovevano evitare qualsiasi attrito; e infrangere la giurisdizione pontificia poteva prestare il fianco a inframmettenze da parte imperiale o francese col pretesto di salvaguardare i diritti di Santa Romana Chiesa. Di conseguenza toccava al Papa, al quale vennero fatte pressioni fortissime dalla Spagna e, per quel poco che valeva, da Parma. Clemente XI si mosse per gradi. Cominciò col vietare ad Alberoni l’ingresso nello Stato Ecclesiastico sotto pena di farlo rinchiudere in Castel Sant’Angelo, comunicandoglielo con un plico, che il cardinale arcivescovo Lorenzo Maria Fieschi il 10 febbraio gli fece pervenire, sigillato, tramite un notaio, il quale stese un processo verbale della consegna fatta davanti a due testimoni.79 citato da Castagnoli? O pensava, fondatamente, alla possibilità che qualcuno in futuro trovasse le postille e le usasse per una biografia, ritenendole vere perché apparentemente non destinate ad altri che a lui stesso e certo non alla pubblicazione? Cfr. ALBERONI, Giulio, cinquantesima postilla autografa alla Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R. *** tradotta dallo Spagnuolo, conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pag. 59, in ROSSI, G.F., La storia del Card. Alberoni postillata da lui stesso, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pag. 334. 78 Gli “Avvisi Italiani” in una corrispondenza da Genova il 20 gennaio, pubblicata il 7 febbraio, asserirono che l’alloggio gli era stato preparato presso i conventuali di San Francesco; cfr. “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1720”, Giorno di Posta XI, 7 Febraro 1720, “Il Corriere ordinario”, pag. 23, Vienna, van Gehlen, 1720. 79 Come aveva fatto a proposito della lettera al Reggente, anche qui, dove la biografia diceva: “dicesi ricevesse un ordine preciso dal Papa, con cui gli vietava, non solo l’andare a Roma, ma anche il mettere piede nello Stato Ecclesiastico”, il Cardinale postillò: “Tutto falso”. Cfr. ALBERONI, Giulio, cinquantunesima postilla autografa alla Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R. *** tradotta dallo Spagnuolo, conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pag. 59, cit., in ROSSI, Giovanni Felice, La storia del Card. Alberoni postillata da lui stesso, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pag. 334. Di nuovo viene da chiedersi sia il motivo e il fine di tale postilla, sia quanto ci si possa fidare di tutte le altre quando non siano sostenute da almeno un riscontro documentale. 137


La mossa seguente fu il divieto di farsi consacrare vescovo, e non era di poco conto. A quel tempo e fino al XX secolo i cardinali si dividevano nei tre ordini dei cardinali diaconi, cardinali preti e cardinali vescovi.80 Fra i diaconi ce n’erano parecchi laici, i quali non erano consacrati, non dicevano messa e avevano pronunciato solo i voti minori da cui potevano esser facilmente sciolti per abbandonare la porpora, tornare al secolo e sposarsi – come fecero in molti – a semplice domanda, normalmente accolta dal papa. Per quanto antipatico, disfarsi d’un cardinale laico non era difficile e, una volta privato della porpora, ridotto al semplice stato laicale, poteva facilmente essere messo fuori della giurisdizione e dunque della protezione ecclesiastica. Coi cardinali preti la cosa già si complicava parecchio. Un sacerdote è tale per l’eternità. Contrariamente a quanto molti pensano, chi lascia la tonaca non perde la facoltà di assolvere dai peccati, né di consacrare l’ostia con piena efficacia. La riduzione allo stato laicale sospende queste capacità, ma non le elimina, né può eliminarle, perciò un cardinale prete rientrava in pieno e per sempre nella giurisdizione ecclesiastica e non poteva esserne escluso senza creare un precedente pericolosissimo e, soprattutto, senza infrangere i sacri canoni con piena nullità dell’intero procedimento. Se poi per disgrazia quel cardinale anziché prete fosse stato vescovo, anch’egli consacrato per l’eternità e con ben più vasti poteri, la cosa sarebbe divenuta un ginepraio inestricabile o quasi. Ora, pur essendo stato ascritto all’ordine dei cardinali diaconi, Alberoni era prete, da ben 32 anni, e lo sapevano tutti, perciò rientrava a pieno e incancellabile titolo nella giurisdizione ecclesiastica e l’unica cosa che si poteva fare era limitare i danni vietandogli la consacrazione episcopale Nel frattempo Filippo V aveva fatto preparare un memoriale contenente ben trentuno capi d’accusa contro Alberoni, alcuni dei quali, se provati, erano piuttosto pesanti. In base ad esso papa Clemente aveva deciso di mandare il Cardinale sotto processo, però, evidentemente per tenersi le mani libere, fece del suo meglio per non propalare le accuse e si tenne molto sulle generali. Il 24 febbraio 1720 il padre Maineri, procuratore generale dell’Ordine dei Ministri degli Infermi,81 presentò al doge Ambrogio Imperiale una lettera del cardinale Giuseppe Renato Imperiali82 e un breve papale. Il breve ordinava al Cardinale di chiedere alla Repubblica l’arresto d’Alberoni perché fosse tradotto a Roma e rinchiuso in Castello. Questo era un controsenso: perché vietare ad Alberoni l’ingresso negli Stati Papali sotto pena d’arresto se poi si chiedeva alla Repubblica di farlo prigioniero? La risposta era semplice: ognuno voleva che fosse qualcun altro a levargli le castagne dal fuoco. La cosa fu discussa ufficialmente. Alberoni contava parecchi amici a Genova, a partire dal Doge, che era stato ambasciatore a Madrid dal 1711 al 1713, ma, amici o non amici, i Genovesi volevano innanzitutto evitare pasticci e questo era un pasticcio. Non soltanto il Papa non si era rivolto direttamente alla Repubblica, ma il suo breve al cardinale Imperiali – patrizio genovese – e da questi inoltrato al Doge era vaghissimo quanto ai motivi; diceva infatti: “Sappia Ella dunque che, per rilevantissime cagioni, quali a suo tempo, si pubblicheranno, sommamente importa alla Chiesa, alla Santa Sede, al Sagro Colleggio, e possiamo anche aggiungere, con verità, alla Religione Cattolica, & a tutta la Cristiana Repubblica, che con ogni celerità possibile ci assicuriamo della Persona del Cardinale Alberoni, ad effetto di poterlo fare immediatamente trasportare, e custodire, 80

Soltanto nel 1917 il Codice di Diritto Canonico avrebbe stabilito, al paragrafo 1 del Canone 232, “Cardinales libere a Romano Pontifice ex toto terrarum orbe eliguntur, vir, saltem in ordine presbyteratus constituti, doctrina, pietate ac rerum agendandarum prudentia egregie praestantes” rendendo obbligatoria come minimo l’ordinazione sacerdotale per accedere al cardinalato. 81 Detti anche Camilliani – dal fondatore San Camillo de Lellis – o Crociferi, dicitura con cui Maineri viene indicato in alcune fonti relative a questo suo viaggio a Genova. 82 Appartenevano a due rami della stessa famiglia, ricordati il primo col cognome al singolare, il secondo al plurale. Il doge era degli Imperiale Lercari, rimasti a Genova; il cardinale degli Imperiali Francavilla, di Francavilla Fontana, vicino a Brindisi, dov’era nato. 138


in questo Castello Sant’Angelo, indi procedere contro di lui, a quelle risoluzioni, che dalla Giustizia saranno richieste.”CLXXXIV Poteva la Repubblica, basandosi su una lettera del Papa a un cardinale, ordinare un arresto e, peggio, un’estradizione non d’un qualsiasi plebeo ma d’un altro cardinale? Formalmente quella era una missiva dal Papa a un cardinale e basta. La Santa Sede non aveva ritenuto opportuno darla all’ambasciatore della Repubblica a Roma, né farla consegnare dal nunzio al Doge. La lettera era stata portata da un qualsiasi – certo stimabilissimo, ma sempre qualsiasi, o quasi – prete regolare, che l’aveva data al Doge per incarico d’un eminentissimo e reverendissimo cardinale e patrizio genovese. La Repubblica e il Senato non erano chiamati in causa. Ammesso che lo fossero, non era indicato alcun crimine per cui procedere contro Alberoni, perciò che si sarebbe dovuto fare? Il Papa si aspettava forse che, in base a una letterina così, la Repubblica si prendesse la briga d’arrestare Alberoni come agendo di propria iniziativa, per poi sentirsi dire da Roma che, trattandosi d’un cardinale, non ci si doveva permettere di trattenerlo, ma estradarlo nell’Urbe? E il Diritto delle Genti? Genova non era usa calpestarlo, tranne quando era nel suo interesse e questo non era il caso; perciò il 28 febbraio il padre Maineri ebbe dal segretario Ventura una cerimoniosa risposta: se e quando fossero stati resi noti dei motivi seri, la Repubblica avrebbe volentieri fatto quanto le si chiedeva, per il momento prendeva delle utili precauzioni e non c’era altro da dire. Le precauzioni erano state prese tre giorni prima, il 25 febbraio, ordinando al colonnello Morgavi83 l’arresto domiciliare del Cardinale e del suo segretario, mettendogli una quarantina di guardie intorno e dentro la casa e aumentandone il numero pochi giorni dopo. Il 2 marzo Maineri presentò una prima risposta, poi l’8 marzo arrivò una lettera del cardinale Imperiali, datata 5 e spedita il 6, in cui ci si dilungava in spiegazioni e in sostanza era una richiesta formale di estradare Alberoni a Roma, dove sarebbe stato chiuso in Castel Sant’Angelo. Fu discussa dalla Repubblica e di nuovo gli amici di Alberoni prevalsero. La lettera enunciava tre motivi per la richiesta d’arresto ed estradizione: Alberoni aveva abusato della fiducia del Re di Spagna per scatenare la guerra in Europa mentre l’Imperatore era impegnato contro i Turchi, l’aveva proseguita nonostante tutto ed aveva esercitato illegalmente alcune prerogative episcopali in Spagna. Fu rilevato che nessuna di queste accuse toccava la conservazione e la protezione della Fede Cattolica e, essendo quella l’unica ragione per cui la Repubblica poteva derogare al Diritto delle Genti, si concluse che Alberoni doveva essere lasciato libero per non infrangere l’ospitalità concessagli, però – si decise – era meglio allontanarlo. Il 12 marzo furono tolte le guardie. Sette giorni dopo, per ordine del Magistrato degli Inquisitori di Stato, il notaio Benedetto Maria Musso gli intimò di lasciare il territorio della Repubblica. Alberoni era a letto, malato; lo fece presente e chiese una dilazione. Come fu poi riferito, disse che aveva già pensato di partire, ma che: “prevenuto da una grave flussione alla testa e nella guancia, per la quale è stato obbligato a letto, non l’ha potuto effettuare, avere perciò urgente motivo di supplicare come fa il Serenissimo Governo ad aggiungere a tanta bontà per esso sin’ora avuta in accordarle qualche poca dilazione all’ubbidienza dei loro comandi, quali procurerà di adempiere con quella premura, con cui deve corrispondere a tante grazie ricevute; supplicando le loro S. Serenissime a non far palesi fra tanto le loro saggie determinazioni in far intendere a Sua Eminenza la loro mente perché non si sveglino contro essa maggiori inimici.”CLXXXV Musso prese nota e se ne andò. Alberoni saltò dal letto appena buio e sparì.

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In alcune fonti è citato come Mongani, in altre come Morgani. 139


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Capitolo XIX I manifesti d’Alberoni Alberoni dev’essersi preparato a reagire ai colpi dei suoi nemici appena avvertito delle prime decisioni della Repubblica, il che, date le posizioni dei suoi amici, significa prima ancora di ricevere la notifica d’arresto. Lo dico perché non solo il duca di Parma in seguito si lamentò nelle sue lettere che monsignor Monti, dalla curia di Roma, avesse regolarmente informato il fratello marchese, a Bologna, consentendogli di tenere Alberoni tanto aggiornato da parare ogni colpo, ma la difesa del Cardinale apparve così in fretta ed era talmente lunga e precisa che sarebbe stato impossibile scriverla e stamparla in poche ore. Uscì infatti con la data del 20 marzo 1720 da Sestri Levante. Era un “manifesto”, cioè una lettera aperta al cardinal Paolucci de’Calboli, segretario di Stato del Papa, inoltrata al cardinale Astalli decano del Sacro Collegio, e rispondeva punto per punto al memoriale da Madrid con cui Filippo V imputava ad Alberoni trentuno capi d’accusa. Il Cardinale cominciava col far sapere l’esistenza di documenti a sostegno della sua difesa: “basterebbe leggere il carteggio che passò, prima della risoluzione della Guerra, fra un Primario e molto degno Ministro di S.M. e la mia Persona, nel quale vedonsi per una parte gl’argomenti e motivi sovra quali appoggiava lo stesso il consiglio dato a S.M. di moverla, e per l’altra le ragioni dedotte da mé in contrario, ad effetto di far comprendere quanto fosse incongrua ed intempestiva la rottura.”CLXXXVI La lettera contenente quelle ragioni, proseguiva Alberoni, era caduta in mano al re Filippo, il quale gliel’aveva mostrata a Madrid, chiedendogli se la riconosceva come sua; al che lui non solo aveva detto di si, ma aveva pure ottenuto che il confessore del Re, il padre Daubenton, la firmasse per autenticarla. A questo punto chiunque sapesse come andavano le cose al mondo già aveva capito. Quelle indicazioni servivano ad Alberoni a preparare l’esibizione della lettera che citava. Non solo, continuando a fingere che il manifesto fosse una missiva riservata ai soli occhi dei cardinali Astalli e Paolucci, Alberoni proseguiva chiamando in causa il nunzio Aldrovandi. A lui aveva fatto vedere tutto lo scambio di corrispondenza quando era venuto al Pardo a pregarlo di convincere Filippo V a desistere dalla guerra di Sardegna per non far fallire quella coi Turchi. Seguiva poi una rievocazione di quanto Alberoni aveva detto e fatto per cercare di far capire al Re che l’impresa era destinata a finir male, ma questo era documentalmente indimostrabile, qualunque fosse il numero dei testimoni che lui poteva menzionare. Questa prima parte del manifesto era pesante per quanto diceva e pericolosa per quanto suggeriva. Alberoni non poteva aspettarsi che le persone da lui chiamate in causa testimoniassero a suo vantaggio. Erano tutti manovrabili da chi era più in alto. Il padre Daubenton poteva sparire dall’oggi al domani e il duca di Popoli trovarsi con la testa sul ceppo del boia se si azzardavano a confermare qualcosa contro il re di Spagna, così come il nunzio era ricattabile dal Papa, allora perché coinvolgerli? La risposta era complicata, come tutto ciò che riguarda Alberoni e le sue azioni. Era una catena logica. Dal punto di vista del pubblico, se Alberoni osava mettersi contro un Re citando come prova una corrispondenza, significava che questa non solo esisteva, ma poteva essere esibita. Se ne deduceva che, se esisteva, era vera e, se l’affermazione dell’esistenza di quella corrispondenza era vera, probabilmente lo erano anche le altre cose che Alberoni sosteneva. Se quelle lettere erano la prova dell’innocenza d’Alberoni, il responsabile della guerra non era lui ma il Re di Spagna e di conseguenza tutto il castello di accuse cadeva, lasciando scoperto proprio il Re, che veniva a fare la figura del bugiardo davanti a tutti, quei tutti che fingevano di credere che Filippo V fosse innocente ed Alberoni colpevole. Insomma, il nocciolo della questione era: “ci sono delle lettere e possono essere esibite”, contando su una reazione del genere “non devono esserlo” e 141


sperando che il ricatto bastasse a far finire la persecuzione. Non sarebbe stato così. Bisognò andare fino in fondo. Le lettere furono pubblicate nel manifesto datato 20 marzo 1720 da Sestri. Erano tutte ed erano micidiali. Per quanto riguardava il pubblico, tutto stava a vedere se erano false o se effettivamente il Cardinale aveva gli originali. Il caso era grave per i colpevoli. Sapevano benissimo che le lettere erano vere, caso mai c’era da chiedersi quante e quali altre fosse riuscito a portarne vie, tra vere e copie, e che intendesse farne. L’unico modo d’uscirne era impedire ad Alberoni di parlare o, quanto meno, levargli qualsiasi credibilità davanti all’opinione pubblica, cioè davanti alle teste coronate europee e ai patriziati delle varie repubbliche. La loro attenzione non doveva concentrarsi su quelle benedette lettere e sulla guerra, andava distolta; perciò una nuova serie d’accuse venne a intorbidare le acque e ad allungare il brodo. Più accuse c’erano, meno caso si sarebbe fatto all’origine della guerra, dunque prima si accusò Alberoni d’aver esercitato illegalmente l’autorità episcopale e poi si cercò d’infangarne la condotta religiosa e morale. Anche qui il Cardinale reagì bene. Non per nulla era stato un avvocato con esperienza giudiziaria e criminale. Sapeva cosa dire e come dirlo, cosa non dire e come far intuire ciò che non diceva. Al primo manifesto ne fece seguire altri cinque, dimostrandosi sempre aggiornato sulle accuse rivoltegli, accuse note solo al duca di Parma, al re di Spagna e ai suoi ministri ed alla Corte pontificia e che il pubblico non poteva conoscere. Come aveva fatto il Cardinale a saperle? C’era un informatore che da Roma lo teneva aggiornato, era evidente, ma chi fosse non si seppe mai con precisione, per cui la lamentela di Francesco Farnese che si trattasse di monsignor Monti non fu resa ufficiale, non c’erano elementi per farlo. Passando alla sua autodifesa, riguardo all’accusa d’usurpazione dell’autorità episcopale, cioè d’aver percepito le rendite del suo arcivescovato di Siviglia prima d’averne l’investitura e d’aver assegnato dei canonicati, Alberoni ribatté che le prime le aveva riscosse – e in parte – solo dopo aver avuto due lettere del cardinal Acquaviva che l’assicuravano del consenso papale, mentre i secondi non li aveva mai attribuiti. Nessuna analoga accusa – aggiungeva – gli si poteva muovere riguardo al suo vescovado di Malaga, perché in due anni non vi aveva fatto, mosso o prelevato nulla e, se per ipotesi si fosse parlato delle rendite vescovili di Tarragona, era noto che gli erano state assegnate dal Re con motu proprio, per donargli delle entrate consone al suo rango, visto che il titolo cardinalizio non gliene ne dava, separato com’era da qualsiasi diocesi. Lo si accusava d’aver intrattenuto una corrispondenza coi Turchi? Falso; e indicava come e perché non se ne sarebbe trovata traccia; anzi, sottolineava, s’era opposto a sostenere gli insorti ungheresi del principe Rákoczy. Lo si diceva responsabile dell’esilio di due vescovi? Falso anche questo: il vescovo di Sassari era stato esiliato da van Leeden quando era stata presa la Sardegna, l’altro dal Consiglio di Castiglia. Per quanto riguardava gli affari ecclesiastici che lo si accusava d’aver ingarbugliato, non era stato forse proprio lui a cercare invece di metterli in sesto in Spagna, sia riguardo al cardinal del Giudice, sia ottenendo il richiamo a Madrid del nunzio Aldrovandi, sia infine riguardo al concordato? Chi aveva espulso il nunzio? Alberoni all’insaputa del Re? Proprio no; come poteva essere rimasto il Re all’oscuro d’un fatto così rilevante come l’espulsione di monsignor Aldrovandi nota a tutti dentro e fuori Madrid? Alberoni non lo diceva, però era ovvio e sottinteso che fosse stato Filippo V a cacciare il nunzio, mentre era stato lui a farlo rientrare in Spagna. E lo scontro con Roma sui benefici ecclesiastici? Non si era verificato dopo che il Re aveva creato una commissione di ministri, teologi e consultori per decidere in merito alla sospensione delle bolle sull’arcivescovato di Siviglia? E Alberoni non ne era stato membro, perciò che c’entrava?. Comunque, concludeva, lui non doveva discolparsi di tutte quelle accuse; erano i suoi accusatori a doverle dimostrare. Erano i primi colpi, d’assaggio. Alberoni si difendeva bene però occorreva aspettare un eventuale processo per vedere e vagliare le prove, se c’erano. 142


Intanto un nome brillava per la sua assenza. In nessuno dei manifesti alberoniani veniva mai fatta la minima menzione, anche solo indiretta, di Francesco Farnese, mai. Il duca di Parma fu lasciato completamente da parte e tutto lo scontro verté esclusivamente sui fatti di Spagna, come se Parma e la sua Dinastia non ci fossero mai entrate. A dire il vero almeno due volte dopo il suo arrivo a Genova Alberoni aveva scritto al conte Rocca chiedendogli di venire a Sestri o di mandargli qualcuno di assoluta fiducia, perché aveva cose assai importanti da far sapere a Sua Altezza Serenissima. Una prima lettera del 13 febbraio non si sa che effetto avesse avuto, né cosa dicesse veramente, poiché di essa rimane solo un lacerto pubblicato da Bourgeois.CLXXXVII Da un’altra, del 2 marzo, si scopre che aveva da comunicare al Duca cose tanto importanti da non poterle scrivere, perciò una visita d’una persona fidata, specificamente Rocca, era necessaria.CLXXXVIII L’11 marzo gli era stato preannunciato l’arrivo del dottor Pietro Politi, uno dei più fidati agenti farnesiani, ma, ammesso che fosse veramente giunto a Sestri, cosa di cui Alberoni faceva capire di dubitare, non si erano incontrati e il 17 marzo il Cardinale aveva rinunciato a qualsiasi altro tentativo.CLXXXIX Doveva aver capito l’antifona: se in un mese da Parma non si erano scomodati più di tanto, evidentemente la sua pelle per loro non valeva più nulla; era meglio mettersi in salvo da solo. C’erano probabilmente un altro paio di aspetti. Vado per induzione, sia chiaro, ma non credo di sbagliare: uno era la caccia a cui era sottoposto, l’altro la strana passività di Parma. Checché avesse raccontato a de Marcieu, Alberoni era giunto a Genova praticamente senza noie, non aveva avuto altra contrarietà che le ispezioni al bagaglio alla ricerca delle sue carte, quando le cose sarebbero potute andare molto ma molto peggio. Adesso però c’erano a Genova parecchi agenti stranieri a sorvegliarlo. Lui poteva non esserne reso conto, ma è difficile credere che una polizia efficiente come quella genovese non se ne fosse accorta, specie in un ambiente piccolo e in cui tutti si conoscevano come quello della Dominante. Se se n’era accorta, l’aveva certo riferito a chi di dovere e, in uno Stato, i cui vertici dal Doge in giù erano tutti amici del Cardinale, è plausibile, per non dire certo, che l’avessero avvertito, prova ne sia il fatto di come lasciò Sestri e del segreto impenetrabile che avvolse tutti i suoi movimenti nei tredici mesi successivi. Veniamo al secondo aspetto: la strana passività di Parma. Nei suoi vent’anni da agente segreto, Alberoni sapeva d’aver dimostrato per tabulas la sua affidabilità e l’importanza delle sue informazioni. Da Parma non intervenivano a suo favore a Roma o a Vienna? Bé, questo era comprensibile: per Parma poteva essere un rischio, almeno in quel momento. Però, se adesso lui diceva d’aver qualcosa d’importante da riferire e non gli davano retta, ecco, questo era sospetto, perché non era mai successo. C’erano due sole spiegazioni: o erano tanto terrorizzati da non osare la minima mossa – ma questo non era il caso di Francesco Farnese, come si era visto dal 1702 al 1706 e di nuovo nel 1717 – oppure sapevano già cosa voleva dir loro. Ma se lo sapevano voleva dire che ne erano al corrente e, se ne erano al corrente, erano d’accordo coi suoi persecutori, cioè erano fra i suoi persecutori, quindi lui non doveva fidarsi più dei Farnese, per nessun motivo. Era plausibile? Sfortunatamente si e del resto il Cardinale non si era mai fatto illusioni su nessuno, nemmeno e sopratutto sul Duca. Lo conosceva da oltre vent’anni e ne aveva sperimentato la grettezza, l’egoismo, l’arroganza, la doppiezza e l’avarizia meschina. Cosa se ne poteva attendere adesso che era abbandonato da tutti ed accusato di ogni male? E il più colpevole non era forse proprio Francesco Farnese? E Francesco Farnese non sarebbe stato capace di tutto pur di salvarsi la corona? Durante la guerra di successione aveva tradito gli Asburgo spiando per i Francesi. La guerra seguente, quella attuale, era stato lui ad obbligare Alberoni a scatenarla, tradendo di nuovo gli Asburgo a favore dei Borboni, perciò che si poteva pensare? L’esperienza deve sicuramente aver fatto capire al Cardinale cosa lo attendeva in Patria e cosa poteva aspettarsi dai Farnese e sapeva di far meglio a tacere il nome del suo sovrano. Al di là dei sentimenti di devozione per lui – se gliene erano restati – e del suo attaccamento a Parma, c’era un 143


buon motivo: non aveva più gli originali delle lettere ducali, perciò non poteva citarle. Francesco lo sapeva, ma di una cosa non poteva essere certo: che non ne esistessero delle copie. E c’era un’altra cosa che non sapeva: per quale motivo Alberoni taceva nei suoi confronti? Si sapeva impotente a colpirlo? Per paura di rappresaglie contro i propri parenti, o stava preparando qualcosa? E questo qualcosa poteva coinvolgere l’Imperatore o no? Il problema non era da poco. Eventuali dichiarazioni d’Alberoni potevano condurre i Farnese a un processo alla Dieta dell’Impero. In tal caso, ipotetico ma possibile, Alberoni poteva essere chiamato a testimoniare. Senza le lettere di Francesco “Felicioni” Farnese, la credibilità della sua testimonianza dipendeva dalla sua personale attendibilità, perciò, se a un tale ipotetico processo Alberoni fosse comparso già in precedenza assolto dal tribunale ecclesiastico, sarebbe risultato un testimone attendibile; se invece fosse stato condannato, sarebbe stato facile negare credito alla sua parola. Di conseguenza Alberoni andava condannato dalla Santa Sede. Ma non poteva essere condannato se non lo si processava e non poteva essere processato se non lo si prendeva, perciò bisognava prenderlo e, per prenderlo, andava trovato. Francesco Farnese si sarebbe morso le mani per un errore fatto poco prima: aver impedito ad Alberoni l’ingresso negli Stati Farnesiani. Il 29 gennaio 1720 il Duca aveva scritto al dottor Giovani Maria Platoni, fiscale di Borgotaro, ordinandogli d’andare ad aspettare Alberoni a Sestri per, come lo riassunse il padre Castagnoli, “significargli il gran desiderio che il Farnese aveva di servire Sua Eminenza, ma nello stesso tempo per convincerlo a non metter piede sul territorio del ducato.”CXC Platoni aveva eseguito e così Alberoni s’era salvato dalla sicura rovina, del tutto per caso e proprio grazie al Duca. La mossa farnesiana appare tanto più improvvida e incomprensibile se si pensa che più di due settimane prima, il 12 gennaio, il conte Rocca aveva scritto in cifra al marchese Scotti di chiedere ai Reali di Spagna di lasciar fare tutto al Duca, ordinando al cardinale Acquaviva di mettersi a sua totale disposizione: “anche per gli interessi che Sua Maestà ha con la corte di Roma, e per quella che ha da essere del cardinale Alberoni, lascino fare a Sua Altezza, dando solo ordine al signor cardinale Acquaviva che si regoli secondo le di lui direzioni…. Sua Altezza stimava che dovessero levare tutte le scritture al cardinale, non credendo che esso le abbia abbruciate, e se la di lui fatalità lo facesse capitare qui colle sue robbe, certo vuol provare di visitare i di lui bauli o farglieli levare di fatto, perché ha in testa che voglia andare a Vienna.”CXCI Se gli si volevano prendere le lettere e i documenti che si sospettava avesse ancora con sé, perché vietargli l’ingresso nel Ducato, dove lo si sarebbe potuto perquisire con ogni facilità ed autorità legale? L’unica spiegazione è che Francesco Farnese fosse così spaventato dal poter apparire coinvolto, interessato in prima persona, da non avere il coraggio di compiere una mossa decisiva quanto semplice. Ci sono alcuni elementi che inducono a pensarlo, però sono tutti successivi al 29 gennaio, data delle istruzioni al fiscale Platoni. C’è una lettera di Rocca all’inviato francese a Genova, Savigny, nella quale gli si dice che “Sua Altezza Serenissima non può permettere che resti nei suoi Stati una persona cacciata dalla Spagna e che ha attirato sopra di sé l’odio della Francia.”CXCII E’ datata 5 febbraio, cioè una settimana dopo le istruzioni a Platoni, per cui è coerente con esse, ma si scontra con quanto scritto a Scotti il 12 gennaio. Ci furono altre lettere con suggerimenti a questo e a quello, ma sempre in modo da non apparire responsabile, sempre tentando d’agire per interposta persona.

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L’esito fu regolarmente negativo e quando il marchese di San Filippo domandò esplicitamente alla Repubblica di Genova di sequestrare i documenti d’Alberoni, la risposta fu no, pur differendola il più possibile. Anche successivamente, quando venne aperta l’inchiesta parmense contro il Cardinale, il Duca fece sempre la massima attenzione a non farsi coinvolgere apertamente, perciò l’inchiesta fu svolta dal tribunale diocesano e, al di là di tutti i messaggi riservati, con cui premé su monsignor Barni in tutti i modi possibili per stravolgere il risultato così da far risultare Alberoni colpevole, Francesco Farnese non osò mai apparire in prima persona e cercò costantemente di far sì che altri agissero come di loro iniziativa, ma nel senso da lui voluto e a suo vantaggio. Intanto, un mese dopo la prima lettera aperta, il 22 aprile ne apparve una seconda, in cui Alberoni si difendeva dalle striscianti accuse di non illibati costumi. Queste erano parte dell’inchiesta di cui era stato incaricato l’arcivescovo di Toledo, ma costituivano pure il punto principale intorno al quale si sarebbe affannato il duca di Parma, cercando di provare che il Cardinale fosse il padre di don Giuseppe Bergamaschi ed avesse avuto pure uno o più figli dalla servetta Mariquita a Madrid. Respingendo le accuse in blocco, Alberoni forniva una lunga lista di testimoni che iniziava col parroco d’Anet e finiva coi suoi domestici di Madrid. Anche questi testimoni potevano facilmente essere subornati dai suoi nemici e intanto si vedeva che alle sue puntuali riposte non si ribatteva nulla, ma gli venivano mosse nuove accuse. Avrebbero retto in dibattimento? Date le circostanziate risposte, era poco probabile, ma lo scopo dei suoi nemici era di fargli terra bruciata. Venne infine una terza smentita a controbattere le nuove accuse di ordine giurisdizionale ecclesiastico. Era circostanziata e datata 15 maggio, ma senza luogo; c’era un motivo: Alberoni era scomparso.

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Capitolo XX Ricercato e nascosto La scomparsa d’Alberoni era stata peggio d’un fulmine a ciel sereno, perché, come si vide subito, le famose lettere erano sparite con lui ed era pronto a usarle. Dov’era Alberoni? Bisognava trovarlo, levargli le lettere e poi darlo in pasto all’opinione pubblica come capro espiatorio di tutta la politica spagnola e parmense degli ultimi tre anni. Gli agenti segreti spagnoli, parmensi, inglesi e francesi lo cercarono. Finché era sembrato poco pericoloso avevano seguito le sue tracce lungo la Riviera fino a Sestri, ma lì, quando sembrava impossibile perderlo e si sapeva dove abitava, era svanito, sparito come se non ci fosse mai stato. Si doveva trovarlo, ma non ci fu nulla da fare. Qualcuno sosteneva che si fosse diretto ad Antibes per proseguire alla volta della Svizzera e stabilirsi a Lucerna. Altri lo dicevano sbarcato in Lunigiana diretto verso il Modenese. Corse voce che avesse traversato Fivizzano a cavallo e fosse ora in Toscana. Pochi anni dopo, sulla base del luogo in cui era ricomparso, il marchese Ottieri sostenne che si fosse nascosto nel Bolognese, accolto dal marchese Monti. Le voci avevano un minimo di fondamento. Una lettera inviata a Roma e poi archiviata in Vaticano nel Fondo Albani riferiva che nella notte da 22 al 23 marzo 1720 un prete con due servitori d’Alberoni si fosse imbarcato a Sestri, sbarcando ai Pradazzi, non lontano dalla Spezia. Là avevano trovato delle mule, fornite dai figli dell’ex doge Domenico Mari e, dopo una sosta all’osteria di Soliera, si erano diretti a Fivizzano, avevano pernottato a Sassalbo, dicendo di voler andare in Garfagnana e poi a Reggio, dunque nel ducato di Modena. Osservava il mittente: “Si sparse voce che il prete fosse lo stesso Cardinale Alberoni e si conosce [che i due servitori] usavano ogni arte per farlo credere senza dirlo, per lo che si é poi giudicato che sia stata un’apparenza artifiziosa.”CXCIII I due servitori, soli, erano ricomparsi negli Stati di Parma, smontando a Fiorenzuola a casa del canonico Bertamini, il quale riferì poi agli agenti ducali d’aver appreso da loro che non sapevano dove fosse Alberoni e lo supponevano diretto a Venezia. La notizia era totalmente smentita da un’altra lettera, poi archiviata anch’essa nel fondo Albani, giunta un mese dopo e datata 20 aprile. L’autore, un abate di Genova, raccontava come Alberoni avesse fatto imbarcare due persone, di cui una si spacciava per lui, le quali alla Spezia avevano trovato dei cavalli con cui erano andate a “Reggio di Modena”, mentre il Cardinale: “Le altre persone del suo seguito le fece imbarcare a Sestri verso ponente alla volta di Antibo, facendo correre di essersi incamminato verso la Francia et in questo mentre egli si trattene in Sestri ancora per due giorni nel solito aloggio senza lasciarsi vedere neppure dall’Aria. Doppo tal tempo si incaminò senza verun segno di Cardinale e con il solo suo segretario alla volta dello Stato di Milano passando per la via che qui chiamano della bocchetta, da dove poi si à notizia assai sicura che si portasse a Castel Nuovo feudo dei Sig.i Marinij soggetto allo Stato di Milano e che vi alogiasse per due giorni nel Convento de i Padri di S. Francesco, questo è quanto sin ora ò potuto sappere de i suoi passi. Quando fu in Sestri arrestato dalle Guardie della Repubblica si sa da buona parte, che spedì un Corriere a Vienna, si crede à fine di procurarsi il Patrocinio dell’Imperatore dal quale si sparge essere venuti ordini al Governatore di 147


Milano di dare al Cardinale non solo passaporto, mà ancora assistenza e scorta quanto né bisognasse.”CXCIV Ci si poteva credere? Del tutto: si trattava di informazioni dettate: “dal parte del Padre Pastorini essendo questo il miglior mezzo per sappere qualche particolarità essendo tutto di Palazzo è Confessore del Doge, onde con molto Senatori à della confidenza e per ciò queste nove che notifico a V. Em.za son le più sicure.”CXCV Vedremo quanto attendibili fossero. Al di là delle false piste da lui predisposte, era possibile che fosse sgusciato fra Lucca, Parma, Modena e Toscana fino a infilarsi negli Stati del Papa? Se no, dov’era? Una prima traccia, assai labile, comparve solo quasi centosettant’anni dopo, nel 1896, quando fu pubblicato il Viaggio in Italia di Montesquieu. Riferendo voci raccolte a Roma nella primavera del 1729, aveva scritto: “Ho sentito dire qui… che un monaco predicatore a Sestri, che aveva un fratello portinaio d’un castello, il cui padrone era assente, nel Milanese, gli procurò rifugio in una soffitta del castello, che sembra che il governatore di Milano ne sapesse qualcosa, ma che l’Imperatore non volle che lo prendessero.”CXCVI Di nuovo siamo davanti ad un’efficace disinformazione, stavolta però forse creata da Alberoni stesso, perché, come vedremo, era abbastanza vicina al vero nelle linee generali, ma sapientemente vaga e fuorviante nei particolari. Partiamo dal principio. Abbiamo lasciato il Cardinale a Sestri Levante in casa dell’abate Gandolfi dove aveva preso alloggio il 5 febbraio 1720. Sappiamo che, levategli le guardie, il 19 marzo ebbe l’intimazione di partire, chiese una dilazione e fuggì la notte stessa. Nella Relazione all’Ill.mo Magistrato degli Inquisitori di Stato circa la fuga del Card. Alberoni, stesa il 9 aprile 1720,CXCVII la polizia genovese riassunse i fatti a lei noti. Alle “due ore della sera”,84 cioè intorno alle 20 del 19 marzo, il cardinale era uscito da casa, vestito da laico e in parrucca, era montato a cavallo e, seguito dal suo segretario e da un certo Luciano Fogona, si era diretto a Lavagna, arrivandoci in un’ora. Intorno alle “tre di notte”, le nostre nove di sera, era stato consegnato da Fogona ad un altro che l’aveva guidato alla spiaggia e si erano imbarcati tutti e tre sul gozzo San Francesco di Leon Battista Bozzo. Con quello erano arrivati direttamente alla foce del Bisagno, dove erano sbarcati all’alba. La guida li aveva passati a un’altra guida e qui le cose si facevano più vaghe. Alberoni e il segretario sarebbero stati condotti in una casa di Genova, in cui sarebbero restati alcuni giorni. Quale casa non si sapeva, o meglio non si diceva. E’ possibile che la polizia genovese non fosse riuscita ad andare più in là, ma è possibile pure che alla Repubblica facesse molto comodo poterlo dichiarare, anche se non era vero. Con certezza si sa che Alberoni fece comparire la sua prima lettera al cardinal Paolucci datata Genova 20 marzo, ma questo non indica quanti giorni possa essere rimasto in città. Che successe dopo il 20 marzo? 84 A quel tempo le ore della giornata erano espresse in Ore d’Italia, un sistema caduto ufficialmente in disuso col periodo napoleonico, quando entrarono in vigore le cosiddette Ore di Francia, che ancora adoperiamo. Le Ore di Francia erano e sono basate sul moto della terra; quelle d’Italia invece sulla durata delle ore di luce. Nel periodo di marzo in cui Alberoni fuggì, (terzo quarto del mese, dal 15 al 23), il mezzodì, le nostre 12, secondo le Ore di Francia era alle 12, come per noi adesso; ma in Ore d’Italia, pur essendo a quelle che per noi sono le 12, era alle 18,10, perché il sole sorgeva alle 12,20 d’Italia, le 6,10 nostre e di Francia, ed il giorno durava in tutto 11 ore e 40 minuti, poi cominciava la notte. Di conseguenza, “due ore di sera” significava la seconda ora dopo la fine del giorno. Poiché la sera iniziava alle 17,50 (undici ore e quaranta minuti dopo il levar del sole avvenuto alle 6,10), due ore di sera significava più o meno, piuttosto più che meno, le nostre 19,50, quando in marzo è già buio, la gente aveva appena finito di cenare e le strade erano deserte. 148


Per cercare di farcene un’idea, dobbiamo adoperare l’altra fonte, ormai indiretta e di cui ho già fatto cenno: l’Imitazione di Cristo di Alberoni, che adesso diventa basilare. Secondo Poggiali, avendovi annotato ogni tappa del viaggio, prima della fuga Alberoni aveva segnato solo l’arrivo a Genova dalla Francia il 5 febbraio. Dopo la fuga da Sestri, dalle sue note sull’Imitazione Poggiali scoprì che il 20 marzo il Cardinale era a Genova e che il 5 aprile dormì ad “Arezo.” Dovrebbe trattarsi di Arezzo, una frazione di Vobbia, poi divenuta un piccolo comune, subito dopo i Giovi, ma che fino al 1901 fu a sua volta frazione di Crocefieschi ed era feudo imperiale, a soli circa 40 chilometri da Genova, una distanza che si poteva facilmente coprire in un giorno di viaggio.85 Alberoni rimase a Genova sedici giorni? E’ possibile, specie se era in un luogo sicuro, come poteva esserlo ad esempio un palazzo patrizio. Se dormì ad Arezzo il 5, si può pensare che, data la breve distanza da Genova, solo quel giorno avesse lasciato la Dominante e che la mattina seguente ne sia ripartito. Lo dico perché nelle note il Cardinale scrisse che il 6 dormì a Cassano, cioè Cassano Spinola, il che significherebbe, da Arezzo, una sola tappa, di poco più lunga ma meno faticosa di quella precedente. L’indomani arrivò a Castelnuovo Scrivia, a quell’epoca appartenente al Ducato di Milano. L’8 aprile era a Godiasco, terra dipendente dal Ducato di Milano, dunque in un feudo imperiale, che era retto dai Malaspina, dove si fermò fino al 13 ottobre, poi scomparve di nuovo e sappiamo solo che in dicembre era nuovamente a Castelnuovo Scrivia. Che sia stato ospite dei Malaspina è certo, perché il padre Rossi nel 1962 pubblicò il ritrovamento della fede di sanità, cioè del certificato di buona salute che Alberoni chiese alle autorità di Bologna nell’aprile del 1721 per poter andare a Roma, in cui aveva scritto: “Essendomi occorso nella mia partenza dallo Stato di Milano per andare al Conclave per degni riguardi valermi del nome del Marchese Lodovico Malaspina con il quale ho ottenuto la fede di sanità…”CXCVIII E’ chiaro che senza l’esplicito aiuto dei Malaspina non avrebbe mai potuto adoperare il loro nome, né valersi d’un documento falso intestato a uno di loro. Poiché nella sua dichiarazione disse che veniva dal Ducato di Milano, è probabile che fosse rimasto sempre là. Il territorio imperiale lo teneva al sicuro da tutti i suoi nemici, che non potevano chiederne l’estradizione, sia perché l’Imperatore difficilmente l’avrebbe concessa, sia perché Alberoni aveva sempre le lettere. Francesco Farnese era il più accanito nelle ricerche e non a caso: era quello che rischiava di più, anzi, era l’unico a rischiare qualcosa. Chiusa la Guerra della Quadruplice Alleanza, al re di Spagna poteva seccare parecchio che si dimostrasse la sua responsabilità e l’innocenza d’Alberoni, ma, per quanto lo riguardava, lì finiva tutto. Al reggente di Francia tutto sommato importava poco o nulla sapere se e quanto Alberoni fosse colpevole. Gli Inglesi, gente pratica, non se ne interessavano più. Il Papa esigeva Alberoni più che altro per una questione giurisdizionale: voleva processarlo lui, perché non era ammissibile un cardinale giudicato e condannato da un potere laico. All’Imperatore poteva convenire avere le famose lettere, ma poteva pure convenire non smuovere troppo le acque. Le lettere e la testimonianza d’Alberoni avrebbero dimostrato anche le responsabilità del duca di Parma, ponendo Carlo VI davanti a un problema: lasciar correre sapendo ufficialmente d’essere stato tradito era un segno di debolezza, che poteva avere gravi conseguenze nell’Impero; procedere colla necessaria durezza, poteva implicare una grave crisi internazionale e una nuova guerra; e con quali risultati? Parma, ormai sembrava chiaro, sarebbe caduta in mano all’Impero per normale reversione, poiché i Farnese non avevano discendenti maschi. Accelerare poteva complicare molte cose, a partire da quella per Carlo VI più importante: il riconoscimento della Prammatica Sanzione, con cui, privo di figli maschi, lasciava sua erede la primogenita Maria Teresa, scartando le figlie del suo predecessore e fratello Giuseppe I. Con la sua Prammatica Sanzione del 1713 Carlo VI infrangeva la legge salica, infrangeva la Disposizione Leopoldina fatta

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Questa precisazione si deve all’aiuto del dottor Paolo Giacomone Piana e del dottor Alfredo Remedi. 149


da suo padre nel 1703 e dunque abbisognava di lunghi negoziati per evitare alla figlia tensioni e guai al momento della successione. Valeva la pena di tirar fuori ufficialmente le lettere in mano ad Alberoni? In quel momento no e, a meno che non ci si fosse costretti, di fronte al mondo era meglio far finta di non sapere che Alberoni era in territorio imperiale. Ma Carlo lo sapeva eccome. Fu il Cardinale stesso a raccontarlo, confermando, senza saperlo, la lettera del 20 aprile 1720 colle informazioni date dal confessore dogale di Genova padre Pastorini, quella in cui si era detto che lui avesse spedito un corriere a Vienna per ottenere la protezione dell’Imperatore, il quale aveva mandato ordini al governatore di Milano di fornirgli passaporto, assistenza e scorta; e dobbiamo alle ricerche del padre Rossi l’essere a conoscenza di questa conferma. Nel 1743 Alberoni scrisse tre lettere di giustificazione: una al nunzio a Vienna Paolucci, un’altra al marchese di Villasor, presidente del Consiglio d’Italia a ViennaCXCIX e, dicendo le stesse cose quasi con le stesse parole, ma con dei particolari in più, un’ultima al maresciallo conte Kevenhüller. Per scolparsi cogli Austriaci dall’accusa d’aver aiutato gli Spagnoli durante la Guerra di Successione Austriaca allora in atto, diceva: “Se una tale impostura fosse vera, bisognerebbe dire che questo Cardinale avesse nell’età sua cadente scordato Iddio, il suo Principe e se stesso, e insieme quella gratitudine che deve al glorioso Imperatore Carlo VI, a cui deve la vita, mentre invitato e sollecitato nel suo arresto a Sestri da tutte le Potenze d’unirsi con loro a perdere questo Cardinale, rispose, che non era da Cesare il perseguitare, ed incrudelire contro un Uomo abbattuto. Ben lungi da ciò, ordinò al fu Co. Coloredo allora Governatore di Milano di dar asilo e ricovero a questo Cardinale, avvisandolo di star nascosto quanto più poteva, e in caso che fosse scoperto d’assisterlo e difenderlo da qualunque tentasse fargli violenza.”CC Per quale motivo Carlo VI ospitò Alberoni è abbastanza facile da capire, se ci si riflette un momento. Alberoni possedeva le famose lettere comprovanti la responsabilità del re di Spagna e del duca di Parma. In realtà non le aveva con sé, ma in custodia, presumibilmente al marchese Grimaldi a Genova e forse insieme ai suoi bagagli giunti da Alicante, però era solo a lui che sarebbero state riconsegnate. Dunque Carlo VI aveva Alberoni, cioè un testimone fondamentale in un processo per levare il Ducato a Francesco Farnese, e questo testimone aveva delle carte comprovanti le sue accuse, che però erano in mano a un ignoto, che le avrebbe rese solo a lui; di conseguenza Alberoni era un testimone chiave da proteggere come minaccia contro i Farnese. Francesco Farnese lo sapeva e sapeva pure che, preso dal voler far accettare la Prammatica Sanzione, probabilmente Carlo VI non avrebbe fatto nulla, però non poteva esserne certo. Sapeva che Alberoni aveva le lettere, ma non se le avesse con sé o in deposito presso qualcuno e in questo caso chi. Ne discendeva la necessità d’impadronirsi del Cardinale, o di ucciderlo. La seconda opzione era pericolosa. Alberoni poteva aver dato ordine di render note le lettere se fosse morto. La prima era dunque la più praticabile, ma, per effettuarla, occorreva sapere dove fosse Alberoni e questo per l’appunto era ciò che non si riusciva a sapere. Le spie farnesiane arrivarono al penultimo passo, ma li si arrestarono. Francesco Farnese aveva appreso fin dal gennaio 1720 che Alberoni voleva andare a Genova. Tutto era stato nel vedere se ci sarebbe arrivato. Quando vi si era installato e si era visto che nessuno si muoveva, il 23 febbraio 1720 il rappresentante farnesiano a Roma aveva avuto istruzione di premere sul Papa perché ordinasse l’arresto d’Alberoni, che abitava a Sestri “in casa d’un certo mercante Gandolfi”, incrociandosi colla prima missiva pontificia consegnata a Genova dal padre Maineri il 24. Sparito Alberoni, lo spionaggio parmense cominciò a cercarlo ed arrivò a un passo dalla meta, perché il capitano spagnolo Miranda, agente in un’operazione congiunta ispanoparmense, riuscì ad incontrare a Milano in dicembre il padre Berri, il francescano di cui Alberoni si serviva per tenere i contatti con Piacenza e da lui seppe che il Cardinale era a Castelnuovo Scrivia in casa d’un nipote di Berri. Ricompensato con 50 doppie per quest’informazione – che, come 150


sappiamo, era quasi vera – Berri se ne sentì offrire altre 4.000 e “la protezione del Re di Spagna” se consegnava il Cardinale e i suoi documenti; ma lì tutto si fermò. Infatti lui rispose di non poterlo fare, perché i documenti li aveva il marchese Francesco Maria Grimaldi e il Cardinale era protetto ed assistito dal governatore di Tortona, il quale aveva avuto ordini segreti e severi da Milano. Torniamo a Montesquieu. Come sappiamo, riportò le voci correnti a Roma nove anni dopo i fatti e disse: “che un monaco predicatore a Sestri, che aveva un fratello portinaio d’un castello, il cui padrone era assente, nel Milanese, gli procurò rifugio in una soffitta del castello, che sembra che il governatore di Milano ne sapesse qualcosa, ma che l’Imperatore non volle che lo prendessero”. Iniziando dal fondo abbiamo una notizia vera – l’Imperatore non volle che lo prendessero, il che implicitamente significa che l’Imperatore sapeva dov’era – preceduta da un’altra notizia pure vera “sembra che il governatore di Milano ne sapesse qualcosa” – ma temperata da un “sembra”. Le due informazioni sono precedute da un’altra informazione vera, ma assai vaga: Alberoni sarebbe stato in un castello del Milanese: vero il castello, vero il Milanese, ipotetica, ma indicata per un buon motivo che vedremo fra poco, la soffitta. Tutto questo l’avrebbe ottenuto grazie a un predicatore di Sestri che aveva un fratello portinaio di quel castello il cui padrone era assente. Questo era abbastanza falso, ma serviva a sviare rappresaglie, perché, pure se Francesco Farnese fosse riuscito a scoprire il castello, l’assenza del padrone avrebbe fatto ricadere ogni colpa su dei plebei, dei servi, evitando qualsiasi responsabilità dei nobili proprietari. Se poi passiamo ad esaminare le informazioni ottenute dal capitano Miranda, troviamo di nuovo un’astutissima serie di mezze verità: Berri gli indicò il luogo, che non era del tutto sbagliato visto che Alberoni di tanto in tanto ci stava, ma non era quello vero e comunque non gli disse in casa di chi alloggiasse; spiegò che Alberoni era sotto la protezione imperiale – vero – e senza le sue carte – vero – custodite a Genova da Grimaldi – plausibile – e perciò non c’era nulla da fare. Viene da chiedersi se Berri non abbia fornito queste informazioni a Miranda coll’esplicito avallo, se non dietro ordine, del Cardinale, probabilmente subodorandolo spia del duca Francesco. Dunque, siamo certi che Alberoni trovò rifugio nel Ducato di Milano, sappiamo che risiedé a Godiasco e che ci restò un anno, a volte spostandosi di poco, forse in concomitanza con la permanenza dei Malaspina nel castello per scaricarli da ogni accusa di collusione. A dicembre del 1720 era a Castelnuovo Scrivia. Tre mesi dopo era libero: era morto il papa.86

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A metà gennaio del 1721 il duca di Parma era stato informato che Alberoni aveva lasciato Castelnuovo Scrivia e in febbraio che si trovava a Genova, nel palazzo Grimaldi. Progettò un rapimento e pretese che il governatore di Porto Longone, Manriquez, messogli a disposizione da Filippo V, andasse a Genova ad impadronirsi del Cardinale. Manriquez obbedì e giunse a Genova alla comparsa dell’invito ad Alberoni a partecipare al conclave, per cui non provò a far nulla. Per precisione, va detto che, pur avendo perso lo Stato dei Presidii alla fine della guerra di Successione Spagnola, la Spagna colla pace di Rastadt del 1714 era riuscita a conservare sull’Elba, a Porto Longone, poi ridenominato Porto Azzurro, i forti Longone e Focardo, mantenendovi una guarnigione. 151


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Capitolo XXI Il primo conclave E’ difficile trovare nella storia una vita che più di quella di Alberoni sia stata avvantaggiata dalla morte. La scomparsa di Carlo II diede inizio alla sua carriera; quella di Vendôme gliela consolidò. La morte di Maria Luisa di Savoia gli permise la manovra d’Elisabetta Farnese; quella di papa Albani gli rese la libertà. Clemente XI morì il 19 marzo 1721, esattamente un anno dopo la partenza d’Alberoni da Sestri. Il 21 marzo, in sede vacante, fu inviato al Cardinale il salvacondotto con cui sarebbe potuto arrivare a Roma senza alcuna noia, per chiudersi in conclave, eleggere il nuovo Papa e ripartire nei dieci giorni seguenti con piena libertà e sicurezza. Era necessario perché nella primavera del 1720 era stata formata una deputazione incaricata di istituirgli il processo, chiamando a farne parte sette cardinali. Dovevano procedere coll’aiuto d’un “fiscale” cioè d’un procuratore inquirente, ma la cosa era tutt’altro che semplice sia perché il monitorio – la convocazione – doveva essere notificata all’imputato, irreperibile, sia perché, in mancanza d’un codice scritto, bisognava rifarsi ai precedenti; e nessuno si ricordava se ve ne fossero, perciò fervevano le ricerche negli archivi pontifici, ma con scarso esito: un caso come quello d’Alberoni non s‘era visto mai. Si pose una prima questione: poteva o non poteva partecipare al conclave? Francesco Farnese mise in moto ogni arte e appoggio per impedirlo: Alberoni a Roma in mezzo ai cardinali equivaleva a perdere la partita. Le istanze farnesiane e sopratutto quelle madrilene arrivarono troppo tardi. Il Sacro Collegio dei Cardinali aveva già risolto: Alberoni sarebbe stato ammesso al conclave.87 Lo stesso giorno della morte del Papa, il 19 marzo 1721, il decano del Sacro Collegio, l’eminentissimo Tanara, si era rivolto al giudice criminale della Camera Apostolica monsignor Domenico Cesare Fiorelli per un parere. L’ebbe a voce subito e sotto forma di memoriale il 20 marzo: un cardinale, pur se inquisito per delitti gravi, non perdeva la facoltà e il diritto di partecipare all’elezione del nuovo Pontefice, anzi, oltre alla convocazione occorreva mandargli pure un salvacondotto. Per questo il 22 marzo la congregazione dei capi dei tre ordini cardinalizi Tanara, Sacripanti e Pamfilij, tenuta in casa del primo, l’approvò nella seguente forma:88 “All’Eminentissimo in Cristo Padre e S. D. Giulio, S.R.C. Cardinale Diacono Alberoni Collega e fratello nostro carissimo I vescovi, i preti e diaconi per misericordia di Dio Cardinali di Santa Romana Chiesa al Reverendissimo in Cristo Padre e Signore, Collega e Fratello nostro carissimo, salute e sincera carità nel Signore. La Signoria Vostra Reverendissima comprenderà facilmente anche se non lo diciamo in quanto dolore e lutto versiamo dopo la dipartita per causa dell’inopinata e violenta forza della durissima malattia del Santo Padre e Signore nostro Clemente XI, che da questa mortale e lacrimosa vita il Signore chiamò a sé. 87 Non c’era molto da discutere. Eugenio IV colla sua Costituzione Apostolica In Eminenti aveva stabilito che solo dopo la cosiddetta “apertura della bocca” i cardinali fossero pienamente tali e potessero, fra le altre cose, votare in conclave; ma al tempo d’Alberoni, in grazia sia della Costituzione Apostolica di San Pio V del 26 gennaio 1571, sia della Decet di Gregorio XV, erano già considerati da tempo, precisamente dall’elezione di Innocenzo X nel 1644, come perfettamente in possesso di tutte le facoltà cardinalizie dal momento della creazione, ecco perché Alberoni fu convocato ed ammesso al conclave benché mancassero ancora tutte le altre formalità, cioè la consegna del cappello, dell’anello, la chiusura ed apertura della bocca e l’assegnazione del titolo cardinalizio. 88 L’originale è in Latino; la mia traduzione è un po’ più letterale e meno scorrevole di quella del padre Castagnoli, che il Latino lo sapeva sicuramente meglio di me. Ne approfitto per dire che, considerate le fonti disponibili all’epoca, a mio parere il padre Castagnoli fece uno splendido lavoro e credo che nessuno avrebbe saputo fare di meglio. 153


Poiché in verità nella volontà di Dio noi santissimamente preposti a tutte le cose non dobbiamo accettare che la sua chiesa sia mai danneggiata nè che nel frattempo la nave di Pietro, agitata da onde e flutti, manchi a lungo del suo nocchiero, dopo che secondo l’uso, avremo celebrato per nove giorni i funerali del defunto, entreremo nel Conclave Apostolico per implorare dal Padre dei lumi gli aiuti per l’elezione del successore che intraprenda a governarla con pari religione e prudenza. Potrà quindi la Signoria Vostra Reverendissima portarsi a questa madre sua, la Santa Romana Chiesa e, non ostante qualsiasi contestazione, unirsi a noi per deliberare su cosa di sì grande importanza. Ed affinché l’iniziato processo criminale non impedisca o ritardi il viaggio, avuta infatti in questo stesso giorno deliberazione ed esame di questa materia nella nostra Congregazione generale, col voto e l’assenso di ciascuno di tutti i Reverendissimi Fratelli nostri, concediamo alla Signoria Vostra Reverendissima il salvacondotto onde possa liberamente e sicuramente venire e rimanere a Roma per il fine suddetto, finché sia fatta la nuova elezione del Pontefice e con la stessa sicurezza e libertà una volta avutasi l’elezione e sciolto il conclave, nello spazio di dieci giorni partire e tornare. Dato a Roma dal Palazzo Apostolico nella nostra Congregazione generale sotto il sigillo dei tre nostri Capi, Nel giorno 21 marzo, in Sede Apostolica vacante.”CCI Fatto il salvacondotto lo si doveva recapitare… dove? Dov’era Alberoni? A Roma lo si pensava nel Genovesato: nella Dominante, o nella diocesi di Brugnato, forse. Nel dubbio si fecero due originali e li si mandarono al vescovo di Brugnato, monsignor Francesco Sacco, e all’arcivescovo di Genova, cardinale Fieschi. Seguendo le istruzioni di Roma, l’invito al Conclave fu affisso il 26 marzo 1721 alla porta delle due cattedrali di Genova e Brugnato. Lo stesso giorno si presentò all’arcivescovado di Genova l’abate Giovanni Battista Bielato, patrizio genovese,89 e ritirò l’invito e il salvacondotto destinati ad Alberoni, dichiarandosi pronto a farglieli recapitare per mezzo d’un suo corrispondente dimorante in un paese lontano e che faceva da tramite fra loro. L’arcivescovo gli consegnò i documenti in presenza di testimoni, un notaio redasse il verbale e lo si spedì a Roma.90 Sei giorni dopo Alberoni era a Bologna, in abiti laici, sotto il nome di marchese Lodovico Malaspina. Come ci fosse arrivato non si sa. Certo non traversò gli Stati Farnesiani, più probabilmente il Ducato di Milano ed entrò direttamente negli Stati Pontifici. Da una sua lettera del 21 maggio al conte Rocca sappiamo che fece un lungo viaggio in carrozza di posta e a Bologna scese all’Osteria del Pellegrino. Ci restò mezza giornata prima di passare nel palazzo del marchese Monti, in quello che oggi è il 13 di via Barberia. Là rimase due giorni, incontrò l’inviato francese a Genova con cui parlò dell’imminente elezione pontificia e ne uscì il 3 aprile, diretto a Roma per il Conclave. Andarci era la sua sola occasione per salvarsi. Doveva 89

La famiglia Bielati, giunta a Genova da Voltri nel secolo precedente e ascritta al patriziato genovese, aveva grossi interessi in Spagna, per cui non c’è da stupirsi che conoscessero Alberoni. Una prima menzione d’uno di loro si trova in una lettera d’Alberoni a Rocca del 31 agosto 1714, in cui l’abate chiedeva al ministro di pagare al signor Bielati 250 doppie, per una lettera di cambio da Cantucci di Madrid, che gli aveva anticipato il denaro per il viaggio ad Alicante per andare incontro ad Elisabetta Farnese e di cui Rocca dava conferma di quietanza solo il 5 febbraio 1715; cfr. Rocca ad Alberoni, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 375, nota 1. Le notizie sulla famiglia sono tratte dalla scheda 61 del Repertorio di fonti sul patriziato genovese compilata per la Soprintendenza archivistica della Liguria dal marchese Andrea Lercari, che me l’ha fatta avere tramite il dottor Paolo Giacomone Piana: a entrambi i miei ringraziamenti. 90 E’ del tutto errata la versione di Bersani, in base a cui Alberoni, nascosto in un feudo del marchese Monti nel Bolognese, vi avrebbe ricevuto la convocazione ritirata per lui insieme al passaporto a Roma dall’avvocato Ferrari. Bersani copiò quanto scritto dal marchese Ottieri, ma prima la biografia del padre Castagnoli e poi gli studi del padre Rossi, inoppugnabili e ottimamente documentati, in base alle risultanze archivistiche dimostrarono che fu Bielato a ritirare tutto a Genova e che Alberoni non era mai stato nascosto in Emilia, dove giunse provenendo dal Ducato di Milano. 154


giocarvi il tutto per tutto e convincere i confratelli cardinali a non consegnarlo né a Parma né alla Spagna, ma a farlo giudicare da un tribunale di suoi pari. Prima di partire prese una precauzione: scrisse al duca di Parma. Il padre Rossi giudicò quella lettera, insieme alla successiva datata 21 maggio, “una conferma… circa la sua costante riconoscenza al Duca Francesco Farnese.”CCII Io, più malignamente, un avvertimento: sono vivo, sono in salvo, sai che ho le lettere, non intendo danneggiarti, ma guai a te se provi ad aggredirmi. Pensiamoci: che riconoscenza poteva mai avere? Dopo anni di servizio fedele, la massima ricompensa che poteva aspettarsi era il carcere, se non la morte immediata. Era stato braccato dalle spie e dai sicari di Francesco Farnese per quattordici mesi e sapeva che lo sarebbe stato ancora, dunque? No, una lettera del genere non era né un’attestazione di riconoscenza, né una dichiarazione di lealtà. Era una mossa difensiva. Alberoni, da buon suddito, di fronte al mondo si dichiarava leale al suo signore, come era suo dovere e come tutti si aspettavano che facesse; ma in realtà, come vedremo, cominciava a controbattere le manovre farnesiane. Spedì la lettera il 1° aprile per corriere speciale, allegata a una missiva al conte Rocca. Appena l’ebbe, Francesco Farnese ordinò a Rocca di rispondere in modo mellifluo che la lettera era stata ricevuta da Sua Altezza Serenissima: “assai bene”. L’aveva ricevuta tanto bene che scrisse un espresso al marchese Scotti a Madrid, lamentandosi che gli ufficiali spagnoli mandati a Genova a impadronirsi di Alberoni se lo fossero lasciato scappare e chiedendo che Filippo V ordinasse al governatore di Porto Longone di catturarlo al ritorno dal Conclave. Sempre il 1° aprile il Cardinale avvertì il Sacro Collegio di dove era e d’essere in viaggio per Roma. Poi, lasciata Bologna giovedì 3 aprile, seguendo la strada delle diligenze di posta, si mise in viaggio verso sud, nella circospezione più totale. E’ vero che era un cardinale negli Stati Pontifici, ma era pure vero che un incidente poteva sempre accadergli. Il suo avvocato, Biagio Ferrari, gli mise fretta. Il conclave era iniziato lunedì 31 marzo e l’indomani il cardinal Paolucci era giunto a tre o quattro voti dall’elezione. Allora il 2 aprile il cardinale Althann aveva chiesto di sospendere tutto finché non fossero giunte le istruzioni da Vienna con un’eventuale “esclusiva”, cioè col veto imperiale all’elezione di questo o quel cardinale. Ne era nata una discussione molto serrata, alla fine della quale Althann aveva spedito parecchi biglietti ai cardinali non ancora arrivati perché affrettassero il viaggio. Ecco perché: “Giovedì mattina dal Sig. Biaggio Ferrari fù spedita Staffetta per la strada di Bologna all’Emin. Alberoni al fine di sollecitare la di lui venuta in Conclave; havendo detto Ferrari comprato le Carrozze, e cavalli del fù Emin. Astalli, e fermata la di lui Famiglia per Servizio di Sua Eminenza.”CCIII Benché l’attendessero il 5 aprile sera, arrivò a Roma il 7 accompagnato dal suo avvocato e fra due ali di folla: fu un’accoglienza quasi trionfale. “Egli comparve a Ponte Molle91 in calesse accompagnato dal Ferrari, col quale salito nella carrozza a muta, che ivi lo stava aspettando co’ suoi servitori con livrea, si vide tutta la strada fino alla Porta del Popolo, piena di carrozze, e di gente, che per curiosità era concorsa a vedere quest’uomo singolare, il quale, alquanto sopraffatto 91

Ponte Molle è Ponte Milvio. Là si univano le vie Cassia e Flaminia, percorse da chi veniva da Firenze o dall’Umbria. Benché la Flaminia da Roma andasse direttamente in Umbria, passando per Civita Castellana ed entrandoci a Narni, Alberoni probabilmente giunse dalla Cassia, perché viaggiava in diligenza di posta e la via postale da Bologna attraversava le Marche, scendeva a Loreto, entrava in Umbria, sostava a Foligno, poi a Narni, ma, giunta a Civita Castellana, invece di proseguire a sud per la Flaminia, tortuosa e caratterizzata da parecchi saliscendi, si dirigeva ad ovest per Nepi a Monterosi, dove prendeva la Cassia, un po’ più dritta della Flaminia e con qualche salita e discesa di meno, giungendo fino a Roma sulla sponda destra del Tevere, a monte dell’abitato, appunto a Ponte Milvio, traversato il quale proseguiva nel verso della corrente fino a Porta del Popolo – pioppo, “populus” in latino” dal boschetto di pioppi che sorgeva lì vicino in passato – ed entrava in città. 155


non solo per il detto straordinario concorso, ma molto più per li soldati, che stavano di guardia alla porta della Città, concepì del timore, ma assicurato dal Ferrari entrò in Roma verso la sera, e dopo essersi portato immediatamente per consiglio del suo prudente Conduttore in Casa Albani per visitare i Signori di quella casa, da’ quali fu accolto cortesemente, andò poi a smontare nella casa del suddetto Ferrari presso la Chiesa della Pace, accompagnato sempre da moltissimo popolo, che dimostrava di acclamarlo.”CCIV Nonostante la buona accoglienza, era tesissimo e spaventato. Il marchese Ottieri, che lo vide allora, aggiunse: “I patimenti del corpo e l’afflizioni d’animo sofferte dall’Alberoni furono grandissime. Prendeva scarso cibo, e semplicissimo, per dubbio d’essere avvelenato, poco dormiva, e sempre inquieto, onde a forza d’infiniti disastri egli era divenuto come insensato, spaurito, e quasi fuora di sé. Così io lo vidi la prima sera che giunse in Roma dopo la morte di Papa Clemente, e così succede anche agli uomini grandi, quando languisce il corpo e prevale nell’animo universal turbamento.”CCV L’avvocato Ferrari gli aveva preso in affitto il palazzo del defunto Paolo Spada e lui vi si recò a pernottare dopo la visita agli Albani, venutigli incontro alla porta del loro palazzo. La sera dell’indomani, l’8 aprile, subito dopo lo scrutinio pomeridiano, entrò in Conclave “ove certamente tutti stavano male, ed io particolarmente, gia che io ero uno di quelli, che avevano sortito una cella92 infelice.”CCVI Come fu ricevuto dai confratelli cardinali, di cui non ne conosceva quasi nessuno? Pure qui esistono versioni diverse. Secondo quella del marchese Ottieri, fondata sulle voci correnti allora per Roma, malissimo, perché sarebbe stato “malamente accolto, e mortificato da’Cardinali in genere, specialmente dal Giudice.”CCVII Più o meno coincide con quanto fu pubblicato dagli Avvisi italiani, stando ai quali fu “ricevuto dal Sacro Colleggio con serietà.”CCVIII Stando a una relazione d’un anonimo conclavista riportata da Castagnoli, le cose andarono in modo del tutto opposto: “…era arrivato al Conclave in mezzo alle ondate del popolo, vaghissimo di vederlo, il Cardinale Alberoni, il quale capitato affatto nuovo e sconosciuto alla Sacra Assemblea, non ebbe a impiegare gran tempo ne’ primi complimenti d’incontro; tratti però ugualmente dalla curiosità che dall’osservanza del solito cerimoniale ritrovaronsi tutti alla porta del Conclave per riceverlo i Cardinali, e tra questi il Cardinale del Giudice fu il solo che seco si aprisse in offizio di cortesi parole, passandosela gli altri in un gentile saluto; parlò ben egli di poi girando in visita per le celle a ciascun Cardinale, pigliatone l’argomento dalla sua causa, che perorò del pari con la forza delle ragioni e del dire, che col credito del suo savio e modesto contegno, col quale seppe così bene conciliarsi l’amore e la stima di quasi tutto il Sagro Collegio, che senza il disfavorevole aspetto delle cose sue, la mirabile vivacità del suo talento averebbe portato ad aver 92

La sua cella era la numero 36, fra quelle dei cardinali Borromeo e Corsini. Era rivestita di viola, in quanto cardinale nominato dal defunto Papa. Le celle di per sé non esistevano prima del conclave, venivano costruite con dei tramezzi e dei soppalchi di legno e smontate dopo la fine. Erette dove lo spazio lo consentiva nel Palazzo apostolico del Vaticano, estendendosi, come successe per quello del 1740, addirittura nel corridoio dove si trova il balcone da cui si affaccia il Papa per la prima benedizione Urbi et Orbi – alla città e al mondo – erano dei piccolissimi appartamenti contenenti una stanzetta da letto e uno studio minuscolo per il cardinale, uno stanzino per il conclavista e un minimo di spazio per due servitori. Ognuna andava ammobiliata a cura e spese del cardinale cui era destinata ed erano tutte anguste, poco illuminate, mal aerate e d’estate piuttosto calde, per di più la legna adoperata per costruirle conteneva spesso delle nidiate di indomabili cimici e pulci, i cui morsi tormentavano tutto e tutti. 156


molta mano in quelle del Conclave. Il solo Cardinale Acquaviva, Ministro della Corte di Spagna, riguardandolo come privo della grazia del suo Re, scusossi dal ricevere la sua visita, col solito motivo delle sue grandi occupazioni.”CCIX Questa versione non contrasta colle due precedenti e, conoscendo lo stile d’Alberoni, non c’è dubbio su quanto sia attendibile: solo lui poteva sormontare quasi qualsiasi ostilità ed entrare in buoni rapporti con tutti come se nulla fosse.93 Viene da chiedersi: se non fosse stato colpito dalla disgrazia politica, sarebbe riuscito a farsi eleggere papa, non dico in quel conclave ma almeno nel seguente, realizzando il progetto esposto apparentemente per scherzo ad Elisabetta Farnese nel febbraio di sei anni prima? Chissà? La permanenza nel conclave non era divertente. Parlando di quello del 1740, il quarto ed ultimo a cui Alberoni avrebbe partecipato, il conte de Brosses, presidente del Parlamento di Borgogna, avrebbe descritto la scomodità delle celle dei cardinali, oscure, poco aerate, dalle pareti di legno non prive di cimici e non c’è ragione di credere che quelle del conclave del ’21 fossero diverse. Mentre Alberoni ci si trovava, gli arrivò la risposta, datata 7 aprile, alle sue lettere del 1° a Rocca e al Duca. Rispose a Rocca “dal Conclave li 22 aprile 1721” con un una lettera apparentemente ossequiosa ma che era un chiaro avvertimento: “Dal gentilissimo foglio di V.S. Ill.ma del 7 corrente ho inteso il favore si è compiacciuta farmi nel rendere la mia Lettera a S.A.S., ed il gradimento con cui è stata ricevuta. Io ho creduto mio obbligo usare quest’atto di rispettosa attenzione, come non trascurerò ogn’altra in qualunque congiuntura che potrà presentarsi, senza ne meno pensare, non che esiggere, che S.A.S. vinca que’ riguardi a quali crede andar obligato. Io poi do nuove grazie alle cortese espressioni che ella si compiace farmi, assicurandole che mai m’allontanarò da que’ ripieghi che ella potesse suggerirmi per portare l’animo generoso di S.A a procurarmi il riacquisto di quella grazia, che so non aver io demeritata; e tanto ho espresso ad alcuni Em.mi miei Colleghi ed amici, e dell’A.S. buoni Servitori.”CCX Mettiamola in italiano corrente e vediamo che ne vien fuori. In sostanza Alberoni diceva a Rocca: “La sua risposta mi conferma che Sua Altezza ha visto la mia lettera. Ho ritenuto mio obbligo scriverla e non trascurerò di fare qualsiasi altra cosa utile a difendermi. Non mi immagino nemmeno per un istante che il Duca cambi idea – “vinca que’ riguardi a quali crede andar obligato” – nei miei confronti, ma proprio per questo scordatevi che io rinunci a difendermi. Ad ogni modo, se proponete un compromesso per un accordo definitivo – volgarizzo così quel mellifluo “que’ ripieghi che ella potesse suggerirmi per portare l’animo generoso di S.A a procurarmi il riacquisto di quella grazia, che so non aver io demeritata – nonostante io sia innocente e il Duca colpevole – e sostengo d’essere innocente col dire che so di non aver demeritato – ne potremo parlare. Intanto sappiate che ho mostrato quanto mi avete scritto e quanto vi rispondo ad alcuni cardinali ed amici, perciò attenti a ciò che fate, perché qualsiasi cosa scriviate sarà resa pubblica fra persone di tale livello che non potrete far nulla per impedire loro di parlare ed informare i rispettivi sovrani. I cardinali presenti si dividevano più o meno in quattro gruppi. Quello degli Zelanti, decisissimi ad eleggere un papa di buona dottrina, non nepotista e di costumi irreprensibili; quello dei “Francesi”, 93

Vi furono alcune attestazioni di simpatia. Giovedì 10 aprile l’avvocato Ferrari si trovò “nella bussola”, cioè nella vaschetta girevole all’ingresso di casa in cui si consegnavano oggetti e posta “diverse composizioni di poesia in lode di Sua Eminenza senza saperne gli Autori…. Venerdì mattina Monsig. Ruspoli, Governatore del Conclave, mandò in regalo all’Emin. Alberoni uno sturione.” cfr. Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta XXXV, 30 Aprile 1721, il Corriere Ordinario - “Continuazione del Diario di Roma durante la presente Sede Vacante dalli 5 fin’alli 12 d’Aprile”, pag. 70, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. 157


che includeva pure gli Spagnoli in quanto sudditi dei Borbone, al quale si contrapponevano i cardinali della fazione imperiale e, infine, molti dei cardinali nominati dal defunto papa Clemente XI, i quali si ritrovavano nel gruppo dei “Clementini”. La fazione imperiale disponeva d’una quindicina di voti, inclusi quelli d’una decina di cardinali non germanici ma simpatizzanti per la causa asburgica. La seconda comprendeva oltre ai porporati francesi e spagnoli, gli italiani simpatizzanti per le corti borboniche. I Clementini, capeggiati dal cardinal nipote Annibale Albani e che sarebbero restati assai forti per altri trent’anni, radunavano, come ho detto, molti dei cardinali creati da Clemente XI nei suoi vent’anni di regno e si opponevano a qualsiasi ingerenza delle corone negli affari della Chiesa. Gli Zelanti, detti pure “Lo Squadrone volante”, che sarebbero esistiti per altri cent’anni, furono quelli cui Alberoni si unì. Era una scelta obbligata: non poteva inimicarsi gli imperiali dopo quanto Carlo VI aveva fatto per lui, né poteva unirsi ai franco-spagnoli dati i suoi rapporti con Filippo V. I Clementini erano pericolosi, perché papa Albani gli aveva lungamente rifiutato il cappello e l’aveva spedito sotto processo, fatto di cui si era particolarmente occupato il cardinal nipote che adesso guidava la fazione. Restava dunque il solo gruppo degli Zelanti, al quale nessuno gli avrebbe mai rimproverato di unirsi ed eccolo con loro. Il numero degli elettori variava di giorno in giorno. Di massima saliva per via dell’arrivo di qualche ritardatario, altre volte scendeva per l’impossibilità di votare di qualche ammalato. E’ inutile fornire un resoconto preciso dei tentativi d’eleggere questo o quel candidato. Basterà dire che a metà aprile cominciò a circolare il nome del cardinale Conti. Sessantaseienne, nobile, suddito pontificio, con una lunga esperienza di curia e di governo e pochissima pratica pastorale, nunzio in Svizzera e poi per dieci anni in Portogallo, Michelangelo Conti era una bravissima persona ed abbastanza anziano da far sperare a tutti di potergli succedere. Ad Alberoni andava bene: era fratello d’un amico suo, il padre benedettino Conti, del monastero di Piacenza. Di conseguenza l’8 maggio 1721 fu trovato l’accordo. I 40 porporati rimasti in conclave – gli altri ne erano usciti per le precarie condizioni di salute – lo elessero e lui assunse il nome di Innocenzo XIII. Il Conclave era finito. Alberoni era libero, ma solo per dieci giorni, cioè più o meno fino al 18 maggio. Non ne approfittò per sparire di nuovo, bensì per domandare una proroga, poi un’altra e infine una terza, che il nuovo Papa gli concesse regolarmente. Se non le avesse avute, sarebbe potuto uscire da Roma senza rischi grazie all’Imperatore. Ventidue anni dopo, nel marzo del 1743, difendendosi dalle già ricordate accuse di cooperazione cogli Spagnoli durante la Successione Austriaca, il Cardinale, oltre a dire quanto avrebbe poi scritto al marchese di Villasor e al maresciallo Kevenhüller, confidò al nunzio a Vienna Merlini Paolucci, parlando di Carlo VI: “… quella grand’Anima, dubitandosi dal Cardinale Althan, che dopo la Creazione di Innocenzo XIII non gli facessero i Ministri Spagnuoli qualche istanza ed essere poco sicuro in Roma ordinò al detto Cardinale Althan, e Cardinale Cienfuegos di bona memoria di portarmi nella loro carrozza a Napoli.”CCXI Ne ebbe bisogno? Non direi: Althann restò a Roma dopo il conclave e Cienfuegos non partì subito. Circolò la voce della partenza d’Alberoni da Roma, ma con differenze a seconda di chi ne parlava. In giugno, in riferimento al maggio precedente, pubblicava di lui il “Mercurio Storico e Politico”: “E’ partito con gran segretezza da questa Città senza che veramente si sappia dove sia andato, ma la comune opinione è che si sia fermato in qualche luogo vicino per aspettarvi la decisione del suo Processo, la quale probabilmente si farà quanto prima in suo vantaggio.”CCXII Gli “Avvisi italiani” in una corrispondenza del 24 maggio, scrivevano che Alberoni: 158


“secondo l’apparenza è sortito da Roma, perché stà serrato il portone del suo Palazzo; altri però dicono, che habbi avuto 30 giorni di tempo per dimorare qui, e poi partirsene.”CCXIII Ma una settimana dopo annunciavano che era ancora a Roma, benché avesse licenziato la maggior parte dei suoi domestici, trattenendo solo il Maestro di Camera, due segretari e quattro staffieri, “e ciò per havergli S. Santità fatto sapere di dovere sortire da Roma in termine d’alcuni giorni, mentre per la sua causa gli sarebbe stata fatta la Giustizia.”CCXIV Pochi giorni dopo non sembrava cambiato nulla e i giornali potevano solo ripetersi: tutti i cardinali avevano partecipato il 9 giugno alla processione dal Vaticano alla chiesa di Santo Spirito in Sassia per l’indizione del Giubileo proclamato dal nuovo Papa, “eccettuato l’Emin. Alberoni, che secondo il dire d’alcuni, si tiene del tutto ritirato nel suo Palazzo: altri però lo fanno sortito da Roma, e ciò con gran segretezza da esso usata in ogn’incontro della sua ritirata; e sebene non si penetri à qual parte sia andato, nulla dimeno vi è chi asserisce trattenersi in queste vicinanze fin’all’ultimazione del suo Processo, che secondo tutte le apparenze, deve terminarsi in breve; volendo alcuni che frà poco si sentirà ritornato in grazia, & assolto.”CCXV Per tutta l’estate e parte dell’autunno il Cardinale non fu citato nelle cronache delle cerimonie e celebrazioni pontificie che una sola volta e per notarne l’assenza. Questo non gli impediva di muoversi, pur se con cautela. Circolò la notizia d’una sua visita di notte al Pretendente alla corona d’Inghilterra, come in seguito si parlò d’un’altra alla duchessa Giacinta d’Acquasparta, sorella del Papa, finché il 9 agosto non si seppe che era andato in villeggiatura. “Il Card. Alberoni è andato in una Villeggiatura poco da Roma lontana; e vogliono gli Speculativi, sia ciò stato intrapreso à motivo di potere con qualche più libertà trattar, & havere visite secondo li suoi affari; il suo Avvocato intanto hà accettato l’impegno di formar le sue diffese.”CCXVI Cosa stava succedendo? Iniziamo col dire che papa Innocenzo aveva nominato Segretario di Stato il cardinale Spinola, genovese, e difficilmente Alberoni si sarebbe potuto augurare una mossa migliore: un Genovese che non fosse il cardinal Imperiali, suo nemico, non gli sarebbe stato certamente avverso e, anzi, forse gli sarebbe stato d’aiuto. Il suo caso era dei più importanti ed urgenti. Lo si era visto quando, il 10 maggio 1721, due giorni dopo essere stato eletto, Innocenzo XIII aveva ordinato ad una congregazione particolare deputata94 di stabilire se, durante il periodo coperto dal salvacondotto, lui come Papa dovesse fare qualche cosa contro Alberoni; in caso negativo, se a quest’ultimo si potesse permettere d’assistere alle funzioni sacre ed alle cerimonie e, infine, se si dovesse prolungare o no il suo salvacondotto e, in caso affermativo, se prima o dopo la sua scadenza. I cardinali congregati avevano riposto che non lo si doveva molestare, però non gli si poteva consentire di partecipare a funzioni e cerimonie pubbliche e, se voleva girare per Roma, lo doveva fare senza porpora, contentandosi dell’abito corto; infine non era il caso di concedergli d’ufficio alcun altro salvacondotto, ma, se ne avesse fatta richiesta scritta, la si sarebbe esaminata e si sarebbe deciso in merito. Se non avesse chiesto nulla e allo scadere dei dieci giorni fosse stato ancora in città, sarebbe stato da arrestare nei modi prescritti per il suo stato.

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Composta oltre che dai cardinali incaricati del processo, dai monsignori Cybo e Jacovazzi, fiscale, cioè procuratore generale, di Roma e dal Luogotenente della Reverenda Camera Apostolica. 159


Alberoni ne era stato informato immediatamente ed aveva presentato subito la domanda, “supplicando umilmente la Santità Vostra prorogargli detto salvo condotto per quel tempo, che sembrerà più discreto alla Santità Vostra.”CCXVII Innocenzo aveva passato la richiesta alla congregazione. I cardinali Tanara, Barberini, Corsini, Tolomei, Scotti e Spinola avevano risposto di si, il cardinale Imperiali si era adeguato, sottolineando però che era uso dei rei domandare dilazioni e perciò l’imputato avrebbe fatto meglio a rimettersi in tutto e per tutto alla clemenza del Pontefice. Di conseguenza, avendo riferito al Papa ed avendone ricevuto l’ordine a voce, il 18 maggio il Segretario di Stato Spinola aveva prorogato il salvacondotto d’un mese. Scaduto pure questo, Alberoni fece una nuova domanda e stavolta Innocenzo gli consentì di restare fino alla fine del processo. Va sottolineato che non si riesce a capire quale fosse il vero atteggiamento dei vari cardinali nei confronti del confratello. Alcuni gli erano decisamente ostili e tali rimasero negli anni seguenti: Imperiali era uno di loro. Altri gli erano favorevoli; altri ancora, come Corsini, il futuro papa Clemente XII, avevano un atteggiamento non definito e, a seconda dei casi, potevano essergli favorevoli o sfavorevoli e di loro alcuni, come i due cardinali Albani, per motivi personali, altri per ordine delle rispettive corti. La mia impressione è che, una volta cessato il suo valore in quanto elettore nel conclave e al di là della cortesia dovutagli, quasi tutti lo considerassero una fonte di problemi e ne fossero annoiati. Non osavano però procedere contro di lui, consci di dover proteggere quell’intangibilità dei membri del Sacro Collegio a cui tutti tenevano e che consentiva loro d’evitare delle inchieste assai meno pericolose, ma da cui non sarebbero usciti indenni. Inoltre era utile, se non necessario, farsi vedere compatti, specie dalle due corone borboniche – e lui era perseguitato proprio da una di esse – le quali negli ultimi vent’anni non si erano mai fatte scrupolo di prevaricare i cardinali loro sudditi: l’aveva fatto Luigi XIV e l’aveva fatto Filippo V col cardinale del Giudice; non servivano altri esempi. Come si vedrà parlando del processo, questo modo di pensare e di fare trovò un ottimo sostegno nell’operato dell’accusa e scaricò, con un infastidito sollievo dei cardinali, la decisione sul nuovo Papa, che aveva abbastanza energia e testa da saper cosa fare e salvò Alberoni. A quest’ultimo durante il Conclave il conte Rocca, l’8 maggio, aveva spedito una lettera in cui gli chiedeva una seconda volta di mandare qualcuno di fiducia a Parma per trattare. Adesso il Cardinale rispose, datando da Roma il 21 maggio, con quella che era una dichiarazione di prosecuzione delle ostilità, in cui, al di là delle formule d‘ossequio, diceva parecchie cose minacciose. La lettera era apparentemente breve e iniziava pregando il Conte di presentare al Duca una seconda missiva, allegata, in cui si informava l’Altezza Sua Serenissima “… dell’obbligo che avrò forsi di fermarmi per qualche tempo in un Paese, il di cui aere, pare non sia troppo confacevole alla mia salute, forsi più pregiudicata dagli incommodi passati che da questo clima.”CCXVIII A questo avviso che non sarebbe rientrato a Parma, restando in qualche altro posto, cioè a Roma, Alberoni faceva seguire un lungo Post Scriptum, in cui diceva: “vedo la nuova Istanza d’inviare costì persona di confidenza. Può ella essere persuasa che sin’ora è stata cosa per me impraticabile, tanto più che ho creduto…. si potesse porre in scritto per terza mano ciò che ella avesse a farmi sapere; pure, giudicando ella necessaria una tale spedizione, anderò divisando se posso trovare qualche Religioso per dare meno nell’occhio e serbare maggiormente il segreto.”CCXIX In sostanza Alberoni stava dicendo a Rocca: evidentemente il Duca non vuole compromettersi e spera che, agendo a voce e tramite intermediari, non rimarranno tracce documentabili. Io mi aspettavo delle proposte concrete che non poteste rimangiarvi, ma evidentemente non è così, per cui può darsi che io trovi qualcuno da mandarvi, ma non contateci. 160


Più oltre, rispondendo a delle mezze accuse di aver parlato con questo e quello e d’aver diffuso voci – mezze accuse che in realtà erano delle domande per sapere se e quanto avesse già potuto dire – affermava che quelle voci erano state messe in giro dai suoi nemici, che lui era entrato in conclave “limpido e netto“ e nel viaggio da Bologna a Roma non aveva parlato altro che coi vetturini. Insomma, si era: “mantenuto (anche invitato) in non prendere quelle risoluzioni che forsi prese avrebbero trovato un giusto compatimento” perché “il sentimento d’una vera probità, la delicatezza del puro onore hanno avuto sopra di me tal forza, che con coraggio, costanza e pazienza ho patito tanti disaggi, ed ho creduto che un giorno verrebbe da Dio premiata una tale sofferenza che illuminerebbe i miei Benefattori a crede, almeno, non essermi io reso ne ingrato, ne immeritevole dei beneficij ricevuti.”CCXX Questo in moneta corrente significava: finora, nonostante le pressioni fattemi, ho evitato di raccontare quanto so e mi discolperebbe in pieno, perché mi aspetto che il Duca si renda conto che è meglio trovare un accordo invece d’andare allo scontro; giudicate voi se è il caso di darmi retta o meno. Non gliene diedero.

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Capitolo XXII Il denaro d’Alberoni E’ venuto il momento di porsi una domanda che, tranne il padre Rossi – e pure lui con parecchi limiti – nessuno dei biografi d’Alberoni sembra essersi mai fatto: dove trovava i soldi? Non viveva d’aria, il denaro gli serviva, come a tutti. Come lo guadagnava e quanto ne aveva? Mi rendo conto che di solito tutte le biografie – a volte anche quelle dei finanzieri e degli uomini d’affari – sorvolano su questi sordidi particolari e presentano il protagonista sotto tutti i punti di vista meno quello del denaro. I precedenti biografi d’Alberoni sembrano aver fatto la stessa cosa: han parlato di pace e di guerra, di formaggi e di vini, di politica e chiesa, di intrighi e complotti, di fughe e processi, di conclavi, cappelli, spedizioni e sponsali, di ville e palazzi, del Collegio Alberoni, ma i soldi per fare tutto questo da dove venivano? E quanti ne aveva? Da cardinale, una volta finiti i suoi guai, ebbe il “piatto” cardinalizio, cioè lo stipendio che la Santa Sede versava ai porporati residenti a Roma e privi d’una diocesi.95 Ma prima? Ecco, prima, cioè dopo la fuga dalla Spagna e prima della fine del processo, Alberoni non visse della carità altrui, tutt’altro. Occorre procedere per deduzioni, a volte per induzioni, perché le tracce sono poche e frammentarie, però ci sono e dicono molto. Cominciamo dal periodo più duro. E’ l’estate del 1721, il conclave è appena finito e Alberoni presta 60.000 scudi romani al marchese Monti con “istrumento pubblico.” Li rià indietro il 15 marzo 1722, o meglio: quel giorno dà una quietanza generale a monsignor Filippo e ai suoi fratelli marchese Francesco e marchese Antonio Monti dei Quaranta per aver riavuto 122.498 scudi romani, dei quali 60.000 sono quelli prestati l’anno prima e i restanti 62.498 comprendono sia contanti restituiti che sconti di spese fatte e fatte fare “per nostro servizio”, compreso il ricavato delle gioie ed argenterie vendute a Genova. Fermiamoci un momento. Quanti erano 60.000 scudi romani? Erano una cifra grande, media o piccola? Fare il calcolo in termini legati all’inflazione è fuorviante quanto errato, perché fornisce un valore della moneta che non tiene conto del potere d’acquisto dell’epoca, per cui la valuta riportata in termini odierni risulta sempre con un potere d’acquisto, e dunque un valore effettivo, inferiore a quello che aveva. Occorrono dei termini di paragone coevi, semplici e concreti. Mi rifaccio a quanto dice Montesquieu, che, da straniero attento, cercava anche notizie finanziarie. Ebbene, nel febbraio del 1720 l’eredità del principe Ottoboni in contanti, argenteria, gioielli e beni mobili era stata valutata 100.000 scudi romani, la stessa cifra a cui nel 1729 ammontavano tutte le rendite annue del Principe Colonna. Nel medesimo 1729 tutte le entrate degli Stati del Papa assommavano a 2.700.000 scudi romani, di cui 1.440.000 se ne andavano per pagare gli interessi del debito pubblico.CCXXI Dunque, nell’estate del 1721, appena uscito dal Conclave, Alberoni era tanto ricco da poter prestare a dei nobili, senatori di Bologna con terre e feudi, una cifra pari al 60% dell’eredità d’un principe romano e patrizio veneto, o delle rendite annue di uno dei più facoltosi principi romani e otto mesi dopo rientrava in possesso d’una somma, in contanti e servizi resi, pari all’8,5% degli interessi annuali del debito pontificio e al 4,5% delle entrate della Santa Sede. Possiamo fare due osservazioni. La prima riguarda il denaro con cui lasciò la Spagna. Montesquieu scrisse che a Roma, nel 1729, si diceva che in Spagna avessero levato 100.000 pistole ad Alberoni e fosse giunto in Italia con circa altrettante.CCXXII

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Fra le varie entrate, i cardinali disponevano d’un censo sulla basilica di cui erano titolari, ma dei tre che Alberoni ebbe, si conosce l’entità solo dell’ultimo, quello su San Lorenzo in Lucina, di 900 scudi romani all’anno. 163


Pistola era il nome dato comunemente al Luigi d’oro, che dal 1697 valeva 12 lire francesi e pesava circa 6,5 grammi d’oro, mentre lo scudo romano d’oro ne pesava da 3 a 3,5, cioè circa la metà. Di conseguenza, poiché all’epoca il cambio si faceva a peso, 100.000 pistole equivalevano all’incirca a 200.000 scudi romani, per cui, se fossero state vere le voci riportate da Montesquieu, la somma prestata al marchese Monti nell’estate del ’21 sarebbe stata circa un terzo di quanto Alberoni era riuscito a portar via dalla Spagna e quella riavuta nel marzo del ’22 poco più della metà. Possibile? Lo vedremo fra poco. La seconda osservazione riguarda il prestito. Perché prestare tanti soldi? Su che garanzia? E come mai per così poco tempo, solo otto mesi, e senza interessi? La risposta è ipotetica, richiede una spiegazione complessa, ma dovrebbe essere quella giusta: il prestito servì a proteggere il denaro di Alberoni da un’eventuale confisca. Guardiamo le date e le cifre. Nell’estate del 1721, finito il conclave, Alberoni ha forse solo dieci giorni di libertà prima d’incorrere nei rigori della legge. Dovrà affrontare un processo, dovrà pagarne le spese, quantomeno dovrà continuare a pagare il suo legale. Ha il denaro, ma, se lo arrestano in vista del processo, potrebbe essergli confiscato. Perché lo presta? Perché, mentre depositandolo in banca, o dandolo in custodia, resterebbe a suo nome e dunque confiscabile, prestandolo quel denaro diventa di chi l’ha preso in prestito e dunque non è più sequestrabile, quantomeno non lo è fino alla restituzione. Semplicemente affidato ai marchesi Monti, se rintracciato sarebbe risultato sempre suo e nulla avrebbe legalmente impedito alle autorità di sequestrarlo, ma prestandolo ai marchesi Monti, diveniva loro e dunque insequestrabile. Era un’ottima idea, tanto era ovvio che i Monti dei Quaranta gliel’avrebbero reso appena l’avesse chiesto; come infatti fecero otto mesi dopo. Però dalla quietanza generale scopriamo varie altre cose. Intanto che i 60.000 scudi prestati al marchese Antonio erano circa la metà della cifra prestata a tutti e tre i fratelli Monti. Infatti, poiché la somma globale includeva, oltre ai liquidi, lo sconto di spese anticipate dai Monti “per nostro servizio”, se ne deduce che Alberoni avesse fatto tre prestiti diversi, uno ad ogni fratello – se no non si capisce perché la quietanza sia a tutti e tre e non a due, o al solo Francesco – e che i tre fratelli abbiano provveduto a pagare quanto serviva ad Alberoni, usando il suo denaro. Un’ulteriore conferma l’abbiamo da un fatto: si parla di contanti, di spese fatte e fatte fare, ma senza il minimo accenno agli interessi. Che razza di prestito è mai un prestito a otto o più mesi e ad interesse zero? Non è impossibile, ma è raro, sia perché la scadenza è ravvicinata, sia perché l’interesse è nullo e, quando si fa, novantanove volte su cento serve a conservare il denaro, non ad investirlo. No, questo dimostra che il prestito non serviva a fornire liquidità ai Monti per qualche loro necessità, ma a proteggere il denaro di Alberoni dal sequestro mettendolo in mani fidatissime. Da dove veniva questo denaro e com’era giunto in Italia? Ed era tutto? Le entrate d’Alberoni possono essere divise secondo i tre periodi della sua vita: prima della Spagna, in Spagna e dopo la Spagna. Prima della Spagna si articolarono in due rami: i benefici avuti a Piacenza e le pensioni francesi. In Spagna si trattò del misero stipendio di ministro di Parma passatogli dal duca Francesco, cui si aggiunsero la pensione concessagli da Filippo V e le rendite vescovili ed arcivescovili. Dopo la Spagna si trattò di alcuni benefici e stipendi pagatigli dalla Santa Sede. Cominciamo dal periodo piacentino. Le entrate d’Alberoni prima dell’esilio a Ravenna non sono note e si può supporre che avesse un qualche tipo di retribuzione da Gardini per il lavoro svolto all’Uditorato. Dopo il rientro a Piacenza ebbe certamente uno stipendio come mastro di casa e poi procuratore generale di monsignor Barni, benché non si debba essere trattato di grandi somme. All’epoca vitto, alloggio e le spese di vestiario erano considerate più che sufficienti a contentare tutti e di denaro se ne dava poco. La sua prima entrata consistente furono i 40 ducati annui della prebenda di San Martino, collegata al canonicato in duomo che gli dava diritto di risedere nel chiostro. I successivi tre benefici fattigli avere da monsignor Barni – la cappella di San Martino di Muzzolano, il legato nell’arcipretura della Pieve di Dugliano e il canonicato nella Pieve di Travazzano – gli aggiunsero 24 ducati, portando le 164


sue entrate fisse a 64 ducati annui,96 cioè a poco più di cinque al mese, e infine l’importo degli interessi degli undici luoghi di monte della cappellania di Santa Barbara, i quali, essendo ogni luogo di monte di San Giorgio pari a 100 lire genovesi investite al tasso del 2,5%, dovrebbe avergli garantito altre 27 lire genovesi e mezzo all’anno, cioè 16 ducati, pari a 1,30 ducati in più al mese. Diciamo dunque che, all’inizio della Guerra di Successione Spagnola, Alberoni disponeva d’una casa e d’un’entrata fissa di sei ducati e mezzo al mese.97 Non era male, pur se, come poi depose Camilla Bergamaschi, sua governante già a quel tempo, “non haveva da buttarne via.”CCXXIII La guerra gli portò la disponibilità dell’appartamento ammobiliato in Palazzo Landi, una pensione annua di 2.090 lire piacentine98 assegnatagli nel 1706 sulla Prevostura di San Lorenzo in Monticelli d’Ongina e la pensione di 1.000 lire tornesi, concessagli da Luigi XIV e poi aumentatagli a 4.000 nel 1708, ma gli spostamenti in Francia e poi in Spagna fecero sparire quattro dei sei benefici piacentini. Al quinto, il canonicato in duomo coll’appartamento, lui rinunciò nel 1714, per cui fino alla morte gli rimase solo la pensione sulla Prevostura di San Lorenzo in Monticelli. Il confinamento di Vendôme ad Anet implicò la sospensione della pensione francese, che gli ricominciarono a pagare solo ai tempi del Reggente, nel settembre del 1716; dunque dal 1709 sarebbe rimasto piuttosto a corto di denaro e in sostanza sulle spalle di Vendôme. Traendo le somme in modo approssimativo, all’arrivo in Spagna Alberoni di suo non avrebbe avuto altro che la pensione piacentina, il beneficio del canonicato in duomo e, forse, ancora l’entrata degli altri quattro benefici piacentini, cioè, nella migliore delle ipotesi, circa 40 pezzi da otto al mese, ma il condizionale è d’obbligo perché, come vedremo, non stava per niente male ed aveva parecchi risparmi, nonostante piangesse miseria. Come lo sappiamo? Da lui stesso: in una lettera del 10 ottobre 1726 a Filippo V con cui domandava la restituzione dei suoi beni, menzionò la cifra di 60.000 scudi99 da lui depositati nella banca di Melchiorre Seminati all’arrivo a Madrid dopo la morte di Vendôme.CCXXIV Da dove venivano? Non si sa. Sappiamo che le cose iniziarono a migliorare nel 1711 in Spagna, quando, su istanza di Vendôme, ebbe dal Re e dalla regina Luisa, all’atto della sua naturalizzazione come suddito spagnolo, una pensione annua di 4.000 pezzi da otto sulle rendite dell’arcidiocesi di Toledo. Successivamente gli furono conferite delle rendite sulle arcidiocesi di Siviglia, Valenza e Tarragona e di queste ultime parlerò fra poco. Intanto non va dimenticato che, per quanto fossero poche, Alberoni aveva dal duca di Parma 50 doppie al mese, con cui pagava, a malapena, le spese di stalla e carrozza. Per un privato a Piacenza quelle entrate sarebbero stata la ricchezza, per un ministro di Parma a Madrid – diceva – erano l’indigenza. Non a caso scrisse a Rocca nel giugno del 1716: “Vi assicuro signor conte mio riverito signore, che nella mia casa non vi regna l’abbondanza, che son ormai tre anni che non ricevo un soldo della mia pensione, che per i due anni non vi è che pensare, perché la mitra di Valenza (che hora è in deposito), non fu in stato di pagare, per il terzo sin hora questo signor Arcivescovo non paga alcuno, né pagherà che verso il prossimo Natale, a quello dice, quantunque le pensioni siano scadute a marzo passato. Dalla pensione poi si deduce il sussidio ed escusado ed altre deroghe che vanno a più d’un terzo. Il pagamento delle altre parti si fa per di più con li frutti della mitra, cioè biade ecc., con un prezzo sì rigoroso, che aggiunto alla 96

Pari a circa 1.875 lire piacentine, che per la Piacenza d’allora non era poco, come si vede dalla nota seguente. Circa 190 lire piacentine al mese; un capitano delle truppe ducali ne prendeva 170, un tenente 100, un soldato 30. 98 Occorrevano 17,5 lire di Piacenza per un pezzo da otto spagnolo, perciò si parla di 119,4 pezzi da otto, o d’altrettanti scudi romani d’oro, ognuno dei quali era pari a 5 lire di Genova. 99 Scrivendo a Filippo V, si presume che Alberoni parlasse di scudi spagnoli d’oro, o dobloni, pari ognuno, come sappiamo, a 16 reali d’argento. Poiché il pezzo da otto equivaleva a uno scudo d’oro romano, lo scudo spagnolo da due pezzi da otto equivaleva a due scudi romani, perciò i 60.000 scudi spagnoli d’Alberoni sarebbero equivalsi a 120.000 scudi romani. 165 97


mala qualità de’ frutti alle volta porta una metà. In altre parole è alla pura volontà de’Vescovi il pagare le pensioni. Questo picciolo racconto è per darvi una picciola idea dello stato de’miei affari tanto invidiati.”CCXXV Per fortuna tre mesi dopo, nel settembre del 1716, il reggente Filippo d’Orléans gli rese la pensione francese, facendogli versare, come lui stesso ammise, un generoso aumento. Attenzione però: Alberoni coi Parmensi pianse sicuramente assai più miseria di quanta ne avesse. Quando nel settembre del 1716 comunicò a Rocca d’aver riavuto dal Reggente la pensione, lo fece evidentemente aspettandosi che a Parma avessero già, o avrebbero di lì a poco, appreso la notizia dall’ambasciatore a Parigi, perciò ammise tutto prima di sentirselo chiedere, sottolineando però di voler riservare la pensione “per due nipotine100 che tengo, che è l’unica cosa alla quale penso, le quali collocate, vi assicuro che non mi dà fastidio alcuno che cada il mondo.”CCXXVI Considerando che la pensione nel 1708 era salita a 6.000 lire tornesi all’anno, ammettendo che ne avesse percepite anche solo le ultime quattro annualità, si trattava pur sempre della non piccola somma di oltre 25.000 lire francesi. Poiché la lira francese, o lira tornese, colloquialmente detta franco, equivaleva a 1/12 d’un luigi d’oro, o “pistola”, 25.000 lire francesi equivalevano ad oltre 2.000 luigi, esattamente a 2.083, pari a circa 4.166 scudi romani. Anche a voler mettere tutto insieme, siamo ancora ben lontani dall’equivalente di 120.000 scudi romani, o anche solo di 85.000; dunque, quei soldi, 85.000 o 120.000 che fossero, li aveva o no? Si. La chiave è in una lettera d’Alberoni del 1728 al canonico Bertamini, importante per quanto afferma e per quanto permette di capire. Pubblicata dal padre Rossi nel 1978, vale la pena di riportarla quasi del tutto. Dice: “In vigore del presente scritto firmato di Nostra propria Mano, che vogliamo che vaglia, et habbia tutte le solennità e forza, come se fosse fatto per mano di pubblico Notaio,101 e che fosse un Istromento con tutte le sue clausole: Dichiariamo che le Pezze ventiquattromila di lire 5 moneta in Banco di Genova, rimesse per conto nostro da Signori Roberti, Bascio, Piti e Compagni di Madrid nel mese di Marzo 1720: al Sig. Gio: Batta Cambiaso di Genova, a disposizione del Sig Giuseppe Bertamini da Fiorenzuola in Lombardia, e che sono state girate da detto Bertamini nel Sig. Cav.e Fra Gio: Andrea de Mari, senza che ne sia stata ritratta dal medesimo alcuna ricevuta, e ciò anche in vigore di un ordine ne teneva da detti Signori Piti essendo noi stati riconosciuti a dovere, et a suo tempo Così d’altre rimesse state fatte da nominati Signori Piti di Madrid al Sig. Geremia Firidolfi di Firenze, pure a disposizione del detto Sig. Bertamini nello stesso mese di Marzo 1720: in Ducati ventimila pagabili in Banco di Venezia, che detto Sig. Bertamini fece rimettere al Sig. Aurelio Resonico di Venezia a sua disposizione, e di Pezze quaranta milla da L. 5 moneta di Genova102 in Banco, in due Partite, che ordinò il detto Bertamini di far passare la metà al Sig. Nicolò Cattaneo Pinello, e l’altra metà al Sig. Giacomo Bettoni, ambi in Genova, da detti Signori Firidolfi, pure a disposizione del detto Bertamini, ma con la mancanza di Pezze cento venti, soldi 15, denari 8, e di doppie mille, e cinquecento da Giulj trentadue per Roma, e Ducati quattro milla e cinquecento da L. 7 moneta di Firenze. Di tutte le accennate Partite dichiariamo e confessiamo, che detto Sig. Bertamini ne ha disposto conforme li nostri ordini, e nostro volere, e d’esser stati riconosciuti da chi s’aspettava; e liberiamo et assolviamo detto 100

Le due nipotine erano le due Faroldi: Orsola, cioè la francescana suor Maria Giulia, e Maria Gertrude. Va notato che in alcune sue lettere al conte Rocca Alberoni menzionò più volte un suo “fratello”, riferendosi però ad uno dei suoi tre fratellastri, figli di primo letto del secondo marito di sua madre, la quale, all’età di 48 anni, nel 1691, si era risposata col sessantatreenne Luigi Faccini. 101 E del resto Alberoni era da quarant’anni protonotario apostolico extra urbem. 102 La moneta d’oro da cinque lire genovesi valeva esattamente uno scudo romano, cioè un pezzo da otto spagnolo. 166


Bertamini da qualsivoglia altro rendimento di conti, sapendo di certo, che di tutte le suddette somme e Partite, non gl’è restato in mano, ne pure un denaro.” CCXXVII Adesso si può cominciare a ricostruire tutto il movimento. Sarà un po’ complicato e occorrerà procedere spesso per deduzione, ma vale la pena di provare. In primo luogo abbiamo le famose 24.000 pezze da otto, “le Pezze ventiquattromila…, rimesse per conto nostro da Signori Roberti, Bascio, Piti e Compagni di Madrid nel mese di Marzo 1720: al Sig. Gio: Batta Cambiaso di Genova” la cui lettera di cambio che, se stiamo agli “Avvisi italiani”, Alberoni stracciò sotto il naso degli ufficiali che lo perquisivano in Spagna, riappare qui in tutta la sua interezza: come mai? La risposta è nella tecnica bancaria dell’epoca. Specie per una cifra così elevata, le banche non usavano rilasciare una lettera di cambio e basta. Si cautelavano dando avviso separato alla banca destinataria, per evitare i rischi legati alla presentazione di lettere false. Questo valeva pure nel caso di smarrimenti o furti: il ladro non poteva presentarsi ad esigere l’importo d’una lettera di cambio da lui rubata e, se chi si presentava non era la persona attesa, la banca non pagava nulla a meno che non avesse avuto notizia della vendita di quella lettera di cambio e che chi si presentava ne fosse l’acquirente legale. Di conseguenza Alberoni poteva aver stracciato la sua lettera di cambio senza perdere un soldino e doveva solo presentarsi a Genova per incassare, possibilmente accompagnato da testimoni conosciuti dalla banca che avallassero la sua identità ed il suo racconto; e infatti lui stesso lo disse di passaggio, scrivendo: “essendo noi stati riconosciuti a dovere, et a suo tempo”, evidentemente dalla Banca Cambiaso una volta giunto a Genova. Va poi notato il momento della rimessa, fatta: “per conto nostro da Signori Roberti, Bascio, Piti e Compagni di Madrid nel mese di Marzo 1720: al Sig. Gio: Batta Cambiaso di Genova, a disposizione del Sig Giuseppe Bertamini.” In altre parole i soldi furono effettivamente mossi solo dopo l’arrivo d’Alberoni a Genova e dunque dopo essersi presentato in banca, ma – attenzione – non da lui, bensì da Bertamini, il quale agiva con una procura. Perché lo dico? Perché lo dice Alberoni, quando scrive che le somme erano: “a disposizione del Sig Giuseppe Bertamini da Fiorenzuola in Lombardia”, cioè che Bertamini poteva muoverle, ma non ne era il proprietario e nemmeno il depositario. E che ne fece Bertamini? Eseguendo la volontà d’Alberoni, le girò “nel Sig. Cav.e Fra Gio: Andrea de Mari, senza che ne sia stata ritratta dal medesimo alcuna ricevuta, e ciò anche in vigore di un ordine ne teneva da detti Signori Piti essendo noi stati riconosciuti a dovere, et a suo tempo.” Cioè a dire? Mettiamola in Italiano corrente: Alberoni arriva a Genova, si fa riconoscere nella Banca Cambiaso, la quale è stata avvertita da Baccio, Piti & Compagni sia del suo arrivo, sia del fatto che Bertamini avrebbe agito come suo procuratore e d’eseguirne le disposizioni qualsiasi cosa dicesse; e cosa fa Bertamini? Eseguendo gli ordini d’Alberoni sposta immediatamente tutti i soldi alla banca indicatagli da Giovanni Andrea de Mari senza alcuna ricevuta – “senza che ne sia stata ritratta dal medesimo alcuna ricevuta” – cioè fa sparire il denaro senza lasciarne traccia, mantenendo però la procura e garantendo così la proprietà d’Alberoni sui 24.000 pezzi da otto, ora convertiti in 120.000 lire di Genova. Andiamo avanti. Lo stesso sistema viene applicato per un’altra rimessa, sempre da Baccio, Piti & Compagni, stavolta su Firenze: destinataria la Banca Firidolfi e, di nuovo, nello stesso mese di marzo del 1720, i fondi sono “a disposizione del detto Sig. Bertamini”, il quale li trasferisce, però a Venezia al Banco Rezzonico, dove si tramutano in 20.000 ducati veneziani, anch’essi a disposizione di Bertamini. Non si dice se siano ducati correnti o ducati effettivi, ma, poiché gli effettivi erano quelli adoperati per le transazioni interbancarie e commerciali all’ingrosso e valevano circa un quarto più dei correnti, il che li rendeva sostanzialmente pari al pezzo da otto, è probabile che i 20.000 ducati corrispondessero ad altrettanti pezzi da otto spagnoli in arrivo da Madrid, col che saremmo a 44.000 pezzi da otto. Ce n’è ancora: altri 40.000 pezzi da otto, con due rimesse diverse, ancora da Baccio, Piti & Compagni su Firidolfi di Firenze, che Bertamini, sempre come procuratore d’Alberoni, ordina di 167


spostare a Genova, convertendoli in monete da 5 lire genovesi, “la metà al Sig. Nicolò Cattaneo Pinello, e l’altra metà al Sig. Giacomo Bettoni” e siamo a 84.000 pezzi da otto, trattenendo a Firenze “Pezze cento venti, soldi 15, denari 8, e doppie mille, e cinquecento da Giulj trentadue per Roma, e Ducati quattro milla e cinquecento da L. 7 moneta di Firenze.”, pari ad altri 12.000 pezzi da otto circa, per cui saremmo a 96.000 pezzi da otto, pari ad altrettanti scudi romani. A questo punto avremmo sia i 60.000 scudi romani prestati ai marchesi Monti nel 1721, sia un consistente avanzo di 36.000 scudi romani. Ne mancano ancora oltre 26.000, esattamente 26.498, per raggiungere la somma di quei 62.498 scudi comprensivi di “contanti restituiti e di sconti di spese fatte e fatte fare” per conto d’Alberoni, compreso il ricavato delle gioie ed argenterie vendute a Genova. Lasciamoli da parte per un momento e chiudiamo il cerchio sui primi. Da una lettera del marchese Monti a Bertamini datata 29 luglio 1720, abbiamo la certezza che tutti i depositi per cui il canonico aveva la procura passarono al marchese Antonio Monti – e solo a lui, perché non fa cenno dei fratelli – divenendo così i 60.000 scudi romani prestatigli con “istrumento pubblico” nell’estate del 1721. Il Marchese li elencò tutti, rimessa dopo rimessa, premettendo una liberatoria per rassicurare Bertamini: “Ora conviene che lei si contenti di far la girata di tali somme sopra di me. Le accludo la coppia della lettera che lei scrive all’Amico, acciò veda che io sono inteso di tutto. Per quello riguarda dunque la partita da 24 mila pezze e l’altra partita di 40 mila pezze suppongo che tutte sieno in S Giorgio, e lei avrà presso di sé li viglietti di cartolaro, oppure li terrà in Genova. se lei li tiene appresso di sé, giunta che sarà a casa sua, potrà inviarmeli per qualche persona sicura; o pure, se sono a Genova, potrà inviarmi l’ordine a ciò che questi sieno posti in mano del Sig.r Franc. Maria Grimaldo Senatore, o pure a disposizione di chi vorrà esso Sig.r Senatore. Per li 20 mila ducati di Banco che sono in Casa Rezzonico a Venezia, si contenterà scrivere e inviare a me la lettera d’avviso, oppure inviarlo per via di Cremona a Venezzia acciò si contentino di dar credito di tale somma a Sig.ri Lorenzini e Sans Banchieri in Bologna, senza nominare la mia persona. Quest’ordine pure potrà inviarlo a me oltre la lettera d’avviso che anderà per la posta. Per le due altre partite che sono state rimesse in Firenze di Ducatoni 4500, e doble 1500 da paoli 32 l’una, pagabili in Roma potrà scrivere a quelli Banchieri, che credo saranno li Sig.ri Geremia Firidolfi (inviando a me la lettera d’avviso che farò recapitare sicura in mano) di tenere queste due somme a mia disposizione ecc.”CCXXVIII Come si vede, le tratte poi menzionate nella lettera del 1728 ci sono tutte e in questa c’è una notizia in più. Poiché il processo poteva durare a lungo, Monti dei Quaranta rassicurava Bertamini come aveva fatto col marchese Grimaldi che avrebbe avuto cura del denaro d’Alberoni “avendo qui modo nella creazione che si fa dalla Città d’un nuovo Monte di investire sicuro il denaro a 3 e mezzo per cento.”CCXXIX E il resto da dove saltò fuori? Qui i conti divengono impossibili. L’interesse del 3% sui fondi investiti avrebbe reso circa 3.000 scudi romani all’anno, di cui 100 al mese, cioè 1.200 all’anno, se ne andavano in spese legali, perciò ad Alberoni ne sarebbero rimasti 1.800 i quali, nell’arco degli otto anni di deposito, gli avrebbero dato oltre 14.000 scudi romani. Sottraendoli dai 26.498 mancanti a raggiungere quei 62.498 scudi di cui ho parlato prima, comprensivi di “contanti restituiti e di sconti di spese fatte e fatte fare” per conto del Cardinale, compreso il ricavato delle gioie ed argenterie vendute a Genova, ne mancherebbero all’appello ancora più di 12.000, di cui non sappiamo l’origine e che potrebbero essere stati, ma non è detto che fossero, il frutto della vendita di argenti e gioie. Da dove potrebbero essere venuti? 168


Sappiamo che Alberoni aveva ancora dei crediti in Spagna, uno dei quali di 8.000 doppie, pari a 16.000 scudi romani, col signor Pucchi. Da un chirografo del Cardinale al marchese Monti del 20 giugno 1720, in piena latitanza, sappiamo pure che Monti stava esigendo il saldo da svariati debitori di Alberoni, ma non si sa, né si può capire a quanto ammontasse la cifra complessiva, se i debitori fossero in Spagna, o anche in Italia e quanto di quel denaro il marchese fosse riuscito a recuperare. Da un’altra lettera del 20 dicembre 1721, sempre al marchese Monti, si deduce che parecchi dei crediti d’Alberoni in Spagna fossero assai difficili da esigere, però una parte, grazie allo stesso marchese, stava lentamente venendogli pagata e giungeva in Italia con delle transazioni complicate e lunghe. Cosa era rimasto là? Ce ne si può fare un’idea dal memoriale del Cardinale spedito nel 1726 a Filippo V per tentare d’avere la pensione promessagli sulle rendite diocesane di Malaga. In primo luogo, siccome l’erario spagnolo allora non era stato in grado di farlo, nell’autunno del 1719 Alberoni aveva anticipato di tasca sua a Francesco Farnese l’enorme cifra di 100.000 pezzi da otto, chiesti da Parma per rinforzare le fortezze in caso d’invasione imperiale. Poi c’erano 60.000 scudi – ed ecco perché in precedenza ho scritto che aveva dei risparmi, ma piangeva miseria – una parte dei quali aveva depositato nella banca del napoletano Melchiorre Seminati all’arrivo a Madrid dopo la morte di Vendôme; però gli eredi Seminati avevano risposto di non potergli rendere nulla perché quei soldi erano stati sequestrati dal Re. Stando alla polemicissima risposta del marchese Granelli a uno scritto filoalberoniano comparso nel 1721 – risposta riportata da Bersani – dopo la partenza del Cardinale da Madrid si sarebbero trovate 50.000 doppie, cioè 100.000 pezzi da otto equivalenti ad altrettanti scudi romani, depositati a suo nome “sui banchi Piti e Seminati”, il che coincide almeno con quanto poi lui scrisse al Re nel memoriale del 1726, affermando appunto d’aver lasciato 60.000 scudi nella banca Seminati.CCXXX C’era dell’altro. All’ottenimento del cappello, Filippo gli aveva offerto tramite il padre Daubenton 100.000 scudi all’anno; lui li aveva rifiutati per non aggravare l’erario e non dare cattivi esempi, specie in un periodo in cui si sopprimevano pensioni a tutto spiano, perciò il Re gli aveva donato la macchia di Trujillo, del valore di 25.000 scudi,103 la quale però gli era poi stata usurpata, benché, in quanto donazione regia, non fosse sequestrabile. Infine il cardinale Acquaviva nel 1719, agendo in nome della Spagna, gli aveva confiscato 2.350 scudi romani e mezzo, depositati in una banca di Roma per pagare la spedizione delle bolle pontificie della sua nomina a Siviglia. Tirando le somme, tra prestito parmense, proprietà del Trujillo e il resto e si tratterebbe di circa 90.000 pistole, per cui, stiracchiandole un po’, queste potrebbero essere le 100.000 che la voce pubblica romana asseriva che gli avessero levato in Spagna quando lasciò Madrid. Riguardo ai soldi d’Alberoni ci sarebbero quindi due possibilità per spiegare da dove fossero scaturiti quelli prestati ai marchesi Monti nell’estate del ‘21. La prima e la più plausibile è che fossero le rimesse del marzo 1720 dalla Spagna di cui Bertamini aveva avuto la procura; la seconda che in realtà il prestito fosse l’accorgimento per proteggere non, o non solo, i fondi già depositati nelle varie banche di Venezia, Genova e Firenze e protetti dalla procura a Bertamini, ma i crediti del Cardinale via via riscossi dai Monti. Poiché però il Marchese e i suoi fratelli in caso d’emergenza non avrebbero potuto spiegare la detenzione e l’origine di quel denaro così da evitarne un’eventuale confisca, occorreva farlo apparire un prestito legale, il quale, come ho detto in precedenza, li rendeva proprietari pro-tempore ed impediva un sequestro. Se così fosse, Alberoni avrebbe avuto l’equivalente di 96.000 scudi romani in cinque banche sparse tra Firenze, Genova e Venezia a disposizione di Bertamini e poco meno d’altri 123.000 – tanti sarebbero stati al momento della restituzione del prestito nel 1722 – in mano ai Monti. In questo caso il totale sarebbe di 219.000 scudi romani, i quali, guarda caso, corrispondevano a poco meno di 110.000 pistole francesi, cioè in pratica alla cifra con cui la voce pubblica già nel 1720 sosteneva 103 Trattandosi pure qui di scudi spagnoli, equivalevano a 50.000 scudi romani, ma il marchese Granelli – da prendere evidentemente con ampio beneficio d’inventario e ammesso che davvero fossero quelli il nome e il titolo dell’autore – nella sua polemica risposta esagerava il valore della macchia del Trujillo a 80.000 ducati. 169


che lui avesse lasciato la Spagna. Allora niente vieterebbe che le voci raccolte a Roma da Montesquieu nel ’29 fossero vere. Da dove veniva questo denaro? L’aveva avuto in cambio di favori? Non parrebbe: non ci fu alcuna seria accusa di corruzione contro di lui, né di malversazione, ma va a sapere. L’aveva pagato Filippo V? Certamente, un po’ si, ma sappiamo che parecchio del denaro così avuto lo usava per le spese di rappresentanza dell’ambasciata parmense. Aveva dunque solo di che vivere? E allora come si pagò il viaggio dalla Spagna all’Italia? Certo: fu aggredito e spogliato di tutto dai micheletti fra Barcellona e Girona, o almeno questo si disse, ma era vero? Non direi proprio, perché, come abbiamo visto, il colonnello de Marcieu riferì che Alberoni era arrivato con dei muli che portavano dei cofani d’argenterie e circa 8.000 doppie, di cui solo 1.500 in contanti. Tutta lì, si stupiva de Marcieu, la sostanza d’un uomo che aveva retto la Spagna per anni? Ebbene, intanto quei muli dimostravano che i micheletti non avevano spogliato Alberoni di tutto. In secondo luogo, come abbiamo visto, ce n’era dell’altro, molto altro. Una parte dei suoi soldi venivano dai 4.000 pezzi da otto annui di rendita dell’arcivescovato di Toledo, assegnategli all’atto della sua naturalizzazione nel 1711, ma, a parte il fatto che il periodo in cui gli furono assegnate coprì nove anni, pari a 36.000 pezzi da otto (o 18.000 scudi d’oro spagnoli) i quali non corrispondevano nemmeno loro a 120.000 o 200.000 scudi romani, una cifra così alta come quella anche solo di 96.000 scudi romani si spiegherebbe solo colle rendite delle arcidiocesi di Siviglia e di Toledo, però al processo provò che quelle rendite non le aveva neppure viste; e allora?104 Ricordiamoci che Filippo V gli aveva dato la carica d’amministratore dell’arcidiocesi di Tarragona, di cui lui stesso scrisse di poterne ricavare fino a 70.000 pezze da otto.CCXXXI Ora, nel primo manifesto pubblicato a Genova per difendersi, Alberoni negò esplicitamente d’aver preso denaro sulle rendite dell’arcidiocesi di Siviglia, ma non fece la stessa affermazione per quelle di Tarragona, sottolineando, invece, come fossero state dovute ad un motu proprio del Re. Poiché una non negazione è un’affermazione, per quanto indiretta, verrebbe da pensare che proprio quelle circa 70.000 pezze da otto siano state la base dei suoi risparmi e, non dimentichiamolo, poiché il pezzo da otto era pari a mezzo luigi o a uno scudo romano, 70.000 pezzi da otto equivalevano a 35.000 luigi d’oro o a 70.000 scudi romani.105 E’ quella la fonte iniziale? Probabilmente si e potrebbe essere stata l’origine di somme maggiori. Perché lo dico? Me lo suggeriscono i numerosi quanto ignoti debitori di Alberoni. A quell’epoca chi aveva contanti se ne sentiva spesso domandare in prestito ed era normale concederlo, dietro impegno di farselo rendere insieme ad un certo interesse. E’ un’ipotesi, beninteso, però, se così fosse, le rendite di Tarragona potrebbero avergli consentito di fare dei prestiti – sicuramente a tassi convenienti per lui pur se abbastanza modesti da evitare l’accusa d’usuraio – e d’aumentare il capitale iniziale. Questa dei prestiti fra privati era non solo un’abitudine diffusa all’epoca, ma qualcosa che Alberoni fece regolarmente dopo il rientro in Italia, perciò nulla vieta e, anzi, tutto fa pensare che l’avesse già praticata prima.106 104

Nella stessa lettera citata nella nota precedente, si lamentava di non poterne ricevere un soldo, perché l’arcivescovo di Toledo pretendeva di fargli accettare una diminuzione del 30% e lui non voleva. 105 Vale la pena di ripetere quanto già detto nella nota 68: un pezzo da otto pesava 550,209 grani spagnoli, pari a 27,468 grammi d’argento, purezza al 930,55‰, per cui conteneva 25,560 grammi d’argento puro. Poiché il cambio all’epoca era a peso, un pezzo da otto equivaleva a mezzo luigi d’oro francese, e dunque pressappoco a uno scudo rmano d’oro. 106 Il padre Rossi nel suo saggio Le ricchezze del Cardinale Alberoni, in Cento Studi, cit., vol. IV, pag. 40 riportò quelli da lui indicati con la terminologia settecentesca di “censi attivi” cioè prestiti di capitale a privati dietro interesse, tutti, meno il primo, in lire che, dall’equivalenza fra l’ammontare del primo in scudi romani e il suo equivalente in lire non identificate, si comprende essere state lire di Piacenza. Ammesso che i prestiti indicati siano tutti quelli fatti dopo il processo, furono: il primo nel 1727 per 1.533 scudi, pari a 26.827 lire piacentine, ai Beneficiati di San Lorenzo in Damaso all’interesse del 3%; il secondo nel 1737 e il terzo nel 1743 ai Canonici Regolari Lateranensi di Sant’Agostino in Piacenza, rispettivamente per 256.100 e 560.000 lire, entrambi al 2,5%. Sempre nel 1743 e di nuovo fino al 1744, cioè durante la Guerra di Successione Austriaca, il Cardinale concesse cinque prestiti ai Benedettini di San Sisto per un totale di 365.000 lire piacentine tutti al 3%, due dei quali rimborsati prima del 1755 lasciandone altri tre in essere, per complessive 105.000 lire al 3% e garantiti sulla tenuta della Casarossa. Nel 1744 ne fece uno all’abbazia di San 170


Presumibilmente riuscì a portar via dalla Spagna tutto il contante disponibile in quel momento. Se non ne avesse avuto, difficilmente Baccio, Piti & Compagni avrebbero potuto rilasciargli delle lettere di cambio; al massimo avrebbero potuto accettare di comperare qualche suo credito, certo non l’intera somma così all’improvviso, altrimenti sarebbero andati in crisi di liquidità e per di più a pochi giorni dalla chiusura del mese e, soprattutto, dell’anno finanziario. Poteva però esserci già del denaro d’Alberoni a Genova. Sappiamo dalla sua lettera al conte Rocca del 3 gennaio 1718 che il Cardinale stava per ricevere una cifra che contava d’impiegare nell’acquisto d’una proprietà immobiliare nel Piacentino, completando la somma da versare con ciò che definì “quel poco che ho”. Logica vuole che, dovendo versare del denaro in Italia, la prima cosa da fare era portarcelo e l’unico sistema fosse mediante una rimessa fra banche. Ora, dalla corrispondenza con Rocca emergono due fatti: il primo è che le transazioni verso Parma e Piacenza avvenivano con rimesse e lettere di cambio su Genova e molto raramente su Livorno, il secondo è che la banca cui s’affidava regolarmente Alberoni era Baccio, Piti & Compagni. Passiamo alle ipotesi: la prima è che dopo il gennaio del 1718 Alberoni abbia trasferito, probabilmente mediante Baccio Piti & Compagni, una parte del suo denaro a Genova ed è plausibile che ce l’abbia lasciato, in un primo tempo perché in attesa dell’investimento più adatto; poi, certamente intorno al giugno del 1718, perché aveva capito che mala parata gli si stava presentando. Perché penso che quel denaro – se era stato avviato a Genova – fosse ancora là nel 1720? Perché Alberoni nel gennaio del ’18 aveva chiesto a Rocca di fargli da intermediario per un eventuale acquisto immobiliare nel Ducato, per cui, non parlandone più in alcuna lettera seguente, è pressoché certo che non avesse comperato nulla ed è possibile, probabile, che quel denaro non fosse rimasto in Spagna. Trasferito a Genova su…? Cambiaso? O magari non tutto su Cambiaso, ma pure sulla ditta Bielato, con cui sicuramente Alberoni aveva conservato ottimi rapporti? Questo spiegherebbe come mai l’abate Bielato si fosse presentato in arcidiocesi a prendergli i documenti conclaviali. Ad ogni modo le banche di cui il Cardinale si era servito in precedenza non erano solo quelle. In origine si era valso della Cambi & Spinelli a Madrid, per ricevere nell’estate del 1714 dei soldi da Parma, adoperando pure, a partire dal luglio del 1715, la ditta fiorentina Firidolfi & Galerti.107 E, al di là dei vari movimenti effettuati da Bertamini, quale altro motivo ho per pensare che parecchio del suo denaro fosse a Genova? In primo luogo perché spostarlo a Piacenza significava metterlo in mano al duca di Parma, che l’avrebbe potuto sequestrare in ogni istante, come in effetti pensò di fare durante la latitanza del Cardinale, abbandonando l’idea perché non sapeva bene dove fosse depositato; in secondo luogo perché da una piazza finanziaria importante come Genova il denaro poteva essere mosso con facilità, trovando le lettere di cambio sulle destinazioni più disparate, mentre da Piacenza, o peggio da Fiorenzuola, dove alloggiava Bertamini, non sarebbe mai stato possibile. Infine c’è un altro elemento, indiretto, a favore dell’idea che il grosso del denaro fosse a Genova: i documenti per invitare Alberoni al conclave gli furono spediti là, ma, se lui non c’era – e questo lo sapevano tutti, benché nessuno sapesse dov’era – quale motivo poteva esserci per spedirgli i documenti? Uno solo: che i suoi interessi gravitavano comunque su Genova e l’unico elemento che lo dimostrasse erano i suoi soldi.

Giovanni Evangelista di Parma e un secondo nel 1749 alla Certosa di Parma, per un totale di 308.333 lire piacentine al 3%. Il primo fu rimborsato prima del 1755; rimase l’altro, per 160.000 lire di Parma, che, al cambio di circa 1,20 lire di Parma per 1 di Piacenza dava 133.333,6,8 lire piacentine ed era garantito su terre a San Lazzaro di Parma. 107 Già nel 1714 e fino al luglio del 1715 Alberoni si era valso della casa commerciale Cantucci, su cui nell’estate del ’14 aveva tratto una lettera di cambio da Parma per 147,2/3 doppie e poi un’altra per 250, di cui però gli avevano versato solo la metà. Lo stesso era successo nell’inverno 1714-15 e si era sentito chiedere di pazientare otto giorni per avere il denaro. A luglio del ’15, seccato dalle eccessive spese di commissione e viste inutili le minacce di non servirsene più, Alberoni era passato a Firidolfi & Galerti. 171


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Capitolo XXIII Il processo Secondo le cronache del tempo, Alberoni non soggiaceva ad un processo, ma a tre: uno a Piacenza, uno a Roma ed uno in Spagna. Il primo e l’ultimo erano in realtà delle inchieste e servivano a corroborare il secondo con le prove raccolte: bé, non ne trovarono, o almeno non di ritenute abbastanza consistenti da dover far condannare il Cardinale. Di quello di Piacenza mi sbrigo subito dicendo che non servì a nulla: un’istruttoria farraginosa, scombinata fra tribunale diocesano, presieduto da monsignor Barni, e tribunale civile s’arrabattò per cercare prove là dove non ce n’erano, interrogando, segregando a scopo intimidatorio per farli parlare e ricattando Camilla Bergamaschi, il figlio e quanti potevano sapere qualcosa. Ne risultò un insieme di nullità così deprimente da far giungere da Roma a monsignor Barni l’ordine di rilasciare tutti e al Duca un messaggio, implicito quanto chiaro, di smetterla di cercare di costruire altre prove, perché non riusciva a rendere credibili nemmeno quelle false già presentate. Il processo spagnolo fu una faccenda assai più complessa, per la quantità delle imputazioni, dei testimoni sentiti, delle deposizioni raccolte e delle attese da parte dei nemici d’Alberoni, però qualcosa andò storto e probabilmente grazie alle famose lettere conservate dal Cardinale. L’origine della vicenda giudiziaria risaliva al lungo memoriale inviato da Filippo V a fine inverno del 1720, letto il quale Clemente XI aveva deciso di spedire Alberoni sotto processo, incaricandone, col breve del 5 aprile 1720, l’arcivescovo di Toledo e Inquisitore Generale di Spagna, monsignor Francisco Valero y Losa, propostogli dal Re. Il breve pontificio ordinava a monsignor Valero d’indagare a fondo su tutti i reati commessi da Alberoni, di scoprire se ce ne fossero altri e di prendere esatta cognizione pure di quelli. Già così e senza considerare la latitanza del Cardinale, l’impresa era sembrata destinata ad andare per le lunghe, ma aveva ritardato ulteriormente quando monsignor Valero era morto il 23 aprile del 1720. Il Papa aveva deciso di rimpiazzarlo col vescovo di Barcellona, monsignor Diego de Astorga y Céspedes, che però avrebbe ricevuto il breve di nomina il 17 luglio del 1720 e solo da quel momento si sarebbe potuto cominciare a far qualcosa in Spagna. Nel frattempo, il 23 maggio 1720, Clemente XI aveva chiamato monsignor Camillo Cybo, patriarca di Costantinopoli, laureato in utroque e, fra gli altri incarichi, Uditore generale della Camera Apostolica, nominandolo commissario per “la fabbrica del processo”, definitivamente affidato a una commissione composta dai sette cardinali Fulco Astalli, Francesco Barberini, Lorenzo Casoni, Lorenzo Corsini, Giuseppe Renato Imperiali, Bernardino Scotti e Giovanni Battista Tolomei. A monsignor Cybo il Papa aveva fatto consegnare una cassetta con sei mazzi di documenti, costituenti una parte delle prove inviategli dalla Spagna dal confessore del Re, il padre Daubenton. Il primo e il terzo mazzo non servivano a nulla perché non contenevano niente di rilevante. Il secondo era il lungo elenco di trentuno accuse mosse ad Alberoni per fatti commessi contro il re di Spagna, la Corte di Roma e contro i buoni costumi, alle quali il Cardinale aveva già risposto coi suoi manifesti usciti a Genova in marzo ed aprile; il quarto constava di dieci documenti relativi alla spedizione in Levante, il quinto includeva le carte riguardanti gli ostacoli frapposti da Alberoni all’esecuzione e pubblicazione del breve sospensivo della Bolla della Crociata e di altre grazie concesse da Roma a Filippo V; il sesto mazzo conteneva due esemplari originali – uno giunto via posta, l’altro per mezzo del cardinale Acquaviva – della lettera del 18 luglio 1718 al cardinale Albani con cui Alberoni minacciava il Papa. Cybo aveva cominciato l’esame: i primi tre mazzi non servivano a nulla perché non fornivano alcuna prova. Aveva pensato di trovarne nei successivi tre: altro buco nell’acqua. Li aveva riesaminati e s’era convinto d’essere davanti ad una montatura: se quelle erano le basi su cui 173


costruire il processo, lo si poteva considerare già chiuso coll’assoluzione dell’imputato per totale mancanza di prove. Si poteva accantonare tutto? No, specie perché venivano dal confessore del Re, dunque in sostanza dallo stesso Re. Che fare? Cybo aveva deciso di convocare i cardinali il meno possibile per non dare adito a voci e non creare aspettative nel pubblico, però una prima seduta era necessaria. La si era tenuta il 28 maggio 1720 ed era stata quasi una formalità. Ci si era limitati ad eleggere il notaio nella persona di Paolo Fazi, poi, data lettura della missiva con cui il duca di Parma chiedeva di sostituire il defunto arcivescovo Valero y Losa, era stata approvata la decisione papale d’affidare l’incarico a monsignor de Astorga y Céspedes, si era deciso di non dare alcun peso ai documenti della cassetta e d’aggiornare i lavori finché non fossero giunte le carte degli interrogatori dei testimoni da Piacenza e dalla Spagna. Le prime, quelle di Piacenza, erano arrivate alcuni giorni dopo. La commissione si era riunita il 7 giugno per esaminarle, le aveva trovati inutili, aveva preso visione della lettera aperta mandata da Alberoni al cardinal Paolucci il 1° maggio ed accettato l’idea del nunzio a Vienna, Alessandro Albani, di domandare all’Imperatore se avesse documenti comprovanti le relazioni fra Alberoni e i Turchi. A Vienna non c’era nulla, perciò si era dovuto attendere il completamento degli interrogatori in Spagna. Col pretesto di consegnare la berretta cardinalizia a monsignor Belluga, era stato mandato a Madrid monsignor de Pretis, il quale doveva in realtà seguire da vicino l’andamento dell’inchiesta spagnola e vigilare che non subisse interferenze. Ovviamente il marchese Scotti si era messo in mezzo ed aveva avvertito Parma dell’opportunità di premere sul Re perché chiedesse il richiamo di De Pretis a Roma. Non avvenne subito, perché la commissione cardinalizia voleva a tutti i costi la sua permanenza là, proprio per sorvegliare l’inchiesta, però alla fine era rientrato a Roma il 31 maggio 1721, subito dopo l’elezione del nuovo Papa, portando, si disse, “un Processo ivi formato d’ordine della Santa Memoria di Clemente XI sopra l’Emin. Alberoni.”CCXXXII Monsignor de Astorga y Céspedes aveva proceduto lentamente, ma, a dispetto delle pressioni della Corte e dei tentativi d’interferenza, senza tralasciare nulla ed avendo cura d’andare abbastanza a fondo nelle deposizioni. Sentiti tutti i personaggi della Corte e dell’amministrazione civile e militare, era passato ai vescovi e a chiunque avesse desiderato parlare, raccogliendo una quantità di deposizioni impressionante, che però a De Pretis non faceva nessuna impressione perché, come aveva scritto al cardinal Paolucci già il 5 agosto 1720, erano tutte de auditu, per sentito dire, perciò di poco o nessun valore. Tanto ne sapeva De Pretis e altrettanto ne sapeva Scotti, il quale però, man mano che si procedeva, vedeva volatilizzarsi la condanna d’Alberoni per mancanza di prove. Ma era veramente così? Davvero non ce n’erano? Qualcosa non andava. De Pretis se n’era reso conto e il 9 dicembre aveva scritto a Paolucci: “alcuni hanno detto a me chiaramente che ciò che sanno non lo vogliono dire.”CCXXXIII Dunque qualcosa c’era, però non era venuta fuori: come mai? Castagnoli ipotizzò una resipiscenza di Filippo V, forse dovuta al padre Daubenton, il quale si era dato da fare per sventare le manovre dei nemici d’Alberoni e consigliare la moderazione al Re perché “aveva dunque capito che non era onesto, o, se si vuole, non era conveniente e utile continuare in quell’accanimento contro un cardinale che poteva ancora far paura.” CCXXXIV. E’ plausibile. E’ però possibile che Filippo V avesse riflettuto, o l’avessero fatto riflettere, che ad Alberoni erano state tolti gli originali delle lettere farnesiane, ma non quelli attestanti le responsabilità di lui stesso in quanto re, le quali in parecchie testimonianze e nei manifesti alberoniani erano emerse limpidamente, come vedremo fra poco, per cui forse era meglio adeguarsi tacitamente a quanto tutti speravano: metterci una pietra sopra e non parlarne più. Era un grosso vantaggio per la difesa, sostenuta dall’avvocato Biagio Antonio Ferrari, pagato da Alberoni 100 scudi al mese. Era un “un dotto ed esperto Procuratore” specializzato in materia finanziaria, tanto che poi divenne amministratore generale e segretario dei Monti Camerali e infine, insieme ad altri due legali, soprintendente alla computisteria camerale.CCXXXV 174


Come mai il Cardinale si valeva d’un esperto finanziario e non d’uno specialista di cause criminali? Perché tutti gli altri avevano rifiutato di servirlo, nonostante la salatissima parcella da lui offerta. Quali le prospettive? Pessime, all’inizio; però migliorarono grazie al Conclave, come del resto aveva temuto Francesco Farnese. Riferendosi all’estate ed all’autunno del ’20, ricordava il marchese Ottieri trentacinque anni dopo: “Le rappresentazioni del Ferrari si ricevevano per dar luogo alla giustizia, ma erano reputate di poca vaglia, onde già correva pubblica voce non solo nelle piazze di Roma, ma anche nell’Anticamera comune, e segreta del Pontefice, che quando fossero arrivate le deposizioni d’alcune persone esaminate in Spagna con ordine del Re, il quale premeva per la sbrigazione del processo, e che si venisse a definitiva sentenza, l’Alberoni sarebbe stato privato in Concistoro, del posto, e dignità di Cardinale, e poi relegato in un Chiostro, per ivi finire negletto, ed oscuro il resto della vita. Quando nel principio della primavera del 1721 si teneva per certo, ch’egli avanti Pasqua sarebbe privato del Cappello, s’ammalò d’infiammazione di petto Clemente XI, e in tre giorni morì. Le cose allora mutarono faccia.”CCXXXVI Va ricordato ancora una volta quanto poco attendibile sia la storia del marchese Ottieri quando si riferisce a quanto lui non vide né udì di persona, tanto da fargli scrivere che il salvacondotto per il conclave sarebbe stato dato dal Sacro Collegio all’avvocato Ferrari, il quale l’avrebbe fatto avere ad Alberoni; qui però Ottieri riassume le voci di allora, che sentì di persona e gli si può dare fiducia: effettivamente finché non si aprì il conclave la causa d’Alberoni era considerata persa in partenza. Intanto, il 22 gennaio 1721, monsignor de Astorga y Céspedes aveva dichiarato definitivamente chiuso il processo e il 2 febbraio ne aveva consegnato l’originale a Filippo V perché lo facesse mandare a Roma. Il Re aveva aggiunto due lettere, una per il Papa e l’altra per il Segretario di Stato, fatto chiudere e sigillare tutto in una cassetta involta nella tela cerata, poi fatta spedire al governatore di Catalogna, perché da Barcellona la inviasse, scortata da un ufficiale, a Roma al cardinale Acquaviva, il quale la doveva consegnare subito al cardinal Paolucci; ma quando la cassetta era giunta il Papa era in agonia e il processo era stato fermato. Poi c’erano stati la sede vacante e il conclave. Alberoni era giunto a Roma, aveva avuto il permesso di restarci e adesso, nel settembre del 1721 la cassetta fu dissigillata; si consegnò il contenuto a monsignor Fiorelli e lui s’immerse nelle oltre 700 pagine che lo componevano. Anche questa, che sembra ordinaria amministrazione, non fu cosa facile e sempre per colpa del duca di Parma. Terrorizzato da quanto poteva venir fuori dalle carte spagnole, di cui non conosceva il contenuto, e avvertito dal marchese Scotti della pochezza delle testimonianze e dell’inconsistenza delle prove, Francesco Farnese aveva ordinato al cardinale Acquaviva di sospendere la consegna del processo e al principio dell’estate del 1721 l’aveva fatto esaminare segretamente: Scotti aveva ragione, le deposizioni in pratica assolvevano Alberoni, o quantomeno facevano cadere le accuse principali contro di lui; gli avrebbero lasciato il cappello e probabilmente restituito l’arcivescovato di Malaga; un disastro. Per questo Francesco aveva cercato d’ottenere da Filippo V delle pressioni sulla Santa Sede, ma non c’era stato nulla da fare e in autunno Acquaviva aveva consegnato la cassetta. Monsignor Fiorelli doveva stabilire se Alberoni fosse colpevole d’una serie di reati, raggruppati in tre sezioni: contro il Re di Spagna, contro la Corte di Roma, contro i buoni costumi. Come ho detto prima, contro il Re di Spagna il Cardinale era chiamato a rispondere di undici accuse; contro la Corte di Roma di sette e di altre tredici contro i buoni costumi. Benché le accuse siano state diligentemente elencate nei lavori di Arata nel 1923 e poi nel secondo volume di Castagnoli, uscito nel 1931, trattandosi di opere non facili da reperire converrà impiegare un po’ – un bel po’ – di spazio e riportarle completamente. Contro il Re di Spagna erano: 175


“1° – Ha sollecitato e costretto il Segretario di Camera e della Stampiglia di Sua Maestà, perché contraffacesse la sua reale Rubrica o contrassegno che si pone in tutti i decreti reali, a fine di segnare colla medesima quelli che egli voleva e gli conveniva sottrarre alla notizia di Sua Maestà; 2° – Ha sollecitato e obbligato il suddetto Segretario di Camera a consegnargli la stampiglia che serve per firmare tutti i dispacci di Sua Maestà con queste parole “Yo el Rey” come effettivamente gliela consegnò ed egli la tenne in suo potere più di due anni e si crede che si sia servito della medesima stampiglia per tutto quanto avrà voluto occultare alla notizia e cognizione di Sua Maestà. Sei giorni prima che il Cardinale uscisse da Madrid il Segretario la volle ricuperare, ma essendo andato a richiedergliela, non fu ammesso né volle sentire. Ricorse il Segretario ad altra persona d’autorità perché gli parlasse e se la facesse consegnare. Rispose che non sapeva dove l’avesse. Replicò il Segretario, per tre o quattro giorni, le sue istanze al Cardinale, ma senza risultato; e conoscendo che si burlava di lui, risolvette di minacciarlo che ne darebbe conto al re se non gli faceva subito restituire la detta stampiglia; e in questa maniera ottenne che gliela consegnasse. Da questo fatto, che è infallibile, s’inferiscono due cose: la prima, che il Cardinale voleva portare con sé la suddetta stampiglia con la firma del Re per servirsene a suo arbitrio e per i suoi fini particolari, dentro e fuori di Spagna; la seconda, che se il Cardinale (per aver tenuto tanto tempo in suo potere questa stampiglia) volesse o tentasse valersi di qualche dispaccio o ordine con la firma stampigliata di Sua Maestà, o con la sua reale Rubrica contraffatta, devonsi ritenere e reputare per falsi, e come tali nulli, senza darvi loro fede, né credito alcuno, molto più non avendo portato via di qua con saputa e volontà della Maestà Sua, alcun dispaccio di cui possa valersi, che sia vero e legittimamente firmato da Sua Maestà. 3° – Ha tentato di portare con sé il Codicillo che il re fece in occasione della sua grave infermità nell’anno 1717, in che concorsero varie circostanze molto gravi e di grande malizia. La prima fu quella, che col motivo di consegnare, in virtù dell’ordine avuto, alcuni pochi fogli fra i molti ch’erano in suo potere, ai Segretari, occultò e ritenne i più gravi, e fra questi il riferito Codicillo come anche il testamento che stava in sua mano. La seconda: due o tre giorni prima che partisse il Cardinale da Madrid, si ricordò ch’egli teneva il suo testamento e che non glielo consegnava, onde mandò a richiederglielo, e lo diede, ritenendo però il Codicillo. La terza: ordinò il Re di spedirgli appresso un’alleanza,108 domandandogli il Codicillo e lo negò, scrivendo addirittura a S.M. con dire che lo aveva strappato, mentre prima aveva detto che poteva assicurare S.M., in fede di sacerdote e in parola d’onore, che mai aveva tenuto in sue mani tal Codicillo. La quarta: dubitando la M.S. che con questo strumento che riteneva, il Cardinale fosse per tentare qualche novità, si risolse di ordinare ad un uffiziale delle sue truppe che lo perquisisse nel viaggio e gli levasse tutte le scritture che aveva; ed essendo così stato eseguito con rimettere a Madrid tutte le scritture, si trovò fra esse l’accennato Codicillo. 4° – Dopo partito da Madrid ha scritto una lettera al Sig. Duca Reggente di Francia, piena di malignità contro il re suo così insigne benefattore, e lo fomentò a continuare la guerra contro la Spagna offrendo di dargli i mezzi e la maniera di distruggere questa monarchia. 5° – Ha ricevuto varie gioie e pietre preziose, con pretesto che erano per la Regina, e le ha ritenute per sé senza farle vedere, né dirlo a S.M.; portandole con sé quando uscì da Madrid con altre molte galanterie di valore.

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Una staffetta. 176


6° – Ha rubato al Re grosse somme di denaro e specialmente una di 58 mila doppie ed altre che si stanno riscontrando. 7° – Fra le scritture levategli si è trovato un pienpotere ossia mandato dal re firmato da S.M. di fare tutto quanto volesse senza obbligo di darne mai conto ad alcuno; la cui facoltà carpì il Cardinale da S.M. in uno di quei giorni più critici della sua infermità, che fu il 26 ottobre 1717. Fra queste scritture si sono trovate pure alcune patenti di Capitani Generali, Tenenti Generali e Marescialli di Campo con i nomi in bianco, che doveva portar seco a suo arbitrio. 8° – Ha sempre suggerito al Re consigli violenti contro ogni genere di persone, così principi e sovrani come particolari. 9° – Non ha lasciato cosa che non facesse per accendere il fuoco della guerra in tutta l’Europa e particolarmente nella Cristianità, inviando a questo fine Uffiziali allo Czar di Moscovia, al Re di Svezia e al Principe Rakoczi. 10° – Ha parlato sempre delle Reali persone delle LL. MM. con il maggior disprezzo ed insolenza. 11° – Ha detto molte volte ad uno dei Segretari, che non era necessario di dar conto al Re di quanto egli faceva o da lui si ordinava di fare.”CCXXXVII Parecchie di queste accuse erano ridicole e pretestuose. Le uniche valide erano la prima, la seconda, la quarta e la settima, relative alla stampiglia, alla rubrica, al memoriale al Reggente ed alla plenipotenza, ma quella sul memoriale al Reggente era indimostrabile e la terza, sul codicillo, inconsistente: sarebbe bastato un atto con cui lo si annullava e legalmente tutto sarebbe finito lì. Quanto alle altre, sembravano contenere più fumo che sostanza e messe in lista solo per allungarla. La decima merita una nota: è vero che in un secolo come il diciottesimo parlare dei sovrani con poco o senza rispetto era un crimine grave, ma viene da domandarsi se quanto si imputava al Cardinale non fosse un suo sfogo naturale in reazione alle piaggerie e alle adulazioni cui era stato costretto per anni e anni; basti pensare alla costanza con cui aveva definito “eroina” Elisabetta Farnese e alle lettere inviate a Parma in cui si era dovuto dichiarare onorato, deliziato ed orgoglioso di servirla notte e giorno: alla lunga sono cose che stroncherebbero la fibra più servile; e Alberoni sapeva essere untuoso, ma servile poco. Riguardo all’undicesimo punto occorre fare attenzione. L’accusa era molto generica e per questo sospetta. Messa in quel modo, se posta in relazione alla plenipotenza e all’abuso della stampiglia, era sufficiente a far credere che tutto quanto era accaduto negli ultimi tre anni fosse stato dovuto ad iniziative del Cardinale delle quali il Re era all’oscuro. Era quindi un modo per scagionare Filippo V da molte responsabilità, se non da tutte, a cominciare da quelle riguardanti le occupazioni della Sardegna e della Sicilia e senza dimenticare le concessioni delle rendite vescovili e tutto il resto. Se dimostrata, bastava quell’unica accusa per distruggerlo. Ovviamente si sorvolava parzialmente proprio sull’aspetto di maggiore importanza: si parlava della “grave infermità nell’anno 1717” di Filippo V, tacendone gli effetti. Chi ne era al corrente sapeva benissimo come erano andate le cose. Nell’autunno del 1717 il Re era stato colto dalla peggiore crisi depressiva mai avuta. Fino alla fine di novembre si era chiuso nel più completo isolamento e a malapena Alberoni ed Elisabetta erano stati ammessi a vederlo. Se non fosse stato a capo d’un regno così importante, la crisi sarebbe stata fastidiosa ma non pericolosa. Essendo il re di Spagna e per di più in quel momento, si rischiava la catastrofe. Facciamo mente locale: la Sardegna era stata appena occupata di sorpresa. L’Imperatore era furibondo e la reazione della Santa Sede era già iniziata e pesantissima. L’atteggiamento britannico ed olandese nei confronti della Spagna diveniva via via più rigido e non si riusciva a bilanciarlo adoperando la Svezia o la Russia, perché Carlo XII si era impegnato sempre più a fondo in Norvegia e Pietro il Grande aveva altro per la testa.

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C’erano infine da tener d’occhio la situazione interna della Francia dove si stavano verificando quella poi divenuta la Congiura di Cellamare e i primi sommovimenti in Bretagna, per non parlare dell’insurrezione in Ungheria e di altre questioni minori. Alberoni doveva ottenere dal Re le decisioni, quantomeno quelle d’indirizzo politico e dare gli ordini necessari. Chi ha avuto a che fare con un depresso sa quanto possa essere passivo, perciò il Cardinale non ebbe alternativa: agire da solo o la paralisi del Regno. Fu già un miracolo ottenere da Filippo stampiglia e plenipotenza, di cui il Cardinale non risultò aver fatto un uso a fini personali o in favore di qualcuno, altrimenti gli sarebbero state mosse delle accuse molto più circostanziate fin dalla redazione di questo memoriale. Anzi, proprio dalla mancanza di accuse specifiche a questo proposito, possiamo dedurre che Alberoni seguì perfettamente la linea politica voluta dal Re. Passiamo alle sue cattive azioni contro la Corte Pontificia: “1° – Ha tenuto discorsi e conversazioni scandalose e scritto lettere molto insolenti e temerarie contro la sacra Persona di S.S. contro la Corte di Roma, contro i Cardinali e specialmente contro i nipoti della Santità Sua. 2° – Ha detto che un Cardinale lo esortava ad andare a Roma, e che vi sarebbe andato alzando per croce, davanti a sé, settantamila soldati e dragoni. 3° – Ha disposto a suo arbitrio, dispoticamente, del denaro proveniente dalla Chiesa vacante di Malaga. 4° – Ha ritenuto sei mesi la supplica fatta dal Re a S.S. per ottenere la revoca del breve sospensivo delle grazie della Crociata, mentre era volontà del Re che si spedisse subito detta supplica. 5° – Si è servito della seconda infermità del Re, nella primavera del 1718 e nel giorno preciso 1° di maggio in cui si trovava travagliato assai dalla febbre, per dire al Segretario del Dispaccio (non permettendogli d’entrare da S.M.), che la Maestà Sua aveva risoluto e comandava che si desse ordine al Card. Acquaviva di pubblicare in suo real nome a Roma, la interdizione del commercio con quella Corte; mentre non era stata intenzione di S.M. che ciò si facesse allora, ma che solamente che si dicesse in forma di minaccia, che la M.S. si sarebbe veduta obbligata a farlo, se S. Beatitudine non consentiva a quello di cui era supplicata, di maniera che quando S.M. intese, dalla risposta del Card. Acquaviva, che si era ordinato a tutti gli Spagnoli di uscire da Roma, ciò gli causò una somma novità e dispiacere, non avendo memoria di aver risoluta tal cosa né dato quest’ordine al Cardinale. 6° – Ha ingannato S.S. assicurandola varie volte, per mezzo di Mons. Aldrovandi, che la flotta del Re era destinata contro il Turco, nel tempo medesimo che sapeva tutto il contrario; e di aver così assicurato al suddetto Mons. Aldrovandi il giorno 17 giugno 1717, che fu il medesimo in cui fece e firmò la concordia stipulata; tutto con il fine di ottenere il Cappello, che immediatamente conseguì quando giunse a Roma la Concordia che aveva fatta e la parola che aveva data, che la Flotta sarebbe passata immancabilmente in Levante. 7° – Ha suggerito al Re che facesse esaminare in una Giunta di Ministri, se conveniva che in Ispagna i Metropolitani confermassero di vescovi eletti, senza che fosse necessario di rivolgersi a Roma per le Bolle; cosa che diede orrore a tutti e particolarmente al Re; come pure se conveniva di escludere per sempre il Tribunale della Nunziatura.”CCXXXVIII Pure qui su sette accuse ce n’erano tre, le prime tre, vagamente rilevanti, mentre le seguenti due potevano essere pericolose e le ultime due sembravano più un tentativo della Corte spagnola e del Re di scaricare addosso ad Alberoni le responsabilità di atti politici di cui non era responsabile. 178


Passando ai non illibati costumi, le accuse erano 13, una – la seconda – grave, le altre ridicole o poco credibili, comunque tutte da dimostrare: “1° – Non si è mai veduto né udito dire la Messa nel corso di sei anni che è stato in Spagna e nella Corte. 2° – Non si è mai veduto comunicare in giorno alcuno di detto tempo, né nelle feste più solenni, né per la Pasqua di Resurrezione in adempimento del precetto della Chiesa. 3° – Non si è veduto, né sentito mai dire che sia intervenuto ad alcuna predica. 4° – Essendo sacerdote, cardinale e vescovo eletto di Malaga, non si è mai veduto vestito con l’abito talare. 5° – Ha scandalizzato molti, nelle sue conversazioni, con parole oscene e da trivio che proferiva. 6° – Ogni giorno si lasciava trasportare dalla collera, prorompendo in terribili accessi d’ira e non perdonando a chiunque si fosse, o ecclesiastico o costituito in dignità, principe o signore, insultando tutti generalmente. 7° – In queste collere che erano in lui frequenti, giurava il santo nome di Dio, con sommo scandalo e mal’esempio di quelli che lo sentivano. 8° – Finse e suppose lettere e falsificò strumenti, per vendicarsi dei suoi rivali, distruggerli e annientarli, servendosi a questo scopo di una determinata persona. Scriveva il Cardinale di sua mano la lettera o strumento che voleva o importava alla sua malignità, davala a costui il quale la copiava, e dopo, il medesimo Cardinale la faceva intercettare alla posta, la portava e la faceva leggere al Re perché entrasse nella mala opinione che desideravano di porlo contro il perseguitato. In queste lettere e strumenti, si diceva molto male di varie persone amministri, anche di prima sfera: da che sono risultati alcuni esilii, prigionie e privazioni di cariche. 9° – Con questa incredibile malizia finse una lettera con un nome supposto, nella quale si parlava assai male del primo medico del Re, con una maniera particolare di renderlo sospetto a S.M. Suppose di aver intercettato questa lettera, ed avendola mostrata al Re, contribuì in parte all’esilio dalla Spagna del medico riferito. 10° – Volendo parimenti disfarsi di un sacerdote Biscaino, fece contraffare la di lui mano e la firma , e fingendo lettere di esso dirette ai ministri di Francia, parlando in esse con poco rispetto delle LL. MM., fece estradare questo sacerdote a rinchiuderlo nel castello di Segovia. ove è stato tre anni con grandi patimenti, finché, conosciutasi la verità della sua innocenza e scopertasi questa malignità, il Re ordinò che fosse messo in libertà e ritornasse alla Corte. 11° – Poco soddisfatto il Cardinale di un Grande di Spagna che occupava i primi posti alla Corte e non approvava la sua stravagante condotta, disse al Re che teneva discorsi sediziosi, che parlava male delle LL. MM, e del governo, onde lo fece proscrivere e sospendergli una delle sue cariche. Il Re conoscendo di poi la falsità di queste accuse, gli levò l’esilio e lo restituì in sua grazia e nelle sue cariche. con gli stessi mezzi e maniere fece proscrivere altri soggetti d’ogni sfera, tanto ecclesiastici che secolari, ai quali Sua Maestà fece poi la grazia di restituirli alla Corte. 12° – Allo stesso modo fece fingere e scrivere una lettera, nella quale si descriveva un ecclesiastico costituito nella prima dignità della Chiesa e della monarchia come un traditore del Re, che favoriva occultamente i nemici di Sua Maestà. 13° – Ha dato luogo di credere che vivesse con somma incontinenza.”CCXXXIX Questa massa enorme di accuse era impressionante, ma insufficiente. Giuridicamente i reati capaci di privare della dignità cardinalizia – che poi era quanto volevano i nemici d’Alberoni – erano solo tre e cioè: eresia, lesa maestà umana in primo capite e scisma, però, come monsignor Cybo aveva constatato un anno prima, e adesso pure Fiorelli rilevò subito, fra i trentun capi d’accusa contestati 179


al Cardinale ce n’era si e no uno solo – le minacce al Papa – che vi rientrasse molto vagamente: si cominciava male. Iniziato l’esame delle deposizioni, Alberoni apparve sempre meno colpevole. Patiño aveva testimoniato indicando le date con precisione ed emergeva chiaramente che gli ordini alla flotta fossero stati cambiati non prima dell’11 giugno 1717 e che lui li avesse conosciuti solo il 25 giugno. Gli altri undici testimoni, appartenenti alle sfere più alte dell’amministrazione militare e civile, in sostanza concordavano con lui. Il marchese Grimaldo aveva riferito d’aver saputo dal Re che Alberoni conoscesse la vera destinazione della flotta prima di firmare il concordato con monsignor Aldrovandi, ma non aveva indicato da quando la conoscesse. Don Miguel Fernandez Duran aveva esibito parecchi documenti relativi alla preparazione del contingente da sbarco, tutti senza data meno due lettere del Cardinale, datate 26 e 27 giugno, per cui, aveva asserito, secondo lui i preparativi non erano iniziati prima della fine di giugno del 1717. Il principe Francesco Pio di Savoia, governatore della Catalogna, aveva fatto risalire i primi preparativi al 19 giugno 1717. Il duca di Popoli aveva testimoniato d’aver avuto la lettera con cui Alberoni disapprovava qualsiasi operazione che potesse portare alla guerra, poi non aveva saputo più nulla fino al giorno in cui aveva visto le navi andare contro la Sardegna. Il tenente generale Gomez de Grijalva, marchese del Surco, aveva ricordato d’aver sentito Alberoni dire di non aver promosso la guerra ma di compiere con attività e sforzo quanto era suo dovere. Don Marco Montoso, segretario del Dispaccio Universale, sapeva poco sui preparativi delle truppe da sbarco e in merito non aveva notizie che precedessero il luglio del 1717. Il principe di Cellamare aveva confessato d’aver sempre creduto che le navi fossero state allestite contro i Turchi e d’aver saputo della spedizione solo alla notizia dell’avvenuto sbarco in Sardegna. Don Marco de Araciel, tenente generale comandante l’artiglieria, aveva affermato di non aver avuto alcun ordine durante il 1717. Don Juan de Goyeneche, imprenditore e Tesoriere generale della milizia, non aveva saputo dir nulla tranne che Alberoni doveva essere stato al corrente perché sapeva sempre tutto. Don Paolo Laveli, allora segretario d’Alberoni, aveva riferito d’aver appreso al principio di luglio che le navi andavano in Sardegna e, infine, don José Rodrigo, Segretario del Dispaccio, confermò di non aver mai saputo nulla finché la spedizione non toccò terra in Sardegna. Conclusione? Non esisteva prova giuridicamente valida che dimostrasse l’interdipendenza fra la concessione del cappello cardinalizio e la destinazione della flotta in Levante, né che la promessa di mandarcela fosse falsa fin dall’inizio. Al contrario, argomentò monsignor Fiorelli, le navi erano state veramente armate per andare contro i Turchi, finché il Re non aveva cambiato idea, però questo cambiamento non si poteva imputare al Cardinale. Né lo si poteva accusare d’aver taciuto in seguito, perché era tenuto al segreto d’ufficio “sapendo ogni buon Teologo che il Segreto appartenente alli negozii è atto di virtù della fede, in quanto significa fedeltà.”CCXL La prima e più grave accusa era caduta. La seconda in ordine d’importanza era d’aver negoziato coi Turchi contro le armi cristiane. Pure qui le testimonianze erano tutte di seconda mano meno due e quelle due erano in contrasto su un aspetto basilare: una diceva che l’ordine di sostenere i Turchi per far loro proseguire la guerra all’Austria fosse stato dato da Alberoni, l’altra invece che era stato impartito dal Re. Ad ogni modo Fiorelli scartò tutto il blocco per mancanza di prove concrete, pur ammettendo il dubbio sulle intenzioni del Cardinale. Venivano adesso le azioni contro la Santa Sede e le sue prerogative e giurisdizioni e qui Fiorelli procedé con la massima attenzione e sul filo del rasoio. Il Cardinale era stato accusato d’aver fatto fermare alla Posta tutti i plichi contenenti il breve di sospensione della Bolla della Crociata diretti ad ognuno dei vescovi e prelati spagnoli, offendendo così la suprema giurisdizione pontificia. Don Juan de Aspiazo, sovrintendente dei corrieri e delle poste di Spagna testimoniò d’aver avuto nel giugno del 1718 un ordine scritto e firmato da Alberoni di raccogliere tutta la corrispondenza diretta ai vescovi, arcivescovi, capitoli e sedi vacanti delle Spagne per consegnarla al Cardinale. Asserì d’averne incaricato l’amministratore e l’uffiziale maggiore dell’ufficio di Castiglia don 180


Francisco Miguel de Aguirre e don Domingo Voldan, i quali confermarono la sua deposizione, solo che don Juan de Aspiazo non aveva potuto esibire la lettera: l’aveva stracciata. Un’ulteriore conferma era giunta dal marchese Grimaldo: aveva ammesso d’aver ordinato a de Aspiazo di trattenere le lettere da Roma indirizzate ai vescovi in cui si poteva sospettare contenuto il breve di revoca. Questo coincideva con le deposizioni di parecchi vescovi, i quali avevano asserito di non aver avuto nulla nel giugno del ’18, pur ricevendo una copia del breve nel settembre del ‘19. Era evidente la responsabilità del Cardinale, ma aveva agito di sua iniziativa o no? Don Luis de Mirabal, presidente del Consiglio di Castiglia, esibì una missiva del Cardinale del 30 giugno 1718 in cui gli ordinava d’aprire tutti i plichi diretti ai vescovi e diceva che l’umore del Re si faceva “acre”, mentre in una successiva lettera del 4 luglio asseriva esplicitamente che l’ordine di fermarli ed aprirli era stato impartito da Filippo V. Il Consiglio di Castiglia si era riunito ed il 22 agosto aveva deliberato di mandare al Papa una supplica di revoca del breve. La supplica era stata data ad Alberoni perché la spedisse, ma lo si accusava d’averla tenuta ferma sei mesi. Era vero? Se si, perché? Intanto perché si era nel pieno delle operazioni in Sicilia e non conveniva interrompere l’afflusso di denaro dalle casse ecclesiastiche dovuto alla Bolla della Crociata; poi era falso che fosse stata un’iniziativa d’Alberoni. Chi lo diceva? Don José Rodrigo, il quale testimoniò che dalle memorie della Segreteria risultava inoppugnabilmente che, se il Consiglio di Castiglia aveva deciso il 22 d’agosto 1718 di mandare la supplica, questa era stata consegnata solo il 13 febbraio del 1719 ad Alberoni, il quale l’aveva inoltrata subito, cosa comprovata addirittura da una lettera di Clemente XI al vescovo di Cuenca del 16 settembre 1719, in cui si menzionava la supplica come risalente solo ad alcuni mesi prima, non ad un anno prima, e si affermava esplicitamente che però non erano stati ancora rimossi dalla Corte di Madrid gli ostacoli opponentisi al ritiro del breve. Queste due testimonianze – la diretta di don José Rodrigo, l’indiretta del Papa – permisero a monsignor Fiorelli di derubricare l’accusa, scrivendo: “il ritardo della supplica… non lo vedo giustificato, anzi lo trovo piuttosto escluso.”CCXLI Mentre dalle testimonianze appariva sostanzialmente confermata la responsabilità d’Alberoni per l’interdizione dei contatti con la Corte di Roma finché non gli fossero state concesse le bolle d’investitura per l’arcidiocesi di Siviglia, cadeva quella mossagli dal Re in persona d’aver suggerito di far esaminare in una Giunta di Ministri se conveniva che in Spagna i Metropolitani confermassero i vescovi eletti, senza doversi rivolgere a Roma per le Bolle, come pure se conveniva escludere per sempre il Tribunale della Nunziatura. Il memoriale d’accusa la diceva una “cosa che diede orrore a tutti e particolarmente al Re” e, delle quattro testimonianze, una smentiva ma tre confermavano che fosse stata un’idea del Cardinale. Al contrario, le testimonianze del principe Pio, di Duran e di Mirabal concordarono nello scagionare Alberoni dall’accusa d’aver ordinato l’espulsione del nunzio pontificio dalla Spagna, affermando che l’ordine era stato del Re. Non a caso il memoriale di Filippo V aveva taciuto su questo, così come aveva sorvolato su altri due punti dolenti: le rendite di Tarragona e il sequestro dei beni ecclesiastici in Sicilia dopo l’occupazione. La seconda accusa risultò provata a carico d’Alberoni, ma non produsse alcuna conseguenza perché, nonostante i suoi ordini, in Sicilia non era stata operato alcun sequestro. La prima pure fu provata e, siccome si trattò d’una delle imputazioni maggiori e riguardò le sue entrate, conviene dilungarcisi un po’. Come sappiamo, alla fine di settembre del 1717 Filippo V aveva stabilito un assegno a favore d’Alberoni sulle rendite della diocesi di Tarragona, da pagarsi fin quando fosse restata vacante. Alberoni aveva nominato suo procuratore don Raymundo de Marymont, canonico di quella cattedrale con una lettera speditagli il 9 ottobre a cui l’altro non aveva risposto. Il 29 novembre il Cardinale ne aveva spedita una seconda in cui minacciava lui e tutto il capitolo dell’indignazione reale con tutte le sue conseguenze. La minaccia aveva funzionato e l’importo era stato versato, però ne era stato dato avviso a papa Clemente, il quale, l’8 marzo 1718, aveva detto di non consentire al versamento di quella rendita. La cosa era sembrata finire lì; Alberoni pareva essersi adattato alla sospensione dell’assegno; però – testimoniò don Miguel Fernandez Duran – don Raymundo aveva ricevuto una lettera in cui il 181


Cardinale gli ordinava di versare la sua rendita a don Rodrigo Cavallera. Marymont aveva risposto il 6 agosto che, dopo gli ordini del Papa, gli pareva dubbio poter proseguire nelle riscossioni, al che gli era giunta una nuova lettera, di cui Duran presentò la minuta, con aggiunte autografe d’Alberoni, in cui si riferiva minacciosamente quanto al Re fosse parso strano che non si eseguisse un suo ordine per compiacere la Santa Sede e Marymont aveva obbedito. Passando all’uso improprio della stampiglia, i tre testimoni sentiti in merito concordarono sul fatto che Alberoni l’avesse adoperata, ma né nel memoriale, né dalle testimonianze emerse alcun esempio d’abuso da parte sua, perciò, come poi scrisse monsignor Fiorelli, non vi era colpa, perché, “non essendo provato nel processo verun Abuso tanto nell’intenzione, che nell’opera”, non lo si poteva considerare “delitto vindicabile dalla Potestà Humana.”CCXLII Con questo era terminato pure l’esame del secondo gruppo d’accuse e si apriva quello del terzo, quello dei cattivi costumi, a cominciare dalle lettere false per screditare gli avversari. A sostenere l’accusa si erano presentati moltissimi testimoni i quali, coll’eccezione di uno solo, o erano stati perseguitati e incarcerati dal Cardinale, o non avevano notizie di prima mano. L’unico testimone diretto, don Gabriel de Arieta, aveva ammesso d’aver scritto per ordine d’Alberoni una lettera in cui si accusava il cardinal del Giudice d’essere nemico della Francia e traditore del Re, causandone la caduta; ma noi sappiamo che le dimissioni imposte a del Giudice erano state conseguenti al suo suggerimento di fermare la flotta a Porto Longone e minacciare di non farla andare a Corfù se Roma non avesse ceduto su tutto il contenzioso con Madrid, il che aveva fatto infuriare Elisabetta e perdere al Cardinale gli incarichi ministeriali e il governo del principe delle Asturie, per cui la lettera di don Gabriel de Arieta aveva contato poco. Prescindendo da essa, monsignor Fiorelli obiettò che tutti i testimoni andavano scartati perché o de auditu – di seconda mano – o non obbiettivi poiché nemici dichiarati d’Alberoni. Con questo si era sgombrato il campo per l’esame dell’unica accusa veramente capace di privare Alberoni della porpora, non per eresia, non per scisma, bensì per lesa maestà umana in sommo capite: le minacce e gli insulti al Papa. E qui si vide quanto la Santa Sede in genere e Fiorelli in particolare avessero già deciso di salvare il Cardinale. L’accusa parlava di oblocuzioni e minacce contro il Papa e la Corte di Roma, il che rientrava in pieno nel crimine di lesa maestà umana in sommo capite, essendo rivolta contro il Capo della Chiesa Universale. Erano state presentate le minute di due lettere d’Alberoni ai cardinali Albani e Fabroni, sequestrategli nella perquisizione dei suoi bagagli all’uscita di Barcellona. In più v’erano nove testimoni in grado di deporre d’averlo sentito dire peste e corna del Papa e della Santa Sede. Ora, volendo, queste deposizioni potevano pure essere scartate come non provabili, ma le lettere no e cosa fece monsignor Fiorelli? Nella sua relazione finale scrisse: “non essendosi esibite queste Lettere, non resta provata pienamente se non che la disposizione a scrivere, e trasmettere dette lettere, e solo presuntivamente si può dire giustificata la trasmissione effettiva delle Lettere.”CCXLIII E’ giusto, in una materia così delicata, cercare l’assoluta certezza del compimento, del perfezionamento dell’atto per poter provare la fattispecie. L’aver Alberoni scritto la minuta non significava né che l’avesse spedita, né che non l’avesse modificata prima di mandarla. E’ giusto, ripeto, stare attenti, ma, visto a chi era destinata, perché non si andò a domandare al cardinale Albani se per caso l’avesse? Sarebbe stato illuminante ed avrebbe tolto qualsiasi dubbio; ebbene, non risulta sia stato chiesto e, guarda caso, non solo la lettera era giunta a Roma, ma era stata archiviata, tant’è vero che il padre Castagnoli la vide due secoli dopo e poté riportarla integralmente nella sua biografia d’Alberoni, da dove la trascrivo: “Sono in obbligo di dire a Vostra Eminenza avermi ferito il più vivo del cuore la voce costì sparsa, cioè che da Sua Santità si fosse pensato dichiararmi incorso nelle censure, col pretesto di avere io percetto alcuni pochi baiocchi pretesi da un vescovo ribelle a 182


Dio e al suo Re, concessimi dalla pietà del Re mio Signore per via d’alimenti. Una tale idea, quando fosse mai passata per la mente di Sua Santità, ben si vede che non può essere stata suggerita che dalla malizia dei tedeschi per pormi in orrore presso questi popoli (del che s’ingannano) e dall’odio implacabile di vedermi impiegato al servizio di Sua Maestà. Questo solo ultimo motivo dovrebbe bastare per rendermi degno di qualche attenzione presso Sua Santità, e farmi provare quegl’effetti di paterna bontà e di giustizia, che come Padre comune non può negare a qualunque altra persona. Voglia nulla di meno credere vana e insussistente la detta voce così sparsa; però se mai si pensasse di venire al minimo atto che potesse ferire la mia estimazione, oltre al grave impegno che corre a queste Maestà, e che so sosterranno vigorosamente, sappi Vostra Eminenza aver ricevuto da Dio bastante spirito e risoluzione per difendermi, la quale, avvalorata dal credito e dalla forza, che mi dà l’onore di servire un gran monarca, potrebbero arrivare scene tali nel mondo, delle quali all’ultimo potrebbe darsi dispiacere a Sua Santità di averne dato il motivo. Desidero che il Papa sappia questi miei giustissimi e rispettosissimi sentimenti, persuaso che fatta seria riflessione alle cabale dei Tedeschi sostenute dai suoi mercenarii, non vorrà pormi nella dura necessità di avere a scordarmi di essere sua cratura ed in conseguenza obbligarmi a prendere quei partiti estremi ai quali non dico uno che è rivestito della Sacra Porpora, ma ogni homo privato è tenuto ad applicarsi per difesa del proprio onore.”CCXLIV Le due frasi “potrebbero arrivare scene tali nel mondo, delle quali all’ultimo potrebbe darsi dispiacere a Sua Santità di averne dato il motivo” e “non vorrà pormi nella dura necessità di avere a scordarmi di essere sua cratura ed in conseguenza obbligarmi a prendere quei partiti estremi” erano due chiare minacce. La giurisprudenza ecclesiastica del tempo era perfettamente in grado di farle ricadere nella lesa maestà riferendosi al Corpus iuris canonici e, se anche non l’avesse fatto, la minaccia al Papa, in quanto sovrano assoluto oltre che capo della Chiesa, era evidente e inequivocabile. Se la lettera fosse stata chiesta al cardinale Albani e lui l’avesse consegnata, Alberoni era perduto: gli avrebbero tolto la dignità cardinalizia e sarebbe rimasto esposto a tutti i rigori della legge. Faccio molta fatica a credere a un caso. Faccio fatica a credere che una lettera del genere giunta due anni prima non avesse fatto tanto rumore da essere rimasta ignorata. Albani era il cardinal nipote, perciò Clemente XI ne era stato sicuramente messo al corrente e dubito che in un ambiente ristretto come quello della Curia romana, dove, oltretutto, nel 1718 non esisteva motivo di salvaguardare Alberoni e ce n’erano molti per fare il contrario, nessuno ne sapesse niente. Faccio fatica a credere che dei sette cardinali componenti la commissione giudicante nessuno ne fosse a conoscenza fin da quando era arrivata e faccio fatica, una fatica improba, a credere che il cardinale Albani l’avesse dimenticata, o che non sapesse che la lettera era citata dal memoriale di Filippo V, giunto nelle mani di suo zio il Papa – il quale gliel’aveva fatto sicuramente leggere – e che sarebbe stato opportuno esibirla alla commissione. Se ne può trarre una sola conclusione: lo vollero salvare. Resta il fatto che dei reati Alberoni li aveva commessi e le prove c’erano. Allora come e perché si giunse ad assolverlo? Ci furono a mio avviso tre fattori, uno puramente ecclesiastico, uno pratico e il terzo politico. Il primo è nel famoso “an melius sit dehonestare dignitati, vel tolerare Peccatorem” di San Tommaso d’Aquino – se sia meglio svergognare la dignità della carica rivelando i fatti o tollerare il peccatore – in base al quale la Chiesa di Roma ha per secoli regolarmente chiuso gli occhi sulle manchevolezze dei propri chierici, pagando per questo un prezzo tremendo a partire dall’inizio del XXI secolo. Si preferì far finta di nulla piuttosto che ammettere che uno del gruppo era colpevole. Del resto l’offeso e minacciato Clemente era morto, le questioni fra Roma e Madrid chiuse, almeno per il momento – per il futuro chissà, ma qui entrava in gioco il secondo fattore – e non dimentichiamo che ai cardinali non faceva piacere stabilire un precedente in base al quale uno di 183


loro poteva perdere la porpora. Specie quello, non era un periodo in cui si potesse stare tranquilli e il processo al cardinal Coscia meno di dieci anni dopo, imbastito sempre da monsignor Fiorelli per ordine del Papa, l’avrebbe dimostrato, concludendosi con la scomunica e la perdita delle dignità cardinalizia, pur se dopo quattro anni gli sarebbero state revocata la prima e restituita la seconda. Il secondo fattore in un certo senso rientrava in qualcosa che Alberoni aveva capito fin da giovanissimo: la Chiesa lo avrebbe sostenuto solo se avesse visto che sapeva qualcosa, che valeva qualcosa, che a qualcosa poteva servire; bene: lo sapevano, ora sapevano quanto valeva e non avrebbero mancato di servirsene. Era all’apice della carriera, per cui non era più un concorrente – salvo per il papato, ma quello era un altro discorso – e aveva un’esperienza profonda quanto rara negli affari pubblici, esteri o interni, e relazioni personali estese in tutta Europa. Conosceva dall’interno i fatti più reconditi delle monarchie cattoliche e di molte di quelle protestanti, sapeva tutto di tutti, era d’un’abilità senza pari, parlava tre lingue, aveva una preparazione e un’esperienza forse superiori a qualsiasi cardinale del suo tempo… un uomo così non lo si doveva sprecare, andava adoperato a vantaggio di Santa Romana Chiesa e sarebbe stato fatto. C’era solo un ostacolo: non era ancora opportuno procedere, non in modo evidente. Prendere un uomo chiacchierato come lui e metterlo a capo d’un dicastero ecclesiastico o d’una legazione all’indomani del processo non andava bene; occorreva aspettare, far calmare gli animi, spegnere le passioni e le polemiche e poi, silenziosamente e gradualmente, cominciare a servirsene. Qui entrava in gioco il terzo fattore. Il terzo fattore, quello d’ordine politico è più complesso. I processi politici sono fondati su una base giuridica, spesso assai labile, ma che questa dia adito a una condanna proporzionale ai reati secondo il codice è tutto un altro paio di maniche. I processi politici hanno un obbiettivo politico: quello di distruggere l’avversario, non di fare giustizia. Se poi la giustizia in qualche modo riesce a farsi strada, tanto meglio per tutti, ma non succede spesso. Nel caso d’Alberoni il processo politico era la forma concreta, ma di pura apparenza, con cui le corone europee avevano voluto risolvere una questione internazionale. Il nemico era stata la Spagna, che nel 1719 stava tornando potente e pericolosa, dunque in grado di minacciare gli interessi anglo-francesi stabiliti ad Utrecht e quelli imperiali sanciti dal successivo negoziato di Baden e la pace di Rastadt. Filippo V aveva stabilito gli obiettivi politici spagnoli da raggiungere; Alberoni gli aveva fornito i mezzi riorganizzando il regno da cima a fondo. Dare la colpa ad Alberoni significava colpire Filippo V – intoccabile perché re – in modo indiretto ma efficace e, costringendolo a congedare il Cardinale, gli si levava il motore di tutta l’impresa e gliela si faceva fallire. Dopodiché occorreva solo continuare il gioco d’adoperare Alberoni come capro espiatorio finché poteva servire farlo. In tutto questo di giustizia non ce n’era affatto, il che però non significava che Alberoni fosse uno stinco di santo, perché, come abbiamo visto, non lo era stato e non lo era. Ora, nel settembre del 1721, quando a Roma si aprì il plico delle 700 pagine del processo spagnolo, le necessità politiche all’origine della caduta d’Alberoni erano quasi del tutto scomparse. La Spagna aveva perso, lo sapeva e l’aveva accettato; inoltre aveva smesso di costituire un rischio, perché aveva aderito alla Quadruplice entro i tre mesi stabiliti la seconda volta, dunque non aveva perso i diritti dei figli d’Elisabetta su Parma e Toscana, si era adeguata all’ordine internazionale e, da quando Alberoni se n’era andato, l’amministrazione si era sfasciata, tornando ai pasticci di prima. L’Imperatore aveva preso la Sicilia – più ricca della Sardegna – però stava cominciando a mettere gli occhi proprio su Parma e la Toscana, le cui successioni apparivano tutt’altro che certe e richiedevano accurate e lunghe trattative internazionali. L’Inghilterra aveva ottenuto la conferma dei privilegi commerciali nei territori spagnoli e s’illudeva d’aver finalmente chiuso la pagina dei problemi dinastici causati dai Giacobiti che Alberoni aveva sostenuto. La Francia non aveva obbiettivi di politica estera ed il Reggente era condizionato dal voler far ottenere il cardinalato a Dubois, dagli strascichi tremendi del colossale fallimento del sistema finanziario di Law e da quelli della peste che aveva devastato Marsiglia e la Provenza. 184


Le altre potenze non contavano e dovevano adeguarsi, specie Parma, perché potevano agevolmente vedersi divenire la merce di cambio di quelle maggiori; era successo a Vittorio Amedeo II obbligato a prendersi la Sardegna al posto della Sicilia, poteva capitare a Francesco Farnese. Insomma, a nessuno importava più nulla di punire Alberoni, tranne che a Francesco Farnese, ma siccome, se turbava la quiete e dava fastidio, gli poteva capitare qualcosa di brutto, pure il duca di Parma a un certo punto avrebbe compreso di doversi adeguare, ci avrebbe messo un po’ ma alla fine ci sarebbe arrivato.

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Capitolo XXIV La quiete dopo la tempesta Monsignor Fiorelli trasse le sue conclusioni nell’autunno del 1721. Scartò le cinque accuse relative alle trattative coi Turchi, al ricatto per ottenere la porpora, all’abuso della Stampiglia, all’espulsione del nunzio Aldrovandi dalla Spagna e alle calunnie contro terzi perché non provate o non costituenti reato. Le calunnie, in particolare, erano asserite da persone dichiaratesi offese, dunque le prove fornite erano – come lui sottolineò – non piene né perfette e perciò da escludersi, senza contare che contro un cardinale, in quanto persona privilegiata, la procedura criminale del tempo escludeva prove del genere. L’accusa del ritardo di sei mesi nel mandare a Roma la supplica contro il breve sospensivo della Bolla della Crociata fu ritenuta insussistente. Quella più pericolosa, la minaccia al Papa, venne neutralizzata giudicandone la prova come raggiunta presumibilmente ma non effettivamente – sempre per non aver chiesto nulla al cardinale Albani – e con questo gli scogli più pericolosi erano stati evitati. Cinque accuse, secondo Fiorelli erano provate: l’interdizione di ogni rapporto fra i sudditi spagnoli e la Corte di Roma, il trattenimento del breve pontificio ai vescovi e capitoli spagnoli che sospendeva la Bolla della Crociata, la proposta al Consiglio di Castiglia contro la giurisdizione pontificia, l’usurpazione delle rendite di Tarragona e l’ordine di sequestro dei beni ecclesiastici in Sicilia; et de hoc satis. Il resto non veniva nemmeno preso in considerazione. Conclusione? L’accusa – non dimentichiamo che Fiorelli era l’accusatore – riteneva il cardinale reo, colpevole e punibile per cui, se non dava prove legalmente valide in sua difesa, doveva soggiacere alle pene spirituali – per l’usurpazione delle rendite ecclesiastiche – e temporali: Quali? Intanto si sgombrava il campo dal rischio maggiore: “tutte queste colpe e delitti, che si sono ammessi per provati, niuno per sé stesso, né uniti assieme sono atti a far meritare al delinquente cardinale la deposizione dalla dignità cardinalizia”, poiché, come sottolineava Fiorelli, in tale pena si incorreva solo per cause gravissime “che si riducono a tre, e sono li delitti di eresia, lesa maestà umana in primo capite e di scisma.”CCXLV Premesso questo, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti, imputato e giudici, si passava a parlare delle pene con un’altra distinzione. Trattandosi d’un cardinale, cioè d’una figura non compresa nelle pene stabilite dalle bolle pontificie, dai canoni e dalle costituzioni ecclesiastiche – a meno che non fossero relative a uno specifico cardinale esplicitamente indicato col proprio nome – la pena diveniva arbitraria e tanto più lo era in quanto a quel tempo nessuna pena era ancora specificamente stabilita contro i chierici. Conseguenza? La doveva stabilire il Papa a suo esclusivo arbitrio, perché era lui il solo e supremo giudice dei cardinali. C’era di più: poiché la pena arbitraria non si dava in perpetuo, ma a tempo, l’accusa ne chiedeva per Alberoni una di durata definita. Quale pena e quale durata? Ecco, se si fosse dichiarato colpevole, per tutte e cinque le imputazioni, “si potrebbe probabilmente stabilire la pena di cinque anni in un Monastero.”CCXLVI Una richiesta del genere era così moderata da apparire uno scherzo, o quasi, ma non finiva lì: non era quella la pena suggerita dall’accusa perché esistevano delle attenuanti, molte attenuanti. Alberoni aveva operato in quanto ministro, perciò era stato almeno in parte imitatore, esecutore, non autore. Poi aveva passato un anno in contumacia e latitanza e dopo il conclave, in obbedienza agli ordini del Papa, era rimasto “in un esatto ritiro a guisa di una privata Persona.” CCXLVII Questo, diceva l’accusa, andava calcolato e detratto dalla pena proposta, e si sarebbe trattato di defalcare almeno due anni interi; ma non si finiva qui, oh no: “Io credo” – proseguiva – “che ogni Indulgenza, che si usasse al detto Sig. Cardinale, rindodarebbe in decoro del Sagro Collegio, onde sarebbe edificativa, et utile, perché 187


ora la macchia dell’inquisizione criminale non è così deforme come lo sarebbe doppo che fosse costituito tra Rei, e molto più, quando venisse soggettato alla condanna, et alla pubblica penitenza del confine in un Monastero. Così segnato e deformato dovrebbe poi stare nel Sagro Colleggio in consortio delli suoi Fratelli in Roma, et in faccia del mondo cristiano.” CCXLVIII Richiesta finale? Non precipitiamo: era necessario esaminare bene quei motivi e domandarsi: “se il Principe, a cui appartiene la Cura del Bene Commune, debba in tali circostanze, rimirando particolarmente al decoro del Sagro Collegio, servirsi di quei mezzi proprii, e legali, che non mancano per imporre al Fisco il perpetuo silenzio et abolire l’accusa, quando creda, che così convenga alla pubblica utilità come concorrendovi questa affermativamente insegna il precitato Santo Dottore.”CCXLIX L’insegnamento del Santo Dottore San Tommaso d’Aquino era il già riportato “an melius sit dehonestare dignitati, vel tolerare Peccatorem”, perciò era facile capire: in sostanza l’accusa chiedeva d’assolverlo. La requisitoria fu copiata e distribuita ai sette cardinali, i quali non ebbero fretta. Sapevano che più il tempo passava e più filtravano notizie e voci atte a preparare il terreno ad una sentenza assolutoria. A Roma ai primi del 1722 la prevedevano tutti. Le voci in merito avevano già cominciato a circolare sei mesi prima, quando, il 16 agosto 1721, era stata resa nota un’udienza data dal Papa ai cardinali Belluga ed Acquaviva, di cui non si era saputo il contenuto, ma che tutti avevano individuato nel processo d’Alberoni. Poi, a metà settembre, era comparsa una stranissima notizia, datata Roma 30 agosto: “Viene divolgato, che resti arenato l’affare dell’Emin. Alberoni sopra il Cappello Cardinalizio, che deve prendere, stante che la Corte di Madrid siasi dichiarata di non volergli accordare le 12000 Pezze da 8 sopra il Vescovato di Malaga, mediante la di lui rinunzia del suddetto Arcivescovato.”CCL Era roba da far trasecolare: di uno fino allora tanto accusato d’ogni marioleria da rischiare di non avere il cappello e finire i suoi giorni in carcere, o peggio, si diceva che tutto l’affare si era incagliato sul rifiuto di dargli un sacco di soldi se rinunciava all’arcidiocesi di Malaga!? E tutti i suoi crimini che fine avevano fatto? Svaniti come nebbia al sole? Ma allora…. ? Ce n’era abbastanza da far capire a chiunque avesse un minimo di cervello che le parti si erano accordate ed Alberoni si poteva considerare già assolto e confermato cardinale. Chi non si rassegnava era Francesco Farnese e, nonostante tutti gli avvertimenti, non riusciva a stare calmo. Era stato avvisato di star tranquillo da una lettera dell’abate Bielato in autunno. Nel periodo del conclave del 1721 il Duca, sempre copertamente, aveva continuato a cercare ogni mezzo per impadronirsi d’Alberoni e delle sue carte e per suo ordine il conte Rocca aveva fatto credere a Bielato di poter trovare un accomodamento. L’Abate ci era cascato ed aveva convinto Alberoni a dargli retta. Ne era nata una corrispondenza durata dei mesi fra Genova e Parma, alla fine della quale era apparsa la doppiezza farnesiana. Alberoni si era seccato ed aveva rimproverato a Bielato d’averlo indotto a un contatto del tutto inutile. A sua volta Bielato il 3 ottobre 1721 aveva scaricato le sue ire su Rocca, con una lunga lettera in cui, dopo le sue doglianze per il nulla scaturito da tutta la corrispondenza e la figura fatta con Alberoni, menzionata in breve l’apertura del plico dell’inchiesta spagnola, scriveva minacciosamente che il Cardinale s’accingeva “ora virilmente alla sua pubblica diffesa, da tutti a lui giudicata assai facile…. e conosce d’essere costretto quasi per forza a ripigliare quelli pubblici manifesti che lo 188


devono distinguere innocente al mondo… et in questi manifesti altresì di non potersi dispensare dal parlare se bene con tutta la veneratione sin ora praticata di quelle Persone delle quali egli per altro vorrebbe in un profondo e rispettoso silentio conservare la memoria: di più diffesosi nel fatto e nelle raggioni deve ancora diffendersi nel prudenziale con far vedere al mondo tutto che egli ha procurato tutte le strade possibili per dare ogni più compiuta soddisfatione a quelli Personaggi a’ quali non ha mai sognato non che pensato di mancare e per tale motivo dovremo entrare nel pubblico racconto e V. S. Ill.ma et io servendolo. Non ho cuore, non ho ardire a contradirglielo, mentre si tratta che egli deve salvare il suo onore, la sua dignità e la rimanente sua quiete.”CCLI Rocca si spaventò moltissimo. Si rese conto che la pubblicazione della sua corrispondenza con Bielato avrebbe messo in piena luce le responsabilità del Duca di cui era stato strumento, per cui il Duca l’avrebbe sicuramente sacrificato, attribuendogli ogni colpa per cercare di salvarsi; ma la lettera di Bielato fra le righe diceva molto di più: diceva che Alberoni era pronto a svergognare lo stesso re di Spagna e ne aveva i mezzi. Si ventilava un incremento di pericolosità: nel manifesto pubblicato a Genova Alberoni aveva fatto capire d’avere le prove, adesso minacciava d’esibirle se fosse stato costretto a difendersi. In un caso del genere Francesco Farnese sarebbe stato danneggiato, ma Filippo V assai di più. Le Potenze potevano fingere di credere alla colpa d’Alberoni e alla tradita buona fede del re di Spagna fino alla comparsa delle mai esibite prove materiali, ma dopo? Non era meglio correre ai ripari finché si era in tempo? Evitare il disastro svuotando il processo, facendolo finire silenziosamente in nulla? Credo che, al di là delle lamentele e delle minacce a Rocca, la lettera di Bielato mirasse proprio a questo, a far capire al Duca quanto era più conveniente per tutti chiudere l’affare. Alberoni non poteva trattare direttamente con Filippo V, nemmeno tramite Acquaviva a Roma, però poteva provare a farlo per interposta persona. Dirlo a Rocca significava farlo sapere al Duca e farlo sapere al Duca significava renderlo noto al Re. Non solo, poiché era Bielato a scrivere a Rocca, Alberoni poteva smentire a voce o coi fatti qualsiasi cosa, perciò io credo che, indipendentemente dalla ragione e dal modo in cui erano state scritte le precedenti, non ci sarebbe da stupirsi se il contenuto di questa lettera fosse stato prescritto da Alberoni a Bielato come messaggio indiretto a Filippo V, con la certezza quasi assoluta che Francesco Farnese, vedendosi perduto, premesse più o meno apertamente sul re di Spagna per fargli chiudere la questione, o perché ne accettasse una silenziosa soluzione di compromesso. Se aveva avuto questo in mente, Alberoni ottenne l’esatto contrario. Francesco Farnese, terrorizzato, cominciò a strepitare con Scotti perché premesse su Filippo V per spingerlo ad esigere la punizione del Cardinale e il trattenimento in carcere del povero padre Bergamaschi a Piacenza. Filippo scrisse ad Acquaviva, ma non ne venne fuori nulla. Francesco Farnese, ormai in preda al panico, passò tutta l’estate a tempestare Scotti di lettere, facendo sì che di tanto in tanto da Madrid scrivessero svogliatamente a Roma. Mentre si svolgeva tutto questo, Alberoni se ne stava tranquillo nell’Urbe, dove il Papa gli aveva concesso di rimanere “a titolo d’onesta carcere, con osservare una somma modestia nel parlare, e ritiratezza nel vivere.”CCLII Il Cardinale si era regolato di conseguenza e per due anni. Stando al padre Chaudon “fu costretto abitar per un anno nel Collegio de’ Gesuiti”, in realtà a fine agosto del 1721 aveva affittato un palazzo delle benedettine di Campo Marzio, detto per l’appunto Palazzo delle Monache di Campo Marzio, vicinissimo a quello di Montecitorio, procurandosi poi un proprio alloggio. Riferì Ottieri: “In fatti, per non stare ozioso, comprò fuori di porta Pia una villa, dove spese molto denaro,109 ed ivi andava ogni giorno in carrozza a bandinelle serrate. Non fece più 109 La vigna, nota come Villa alla fontana di Camerino, era adiacente alla villa del cardinale Patrizi, costò 7.300 scudi romani e fu comprata con atto del 22 novembre del 1721. Alberoni mantenne la massima riservatezza perché, come scrisse al fratello il cardinale Patrizi, sicuramente non voleva che, vedendolo fare acquisti di immobili, lo si pensasse 189


stampare, come aveva fatto prima, provocative, scritture in difesa; andò cautelato nel parlare, e si portò in modo, che i suoi nemici più tosto s’ammansirono, che irritarono con maggiormente perseguitarlo. Perché nel processo costava, ch’era stato tre anni senza dire la messa in Madrid, ei cominciò a dirla frequentemente nelle Cappellette del Gesù, e andando spesso a discorrere con quei Religiosi, s’apprese a un tenore di vita devota, con dare di sé buon esempio, e nome.”CCLIII Il 27 settembre 1722 i cardinali si riunirono per decidere se interrogare Alberoni. I pareri furono difformi in merito alle domande da porgli ed al luogo in cui incontrarlo.110 Si rimise la cosa al Papa, il quale rispose di preferire d’evitare l’interrogatorio, pur lasciando libera la commissione di farlo, e chiese che comunque si sbrigassero. I cardinali tornarono ad esaminare il processo. Quanto all’interrogatorio si contentarono dei cinque manifesti d’Alberoni comparsi nel 1720 e delle due “Scritture in Iure” da lui presentate, talmente circostanziate nella citazione dei precedenti, dei riferimenti giuridici e delle fonti, da essere due capolavori che dimostravano la competenza legale e l’abilità del dottore in utroque e notaio apostolico extra urbem, ora cardinale Giulio Alberoni. Il Papa, che sapeva perfettamente come sarebbe andata a finire, pensò intanto a preparare il terreno alla sentenza. Ovviamente andava salvata la faccia a tutti, perciò occorreva una certa forma e la si ebbe. Riassunse il marchese Ottieri: “… volendo il Pontefice camminare con moderazione, e con giustizia, secondo le regole prescritte dalle Bolle, volle che si continuasse, e terminasse il processo, con sentire più

sicuro dell’assoluzione. Attualmente è nota come Villa Paganini, benché il suo nome ufficiale sia Villa Alberoni Paganini. In origine, con orto, vigna e frutteti annessi, era stata venduta il 20 dicembre 1720 dal marchese Mariano Macolani Pierbenedetti a monsignor Cosimo Girolami per 6.000 scudi romani, al quale però occorreva il beneplacito apostolico alla vendita. Andò per le lunghe e in marzo, alla morte di Clemente XI, non era stato ancora concesso, per cui la transazione rimase pendente fino all’elezione d’Innocenzo XIII. Prima della concessione del beneplacito si presentò al marchese Macolani il signor Liborio Pierantoni, dicendosi disposto a comprare la villa per 7.300 scudi per conto d’un terzo anonimo, del quale avrebbe fatto il nome ad acquisto ultimato. Monsignor Girolami, o che sapesse chi c’era dietro Pierantoni, o che effettivamente non potesse concorrere con un simile aumento di prezzo, si ritirò in buon ordine, giustificandosi ufficialmente col fatto che il Papa, dati i diritti di primogenitura connessi alla villa, avrebbe dato il beneplacito apostolico solo al maggior offerente. il 27 settembre 1721 Pierantoni dichiarò d’aver depositato 7.300 scudi al Banco del Monte di Pietà a nome del marchese Macolani e il 22 novembre esibì la cedola del versamento fatto, dichiarandolo eseguito col denaro del cardinale Alberoni, per conto del quale aveva agito. Il 10 gennaio 1722 papa Innocenzo concesse il suo beneplacito e il 1° luglio 1722 il notaio Girolamo Sercamilli rogò l’atto di compravendita. Subito dopo il Cardinale acquistò altri cinque appezzamenti di terreno confinanti, per una spesa totale di 443 scudi. Come spesso avviene per gli immobili, alla spesa d’acquisto se ne sommarono di ben più alte per le ristrutturazioni e riparazioni, obbligando all’esborso di altri 22.192 scudi, cioè più del triplo del prezzo iniziale. Dall’atto del notaio Sercamilli del 20 ottobre 1725 risultano infatti pagati 10.497 scudi al capomastro per la costruzione e riparazione d’un casino, del tinello, dei portoni, del fienile, della casa del vignaiolo, delle rimesse, vasche per l’acqua (cioè cassoni per un impianto d’acqua corrente, come si vedrà poi), condotte per l’acqua, muri di cinta, camere degli agrumi e cosi via; al giardiniere e soprintendente ne furono versati 5.980 per scassare due terzi del terreno della vigna, piantare alberi da frutto e non, spianare due dossi, tracciare cinque viali e formare la terrazza ed il giardino; lo stagnaro ebbe 991 scudi per le tubature in piombo dalla vasca grande alla fontanella pubblica sulla strada di Sant’Agnese, dalla vasca per l’acqua alla cucina, alla credenza, al giardino, a un viale, a un nuovo tinello, alla casa del vignaiolo ed a un’altra vasca nuova. A questi lavori si aggiunsero gli affreschi e alcuni dipinti su tavola del pittore milanese Pietro Scaffi, costati 588 scudi. Occorsero poi altri 1.280 scudi per affrancare quattro dei cinque appezzamenti adiacenti dai canoni da cui erano gravati 110 Per quanto facesse vita ritirata, Alberoni riceveva e faceva visite di vari personaggi, fra cui il giovane barone prussiano Philipp von Stosch, il quale, fra i suoi molti vizi e difetti, aveva quello di spiare la Corte degli Stuart a Roma per conto del Governo britannico. Era un appassionato d’arte e di numismatica. Lo spionaggio gli dava i mezzi per soddisfare i suoi interessi e l’obbligava a frequentare tutto e tutti, incluso Alberoni e, sorpresa, la principessa Orsini, la quale dalla Spagna era passata a Genova e da lì era tornata a vivere a Roma, in famiglia, godendosi una pensione concessale da Luigi XIV. Tre mesi prima della sua morte, avvenuta nel dicembre del 1722, Stosch riuscì a farla riconciliare col Cardinale; cfr. H. HARDENBERG, L’Alberoni nei Paesi Bassi – Alberoni, Ripperda e Stosch, in ROSSI, G.F., Cento Studi, cit., vol. IV, pag. 211. 190


volte il reo, e prendere il costituto111 di lui. Perché dall’esame fatto segretamente da Domenico Cesare Fiorelli (questi nel pontificato di Clemente XII, formò i processi de’ cardinali Fini e Coscia) comparve, che le prove del Fisco, tratte da’ testimoni, o non erano sufficienti, per condannare l’Alberoni, o almeno non risultava da esse, che egli fosse colpevole di gravi delitti, tali quali bisognano, e sono espressamente dichiarati, e ristretti a pochi, e detestabili casi, per li quali in virtù delle Bolle si possa levare il Capello a un Cardinale. Allora dunque cominciò l’affare dell’inquisito Alberoni a migliorare di faccia; tanto più che i Cardinali in genere stanno ben’attenti di non allargare , anzi ristringere in questa parte l’autorità del Pontefice per lo comune loro interesse, e decoro. Passarono così due anni nella confezione degli atti giudiciarj per terminare il processo. Giovò questo tempo, e la modestia insinuata nel Pontefice, e praticata dal Cardinale per calmare l’ira, conceputa in principio contro di lui da’ suoi oppositori, e nemici. Accoppiando Sua Santità alla parte di supremo Giudice, quella ancora di Principe savio, volle far sapere al Re, e alla Regina di Spagna, al Duca di Parma, al Reggente di Francia, il quale n’avvisò il Britannico, ciò che risultava dal processo, acciocché non paresse strano a’ medesimi il vedere solo condannato Alberoni (anche volendosi camminare con rigore di giustizia) in pena leggiera, minore assai di quella creduta doverglisi dare. Fece parimenti insinuare e rappresentare, che pareva proprio, e conveniente per lui Pontefice e per li Sovrani, di cui s’era parlato quasi come accusatori nella strepitosa causa, e per rispetto, e decoro del Sacro Collegio, l’assolvere per grazia il mentovato Alberoni, più tosto che il venire contro esso a lieve sentenza penale: che in tal forma si sarebbe dato fine con applauso a un affare, che interessava molti, e non faceva onore a nessuno. La proposizione d’Innocenzio fu ricevuta da’ Principi con approvazione, e con lode di meritata prudenza. Venute adunque al Papa le risposte de’medesimi dalle Corti, colle quali egli stette generalmente benissimo, laddove elle avevano avuto coll’antecessore continue querele, ed anche rottura,”CCLIV Le trattative con Madrid avvennero tramite il cardinal Belluga, partito da Roma nella seconda metà di maggio del 1723. Filippo V accondiscese alle proposte pontificie, limitandosi a chiedere la rinuncia d’Alberoni alla diocesi di Malaga, pur essendo disposto ad impiegare una parte di quelle rendite per versargli una congrua pensione. Questa di Malaga sembrava la pietra dello scandalo e una vicenda senza fine. Diciott’anni dopo, nel 1741, Alberoni stesso la riassunse così in due lettere: una, riferentesi al papa allora regnante, Benedetto XIV Lambertini, e spedita al signor Bernardo Della Torre, provinciale della Congregazione dei Padri della Missione; l’altra all’ormai cardinale Aldrovandi. La prima diceva: “Niuno meglio del Papa sa che Clemente XI per far la corte alla gran bestia intimò una congregazione di prelati canonisti, tra’ quali vi fu il papa d’oggi, allora Mons. Lambertini, col credere che poteva privarmi del Vescovato di Malaga, ma il detto Mons. Lambertini, intrepido e costante, sostenne, e tirò dal suo partito i titubanti, che secondo i canoni non trovava la minima ragione né motivo per cui io dovessi essere spogliato del mio Vescovato. In fatti non se ne parlò più. Finito il conclave di Innocenzo XIII, tutto il reato del Card. Alberoni si ridusse all’avere il Vescovato di Malaga; che, volendo io rinunziare, il tutto si sarebbe accomodato con mia soddisfazione e che avrei ottenuto subito il Cappello.”CCLV

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Fino alla metà dell’Ottocento, i verbali degli interrogatori giudiziari nel linguaggio procedurale legale italiano erano definiti “costituti”. 191


L’altra spiegava: “Troppo si sa che fra i patti che fece Innocenzo XIII in conclave, fece quello di non dare il Cappello al Card. Alberoni fintanto non rinunciasse al Vescovato di Malaga. Stetti fermo costante per quasi due anni; alla fine alle premurose e replicate istanze fattemi fare dal papa per mezzo del re d’Inghilterra m’indussi a dare la pace alla Santa Sede e levar il papa dalle inquietudini e dalle angustie in cui trovavasi, e queste furono le espressioni del medesimo; m’indussi a scrivergli un biglietto in cui diceva che sarei stato pronto a fare la rinunzia. Promise il Santo Padre sarebbe stata la pensione di quindicimila scudi, oltre quello pensava di fare lui. Morì, re infecta, e succedendo Benedetto XIII, che da Cardinale m’avea consigliato e pregato a non rinunciare il Vescovato, ma trovando esser io corso in parola, disse che per un Vescovato di rendita di 50 mila scudi troppo tenue era la pensione di 15 mila e promise avrebbe avuto lui la cura che fosse maggiore, quando tutto all’improvviso l’innocente e semplice papa, sedotto ed ingannato dal Card. Franc. Acquaviva, la fissò in 10 mila senza la mia minima saputa, lasciando che se ne desse notizia in Spagna.”CCLVI Adesso, nell’estate del 1723, si era alle ultime battute. Belluga il 28 agosto scrisse per informare il Papa, il quale, già prima di riceverne la lettera, il 1° settembre aveva ordinato alla commissione cardinalizia di rispondere: Alberoni doveva perdere la porpora, si o no? Messa alle strette, il 3 settembre 1723 la commissione, ora composta dagli eminentissimi Bernardo Maria Conti, Lorenzo Corsini, Giuseppe Renato Imperiali, Bernardino Scotti, Giorgio Spinola, Sebastiano Antonio Tanara e Giovanni Battista Tolomei,112 si radunò di nuovo e stabilì a maggioranza che, in base alle risultanze processuali, Alberoni non poteva essere privato della porpora e, all’unanimità, che “in reliquis consulendum Sanctissimo pro gratia” – “nelle altre cose al Santissimo Padre spetta decidere a favore della grazia.” Erano stati tutti d’accordo meno il futuro papa Corsini, il quale si era astenuto dal dire cogli altri “non esse locum privationi” – “non vi è luogo per la privazione della porpora” – limitandosi a lasciare Alberoni alla grazia pontificia. L’11 settembre 1723 il Segretario di Stato avvertì il nunzio a Madrid delle dimissioni presentate da Alberoni dalla cattedra di Malaga. Il 18 settembre Innocenzo XIII firmò il breve d’assoluzione e lo fece consegnare dal Segretario di Stato all’Uditore generale della Reverenda Camera Apostolica monsignor Prospero Colonna di Sonnino,113 il quale fece redigere il verbale di consegna. Ricordò Ottieri più di trent’anni dopo: “Sua Santità nel dì 20 di Dicembre dell’anno 1723, intimò il Concistoro. Per risparmiare la riputazione di Clemente XI, e mostrare, che non aveva ordinato farsi il processo criminale senza fondamento, Innocenzio disse brevemente; che d’alcuni delitti imputati al Cardinale Alberoni, egli s’era nel suo deposto purgato, e d’altri di minor peso contestati al medesimo, per li quali non aveva dato sufficiente sfogo, pareva proprio, attesa la contumacia osservata con modesto ritiro, l’esatto staggimento, e il riguardo che doveva aversi alla qualità del suo grado, ed alla condiscendenza d’alcuni Sovrani, che fosse bene di restituirlo nell’intera libertà, e onorificenza. Il santo discorso del Pontefice fu udito da’Cardinali con attenzione, e quasi tutti mostrarono d’esser persuasi della ragione, e convinti della savia risoluzione, che Sua Santità fece loro con misteriose parole capire d’aver presa. Era già steso il Breve, onde fu letto in 112

Erano stati sostituiti i cardinali Francesco Barberini; Fulvio Astalli, morto nel gennaio 1721 e Lorenzo Casoni, morto nel novembre del 1720. 113 Monsignor Cybo, per disaccordi con la Curia, dovuti all’insabbiamento di tutti i suoi tentativi di riforma della Camera Apostolica, aveva dato le dimissioni, ritirandosi nell’Eremo delle Grazie, non lontano da Spoleto, dove rimase fino al 1725, quando Benedetto XIII lo richiamò e lo nominò prefetto del Palazzo Apostolico. 192


Concistoro, ed essendo compreso nei termini, che dicemmo, il Cardinale Giulio Alberoni rimase in virtù del medesimo pienamente assoluto. Fu imposto perpetuo silenzio a quanto era stato detto, e prodotto contro di lui in tempo di Clemente XI, e del Regnante Pontefice, e diedesi ordine, che detto Processo, e Breve fossero posti e serrati in Castel Sant’Angelo, senza permettere a nessuno di leggerli.”CCLVII E meno male che fu ordinato così, perché a leggerli sarebbe saltato fuori più di qualcosa. “In altro Concistoro semipubblico tenuto a principio dell’anno 1724, Innocenzio onorò l’Alberoni del Cappello di Cardinale colle solite forme, e cirimonie, dopo le quali egli andò immediatamente all’amplesso di ciaschedun Cardinale, e sedé con essi in quella Eminentissima adunanza. L’affollamento della nobiltà, e de’ forestieri, accorsi per vedere la funzione, la rendette bella a’ riguardanti, i quali non si potevan saziare di fissare gli occhi, ora nel Papa giulivo, ed ora in quell’uomo vestito di Porpora, che aveva fatto dir tanto di sé in bene, e in male, nella prospera e nell’avversa fortuna. Curiosi furono i discorsi tenuti in Roma sopra lui, ma da tutti si conveniva, che il manto di San Pietro l’aveva salvato dalla persecuzione, e dal precipizio.”CCLVIII Il 12 gennaio 1724 papa Innocenzo in Concistoro Pubblico gli conferì il cappello cardinalizio e nel Concistoro Segreto del 14 febbraio “ei os clausit” – gli chiuse la bocca, cioè non gli concesse di parlare da cardinale,114 secondo la tradizione. Sarebbe toccato al suo successore Benedetto XIII aprirgliela, nel Concistoro del 12 giugno 1724, quando gli avrebbe dato l’anello ed assegnato la diaconia di Sant’Adriano al Foro Boario. Nonostante avesse ancora la bocca chiusa, uno dei primi atti di Alberoni consisté nell’annunciare la sua assoluzione al duca di Parma per mezzo del re Giacomo III d’Inghilterra, col quale era in ottimi rapporti fin da quando l’aveva sostenuto inviando truppe in Scozia nel 1718. L’avvertimento al duca di Parma era mellifluamente chiaro: “hai perso, per sempre; guarda chi ho alle spalle e non provarti mai più a toccarmi.” Francesco Farnese rispose all’uno e all’altro facendo finta di nulla. Fece bene, perché di lì a tre mesi, il 7 marzo 1724, morì il Papa e il 20 sera Alberoni entrò in conclave avendo come proprio conclavista il nipote, abate Alessandro Faroldi, figlio di sua sorella. Non fu mai fra i candidati, non ebbe nemmeno un voto,115 però, di nuovo nello Squadrone volante, svolse un ruolo di primo piano. Sventò una manovra del cardinale Annibale Albani, il cui candidato venne abbandonato subito, poi sostenne il cardinal Piazza finché non si rese conto dell’impossibilità di farlo vincere e passò ad

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Dopo la “creazione” del cardinale, cioè l’annuncio della scelta fatto dal Papa, vi sono ancora quattro atti successivi per perfezionare la nomina e conferire al nuovo porporato la pienezza della sua nuova dignità. Nel primo riceve la berretta rossa, direttamente dal Pontefice se si trova a Roma, altrimenti da un legato mandatogli appositamente, o da chi abbia il privilegio di farlo. Il secondo atto è quello del primo Concistoro pubblico in cui il nuovo cardinale riceve dal Papa il cappello rosso, segno dell’impegno a promuovere e difendere la Fede Cattolica nella sua integrità fino all’effusione di sangue – da lì il colore – ed al martirio. Nel seguente Concistoro il Pontefice “chiude la bocca” ai nuovi cardinali, ordinando loro che non presumano di parlare in qualsiasi adunanza finché, per consiglio dei confratelli, lui non giudicherà opportuno consentirlo. Infine nel terzo Concistoro, interrogati i cardinali “più provetti” sull’opportunità di farlo, procede all’apertura della bocca ai nuovi, colla formula “Aperimus vobis os tam in collationibus quam in consiliis atque in eletione summi Pontificis et in omnibus actis tam in Consistorio, quam extra, qui ad Cardinales spectant, et quos soliti sunt exercere, in nomina Patri +, et Filii + et Spiritus Sancti +; Amen” – apriamo a voi la bocca tanto nelle adunanze quanto nei consigli e nell’elezione del sommo Pontefice ed i tutti gli atti tanto in Concistoro quanto fuori che spettano ai Cardinali e che essi sono soliti esercitare, nel nome del Padre (segno di croce), del Figlio (segno di croce) e dello Spirito Santo (segno di croce); Amen – dopodiché si procede alla consegna dell’anello ed all’attribuzione del titolo cardinalizio; cfr. MERCANTI Francesco, Compendio di diritto canonico con illustrazioni Istorico-Dogmatiche, Prato, tipografia di Ranieri Guasti, 1832. 115 Così dice il padre Castagnoli, che alla fine degli Anni ’20 del Novecento controllò tutte le schede delle votazioni di quel conclave, ancora conservate negli archivi vaticani. 193


appoggiare il cardinale Orsini, arcivescovo di Benevento, il quale fu eletto all’unanimità il 30 maggio 1724, assumendo il nome di Benedetto XIII. Il 12 luglio il nuovo Papa assegnò ad Alberoni il titolo di Sant’Adriano in Campo Boario e, come abbiamo visto, si interessò della sua pensione spagnola, della quale, come scrisse a Filippo V, il Cardinale aveva bisogno, visto che le sue finanze non gli permettevano di mantenersi col decoro dovuto alla porpora. Sapendo quanti soldi avesse Alberoni, viene da strabiliare davanti ad una simile affermazione, però bisogna riflettere che Benedetto XIII era un sant’uomo, intelligente ma dotato d’un candore eccezionale, incapace di pensare che qualcuno, specie un ecclesiastico, potesse mentire. Una persona come lui era alla mercé del primo venuto appena appena un po’ furbo – e Alberoni certo lo era, però era onesto – e creta molle nelle mani d’un criminale come fu Niccolò Coscia, da lui fatto cardinale e prontamente scomunicato e incarcerato dal suo successore. Filippo V non era della stessa pasta di papa Benedetto. Sapeva benissimo quanto fosse ricco Alberoni e quanti suoi crediti stessero tornandogli lentamente in tasca dalla Spagna, perciò, senza entrare nel merito, gli negò la pensione, sostenendo che dopo la rinuncia non potesse avanzare alcuna pretesa. Scese in campo Giacomo Stuart e, essendo appena morto Acquaviva, propose a Filippo di nominare Alberoni protettore della corona di Spagna a Roma e di dargli una pensione di 15.000 scudi romani sulle rendite di Malaga; e non dimentichiamo che lo scudo romano era sostanzialmente pari al pezzo da otto. Stava davvero in acque così cattive Alberoni? E’ difficile dirlo, però è possibile. Al di là della sua contabilità generale o giornaliera, non sappiamo se avesse investito i suoi soldi o vivesse sul capitale. Se viveva sul capitale, considerando le spese legali, quelle di mantenimento e le altre per l’acquisto della vigna, poteva aver speso fino a 45.000 scudi romani nel periodo 1720-1724. Se invece aveva investito tutti gli oltre 200.000 scudi romani che dovrebbe aver avuto al suo arrivo a Roma, all’interesse massimo dell’epoca, intorno al 4,5%, ne avrebbe ricavato 9.000 scudi all’anno, solo 6.000 se al 3% come aveva fatto per lui Monti a Bologna, dei quali 1.200 necessari a pagare l’avvocato Ferrari. Gliene sarebbero restati da 4.800 a 7.800 all’anno, più che sufficienti a coprire qualsiasi spesa; però l’acquisto della vigna fuori di Porta Pia, sulla via Nomentana, da solo gli sarebbe costato le rendite – sempre ipotetiche, non lo dimentichiamo – d’un intero anno al massimo interesse, senza parlare delle cifre spese per la ristrutturazione, pari al triplo di quella d’acquisto. L’altro acquisto, d’un palazzo a Roma, invece gli avrebbe portato via da solo, senza tener conto delle ristrutturazioni e riparazioni, le rendite di altri tre anni. Se poi il suo capitale si fosse aggirato solo sui 100.000 scudi romani, l’incidenza su di esso delle cifre da lui spese sarebbe stata doppia. Sia come sia, i soldi non fanno mai male e, se gli spettavano, non c’era motivo di rifiutarli. Tralascio tutti i giri e raggiri, in cui fu coinvolto pure il duca di Parma, e mi limito a dire che Alberoni contava d’ottenere la pensione su Malaga, ne aveva avuto assicurazione dal Papa in persona e per questo motivo, sentendosi al sicuro, fece un paio di acquisti. Il primo nel Piacentino, a Castelnuovo Val Tidone, consisté in 91 pertiche di terreno116 costate 12.800 lire piacentine,117 come dono di nozze alla nipote, vedova del marchese Marazzani, la quale andava sposa al marchese della Penna. Poi, il 1° settembre 1725, il Cardinale comperò a Roma il palazzo menzionato prima. Pare fosse in cattive condizioni. Lo pagò 16.600 scudi. Era a Capo le Case, nel rione Trevi, ma non esiste più perché fu abbattuto nel 1928, quando fu ampliata via del Tritone.118 116

Pari a poco meno di sette ettari, esattamente a 69.343,6926 metri quadri. Pari a 731,42 scudi romani d’oro. 118 Preso in affitto nell’estate del 1722 dal marchese Giulio Buratti il palazzo accanto alla chiesa dell’Angelo Custode, Alberoni lo comprò nel 1725 per 16.600 scudi. Nei cinque anni seguenti spese 33.231 scudi per comprare ben quindici case vicine o adiacenti, tre delle quali dovette affrancare sborsando ancora 997 scudi nel 1726. Ne fece decorare alcune stanze e una sala da ricevimento dal pittore piacentino Gian Paolo Pannini, uno dei migliori del tempo. Quando il palazzo, poi proprietà della famiglia Bacchettoni, fu demolito, l’allora presidente del Senato del Regno, Tommaso Tittoni, fece staccare e trasferire al Senato le decorazioni di Pannini, mentre gran parte dell’arredamento alla morte del Cardinale e poi a quella di suo nipote monsignor Faroldi era stata venduta a Roma o trasferita a Piacenza al Collegio. 194 117


Alberoni pagò qualche migliaio di scudi per metterlo a posto e, comprese alcune migliorie alla sua vigna, si trovò ad aver speso oltre 30.000 scudi, poi comunicò al Papa d’esser pronto a rinunciare formalmente alla diocesi di Malaga, della quale era ancora ufficialmente titolare designato. Ricordò il marchese Ottieri: “La stima dell’assoluto Cardinale cominciò insensibilmente a risorgere, e poi a crescere non solo fra i Cardinali, ma ancora nei sommi Pontifici, poiché Benedetto XIII, gli diede benigne udienze, lo consacrò Vescovo di Malaga, e dopo la rinunzia fatta il posdomane del Vescovado, stando già d’accordo col Re Cattolico; impose due mila dobble di Spagna, da pagarsi ogni anno al medesimo dal Vescovo di residenza.”CCLIX Consacrato vescovo di Malaga il 10 novembre 1725, il 12 in concistoro il Cardinale aveva consegnato al Papa la sua rinuncia formale, in grazia della quale Benedetto XIII nominò monsignor Diego Toro y Villalobos ordinario della diocesi di Malaga, sulle cui rendite con un breve del 19 novembre, assegnò ad Alberoni una pensione non di 4.000 come scrisse Ottieri, ma di 10.000 scudi romani. Sarebbero stati anticipati ogni anno in due rate semestrali – una a San Giovanni e l’altra a Natale – dalla Reverenda Camera Apostolica, la quale avrebbe poi riscosso la stessa cifra dalla diocesi di Malaga tramite il nunzio in Spagna. Mentre la Reverenda Camera continuò a versare regolarmente le due rate, Malaga le rimborsò molto a fatica e mai puntualmente, tant’è vero che, quando nel 1743 Benedetto XIV ordinò di tirare le somme, risultò a tutto il 28 giugno di quell’anno un rimborso di 91.594 scudi e 31 baiocchi da Malaga a fronte dei 175.000 scudi versati ad Alberoni fino allora Per quel motivo papa Lambertini, nel pieno dei guai portati dalla Guerra di Successione Austriaca e ben conoscendo quanto il Cardinale fosse ricco, avrebbe ordinato di far smettere la compensazione alla Reverenda Camera, rendendolo, nonostante i di lui forti reclami, creditore diretto del vescovo di Malaga ed assegnando due anni dopo i saldi lentamente in arrivo dalla Spagna al vecchio Pretendente Giacomo Stuart, il quale nel 1745 aveva investito quasi ogni suo avere nella spedizione in Scozia di suo figlio, il Giovane Pretendente Carlo Edoardo, ed era in gravi difficoltà. Per aiutarlo, il Papa già prima, nel marzo del 1745, aveva decretato di devolvergli i 10.000 scudi della pensione di Malaga d’Alberoni dopo che fosse morto, sottolineando appunto: “ma deve morire prima il card. Alberoni”, poi, data l’urgenza delle necessità degli Stuart, aveva stabilito d’impiegare subito quei fondi.119 Non consta che Alberoni ne sia mai stato messo al corrente, ma c’è da credere che, se l’avesse saputo, sarebbe stato il primo ad approvare, tanta era la gratitudine per l’aiuto datogli dal Pretendente al tempo del processo e dopo. Torniamo agli Anni ’20. Dopo l’assoluzione, la conferma del cappello e l’assegnazione del titolo, cosa fece Alberoni? Il Papa non gli conferì alcun incarico apicale, però, oltre a impiegarlo in numerose congregazioni – di Propaganda Fide, delle Indulgenze, delle Immunità, della Segnatura di Grazia, della Consulta120 – 119

Lo spiegò lo stesso Benedetto XIV al cardinal de Tencin nella lettera del 13 aprile 1746, rip. in MORELLI (a cura), Le Lettere di Bendetto XIV, cit., vol. 1°, pag. 332. 120 Colla costituzione Immensa Aeterni Dei del 22 gennaio 1586 Sisto V aveva stabilito quindici congregazioni, tra cui alcune già esistenti che vennero riorganizzate, assegnando regole precise di funzionamento e “singulique certa negocia” – “e ad ognuna certi precisi affari.” Alcune dovevano occuparsi di materie ecclesiastiche, altre di affari temporali, civili, politici o militari. Le congregazioni, tutte presiedute da un cardinale, furono quelle dell’Inquisizione; della Segnatura di grazia; dell’Erezione delle chiese e dei provvedimenti concistoriali; dell’Abbondanza dello Stato Ecclesiastico; dei Riti e delle Cerimonie; Navale; dell’Indice dei libri proibiti; del Concilio di Trento; per sollevare dagli aggravi lo Stato Ecclesiastico; dell’Università degli studi di Roma; dei Regolari, dei Vescovi e degli altri Prelati; delle strade; dei ponti e delle acque; della stamperia vaticana e, ultima, la Congregazione della Consulta di Stato. Tutte dovevano lavorare riferendo al Papa, sola, ultima e suprema istanza decisionale. La politica, estera e interna, religiosa e laica, sarebbe stata condotta avanti da lui tramite la Segreteria di Stato, alla quale era preposto un altro cardinale. La Reverenda Camera Apostolica avrebbe fornito il denaro, raccolto dalle imposte dirette e indirette. A latere, il Papa poteva creare delle cosiddette Congregazioni particolari, formate da almeno tre cardinali nominati di volta in volta e incaricate di studiare una questione di qualsiasi genere, religiosa, amministrativa, politica, economica, per sottoporgliene entro breve tempo 195


dev’essersene servito come consulente e consigliere politico in materia estera. Me lo fanno pensare due elementi. Il primo è la citata frase d’Ottieri “Benedetto XIII, gli diede benigne udienze”; il secondo una frase apparentemente da nulla, in testa alla conclusione dei suoi lineamenti biografici pubblicati dopo la sua morte: “Quantunque egli paresse interamente ritirato dalle cose politiche, non lasciava di avere ancora molta influenza in quelle, che si trattavano in Europa. Aveva corrispondenza in tutte le Corti, e in tutti gli Stati della Cristianità. Gran ministri lo hanno spesso consultato, e siccome possedeva in un grado superiore l’arte delle combinazioni politiche, unita ad una profonda penetrativa, e ad un sano giudizio, prevedeva quasi sempre lo scioglimento dei grandi affari, ed era raro, che il successo non verificasse le sue congetture.”CCLX E’ il fatto che, come ho detto prima, Alberoni aveva un’esperienza ineguagliabile negli affari pubblici, relazioni personali estese in tutta Europa, sapeva tutto di tutti i potentati stranieri e un uomo così era un peccato non usarlo; solo che non lo si poteva fare in modo ufficiale, non gli si poteva conferire alcuna carica prettamente politica senza il rischio d’una levata di scudi generale, perciò bisognava adoperarlo in modo discreto, silenzioso ed ecco perché mi viene da pensare che le benigne udienze di Benedetto XIII possano aver toccato vari argomenti dei generi più diversi; però restarono ammantate dal tradizionale riserbo ecclesiastico. Per di più non siamo in grado di scoprirlo dalla corrispondenza del Cardinale, perché quella del periodo dal 1723 al 1740 e sparita. Riassumendo il risultato delle ricerche sue e di altri prima di lui, il padre Rossi, sottolineando che Alberoni aveva sempre conservato tutto, rimarcò alcuni aspetti. Il primo era che la corrispondenza di quegli anni poteva essere stata conservata a Roma o al Collegio. Nel secondo caso poteva forse essere andata distrutta nel corso della Guerra di Successione Austriaca, ma era assai improbabile, perché si era salvato quasi tutto l’archivio e non esisteva traccia che avesse contenuto anche quella. Era più plausibile che fosse rimasta a Roma, dove del resto doveva essere sempre stata, presumibilmente nel palazzo del Cardinale, o nella villa suburbana, però nemmeno lì pareva essere rimasto nulla, perciò argomentava Rossi, c’erano tre possibilità: che fosse stata distrutta dal Cardinale – molto improbabile, sempre per essere lui “un gran conservatore” – che fosse stata prelevata dalla Santa Sede subito dopo la sua morte per diritto di spoglio, nel qual caso sarebbe stata trasferita in qualche fondo dell’Archivio Segreto Vaticano o, a voler dar retta ad un’antica voce, che fosse stata prelevata da un inviato appositamente spedito dalla Spagna e presentatosi a chiederla. le proposte di soluzione e in questo libro ne abbiamo già viste alcune all’opera. La Sacra Consulta aveva funzioni amministrative e giudiziarie, interpretava le leggi, risolveva le controversie giurisdizionali, feudali ed amministrative, agiva come suprema istanza giudicante nei conflitti tra i Comuni ed i governatori delle città. Il segretario, alle dipendenze del prefetto, regolava fra le altre cose gli affari relativi alle deputazioni dei governatori e dei capitani di giustizia, o bargelli, di città e di campagna. La Congregazione della Segnatura di Grazia al tempo d’Alberoni, quindi nel quindicennio prima della riorganizzazione voluta da Benedetto XIV, esaminava le domande di grazia, cioè le istanze di deroga al’'applicazione della legge scritta e dipendeva direttamente dal Papa. La Congregazione per le Indulgenze non era fra quelle istituite da Sisto V, perché voluta da Clemente IX nel 1669 e vegliava sulla corretta applicazione ed osservanza del decreto tridentino De indulgentiis, del 1563, limitando gli abusi eventualmente introdotti dal Segretariato dei Brevi nel distribuire le indulgenze. Doveva inoltre confermare l’autenticità delle reliquie e fornire materialmente gli atti delle indulgenze concesse dal Papa alle varie chiese per certe festività. Dal principio del Secolo la Congregazione aveva iniziato a distribuire le indulgenze, arrogandosi un privilegio che le sarebbe stato ufficialmente riconosciuto da Benedetto XIV nel 1742. Un’altra congregazione non prevista da Sisto V era quella di Propaganda Fide, creata da Gregorio XV nel 1622 per occuparsi di tutto ciò che riguardava le Missioni e la propagazione della Fede. Infine nemmeno la Congregazione dell’Immunità era fra le quindici originarie, perché stabilita da Urbano VIII nel 1626 per esaminare ogni controversia relativa alla violazione della giurisdizione e dei privilegi ecclesiastici da parte dei tribunali laici, il che, in un periodo in cui non esisteva un codice di diritto canonico e ci si basava sui precedenti era un lavoro non da poco. Le sue competenze e prerogative al tempo d’Alberoni furono rinforzate e precisate da parti della costituzione apostolica Ex quo divina di Benedetto XIII dell’8 giugno 1725 e della bolla In supremo Iustitiae solio di Clemente XII del 1° febbraio 1734. 196


Tutt’e tre le possibilità sono plausibili. Resta il fatto che le lettere non ci sono, o non ci sono più, per cui non ne sapremo mai nulla e questa della cooperazione d’Alberoni colla Santa Sede e con altre corone come consulente politico internazionale è destinata a rimanere un’idea senza sostegno di prove documentali. Nel frattempo la sua condizione si era alleggerita di parecchio: il 26 febbraio 1727 Francesco Farnese era morto; con lui scompariva il suo più accanito avversario, uno che lo aveva sfruttato in tutti i modi pagandolo meno di niente e cercando di farne il capro espiatorio di tutte le sue iniziative fallite. Gli succedeva sul trono, per pochi anni ancora, il fratello Antonio Farnese, che trentatré anni prima, da principe, era stato accompagnato da monsignor Roncovieri in giro per l’Europa. Nel seguente anno 1728 il cardinale, ormai sicuro delle sue entrate, decise d’affiancare alla vigna sulla Nomentana ed al Palazzo a Capo le Case una tenuta in aperta campagna. Con rogito del notaio Sercamilli del 25 marzo 1729 comprò dal marchese Matteo Sacchetti il feudo di Castel Romano, cui erano collegati i titoli di barone e marchese. Era una trentina di chilometri a sud-ovest di Roma e Alberoni vi aggiunse un prato comperato dal marchese Mori, spendendo per i due acquisti un totale, pare, di 95.000 scudi romani. La tenuta abbisognava di parecchio lavoro per rendere qualcosa. Il Cardinale mise all’opera tre squadre di quindici operai ciascuna a spianare il terreno, ricavandone centinaia di carri di basalto – tavolozza – e di pozzolana, da lui adoperata per la costruzione del palazzo, della chiesa e dei rustici. Man mano che i lavori procedevano, venivano in luce mosaici, lastre di travertino e resti di tubature in piombo e destavano la curiosità dei lavoranti e della buona società, per cui lui poté scrivere al canonico Bertamini che il luogo era divenuto “la curiosità di questo paesaccio ozioso” e che: “Ieri l’altro furono a vedere la demolizione le Case Borghese, Panfili, et altre Nobiltà, con un treno di dieci carrozze, fra quali due tiri a sei… La tenuta sempre più comparisce bella, e vi è un gran Paese stato abbandonato, che lavorato può produrre molto. Questo è il linguaggio universale del Paese. Vedo però che vi vorrà non poco denaro e molta applicazione.”CCLXI Nel complesso le spese per Castel Romano ammontarono a 135.812 scudi. Dal resoconto inviatogli dal sovrintendente della tenuta il 2 ottobre 1743, sappiamo che c’erano vigne che producevano 200 barili di vino all’anno, 208 mucche, 64 vitelli, 44 buoi e capre, un’osteria data in affitto, un macello anch’esso in affitto, un forno, prati a fieno, pascoli e ovile e che il tutto forniva un guadagno netto di 2.904 scudi, pari ad un interesse del 2,13% e non tutti gli anni, ma a seconda dell’andamento dei raccolti. Considerando che un comodo investimento dello stesso capitale al 3% in luoghi di monte gli avrebbe dato 4.074 scudi, si comprende perché la nobiltà terriera del “paesaccio ozioso” preferisse lasciare incolta la terra, affittandola ai mercanti di campagna o agli allevatori per il pascolo. Investito in banca anziché in terre, il capitale rendeva di più e senza muovere un dito, pur se abbandonava la campagna alla malaria, di cui però non si conosceva l’origine per cui non la si collegava alla mancanza di coltivazioni. Comunque, pur se guadagnò un po’ meno di quanto avrebbe potuto coi luoghi di monte, Alberoni ricavò abbastanza, si proprietario d’un bellissimo palazzo, una chiesa, da lui intitolata alla Madonna Assunta, ed ebbe la soddisfazione d’aver sfruttato per bene un buon terreno agricolo organizzandovi una tenuta modello. Ma, mentre era occupato nelle sue attività, il 21 febbraio 1730 Benedetto XIII morì.

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Capitolo XXV Il Collegio Il 6 marzo 1730 cominciò il conclave ed Alberoni vi entrò la sera del 13: era il terzo della sua vita, non sarebbe stato l’ultimo e fu assai combattuto. Le votazioni si susseguirono nell’arco di quattro mesi e occorse attendere il 12 luglio per vedere tutti i voti convergere sul cardinale Lorenzo Corsini, “qui sibi nomen imposuit Clementis.” Come sappiamo, Clemente XII da cardinale aveva fatto parte della commissione incaricata di giudicare Alberoni ed era stato l’unico dei sette a non dire di lasciargli la porpora, però adesso aveva ben altro di cui preoccuparsi. Alberoni uscì dal conclave e riprese la solita vita, divisa fra le congregazioni, la cura dell’arredamento delle sue abitazioni, una raccolta di quadri e di libri sempre più grande e qualche scappata a Castel Romano. Nell’inverno del 1730-31 fu colto da febbri, probabilmente malariche. Si rimise solo in agosto e a novembre ripartì per Castel Romano. Non restò molto a riposo. Papa Corsini aveva molto da fare, intendeva rimettere ordine nelle istituzioni ecclesiastiche e nello Stato Ecclesiastico e lo convocò: aveva un incarico per lui, che ne diceva di tornare a Piacenza? La morte del duca Antonio Farnese aveva fatto cadere con una complicata vicenda politica i Ducati di Parma e Piacenza in mano a don Carlos di Borbone, il figlio di Filippo V ed Elisabetta Farnese che Alberoni aveva visto nascere nel gennaio del 1716. Mentre la successione di Parma e Piacenza si dipanava sotto la reggenza della duchessa vedova di Parma, Dorotea Sofia di Neoburgo, madre d’Elisabetta Farnese, il 30 ottobre 1730 era morto a Roma il cardinale Collicola, il quale era stato pure amministratore dell’Ospedale di San Lazzaro a Piacenza. Chi mettere al suo posto? Alberoni sapeva che razza di ginepraio fosse San Lazzaro e disse di no. Era un pasticcio tremendo, i ricoverati facevano i loro comodi, molti di loro erano delinquenti rifugiativisi per usufruire del diritto d’asilo e il parroco di San Lazzaro non riusciva nemmeno a farli entrare in chiesa. Occorreva qualcuno dalla mano ferma. Clemente insisté e alla fine Alberoni accettò, però mise delle condizioni: l’Ospedale così com’era non rispondeva più ai fini stabiliti dai fondatori, cioè il ricovero dei lebbrosi; se però si fosse continuato ad impiegarne le rendite per fare del bene, le volontà dei testatori e donatori sarebbero state rispettate. Quo modo? Come farlo? Il Cardinale propose al Papa d’abolire l’ospedale per convertirlo in un istituto di preparazione del clero diocesano di Piacenza. Commentò lo storico piacentino Francesco Giarelli: “E’ innegabile che il Cardinale volle dare al suo istituto un carattere veramente ecclesiastico, quantunque per qualche anno, esso possa servir di ricetto a giovani che si avviano non al sacerdozio, ma all’esercizio di professioni liberali. Ma non per ciò l’opera sua cessa di essere grande, specialmente se si consideri il secolo in cui egli le diede vita. quell’uomo che era stato arbitro dei destini d’Europa, che dalla Reggia di Madrid comandava a tanta parte di mondo conosciuto, aveva uno spirito troppo superiore per non ripiegarsi di tanto in tanto sovra sé stesso ripensando alle proprie peripezie di umile chierichetto: ed agli ostacoli frapposti ai giovani poveri per conquistarsi, collo studio, una onorevole condizione sociale. Poi, quello – e nessuno lo sapeva meglio di lui – era il secolo degli abati. Raffinare dunque il clero, innalzarlo dall’ignoranza in cui pur troppo vegetava, toglierlo dall’ignavia d’una posizione tapina – ecco senza dubbio alcuni fra gli ideali che inspirarono l’opera sua, e che contribuirono – né allora poteva essere altrimenti – a costituirgli un’indole di genere chiesastico.”CCLXII Clemente fu d’accordo. Il 13 luglio 1732 soppresse l’ospedale e costituì il collegio ecclesiastico di San Lazzaro con la prima delle sue due bolle Clericam vitam. 199


Il 28 agosto 1732, dopo oltre ventisei anni d’assenza, Giulio Alberoni tornò a Piacenza e si mise subito all’opera. Sgomberò l’ospedale dai ricoverati, dando una pensione vitalizia ad ognuno. Pensò d’erigere il nuovo collegio entro le mura urbane, sfruttando gli ampi e spopolati conventi di Sant’Anna dei padri Serviti o della Madonna di Loreto del Terz’Ordine Francescano, ma, davanti alle difficoltà sollevate, scelse la via più breve: distrusse il vecchio ospedale e nello stesso luogo iniziò la costruzione del nuovo istituto, pur essendo a circa due chilometri dalle mura d’allora. Le fondazioni vennero gettate già in settembre e fu un beneficio per i Piacentini, perché quello era stato un anno di carestia, non si trovava lavoro da nessuna parte e il Cardinale assunse una gran quantità di muratori, falegnami, manovali e carrettieri, diede da fare a fornaci, cave e fabbri e fece circolare abbastanza denaro da risollevare la paralizzata economia cittadina. La costruzione procedé spedita e, incredibilmente, senza progetto, perché Alberoni dirigeva i lavori sul posto e avendo tutto in mente; e infatti le piante furono fatte solo al termine dei lavori, nel 1739. L’opera fu temporaneamente interrotta nell’inverno 1732-33 e il Cardinale ne profittò per risolvere un problema. La Bolla aveva parlato di “Precettori i quali siano preti secolari bene eruditi nelle Sacre Carte, e nella parola di Dio scritta e trasmessa dalla tradizione”; lui però di adatti e liberi da impegni non riusciva a trovarne abbastanza da impiegarli nel collegio. La Bolla era vincolante, l’unico in grado di modificarla era il Papa perciò tornò a Roma a conferire con lui. Come risolvere la difficoltà? Propose al Pontefice d’affidare il collegio alla Congregazione della Missione di San Vincenzo de’Paoli. Era un’ottima scelta nella forma e nella sostanza. La forma era salva perché il breve di Alessandro VII del 12 settembre 1655 aveva aggregato la Congregazione al clero secolare. Quanto alla sostanza, tutti sapevano quanto bene i padri di San Vincenzo rispondessero ai fini istituzionali stabiliti dal loro santo Fondatore. Papa Clemente incoraggiò il Cardinale a parlarne subito al visitatore di Roma, il signor Bernardo della Torre, il quale nicchiò un po’, ma alla fine arrivò ad un accordo, articolato in otto condizioni scritte, da sottoporre preventivamente al Superiore Generale, senza il cui consenso non se ne sarebbe fatto nulla. Le condizioni erano molto pratiche. Occorrevano, diceva la prima, non meno di dodici fra Preti a laici della Congregazione – otto dei primi e quattro dei secondi – che potevano aumentare secondo i casi e le rendite disponibili. Dovevano rimanere uniti al Capo della Congregazione, sempre soggetti alla Visita prevista dalle regole e, nelle faccende spirituali e temporali del Collegio, alla correzione dei Superiori Maggiori, ai quali la terza condizione riservava la scelta e l’eventuale rimozione o sostituzione del Rettore e delle altre figure necessarie al servizio del Collegio stesso. La quarta dava al Rettore ed ai Padri “Ufficiali scelti pro tempore” la piena amministrazione del Collegio, della quale, ogni volta che se lo fossero sentiti chiedere, avrebbero reso conto ai Superiori Maggiori ed al cardinale Alberoni, senza il cui consenso – quinta condizione – né i Superiori Maggiori, né il Rettore potevano alienare, distrarre, mettere a pegno o permutare i beni, i capitali o le rendite del Collegio, ma solo custodirli e migliorarli a vantaggio e beneficio del Collegio stesso. Sesta: nelle cose temporali e spirituali relative al Collegio, il Rettore, gli Ufficiali e i Superiori Maggiori dovevano riconoscere l’autorità e superiorità del cardinale Alberoni e dei suoi successori, colla stessa sottomissione professata verso gli Ordinari nelle cui diocesi si trovavano le Case della Missione. Alberoni ed i suoi successori potevano domandare la rimozione e sostituzione del Rettore e degli altri a servizio del Collegio, degli alunni convittori e degli ordinandi ove ne avessero riscontrato deficienze o colpe. Se la Congregazione avesse rifiutato senza un motivo ragionevole, avrebbero potuto farlo di propria autorità. La settima condizione stabiliva che il Rettore ed il personale del Collegio restassero aggregati alla Provincia Romana.121 L’ultima consentiva ai Superiori Maggiori di emanare ordini e statuti nel temporale e nello spirituale riguardo al modo di vivere, agire e conversare nel Collegio, con facoltà 121 La Congregazione della Missione è, come molti ordini religiosi, articolata in Provincie. In Italia ne ha tre: Provincia Italica Napolitana, Provincia Italica Romana e Provincia Italica Taurinensis, con le rispettive sedi ovviamente a Napoli, Roma e Torino. 200


di modificarli secondo le necessità, previa notifica ed approvazione da parte del Cardinale e dei suoi successori, come se fossero state approvate dal Papa in persona. Inviate le condizioni a Parigi, il Superiore Generale signor Jean Bonnet le approvò e il 5 febbraio 1733 fu pubblicato il breve In Apostolicae dignitatis fastigio. Con esso Clemente XII ribadiva la soppressione dell’ospedale di San Lazzaro, ne sanciva la conversione in Collegio, l’assegnava ai Padri della Missione, riportava le otto condizioni una per una, ordinava che da quel momento nessuno nella città e diocesi di Piacenza fosse assunto ai Sacri Ordini senza almeno dieci giorni d’esercizi spirituali nel Collegio e senza essere stato istruito di come “degnamente ricevere ed esercitare i Sacri Ordini”, riportandone al proprio vescovo “le Lettere testimoniali dei Preti della detta Congregazione” e, infine, stabiliva che gli alunni del nuovo istituto andassero preferiti coeteris paribus nel conferimento di benefici ecclesiastici con cura d’anime e specialmente per quelli che “si conferiscono per concorso, quando vi siano parità di suffragi e di meriti, e purché siano altrimenti idonei.” Nella primavera del 1733 Alberoni tornò a Piacenza a seguire la prosecuzione dei lavori col signor della Torre, il quale si accorse d’un inconveniente. Le otto condizioni partivano dal presupposto che dopo la morte d’Alberoni il Collegio sarebbe stato dato in investitura come beneficio ecclesiastico solo a dei presbiteri, ma non era necessariamente così, perché, dipendendo dalla Dataria Apostolica, la Commenda di San Lazzaro, come continuava a chiamarsi, poteva capitare pure a un laico. Si potevano sottomettere i Padri ad un laico quanto allo spirituale? Ovviamente no, ma come uscirne? Alberoni concordò: era necessario un emendamento e a fine anno tornò a Roma a parlarne al Papa. Clemente XII trovò giuste le osservazioni del signor della Torre e il 14 gennaio 1734 emanò la seconda Clericam Vitam, in cui confermò la precedente, regolò meglio l’accesso degli alunni ai corsi di Teologia Scolastica e Teologia Morale ed eliminò dall’amministrazione temporale e spirituale del Collegio i successori del Cardinale, riservandole ai Padri della Missione. Ottenuto questo risultato, il Cardinale tornò a Piacenza per completare la costruzione. Fu sostanzialmente terminata nel 1734: risultò un quadrilatero con un cortile interno e centotrentasei stanze da letto distribuite su tre lati, mentre il quarto ospitava le aule e le sale di ricreazione. Refettorio, cucina e annessi erano al pianterreno del lato nord. Vicino al Collegio erano stati costruiti un fabbricato ad est contenente il forno, il macello, le scuderie, le rimesse, le officine e la legnaia; uno ad ovest in cui erano la farmacia e l’infermeria, cogli alloggi del farmacista e del medico. A sud si stendevano un orto e un frutteto, circondati da un muro. Il Cardinale dall’11 marzo 1731 aveva iniziato a godere d’una parte delle rendite dell’ospedale passate al Collegio, mentre dal settembre del ‘32 le avrebbe ottenute tutte. Erano 18.000 lire piacentine all’anno, da lui regolarmente reinvestite in immobili,122 così da lasciare alla sua morte il Collegio ben dotato e in una splendida costruzione, che però, a differenza dell’istituzione da essa ospitata, avrebbe avuto vita breve, si e no dieci anni. Questa fu l’opera a cui Alberoni tenne di più in tutta la sua vita e che sentì come sua e come ragione della propria esistenza, l’opera alla quale da quel momento dedicò ogni cura finché visse.

122 Con rogito del notaio piacentino Angelo Maria Flaminio Guarinoni dell’8 giugno 1733, Alberoni comprò per 40.000 lire piacentine (pari a 2.285,71 scudi romani) un pezzo di terra prativa di 80 pertiche, 22 tavole e 6 piedi di Piacenza – pari a circa 65.000 metri quadri, cioè a sei ettari e mezzo, dotato di 24 ore d’acqua ogni quindici giorni, usando le acque del Torrente Rifiuto. Sempre facendo rogare al notaio Guarinoni, nel 1734 comprò nel Comune di Pittolo le tenute Santa Franca di 794 pertiche e Pellegrina, di 900, pagandole rispettivamente 272.000 e 230.000 lire (pari a 28.685,71 scudi romani). Acquistò nel comune di Sant’Antonio nel 1736 il podere Casa Nuova di quasi 1.000 pertiche per 210.000 lire, nel 1737 la tenuta delle Banche di 600 pertiche per 185.000 lire e nel 1738 un’altra tenuta di 400 pertiche per 64.000 lire. Subito prima dello scoppio della Guerra di Successione Austriaca, nel biennio 1740-41, il Cardinale comprò altre 271 pertiche divise in due fondi adiacenti alle Banche e le pagò 142.000 lire; e nel Comune di Fossadello prese il fondo di 640 pertiche detto Sabbioncello per 105.000 lire con altre 100 pertiche adiacenti al collegio per 64.400 lire. 201


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Capitolo XXVI Legato di Romagna nella Successione Polacca Alberoni aveva finito di riorganizzare San Lazzaro, tramutandolo in un collegio ecclesiastico da cui sarebbero usciti ottimi e preparati sacerdoti, molti dei quali divenuti vescovi e non pochi cardinali, e adesso si poteva lasciarlo inattivo? Certo che no. Cosa sapeva fare? Governare? Bene, c’era giusto qualcosa da fare per lui. “Da Clemente XII, il quale desiderava di rimettere in buono stato la Romagna, fu Alberoni pregato, e forzato nell’anno 1735 d’andarvi in qualità di Legato. Egli corrispose all’aspettativa, che si aveva di lui, nel governare dispoticamente i popoli con giustizia, e con levare molti abusi e ladronecci de’Ministri, e con avere introdotto in più modi il commercio nella Provincia, secondando il gusto, e il desiderio del Pontefice, il quale per tale ragione pensò a lui: specialmente con fine, che essendo Alberoni uomo esecutivo e capace, terminasse il lavoro, per cui Sua Santità aveva dato in principio scudi cinquanta mila, acciocché si facesse il taglio de’ due grossi torrenti detti Montone e Ronco, perché fosse libera la Città di Ravenna da restare tra pochi anni allagata, e sommersa nel crescimento, e nella piena de’suddetti due fiumi, che la dominano.”CCLXIII Bella sintesi: adesso lasciamo da parte il marchese Ottieri ed entriamo nei particolari. Era già spirato da oltre un anno il triennio di legazione del cardinal Massei in Romagna quando papa Clemente chiese ad Alberoni d’andarci e intanto, il 19 gennaio 1735, fece comunicare a Massei l’imminente e sospirata sostituzione. Massei fu molto contento; Alberoni per niente e chiese di non andare. Clemente insisté – e non bisognava scordarsi il voto dell’ubbidienza – perché occorreva una persona decisa e autorevole per rimettere in riga i Romagnoli ed eseguire i lavori idraulici di cui Ravenna aveva urgente bisogno, dunque Alberoni accettò. Ebbe pure “ogni più ampia facoltà eziandio contro gli ecclesiastici tutti, secolari e regolari, contro li patentati e privilegiati, benché degni di special menzione.”CCLXIV A questo il Papa gli aggiunse la promessa a voce che i ricorsi a Roma non sarebbero stati ammessi e “che negli affari di Legazione non avrebbe avuto alcuna dipendenza né da Congregazioni né da altri.”CCLXV Alberoni si fidò e a fine febbraio partì per Ravenna. La nomina spaventò i Romagnoli. La sua fama era tremenda: si diceva che non vi fosse scampo per chi gli si opponeva. Cosa stava per trovarsi davanti il Cardinale? Occorre l’ennesima digressione. Come ho accennato all’inizio del secondo capitolo, lo Stato Pontificio in quanto tale non è mai esistito prima di Napoleone, perché non s’è mai avuto uno Stato del Papa centralizzato fino alla Restaurazione e dopo ha avuto una vita travagliata e non molto lunga. Di conseguenza, specie per il periodo di Alberoni, è più corretto parlare di Stati Pontifici, al plurale, o, meglio ancora, di Stati del Papa, nel senso di entità dalla sovranità più o meno affievolita, raggruppate in qualcosa di simile a un’unione personale sotto il Papa. Le condizioni degli Stati del Papa erano piuttosto strane, almeno secondo i canoni dei secoli XX e XXI. Pur essendo sostanzialmente omogenee, le leggi civili e penali variavano da luogo a luogo, perché erano temperate o affievolite dai privilegi della città, del feudo, o della comunità, che all’atto della dedizione, o dell’incorporazione, potevano aver conservato tutte o in parte le antiche strutture di autogoverno, più o meno svuotate di potere, oppure potevano aver ottenuto alcune facilitazioni, autonomie ed esenzioni dopo, a volte molto dopo, l’incorporazione alla Chiesa. Gli ecclesiastici avevano un foro separato – e fin qui non ci sarebbe da stupirsi – tanto per le materie religiose, quanto per quelle civili e penali. Bisognava però vedere chi esattamente rientrasse 203


nella giurisdizione ecclesiastica, perché molti laici123 al servizio della Chiesa vi erano compresi e perciò erano ipso facto sottratti alla giurisdizione laica ordinaria. L’amministrazione civile a Roma aveva degli ecclesiastici ai propri vertici, però non ne aveva necessariamente nelle città e “comunità” degli Stati del Papa e, ad ogni modo, era del tutto separata da quella ecclesiastica e ad essa parallela. Entrambe dipendevano dal Papa, ma come i due lati che s’incontrano al vertice d’un triangolo. Di conseguenza in una città, come ad esempio Bologna, che cito perché Alberoni vi fu destinato come legato dopo la Romagna, il cardinale arcivescovo aveva competenza esclusivamente sugli affari ecclesiastici e il legato pontificio, sempre almeno un vescovo e spesso pure lui un cardinale, l’aveva su quelli civili, ai quali era preposta però l’amministrazione urbana, che a Bologna era capeggiata da un Senato, composto inizialmente da quaranta membri di altrettante famiglie nobili cittadine, e da un gonfaloniere, eletto per due mesi fra i senatori. In definitiva il cardinale arcivescovo rispondeva al Papa in quanto suo sottoposto ecclesiastico, il cardinal legato rispondeva al Papa in quanto suo sottoposto amministrativo temporale; e il Senato di Bologna rispondeva al Legato, ma comunicava col Papa tramite il proprio ambasciatore a Roma. A latere esistevano un tribunale laico civile e penale, un tribunale ecclesiastico per i reati ricadenti nella sfera ecclesiastica, che, come ho accennato prima, comprendeva pure quelli fatti dai laici dipendenti dalla Chiesa o contro di loro e un tribunale dell’Inquisizione, con a capo un inquisitore – di solito un domenicano o un francescano – che non era un vescovo, ma aveva dei poteri più temuti di quelli d’un vescovo. Attenzione a un aspetto non secondario: quando parlo di giurisdizione ecclesiastica e di reati ricadenti nella sfera ecclesiastica intendo dire una cosa diversa da quanto si supporrebbe. Mentre dall’Ottocento in poi sarebbe stata sempre più la natura del reato a decidere quale giurisdizione dovesse occuparsene, a quell’epoca la giurisdizione era decisa in base al reo. Se era un chierico, poteva aver rubato, ucciso o fatto chissà cosa, ebbene: la competenza era esclusivamente delle giurisdizione ecclesiastica e, non dimentichiamolo, i laici legati alla Chiesa da un rapporto di dipendenza di qualsiasi genere, dai famigli dell’Inquisizione al lacché del vescovo, passando per il sacrestano della parrocchia e i braccianti delle terre d’un monastero, erano tutti sottoposti esclusivamente alla giurisdizione ecclesiastica e contro di loro quella civile non poteva fare assolutamente nulla, ecco il motivo della promessa papale di dare ad Alberoni “ogni più ampia facoltà eziandio contro gli ecclesiastici tutti, secolari e regolari, contro li patentati e privilegiati, benché degni di special menzione”, la quale lo metteva in grado d’agire pure contro i chierici. La commistione fra chierici e laici era ulteriormente complicata dai diritti della nobiltà. Ve n’erano di scritti e non scritti, tutti ugualmente codificati – i primi dalle leggi, i secondi dall’uso – e scrupolosamente rispettati. I nobili sapevano cosa potevano fare e fin dove potevano spingersi. Un nobile normale poteva agire a suo piacimento purché rispettasse almeno esteriormente i precetti della Chiesa e non ne sfidasse la gerarchia. Se riusciva a mettersi sotto la protezione d’un sovrano straniero, aveva già molta più libertà d’azione; se aveva la fortuna d’essere parente d’un cardinale ne era ancor più avvantaggiato e, infine, se il parente cardinale era fatto Papa, l’impunità era assoluta e garantita; e tale la situazione, con una pausa nell’ultimo quarto del ‘500 sotto San Pio V e Sisto V, sarebbe rimasta fino a Benedetto XIV, eletto nel 1740. Questo era il quadro che Alberoni sapeva d’aver davanti in Romagna e queste alcune delle difficoltà che sapeva di dover affrontare. Il passaggio di consegne con Massei avvenne il 28 febbraio. Si incrociarono a Rimini. Massei stava recandosi nella sua arcidiocesi d’Ancona quando si incontrarono e la situazione che gli descrisse non differiva praticamente in nulla da quella del resto dello Stato Ecclesiastico: abusi da parte di 123

Va ricordata una cosa che la distorsione del linguaggio a fini politici a partire dall’ultimo quarto del XX secolo ha confuso. Un laico non è un ateo, o un agnostico; un laico è un credente e un cristiano che non ha pronunciato i voti maggiori e non appartiene ad un ordine religioso, quindi tutti i cristiani sono laici e quanti si dichiarano laici nel senso di ateo o agnostico distorcono artatamente la parola e il suo significato. 204


nobili, amministratori e borghesi ben piazzati; conseguente malfunzionamento della giustizia e dell’amministrazione, il che, fra l’altro, aveva implicato il rallentamento, anzi, la stasi, dei lavori idraulici per mettere Ravenna al riparo dalle inondazioni. Infine il peggio: era in corso la Guerra di Successione Polacca e in Italia si combatteva. Don Carlos di Borbone con un esercito spagnolo aveva conquistato Napoli nel ’34 proclamandosene re e ora, nel 1735, stava preparandosi ad invadere pure la Sicilia. Nella precedente estate del 1734 gli Austriaci avevano tentato di riprendere Napoli, muovendo un esercito verso sud, per traversare il Po e scendere lungo l’Adriatico, passando cioè per le Legazioni emiliane, romagnole e per le Marche, ma erano stati fermati e ripetutamente battuti in Emilia dalle truppe francesi e piemontesi alleate alla Spagna. Questo significava che, per quanto neutrale, lo Stato Ecclesiastico era soggetto al passaggio e allo stazionamento di tre eserciti, con in prospettiva l’arrivo d’un quarto, quello spagnolo, appena avesse finito in Sicilia. In un periodo dei guerra – e Alberoni lo sapeva benissimo da più di trent’anni – la presenza dei militari implicava la spoliazione del territorio fino all’ultimo filo di paglia per nutrire uomini e cavalli, senza che le truppe pontificie potessero farci nulla per motivi politici. Ammesso pure che ne avessero avuto la forza – e non l’avevano, perché in tutta l’Emilia e la Romagna c’erano si e no 1.500 regolari – se appena appena avessero reagito sarebbero subito piovute su Roma le minacce di scisma e il Papa avrebbe piegato la testa, pur di salvare l’unità della Chiesa, per cui Alberoni sapeva di non poter usare le maniere forti. Decise di cominciare subito e dall’ostacolo principale. Il maresciallo duca de Broglie, comandante le forze francesi, aveva intimato da tempo alla Comunità di Imola di fornirgli mille carri di fieno. Massei ne aveva informato il segretario di Stato Firrao il 2 febbraio. La questione era restata in sospeso fino all’arrivo d’Alberoni. Sapendo con chi aveva a che fare e come trattarlo, Alberoni scrisse a Broglie che si scordasse di ricevere dalla sua Legazione più foraggio di quanto gliene si potesse dare senza pregiudicare il mantenimento del bestiame. A stretta volta di corriere, Broglie il 5 marzo ripeté minacciosamente la sua richiesta. Alberoni, conscio della debolezza della Santa Sede, cercò d’aggirare l’ostacolo e fece mandare cento carri di fieno. Il brigadiere francese Chillois, comandante le truppe accantonate ad Imola, scrisse ad Alberoni di volerne ancora. Il Cardinale s’impuntò. Il 12 marzo scrisse una lettera piuttosto secca a lui e il 16 pure a Broglie, ricordando che pretendeva d’essere trattato da cardinal legato e aggiungendo di non insistere troppo, perché erano nelle terre del Papa, del quale un giorno Versailles avrebbe potuto avere molto bisogno. Mentre si accapigliava per lettera coi Francesi, aveva iniziato a sfornare disposizioni per rimettere in sesto il trascuratissimo ordine pubblico. Il 5 marzo, giorno della risposta di Broglie, apparvero i primi bandi: proibizione di porto di armi da fuoco, con un’aggravante se erano portate cariche nei luoghi chiusi; proibizione di conventicole e adunanze di persone fra le quali ce ne fossero più di tre armate; poi, il 10, ordine ad osti e bettolieri di chiudere bottega tre ore dopo il tramonto, sotto pena di tre tratti di corda124 ai contravventori. Seguirono i bandi dell’11 marzo e del 9 aprile 1735, ribaditi ed ampliati da quello del 1° giugno e poi da altri l’anno seguente, regolanti le fiere, la caccia, il carnevale e i divertimenti pubblici, sostenuti da quello del 12 marzo 1735 – nemmeno due settimane dopo l’ingresso in Legazione – sulla detenzione e porto di coltelli “serratori”, cioè a serramanico, “di lunghezza maggiore di tre

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Il tratto di corda era una pena assai dura, benché non mortale. Si legavano al reo i polsi dietro la schiena con un nodo robusto. Al nodo si uncinava una fune, pendente da una carrucola o da un argano su un’impalcatura, poi il boia e i suoi aiutanti la tiravano. I polsi salivano immediatamente fino a tendere le braccia sopra la testa e, ovviamente, le spalle si slogavano. Il condannato, con le spalle slogate, veniva innalzato, sempre appeso ai polsi, fino all’altezza della carrucola e poi calato a terra. Questo era un tratto di corda, uno solo. Tre tratti di corda significava ripetere altre due volte questa operazione. Quando toccava terra l’ultima volta, il reo veniva immobilizzato e il boia gli girava le braccia per rimettere a posto la slogatura mentre gli si dava un forte pugno sul plesso solare per attutire il dolore. 205


quarti d’un palmo di Canna Mercantile romana,125 sotto pena della galera126 per sette anni, da estendersi fino alla perpetua a nostro arbitrio.”CCLXVI I birri127 ebbero ordine tassativo di far eseguire le disposizioni e si misero alacremente all’opera, mentre Alberoni ricontrollava tutti i processi in corso nei tribunali della Legazione. Si accorse che la giustizia funzionava male e piano, sia nell’istruttoria, sia nell’esecuzione delle condanne, per cui molti stavano ancora in carcere in attesa della conclusione dell’inchiesta o del giudizio e parecchie condanne a morte non erano state ancora eseguite dopo mesi od anni. Andò per le spicce: i condannati a morte furono tutti immediatamente giustiziati nelle città teatro dei loro crimini; le inchieste in corso terminate e i processi in sospeso pure, col rilascio o la condanna definitiva degli interessati. L’effetto fu immediato: la criminalità diminuì sensibilmente e durante la Legazione di Alberoni non fu più commesso alcun reato passibile di pena di morte. Tanto faceva alla plebe, altrettanto ai nobili, come dimostrò fin dall’aprile del ’35 il caso del cavalier Morattini dell’Ordine di Malta, al quale nessuna delle protezioni messe in moto, pure a Roma, poté evitare la condanna per aggressione e percosse ai danni d’una donna non nobile, che non aveva voluto cedergli il posto su una panchina pubblica in una piazza di Forlì. Appellatisi al Papa, i suoi protettori si sentirono rispondere che “l’affare stava in buone mani, stando in quelle d’Alberoni.”CCLXVII I funzionari di ogni grado ebbero delle severe strigliate, a partire dal Governatore di Forlì, Biancoli, prima richiamato per aver chiuso gli occhi sul caso Morattini, poi sospeso e infine incarcerato e privato dell’incarico per aver continuato le sue parzialità in favore dell’aristocrazia.

125 La Canna Mercantile romana, più corta di quella architettonica, era lunga poco meno di due metri, esattamente 1,991897 metri, e si divideva in otto palmi, ognuno dei quali precisamente di 24,8987 centimetri, per cui una lama di tre quarti di palmo non eccedeva i 18,68 centimetri, comunque più che sufficienti a mandare chiunque al Creatore. 126 La pena della galera – parola poi divenuta sinonimo di prigione – in origine e fino al primo Ottocento non indicava il carcere e si chiamava così perché il condannato era spedito a remare sulle galere, cioè sulle navi a remi della squadra pontificia. Le galere avevano un equipaggio di marinai veri e propri, addetti alla manovra, e una ciurma di rematori, i quali erano criminali condannati, come in questo caso, o prigionieri di guerra, in massima parte mussulmani, e infine volontari, detti “Buonavoglia”. Secondo le dimensioni, a una galera servivano da 200 a 400 rematori, che venivano incatenati al banco e ci restavano notte e giorno: mangiavano là, dormivano là e facevano là tutto il resto, tanto che la puzza d’una galera si sentiva tranquillamente fino a 200 o 300 metri di distanza pure senza vento. Le loro condizioni di vita erano dure: il cibo sostanzioso, ma monotono e non buono, la fatica durissima e le navi piene di cimici e pulci da cui i rematori non potevano difendersi. L’unico riparo dal sole o dalla pioggia era un tendone che veniva tirato di tanto in tanto e, in caso di combattimento, non solo i rematori non avevano protezione, ma spesso andavano a picco con tutta la nave perché erano incatenati. Nel periodo invernale, detto dello sciverno, in Mediterraneo non si navigava – il mare era troppo pericoloso – per cui i rematori restavano in porto, sempre sulla nave o rinchiusi nel bagno penale. Un po’ per la distanza da Civitavecchia, base della marina pontificia, un po’ per il ridotto numero delle galere papali e dunque dei rematori necessari, le condanne emesse da Alberoni in Romagna furono scontate sulla flotta veneziana. I condannati venivano scortati a Chioggia dai Pontifici, consegnati ad un ufficiale superiore veneto dietro regolare ricevuta ed imbarcati sulle galere veneziane per tutta la durata della pena inflitta dal giudice papale; e ci sono varie sentenze approvate da Alberoni in cui è scritto di suo pugno in Latino che il reo è condannato ad remigandum contra Turcos, cioè a remare contro i Turchi, dunque sulla flotta veneta. 127 I birri, o sbirri, così chiamati – pare – per via del mantello rosso vestito nel Medioevo, erano gli agenti di polizia civile degli antichi Stati ed esistevano in tutta Italia, dove però il colore distintivo delle forze di polizia sembra essere stato il verde. Erano organizzati per città e dipendevano dal bargello di città. Di solito esisteva pure un bargello di campagna coi propri birri, i quali avevano giurisdizione sul territorio extra-muros; inoltre ne potevano esistere pure di vescovili e di feudali, dipendenti rispettivamente dall’ordinario diocesano e dal feudatario. Accanto ai birri ed alle forze dei bargelli di città e di campagna, lo Stato Ecclesiastico aveva pure dei corpi militari di polizia. Il più noto era quello, delle “Compagnie in luogo de’Corsi”, dette anche “de’Bianchi”, dal colore prevalente nella loro uniforme, sparsi in tutto il Lazio, l’Umbria e le Marche; un altro la Compagnia dei Cacciabanditi a cavallo o de’Carabini Rinforzati, dal 1603 al 1797 a disposizione del Legato di Bologna. Questi reparti militari di polizia. che oggi definiremmo di gendarmeria, erano preposti al servizio di polizia extraurbano e a sostenere gli sbirri in città. Erano militari a tutti gli effetti, con uniforme e una loro bandiera, inquadrati regolarmente da ufficiali, sottufficiali e graduati di truppa, armati, mantenuti e pagati dalla Reverenda Camera Apostolica. Infine, per la loro guardia personale, i Legati disponevano di alcuni soldati svizzeri, distaccati dalla Guardia Svizzera Pontificia di Roma. Alberoni al suo arrivo ne trovò quattordici a Ravenna e, come vedremo, li aumentò a trenta. 206


Come nel caso Morattini, pure qui vi furono delle pesantissime interferenze romane, alle quali di nuovo tagliò corto il Papa, dando via libera ad Alberoni, che terminò il procedimento condannando Biancoli alla privazione dell’incarico. Infine furono vietati gli abiti e gli ornamenti troppo lussuosi e il gioco d’azzardo, senza ammettere eccezioni. Un gruppo di nobili faentini sorpreso a giocare nel palazzo pubblico di Faenza finì in carcere al completo. Forse esagerando un po’, nell’ottobre del 1735 Alberoni, compiaciuto, descriveva così la situazione al conte del Benino: “Resta, grazie a Dio provveduto alla quiete di questa Provincia e vi è uno spavento a non potersi concepire, con gran contento de’buoni che vedono non esservi più né prepotenze, né soperchierie. Ogn’uno vive sicuro della sua vita e della sua robba; questi giudici criminali dicono possono aprire bottega d’arte bianca, perché non arriva al loro tribunale una sola querela.”CCLXVIII L’accentramento amministrativo colpì pure gli abusi incancrenitisi nel tempo come quello dei Pacifici di Forlì, al quale il Cardinale poté mettere rimedio solo nell’autunno del ‘37. Le regole pontificie obbligavano i Legati a compiere una visita d’ispezione amministrativa in tutto il territorio della Legazione almeno una volta durante il loro mandato. Il Cardinale non riuscì a farla prima del 1737, essendo stato impedito prima dal dover riordinare Ravenna, poi dai problemi dovuti agli acquartieramenti imperiali nell’inverno del ’35 – ’36 e infine dagli scontri giurisdizionali coll’arcidiocesi e l’Inquisizione, dei quali parlerò dopo. Di conseguenza, solo nel 1737 Alberoni poté iniziare la visita amministrativa e cominciò da Forlì, città da cui aveva avuto petizioni e lamentele a non finire. L’origine degli attriti andava ricercata nella Magistratura detta Pia Congregazione del Sacro Numero dei Novanta Pacifici.128 Istituita da Paolo III nel 1540, su istanza del Legato monsignor Guidiccioni, per porre un freno alla tracotanza dei signori locali ed alle loro violente lotte intestine, quella dei Pacifici era a tutti gli effetti una magistratura di primo grado. Aveva competenze assai limitate, comprese quelle di polizia locale e controllo dell’ordine pubblico, per le quali era dotata d’una sua forza armata, mantenuta grazie ad un proprio bilancio, a sua volta alimentato da imposte pagate dalla popolazione. Decaduta nel corso del secolo XVII, nel primo quarto del XVIII era ulteriormente peggiorata ed aveva toccato il fondo durante l’acquartieramento imperiale. Come poi riferì Alberoni a Roma, i Pacifici avevano sempre approfittato della carica per esentare da parecchie imposte se stessi e le loro famiglie, arrivando al peggio quando, nell’inverno 1735-36, per pagare i quartieri agli Austriaci, avevano stabilito nuove tasse. Queste avevano gravato sulla parte meno abbiente e meno rappresentata della popolazione, mentre i ricchi, praticamente tutti compresi nei Novanta Pacifici, fatta incetta dei beni di consumo, li avevano venduti a carissimo prezzo al Comune, il quale li aveva pagati coi soldi delle imposte speciali. Trattandosi di gente navigata, i Pacifici avevano aspettato l’assenza d’Alberoni da Ravenna per rivolgersi all’Uditore di Nunziatura, ottenendo da lui la ratifica dei provvedimenti presi. Iniziata la visita amministrativa a fine estate del 1737, il Cardinale, già insospettito dalle numerosissime lagnanze ricevute, trovò, parole sue, “questo popolo furioso e disposto a una sedizione e senza il mio arrivo in Forlì sarebbe seguita.”CCLXIX

128 Le relative carte sono custodite nell’Archivio di Stato di Forlì, fondo “Antichi Regimi”, Sacro Numero dei Novanta Pacifici. Magistrature analoghe erano presenti nelle altre città della Romagna, fra cui Cesena, dove esisteva un’altra congregazione dei Pacifici, i quali però erano solo ottanta. Le congregazioni sparirono tutte nel periodo Napoleonico. 207


Mise poco a capire quanto accadeva ed a rimettere ordine. Emanò un editto di ridistribuzione dei carichi fiscali sul terratico, i censi, i cambi ed altri beni stabili secondo quanto si faceva nelle altre città romagnole, abolì la guardia e ne riusò i soldi per aumentare i suoi Svizzeri a trenta.129 Ovviamente i nobili forlivesi ricorsero ai loro parenti, amici e protettori in Curia a Roma. Nacque il solito vespaio di polemiche, per cui Alberoni ebbe una lettera del Segretario di Stato il quale, a nome del Papa, chiedeva spiegazioni. Le mandò ma, fra un ricorso e l’altro dei Forlivesi, i quali protestavano che solo il Papa e non un Legato potesse sopprimere la prerogative della loro magistratura, istituita da un Papa e confermata da altri due cioè Sisto V e, più di recente, Clemente XI, la questione non fu mai veramente risolta finché nel 1797 non arrivarono i Francesi. In ambito ecclesiastico il Cardinal legato usò la mano ugualmente pesante. Fece carcerare un canonico della cattedrale di Imola per disubbidienza alla magistratura cittadina e lo stesso fece capitare ad alcuni canonici di Cervia che, colle armi, avevano strappato un contumace dalle mani dei birri e si erano poi ripetutamente dimostrati irrispettosi del loro vescovo. Ebbe però due scontri durissimi colle autorità ecclesiastiche; li vinse entrambi ma con difficoltà, a riprova di quanto i privilegi e l’intreccio delle varie autorità intralciasse qualsiasi azione di governo. Entrambi i casi si verificarono nell’autunno del ’35 e non furono semplici; lo portarono uno allo scontro coll’arcivescovo, l’altro coll’Inquisizione. La spuntò tutt’e due le volte, ma non fu né facile, né veloce. Andrò per sommi capi, cominciando dal secondo caso in ordine di tempo perché è più breve. Il clero ravennate era complessivamente buono, se non ineccepibile, però aveva le sue pecore nere – benché sia piuttosto inappropriato definire pecora uno dei pastori del gregge delle anime cristiane – e nello specifico si trattava d’un frate agostiniano veramente fastidioso, indisciplinato e di pubblico cattivo esempio. Il suo priore, il padre Tommaso Filippini, dopo averle provate tutte senza successo, si rivolse ad Alberoni, perché l’insubordinazione del frate toccava pure l’ordine pubblico e dunque diveniva competenza del Legato. Il Cardinale non se lo fece dire due volte, però iniziò con mano leggera: rispose al priore di notificare al monaco l’ordine di piantarla e seguire la regola, sotto pena di severi castighi se disubbidiva. La reazione fu pessima: il priore Filippini fu minacciato di morte dal suo frate e dovette fuggire dal convento e rifugiarsi nell’altro del medesimo ordine, tenuto dai Canonici Lateranensi di regola agostiniana. Informato, Alberoni ordinò al Bargello d’arrestare il frate colla massima discrezione non appena fosse uscito dal convento. L’ordine fu eseguito il 7 ottobre e l’arrestato, messo su una carrozza di posta, venne espulso dai confini della Legazione. Tutto qui? Tutto qui, ma ne venne un parapiglia. L’arcivescovo, il patrizio veneziano Maffeo Niccolò Farsetti, ex vicelegato di Romagna, sostenne che fosse stata lesa l’immunità ecclesiastica e affermò di voler scomunicare il Bargello. Poi, resosi conto d’andare all’urto diretto con un cardinale e per di più con Alberoni, decise d’aggirare l’ostacolo imbastendo un processo canonico al frate e scrivendo a Roma al priore generale degli Agostiniani, Nicola Schiaffinati. Quest’ultimo mandò un visitatore, il quale, senza nemmeno presentarsi al Legato – cosa che comunque avrebbe dovuto fare per un minimo di cortesia, benché la faccenda, in quanto ecclesiastica toccasse l’Arcidiocesi e non la Legazione – appena a Ravenna spedì il priore Filippini a Roma, dove questi si sentì intimare dal padre generale di rinunciare al priorato. Alberoni s’arrabbiò. Il giorno dopo l’arresto e l’espulsione del monaco aveva già informato di tutto il Segretario di Stato, e tramite lui il Papa e adesso non gli piaceva per nulla quanto stava accadendo. 129

Nel 1739, in una corposa e dettagliata relazione al Segretario di Stato Firrao, il Cardinale definiva quella dei Pacifici “una guardia di mascalzoni mal messi, mal vestiti, composta parte di artisti [artigiani] e parte di servitori e dipendenti dei signori Forlivesi, i quali ridotti a non poter più servirli, venivano dai detti signori beneficati con una piazza di soldato.” Cfr. Alberoni al cardinal Firrao, Ravenna 16 maggio 1739, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 50. 208


Il Papa bloccò tutto. Volle sentire di persona il priore Filippini e fece comunicare al priore generale Schiaffinati che non era ben fatto il levare il priorato ad uno non ancora sentito dal Pontefice. Ricevuto Filippini in udienza, Clemente XII diede ragione a lui e al Cardinale, il quale intanto, il 7 dicembre 1735, aveva scritto al Segretario di Stato che, pur essendo convinto di non esser stato mandato dal Pontefice a Ravenna in qualità di “ispettore della braghetta dei frati”, pregava comunque di far sapere al padre Schiaffinati che, se lo scandalo fosse continuato, si sarebbe incaricato di fare “da Priore e da Generale.” Capita l’antifona, Schiaffinati punì il monaco ribelle, mentre il priore Filippini tornava a Ravenna e la cosa si sistemava dopo aver prodotto molto più chiasso di quanto non ne avesse fatto il provvedimento d’Alberoni.130 Veniamo all’altro caso: la sera dell’11 agosto 1735, cioè due mesi prima dell’affare cogli Agostiniani, il caporale Chiarini dei birri della Squadra di Campagna della Legazione tornava con due uomini da Sant’Arcangelo di Romagna, quando vide in un prato alcune persone in abiti borghesi armate di fucili. Si avvicinò loro a cavallo per controllare se avessero il porto d’armi e sfortuna volle che il suo cane azzannasse le vesti di uno di loro, il quale immediatamente si qualificò per fra’ Pio, domenicano laico e “compagno dell’Inquisizione”, minacciando di sparare al cane, al che Chiarini, col miglior spirito romagnolo, gliene disse di pesanti e di tutti i colori. Apriti cielo! L’Inquisitore di Rimini,131 il domenicano Dionigi Bellingeri da Pavia,132 strillò che erano state lese l’immunità ecclesiastica e la sovranità dell’Inquisizione, perciò il caporale andava processato. Alberoni insorse. Convocò il vicario del Sant’Uffizio di Ravenna e gli disse di far presente all’inquisitore di Rimini che il compagno fra’ Pio, che aveva parecchi precedenti, era stato trovato colle armi in mano e in abiti civili,133 per cui il caporale aveva fatto il suo dovere e basta, dunque la piantasse. L’Inquisitore insisté, però fece una mezza marcia indietro e dichiarò di contentarsi di scuse appropriate del caporale al compagno. Il Cardinale acconsentì e la cosa parve terminata. Parve, ma parve soltanto, perché i birri erano molto seccati e sparlavano dell’Inquisitore a tutto spiano, mentre fra’ Pio sparlava dell’autorità d’Alberoni e si gloriava della sua immunità. Risultato: fra’ Dionigi da Pavia fece acchiappare uno dei birri più sboccati e lo mise nelle carceri dell’Inquisizione; Alberoni fece arrestare fra’ Pio e lo chiuse in prigione a Ravenna, poi, visto che l’Inquisitore protestava, gli mandò a dire di smetterla o avrebbe fatto incarcerare pure lui. L’arroganza è una brutta bestia ed è vile quanto maligna e vendicativa. In questo caso portò l’Inquisitore di Rimini a ricorrere a Roma. 130

Nello stesso periodo, saputo che Apostolo Zeno era a Ravenna, per di più ospite del priore Filippini nell’ormai pacificato convento degli Agostiniani, Alberoni lo favorì in tutti i modi, e “volle che sì nell’andata, come nel ritorno, avesse posta franca per tutto il tratto,dove stendevasi la sua legazione.” Cfr. NEGRI, Francesco, La vita di Apostolo Zeno, Venezia, dalla tipografia di Alvisopoli, 1816, pagg. 322-323. 131 Come riassume Angelo TURCHINI nella sua relazione “Gli archivi e la documentazione dell’Inquisizione in Romagna (XVI-XVIII). Note di ricerca”, presentata al convegno L’inquisizione Romana e i suoi archivi. A vent'anni dall'apertura dell'ACDF. [A.C.D.F. significa Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede], Atti del convegno, (a cura di A. Cifres) Roma, 15-17 maggio 2018, Roma, Gangemi, 2019, dal 1542 l’Inquisizione in Romagna si articolava su nove sedi, di cui due principali, che erano Rimini e Faenza. Rimini aveva 47 vicarie, ridotte a 29 nel 1743, e giurisdizione sulle diocesi del Montefeltro, di Pesaro e Fano. Faenza aveva giurisdizione pure su Imola, Ravenna, Cervia, Forlì, Cesena, Sarsina ed altre diocesi romagnole. 132 Era inquisitore dal 1719, quando aveva sostituito il confratello piacentino Giacinto Pio Tabaglio, forse parente di quel don Giambattista Tabaglio nella cui scuola aveva studiato Alberoni da bambino. Don Giambattista aveva un fratello domenicano di nome Giuseppe Maria, morto nel 1714, professore di teologia ed autore insieme a G.J. Fatinelli d’un’opera intitolata Considerazioni sù la scrittura intitolata Riflessioni sopra la causa della Cina doppo venuto in Europa il decreto dell'Em̃o di Tournon pubblicata nel 1709. 133 I “Patentati del Sant’Officio” erano registrati in appositi elenchi. I Tribunali del Sant’Uffizio avevano le proprie carceri e le proprie guardie, dette “guardie familiari”, perché dal Medioevo il personale in servizio di polizia veniva definito “Famiglia”, per cui esistevano la Famiglia del Bargello e quella dell’Inquisizione. Alle Guardie familiari in servizio del Tribunale era concesso il porto d’armi ed erano riconosciuti alcuni privilegi, che per quelle di Rimini e Faenza erano stati accuratamente elencati nel 1646; cfr. TURCHINI, op. cit., pag. 7. 209


Il caso parve tanto grave da provocare un’apposita seduta della Congregazione del Sant’Uffizio; del resto Alberoni contava non pochi nemici e quella poteva essere una buona occasione per neutralizzarlo e rispedirlo al Collegio a Piacenza. Il 31 dicembre 1735 il Segretario di Stato cardinal Firrao scrisse al Cardinale una lettera ufficiale in cui domandava, per conto del Papa, ampie delucidazioni su tutta la faccenda prima di decidere se imbastirgli o meno il processo davanti all’Inquisizione. Contemporaneamente il segretario particolare di Sua Santità, monsignor Frescobaldi, l’11 gennaio 1736 gliene scriveva un’altra e di tutt’altro tono, sempre da parte di Clemente XII, il quale in sostanza gli dava ragione, gli ricordava con San Paolo che tutti debitores sumus sapientibus et insipientibus, implicitamente raccomandando discrezione ed umiltà, gli faceva presente d’essere premuto da parecchi cardinali e lo pregava di procedere per vias planas, in maniera meno brusca. Alberoni il 14 gennaio fornì la sua versione dei fatti in una lunga lettera, anzi, ne mandò quattro: una al Papa, due al cardinal Firrao – una ufficiale e una confidenziale – e una al cardinal Corsini. In sostanza diceva che a Ravenna e provincia non era stato facile rimettere le cose in sesto dal punto di vista legale, che con 40 birri in tutta la Legazione era difficilissimo mantenercele e ci si riusciva solo in grazia d’un miracolo divino continuato, che sarebbe cessato non appena fosse cessato il timore e il rispetto della popolazione nei confronti della polizia. Gli diedero ascolto e la vicenda si concluse con la sospensione di frà Dionigi da Pavia134 dall’incarico d’Inquisitore e la cancellazione della sua lettera dai registri dell’Inquisizione. Risolta questa, non mancarono altre difficoltà. La primavera era sembrata portare un buon raccolto, ma fu distrutto da una stranissima nebbia nella notte di San Giovanni,135 per rimediare ai cui danni il 6 luglio Alberoni ordinò il censimento delle derrate e, visto che non ce n’erano a sufficienza, comperò grano a Livorno per preparare nei forni pubblici un pane di mistura a prezzo molto ribassato. Mancando di contante, accettò un prestito da un mercante e lo pagò confiscando temporaneamente tutta la liquidità di cassa nei monti di Ravenna e provincia, liquidità che fu poi immediatamente restituita ai montisti, man mano che rientrava denaro nelle casse della Legazione; dopodiché arrivarono gli Imperiali. Era finita la campagna del 1735. Agli Austriaci era andata male. Il loro grosso s’era dovuto ritirare verso il Trentino, però una forte aliquota di otto reggimenti di cavalleria e due di ussari era rimasta a svernare nel territorio neutrale del Papa, aveva esaurito le risorse della Legazione di Bologna e stava per passare in Romagna. Conoscendo da più di trent’anni la disorganizzazione, la mancanza di denaro e la fame tipiche dell’esercito austriaco, Alberoni ordinò alle amministrazioni cittadine di Faenza, Cesena e Forlì di radunare quanto più fieno e paglia potevano, poi si preparò al peggio e la notte di Natale andò a Bologna ad affrontare il nemico. Fu il solito Alberoni: come aveva saputo cattivarsi Vendôme e poi la corte spagnola trent’anni prima, adesso si accattivò sia il conte di Kevenhüller che il principe di Lobkowitz e si accordarono in maniera da limitare i danni: loro non avrebbero saccheggiato né avanzato pretese esose e lui avrebbe passato ai loro uomini tutto il necessario. 134

Il padre Castagnoli nel terzo volume della sua biografia, a pagina 45 dice che “l’inquisitore di Rimini ebbe la rimozione dalla carica”, ma la rimozione avrebbe implicato la nomina immediata d’un successore. Questi, il padre domenicano Giovanni Andrea Passano, fu però nominato solo nel 1738 e non si conosce la data esatta della fine del mandato di padre Dionigi, il quale fu nominato inquisitore ad Ancona nel 1737, cioè più d’un anno dopo la conclusione di questa storia e circa un anno prima della nomina di padre Giovanni Andrea a Rimini, perciò non so se si possa parlare di rimozione e preferisco scrivere sospensione, perché mi pare più plausibile, specie considerando che dopo un urto del genere era molto improbabile che l’Inquisitore fosse lasciato nella Legazione del cardinale con cui s’era scontrato. 135 Le fonti sembrano concordare su una nebbia micidiale che in una sola notte, quella del 24 giugno 1735, distrusse tutte le piante. Sembrerebbe un caso di nebbia secca, cioè di nebbia acida derivata da un’eruzione vulcanica, però non collima coi dati noti, almeno con quelli relativi all’Italia, perché in quell’anno eruttarono solo il Vesuvio e l’Etna, il secondo da ottobre e per i successivi undici mesi, terminando nel settembre del 1736, il primo invece iniziando sei giorni dopo la nebbia di Ravenna, il 1° luglio e proseguendo per 29 giorni, per cui non gli si può attribuire la generazione del fenomeno del 24 giugno, né sembra essere dipesa da uno degli altri vulcani europei. 210


Funzionò e durò fino alla primavera del 1736. Fu gravoso, ma molto meno dannoso di quanto sarebbe stato se non fosse andato a Bologna a trattare o si fosse attenuto agli ordini di Roma d’evitare qualsiasi contatto e fu un risultato eccezionale, specie considerando che in pratica non aveva nulla in mano e in caso d’urto non avrebbe potuto reagire in alcun modo. Evito le altre beghe e diatribe d’ordine amministrativo che costellarono il suo primo anno da legato. Basterà dire che furono varie quanto noiose, sollevate da chi veniva leso nel libero esercizio dei propri abusi e prontamente sostenute da alcuni dei cardinali in Curia. Una che causò un vespaio fu l’interdizione del diritto d’appello a Roma. Non entro nei particolari, perché alla fine tutto rimase come prima. Mi limito a dire che il provvedimento serviva ad impedire l’insabbiamento dei processi, regolarmente bloccati dall’attesa del risultato degli appelli di vario genere appositamente presentati a Roma, da dove le rispose venivano assai lentamente. I suoi avversari colsero la palla al balzo e l’accusarono di voler distruggere le prerogative sovrane, creando un precedente con cui levava alla Curia il controllo sulle province. Il Papa rimase stupefatto e gli chiese spiegazioni e il Segretario di Stato l’avvertì in via confidenziale che, se si accettava che un Legato proibisse i ricorsi a Roma, non si sarebbe potuto evitare di vederlo fare pure ai sovrani stranieri, tant’era vero che gli ambasciatori di Napoli e di Sardegna stavano già cercando il testo del bando alberoniano. Il Cardinale fece mezzo passo indietro, poco ma sufficiente a convincere il Papa a calmare le acque. Fece presente d’aver solo esteso i termini della “Magalotta”, l’allora vigente costituzione di monsignor Gregorio Magalotti,136 approvata dal papa nel Cinquecento e poi di nuovo ribadita ai primi del Seicento, la quale aveva stabilito i medesimi divieti per le cause inferiori a 300 scudi. Andò a finire che il Papa, esaminate la lettera, il memoriale ed i pareri giuridici inviatigli da Alberoni, gli diede sostanzialmente ragione, però gli fece scrivere da monsignor Frescobaldi di tirare avanti come se il nuovo bando non fosse mai esistito e di continuare ad applicare la Magalotta, limitandosi a pubblicare un editto esplicativo in cui spiegasse che il suo bando precedente riguardava solo i ricorsi lesivi dei privilegi della Legazione. Alberoni trovò buona l’idea, emanò il bando l’11 gennaio 1736 e chiuse la diatriba. Non voleva impegolarsi in troppi attriti. Era evidente che dovunque toccasse avrebbe trovato i disastri e gli abusi d’un secolo e mezzo di malgoverno e, dovendo decidere secondo l’urgenza, il provvedimento più necessario erano i lavori idraulici intorno a Ravenna, e nemmeno quelli sarebbero andati senza contrasti. Riferì una cronaca del tempo: “Il Cardinal Alberoni, Legato di Ravenna, governava quietamente la sua Provincia, e ne promoveva con indefessa vigilanza gli avvantaggi. Egl’intraprese di unire i due fiumi, Ronco, e Montone, per liberare così il Paese da i frequenti allagamenti.”CCLXX Ai primi del Settecento Ravenna giaceva fra i letti dei fiumi Ronco a sud e Montone a nord e non se ne trovava bene. Il loro carattere torrentizio l’aveva inondata regolarmente, con effetti particolarmente gravi tre volte nel corso del Secolo precedente137 e due, nel 1700 e nel 1715, prima dell’arrivo d’Alberoni. Clemente XII nei primi tempi del suo pontificato aveva deciso di provvedere e ne aveva incaricato il legato cardinal Massei. Nel 1733 erano stati fatti i primi scavi, poi, un po’ per le intemperie dell’inverno 1733-34, un po’ per altri motivi pratici, non ultima la mancanza di denaro, tutto era rimasto fermo fino all’arrivo d’Alberoni.

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Constitutio reverendissimi D. Gregorii Magaloti episc. Clus. Provinciae Romand. & Exarcatus Ravennae Praesidis super salariis officialium provinciae, et eorum officio [1587] Ravennae, apud Impressores camerales, & Archiepisc., 1615, copia in A.S. Roma, Biblioteca, Collezione Statuti, Romagna [Ravenna] Esarcato - Provincia di Ravenna stat. 0328/07. 137 L’inondazione del 1636 aveva fatto finire Ravenna sotto due metri d’acqua. 211


Il nuovo Legato si trovò davanti ad una discussione fra i progettisti: il bolognese Eustachio Manfredi e il veneziano Bernardino Zendrini, il realizzatore dei Murazzi. Erano d‘accordo sulla necessità di deviare i due fiumi a sud, portandoli uniti a sfociare in mare in prossimità dell’antico porto Candiano, discordavano però su come farlo. Era necessaria una chiusa per pareggiare il dislivello fra i corsi dei due fiumi e poi…. Poi arrivò il nuovo Legato e qualsiasi disparità di vedute fu travolta dai disaccordi con Alberoni. Al Cardinale non piaceva il progetto, perciò ordinò d’allargare il piano della chiusa e alzarne l’argine per avere una maggior quantità d’acqua, tale da far lavorare il mulino pubblico; poi fece costruire una chiavica sotto la chiusa per scaricare le acque del canale Lama e di altri corsi d’acqua di scolo dei terreni circostanti. Nel frattempo si occupò del nuovo alveo del Montone e dei due fumi riuniti, si accorse che, tagliando la Via Romana per Rimini, sarebbe servito un ponte, necessariamente in pietra. Si fece carico della spesa, come aveva fatto per la chiusa, ed ordinò, purtroppo, di smantellare quell’“avanzo inutile d’antichità” che era la Rocca Brancaleone per riutilizzarne le pietre. Fosse come fosse, secondo il Cardinale il progetto non andava bene: il nuovo alveo non era abbastanza profondo da garantire una portata d’acqua di piena sufficiente ad evitare inondazioni e nel complesso non era soddisfacente; però gli ingegneri – “i Matematici” come si diceva allora – erano certi del fatto loro, avevano – come disse Zendrini – ampliato il piano dell’alveo e sicuramente sarebbe bastato. Il Cardinale aveva ribattuto che l’ampliamento avrebbe rallentato la corrente, aumentando di conseguenza i depositi di sabbia, per cui in breve l’alveo sarebbe divenuto meno profondo e si sarebbe stati punto e da capo, però, per evitare troppe discussioni con Roma, aveva fatto procedere i lavori come volevano loro. Tenne lui la contabilità “e se avessi permesso si erigesse una computisteria non bastavano seicento scudi l’anno, oltre le mangierie che si sarebbero fatte.”CCLXXI Fu presto evidente che i due “Fiumi uniti”, come si sarebbero chiamati da allora in poi, sfociando nel canale Panfilio, che nel 1651 aveva unito la città al mare con un percorso di sette chilometri, avrebbero reso quest’ultimo non più praticabile alla navigazione ed al commercio, perciò ne occorreva uno nuovo. Alberoni fece fare progetto e calcoli, scoprì d’aver bisogno di altri 70.000 scudi e iniziò a tempestare la Reverenda Camera perché li tirasse fuori, altrimenti, come scrisse al tesoriere generale monsignor Sacripante, tutto il lavoro di deviazione dei fiumi sarebbe stato inutile. Dubbioso, Sacripante decise di venire a vedere. Fece una visita a Ravenna, si convinse, riuscì a trovare il denaro e nel 1736, a dispetto delle cattive condizioni delle finanze camerali, fece avere ad Alberoni una prima quota di 30.000 scudi, mediante un monte, cioè un prestito obbligazionario a carico della Comunità di Ravenna. Il 22 dicembre del 1736 fu inaugurato sui futuri Fiumi Uniti “un Ponte di Marmo, lungo 670 piedi, largo 30, e alto pur 30.”CCLXXII Poi si fecero i piani dei lavori per il nuovo canale ed il relativo porto. Il progetto del canale aveva previsto una spesa di 23.000 scudi romani, però i 7.000 che sarebbero avanzati non sarebbero bastati a costruire il nuovo porto: che fare? Di fronte a un preventivo di 31.487 scudi senza contare la spesa per l’acquisto dei terreni in cui scavare il nuovo canale, Alberoni dové affrontare pure le discussioni sul tracciato. Si era appena messo all’opera per lasciare al suo successore il lavoro finito, quando, nel febbraio del 1738, un mese prima della scadenza del suo triennio, ebbe una lettera del Segretario di Stato: il Papa non gli prolungava il mandato altro che per poco tempo: “Non ostante che il termine della Legazione di Vostra Eminenza spiri al principio del prossimo Marzo, e cessino per conseguenza in tal tempo le di lei facoltà, piace nulladimeno a Nostro Signore, ch’ella colle stesse facoltà concedutele e godute sin’ora, continui l’esercizio della detta Legazione sino all’arrivo del successore, che sarà per destinare.”CCLXXIII 212


Alberoni si seccò parecchio e chiese di restare fino al compimento dei lavori e il Papa gli confermò l’allungamento del mandato, però in maniera ufficiosa. Nel frattempo doveva essere scelto il nuovo legato di Romagna e si sapeva che sarebbe stato il cardinale Marini, al quale però non veniva consentito d’andare a Ravenna, perché non si rendeva pubblica la sua nomina in Concistoro. Nella primavera del 1738 il Papa, confortato in merito da monsignor Sacripante, prolungò il mandato d’Alberoni fino alla fine dei lavori, ritenuta prossima. Non lo fu per via dei calcoli errati. Il Cardinale aveva avuto ragione riguardo alla portata d’acqua: in caso di piena l’alveo nuovo non la conteneva. Si vide nell’inverno del ’38-’39. Il 14 dicembre del 1738 il Ronco era stato immesso nel nuovo alveo, da solo, perché per il Montone bisognava attendere il compimento della nuova chiusa. Quattro giorni dopo il Ronco andò in piena e depositò molta sabbia all’imbocco della deviazione, facendone alzare il fondo tanto da far arrivare l’acqua a lambire il bordo del nuovo argine. Il 20 dicembre era così alta che si rischiava di nuovo un’inondazione. Alberoni interruppe i lavori per il Montone, reimpiegò gli operai in quelli della darsena e del canale e la vigilia di Natale scrisse al Segretario di Stato di dover alzare gli argini almeno fino al ponte nuovo. La spesa – alta – sarebbe stata fronteggiabile con una piccola tassa aggiuntiva sul sale di due quattrini la libbra, pari ad appena sei bajocchi all’anno pro-capite e per un solo anno. Firrao passò la proposta a Corsini e questi alla Congregazione del Buon Governo, la quale ad inizio marzo la respinse. Nel frattempo, a fine gennaio, il Ronco aveva rotto un tratto dell’argine sinistro, vicino alla Chiesa di Santa Maria di Porto Fuori. Davanti al guasto, Manfredi, malato, scaricò ogni responsabilità su Zendrini, alle cui relazioni sui terreni disse d’avere sempre dato fede; consigliò d’ampliare l’alveo e alzare gli argini, poi morì. Da Roma il cardinal Corsini ordinò di richiamare Zendrini. Alberoni lo invitò il 24 marzo e, prima del suo arrivo, il 27 una nuova piena del Ronco ruppe l’argine e inondò la pineta dell’Abbazia di Porto. Dopo un lungo tira e molla e una lettera ufficiale del cardinale Corsini alla Repubblica di Venezia, in maggio finalmente Zendrini arrivò. Ammise le colpe sue e di Manfredi e le spiegò: avevano scavato meno del dovuto, per le pressioni al risparmio avute dalle autorità pontificie. Ora, scrisse, sarebbero serviti altri 17.932 ducati e, ammise, Alberoni aveva avuto ragione fin dal principio. Il 6 giugno 1739 Alberoni spedì la relazione a Corsini e chiese i soldi necessari. Corsini gli rispose il 16, tirò in lungo sui fondi e gli annunciò una difficoltà riguardo alla Legazione: il cardinal Marini la voleva a tutti i costi: non era contento d’essere lasciato inattivo. Da tempo erano iniziati i mormorii che Alberoni prolungasse i lavori per restare Legato e guadagnarci sopra; il Cardinale aveva già protestato che non era vero e alla fine, stufo, andò a Roma a chiarire le cose. Arrivò il 12 luglio mattina. Nessuno lo aspettava. Il cardinal Corsini non ne fu entusiasta, ma non poté evitare di parlargli: gli concesse mezz’ora la sera fra un impegno e l’altro. Alberoni era seccatissimo. L’incertezza sul prolungamento o meno del suo mandato – spiegò – rendeva le comunità romagnole meno obbedienti, se non riottose, complicando l’amministrazione. I lavori ne risentivano e lui non intendeva lasciarne la direzione per poi sentirsi dire, se qualcosa fosse andato male sotto il successore, che era tutta colpa sua. Seppe che l’8 luglio Marini era stato dichiarato nuovo Legato di Romagna ed aveva accettato. Parlò con Firrao, andò dal Papa e il 15 luglio ripartì con in tasca la promessa di rimanere sul posto fino alla fine dell’anno, mentre il cardinal Marini non sarebbe venuto a Ravenna e vi avrebbe solo mandato un suo rappresentante. Per fine settembre l’alveo dei due Fiumi Uniti era stato allargato a sufficienza. Il 15 novembre 1739 il Montone vi fu deviato attraverso la nuova chiusa e confluì nel Ronco. Restavano da completare il canale e il porto, ma sarebbe stato fatto in futuro. Adesso la seccatura maggiore erano gli strascichi dell’invasione di San Marino.

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Capitolo XXVII La spedizione a San Marino La spedizione di San Marino fu una questione a dir poco minima, però è una delle maggiori accuse mosse ad Alberoni e perciò qui deve occupare un certo spazio. “Dieci miglia lungi da Rimini in seno allo Stato Pontifizio, è situata sopra la sommità di un Monte una piccola Città, che chiamasi S. Marino. Ella, godendo da lungo tempo una intera libertà e indipendenza, si governava da libera, e assoluta Repubblica. eleggendosi da se stessa ogni 6 mesi un Capitano, ed alcuni Uffiziali per esercitare l’amministrazione de’pubblici affari. Le sue rendite, che sono per altro tenui, si cavano dalle imposte sopra i vini, e i grani, e da un passo di bestiami molto frequentato. Tutta la sua giurisdizione consiste in un Borgo, e sei Castelli, o Villaggi, che da essa dipendono. Era stata per lo addietro sotto la protezione de’Duchi di Urbino ma dopo la estinzione di quella Famiglia si è posta sotto la protezione del Papa.”CCLXXIV Il 19 settembre del 1738 un ex capitano reggente di San Marino, Pietro Lolli, era stato accusato di cospirazione contro la Repubblica ed imprigionato. Aveva una patente del Santuario di Loreto che lo rendeva chierico e l’esentava dalla giurisdizione civile, perciò i suoi fratelli si rivolsero ad Alberoni, Legato di Romagna, perché lo facesse scarcerare in quanto sottoposto alla sola giurisdizione ecclesiastica. Alberoni non ottenne niente dalla Repubblica e i Lolli si rivolsero a Roma protestando contro la violazione dell’immunità lauretana, perciò il Segretario di Stato Firrao, il quale era pure protettore della Congregazione Lauretana, ordinò ad Alberoni di procedere. Il Cardinale cominciò imprigionando Marino Enea Bonelli, consigliere della Repubblica, e suo figlio, trovati nel territorio della Legazione di Romagna. La Repubblica protestò a Roma mediante il proprio agente residente, l’abate Zampini, e l’inviato straordinario Leonardelli, ma le cose si complicarono. La supplica dei Lolli era l’ultima di molte già presentate al Papa e dietro le quali c’erano delle discordie politiche e famigliari locali. Papa Corsini sentì vari pareri. San Marino era un ricettacolo di contrabbandieri su cui la Reverenda Camera Apostolica avrebbe volentieri messo le mani; e per di più nell’agosto del 1739 circolò la voce che forse la Repubblica sarebbe finita in mano al Granduca di Toscana Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d’Asburgo, il che voleva dire in mano all’Austria. Avere gli Austriaci in mezzo ai territori pontifici non piaceva né alla Papa né al Sacro Collegio, perciò da Roma si trasmisero ad Alberoni le istruzioni e plenipotenze per ricevere l’Atto di Soggezione della Repubblica se il popolo avesse persistito nel volersi sottomettere al potere pontificio, come dichiarava. Secondo il breve papale del 26 settembre 1739,138 Alberoni doveva, “… portarsi sopra le Frontiere di S. Marino per attendervi quei che andrebbono a implorare la sua protezione, quivi fermatosi, se osservava che colori i quali si presenterebbero componessero la maggiore, e la più sana parte di que’Comuni, chieder dovesse un Atto Autentico in iscritto delle loro istanze, e della loro sommissione; ed eretto in forma quell’Atto, riceverli poscia per immediati Sudditi della S. Sede, confermare gli antichi loro privilegi, ed accordarne ancora degli altri, secondo che Sua Eminenza giudicherebbe conveniente, intendendo assolutamente la Santità Sua, che la sommessione di quei popoli fosse sincera, e spontanea, e non isforzata.”CCLXXV 138 Vedasi il breve, pubblicato già varie volte e il cui originale è conservato a Piacenza, Archivio Alberoni, Epist. Alberon. Brevi Pontifici, “Dilecto Filio nostro Iulio Tituli Sancti Chrysogoni Presbytero S.R.E. Cardinali Alberono nuncupato Legato Romandiolae”. 215


Al breve era unita una lettera del Segretario di Stato Firrao, che in sostanza ribadiva quanto era detto nel breve e la necessità di agire con tatto e solo se la maggioranza avesse fatto volontaria e spontanea domanda di sudditanza alla Santa Sede. Inoltre Firrao sottolineava la totale iniziativa e libertà d’azione lasciate ad Alberoni, concludendo che Sua Santità lasciava “alla saviezza di V. Emin. di dare al governo politico, economico, e giuridico quella forma, che giudicherà più confacente a’ costumi di que’Comuni.”CCLXXVI Quando l’impresa andò male, dunque già entro la fine dell’anno, entrambi i documenti furono resi pubblici per scaricare Roma da qualsiasi responsabilità e mostrare che Alberoni aveva agito di testa sua, andando oltre le istruzioni avute; ma in realtà esse erano così sfumate e ambivalenti da consentire alla Santa Sede d’impadronirsi della Repubblica se appena appena ve ne fosse stata la possibilità. Ricevuti lettera e breve, il 17 ottobre 1739 Alberoni partì da Rimini con tre carrozze e senza scorta, si presentò a Serravalle – uno dei villaggi dipendenti dalla Repubblica – e vi fu accolto con dimostrazioni di giubilo organizzate immediatamente dal parroco, il quale fece richiesta pubblica, per sé e per il popolo, di diventare suddito della Santa Sede. Né c’era possibilità d’errore o d’incapacità di comprendere da parte del popolo, perché il parroco fece la sua richiesta in italiano, non in latino, come si deduce dalla lettura dell’atto notarile con cui essa fu registrata: stilato secondo la prassi giuridica, immutata fino alla Rivoluzione Francese e risalente all’Alto Medioevo, l’atto riportò le domande e le risposte nella lingua in cui era pronunciate, cioè in italiano.139 La gente, come poi avrebbe dichiarato, non capì; forse pensò che il parroco stesse facendo un discorso di saluto, e acclamò il Cardinale il quale, vista la buona accoglienza, o facendo finta di credere che la popolazione avesse compreso quanto era stato detto, proseguì per San Marino. Saputo che arrivava, il Capitano Reggente fece chiudere le porte; ma gli altri capitani ed i funzionari della Repubblica lo convinsero a riaprirle, temendo di irritare sia Alberoni che i cittadini. Accolto da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare e da grida di “Viva il Pontefice”, mentre, come a Serravalle, i parroci ed i loro parrocchiani del suburbio di San Marino e di Fiorentino si dichiaravano sudditi della Santa Sede, il Legato venne riverito da due deputati della Reggenza i quali, domandatogli in cosa potevano servirlo, si sentirono ringraziare e rispondere che l’avrebbero saputo a suo tempo. La risposta allarmò la Reggenza, che convocò il Corpo dei Cittadini, pose sentinelle alle porte e rinforzò le guardie del Palazzo Pubblico e della Rocca, tanto più che si era saputo che intorno al Cardinale si stava radunando una quantità di Sanmarinesi “armati con armi corte, oltre un gran numero di Soldati, che il Cardinale faceva tuttavia venire da diversi luoghi della Romagna.”CCLXXVII Nella notte i cittadini filoalberoniani assalirono la guardia della Ripa e fecero entrare in città un reparto papale, formato da 200 miliziotti di Verucchio agli ordini del capitano Antonio Bertolli. Alberoni ne pose 140 a guardia delle porte, rilevando gli otto soldati della Repubblica che le presidiavano ma, saputo che tra i Sanmarinesi e i Verucchiesi tradizionalmente non correva buon sangue, rispedì subito indietro il grosso dei miliziotti, trattenendo come propria guardia d’onore il comandante, 50 fanti e i 12 cavalieri della compagnia di cavalleria del capitano Rinaldo Felice 139 Dedizione del Popolo di Serravalle alla Santa Sede, il 17 ottobre 1739: “In Christi nomine Amen. Anno Domini 1739: Indictione secunda Divo Clemente Duodecimo Papa Sedente, et die Sabbathi decima septima Mensis Octobris, Em.mus, et Rev.mus D.D. Iulius Alberoni ........ perventus ad Castrum Serravallis ad..... ingressum obviam habuit Adm. Rev. D. Anthonium Thomasi Ecclesiae Parochialis Rectorem..... haec infrascripta protulit: Eminentissimo Principe. io col mio Popolo appiedi dell’Eminenza Vostra supplicante addimandiamo umilmente sotto l’Obbedienza, e così Sudditi della Santa Sede per giuste cause e motivi che qui sarebbe lungo il riferirli, onde a tale effetto imploriamo la gran protezione di Vostra Eminenza. His itaque auditis Em.mus respondit: Quando state ben disposti, e vogliate essere spontaneamente sudditi di Sua Santità, è ben ragionevole che io vi assista....”, rogito dei notai Ottavio Amato Bartolucci e Marino Bertozzi, in Archivio Alberoni, Carte di San Marino, Istromenti delle Dedizioni allo Stato della Chiesa, allegati: Dedizione del Popolo di Serravalle. 216


Cappello, poi chiamò da Rimini il capitano Bertoldi con 200 uomini, accompagnati dal bargello di Ravenna e da una decina di sbirri, che giunsero la mattina del 18, portando a 262 i Pontifici in città. A questo punto la situazione precipitò. “nel tempo stesso si sparse per la Città una voce, che si voleva incenerirla, se non si consegnassero al Legato le chiavi della medesima insieme con quelle della Rocca. Intimoriti da simili minacce gli Uffiziali, si portarono la seguente mattina dal Porporato, e consegnandogli non solo le suddette chiavi, ma eziandio quelle dell’Archivio, e della Casa pubblica con i Sigilli, secondocché comandò loro il Porporato, il quale ponendo nuovo presidio nel Castello della Rocca, e nei siti migliori della Città, recò tale terrore ai Cittadini, che molti di loro si diedero alla fuga, e ritiraronsi nelle loro Case di campagna, dubitando di non essere carcerati, come in effetto furono i Signori Maccioni, Belzoppi, Belluzzi, ed alquanti altri, ch’ebebro l’ardire di biasimare la condotta del Cardinale.”CCLXXVIII Dai villaggi vicini però iniziarono giungere sia unanimi rifiuti di perdere l’indipendenza, sia delegazioni che dichiaravano l’altrettanto unanime volontà di divenire sudditi della Santa Sede. In questa confusione il 19 si sottomisero gli abitanti di Faetano, il 20 quelli di Acquaviva, il 23 quelli di Monte Giardino ed il 24 quelli della Chiesa Nuova.CCLXXIX Gli abitanti di Serravalle dichiararono però d’essere stati ingannati dal parroco e che non avevano intenzione di rinunciare ad essere sudditi della Repubblica. Davanti a questo caos, Alberoni si arrabbiò: creò una nuova magistratura composta da tre persone di sua scelta e minacciò la confisca dei beni e il saccheggio delle case dei cittadini fuggiaschi se non fossero rientrati al più presto. Sempre il 24 scrisse a Roma chiedendo un rinforzo “Penso però che su questo principio questo luogo non può stare solamente con cinque o sei Birri, ma bisogna pensare di porre in questa Rocca, e alle Porte almeno cinquanta soldati. Crederei che questo distaccamento si potesse fare da Ferrara senza aggravare la Camera. Ho inteso che vi è un Presidio per la Città e Fortezza di mille uomini;140 suppongo sia quello stesso che fu formato quando Clemente VIII ne prese il possesso Rifletto che in tempo delle guerre passate del soddetto Presidio si mandavano cento soldati alla Mesola senza scrupolo che Ferrara non avesse Presidio sufficiente; domando io oggi perché non mandare a San Marino un distaccamento di cinquanta Uomini con un Tenente col titolo di Tenente Comandante, Alfiere, Sergente e suoi Caporali.”CCLXXX La sua richiesta venne fatta cadere nel vuoto e non arrivò alcun rinforzo di truppa regolare. Il 25 ottobre il Cardinale insediò il suo governo e chiese il giuramento di fedeltà alla Santa Sede; ma sette cittadini si rifiutarono, mentre gli altri giuravano e firmavano, dichiarando però nel contempo che lo facevano solo perché costretti con la forza. Da quel momento le cose si complicarono a dismisura. Vediamo i particolari. Il cappellano di Serravalle dichiarò in seguito, nel 1744, d’aver avuto ordine dal Cardinale d’adunare il popolo, perché nascesse spontaneamente la dedizione alla Santa Sede, 140

Dall’Archivio di Stato di Roma, Fondo Congregazioni particolari, Tomo 23, f. 11, “Congregazione particolare sulle spese militari per il 1734”, si sa che nel gennaio 1734 Ferrara aveva un presidio di una Compagnia de’ cavalleggeri, con cinque ufficiali e 43 fra sottufficiali e truppa e sette compagnie di fanteria con un totale di 21 ufficiali e 735 uomini. A questi si aggiungevano la decina di ufficiali e i 341 soldati, delle tre compagnie del Forte Urbano, vicino a Bologna, per un complesso di circa 35 ufficiali e 1.460 soldati. Poiché negli anni successivi ci furono soltanto delle piccole riduzioni (non più di tre ufficiali per compagnia) e la forza rimase pressoché invariata, si possono prendere tali dati come indicativi per la consistenza della guarnigione pontificia di Ferrara nel 1739. 217


“ma detto Popolo così addunato non solo ricusò di venire a detta risoluzione di fare il richiesto atto spontaneo, ma anzi alzando le voci gridando: Viva S. Marino Glorioso, Viva la Libertà, discacciarono fugitivo il Notaro spedito a rogarsi della risoluzione, che non avendo potuto perciò umigliare all’Eminenza Sua, questo, l’istesso giorno, che ben mi ricordo fu li 23 del detto mese d’Ottobre 1739, inviò persona al detto Castello con l’aviso della carcerazione seguita de’Signori Bellucci e Maccioni, e con la minaccia del sacheggio e soldatesche a tutte le case del Castello se prontamente non ubidivano a suoi commandi, onde quel Popolo, intimorito, determinò di fare tutto quello che avessero fatto li signori di S. Marino.” I parroci di Faetano e di Monte Giardino fecero deposizioni analoghe e insomma, che era successo? Ancora oggi tanto chiaro non è, almeno non nei particolari. E’ certo però che domenica 25 ottobre, nel corso della messa solenne celebrata dal vescovo del Montefeltro Gian Crisostomo Calvi, quando i consiglieri ed i rappresentanti delle comunità dovettero prestare giuramento solenne di fedeltà alla Santa Sede, andò tutto molto diversamente da come Alberoni voleva. Davanti al marchese Spreti di Ravenna, al conte Rasponi, preposto della metropolitana di Ravenna, all’abate di Santa Maria in Porto ed al vicario dei Lateranensi di Rimini, stando ad alcuni resoconti raccolti da Castagnoli i primi tre Sanmarinesi chiamati giurarono. Stando ad altri, fra cui quello pubblicato a Venezia l’anno seguente, il quale si rifaceva esplicitamente a quanto riportato in una lettera mandata dai Sanmarinesi a monsignor Maggio, prelato domestico del Papa, i guai iniziarono invece già al secondo giuramento, quello del Capitano Giangi, il quale avrebbe detto che “Avendo giurato di conservare la libertà della patria, non potrebbe senza spergiurare prestar giuramento a nessun altro.”CCLXXXI Seguendo i resoconti poi riportati da Castagnoli, il quarto a giurare avrebbe detto a mezza bocca di giurare per la libertà, il quinto, Pietro Lollli, al Papa, ma dal sesto in poi, Giuseppe Onofri, la situazione precipitò, perché, senza inginocchiarsi né posare la mano sul Vangelo, dichiarò: “Io son richiesto di prestare il giuramento di fedeltà alla Santità di nostro Signore Clemente XII felicemente regnante. Se il Santo Padre mi obbliga al prefato giuramento con assoluto suo venerato comando, io sono pronto a prestarlo; se poi Sua Santità rimette questo all’arbitrio della mia volontà,io confermo il giuramento da me altre volte prestato, e giuro d’esser fedele alla diletta mia Repubblica di San Marino.”CCLXXXII Secondo la lettera a monsignor Maggio invece il quarto sarebbe stato Girolamo Gazi, il quale avrebbe detto d’essere “stato indotto a prestar giuramento alla S. Sede, ma ora che vedeva l’immagine di S. Marino con la Corona, non intendeva di ribellarsegli; onde gridava Viva S. Marino.”CCLXXXIII Questo segnò il principio del dissenso. Molti – quattordici, si disse poi – avrebbero affermato apertamente: “che se il Papa li vuole assolutamente per suoi Sudditi, non sanno come opporsi alla forza, ma se li lascia scegliere o la libertà della Patria, o la soggezione alla S. Sede, tutti vogliono la libertà; e la Chiesa di riempì di acclamazioni Viva San Marino.”CCLXXXIV Secondo le relazioni riportate da Castagnoli, i quattro consiglieri presentatisi dopo Onofri, dunque il settimo, l’ottavo, il nono ed il decimo a giurare, ripeterono il giuramento alla Repubblica. L’undicesimo fece pure di peggio: chiese ad Alberoni, colle parole evangeliche, di far sì che quel calice gli fosse allontanato e dichiarò che per tutta la vita avrebbe sempre visto sul capo di San 218


Marino la corona che lo indicava suo principe, perciò non avrebbe avuto cuore di fargli uno sfregio ed avrebbe sempre gridato “Viva San Marino, Viva la Repubblica, Viva la Libertà!” Ne venne un mezzo tumulto. Il Cardinale ordinò di sospendere la chiamata dei consiglieri e di passare a quella dei rappresentanti, ma solo i deputati di Serravalle, Faetano e Monte Giardino giurarono, gli altri no. Alberoni fece bloccare le uscite e a fine messa tenne un discorso energico, al termine del quale molti sembrarono commossi e convinti e giurarono fedeltà dal Papa. “Allora si cantò il Te Deum, e il Legato ritornò al Palazzo fra le acclamazioni del popolaccio, che per amore, o per timore, gridava Viva il Pontefice.”CCLXXXV Il Cardinale andò a pranzo, ma, mentre mangiava, nacque un tumulto col saccheggio delle case di quanti avevano rifiutato di giurare. Una versione sostiene che furono gli sbirri e i militi pontifici ad entrare nelle case “e principiarono a gittarne i mobili fuori delle finestre”; un’altra che fu gente del popolo ad iniziare il saccheggio e che il Cardinal fece intervenire subito le sue truppe e gli sbirri, che in poco più d’un’ora recuperarono gran parte delle cose rubate, depositandole nel corpo di guardia e restituendole ai legittimi proprietari la mattina dopo. Nel frattempo i Sanmarinesi avevano spedito a monsignor Maggio, chierico domestico del Papa, la lettera di cui ho fatto cenno prima, pregandolo di far sapere al Pontefice cosa era successo. Arrivata il 23 ottobre, ebbe effetto e ancor di più ne ebbero le visite del residente della Repubblica, Marino Zampini, agli ambasciatori stranieri a Roma, specie a quelli di Francia e dell’Imperatore. In breve l’impresa del Cardinale scatenò una tempesta diplomatica: bene o male era sempre Alberoni, pure se occupava solo San Marino. Ovviamente la Curia prese subito le distanze. “Quando fu fatto in Roma il racconto al Pontefice di quanto era seguito in S. Marino, comprese che non era stata pienamente libera la sommessione di quei popoli, e però mostrò disapprovare il procedere del Cardinal Legato, nominò dunque un Commissario Appostolico per prendere le vere informazioni, facendo intendere al Sacro Collegio, che quando constasse aver il Cardinale adoperata la forza o violenza, ei dichiarava nullo il giuramento, e invalido l’omaggio dalla Comunità di quella piccola Repubblica prestato. ”CCLXXXVI Con queste premesse e premuto dal cardinal de Tencin e dal conte d’Harrach, il segretario di Stato Firrao scaricò tutta la colpa su Alberoni e il 31 ottobre gli scrisse che le notizie dei fatti di San Marino avevano profondamente amareggiato Sua Santità: ci riflettesse e considerasse che il Papa, quando parlava di portare quiete, non intendeva “l’oppressione dei poveri per la prepotenza di pochi.”CCLXXXVII Alberoni ci rimase malissimo. Scrisse a propria giustificazione. Gli risposero e lui controbatté, ma ormai era chiaro: era stato sconfessato; e infatti Clemente XII nominò un Commissario Apostolico preposto all’inchiesta sui fatti di San Marino nella persona di monsignor Enriquez, il quale lasciò la Capitale il 21 dicembre. Cinque giorni dopo, il 26 dicembre, in vista della scadenza del prolungamento del mandato d’Alberoni, il Papa fece partire da Roma il nuovo Legato di Romagna cardinal Marini e le gazzette del tempo riportarono le due notizie una dopo l’altra, dando a chi ne sapeva poco e non conosceva le abitudini della Corte di Roma, l’impressione che la nomina di Marini fosse conseguente alla partenza d’Enriquez e indicasse una rimozione d’Alberoni in punizione di quanto aveva fatto. Le truppe comunque furono ritirate prima dell’arrivo del Commissario Apostolico e, quando questi, terminata l’inchiesta, chiese ai deputati della cittadinanza di votare liberamente sulla sottomissione alla Santa Sede, 56 su 60 gli dichiararono di volere il mantenimento dell’indipendenza, perciò la questione fu risolta e la Repubblica reintegrata il 5 febbraio 1740.

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Ci furono due strascichi, uno relativamente lontano nel tempo, d’una certa risonanza ma di nessuna conseguenza pratica ed uno vicinissimo, avvolto dal silenzio più totale, che fu il più interessante, anche se non so quanto vero e quanto immaginato. Lo strascico più pubblico avvenne quattro anni dopo, quando i cardinali Firrao e Corsini ebbero la malaugurata idea di rivangare la faccenda di San Marino, scaricando ogni colpa su Alberoni, il quale rispose loro sparando a man salva e, senza mezzi termini, esattamente come aveva fatto col re di Spagna nel 1720: pubblicò le loro lettere. Il Papa, che allora era Benedetto XIV, riassunse così la vicenda al cardinal del Tencin: “… il card. Alberoni pazzescamente al suo solito ha stampato un manifesto sopra il sepolto miserabile affare di S. Marino, ed in sommario, o sia nelle giustificazioni del manifesto, porta le lettere del card. Corsini e del card. Firrao, e nelle prime, cioè in quelle del card. Corsini, si confessa ingenuamente il miserabile stato del suo gran zio, ridotto in ultimo, per l’estrema vecchiaja ad essere un burattino. La temerità è grande, ma se i due predetti cardinali fanno i disinvolti, ed aspettano che senza lor istanza si faccia da Noi qualche passo, per poter poi rispondere alle querela del card. Alberoni che essi nulla curavano, e che tutto è provenuto da motoproprio del Papa, sono in errore; avendo già presa pratica del cauto benché inutile contegno cardinalizio. S’aggiunge che tempo fa essi fecero stampare negli avvisi di Mantova una lettera scritta dal card. Firrao come segretario di stato al card. Alberoni, pretendendo di mostrare con essa il di lui eccesso nell’esecuzione, come pure la difformità degli ordini dati; e però, dicendo il card. Alberoni di non essere stato il primo a metter fuora le lettere di segreteria di Stato, dice il vero.”CCLXXXVIII Citando Shakespeare, andò a finire in molto rumore per nulla: un lavaggio di panni sporchi in pubblico a cui Alberoni fu costretto, come nel 1720, e da cui uscì netto, come la volta prima. L’altro strascico fu molto diverso. Ho menzionato in precedenza il barone Stosch, dicendo che spiava gli Stuart per conto e a spese del governo inglese. La teoria dei servizi segreti dice che un agente può reggere al massimo tre anni prima d’essere scoperto. Come tutte le teorie ha molte eccezioni; Stosch fu una: resse fino al 1731, poi fu scoperto dalla Corte degli Stuart. Minacciato di morte, dové lasciare Roma di gran carriera rifugiandosi a Firenze. All’epoca di San Marino aveva perso i contatti con Alberoni, ma li aveva tenuti con uno dei più importanti politici olandesi dell’epoca, Francois Nicolaas Fagel, cancelliere dello Stato, cioè di fatto la seconda carica della Repubblica delle Province Unite, col quale era in corrispondenza da vent’anni. Ebbene, commentando gli avvenimenti di San Marino, Fagel scriveva a Stosch il 19 febbraio 1740: “Gli avversari del Cardinale hanno dato prova della loro furberia, se effettivamente è vero che sono stati loro ad indurre l’Alberoni alla spedizione contro S. Marino; azione non degna d’un uomo saggio e moderato.”CCLXXXIX Oltre due secoli dopo, il padre Rossi, colla testa ben ferma sulle spalle, commentò che “Fagel s’illudeva ritenendo che l’Alberoni avrebbe potuto succedere – senza quel fatto – a Clemente XII.”CCXC E’ ragionevole, ma non sarei così sicuro che non ci fosse dietro qualcosa del genere. Agli Zelanti Alberoni poteva andar bene perché nei tre conclavi precedenti era stato sempre dei loro. All’Imperatore sarebbe potuto andar bene, contando sulla gratitudine dovutagli dal Cardinale per la protezione avuta nel 1720. Alle corone borboniche paradossalmente sarebbe andato bene, sia perché non si era mai dimostrato antifrancese, sia perché si riteneva, o si credeva di sapere – e comunque si era detto a Parigi nel 220


1723 – che a Madrid avevano pensato di richiamarlo, però lui aveva rifiutato di tornare in Spagna. Infine la Santa Sede l’aveva collaudato in quattro diverse congregazioni e da Legato, trovandosene sempre bene, perciò è possibile che, indipendentemente da quanto lui ci potesse pensare, altri abbiano ritenuta possibile una sua candidatura e, temendo che potesse avere successo, gli abbiano teso una trappola tale da impedire a chiunque di proporlo. Se fu così, avvenne proprio in tempo. Il 6 febbraio 1740, il giorno dopo la reintegrazione della Repubblica a San Marino, papa Corsini morì.

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Capitolo XXVIII Il quarto conclave La morte di Clemente XII il 6 febbraio 1740 offrì ad Alberoni l’occasione di partecipare per la quarta ed ultima volta ad un conclave. Da questo sarebbe uscito eletto il suo amico Prospero Lambertini, cardinale arcivescovo di Bologna. Il Pontificato di papa Corsini non era stato facile. Clemente era divenuto cieco dopo meno di due anni, nei rimanenti otto si era dovuto fidare, firmando quanto gli sottoponevano e sperando che non gli mentissero e negli ultimi due era restato confinato a letto, sotto il peso d’un cinto erniario. Gli affari dello Stato erano di fatto caduti in mano al cardinal nipote Neri Corsini e la gente aveva brontolato, accusandolo d’impadronirsi di grosse somme dell’erario sotto forme di prebende e remunerazioni e, sopra tutto, d’estrarre denaro da Roma per portarlo a Firenze. Questo era falso solo in parte. Corsini non ne era responsabile, o almeno non il maggior responsabile, ma il denaro usciva realmente dallo Stato del Papa e finiva a Firenze e Genova per un insieme di ragioni, di cui la principale era l’ingente debito pubblico pontificio, quasi tutto in mano ai banchieri genovesi e fiorentini. Il conte Charles de Brosses, presidente del Parlamento di Digione, giunto a Roma nell’estate del 1739 e partitone il 26 febbraio 1740, molto prima dell’elezione del nuovo papa, stimava l’ammontare del debito pontificio al principio del 1740 a 380 milioni di lire tornesi, cioè a 63.334.000 scudi romani, definendolo enorme e commentando: “non si discute neanche più di pagare l’intero capitale; sarebbe un’impresa quasi impossibile. Ci si accontenta di pagarne l’interesse che, credo, al tempo in cui fu istituito era del sei per cento ed oggi è sceso a tre.”CCXCI Di conseguenza ogni anno la Reverenda Camera doveva pagare circa due milioni di scudi romani di interessi. Il debito pubblico era aumentato del 38% negli ultimi undici anni e rendeva materialmente impossibile il conio di monete sufficienti a versare tutti gli interessi annui ai creditori.141 L’economia pontificia andava avanti grazie alle banconote, tratte sul Monte di Pietà o sul Banco di Santo Spirito, le quali però non avevano corso fuori Roma, per cui il metallo andava alle banche creditrici estere, lasciando la carta a Roma, o nello Stato, e creando non poche difficoltà alla circolazione del denaro, al commercio ed alla capacità della stessa Camera Apostolica di reperire contante; perciò, se si voleva uscire dall’Urbe con un minimo di metallo in tasca, occorreva impiegare le banconote – quasi tutte di taglio non inferiore alla forte somma di 20 scudi – per comprare delle lettere di cambio su altre piazze – ad esempio Napoli, Genova, o Firenze – convertendo queste ultime in denaro contante al momento necessario. Le monete metalliche erano viste di rado e si diceva che la Reverenda Camera ne avesse alterato il titolo per guadagnarci sopra. Le industrie – le poche esistite – erano sparite, l’agricoltura, come Alberoni aveva sottolineato e per i motivi da me spiegati parlando della sua tenuta di Castel Romano, rendeva poco, il commercio languiva e per queste ragioni, all’apertura del conclave, gli umori del pubblico erano a favore

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Al di là dei costi d’approvvigionamento del metallo nobile e vile necessario alla zecca, non ci sarebbe stato il tempo per coniare tutte le monete necessarie. Per dare un’idea delle proporzioni, basta ricorda che nel 1729 il bilancio annuo pontificio aveva previsto un’entrata di 2.700.000 scudi, che era rimasta sostanzialmente stabile, per cui nel 1740 l’interesse del debito assorbiva circa i tre quarti delle entrate dello Stato. Per confronto, nel 1690, cinquant’anni prima, il bilancio di tutti gli Stati Sabaudi non arrivava all’equivalente di dieci milioni di scudi romani annui; e parliamo d’un periodo in cui l’inflazione – salvo casi rari e poi rientrati come quella indotta in Francia dal sistema di Law – era sostanzialmente nulla. 223


dell’elezione d’un papa romano, com’erano stati Innocenzo XIII e Benedetto XIII, o almeno nativo dello Stato Ecclesiastico, come Passionei, gli Albani, Lambertini od Aldrovandi. Il conclave assorbì Alberoni fin dall’inizio. Era rientrato a Roma da Ravenna negli ultimi giorni di dicembre, ritirandosi nel suo palazzo di città a Capo le Case e tenendosi – dice Castagnoli – in contatto coi Gesuiti e col padre Santocanale, suo amico e corrispondente. Appena morto il Papa, Alberoni entrò in attività. Era adesso a capo dell’Ordine dei Cardinali Preti, nel quale era entrato nel 1728, quando aveva assunto il titolo presbiterale di San Crisogono e, in quanto uno dei capi d’ordine, dové, insieme agli altri due, Ottoboni e Altieri, firmare, sigillare e spedire subito a tutti i confratelli le convocazioni a Roma. Il conclave si aprì il 18 febbraio coll’ingresso del cardinali elettori nell’area loro riservata. Indipendentemente dalle sue origini piacentine, Alberoni non ebbe alcun voto nemmeno questa volta e non ne cercò. La sua già discussa fama aveva ricevuto un colpo mortale dall’impresa di San Marino e il presidente de Brosses riassunse così l’opinione pubblica del tempo su di lui: “piacentino, uomo pieno di spirito e di entusiasmo, inquieto, sempre in movimento, disprezzato, privo di morale, di pudore, di considerazione, di retto giudizio. Secondo lui un cardinale è un avventuriero vestito di rosso. L’hanno nominato legato a Ravenna, dove ha concepito il bel progetto di conquistare la Repubblica di San Marino.”CCXCII Con questo profilo le possibilità d’essere votato erano nulle e non si può fare a meno di ripensare alle parole di Fagel al barone Stosch. Se i suoi nemici avevano voluto rompergli il collo in vista del conclave, c’erano riusciti benissimo. Stando così le cose, gli conveniva scegliere bene il nuovo papa per evitarne fastidi. E’ vero che, terminato il processo, Alberoni era finalmente divenuto un vaso di ferro, ma la Legazione di Romagna gli aveva dimostrato che pure i vasi di ferro avevano i loro limiti e potevano scontrarsi con vasi apparentemente di coccio, ma assai più resistenti del previsto, com’erano stati i signori di Forlì, o l’inquisitore di Rimini. Gli occorreva un papa che gli guardasse le spalle e lo sostenesse, oppure che lo lasciasse in pace ad occuparsi delle sue rendite e del collegio. In questo seguiva la massima, riportata proprio allora da De Brosses, del cardinale camerlengo Annibale Albani il quale, rispondendo alle lamentele per la lungaggine del conclave, aveva detto: “I signori cardinali francesi e tutti gli altri stranieri hanno sempre fretta, appena arrivano vorrebbero vedere la cosa spicciata, e già sono presi dall’impazienza di ripartire. Rimangono qui per alcune settimane dopo la proclamazione a divertirsi in tutti i modi, festeggiati da tutti e vezzeggiati dal nuovo pontefice; poi se ne ripartono e per tutta la loro vita non sentono parlare del papa se non da lontano. Ma io, io resto qui, sotto la frusta; lui è il mio sovrano, e se vuole mi caccia in prigione. Quindi i signori cardinali stranieri dovranno gradire che io mi prenda tutto il tempo necessario per sceglierlo, e provveda per quanto posso a fare i miei interessi.”CCXCIII Quanto valeva per il camerlengo, valeva per tutti i Cardinali residenti nello Stato Ecclesiastico, specie se con incarichi amministrativi o di governo, perciò Alberoni, nella sua cella,142 come le sue 142

Ecco come De Brosses descrisse l’allestimento del conclave: “Sapete che viene costruito nell’interno del Vaticano, in breve, si edifica una città dentro una casa, ed una serie di casette dentro a grandi saloni; e dal che vedete come questa sia la città meno abitabile e più soffocata che esista al mondo. Anzitutto i muratori hanno chiuso con pareti a mattoni tutte le porte esterne del palazzo, i portici delle logge e le gallerie più alte, e tutte le finestre, dove sono stati lasciati liberi soltanto due o tre riquadri di vetro per ciascuno, per fare entrare all’interno un filo di luce. Poiché i saloni sono vastissimi ed altissimi, nell’interno si possono rizzare delle cabine di legno con sopra dei soppalchi, lasciando lungo tutti i saloni un corridoio libero per il passaggio. Le stanze dove sono i dipinti più belli vengono lasciate libere per tema di sciuparle. Il grande peristilio che sta sopra il portale di San Pietro forma un’ampia galleria, dove c’è spazio per costruire le cellette da tutti e due i lati, lasciando nel mezzo un corridoio. Da solo questo peristilio 224


due precedenti dall’esterno rivestito di lanetta verde, doveva riflettere e scegliere a quale gruppo unirsi e chi votare per non avere fastidi in futuro. Benché nelle cronache del tempo le fazioni venissero ridotte a tre – Benedettina, capeggiata dal cardinale Accoramboni, ma in realtà diretta dai cardinali Coscia e Fini; Clementina, diretta dal cardinale Corsini e degli Zelanti, con alla testa il cardinale Albani – nella realtà erano in sostanza sempre le stesse, cioé Imperiale, Borbonica, Clementina e degli Zelanti, sempre detta “Lo Squadrone volante” e a cui Alberoni aderì per la quarta volta. De Brosses ricordò che, alla fine della processione dello Spirito Santo per l’apertura del conclave, cogli altri cinque borgognoni suoi amici e parenti, “siamo andati tutti e sei ad un grande banchetto, che gli inglesi avevano organizzato al Vascello, accanto a Porta San Pancrazio. In vita mia non ho mai fatto un pranzo più folle ed originale: eravamo tutti imbevuti della cerimonia che avevamo appena terminato di vedere. Ci venne in mente di tenere il conclave e di nominare il papa… ma ben presto gli inglesi hanno volto la cerimonia in derisione, quei maledetti eretici hanno turbato la serietà della funzione; a noi è stato impossibile resistere alla fazione inglese, la quale predominava per numero… Fu eletto Alberoni, ma non c’è stata mai un’elezione così poco canonica.” CCXCIV Il conclave vero invece durò sei mesi precisi e fu caratterizzato da manovre estremamente sottili e complicate, che videro la fazione benedettina confluire fra gli Zelanti e nelle quali Alberoni si tenne sempre nell’ombra e non fece nulla per farsi eleggere. Come al solito, il suo nome non fu mai fra quelli dei papabili, né poteva esserlo dopo la faccenda di San Marino. Secondo Castagnoli sembrò interessarsi non alle manovre elettorali, ma al vitto mandatogli dal suo palazzo e si tenne in contatto colle corti di Torino e di Vienna, non dimenticando Ravenna, sempre a causa dei lavori idraulici. Che non si sia interessato alle manovre elettorali è un’affermazione che mi pare molto poco attendibile ed è in contraddizione con quanto Castagnoli stesso riferisce della sua corrispondenza con Torino e Vienna. L’Imperatore aveva il diritto di veto; il Re di Sardegna no, ma ambiva ad un papa a lui favorevole, per cui, se Alberoni si teneva in corrispondenza con Carlo VI e Carlo Emanuele III, evidentemente rivestiva un ruolo tutt’altro che passivo. Tralasciando per il momento l’Imperatore, occorre sottolineare un aspetto non da poco: Carlo Emanuele era riuscito a chiudere in qualche modo tutti i contenziosi con Roma lasciati da suo padre Vittorio Amedeo. Aveva – o almeno i suoi ministri avevano, col suo avallo – una condotta politica assai spregiudicata, però era sempre stato attentissimo ai rapporti con alcuni porporati e nel corso della Successione Polacca aveva incontrato vicino a Bologna il cardinal Lambertini, col quale era restato in ottimi termini. contiene diciassette alloggi e sono i più comodi. Tutta la costruzione deve essere compiuta entro dodici giorni… Ogni alloggio si compone approssimativamente di una celletta, dove viene messo il letto del cardinale, da un’altra stanzetta a fianco, da un minuscolo studio, con una scaletta che sale al soppalco, dove vengono praticate due stanzette per i domestici: quando lo spazio lo consente se ne può fare qualcuna di più. Coloro che hanno il posto nella grande loggia sopra il portale, cioè il peristilio che dicevo prima, hanno il vantaggio di avere di faccia, dall’altro lato del corridoio, tutta una fila di casette lungo le finestre, che adoperano come stanze per lo studio o per le riunioni. Quando in fondo agli appartamenti rimangono certe stanzette senza uscita, o troppo poco spaziose per costruirvi, e persino per praticarvi dei corridoi, le lasciano così come stanno, mettendovi soltanto la celletta di legno, dove deve dormire il cardinale; è infatti regola fissa che egli abbia il suo letto nella celletta; sono questi gli alloggi migliori di tutti.…Ciascuna casetta di legno è uniformemente rivestita all’esterno di lanetta viola, se si tratta di una creatura del defunto Clemente XII, verde se è un cardinale dell’antico Collegio; all’interno ognuno la ammobilia come gli pare… hanno in ogni stanzetta una finestrina quadrata che prende un po’ di luce dai corridoi, immersi nelle tenebre. Lì dentro si sta come acciughe in barile, senz’aria, senza luce, con la candela accesa a mezzogiorno, distrutti dalla puzza, divorati dalle pulci e dalle cimici.” Cfr. DE BROSSES, op. cit., lettera LIV, pagg. 608-9. Aggiungo che i servizi igienici si riducevano ad un catino, una brocca e un vaso da notte a testa; e dove e quanto spesso li svuotassero non si sa. 225


Nel 1740, si volesse o meno, piacesse o non piacesse, Carlo Emanuele III era il sovrano del quale più si teneva conto in Italia, tanto dagli stranieri quanto dagli Italiani stessi, e tutto lasciava pensare che avrebbe continuato ad esserlo. Di lì a pochissimo, nell’imminente quanto imprevista Guerra di Successione Austriaca, sarebbero emersi in piena luce i suoi ottimi rapporti coi due cardinali Albani e non si poteva negare l’esistenza d’un piccolo partito sabaudo all’interno del Sacro Collegio. Alberoni queste cose le sapeva e sapeva pure quanto era saggio essere in buoni rapporti con un re, i cui dominii confinavano col Piacentino e le cui mire puntavano scopertamente ad acquisirlo. Per tutti questi motivi, per come andò a finire il conclave, da cui uscì eletto uno dei cardinali con cui il re di Sardegna andava più d’accordo e per il ruolo che, come dirò fra poco, Alberoni ebbe in quella scelta, non penso proprio di poter accettare l’affermazione di Castagnoli. Caso mai potrei ammettere che il Cardinale agì con molta discrezione, ma che si sia disinteressato di quanto succedeva non posso crederlo. La lotta era accesissima. I veti incrociati si sprecavano. In teoria i cardinali sarebbero dovuti restare nell’isolamento più completo per tutto il conclave, in realtà biglietti e lettere partivano ed entravano ogni momento, portando notizie ed ordini, dalle disposizioni ai domestici per il pranzo del giorno alle missive ai rispettivi sovrani, riferendo quanto fatto per sbarrare la strada a questo o quel candidato e favorirne un altro. Sappiamo per certo che, almeno in un caso, nel giugno del 1740, Alberoni scrisse all’Imperatore Carlo VI per pregarlo di lasciar i cardinali scegliere in pace e senza pressioni; e lo sappiamo perché è rimasta la lettera, però non sappiamo se fu l’unica e se ce ne furono di indirizzate ad altri sovrani.CCXCV Sia come sia, in quell’estate, vista giungere vicinissima alla tiara la candidatura d’Aldrovandi e poi fallire, secondo alcuni grazie ad una manovra d’Albani, che lo mise in pessima luce fra gli Zelanti, secondo Caraccioli grazie al mancato voto del cardinale Accoramboni,143 al quinto mese di conclave fu chiaro che le due fazioni principali, la clementina sempre guidata da Annibale Albani e la borbonica, capeggiata dal cardinale Troiano Acquaviva, nipote di quello di quando Alberoni era in Spagna, non riuscivano a prevalere l’una sull’altra. Acquaviva allora offrì un compromesso ad Albani su due nomi neutrali: Lercari o Lambertini; il primo era di Genova, l’altro degli Stati Pontifici e il 17 agosto 1740 fu scelto Lambertini. Avrebbe regnato fino al 1758. Come si arrivò alla scelta di Lambertini non è per niente chiaro. Benché pare che ne esistano diversi manoscritti,144 non sono stati pubblicati molti resoconti del Conclave del 1740 e di solito ci si appoggia a quelli di Caraccioli e de Brosses, i quali però non ne furono testimoni diretti.145 Nella sua storia il barone von Pastor non si discosta molto dalla versione del conte de Brosses, che perciò possiamo ritenere giusta e per questo l’ho riassunta qui. Manca però il motivo della scelta, per cui posso solo provare a fare alcune ipotesi. La prima nasce dalla prossimità di vecchia data di Lambertini alla fazione borbonica. Da giovane, ai primi del Secolo, aveva fatto parte a Roma d’un sodalizio culturale, il Circolo del Tamburo, un gruppo di letterati raccoltosi intorno al futuro arcivescovo monsignor Giusto Fontanini e a cui appartenevano molti giovani destinati alla porpora, fra cui, oltre a Lambertini, gli abati de Tencin e Passionei. Una caratteristica del Circolo del Tamburo era d’essere filofrancese e antiaustriaco. In 143

A pagina 40 della sua Vita del Papa Benedetto XIV. Prospero Lambertini, con note istruttive, stampata a Venezia da Simone Occhj nel 1783, L. A. CARACCIOLI scrisse: “De Tencin si adoprò quanto poté per mettere la tiara in testa all’Aldrovandi la cui politica gli era assai nota; e siccome credette di possedere il solo voto che gli mancava coll’aver avuto il suffragio del cardinale Accoramboni per mezzo del suo segretario cui gli riuscì di comprare, la teneva per cosa già fatta. Ma il pio Accoramboni fattosene scrupolo non diede il voto che aveagli promesso per il dì appresso ed il cardinale De Tencin con tutto che fosse assai scaltro dovette abbandonare la partita.” 144 Castagnoli, nella sua biografia, alla nota 37 di pagina 158 del 3° volume, uscito nel 1932, dice: “Le relazioni di questo lunghissimo Conclave sono molte e se ne trovano in parecchie Biblioteche, specialmente alla Vaticana. Nel cod. 408 della Bibl. Classense di Ravenna ce n’è una molto dettagliata ed interessante.” 145 Lo stesso vale per quello riportato nella Storia dell’anno 1740 alle pagine da 25 a 28 e poi da 30 a 35, il quale non collima quasi in nulla con quanto scritto da Castagnoli, Pastor, De Brosses e Caraccioli, ma è, se non il primo, almeno uno dei primi resoconti di quel conclave ad essere stato stampato. 226


origine lo era stato per motivi di simpatia culturale, ma alla fine la cultura aveva tracimato nella politica. Fontanini, l’anima del gruppo, aveva redatto il manifesto pontificio contro l’Impero per la questione di Comacchio nel 1708. Passionei, inviato ufficioso della Santa Sede al congresso d’Utrecht alla fine della Successione Spagnola, avrebbe mantenuto sempre un atteggiamento più incline alla Francia che all’Impero. Pure Lambertini si sarebbe tenuto abbastanza equidistante, ma, come arcivescovo di Bologna aveva sperimentato di persona fra il 1733 e il 1736 cosa poteva aspettarsi quantomeno dagli Austriaci e dai Borboni di Spagna. Ora, come scrisse de Brosses, la vox populi già prima del conclave aveva indicato nel cardinal de Tencin e non in Acquaviva colui il quale “avrebbe fatto il papa” e questo da un lato coincide sia con alcune frequenti asserzioni di papa Lambertini di dovere a lui la propria elezione, sia colla comune antica appartenenza al Circolo del Tamburo, però dall’altro si scontra sia con quanto, in alcune occasioni, avrebbe detto e scritto sempre papa Lambertini, riconoscendo un gran merito ad Alberoni, sia con alcune sue affermazioni sparse qui e là, diligentemente raccolte dal padre Rossi, al quale ne ho aggiunte alcune citate da Castagnoli – citate però incidentalmente e parlando di tutt’altra cosa – e che stranamente il padre Rossi non menzionò mai, benché conoscesse certamente il lavoro del suo confratello Castagnoli. Tutte insieme confermano il ruolo del Cardinale. Sono sette e, a partire dalla meno importante, abbiamo per prima un’affermazione dell’allora studente del Collegio, poi vescovo di Piacenza, Lodovico Loschi, il quale, nel pronunciare il panegirico del defunto cardinale nel 1782, cioè ben trent’anni dopo la sua morte, disse “La Chiesa è debitrice all’Alberoni d’aver veduto sulla Cattedra di San Pietro l’immortale Benedetto XIV.”CCXCVI L’affermazione non aveva fondamento chiaro, a quanto si sa, perciò, se ci fosse solo quella, sarebbe difficile condividere il generico commento del padre Rossi, secondo il quale non poteva “essere che l’eco sicura d’una testimonianza alberoniana.”CCXCVII Forse però il padre Rossi scrisse quelle parole senza aver visto l’ultima delle testimonianze che riporto qui, traendola da Castagnoli; comunque, andiamo avanti senza tralasciare nulla. La seconda affermazione viene da un passaggio d’una lettera del Cardinale, il quale, il 24 agosto 1740, spiegando perché Benedetto XIV volesse mandarlo a Bologna, scrisse alla marchesa Spreti di Ravenna: “Il Papa protesta con tutti essermi sommamente obbligato.”CCXCVIII Ovviamente una frase del genere può e può non riferirsi ad un ruolo svolto da Alberoni nell’elezione pontificia, per cui la registriamo e la mettiamo da parte, insieme alla precedente e ne aggiungiamo una terza analoga. Scrivendo a monsignor Millo,146 il quale conosceva perfettamente il Papa da più di trent’anni, il Cardinale diceva di Benedetto XIV: “Non ha lasciato di dire a più persone, l’ha detto a me stesso, e me l’ha scritto, che io più d’ogni altro de’suoi amici avevo contribuito a farlo Papa.”CCXCIX La quarta, non menzionata da Rossi, ma riportata da Castagnoli, e per tutt’altro motivo, cioè parlando delle istruzioni impartite al Cardinale in procinto di partire per insediarsi nella Legazione di Bologna, è un’affermazione dello stesso Papa, il quale, in una lettera del 26 novembre 1740 a proposito dei suoi parenti, scrisse ad Alberoni fra le altre cose: “Essendo piaciuto a Sua Divina Maestà senza verun nostro merito, e senza veruna nostra brama, ma per i suoi inscrutabili giudizi e per pura benevolenza degli Amici, fra’ quali ella è stato il primo, d’elevarci al Sommo Pontificato…”CCC

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Nato nel 1695 a Casale Monferrato, monsignor Giovanni Giacomo Millo dei marchesi di Tubine ed Altare aveva studiato legge sotto Prospero Lambertini, il quale, divenuto vescovo d’Ancona, nel 1727, l’aveva voluto come vicario generale, portandoselo come tale a Bologna e poi chiamandolo a Roma. Dal 4 ottobre del 1740 monsignor Millo era Referendario del Tribunale dell’Apostolica Segnatura di Giustizia e Grazia. Cardinale nel 1753, morì nel 1757. 227


La quinta è una lettera dell’8 marzo 1742 al cardinale Acquaviva in cui, lamentandosi di come andavano le cose, Alberoni scriveva: “Oh quanto dolore, e pentimento per quelli che con tanta smania e furore procurarono l’esaltazione di Benedetto XIV.”CCCI La penultima è un’altra menzione, indiretta, in una lettera del 26 luglio 1741. E’ citata da Castagnoli ed è anch’essa indirizzata a monsignor Millo, al quale, lamentandosi del Papa, Alberoni diceva: “mi ricordo del Ritratto che me ne fece al naturale, presente l’arciprete del Borgo, e se il Ritratto fosse stato fatto qualche tempo prima, era difficile vedere il Sig. Cardinale Lambertini Papa.”CCCII Questo fu ribadito due anni dopo in un’altra lettera a Millo, a cui il 17 agosto 1743 il Cardinale ripeteva: “Se il carattere ch’ella mi fece del nostro Santo Padre in casa dell’arciprete del Borgo l’avessi inteso prima del conclave, l’assicuro, Monsignore mio, che gli avrei risparmiato di scrivermi che fra i suoi amici ero stato il principale a contribuire a farlo Papa.”CCCIII Di nuovo, tutto questo non implica necessariamente un ruolo determinante svolto da Alberoni, però si comincia ad intravedere una sua influenza sulla decisione se candidare Lambertini e, insieme a quanto scritto nelle altre sei lettere, si può concludere che effettivamente abbia giocato un ruolo notevole, e diciamo pure determinante, nella candidatura e nell’elezione di Prospero Lambertini. Possiamo allora pensare che l’iniziativa del cardinal de Tencin sia stata appoggiata pure da Alberoni e sia sfociata nell’offerta dei due nomi ad Albani: Lercari o Lambertini? Direi di si. Perché prevalse il secondo? Ad Alberoni andava bene? Come mai lo sosteneva tanto? Da un lato mi viene da pensare – senza alcuna base documentale, è solo un’idea – che la sapesse una scelta gradita al re di Sardegna e non sgradita all’Imperatore, dall’altro che gli andasse personalmente assai bene. A Lambertini si era dovuta una serie di pareri che avevano condotto nel 1727 al concordato col Regno di Sardegna, benché il suo ruolo fosse stato messo in ombra da quello dei firmatari. Che con tali premesse Carlo Emanuele III fosse in buoni rapporti con lui non era strano ed era stato confermato nel 1734, quando si erano incontrati a Bologna durante la Guerra di Successione Polacca.147 Insomma la collaborazione fra Prospero Lambertini ed i Savoia era di vecchia data e tanto collaudata da farlo considerare molto più papabile di quanto si pensi comunemente, specie dagli Albani – e dunque dalla loro fazione – i quali erano legati a filo doppio al re di Sardegna. Per quanto concerneva Alberoni, Lambertini aveva molti aspetti positivi. Si conoscevano da quasi vent’anni. Lambertini, ancora monsignore, l’aveva difeso quando, nei primi tempi del processo e delle discussioni sulle pensioni spagnole, in pieno dibattito plenario aveva dimostrato, leggi canoniche alla mano, la fondatezza dei diritti d’Alberoni e l’insussistenza delle pretese spagnole, convincendo tutti a respingerle e salvandogli, almeno in linea di principio, le rendite. Non c’è alcuna traccia esplicita, però negli anni seguenti, nel corso della sua attività nelle congregazioni di Propaganda Fide, delle Indulgenze, delle Immunità, della Segnatura di Grazia e nella Consulta, Alberoni di occasioni per incontrarlo, cooperare ed apprezzarlo ne deve avere avute parecchie. 147

Carlo Emanuele III aveva pure un motivo famigliare per interessarsi alla città. Vi risiedeva infatti dal 1725 Francesco Agostino conte delle Lanze e di Vinovo, il quale, oltre ad essere il padre dell’arcivescovo e prossimo cardinale Vittorio Amedeo delle Lanze, era ufficialmente figlio del conte di Sales, ma in realtà figlio illegittimo di Carlo Emanuele II e di Gabriella Mesmes di Marolles, quindi fratello naturale di Vittorio Amedeo II e zio naturale di Carlo Emanuele III. Francesco Agostino aveva comperato la cappella di Sant’Antonio da Padova nella chiesa di Santa Maria dei Poveri, o chiesa dei Poveri della Nosadella, la prima nel lato sinistro, nella quale fu sepolto quando morì nel 1749. 228


Insomma, Alberoni andava molto d’accordo con lui, perciò, nonostante la profonda differenza di carattere; il nuovo Papa era per lui un’ottima scelta, o così parve finché non gli giocò uno scherzo da prete: gli diede la Legazione di Bologna.

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Capitolo XXIX Il primo periodo della Legazione a Bologna I problemi che Alberoni si trovò davanti a Bologna erano gli stessi già avuti a Ravenna, però su scala maggiore. Già di per sé difficili da risolvere, divennero impossibili per via del Papa. A Ravenna Alberoni era andato col pieno appoggio di papa Clemente, dal quale era stato sostenuto contro tutto e tutti, con fermezza ed energia. A Bologna Alberoni andò col pieno appoggio di papa Benedetto, il quale però era di tutt’altra tempra. Prospero Lambertini rimproverava, ma non puniva. Non l’aveva fatto da arcivescovo, non l’avrebbe fatto da papa. Non a caso i suoi detrattori l’avrebbero ironicamente definito “magnus in folio, parvus in solio” – grande nei voluminosi libri da lui scritti, piccolo sul soglio pontificio – proprio per la sua scarsa energia nell’asserire l’autorità pontificia nei confronti tanto delle corone estere quanto delle turbolente città e comunità laiche ed ecclesiastiche a lui soggette. Questo andava benissimo all’esterno, perché donò alla Chiesa un ventennio di calma, ripresa diplomatica ed autorevolezza quale non si vedeva da mezzo secolo e non si sarebbe più visto per almeno un altro secolo e mezzo, ma non andava bene per niente quanto a governabilità dello Stato, o meglio, degli Stati. La tendenza giurisdizionale d’allora era verso l’accentramento amministrativo. In Italia e fuori le corone concentravano i poteri nelle mani del sovrano e del suo apparato di governo. La Prussia di Federico II, la Sardegna di Carlo Emanuele III, la Napoli di Carlo III, l’Austria di Carlo VI e poi di Maria Teresa e Giuseppe II, il Portogallo sotto il marchese di Pombal erano altrettanti esempi dell’orientamento accentratore, iniziato dai sovrani della generazione precedente, orientamento che il Papa, in totale controtendenza, non aveva affatto nei suoi Stati. Alberoni in Spagna, sull’esempio di Luigi XIV, era stato uno dei più accesi fautori del centralismo e uno dei primi a metterlo in atto in Europa. A Ravenna era più o meno riuscito a spuntarla grazie al sostegno di papa Corsini, a Bologna gettò la spugna grazie al disimpegno di papa Lambertini. Il disimpegno però era dovuto a un altro aspetto, che non aveva nulla a che fare coll’indole dal Papa, ad un aspetto non voluto da lui e contro il quale non poteva fare niente: la Successione Austriaca. Un anno dopo la faccenda di San Marino e due mesi dopo l’elezione di Benedetto XIV, il 20 ottobre 1740, morì Carlo VI d’Asburgo e si aprì la questione della successione austriaca, che causò uno dei conflitti più devastanti del Secolo ed afflisse pesantemente gli Stati Pontifici, rendendoli teatro di battaglie sanguinose e passaggi di truppe. La Santa Sede si trovò di nuovo sotto la minaccia d’uno scisma se avesse abbandonato la neutralità. Riuscì a non farsi coinvolgere e i suoi reparti si limitarono a far da spettatori,148 il che però non evitò danni alle città minori e alle campagne e, per comprendere bene le difficoltà in cui si dibatté Alberoni, tanto da legato quanto da protettore del Collegio, sarà opportuno un riassunto dello svolgimento della guerra, che fu complicata e lunga. Per il momento, procediamo in ordine cronologico e concentriamoci sull’arrivo d’Alberoni a Bologna, dove trovò una situazione peggiore di quella di Ravenna e che la guerra avrebbe maggiormente complicata. Benedetto XIV non aveva perso tempo. Quattro giorni dopo la sua elezione, aveva convocato l’ambasciatore di Bologna, marchese Grassi, dandogli la buona notizia: Alberoni sarebbe venuto a Bologna. Caso mai il guaio fu che non la comunicò al Cardinale, il quale la seppe dagli amici e non ne fu troppo contento.

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Come quarant’anni prima, l’esercito non aveva reggimenti tolto quello delle Guardie di Nostro Signore e i Corsi. Sulla carta c’erano in armi 4.370 uomini. Non rientravano nel calcolo né il personale dipendente dalla Marina – per piccola che fosse era pur sempre di cinque galere – né quello delle milizie urbane e baronali, di poco valore militare, ma numericamente tutt’altro che trascurabili, come si è visto nel caso di San Marino, né, infine i circa cinquecento fra Svizzeri, Lance Spezzate e Cavalleggeri, tanto del Pontefice quanto dei Legati. 231


Non lo era nemmeno l’ambasciatore di Bologna, il quale, dopo aver cercato di convincere il Papa a non farne nulla ed essersi sentito ribadire la scelta, riferì al Senato, con apparente freddezza, ma ben sapendo che vespaio avrebbe suscitato, che Benedetto XIV il 21 agosto 1740: “Avuto cenno che mi accostassi, mi trasse in disparte e mi disse che avendo già il Sig. Cardinale Spinola Cesareo149 compiuta la sua Legazione, aveva deliberata la destinazione della medesima, che esaminando li requisiti di Caraffa, Ruspoli, di Borghese e d’altro, ai quali avria potuto conferirla, aveva giudicato di preferire a tutti il Sig. Cardinale Alberoni, uomo capace, stato Gran ministro di Spagna. Richiedesi dal nostro affare delle acque un esecutore di risolutezza e coraggio, che sappia superare gli incontri di tutte le difficoltà; che li nostri interessi camerali accennano pur anche essi bisogno di una testa forte, che non avesse paura di una coccarda verde, che presumesse di far contrabandi a man salva, a grave discapito dei nostri pubblici dazi.”CCCIV La lettera provocò una gran preoccupazione. Papa Lambertini conosceva Bologna da cima a fondo. Come arcivescovo ne conosceva perfettamente il clero e non lo stimava, come conte di famiglia senatoria ne conosceva a fondo la nobiltà e il Senato e ne aveva una cattiva opinione, come bolognese ne conosceva il popolo minuto e lo giudicava male. L’avrebbe messo nero su bianco nelle istruzioni al nuovo Legato, scrivendo, al nono punto: “la testa e la coda sono cattive in Bologna, cioè la nobiltà e la plebe, ma il corpo, cioè i cittadini e i dottori per lo più sono uomini dabbene, capaci ed onorati. Non mancano però fra i cavalieri alcuni di senno e di onore.”CCCV Dunque faceva un’eccezione per la borghesia, per i marchesi Magnani e Pepoli esplicitamente menzionati e lì si fermava. Sapeva quanti abusi tutt’e tre le categorie nobiliare, popolare e clericale commettessero a man salva e quanto fossero abituate a fare i propri comodi. Sapeva quali e quanti privilegi coprissero quegli abusi e come e qualmente a quei privilegi si sommassero le protezioni delle corone estere, graziosamente concesse ai collegi nazionali studenteschi ed a certe famiglie aristocratiche, per non parlare di quelle protette pure da parenti cardinali, come i Davia, i Gotti e gli Aldrovandi. Alberoni poteva essere la persona adatta a rimettere ordine, a condizione di coprirgli le spalle e, per l’appunto, proprio questo sarebbe mancato. Se in Romagna il Cardinale era stato sostenuto da papa Corsini, adesso a Bologna non lo sarebbe stato da papa Lambertini e lo sapeva, benché non lo dicesse. Si conoscevano bene e i precedenti di Lambertini come arcivescovo erano noti: un sant’uomo, che non puniva. Aveva scritto l’ambasciatore Marco Foscarini al Senato di Venezia dopo l’elezione: “Se dalla condotta da lui tenuta finora si può arguire sul suo modo di governare, esso certo sarà più mite che severo.”CCCVI Confermava lo stesso Lambertini: “io sono Papa prima di essere sovrano”, ma questo non era di buon auspicio. Applicando fino in fondo il Cristianesimo non si governa: si manda all’aria lo Stato; piaccia o no, è così. Gli esseri umani, è noto, hanno due orecchie; meno noto è dove: una sulla schiena e l’altra in tasca, la prima per sentire le punizioni, l’altra per ascoltare il proprio interesse. Sapere che si verrà perdonati è per quasi tutti un incentivo a non rispettare le leggi. Col perdono non si va lontano nel governo degli affari terreni; colle punizioni si, specie se immediate e dure. Alberoni lo sapeva, rimproverava e puniva; Lambertini, evangelico, 149

Il nome di battesimo del cardinale Spinola era un genovesissimo Giovanni Battista. Grassi lo chiamò Spinola Cesareo perché dal 1733 aveva il titolo diaconale di San Cesareo in Palatio. 232


rimproverava e perdonava. I due sistemi non potevano andare d’accordo e perciò, alla lunga, pure i due personaggi avrebbero smesso d‘andare d’accordo. Al Cardinale era noto quanto i Bolognesi stessero cercando di far cambiare idea al Papa. Avevano scritto al loro ambasciatore – era cosa nota e gliel’aveva riferito pure il marchese di Salas, ambasciatore napoletano a Roma – però non c’era nulla da fare. Benedetto XIV il 29 agosto aveva tenuto il primo concistoro, annunciando, fra le altre la nomina d’Alberoni e una volta detto in concistoro non si tornava indietro. I motivi erano ufficialmente solo due: sistemare le acque di Bologna e rivedere i conti. In realtà le istruzioni pontificie dategli prima di partire contenevano parecchio altro e si estendevano in undici punti. Tralascio gli aspetti più ecclesiastici dei primi tre, il quarto sul mancato impiego degli scarsi fondi per l’ospedale dei carcerati, il nono perché l’ho già riportato, le direttive su come regolarsi coi Lambertini al decimo e mi concentro sui rimanenti punti dal quinto all’ottavo. Alberoni veniva avvertito che l’amministrazione pubblica era del tutto rovinata – parole del Papa, il quale gliene avrebbe poi quantificato il passivo in 46.000 scudi romani di debito con la Reverenda Camera – principalmente per via del contrabbando, contro il quale raccomandava un’intensa vigilanza. Questo però era reso difficile proprio dagli abusi della nobiltà. Riassumeva il Papa all’Ottavo punto: “S’usano varie prepotenze, si moltiplicano i contrabandi, non si paga chi ha d’avere, i mandati anche di Roma restano senza esecuzione per le dipendenze di taluno da Principi Forastieri; ed è giunta a tal segno la baldanza che sopra la porta di casa Ercolani non vi è che l’arma dell’Imperadore; lo stesso succede in un delle porte della Casa Da Via, e la sola arma del Re di Francia è sopra la porta di un certo Cavagliere Beroaldi, che fa qualche fatto per la nazione Francese, quando in Roma gli Ambasciatori Regij tengono sopra la porta l’arma del loro Sovrano ed a mano destra quella del Papa, ed in Bologna anche una volta si faceva così dalla casa Pepoli quando teneva su la porta l’arma del Re di Francia, non avendone oggi veruna; per lo che il Signor Cardinale Legato è pregato ad avvertire a questo disordine, l’abolizione del quale non sarà difficile alla sue efficacia ed alla sua prudenza.”CCCVII Bastava questo per capire che le inframmettenze e le opposizioni non sarebbero mancate. Il Cardinale non era contento. Conosceva bene il nuovo Papa e, nonostante le promesse, probabilmente sapeva di rischiare d’esserne mandato allo sbaraglio. Preoccupato, scriveva in quei giorni alla marchesa Spreti: “La quiete necessaria alla mia età è a considerarsi,come pure il mio naturale portato a fare la giustizia con convenienza si, ma senza alcun rispetto umano, e questa non la potrò fare con gente che si crede suddita per la metà e per l’altra metà libera, e specialmente oggi con un Papa Bolognese.”CCCVIII Si rasserenò molto in grazia dell’undicesimo punto delle istruzioni, in cui Benedetto XIV aveva scritto: “Occorrendo qualche cosa al signor Cardinale Legato, la facci sapere a noi a dirittura, e potrà scriverci a dirittura facendo una sopracoperta a mons. Giuseppe Zancarelli, nostro Cappellano Segreto.”CCCIX A questo si sarebbe sommato un ulteriore incoraggiamento papale due mesi dopo: “… ella è nata per governare. Non si scordi però di grazia di farsi temere e di non calare i calzoni ogni volta che vede piangere, e di mettere fuori tutto i suo vigore contro 233


le prepotenze e dipendenze da Principi stranieri, ed in pro della pubblica economia, che resta debitrice alla Camera Apostolica, ch’è arsa come l’esca, di scudi quaranta sei mila.”CCCX Salutato il Papa, che l’incoraggiò a partire tranquillo, purché non attaccasse la Madonna di San Luca e il Gonfaloniere, il Cardinale lasciò Roma il 10 ottobre 1740 ed arrivò a Bologna con molta calma. Aveva ottenuto il permesso di recarsi a Piacenza per le faccende del Collegio tanto spesso quanto avesse ritenuto necessario e decise di profittarne. Giunto il 12 a Loreto, dov’era governatore suo nipote monsignor Faroldi, si fermò due giorni e parlò col cardinal Corsini, in viaggio per un’ispezione ai lavori idraulici di Ravenna, al quale consigliò di dire al cardinal Marini di smettere di porre ostacoli ai lavori e lasciar fare ai Ravennati secondo il progetto, se no sarebbe andato lui di persona a finire il lavoro. Ne avvertì il Papa per lettera e proseguì il viaggio per Fano e Faenza, dove giunse il 15 ottobre. Mandò a Bologna il suo maestro di casa, Annibale Giovannelli, con una lettera al Senato per concertare il proprio ingresso, che sarebbe stato fissato al 13 novembre. Nel frattempo si diresse a Piacenza e, dopo una sosta a Forte Urbano a salutare la nipote e il marito, marchese della Penna, che ne era il governatore, arrivò a Piacenza il 23 ed ebbe due brutte sorprese: i lavori erano fermi e tre giorni prima, il 20 ottobre, era morto l’Imperatore. La sosta dei lavori era tale da impedire di riprenderli in poco tempo; la morte di Carlo VI era un disastro, la cui portata non sfuggì al cardinale e di cui si parlerà dopo, perciò il 3 novembre ripartì per Bologna, si fermò a Parma l’indomani, il 5 era di nuovo a Forte Urbano e il 13 fece il suo ingresso solenne a Bologna. La prima sua cura consisté nel rinforzare il dominio pontificio, misura tanto più urgente alla luce di quanto stava prevedibilmente per succedere: se Francia ed Austria si fossero dichiarate guerra, avere dei nobili Bolognesi partitanti dell’una o dell’altra avrebbe significato la fine dell’ordine pubblico e del controllo papale. Alberoni, da giurista e da politico, sapeva essere sottile e fare distinzioni ineccepibili. Mise le mani avanti scrivendo al Papa il 19 novembre che i Signori Bolognesi: “vivono sicuri che non li inquietarò sopra i loro Privileggi, e di questo ne possono esser certi, perché sin tanto che sarò qui Legato farò conoscere ai medesimi la necessità che hanno i conservare quel resto di libertà che godono.”CCCXI Rispettare i privilegi non includeva tollerarne gli abusi e quelli il Cardinale iniziò subito a colpire, nella maniera più semplice: applicando la legge. Regolare le acque era il problema forse più grave, sicuramente di maggior danno a tutti, ma non lo si poteva fare per mancanza di denaro e il denaro mancava perché l’erario cittadino non ne guadagnava a sufficienza. Uno dei motivi delle mancate entrate era il contrabbando ed una delle sue cause era la protezione nobiliare ai contrabbandieri, perciò Alberoni decise di cominciare imponendo all’aristocrazia il rispetto dovuto alla Santa Sede. Può sembrare assurdo, ma gli aristocratici i quali avevano ottenuto una patente da un monarca straniero, si consideravano ipso facto sottratti alla giurisdizione pontificia e dunque esenti da gravami e dazi come se fossero diplomatici; ecco perché evitavano di mostrare le armi papali sui loro palazzi: farlo avrebbe significato riconoscersi sudditi del pontefice, mentre con quelle del solo sovrano di cui avevano la patente, potevano tentare qualche pretesa d’immunità. La pretesa immunità a sua volta era estesa alle genti di casa, cioè ai servi in livrea e a quanti avessero sul cappello o sugli abiti una coccarda coi colori del signore o del sovrano. Il Cardinale partì da lì. Uno dei suo primi provvedimenti consisté nel far reinnalzare sui vari palazzi le armi del Papa regnante, poi abolì le coccarde ed ordinò alle guardie di sequestrare tutte quelle che avessero trovato addosso a chicchessia e di lacerarle sul posto. Questo fece scemare 234


considerevolmente il contrabbando e si accompagnò ai provvedimenti contro gli incettatori di derrate, i quali le comperavano all’entrata in città e ne regolavano il prezzo a loro piacimento. Chi non si adeguò fu mandato sotto processo e ci fu un nobile che faticò molto a piegarsi e gli diede parecchio filo da torcere, il marchese Francesco Davia. Alberoni aveva avuto parecchio a che fare coi Davia in passato. Uno zio, Giambattista, aveva fallito per un soffio di rapire Vendôme nel giugno del 1702 ed era poi morto nel 1704 per le ferite avute nello scontro di Ponte di Nure che, come sappiamo, era stato dovuto alle informazioni parmensi passate da Alberoni ai Francesi. Un altro zio, Gian Antonio, morto da pochissimo, a gennaio del 1740, era stato cardinale, favorito dall’Imperatore e conosceva benissimo Alberoni, con cui aveva partecipato a tre conclavi. La moglie di Francesco, Laura Bentivoglio, era stata così maltrattata dal marito – che si era pure finto prete per confessarla e scoprirne eventuali tradimenti – da averlo dovuto abbandonare per rifugiarsi a vivere sotto la protezione dello zio cardinale; in una parola: Francesco Davia era una vera disgrazia per chi lo doveva frequentare. Le disposizioni alberoniane ebbero un effetto immediato. Nel giro di due settimane dal suo insediamento come legato, il Cardinale aveva messo in riga quasi tutti e a Bologna sembrava regnare almeno una parvenza d’ordine; un’eccezione era Davia. Ostinatosi a non voler mettere le armi papali sul suo palazzo, era finito sotto inchiesta per un duello col generale Lucchesini. Abituato fino a pochi mesi prima ad essere protetto dallo zio cardinale, aveva chiesto udienza ad Alberoni, ma se l’era vista rifiutare ed aveva saputo che l’inchiesta per il duello era finita ed il Legato aveva ordinato di processarlo. Preoccupato, essendo il rappresentante imperiale a Bologna, aveva chiesto ed ottenuto da Alberoni il permesso di rivolgersi al governatore di Milano, il conte di Traun, perché intercedesse in suoi favore. Traun aveva scritto ed Alberoni gli rispose il 29 novembre con una lunga lettera in cui accennava a quanto stava facendo e all’aver mandato sotto processo parecchi altri oltre a Davia, il quale dunque non era un caso isolato né una prova vivente di qualsivoglia avversione alberoniana all’Impero. Concludeva il Cardinale la sua risposta al Governatore: “Quando sia di piacere di Vostra Eccellenza, incontrerò di buona voglia l’occasione e il contento d’obbedirla, ma la prego, nell’istesso tempo, di far sapere al Cavagliere di unirsi in tutto e per tutto alla mente di Nostro Signore,150 di vivere differentemente dal passato, di non inquietare il governo e vivere come vivono tanti altri Cavaglieri suoi pari.” Aveva terminato con un minaccioso guizzo dell’antico umorismo, scrivendo: “Questo sarà il modo di essere da me considerato e distinto. Altrimenti facendo, può Vostra Eccellenza assicurarlo che non avrò alcuna difficoltà né il minimo scrupolo di farlo portare di notte tempi in un sacco nel Reno.”CCCXII Traun aveva promesso che il Marchese si sarebbe comportato bene. Alberoni aveva ammesso Davia alla sua presenza, gli aveva fatto una cortese paternale e tutto sembrava finito lì. Poi il Cardinale aveva ripreso la penna e riferito al Papa a proposito della concessa grazia, dicendo: “Io medesimo con un semplice memoriale pensava di fargliela: però non m’è discaro che un tal mediatore me la dimandi, perché spero la chiederà con condizioni tali, che faranno conoscere al marchese Davia esser suddito del Papa.”CCCXIII

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Appellativo con cui si indicava il Papa. 235


Questo modo di procedere deciso ma non brusco, temperato da grazie che attutivano l’effetto delle minacce, era proprio quanto voleva papa Lambertini, ma non era ciò che avrebbe voluto Alberoni; allora come mai lo faceva? Non ho una risposta sicura. Castagnoli scrisse nella sua biografia che probabilmente il Cardinale si era stufato d’essere mandato allo sbaraglio e che l’età ne avesse mitigato l’ardore. Certamente ci fu pure questo, ma penso a dei motivi più complessi, derivanti dalla situazione politica interna ed estera. Alberoni sapeva che il Papa avrebbe rifuggito qualsiasi prova di forza e, se si fosse presentato il caso, non l’avrebbe sostenuto, specie contro i Bolognesi. Se questo fosse accaduto, la sua autorità di Legato sarebbe svanita in un attimo, dunque doveva evitare lo scontro e concedere come una grazia quel che sapeva che le sue controparti avrebbero potuto ottenere appellandosi a Roma. Era in parte quanto aveva sperimentato a Ravenna, però con una complicazione maggiore, dovuta all’inframmettenza delle corone estere: piegare un nobile bolognese “patentato” dal re di Francia o dall’imperatore era sicuramente assai più difficile e dall’esito assai più incerto che piegare un patentato del Sant’Uffizio. Si poteva fare a condizione d’aver le spalle veramente coperte dal Papa; ma proprio questo mancava: Benedetto XIV non l’avrebbe mai sostenuto fino in fondo. Lo immaginava e ne ebbe la prova all’inizio della primavera del 1741. Visto che Davia si era piegato, più o meno, ma altri nobili no e continuavano ad inalberare le sole insegne delle corone estere, Alberoni si rivolse al Papa ed al Segretario di Stato dicendo abbastanza chiaramente che la Curia doveva premere sugli ambasciatori delle corone e sulle corone stesse. Mandò tre lettere in tre settimane, il 1°, il 5 e il 19 aprile 1741 domandando le stesse cose e non ottenne nulla. Era un brutto segno: lo lasciavano senza appoggio, come del resto temeva e sicuramente si aspettava. Il segno era tanto più brutto se messo in relazione agli avvenimenti politici ai quali ho accennato prima. Nel dicembre del’40, due mesi scarsi dopo la morte di Carlo VI, il giovane re di Prussia Federico aveva invaso la Slesia austriaca e adesso, nella primavera del 1741, era noto a tutti i più informati con quanto successo la diplomazia prussiana stesse coagulando una specie di fronte antiaustriaco, per ora solo germanico con Baviera e Sassonia, ma ben presto, forse, pure colla Francia. In queste condizioni, cosa era meglio? Mettere rudemente a posto i nobili bolognesi col rischio di farne altrettanti nemici della Santa Sede alla comparsa del primo esercito straniero, o far la voce grossa e poi lasciar correre? Dunque per evitare d’arrivare alla probabile guerra con una città ed una Legazione divise e in preda al disordine, Alberoni capì subito di dover eliminare ogni causa di disordine ed evitare ogni attrito. L’aristocrazia, messa in riga col bastone, forse più minacciato che maneggiato, fu resa tranquilla evitando di prendere i provvedimenti fiscali e gestionali voluti da Roma. La Reverenda Camera era a corto di denaro e la Curia tempestava. Certo, il Legato avrebbe potuto trovarne diminuendo gli stipendi, cancellando certi privilegi ed esenzioni. L’ambasciatore bolognese a Roma costava circa 10.000 scudi all’anno, ma si poteva eliminarlo? E il Gonfaloniere e gli Anziani in Palazzo quanto prendevano? E sommando le spese per loro e le loro attività e quelle per tanti altri via via fino ai 20 scudi al mese del Cancelliere della Cassa dei Malefizi ed ai dieci del Guardarobiere, senza dimenticare il giardiniere del Giardino dei Semplici si arrivava a somme elevate. Poi vi erano “molte segreterie e molti cassieri” e allora cosa bisognava fare? Tagliare? Sopprimere uffici e cariche? E poteva il Cardinale sopprimere il Gonfaloniere quando proprio il Papa tre mesi prima gli aveva raccomandato di non attaccare la Madonna di San Luca e il Gonfaloniere? Evidentemente no; e allora? E allora il Cardinale memore del passato, procedé “per vias planas”, come gli aveva a suo tempo scritto papa Corsini, però mise le carte in tavola e il 20 gennaio 1741, dopo aver elencato le vie per cui se ne andava il denaro, aggiungendovi la mancanza d’un fondo per il pagamento dei debiti, per coprire i cui interessi era necessario farne di nuovi, concludeva soavemente: “Clemente XII di santa memoria, fra le molte premure che mi fece nel mandarmi Legato in Romagna, una fu di dare qualche regola in questa materia, ed io da buon lombardo intrapresi l’assonto, ma appena che vi posi la mano, a forza de i ricorsi, che andarono 236


a Roma, il signor Cardinal Corsini mi scrisse lettera di suo pugno con le seguenti parole, che mi consigliava di camminare per vias planas, che in questo modo avrei risparmiato i disturbi a me, a lui e al Papa.”CCCXIV Per soave che fosse il tono, questa era quasi una dichiarazione di guerra: o mi date ordini scritti e inequivocabili e mi appoggiate sul serio, o io non mi muovo. Chiaramente da quell’orecchio la Curia non voleva sentirci. Il 18 febbraio Benedetto XIV firmò la lettere con cui ordinava ad Alberoni di cominciare lo studio d’un piano di riforme, così come avrebbero dovuto fare tutte le altre città degli Stati Pontifici. Da Roma il marchese Grassi, nella sua qualità d’ambasciatore bolognese, consigliò al Senato di non far nulla di nulla: “In tali circostanze io reputo che il miglior nostro contegno deggia essere quello di star quieti e quietissimi a vedere qual esito siano per avere li reclami di queste altre città, e tenerci affatto lontani dal ricorrere al Papa per qualunque altro nostro interesse. In questa nostra pericolosa contingenza potrà giovarci assalissimo l’esserci mantenuti benevoli al nostro Cardinal Legato, la di cui autorità e credito non dovrebbe aver debol forza per difendere le nostre pubbliche convenienze.”CCCXV Legato e Senato si intesero così bene da mettere in scena una commedia perfetta. Il primo convocò il secondo per il 2 marzo 1741 e tenne un bel discorso in cui disse d’aver avuto dal Papa l’ordine di chiarire l’ammontare dello sbilancio annuo e le sue cause, proponendo poi i rimedi necessari. Il Senato ricevé la comunicazione “con dimostrazione di non poco contento come parto del paterno amore di Sua Santità” – come riferì Alberoni al Papa il 7 marzo – e il marchese Grassi consigliò ai suoi pari di tirarla il più possibile per le lunghe, perché il Cardinale aveva “risposto alle proposizioni di Roma non da Legato, ma da Senatore nostro collega.”CCCXVI La Curia chiese la soppressione dell’ambasciatore, della Tavola degli Anziani e di parecchi segretari. Il Senato fece finta di nulla e Alberoni pure. La Curia insisté e il marchese Grassi consigliò di gettarle un po’ di fumo negli occhi, perciò il Senato rispose al Legato indicando lo sbilancio, le spese passibili di riduzione – soppressione di alcuni privilegi di privati e di famiglie, ma niente che toccasse il numero o le retribuzioni degli uffici pubblici – e, riguardo a come pagare i debiti, in sostanza rispose che, trattandosi di milioni, non c’era proprio da pensarci. Alberoni incassò la risposta senza commenti e l’inoltrò a Roma. Il Papa la trovò di suo gradimento, Grassi lo comunicò al Senato e consigliò di mettere in atto quanto era stato proposto. Il 3 giugno la Segreteria di Stato scrisse la stessa cosa ad Alberoni e questo fu l’ultimo segno di vita dato dalle prospettate riforme durante la sua legazione a Bologna. Infine Alberoni procedé ad eliminare un ulteriore focolaio di disordini. L’Alma mater studiorum, l’Università di Bologna, era nata nel 1088 come libera associazione di studenti, i quali sceglievano e pagavano i professori, riservandosi, nella loro qualità di datori di lavoro, parecchi privilegi. Raggruppatisi secondo il luogo d’origine, si erano poi organizzati in collegi nazionali, divisi in Intramontani, o Citramontani, ed Ultramontani, arrivando nel XII secolo a trentuno raggruppamenti nazionali. La costituzione Authentica Habita151 nota in realtà come Privilegium Scholasticum, stabilita da Federico Barbarossa fra il 1154 ed il 1158 aveva sottratto l’università a qualsiasi potere civile e nell’arco dei seicento anni seguenti gli studenti se ne erano approfittati non poco. 151

Il nome vero o titolo della disposizione è Privilegium scolasticum, cioè Privilegio scolastico. La dizione insolita di Authentica Habita deriva dall’appartenenza del medesimo Privilegium al Codice di Giustiniano, nel quale però, risalendo al XII Secolo, ovviamente fu inserito molto dopo la prima redazione, venendo a far parte delle cosiddette Novellae constitutiones, cioè delle disposizioni aggiunte al Codice dal 535, l’anno seguente a quello della prima emanazione, al 565, quando Giustiniano morì. Delle novellae del Codice di Giustiniano sono note tre raccolte: una anonima, greca, contenentene 168, di cui 158 emanate da Giustiniano e dieci successive; l’Epithome Iuliani, che ne ha 237


Il Privilegium concedeva delle immunità simili a quelle riservate al clero, fra le quali il foro separato, per cui gli studenti avevano il diritto d’essere giudicati a loro scelta dai propri insegnanti o dal tribunale ecclesiastico diocesano, ma non da quello civile. Per questa ragione molti, dichiarandosi studenti, si sottraevano alla giurisdizione del Legato; perciò, per controllare completamente l’ordine pubblico senza ledere i privilegi accademici, Alberoni assunse il titolo di Rettore dello Studium Bononiensis e in tale veste cominciò a mettere ordine con pieno diritto. Il 31 gennaio 1742 intervenne contro quanti si fregiavano abusivamente del titolo di studente, il 10 marzo ordinò la revisione delle Matricole entro otto giorni per riscontrare chi fosse veramente studente e chi no ed obbligò tutti a presentare la fede di frequenza agli studi; il 6 aprile emanò disposizioni sulle patenti degli studenti e il 23 fissò le norme per gli esami di medicina e chirurgia. L’ultima seccatura d’Alberoni fu nuovamente d’ordine idraulico e in realtà era la prima e la ragione per cui il Papa, visto quanto fatto a Ravenna, l’aveva scelto come Legato: occorreva rimettere l’Idice nel suo vecchio letto e farlo sboccare nel Po di Primaro. Non ho intenzione di dilungarmi su questa vicenda che ebbe altrettante vicissitudini ed opposizioni di quella di Ravenna, procurò al Cardinale quasi altrettante seccature e finì in nulla per colpa della guerra, rimandando sine die la sistemazione dell’Idice e di parte del suo bacino. Qui basterà dire che Alberoni ne fu incaricato il 14 novembre del 1740, con un chirografo cui era allegato un progetto che non gli piacque per niente, che respinse trovandolo inconcludente e costosissimo ed al quale obiettò che l’unico sistema per regolare le acque consisteva nel “rimettere il Reno nel Po”. Poi, avendo scoperto che la Reverenda Camera non voleva pagare nemmeno le spese di viaggio ai periti incaricati dei sopralluoghi, lasciò tutto fermo. Ai primi di marzo del 1741 il Papa si fece sentire e lui convocò quattro periti, i quali definirono il progetto costoso e ineseguibile fino all’inizio della buona stagione e alla decrescita delle acque dell’Idice. Il 25 marzo Alberoni inoltrò a Roma i loro pareri, facendoli accompagnare da una sua lettera e da uno dei quattro esperti per fornire spiegazioni a voce. Seguì la solita schermaglia già vista a Ravenna, con complicazioni maggiori date dall’ostruzionismo del cardinal d’Elci, legato di Ferrara, nel cui territorio scorreva – e scorre – per l’ultima parte l’Idice prima di confluire nel Reno, dal timore delle reazioni dei Veneziani e del duca di Modena e da voci contro uno dei quattro periti, il padre ferrarese Romualdo Bertaglia, il quale fu accusato di fare l’interesse della sua città contro quello di Bologna per aver rifiutato il progetto originario, dicendolo di nessun vantaggio per la provincia di Bologna e dannoso per quelle di Ferrara e Ravenna. Papa Benedetto, manifestando da bravo bolognese, il dubbio d’un campanilismo ferrarese di Bertaglia nei confronti di Bologna, ne chiese conto ad Alberoni, il quale rispose rimandandogli la lettera con cui il Papa stesso in gennaio aveva approvato, lodandola, la cooptazione di padre Bertaglia fra i quattro esperti e chiosando: “quando si degnò così scrivere, la Santità Vostra sapeva certamente che era ferrarese.”CCCXVII A maggio i progetti erano divenuti quattro e non si era ancora fatto nulla, perché a Roma si discuteva a tutt’andare. Il 10 maggio la Congregazione delle Acque stabilì cosa fare e il Papa mandò ad Alberoni gli ordini relativi, però il tempo era brutto e ancora non si poteva cominciare. A giugno il Papa brontolò che aspettava da un mese di sapere qualcosa e la sua lettera s’incrociò con quella del Cardinale che gli dava notizie, per cui il 26 giugno furono assegnati 100.000 scudi romani d’argento a quei lavori, mentre a Bologna e a Roma si sprecavano opposizioni passive e chiacchiere contro Alberoni e il nuovo progetto, in cui, peraltro, lui non aveva mai messo bocca. 124, e, infine, l’Authenticum, o Liber Authenticorum , con 134, dal quale Irnerio, riconosciutele autentiche, trasse le 97 novellae che inserì in quattro collazioni, o raccolte. L’appellativo Authentica Habita, che alla lettera significa “Sia avuta – o sia ritenuta – autentica” implica che, per ordine dell’Imperatore, la costituzione dovesse essere ritenuta di forma, forza e valore di legge pari a quella delle novellae giustinianee. 238


Avviati i lavori ed avuto il permesso di fare una scappata a Piacenza a controllare il Collegio, in settembre il Cardinale rientrò e trovò sul tavolo una lettera con cui il Papa gli comunicava d’aver pensato di deputare il Vicelegato a seguire i lavori al suo posto. La sua risposta fu secca: “All’età di 78 anni a doppo quella poca figura che ho fatto nel mondo, non sono in istato di soffrire un consocio e signanter un giovine che scappa dal Colleggio.”CCCXVIII Nella stessa lettera ci furono molte altre stoccate più o meno esplicite contro la Curia e andarono così bene a segno che il segretario di Stato, cardinale Silvio Valenti Gonzaga, protestò con Alberoni e col Papa per averlo sistematicamente scavalcato; e da allora la corrispondenza diretta fra Pontefice e Legato cessò. Come andò a finire tutta la faccenda? In nulla. Alberoni restò incaricato dei lavori, ma l’anno seguente portò in Italia la guerra e della sistemazione del bacino dell’Idice non si parlò più per tutto il resto del suo mandato e per molto tempo ancora, lasciando la provincia sott’acqua ogni volta che pioveva troppo Su questo complesso quadro bolognese di prepotenze nobiliari protette dalle corone estere e dai parenti in Curia, di privilegi ostacolanti la giustizia e l’amministrazione, di lavori intrapresi e abbandonati, di progetti, chiacchiere, voci, calunnie, debiti e interessi minimi e meschini, dal 1742 si abbatterono le vicende d’una guerra lunga e complicata, in cui le due parti in campo si combatterono per sette anni in tutta l’Italia centrale e settentrionale, da Velletri a sud a Milano a nord e dalla Savoia ad ovest a Ravenna ad est; e Bologna ci si trovò proprio in mezzo e con lei Alberoni.

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Capitolo XXX Legato a Bologna nella Successione d’Austria Veniamo finalmente all’intricatissima questione della Successione Austriaca. Carlo VI d’Asburgo, come il suo predecessore e fratello Giuseppe I, non aveva figli maschi, ragion per cui il 19 aprile 1713 aveva emanato una Pragmatica Sanzione, con la quale sanciva l’ordine di successione al trono, l’indivisibilità di tutti i suoi Stati ereditari e, in sostanza, il diritto della propria primogenita, Maria Teresa, di ricevere la corona. Entro il 1740 il documento era stato riconosciuto da tutti i principi tedeschi e da quasi tutte le Potenze europee; e alla sua morte Carlo poteva ritenersi certo che sua figlia sarebbe stata imperatrice. Ma naturalmente la faccenda non poteva scorrere così liscia. La dignità imperiale non era ereditaria ma elettiva e in questo caso la pietra dello scandalo fu il cosiddetto “voto di Boemia”. Secondo la Bolla d’Oro, il documento con cui nel 1549 l’imperatore Carlo V aveva stabilito le regole della trasmissione del potere nell’Impero, la corona di Boemia una delle nove152 che davano il diritto di eleggere il nuovo imperatore – poteva essere ereditata da una donna; ma la connessa facoltà elettorale poteva essere esercitata solo da un uomo. La nuova regina di Boemia era Maria Teresa d’Asburgo e, appena entrata in possesso dell’eredità, si era affrettata ad associarsi come Reggente, col rescritto del 21 novembre 1740 il marito, il granduca di Toscana Francesco Stefano, duca di Lorena e Bar. Se Francesco Stefano avesse rifiutato, cosa che ovviamente si guardò bene dal fare, il voto boemo sarebbe rimasto vacante. Gli Asburgo si sarebbero ugualmente potuti candidare al trono imperiale, come qualsiasi principe tedesco; ma non avrebbero avuto voce nell’elezione e la loro candidatura sarebbe riuscita sconfitta, facendoli precipitare al livello d’un qualunque sovrano germanico di seconda categoria. Che questa fosse la ragione vera dell’accettazione di Francesco Stefano lo si capì subito, perché il medesimo 21 novembre la corte di Vienna, oltre all’Atto di Reggenza, ne stilò un altro, con cui Maria Teresa dava al marito la facoltà d’esercitare le funzioni elettorali di Boemia. Ne nacquero contestazioni a non finire da parte degli Elettori di Sassonia e di Baviera e, poiché non c’è due senza tre, apparve un ultimo pericoloso scontento. Sua Maestà Federico II di Prussia decise che era giunto il momento di chiudere una volta per tutte un’antica controversia fra Hohenzollern ed Asburgo e d’occupare il Ducato di Slesia, sul quale la sua Casa vantava diritti antichi quanto dubbi. Così, il 12 dicembre 1740, un mese dopo l’entrata d’Alberoni a Bologna, Federico pubblicò una dichiarazione sulla Slesia e il 16 dicembre 1740 passò il confine, dando inizio alla Guerra per la Successione d’Austria. Maria Teresa, sperando nel sostegno delle altre Potenze, si oppose alle richieste prussiane; ma Federico ebbe appoggio e aiuto dagli elettori di Baviera e di Sassonia. Avevano sposato le uniche due figlie di Giuseppe I d’Asburgo e Federico suggerì loro che, se la Pragmatica Sanzione stabiliva la successione in linea femminile, era più giusto che il trono boemo toccasse prima alle due figlie di Giuseppe I, che era stato il più anziano dei due scomparsi imperatori, anziché a quelle del più giovane, a partire da Maria Teresa. L’idea piacque all’Elettore di Baviera e interessò molto Versailles e Londra. La Francia voleva tornare ad una Germania divisa e indebolita, eventualmente controllandone il capo; per cui sostenere un vecchio e tradizionale alleato come l’Elettore di Baviera era quanto ci voleva.. Per contro l’Inghilterra, che tramite il re Giorgio II, elettore di Hannover, aveva voce diretta nell’elezione dei sacri romani germanici sovrani, non gradiva certo un aumento della potenza francese a scapito di quella austriaca ed era pronta a osteggiare un candidato filofrancese. 152

In realtà al tempo di Carlo V erano di meno. Dalle sette iniziali, – Colonia, Magonza, Treviri, Palatinato, Sassonia, Brandeburgo e Boemia – salirono a otto quando la dignità elettorale venne estesa al duca di Baviera alla fine della Guerra dei Trent’Anni e diventarono nove dalla fine della Successione Spagnola, quando si eresse in elettorato anche l’Hannover. 241


Ogni indugio venne messo da parte quando si seppe che il 10 aprile 1741 l’esercito prussiano aveva clamorosamente sbaragliato quello austriaco. La Francia si armò “per proteggere le libertà tedesche” e mise in moto la propria diplomazia. Mentre, il 5 giugno, Luigi XV riconosceva la Slesia proprietà di re Federico, i suoi ambasciatori premevano sulla Svezia perché assalisse la Russia, alleata all’Austria da vent’anni, e si accordavano coi Prussiani per sostenere la candidatura dell’elettore di Baviera, Carlo Alberto di Wittelsbach, al trono imperiale. Poi, visto che l’impresa sembrava sicura vi si unì anche la Spagna, rispolverando le sue mire su Parma, Mantova e Milano. In agosto un “esercito ausiliario” francese passò il Reno per unirsi ai Bavaresi ed entrare nei territori asburgici. La Svezia dichiarò guerra alla Russia e in settembre, caduti gli ultimi dubbi, anche i Sassoni, proiettati verso la Moravia e l’Alta Slesia, mossero contro Maria Teresa. Tutto il Centro-Europa entrava nel conflitto. L’Austria era assalita da ogni parte e, nella tempesta, poche erano le buone notizie: l’Ungheria si era dichiarata in favore di Maria Teresa, che ne aveva confermato i diritti ed i privilegi; la Turchia, nonostante le sollecitazioni francesi, rifiutava di aggredire l’Austria; l’Inghilterra, travagliata da un’intricata situazione politica interna, non poteva intervenire, ma elargiva un sussidio annuo di 300.000 sterline per sostenere gli eserciti austriaci. Poiché Venezia si era ancora una volta dichiarata neutrale, restava una sola Potenza che non si era ancora mossa ed era la Sardegna. I Savoia in passato avevano riconosciuto la Pragmatica Sanzione Carolina; ma poiché il problema formalmente verteva sul voto di Boemia e non su di essa, Carlo Emanuele III era libero di fare come meglio credeva e veniva corteggiato dagli Alleati e dall’Asburgo, attratti entrambi dal suo esercito. I primi gli offrivano ingrandimenti in Lombardia, da dividere però coll’Infante don Filippo di Borbone, destinato al trono di Parma; la seconda si limitava a promettergli Vigevano. Carlo Emanuele cercava di prendere tempo, ma avvicinatosi al blocco franco-spagnolo, vide con preoccupazione profilarsi all’orizzonte l’insediamento di don Filippo, cioé d’un altro Borbone, in Lombardia. Badando più all’autonomia politica che all’ingrandimento territoriale, inutile se fosse stato circondatoi dai Borboni, comprese d’avere una sola strada e comunicò a Madrid che, se le truppe spagnole avessero tentato d’entrare in Lombardia, l’Armata Sarda avrebbe sbarrato loro la strada. Era cominciata una nuova guerra mondiale, al cui termine le cose sarebbero rimaste come erano prima e Bologna ne avrebbero fatto le spese. Questo era il quadro che Alberoni aveva visto comporsi giorno per giorno e conosceva a sufficienza il mondo e le corone per sapere cosa aspettarsi. Quando giunse la notizia dello sbarco alla Spezia e nello Stato dei Presidi di 12.000 fanti e 1.300 cavalieri spagnoli non ci furono più dubbi né illusioni: la guerra era ormai in casa; e infatti traversarono la neutrale Toscana ed entrarono nello Stato Ecclesiastico, per unirsi alle truppe napoletane in arrivo ed invadere la Lombardia austriaca. Come annunciato, la loro vicinanza alla Pianura Padana fece entrare in guerra a fianco dell’Austria il Piemonte, mentre nel Ferrarese – dunque nello Stato Ecclesiastico – andavano a mettere il campo gli Ispano-Napoletani. Precisato questo, vediamo come se la cavò Alberoni. Nella guerra precedente, a Ravenna, era riuscito bene o male a barcamenarsi e a ridurre i danni; ora fu assai peggio. Le prima nubi apparvero all’orizzonte con una lamentela austriaca nel marzo del ‘41: si aveva notizia che il conte Zambeccari a Bologna si valesse d’un certo Belgrano per arruolare truppe per il Re Cattolico. E la neutralità della Santa Sede? Papa e Segretario di Stato scrissero immediatamente al Legato il 25 marzo del 1741: controllasse, verificasse e vietasse, subito. Alberoni il 1° aprile rispose che il conte Zambeccari era un uomo “onorato e incapace di fare il vile commercio che è stato rappresentato alla Santità Vostra.” Lui comunque – assicurò – avrebbe vegliato e “Se mai Vostra Santità venisse importunato sopra tali ingaggiamenti, risponda pur alto e con franchezza che qui non si fanno né si faranno.”CCCXIX 242


Era quasi vero, perché, come spiegò il 5 aprile al cardinal Valenti, due ufficiali spagnoli avevano arruolato “due Modenesi e tre Veneziani” per la guarnigione di Orbetello, ma, sapeva, come avrebbe ammesso una settimana dopo, che gli arruolamenti si facevano oltre il confine della Legazione e nel Ducato di Modena. Però, come ha provato il padre Castagnoli, il conte Zambeccari aveva fornito un passaporto al padron di barca riminese Angelo Marchini, il quale, almeno dall’8 febbraio 1741, s’era impegnato con una scrittura privata a trasportare con la propria barca dal traghetto di Bologna a Pescara le reclute fatte a Bologna dal tenente arruolatore di Sua Maestà Napoletana Giovanni Battista de’ Vigliani. Marchini era stato intercettato a Pesaro mentre si dirigeva a Pescara e le autorità pontificie locali avevano inoltrato al Papa tutti i documenti sequestratigli, dai quali emergeva che quello fosse il suo quarto viaggio, fatto, come i precedenti, portando da 34 a 36 reclute, 22 delle quali però questa volte erano sfuggiti alle guardie pontificie. Ad essere veramente rigorosi, essendo Napoli formalmente neutrale e comunque non in guerra contro gli Austriaci, arruolare negli Stati Pontifici per conto del neutrale Carlo III non sarebbe stato irregolare. Poiché però i Napoletani stavano venendo a soccorrere gli Spagnoli, perché Filippo V aveva chiesto al figlio di rendergli i reggimenti prestatigli nel 1733 per conquistare le Due Sicilie e poi restati a Napoli, era evidente che un cavillo del genere in una disputa con Vienna non avrebbe retto; perciò Benedetto XIV aveva ripreso la penna e scritto ad Alberoni: “Se altre volte si è ingaggiato in Bologna, si poteva dire a mezza bocca che ciò facevasi per ordine di chi comandava le feste, o almeno per ordine della sua famiglia, e chi sarà mai che possa dir ciò oggidì, quando noi non facciamo altro dall’alba a mezzanotte che strillare e dar ordini contro questi attentati.”CCCXX Alberoni rispose al Papa e a Valenti a volta di corriere il 19 aprile, spiegando che gli arruolamenti non erano stati fatti nella Legazione, ma oltre il confine e nello Stato di Modena e aggiungeva: “tali ingaggiamenti non succederanno. Mi sono lasciato intender abbastanza che in caso di contravvenzione verrò a risoluzioni sorde, senza causar impegni fra le Corti, e il vantaggio che ho è d’esser creduto capace d’eseguirle, senza che la Santità Vostra vi abbia la minima parte… Per altro il parer mio sarebbe di non stuzzicare nelle presenti congiunture il vespaio.”CCCXXI A Valenti aggiunse: “non vedo perché fare tanto strepito e tante doglianze sopra i presenti ingaggiamenti, quando che sono stati sempre fatti, che qui non vi è stata alcuna proibizione, anzi che palam et publice li hanno fatti i tedeschi, spagnuoli e francesi, con scienza ed intelligenza dei Signori Cardinali Legati.”CCCXXII Mi sono soffermato su questa faccenda, del tutto marginale nell’insieme della guerra, perché costituì lo spunto al quale due anni dopo si rifecero gli Austriaci e soprattutto il marchese Davia per mettere in difficoltà e poi danneggiare il Cardinale. Conscio di quanto si preoccupassero a Roma e del rischio d’esserne sconfessato, Alberoni agì con la massima discrezione ed autonomia, mettendo la Curia davanti al fatto compiuto. Scrisse al conte di Traun a Milano e al generale conte von Wachtendonk comandante le truppe austriache in Toscana, lamentandosi di non essere stato avvertito direttamente e pregando di farlo in avvenire. Traun si disse non responsabile dei passi dell’ambasciatore asburgico a Roma e fornì garanzie per il futuro. Non si parlò più degli arruolamenti per tre mesi, cioè fino a quando il marchese Davia riferì al Legato che il conte Zambeccari continuava a coprire quelli fatti dal famoso Belgrano a Molinella, Selva, Bargella, Budrio e Draghetto. Alberoni mise in moto la polizia e interrogò il conte Zambeccari, ma il secondo ovviamente negò tutto, mentre la prima non trovò traccia di arruolatori, 243


né di ingaggi di alcun genere, portando invece il Bargello a riferire che, caso mai, oltre ad aver mentito, Davia era reo d’aver tentato il contrabbando di riso e la corruzione della forza pubblica preposta ai controlli. Il Cardinale lasciò perdere tutto, ben sapendo che le lamentele di parte austriaca – come avvenne entro l’autunno – si sarebbero smorzate fino a scomparire, mentre il pericolo vero sarebbe giunto colla ripresa delle operazioni. Agendo con una certa autonomia, limitando l’interazione con Roma a mettere la Curia davanti al fatto compiuto, che di solito voleva dire riferire il problema e il modo in cui l’aveva già risolto, era riuscito se non ad evitare, quantomeno a differire alla primavera del 1742 l’entrata dei belligeranti nella Legazione. A gennaio del ’41 era stato capace di convincere gli Austriaci a cambiare l’itinerario dei 4.000 uomini diretti da Milano in Toscana; in marzo aveva consentito alla domanda di passaggio dei carriaggi – pochi, una mezza dozzina – per il Bolognese; a settembre aveva potuto evitare il transito gratuito di 600 cavalieri del generale Walsegg, consentendo il passaggio a condizione del pagamento da parte del Governatorato di Milano dei quartieri e dei foraggi e lo stesso era successo in novembre per un passaggio di cavalleria – appena 130 uomini – dalla Toscana alla Lombardia, ma adesso, ai primi del 1742, lo spazio di manovra era ridotto a quasi niente. La colpa era degli Spagnoli. Il contingente sbarcato ad Orbetello aveva pianificato la giunzione alle truppe napoletane nella zona di Foligno e queste ci stavano arrivando – come riferì Valenti ad Alberoni – risalendo l’Appia e poi, oltre Roma, la Flaminia. Da parte loro gli Austriaci non intendevano aspettarli colle armi al piede ed avevano già chiesto l’ingresso negli Stati del Papa. Da quel momento cominciarono i guai per il Legato. La sua avversione agli Austriaci era nota, benché risalisse a molto tempo prima e fu alla base d’una prima voce incontrollata corsa a Roma in marzo: Alberoni aveva permesso agli Spagnoli di costruire dei magazzini nel Bolognese. Il Cardinale rispose il 27 marzo: i commissari del Re Cattolico avevano chiesto del grano e l’avevano regolarmente pagato, poi l’avevano immagazzinato sul posto. Tutto era confacente alle regole di guerra del tempo e non c’era stata alcuna violazione. Ma negli stessi giorni l’esercito spagnolo al comando del duca di Montemar – che Alberoni conosceva fin dal 1710 – arrivò in Romagna e cominciarono i guai. Quello che venticinque anni prima era stato un organismo da lui ben amministrato e dotato di tutto, adesso era un’accozzaglia di gente malpagata, mal equipaggiata e non particolarmente desiderosa di battersi. Ne conosciamo bene le condizioni da ciò che Carlo Goldoni scrisse nelle sue memorie e mise in scena in due commedie,153 dicendole frutto di quanto aveva visto e sentito; ed effettivamente l’organizzazione delle truppe spagnole lasciava parecchio a desiderare. Non rispettavano gli accordi, non avevano denaro per pagare quanto chiedevano e consumavano il doppio del necessario, sprecando e guastando a destra e manca. Il 23 maggio, non avendo potuto impedire il loro arrivo a Bologna, il Cardinale riferiva tristemente al Segretario di Stato: “Mancano fino dei stracci per i feriti… non così dicono a bocca aperta tutti gli Offiziali, che si trovavano nella spedizione di Sicilia, in cui v’eran sin le pianelle e i berettini della notte per gli ammalati. E’ cosa che fa compassione il considerare come è venuta questa armata in Italia, e come si è governata dopo che vi è. Iddio sia quello che non l’abbiamo a vedere battuta, perché la parte che retrocederà, e quelli che la seguiteranno, causeranno l’eccidio di questo paese.”CCCXXIII Quasi tutti gli ufficiali di grado più elevato nell’esercito spagnolo avevano cominciato la carriera quando lui era a Madrid e molti gli dovevano qualcosa: favori, gradi, avanzamenti e non se ne scordavano. Valendosi di questo, cercò di limitare i danni, ma poté far poco e quando seppe che il 153

In viaggio da Venezia – che affermò d’aver lasciato nel settembre del 1741 – alla Toscana, Goldoni finì per sbaglio nell’esercito spagnolo a Rimini e ci si trovò bene, organizzandovi alcune rappresentazioni teatrali e restandoci fino alla fine del Carnevale del 1742, come racconta nel capitolo quarantacinquesimo delle sue Memorie. A quanto scrisse, travasò senza alcuna coloritura le persone e i casi che vide nelle commedie L’amante militare e La guerra. 244


Papa aveva concesso – per parità – l’entrata nel territorio pontificio agli Austro-Sardi, a condizione che fosse di solo transito, capì perfettamente che una volta entrati non ne sarebbero usciti e cosa poteva aspettarsi. Il marchese Davia cominciò subito a creare difficoltà. Secondo Alberoni fece un’intensissima propaganda filo-austriaca – l’ideale avendo gli Spagnoli accampati alla Samoggia e i loro ufficiali alloggiati in città – e incoraggiò i Senatori a chiedere al Legato il passaporto per andare al campo austro-sardo ad ossequiare il re di Sardegna. Era un insieme di atti che gli Spagnoli avrebbero potuto tacciare come una presa di posizione pontificia contro di loro: con quali conseguenze? Il 29 maggio 1742 gli Spagnoli si diressero verso il Panaro, spostando il campo a Castelfranco. Si addossarono a Forte Urbano e tentarono di valersene come loro posizione fortificata. Da Roma venne l’ordine di non cedere e fu rinforzato il presidio; intanto erano iniziate le scorrerie degli ussari ungheresi contro gli Spagnoli, scorrerie che però devastavano il territorio, depredavano i contadini e lasciavano civili morti e feriti dietro di sé. Sempre più deboli e avendo consumato tutto il consumabile intorno a Castelfranco, il 18 giugno gli Spagnoli spostarono di nuovo il campo, stavolta a Cento, mentre il 22 il conte di Traun notificava ad Alberoni d’essere costretto a far entrare le truppe austro-sarde nella Legazione. In realtà, da un punto di vista militare generale, l’ideale per i Sardi sarebbe consistito nell’impedire a Montemar d’oltrepassare il confine pontificio sul Po; ma il duca di Modena Francesco III si sarebbe opposto sicuramente all’idea di dover alloggiare e mantenere l’Armata austro-sarda. Carlo Emanuele III non intendeva far sembrare la presenza degli Spagnoli sul territorio ecclesiastico come risultante dalle sue scelte strategiche, ma non voleva farli avanzare fino a Parma, perciò l’unica soluzione consisteva nell’entrare nel Parmense – e questo l’aveva fatto – per obbligarli ad accantonarsi nel Modenese e al tempo stesso impedire loro l’accesso alla Lombardia. Poiché il duca di Modena, ancora neutrale, aveva detto chiaramente che, se uno dei due contendenti l’avesse danneggiato, lui si sarebbe schierato con l’altro, era necessario evitare che Francesco III capisse il trucco, almeno finché le armate sarda e austriaca non fossero completamente radunate: e a questo sarebbero bastate le arti diplomatiche del primo ministro sardo, il marchese d’Ormea. Francesco III da parte sua si mosse molto ingenuamente, non rendendosi conto che i suoi interessi avevano cominciato a divergere da quelli sardi da quando si era dichiarato neutrale. Per di più la Spagna premeva, allettandolo con promesse amplissime, molto ascoltate dal momento in cui era stato costretto ad alloggiare nel Modenese 12.000 Austriaci; e gli Austro-Sardi lo sapevano e non si fidavano; e lui sapeva che loro sapevano ma riteneva si fidassero. In breve: Carlo Emanuele III, visto che il Duca proprio non voleva schierarsi con lui ma aveva detto di considerare l’accantonamento austriaco ai suoi danni come una spinta a buttarsi colla Spagna, decise di neutralizzarlo. Accettò la neutralità di un mese da lui proposta, ben sapendo che gli serviva a ricevere dalla Spagna la risposta al negoziato che stava conducendo e, quando il termine scadde, il grosso delle truppe piemontesi erano arrivate, l’artiglieria pure e gli intimò la consegna delle cittadelle di Modena e Mirandola. Francesco ordinò ai suoi di resistere e andò nel Ferrarese al campo ispano-napoletano. Alberoni con questo si trovò una nuova tegola sulla testa, perché in giugno si sparse la voce che lui fosse stato il tramite e la magna pars dell’alleanza fra Modena e Spagna. Preoccupato, cercò di tenersi in buoni rapporti cogli Austriaci, ma questo significò non prendere di punta il marchese Davia, da lui cordialmente detestato. Il 27 luglio Carlo Emanuele III arrivò a Bologna. Alberoni mandò il suo maestro di camera al campo sardo dal marchese d’Ormea e si sentì dire che il Re avrebbe immensamente gradito una sua visita, perciò si recò a riverirlo nel pomeriggio di quello stesso giorno ed ebbe un colloquio molto cordiale d’un’ora intera. Questo andava a tutto suo vantaggio sia per la situazione presente di Bologna, sia perché correvano voci di possibili accordi austro-sardi in base ai quali, se tutto fosse andato bene, alla fine della guerra Piacenza sarebbe divenuta parte del Regno di Sardegna e con essa il Collegio. 245


Intanto il duca di Montemar aveva compiuto alcuni altri movimenti ma, fiaccato dalle diserzioni, che avevano raggiunto il numero di 10.000 su 27.000 effettivi iniziali, non poté far altro che ritirarsi dal Panaro fino a Rimini, dove arrivò alla fine del mese. Tallonato dal contingente sardo, fu costretto a ripiegare ancora fino a Foligno, battuto senza aver sparato un colpo in tre mesi, a parte alcuni piccoli scontri di retroguardia. L’arrivo sulle Alpi d’un secondo esercito spagnolo nominalmente comandato dall’infante don Filippo di Borbone, secondogenito di Filippo V ed Elisabetta Farnese, costrinse i Sardi il 13 agosto ad invertire la marcia per tornare in Piemonte. Le loro avanguardie entrarono a Bologna il 18, Carlo Emanuele III il 24 e andò ad alloggiare al monastero di San Michele in Bosco. Alberoni fu a riverirlo all’arrivo e il 28, prima della partenza, avvenuta il 29 agosto. La nobiltà coi festeggiamenti al Re prolungò quelli della tradizionale festa della porchetta.154 Ci furono balli, opere in musica, feste di vario genere e tanto fastose da far stupire Carlo Emanuele III: come potevano i Bolognesi, con tutti i loro debiti coi Genovesi, permettersi tali spese? E Alberoni, ironico, gli rispose che “era solito dei falliti lo spendere con generosità.”CCCXXIV Nei due mesi seguenti ci fu un transito continuo di truppe asburgiche e non fu indolore. Alberoni riuscì a ridurre i danni, ma non ad impedirli e, andatisene gli Austriaci, a metà ottobre si fu daccapo cogli Spagnoli che erano venuti loro dietro. Montemar era stato rilevato dal conte de Gages, che aveva militato nelle Guardie Valloni del Re di Spagna fin dal tempo della Successione Spagnole e, come Montemar, era stato in Sardegna e in Sicilia. Poiché gli altri alti gradi non erano cambiati, Alberoni – come scrisse al cardinal Valenti il 28 ottobre – si trovò di nuovo ad aver a che fare coi suoi antichi clienti di venticinque anni prima, però ne cavò poco, perché da un’armata tanto male in arnese come la loro c’era poco da cavare. Gli eserciti andarono ai quartieri d’inverno: gli Austro-Sardi nel modenese, gli Spagnoli a Bologna e lui a letto col raffreddore e con altri malanni, che ce lo tennero fino a febbraio. Il 1° Febbraio 1743, in grazia dei tassativi ordini avuti da Madrid, de Gages si mosse per traversare il Po e l’8 fu inaspettatamente agganciato e battuto dagli Austro-Sardi a Camposanto. A dire il vero, entrambi i contendenti cantarono vittoria, ma, poiché gli Spagnoli non erano riusciti nel loro intento di passare il fiume, la vittoria era ovviamente degli Austro-Sardi. Stavolta gli Spagnoli si trovarono in condizioni davvero brutte e le videro peggiorare per l’improvvisa partenza del contingente napoletano. La squadra inglese del Mediterraneo, su cui si sapevano imbarcati 7.000 fanti di marina, si era presentata davanti a Napoli. L’ammiraglio aveva intimato a re Carlo di ritirare le truppe dall’Emilia o affrontare il bombardamento e lo sbarco. La guarnigione di Napoli non raggiungeva i 5.000 uomini e le artiglierie costiere erano insufficienti, perciò l’ultimatum era stato accolto, le truppe napoletane avevano lasciato l’Emilia e gli Spagnoli erano stati battuti. Questo però aveva innescato una catena di eventi che avrebbero afflitto gli Stati del Papa e in particolare Alberoni. Mentre gli Spagnoli ripiegavano attraverso il territorio pontificio fino al confine tra lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli sul Tronto, dove sarebbero rimasti a svernare, sperando che Carlo di Borbone li facesse entrare in Abruzzo, salvandoli dall'attacco distruttivo austriaco, prevedibile alla ripresa delle operazioni nella primavera del '44, da Vienna partirono i primi fulmini contro il Legato di Bologna. Il Cardinale aveva già avuto dei fastidi in marzo, quando era stata diffusa una sua lettera falsa in cui veniva fornito un resoconto di Camposanto sfavorevole alla Spagna, attribuendole la perdita di oltre

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Secondo alcuni la Festa della Porchetta commemorava l’entrata a Bologna di re Enzo di Sardegna, figlio legittimato dell'imperatore Federico II, fatto prigioniero alla battaglia di Fossalta il 26 maggio 1249 e tradotto a Bologna il successivo 24 agosto; secondo altri la festa ricordava la presa della rocca di Faenza nel 1281, caduta a seguito del tradimento di Tibaldello de’ Zambrasi, cui era stata rubata una porcellina. La festa iniziava il 14 agosto, durava dieci giorni ed era conclusa, il 24 agosto, col lancio d’una maialina arrosto, dunque d’una porchetta, offerta dal Legato al popolo. La tradizione fu fatta cessare dai Francesi nel 1796. 246


6.000 uomini – il che non era molto lontano dal vero155 – e si diceva che i rimanenti ottomila fossero tutti malconci, cosa che chiunque aveva potuto constatare a Bologna vedendoli tornare dal campo di battaglia. Alberoni scrisse all’ambasciatore francese ed al nunzio a Torino in marzo e confutò pienamente l’accusa, ma si trovò in una guaio peggiore: il nunzio a Vienna, l’arcivescovo Camillo Merlini Paolucci, avvertì Roma che il conte di Traun aveva presentato una relazione durissima in cui si accusava il Legato d’aver somministrato agli Spagnoli una certa quantità di carri, protetti da gente armata – birri, facchini e birichini156 – arruolata appositamente, la quale aveva sostenuto gli Spagnoli nel corso del combattimento. Traun aveva inoltre distribuito la sua relazione ai ministri esteri, tutti neutrali meno quello di Sardegna, e la notizia era sulle bocche di tutti. Il nunzio aveva ribattuto subito che era impossibile che fossero stati raggruppati insieme sbirri e birichini, perciò la notizia era del tutto infondata e, ammesso che gli Spagnoli fossero riusciti ad arruolare i birichini e i facchini, che c’entrava il Legato? E, se erano stati davvero tanti, come mai non ne era stato preso almeno uno, morto o vivo che fosse? Le rimostranze di monsignor Merlini non ebbero quasi nessun esito. Gli Austriaci ribatterono, con una sottigliezza per loro inusuale, di dolersi non dei carri, ma delle armi fornite. Giuntagli da Roma la notizia per conoscenza, Alberoni, alzatosi dal letto da dieci giorni scarsi, scrisse subito al Segretario di Stato, al conte Traun, al marchese d’Ormea e al nunzio a Vienna e sottolineò che il preteso apporto pontificio si riduceva a un centinaio di criminali, tutti contumaci e di cui molti condannati alla galera o alla forca. Traun non mollò la presa: Alberoni gli si era opposto con successo troppo a lungo e questa pareva l’occasione buona per levarselo di torno; e Maria Teresa d’Austria, che non fu mai la benevola e saggia matrona poi dipinta dalla propaganda austriaca, ma una regina prepotente, arrogante ed avida, era intenzionata – come riferì monsignor Merlini il 2 marzo – ad esigere dal Papa la rimozione del Legato di Bologna. Il cardinal Valenti cercò una via di mezzo e pregò Alberoni di venire a Roma, senza dirgli nulla di quanto aveva riferito Merlini. Alberoni rifiutò. Aveva capito perfettamente cosa stava accadendo e non voleva dare soddisfazioni agli odiati Austriaci. Valenti lo sollecitò e lui rispose di no. Valenti l’avvertì che si pensava d’aggredirlo e lui ribatté di non aver paura, aggiungendo che, dopo oltre settanta giorni di letto e altri venticinque di convalescenza in camera, non era proprio in grado di mettersi in viaggio, per di più col freddo. Da Vienna gli diedero un’altra mazzata: sequestrarono tutti i beni appartenenti al Collegio. Alberoni scrisse al nunzio, ma monsignor Merlini non riuscì a far nulla: i nemici del Cardinale erano decisissimi a danneggiarlo e questo provvedimento implicava il differimento sine die dell’apertura dell’Istituto, originariamente fissata alla fine di luglio del 1743. Non si poteva procedere se non c’erano i soldi necessari e, benché Alberoni disponesse delle rendite di Castel Romano e degli interessi di 60.000 scudi investiti in suo nome a Roma dal signor Della Torre in luoghi di monte, cioè in obbligazioni,157 i circa 5.000 scudi annui d’entrata necessari 155

Le relazioni ufficiali delle due parti convennero sul numero di 6.000 tra morti e feriti rimasti sul campo dopo lo scontro, ma differirono, ovviamente, nel computo delle rispettive perdite. Gli Austro-Sardi ammisero 1.000 austriaci e 700 piemontesi, attribuendo i rimanenti 4.300 agli Spagnoli, i quali, a loro volta, sostennero di non aver perso più di 1.500 uomini e che tutti gli altri fossero nemici. Il calcolo in base ai cadaveri e ai feriti restati sul campo era reso impossibile da vari fattori: coll’eccezione di pochissimi reggimenti, tutti e tre gli eserciti vestivano un’uniforme bianca; tutti e tre erano composti da soldati professionisti originari pure dei Paesi avversari e, soprattutto, i caduti venivano immediatamente spogliati di ogni cosa – armi, uniforme, biancheria, scarpe – dagli altri soldati per riequipaggiarsi o per rivendere quegli effetti, per cui sul campo restavano solo dei corpi nudi. 156 I birri, come ho già spiegato nella nota 128 erano le guardie di polizia; i facchini erano i facchini del mercato di Bologna e godevano della fama di profittatori e rissosi. I birichini erano ladri professionisti, ricattatori, estorsori e violenti,. contro i quali le autorità avevano cominciato ad agire più o meno efficacemente solo dagli anni ’20 del Settecento e con decisione dal 1729, quando i birichini avevano cominciato a comparire pubblicamente in bande organizzate, con tamburi e bandiere e ad assalire case, prendendo roba e denaro colla forza. 157 L’investimento aveva messo in disaccordo Alberoni e Della Torre, perché il primo con quel denaro avrebbe preferito comperare terre, mentre il secondo – giustamente – aveva fatto presente che, se si fosse dovuto reperire del contante 247


all’Istituto non si raggiungevano senza le rendite del soppresso Ospedale di San Lazzaro, che erano appunto quelle sui cui gli Austriaci avevano posto il sequestro. Insomma il caso diplomatico era assai pesante e così lo riassunse Benedetto XIV in una sua lettera di quei giorni al cardinal de Tencin: “… abbiamo di nuovo nello stato gli Austriaci ed i Spagnuoli, ed ella non può figurarsi la desolazione. Con un supposto evidentemente falso che il card. Alberoni abbia arrollata gente a prò de’Spagnuoli contro gli Austriaci nell’ultimo fatto d’arme seguito a Campo Santo, si domanda che a vista, e senza interpellarlo, né sentirlo si richiami dalla Legazione, e si minaccia devastazione del paese, arresto della persona, e saccheggio dell’opera pia da esso istituita in Piacenza. Sig. cardinale nostro, si può sentire di peggio? Noi progettiamo al cardinale che venga a Roma col motivo che essendo accusato dal Papa che è il suo superiore, viene a sincerarsi con lui, ritenendo però hoc interim la Legazione. Non sappiamo se accetterà, o se accettando sarà in grado di venire, essendo più mesi che sta male.”CCCXXV Come andò a finire? Il 24 aprile il Cardinale uscì coll’intenzione d’andare a Forte Urbano, inciampò, cadde, si fece male e fu rimesso a letto. Finalmente l’8 maggio poté lasciare il palazzo per spostarsi a Forte Urbano e da lì, un mese dopo, a Medicina, sperando di averne qualche giovamento. Il giovamento che ebbe consisté nella lettera della Segreteria di Stato con cui gli si annunciava la fine del suo mandato triennale. A pensarci bene, politicamente parlando era la miglior soluzione possibile. Si contentava Maria Teresa d’Austria, chiudendo un contenzioso pericoloso e lo si faceva nella maniera più semplice: applicando le regole. La Legazione durava tre anni; i tre anni scadevano in settembre e, come era normale, non venivano prorogati, era perfetto: che c’era che non andava? Tutto! Alberoni s’infuriò: lasciando Bologna a quasi ottant’anni che avrebbe dovuto fare? Non poteva andare a Piacenza senza rischi personali, perché c’erano gli Austriaci; a Roma non voleva tornare per via dell’età che gli impediva di fare, quando fosse stato possibile, il lungo viaggio verso Piacenza e dunque gli sarebbe toccato, come scrisse a monsignor Millo: “…prendere il partito di cercar un asillo sui confini del Stato Veneto, per ivi aspettar il tempo, che potrò portarmi a Piacenza, oppure attendere colà il giorno di mia morte, che sarà più probabile.”CCCXXVI Era decisamente patetico quanto esagerato; sopratutto non era credibile. I suoi nemici da un mese andavano accusandolo di non voler lasciare l’incarico per ambizione ed interesse. Il marchese Caraccioli nella sua biografia di Benedetto XIV riportò un’asserzione assai pesante nei confronti d’Alberoni, la quale potrebbe essere stata effettivamente pronunciata, o quantomeno dev’esser stata riferita a Caraccioli da qualcuno degno di fede e che si poteva credere che l’avesse udita. Stando a lui, il Papa avrebbe detto del Cardinale, presumibilmente proprio in quei giorni del 1743 in cui si discuteva se prolungargli o meno il mandato: “Costui è un solenne mangione, il quale dopo aver desinato a crepa pancia, vuole ancora un pezzo di pan bigio per avere sempre di che mangiare. Eh bene, lo lascieremo legato di Bologna, anche a rischio di cagionargli un’indigestione.”CCCXXVII all’improvviso per fronteggiare un’emergenza, si poteva non trovare un compratore per la terra ed essere costretti a svenderla, mentre, vendendo i luoghi di monte, si aveva la certezza d’incassare il contante in poche ore. Anche se qualsiasi economista di allora e del futuro avrebbe dato ragione a Della Torre, il Cardinale non si convinse mai. 248


Possibile che Benedetto XIV l’abbia detto davvero? Scherzava, come faceva spesso? Dal tono non si direbbe. Ad ogni modo non collima coi fatti, perché era stato già scelto il successore nella persona del cardinale Aldrovandi. Poiché quest’ultimo per motivi personali non sarebbe giunto a Bologna prima della fine di marzo, Alberoni chiese il permesso di restare fino al suo arrivo: niente da fare. Scartate Roma e Piacenza, dove andare? Alla fine ripiegò sulla nipote e andò a casa sua, o meglio siccome il di lei marito, il marchese della Penna, continuava ad esserne il governatore, andò a Forte Urbano. Ci restò sette mesi, poi la diplomazia gli aprì un inatteso spiraglio: Piacenza passava ai Savoia.

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Capitolo XXXI Tra Piacenza e Forte Urbano nella Successione d’Austria Dopo la battaglia di Camposanto, le corti di Madrid, direttamente impegnata, e di Versailles, formalmente neutrale, ma ausiliaria, avevano intrapreso dei sondaggi diplomatici a Torino. La Sardegna non era legata all’Austria. I due eserciti agivano sulla base della “Convenzione Provvisionale” stipulata in fretta e furia quando gli Spagnoli s’erano avvicinati per la prima volta alla Pianura Padana, per cui operavano di comune accordo, ma ognuno per i propri fini, i quali non erano necessariamente coincidenti e lo sapevano tutti. Dunque, visto quale vantaggio avrebbero avuto a staccare Torino da Vienna, specie dopo la sconfitta di Camposanto, le corti borboniche proseguirono i loro sondaggi, ai quali il Re di Sardegna prestò ascolto, facendolo trapelare a Londra e Vienna. Il motivo era semplice: voleva che lo sforzo bellico sostenuto a favore dell’Austria venisse compensato per bene e sotto la garanzia d’un trattato. Lo imponevano sia l’esperienza della precedente guerra, sia il fatto che Maria Teresa stava già ampiamente tentando di sfruttare gratis le truppe sabaude. Quando le proposte franco-spagnole arrivarono ad essere tanto convenienti da far supporre che la Sardegna le avrebbe potute accettare, Carlo Emanuele fece sì che Inglesi ed Austriaci lo sapessero e, specie i primi, si convincessero che era tempo di correre ai ripari. La conseguenza fu la firma del Trattato di Worms, col quale Londra, Vienna e Torino passavano da un’alleanza di fatto ad una ufficiale, con tutto ciò che implicava quanto a compensi territoriali per i Savoia. La trattativa era stata lunga; e solo ad agosto del 1743 si era sparsa la notizia della sua conclusione Pure questo non era stato un caso, ma un'abile manovra di Carlo Emanuele, poiché Francia e Spagna avevano evitato di riprendere le operazioni in primavera proprio nella speranza di allearsi i Sardi, né avevano poi accennato a muoversi in estate, visto che i negoziati fra Borboni e Savoia sembravano procedere bene. In questo modo Carlo Emanuele era riuscito a far slittare l’attacco nemico fino a settembre, quando era troppo tardi per operare efficacemente prima che il freddo, la pioggia e la neve rendessero le strade impraticabili. Il trattato di Worms dava alla Sardegna dei territori, che l’amministrazione sabauda doveva prendersi in carico non appena fossero stati liberi dal nemico. Fra questi vi erano la città e il Ducato di Piacenza, da cui gli Austriaci sgomberarono, lasciando che il 9 febbraio 1744 vi arrivassero i Piemontesi. Lo sgombero implicava la fine del sequestro dei beni piacentini del Collegio e di qualsiasi rischio per il Cardinale, il quale però non tralasciò di chiedere a Vienna una formale revoca della confisca. Fu un buco nell’acqua. Il generale conte di Kevenhüller al quale si era rivolto non gli rispose neppure e c’era un motivo. Come raccontò il nunzio Merlini il 18 gennaio, Maria Teresa, la magnanima Maria Teresa che sarebbe stata tanto celebrata in futuro, quando Kenvenhüller le aveva sottoposto la lettera del Cardinale, non aveva detto nemmeno una parola, lasciando le cose come stavano. Che si poteva fare per il Collegio? Dal giugno del 1742 era restato sotto il vigile controllo del signor Della Torre, il quale in aprile aveva cessato d’essere il visitatore della Provincia Romana e si era potuto spostare a Piacenza, portando con sé alcuni confratelli e le regole, stilate dal Cardinale ed approvate dal Papa. Contemporaneamente era stata spostata a Piacenza la biblioteca del defunto cardinal Lanfredini, acquistata da Della Torre a Roma in nome e per conto d’Alberoni. Poiché però Della Torre non stava molto bene ed era necessario seguire gli ultimi apprestamenti, diveniva importante, vitale che il Cardinale potesse andare a Piacenza e il sequestro fosse tolto: come fare? L’unica era lasciar perdere Vienna e rivolgersi al nuovo padrone a Torino. Così, con un certo anticipo in vista del passaggio di consegne fra Austriaci e Sardi, Alberoni aveva mandaro i suoi auguri di Natale a Carlo Emanuele III e, quando il marchese d’Ormea glieli ricambiò a nome del 251


sovrano, il Cardinale il 9 febbraio scrisse chiedendo la protezione reale per il Collegio, con tutto ciò che comportava. Fu accontentato subito. Il 26 febbraio il marchese d’Ormea rispose con una lunga lettera in cui tra l’altro diceva: “Sua Maestà, avvezza a rimirare con ben distinta parzialità tutto ciò che saprebbe stare a cuore a Vostra Eminenza, nell’intendere le tanto commendabili brame, che si è Ella compiaciuta spiegarmi in proposito dell’insigne Collegio, che pensa di stabilire sotto le mura della città di Piacenza, mi ha dato il piacevole incarico di accertarla in suo Regio Nome che prende fin d’ora sotto la sua più speciale Protezione il suddetto Collegio, ed ogni cosa che ne dipende, e che ben volentieri moverassi a fargliene provare gli effetti in qualunque occorrenza che sarà per presentarsi.”CCCXXVIII Ben contento, Alberoni chiese e ottenne il permesso di recarsi a Piacenza, arrivò al Collegio il 20 aprile 1744 e il 22 scrisse al marchese per domandare il dissequestro dei beni di San Lazzaro. Non successe nulla e il 4 giugno il Cardinale scrisse di nuovo. Ormea rispose ammettendo onestamente d’essersene dimenticato, ma che il Re l’aveva incaricato “di far sapere alla Segreteria di Stato per gli affari interni, del cui dipartimento si trovano essere le cose del Piacentino, di dover mandare gli ordini necessari a Piacenza, acciocché sia permesso all’Eminenza vostra di riscuotere le entrate di cotesto Colleggio di S. Lazzaro e di farne quell’uso che più le piacerà.”CCCXXIX Gli ordini furono emanati il 16 giugno. Alberoni però avrebbe voluto riavere pure quanto gli Austriaci si erano tenuti, perciò domandò ad Ormea se potesse aiutarlo. Il Marchese lo disilluse, non se la sentiva perché: “ho tutto il fondamento di credere, che più le sarebbe di pregiudizio che di vantaggio, dovendo farle confidenza , che ho avuto sicuro riscontro, qualmente la Corte di Vienna ha saputo con dispiacere che Sua Maestà siasi risolta di secondare i di lei desideri.”CCCXXX Però, continuava, se da Torino non si poteva far nulla, forse da Milano si; perciò perché non chiedere al gran cancelliere di quel Ducato, il conte Beltrame Cristiani, il cui fratello, monsignor Pietro, era il vicario generale della diocesi di Piacenza? Alberoni seguì il consiglio e il conte Cristiani si disse lieto d’accettare di favorirlo. La cosa era tanto più importante in quanto una parte dei beni del Collegio erano nelle zone rimaste in mano all’Austria, per cui continuavano ad essere sotto sequestro con tutte le loro rendite. Il 1744 proseguì con alti e bassi tali da obbligare il signor Della Torre a tornare a Roma e trattenervisi a lungo per gli interessi del Collegio e del Cardinale. I punti dolenti erano tre: un potenziale disparere con monsignor Faroldi Alberoni circa il palazzo di Roma, la tenuta di Castel Romano e le relative rendite; la pensione di Malaga alle cui modalità di pagamento – che ho già accennato in precedenza – il Cardinale non voleva accettare modifiche e, infine, le voci correnti nell’Urbe a proposito della sua cupidigia, innescata e tenuta accesa, si mormorava nemmeno troppo copertamente, dai Padri della Missione per i loro interessi. Le eventuali diversità di vedute fra monsignor Faroldi e i Padri della Missione vennero appianate dal signor Della Torre con rapidità e facilità e Monsignore sarebbe rimasto usufruttuario a vita dei beni alberoniani nel Lazio. Le voci calunniose sul ruolo dei Padri invece potevano cessare solo quando fosse stata risolta la faccenda di Malaga. Ne ho già parlato nel capitolo ventiquattro, perciò qui ripeterò lo stretto necessario. La pensione veniva pagata in due rate annuali ad Alberoni dalla Reverenda Camera, la quale anticipava quanto 252


Malaga avrebbe poi rimborsato. Malaga era sempre in ritardo e dunque la Camera in passivo e quando, l’anno prima, nel 1743, Benedetto XIV aveva ordinato di tirare le somme, era risultato uno sbilancio di 83.406 scudi romani, proveniente dalla differenza fra i 175.000 scudi versati ad Alberoni fino al 28 giugno di quell’anno e gli appena 91.594 e 31 baiocchi rimborsati da Malaga fino allora. Adesso il Papa non intendeva privare Alberoni dei suoi diritti e gli garantiva il possesso di quanto aveva già avuto e la continuità della pensione, però voleva metter fine al ruolo della Reverenda Camera come stanza di compensazione: costava troppo, perciò il Cardinale doveva riscuotere da sé. Alberoni non era per nulla d’accordo. Al di là dei suoi diritti, di quanto scrisse e di quanto protestò, viene da domandarsi se non avesse il timore – e non sarebbe stato infondato, vista la situazione – che in Spagna potessero levargli la pensione col pretesto d’un suo atteggiamento ostile nel corso della guerra. L’opposizione del Cardinale si scontrò colla decisione del Papa. Tra il dicembre del 1744 e il marzo del 1745 Della Torre cercò di trovare degli spiragli, di calmare il Papa, di calmare Alberoni, di mediare, avendo capito fin dal principio che l’unica era accettare il desiderio del Pontefice. Il Cardinale ottenne l’intervento della Corte di Torino; ma non servì perché quella di Roma praticamente non rispose. Allora il cardinale Portocarrero, il cui zio aveva avuto tanta parte nei primi anni di regno di Filippo V, s’interpose per trovare un accomodamento e alla fine Alberoni cedé ed accettò di divenire creditore diretto del nuovo vescovo di Malaga, Juan Eulate Santacruz, nominato il 25 gennaio del 1745.158 Questo avrebbe risolto quasi ogni problema se non fossero arrivate nuove calamità, dovute tutte e solo all’arroganza e miopia politica di Maria Teresa d’Austria. Abbiamo lasciato gli Spagnoli nell’autunno del 1743 al confine tra lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli, sul Tronto; e là erano rimasti a svernare, sperando che Carlo III li facesse entrare in Abruzzo, salvandoli dall'attacco distruttivo austriaco, prevedibile alla ripresa delle operazioni nella primavera del ‘44. Carlo era indeciso. Da un lato, conscio dell’impreparazione militare delle Due Sicilie, non voleva rompere la neutralità estortagli dagli Inglesi, ben sapendo che accogliere gli Spagnoli avrebbe costituito il casus belli con Vienna; dall’altro capiva che, senza il suo aiuto, l’armata spagnola sarebbe stata distrutta, lui avrebbe perso l’appoggio politico e militare paterno e sarebbe comunque stato aggredito dall’Austria alla prima occasione, trovandosi molto più debole che se si fosse unito apertamente e subito alla Spagna. Così, a partire dal dicembre ‘43, aveva deciso di armarsi e mandato al conte de Gages il permesso d’entrare in Abruzzo, marciandogli incontro. Il temuto attacco navale inglese non si era verificato, perché la flotta dell’ammiraglio Matthews era impegnata lungo le coste della Provenza, per impedire il transito via mare dalla Francia all’Italia dell’armata dell’infante don Filippo. L’Austria aveva protestato, come previsto, e Maria Teresa aveva deciso d’attaccare Napoli. Non era una sorpresa e ce lo si aspettava, sapendo quanto si fondasse sulle notizie gonfiate e sulle pressioni fatte dai Napoletani filoaustriaci fuggiti nel 1734, un piccolo gruppo dei quali era a Vienna e si teneva in contatto con Napoli tramite un altro, più consistente, di esiliati residenti a Roma. La terza e ultima conseguenza fu che Carlo aumentò, di fatto, le truppe a propria disposizione, perché l’esercito spagnolo passò ai suoi ordini e costituì una massa di manovra leggermente superiore alle truppe austriache. Chi si rese conto dei guai che andavano profilandosi all’orizzonte fu Carlo Emanuele III. Fece di tutto per impedire a Maria Teresa d’assalire Napoli, ben sapendo che l’apertura d’un secondo fronte 158

Come sappiamo, il primo successore d’Alberoni era stato monsignor Diego González Toro y Villalobos, il quale aveva lasciato la cattedra il 5 maggio del 1734 per quella di Cuenca. Gli era succeduto monsignor Gaspare de Molina y Oviedo, agostiniano, elevato al cardinalato nel 1737 e morto il 30 agosto del 1744, il cui successore fu appunto Juan Eulate Santacruz. 253


e l’entrata in campo dell'armata napoletana sarebbero state due incognite nel migliore dei casi; due pericoli di perdere la guerra nel peggiore. Chiese quindi l’invio delle unità austriache in Piemonte, anziché nel Meridione, per parare il colpo che don Filippo, appoggiato dai Francesi, si preparava a vibrargli sulle Alpi e nella Contea di Nizza; ma non fu ascoltato. Maria Teresa mandò in Italia il principe di Lobkowitz, coll’ordine d'invadere il Regno di Napoli. Facile a dirsi ma non a farsi. La faccio breve: gli Austriaci furono sconfitti dai Napoletani a Velletri. l’11 agosto 1744 e il 1° novembre si ritirarono verso nord. I Napoletani li inseguirono e nel frattempo Genova si unì alla causa borbonica e consentì ai Franco-Spagnoli di don Filippo d’entrare in Liguria, unirsi ai Napoletani in arrivo da sud e costituire una formidabile massa di manovra, che riuscì a dividere gli Austriaci dai Sardi e poté prendere, fra il 2 agosto e la metà di novembre del 1745, tutte le città del Piemonte meridionale ed i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla senza neanche una battaglia di grandi proporzioni. Infatti Piacenza, presidiata da soli 300 Piemontesi, cadde il 5 settembre e la cittadella si arrese dopo un’altra settimana d’assedio il 13. Alberoni ne sapeva abbastanza da immaginare cosa sarebbe successo, perciò si preparò a spostarsi da San Lazzaro nella sua residenza urbana vicina alla chiesa di San Savino. Il re di Sardegna, sulla difensiva, si era attestato a copertura di Torino ed aveva aperto delle trattative, arrivando addirittura a dei preliminari di pace poco prima di Natale. Gli Austriaci invece avevano ripiegato verso Mantova per garantirsi le comunicazioni col Trentino. Ma la posizione militare delle Tre Corone di Francia, Napoli e Spagna era molto meno solida di come poteva apparire e a Versailles non si era tanto sicuri di quel che avrebbe portato la primavera, perché Federico II aveva ottenuto definitivamente la Slesia colla pace di Dresda del dicembre 1745, consentendo all’Austria d’inviare rinforzi in Italia. Per evitare guai, ai primi del 1746 dalla Francia partì il Signor de Maillebois, fratello del Maresciallo, e andò a Torino ad offrire la pace al Re di Sardegna, col quale, separatamente dalla Spagna, erano iniziate trattative già da due mesi. Incontratosi col ministro Bogino, succeduto da poco all’appena defunto Ormea, si sentì però rispondere: “Non esser ancor tempo di deporre l’arme, non essendo se non due giorni ch’era iniziata la campagna.”CCCXXXI Le truppe sarde ed austriache s`erano rimesse in moto con effetti rovinosi. A metà marzo tutte le forze borboniche erano già in piena ritirata. Milano fu abbandonata il 19 marzo, quando le avanguardie austriache erano letteralmente alle porte. Il Parmigiano era perso; ed anche Parma lo fu, perché gli Austriaci, vincitori il 28 a Sorbolo, giunsero là il 3 aprile 1746 e intimarono la resa il 4 agli oltre 9.000 soldati del marchese di Castelar, il quale riuscì ad abbandonare la città e, via Sarzana, a raggiungere la Spezia il 7 maggio con poco più di 6.300 uomini. Mentre i Piemontesi riconquistavano Valenza, le operazioni proseguivano intorno a Piacenza, dove stavano arrivando gli Austriaci, i quali nella prima metà di maggio presero Ussolengo, cioè Gossolengo. Riferisce una cronaca dell’epoca: “Siccome con l’occupazione d’Ussolengo s’era principiato a stringere alla schiena l’esercito Spagnuolo, fu risoluto di serrarlo più davvicino in faccia, occupando il posto di San Lazaro. Egli è divenuto famoso in questo secolo, per il superbo Collegio ed i magnifici edifizi, innalzativi dal Cardinal Alberoni, il quale avendo forse disegnato di finir i suoi giorni in quel luogo, dove avea profuso tanto oro a benefizio della gioventù di sua patria, vi si trovava di persona: è però il medesimo luogo così vicino a Piacenza, che è la meta del passeggio ordinario, che si fa dagli abitanti fuor del recinto della Città. Fattesi le necessarie disposizioni per tale impresa, furono incaricati della sua esecuzione i Generali Barone d’Andlau e i conti d’Arcs e di Nehaus. Presero questi 9. battaglioni, altrettante Compagnie di Granatieri, e una truppa di Varadini e Schiavoni, e andarono la mattina dei 18, ad attaccare quel Borgo. Siccome erano sostenuti dall’artiglieria del campo, durarono poca fatica a sloggiare gli 254


Spagnuoli prima dalle Casine, e poi dal Collegio, con pochissima perdita di gente d’ambi le parti… … temendo gli Spagnuoli d’esser tagliati fuori, abbandonarono presto ogni cosa, ritirandosi sotto il Cannon di Piacenza. In tempo dell’attacco suddetto, tutto l’esercito Austriaco s’avanzò in ordine di battaglia, e occupando le Casine e il Collegio, fermò ivi il Campo.”CCCXXXII Il resto del mese di maggio passò in atti tattici minori, mosse e contromosse. Giunti a Piacenza il 13 giugno 12.000 francesi condotti dal maresciallo de Maillebois, il 15 si tenne consiglio di guerra fra lui, de Gages, don Filippo di Borbone e il duca di Modena e si stabilì d’attaccare il nemico con una manovra a tenaglia sulle sue ali. Maillebois doveva avanzare contro la sinistra austriaca, Gages contro la destra, il duca di Modena al centro; e il centro austriaco era a San Lazzaro. Nelle primissime ore del mattino del 16 Maillebois, in moto da Gossolengo, sbagliò strada, incappò negli avamposti austriaci, li respinse fino a Quarto, ma lì cozzò contro l’artiglieria nemica caricata a mitraglia che fece strage dei suoi, poi la cavalleria austriaca caricò e i Francesi crollarono in rotta. Gli Austriaci allora si spostarono verso il proprio fianco destro, cioè contro Gages, mentre il duca di Modena, arrivato a San Lazzaro, tentava di sfondare sparando con tutti i pezzi. Gages fu battuto e costretto a tornare in città e il duca di Modena, ormai scoperto su entrambi i lati, fece lo stesso. Lasciarono agli Austriaci la vittoria e 4.500 prigionieri, con 5.000 morti159 e 2.000 feriti sul terreno e il Collegio di San Lazzaro abbondantemente danneggiato, ma non distrutto. Piacenza si trovò 5.000 feriti ad affollare ospedali, case e chiese. Tutte le più importanti – Sant’Agostino, San Sisto, San Sepolcro, San Francesco di Paola, le chiese della Madonna di Loreto e del Carmine, San Francesco di piazza, San Giovanni, Santa Teresa, San Savino, la Torricella, Santa Maria degli Angeli e San Lorenzo – traboccavano di feriti, moltissimi dei quali non sarebbero sopravvissuti a lungo. La logistica delle Tre Corone era del tutto disarticolata, il cibo mancava, i prezzi erano alle stelle e, come poi riportò Giarelli: “correvano più pezze e doppie di Spagna che pane.”CCCXXXIII Intanto i Sardi avanzavano da ovest verso Rottofreno e gli Austriaci miravano ad unirsi a loro, “congiungimento che realmente effettuarono al di là del Trebbia, dopo distrutte le trincee di San Lazzaro ed approntate le mine nell’edificio Alberoniano.”CCCXXXIV Aggiunge un altro cronista a proposito della giunzione degli eserciti sardo ed austriaco avvenuta in luglio: “assegnatasi la giornata dei 16. per la divisata unione, l’esercito Austriaco sotto i Generali Botta e Broune (essendo stato il Principe di Lictenstein dopo la battaglia di Piacenza di portarsi a Casalmaggiore a cagion de’ suoi incomodi) levò il campo di San Lazaro, dopo aver colmati i lavori, rovinati i fortini, e sbalzato in aria con le bombe il Collegio del Cardinal Alberoni.”CCCXXXV Gages in ritirata aveva lasciato a Piacenza il marchese di Castelar con circa 3.000 uomini e tutti i feriti e se n’era andato col grosso. Dopo aver perso in pochi giorni ben 17.000 tra morti e feriti a fronte di soli 4.600 nemici, passò e ripassò il Lambro per coprire il movimento dei 1.000 carri e dei 4.000 muli carichi dei suoi materiali. Tallonato da vicino dagli Austriaci e dai Sardi, riuscì a farli scostare dalla strada che voleva imboccare e sfilò sotto la loro ala destra diretto al Tidone e poi a Tortona, passando il Po il 9 agosto e facendosi saltare i ponti alle spalle.

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La relazione ufficiale francese pubblicata a Parigi ammise 2.104 morti e 3.000 feriti. 255


Dopo un’ulteriore sconfitta subita l’indomani a Rottofreno, riuscì a sganciarsi ancora e a ritirarsi verso la Liguria in gran fretta, lasciandosi dietro 1.800 morti e feriti, 1.200 prigionieri, 18 cannoni e gran parte delle salmerie. Intanto pure Castelar s’era disimpegnato, accorrendo il 9 a Rottofreno e lasciando a Piacenza 800 uomini e tutti i feriti, per cui, quando gli Austriaci le si presentarono davanti il 10 intimandole la resa, Piacenza accettò e capitolò il 12, mettendo in mano al nemico un’ingente quantità di materiali bellici. Intanto a Madrid era morto improvvisamente Filippo V; e il nuovo re, Ferdinando IV, l’ultimo figlio di Maria Gabriella di Savoia, mandò a sostituire de Gages col marchese di Las Minas, il quale, preso il comando e fatta la rassegna, constatò il disastro ed ordinò d’abbandonare la Lombardia e la Liguria, rastrellando tutti i militari delle Tre Corone in grado di muoversi. Per quanto la riguardava, Piacenza aveva finito la guerra, anche se sarebbe durata ancora fino al 1748. I danni erano ingenti. Non c’erano più grano e cereali, perché i Francesi e gli Spagnoli avevano portato via tutto, comprese le scorte per le semine e rubato od ucciso quasi tutto il bestiame. I contadini erano fuggiti per via dei saccheggi. La città, occupata dagli Austriaci in nome di Carlo Emanuele III, al quale spettava secondo i patti d’alleanza, continuava ad ospitare – e a curare e mantenere – i 5.000 feriti franco-spagnoli lasciati da de Gages ed aveva subito parecchi danni, non ultima la gran quantità di vetri rotti dall’esplosione del ponte di barche sul Po, fatto saltare da Castelar quando se n’era andato. I dintorni della città erano devastati: distrutta la Rocca di Rivalta e distrutto del tutto il Collegio di San Lazzaro; fra cannonate e mine, ne era rimasto in piedi il solo scalone principale. Bisognava rifare tutto e i danni erano spaventosi. Alberoni cercò una qualche forma d’indennizzo e s’indirizzò a Madrid ed al Quartier Generale austriaco. Se sperava che Ferdinando VI, da lui conosciuto bambino, gli desse retta, l’illusione scomparve ben presto. Rivolgendosi al segretario di Stato marchese de Villarias, aveva scritto il Cardinale: “il mio palazzo di Piacenza rovinato dalle bombe, il mio Colleggio fatto saltar in aria dalle mine postevi d’ordine del generale Spagnuolo ed indi del Tedesco; i casamenti delle mie tenute atterrati, i fittabili fuggiti, i bestiami morti e consonti prima dall’epidemia e poi dai Tedeschi. I terreni sopra i quali sono stati e vi sono attualmente accampati i Tedeschi, tutti restano devastati, sopra i quali, secondo risulta dalla visita fatta dal Perito richiesta dai fittabili, sono stati tagliati 12766 alberi; dai quali terreni non occorre speri cavarne un soldo nel poco tempo che mi resta a vivere.”CCCXXXVI Era un disastro, ma, purtroppo, era esattamente lo stesso genere di disastro sofferto da moltissimi altri proprietari insieme a lui e prima di lui, colla differenza che, come vedremo, lui aveva abbastanza denaro da rimettersi in piedi, altri invece ne uscivano rovinati per sempre. Villarias gli rispose solo con delle buone parole; del resto quella era la guerra ed Alberoni lo sapeva benissimo e da quarant’anni. Deluso dalla Spagna, andò appena un po’ meglio coll’Austria, o meglio, col comando austriaco. Il maresciallo Botta Adorno, genovese al servizio di Maria Teresa, gli rispose d’aver fatto levare il quadro di San Lazzaro, le campane e gli arredi della chiesa prima di far saltare tutto e che erano a sua disposizione; si, ma che se ne faceva? In queste disperate condizioni, a metà settembre Alberoni decise di lasciare Piacenza e ripartì per Forte Urbano, sempre governato dal marito di sua nipote. La vittoria austro-sarda del 1746 e quella piemontese all’Assietta l’anno dopo avrebbero tenuti i Francesi lontani fino alla cessazione delle ostilità nel 1748 e l’Italia in tranquillità. Per questo nell’aprile del 1747 Alberoni poté lasciare Forte Urbano e andare a Perugia, per valutare l’acquisto d’un palazzo propostogli dai fratelli del cardinal Valenti. 256


Doveva farvi un soggiorno breve, ma si ammalò e rimase là fino al febbraio del 1748, poi tornò a Forte Urbano e, appena poté, nell’aprile dello stesso anno rientrò a Piacenza. Nel frattempo si erano aperti i negoziati poi sfociati nella pace ad Aquisgrana, conclusa quando Versailles s’era adattata a firmare i preliminari, il 30 aprile 1748, e il trattato vero e proprio il 30 ottobre. Tutti i contraenti riconobbero la Pragmatica Sanzione. La Francia dové restituire Nizza e Savoia al Re di Sardegna, il quale ricevé dall’Austria il Vigevanese, parte del Pavese e la Contea di Anghiera, portando così il confine al Ticino, ma non riebbe Piacenza. I diplomatici delle Potenze maggiori, dopo lunghe schermaglie, avevano stabilito di ripristinare l’indipendenza degli Stati un tempo farnesiani, togliendoli all’Austria, che li aveva avuti colla pace di Vienna del 1738, e dandoli a don Filippo di Borbone, il fratello minore del re di Napoli.160 Alberoni tornava sotto i Borbone

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Nato il 15 marzo 1720, quando Alberoni aveva già lasciato la Spagna da tre mesi, Filippo era il quarto figlio del matrimonio tra Filippo V ed Elisabetta Farnese, dopo Carlo, in quel momento re di Napoli e di Sicilia, Francesco, morto dopo un mese di vita nell’aprile del 1717 e Marianna Vittoria, poi divenuta Regina di Portogallo. Capostipite della linea di Borbone-Parma, che con alterne fortune resse il Ducato fino al 1859, Filippo morì il 18 luglio 1765, lasciando la corona a suo figlio Ferdinando. 257


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Capitolo XXXII Gli ultimi anni Il 5 febbraio 1749, in esecuzione del Trattato d’Aquisgrana, le truppe spagnole di don Filippo di Borbone rilevarono quelle sarde a Piacenza. Il 6 marzo Filippo I di Borbone, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, proveniente dalla Spagna attraverso il Piemonte,161 entrò in città. Oltre cent’anni dopo, Giarelli se la sbrigò in tre righe: “Fra evviva, salve di artiglieria e suon di campane, fu condotto al palazzo ducale di Cittadella. Là lo accolsero con grandi cerimonie le cosiddette “autorità civili” nonché personaggi cospicui. Fra questi il cardinale Giulio Alberoni.”CCCXXXVII Le cronache contemporanee furono assai più dettagliate: “Aspettavano alla Trebbia due sontuose Cavalcate, uscite di Piacenza alle ore diciasette162 al suono della Campana del Pubblico. Una era composta di 52 Nobili, squadronata alla destra, e l’altra di 62 Mercadanti, vestiti d’abito uniforme Bleau, con giubbe ad arbitrio farzosamente guarnite, preceduti da strumenti di fiato, disposta alla sinistra. Passato ch’ebbe il fiume, entrò nel Padiglione, erettovi, ch’era pieno di Dame e Cavalieri, ed aveva in faccia una sceltissima orchestra a tre palchi; dove fu complimentato da due Deputati, per parte della Nobiltà e dei Mercadanti. Rimontato indi in carrozza, presentossi incontro a S.A.R. un’altra parte della Nobiltà di Piacenza, superbamente vestita, con quattro squadroni di Corrazze, e due Corpi della Cittadinanza, uno di Mercadanti, l’altro di Artigiani, con divisa turchina, veste di scarlatto a galloni d’oro, e una bellissima sinfonia. Continuossi allora la strada di Piacenza, precedendo la Cavalcata dei Nobili, poi quella dei Mercadanti, indi l’altra degli Artigiani, e i quattro squadroni di Corrazze, e seguendola 46 Carrozze a sei Cavalli con le Dame e Cavalieri, e una quantità d’altre carrozze e sedie a quattro e due Cavalli. Entrando in Città, si trovò la Cittadinanza in ala nelle strade, ch’erano tutte tapezzate, per dove doveva passare fino al Palazzo ducale, nella di cui piazza faceva mostra il primo Battaglione di Parma, con due Squadroni di Corrazze in ciascun’ala. Trasferitosi al Palazzo ammise successivamente all’udienza di complimento l’Eminentissimo Cardinale Alberoni, il Principe di Darmstadt, il Vescovo di Piacenza, le Dame, gli Uffiziali e tutte le persone ragguardevoli, sì della Città, che dei luoghi circonvicini.”CCCXXXVIII L’ingresso di don Filippo fu tanto ben accolto quanto i primi sei mesi di regno vennero trovati deludenti. Le critiche iniziarono quando si constatò il mancato licenziamento dei forestieri – spagnoli, francesi e piemontesi – i quali conservavano le cariche attese dai Parmensi e dai Piacentini. Altre critiche vennero quando cominciarono le inchieste fiscali, prodromo d’una tassazione immaginata pesante e non si vide l’aumento d’affari atteso dall’insediamento del nuovo Duca, perché si era stabilito a Sala e non a Parma. Aveva deciso così perché voleva entrare nella Capitale solo dopo l’arrivo di sua moglie, la quale però non sarebbe partita dalla Francia prima dell’autunno. 161

“Gli abitanti di Castel San Giovanni ebbero l’onore di riceverlo e trattarlo la giornata dei 5 di Marzo, e il Principe di Darmstadt, il Vescovo di Piacenza, e i Deputati dei tre Ducati di complimentarlo sopra il suo felice arrivo.” Cfr. Anonimo, Storia dell’anno 1749, Venezia, Pitteri, 1750, Libro I, pag. 54. 162 Le 10,40 del mattino. 259


Le critiche si cambiarono molto presto in malcontento. A luglio comparvero i primi manifestini e in settembre tutti e tre i Ducati rimproveravano a voce più o meno alta al Sovrano di non aver seguito le istruzioni del suo defunto padre su come governare i suoi nuovi Stati. La Corte corse ai ripari, aiutata dalla notizia della partenza della duchessa da Fontainebleau il 6 ottobre, sulla cui base Filippo promise tanto di stabilirsi a Parma, quanto d’abbassare le tasse. E’ da notare che in tutto questo periodo non sembra che Alberoni sia stato mai nemmeno interpellato dalle autorità ducali o dal Duca stesso, nonostante fossero note le sue capacità amministrative e la sua conoscenza dei tre Ducati ex-farnesiani. Rimase tanto da parte che addirittura non fu neppure menzionato nelle cronache dell’arrivo della duchessa Luisa Elisabetta di Francia e dell’entrata solenne dei sovrani a Parma. Probabilmente non se ne curava. Venuta finalmente la pace, non stava perdendo tempo. Fin dal suo ritorno aveva intrapreso la ricostruzione di San Lazzaro e ci impegnò, si calcola, circa 150.000 scudi romani, cioè più di due milioni e mezzo di lire piacentine, pressappoco la stessa somma spesa per costruirlo. Ci vollero due anni. Fu pronto nel 1751. Non saprei riassumere la cosa meglio di quanto fece Giarelli, perciò riporto le sue parole: “Nel settembre di quel medesimo anno il Collegio Alberoniano – sorgente sull’antico Ospedale degli Incurabili già dato da Clemente XIII in commenda al Cardinale con facoltà di compenetrare le rendite dell’antico luogo ospitaliero in quelle del nuovo Istituto d’educazione – poté dirsi completamente in ordine e pronto alla sua destinazione. L’apertura si fece il 28 novembre 1751. Il Cardinal fondatore scelse i primi diciotto chierici. I loro studi, dalla rettorica in su furon posti sotto la direzione dei Preti secolari detti della Missione, ovvero Signori della Missione: direzione loro riservata da una Bolla papale. Qualcuno afferma che successivamente Giulio Alberoni non si mostrò gran fatto pago dell’Ordine scelto quale istitutore del suo Collegio. Ma ormai, se vero è che tal pentimento risentisse, era troppo tardi per ritornare sulle prese risoluzioni. Comunque non sono nemmeno da porsi in questione il lustro, il decoro, l’utilità recati dall’Alberoniano concetto alla città nostra. Son cinquantaquattro giovani piacentini che ivi ricevono l’istruzione della mente, l’educazione del cuore, un ricovero magnifico, un cibo sano ed abbondante, tutti insomma gli elementi per riuscire cittadini egregi dal lato dell’intelletto e da quello del carattere. Ad ogni triennio diciotto alunni escono dal collegio,163 dopo esservi rimasti nove anni, e diciotto altri nuovi li sostituiscono.”CCCXXXIX Nel frattempo il Cardinale non aveva cessato gli investimenti immobiliari. Nel 1742, in piena guerra – dunque coi prezzi degli immobili bassi, per via della necessità dei proprietari di trovare in fretta il contante per le taglie imposte dagli eserciti di passaggio, che nel caso specifico erano i Piemontesi – Alberoni aveva comprato dai conti Barattieri il palazzo di San Savino per 55.000 lire, avviandovi 163

Il Collegio attraversò molti periodi difficili nei secoli successivi. Se Carlo di Borbone quando era duca di Parma e poi suo fratello Filippo, dopo esser salito al trono, avevano riconosciuto la fondazione con strumenti giuridici adatti, vi furono comunque dei tentativi d’impossessarsene, sia nel periodo giurisdizionalista settecentesco, iniziato una ventina d’anni dopo col ministero du Tillot, sia al tempo dell’invasione francese e del dominio napoleonico. La Restaurazione del 1814 confermò il Collegio, la rivoluzione del 1859 pure e per mano di Farini, con un decreto del 5 dicembre di quell’anno, confermato dai decreti ministeriali del 1860. L’Unità d’Italia li riconobbe, ma il ministero delle Finanze cercò di cambiare le carte in tavola, a sensi della legge del luglio 1866 sulla soppressione delle corporazioni religiose e l’avocazione dei loro beni allo Stato, però fu sconfitto dai parlamentari e senatori piacentini, i quali poggiavano la loro azione sul decreto di Farini e i dispacci ministeriali dell’anno dopo. Fra gli allievi il cui nome lasciò una traccia nella storia, vi furono il filosofo e giurista Gian Domenico Romagnosi, l’economista e patriota Melchiorre Gioja, incarcerato dagli Austriaci nei processi del ’21; don Giuseppe Morosini, fucilato dai Nazisti a Roma il 3 aprile 1944, medaglia d’oro al valor militare alla memoria e il segretario di Stato vaticano cardinale Agostino Casaroli, uno dei cinque porporati piacentini usciti dal Collegio nel XX Secolo. 260


subito i lavori di ristrutturazione, per farne le propria residenza abituale in città a partire dal 1744, spendendoci altre 40.795 lire entro il 1749, in gran parte per riparare i danni subiti nel 1746. Nello stesso anno aveva acquistato la tenuta del Morlenzo a Cortemaggiore, pagandone le 2.744 pertiche solo 496.666 lire e due anni dopo, nel 1744, il Morlenzetto, di 1.540 pertiche, costato 300.00 lire piacentine.164 Riprese gli acquisti165 nel 1749, benché rallentato dalle spese per la ricostruzione del Collegio e, fatto l’ultimo nel 1752, cinque giorni prima di redigere il testamento, si trovò ad aver investito 3.044.862 lire piacentine – poco meno di 180.000 scudi romani – nell’arco di 19 anni, comprando 12.428 pertiche, cioè 947 ettari, o 9,5 chilometri quadrati, di terra, il che indica un attento reinvestimento in terreni di parte delle sue rendite annue, progressivamente aumentate proprio dall’incremento del capitale fondiario e delle relative rendite, per cui nel 1750 le sue entrate annue da immobili e prestiti assommavano a 148.723,3,4 lire piacentine, pari a un buon 4,88% del capitale investito. A Piacenza, dopo una vita piena d’affanni, il cardinale viveva tranquillamente. Aveva assunto da tempo la protezione del monastero di Santa Maria Valverde e vi si recava spesso, benché meno che al Collegio. Aveva fatto amicizia col suo parroco e teneva dietro attentamente ai propri affari, rivedendo i conti e, come ho già scritto, reinvestendo accortamente le rendite in immobili capaci di produrne altre, sempre coll’idea di fare l’interesse del Collegio e di metterlo al riparo da qualsiasi difficoltà finanziaria. La sua salute era sempre stata piuttosto buona, benché di tanto la malaria, morbo da cui non si guarisce, si facesse sentire di nuovo. Riferiva Benedetto XIV al cardinal de Tencin il 2 settembre del 1750: “Si scrive, che il card. Alberoni sia gravemente ammalato in Piacenza per una contumace febbre terzana, ma la supererà, non volendo medici, e nel giorno in cui non ha febre non prendendo che una minestra, ed un bicchier d’acqua, e nulla affatto ne’ giorni ne’ quali ha la febre.”CCCXL La cura e l’aria di casa funzionarono, perché il 14 ottobre il Papa poteva annunciarne la guarigione. A marzo del 1752 però si era da capo. Benedetto XIV prese la cosa ottimisticamente, scrivendo al cardinal de Tencin: “Il corriere di Milano ha portato poco buone nuove del card. Alberoni, che per altro può essere che guarisca senza medici, senza cauterj, e coll’uso del salame e della salciccia.”CCCXLI Non andò esattamente così. Alberoni si riprese e andò avanti altri tre mesi e mezzo. Secondo una cronaca del tempo, si sentì abbastanza sano da partecipare ad una cerimonia religiosa il 24 giugno, 164

E’ ovvio che i prezzi degli immobili non sono facilmente confrontabili, perché dipendono dall’urgenza del proprietario di disfarsene, dalle condizioni di pagamento – immediato o rateizzato – e dalle potenzialità dell’immobile stesso, tanto più variabili nel caso dei fondi agricoli, a seconda del tipo e qualità di terreno, della disponibilità d’acqua, del rischio d’inondazione, delle colture in essere, della quantità e condizioni delle attrezzature e delle costruzioni civili e rustiche annesse e delle eventuali dotazioni di bestiame da stalla e da cortile comprese nel contratto. Detto questo e senza voler assolutamente pretendere di ritenere valida la comparazione che sto per fare, il prezzo medio pagato da Alberoni nei tredici acquisti qui elencati fu di 311 lire piacentine a pertica, con una punta massima di 523 lire per i due fondi acquistati nel 1741 e una minima di 160 per la tenuta presa nel 1738, mentre pagò 181 lire a pertica per Morlenzo e 194 per Morlenzetto. Considerando che questi due acquisti avvennero in piena guerra, non si può fare a meno di pensare che il Cardinale abbia concluso un ottimo affare. Nello stesso anno comprò pure la tenuta del Canalone di 440 pertiche per 112.291 lire e nel 1745 la Casa della Volpe, con 16 pertiche di terra, per 5.000 lire. 165 Per 48.312 lire comprò nel 1749 a San Lazzaro il Podere Riello e il campo della Romea, per un totale di 121 pertiche. L’anno seguente acquistò una casa attigua al Palazzo di San Savino per 12.000 lire e a San Lazzaro la tenuta di Carpaneto, di 545 pertiche per 124.583 lire. Sempre nel 1750 comprò pure la grande tenuta di Ancarano, Niviano e Dugliara, di circa 1.000 pertiche, pagata 255.000 lire. L’anno dopo versò 70.000 lire per le 145 pertiche della tenuta Bracciforte a Sant’Antonio e 98.333 lire per le 362 della tenuta il bosco a Cortemaggiore. Nel ’52 comprò altri tre fondi a Sant’Antonio per 363 pertiche complessive, pagando 205.477 lire e fece l’ultimo acquisto il 26 maggio 1752, un mese prima di morire, pagando 115.000 lire per le 290 pertiche della Vignazza di San Lazzaro. 261


ma nel corso di essa si sentì male, fu portato di corsa nel suo palazzo di San Savino e spirò, in piena coscienza e ricevuti i sacramenti, nelle prime ore del mattino del 26 giugno 1752. Così una cronaca contemporanea riassume i suoi ultimi giorni: “Essendo egli perfettamente ristabilito, contro la comune aspettazione, nell’avanzatissima età di 88. anni, da un violento mal d’orina, che da qualche tempo lo tormentava, a segno che lì 24. di Giugno poté portarsi nella Chiesa dei Padri Gesuiti di Piacenza.166 Assalito ivi, assistendo alla funzione, che si celebrava, da premiti dolorosi nella regione dell’Inguine, che gli cagionarono un breve deliquio, fu ricondotto subito al suo Palazzo, dove sopraggiuntogli il vomito, e un nuovo deliquio, si rilevò dai Medici e Chirurghi esserglisi già fatta la discesa degl’Intestini. Inteso dal Cardinale il proprio pericolo, senza lusingarsi delle speranza, che gli venivano date della possibilità della guarigione, si preparò alla morte con una costanza incomparabile, ricevendo gli ultimi Sacramenti, e accompagnando sino la raccomandazione dell’anima che gli veniva fatta dal suo confessore, finché la mattina167 del 26, con indicibile e invidiabile presenza di spirito, rassegnazione e fervore, placidamente spirò: potendosi dire, che fu singolare anche la sua morte, se in lui ogni cosa era stata fuori dell’ordinario, cioè il suo innalzamento, la sua fortuna, il suo talento, l’età, la fama, come si espresse Sua Santità coll’Abate Alberoni suo nipote, allorché andò a notificarle in un’udienza privata la perdita, che veniva di fare del Zio. Aperto il suo Testamento, si trovò che costituiva Erede generale di tutti i suoi Beni, che ascendono ad un milione e più di Scudi Romani, il Seminario di S. Lazaro, da lui; eretto e fondato con grandissima spesa fuor di Piacenza, per render immortale la sua memoria. In forza di questa disposizione devono in esso essere mantenuti 60. allievi, per esser addottorati in Teologia, e nelle altre Scienze. Il soprappiù delle rendite, che producono i Beni situati nei Ducati di Parma e Piacenza, sarà assegnato al mantenimento e sollievo dei poveri del paese; e i beni e le rendite ch’ei possedeva nello Stato Ecclesiastico, e di cui lasciò usufruttuario l’abate suo nipote, sono ancora più bastanti a dargli il modo di fare un bella comparsa, e dopo la sua morte debbono ritornare allo stesso Collegio.”CCCXLII Della sua morte fu data notizia sulle gazzette in Italia e fuori, ma la maggior parte dei cronisti ebbe la prudenza di non esprimere alcun giudizio: a parlarne bene si poteva irritare la Spagna e forse l’Austria, a parlarne male il Sacro Collegio, perciò tutti si attennero al ripiego di raccontare brevemente la sua vita. Nemmeno Papa Lambertini sfuggì a questo; la morte d’Alberoni occupò un post-scriptum di tredici righe in una lettera al cardinal de Tencin, di cui undici dedicate all’eredità e tre sole, le prime, alla persona del defunto, di cui scrisse: “è giunta la nuova della morte del card. 166

Più preciso, Castagnoli spiegò: “Era solito recarsi dai Padri Gesuiti di San Pietro, coi quali era legato da stretta amicizia. Il 23 giugno, essendosi recato alla Casa dei Gesuiti, per udire le lezioni del Padre Vitelleschi, si sentì male nel salire le scale. Lo sforzo fatto gli causò un principio d’ernia, che poi a causa della tosse divenne grave e produsse una violenta infiammazione. La cosa si mostrò subito grave, e il cardinale volle ricevere il Viatico il giorno seguente, 24 giugno, in presenza di tutti i suoi famigliari, ai quali chiese pubblicamente perdono di tutti i dispiaceri che avesse potuto dare a loro e a quanti lo avevano avvicinato durante la sua vita”; CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 264. 167 Rifacendosi presumibilmente alla lettera del signor Villati CM al signor Testori CM, Castagnoli indicò l’ora nelle “otto e mezzo di notte.” Questo però non significa certamente le venti e trenta come si potrebbe pensare, perché Villati scrisse: “Quanto alla morte dell’Eminentissimo dirò esser seguita alli 26 del corrente sull’ore otto e mezzo, preceduta da breve malattia di ore 34 di allettatura.” Poiché Villati non specificò, si deve pensare che intendesse le Ore d’Italia – delle quali ho parlato nella nota 84 – per cui, dato il giorno e il mese, le otto e mezza sarebbero state all’incirca le nostre quattro e un quarto, per essere proprio precisi le quattro e diciotto del mattino, cioè l’ora in cui si levava il sole quel giorno. Questo coincide colla relazione che ho riportato qui, dove si parla di mattino del 26 giugno. Se invece Villati avesse inteso parlare di Ore di Francia, le otto e mezzo sarebbero state le nostre otto e mezzo, cioè tre ore e un quarto dopo il levar del sole, dunque si tratterebbe sempre di mattino. 262


Alberoni seguita in Piacenza in bona senectute con gran prontezza di spirito e rassegnazione nelle mani di Dio.”CCCXLIII Un po’ poco, specie considerando che si esprimeva in una lettera privata diretta ad un amico ed a proposito d’una comune conoscenza, alla cui attività e voto doveva la tiara pontificia. Era poco pure rispetto alle parole di rito da lui poi dette a monsignor Faroldi, venuto ad annunciargli formalmente il decesso dello zio. Un simile atteggiamento neutro fu generale e rimase immutato per molto tempo. Sembrava proprio uno di quei de mortuis nihil nisi bonum per i quali, essendoci poco “bonum” da dire, è meglio tacere. Ancora vent’anni dopo la morte del Cardinale commentava il padre Chaudon nella chiusa della voce “Alberoni” del suo dizionario storico: “Questo Cardinale morì nel 1752, in età di 87. anni colla riputazione di gran Politico, e di un Ministro intraprendente ed ambizioso, come Richelieu, e destro ed accorto come Mazarini. Ma s’egli ebbe le loro grandi qualità, ebbe altresì i loro difetti. Infine il suo genio era vasto, ed immensi erano i suoi progetti, ma la fortuna gli mancò. La Spagna avrebbe cangiato faccia interamente, s’egli avesse regnato più a lungo.”CCCXLIV E’, ripeto, un po’ poco per Giulio Alberoni. Da quanto ho scritto è evidente che la sua vita fu assai diversa da quel che dicono tutte le biografie comparse fino ad ora: fu più complessa, più difficile, più combattuta, meno romanzesca, con tante luci e molte ombre, più seria, mai volgare, marcata sempre da una coscienza della sua dignità di sacerdote e da un raro spirito di servizio alla Santa Sede e alla Chiesa militante – giustamente inscindibili – cosi come ai sovrani che servì, per i quali fece tutto e dai quali ebbe solo ingratitudine e della più nera. Arrivati a questo punto è utile cercare di dare un giudizio su Giulio Alberoni? Ognuno si sarà fatto il suo e il mio non conta. Dio l’abbia in gloria.

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NOTE DI RIFERIMENTO BIBLIOGRAFICO

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BELLARDI, Filippo Diego, Sbozzo della Vita del Cardinale Alberoni, ms. in Biblioteca Ambrosiana, Milano. ROUSSET DE MISY, Istoria del Cardinal Alberoni, dal giorno della sua nascita fino alla metà dell’anno 1720, 2 voll., Amsterdam, Ipigeo Lucas, 1720 e Istoria del Cardinal Alberoni, dal giorno della sua nascita fino ai principi del 1719, con aggiunta di quanto è seguito fino a’ 22 marzo del 1720, 2 voll., Amsterdam, Ipigeo Lucas, 1720. III BERSANI, Stefano, Storia del Cardinale Giulio Alberoni, Piacenza, Solari, 1861, pag. 48, nota 1. IV PELOSINI, Narciso Feliciano, Maestro Domenico, Palermo, Sellerio, 1982, pag. 14. V Cfr. ROSSI, Giovanni Felice, La formazione filosofica e teologica del Card. Alberoni, in ROSSI, Giovanni Felice C.M., Cento studi sul Cardinale Alberoni, 4 Voll., Piacenza, Collegio Alberoni, 1978, vol. 1, pagg. 47-49. VI Confirmatio notariatus R.D. Alberoni: die Primo Octobris anni 1684, in, Archivio di Stato di Piacenza, Notai piacentini, Notaio Carlo Speciotti, Protocolli, n. 5, folii da 44 verso a 47 recto. Lo strumento fu “Presentatus Archivio die 5. Februarii 1685, filtia prima n° 239”. VII POGGIALI, Cristoforo, Memorie storiche della Città di Piacenza,12 voll., Piacenza, per Filippo Giacopazzi, 17571766, vol. 12, pag. 211. VIII BERSANI, Stefano, op. cit., pag. 50, nota 1. IX Giulio Alberoni ad un destinatario ignoto, Piacenza, 1° Ottobre 1687, rip. in ROSSI, Giovanni Felice, Antologia di scritti alberoniani – L’Alberoni chiede aiuto a un suo benefattore che si presume il conte Roncovieri: ottobre 1687, in ROSSI, Giovanni Felice C.M., Cento studi sul Cardinale Alberoni, cit., vol. IV, pag. 601. X ROSSI, Giovanni Felice, Antologia di scritti alberoniani – L’Alberoni chiede aiuto a un suo benefattore che si presume il conte Roncovieri: ottobre 1687, cit., ivi. XI Quietatio facta per Ill.mum Doctorem Iuris Comitem Barnum nomine Ill.mi et Rev.mi D.D. Episcopi Barni ad favores M. R. Domini Albaroni… die vero decima tertis mensis Februarij Placentiae, in Episcopali Palatio… coram Domino Joseph de Cremonensibus notario Placentino… Praesente Domino Joanne Farina notario Placentino pro secundo notario, rip. in extenso in ROSSI, Giovanni Felice, L’Alberoni Maestro di Casa del Vescovo di Piacenza Mons. Giorgio Barni e Procuratore della Mensa Vescovile e poi Precettore del conte G.B. Barni, in ROSSI, G.F., Cento Studi sul Cardinale Alberoni, cit., vol. I, pag. 125, XII I relativi rogiti sono riportati in extenso dal padre Rossi nel suo saggio Giulio M. Alberoni Prebendario della Cattedrale di Piacenza dal 23 novembre 1689, in Cento Studi, cit., vol. I, pag. 128 e segg. XIII Erizzo al Senato, 31 Luglio 1700, da Roma, primo dei due dispacci di quel giorno, in Archivio di Stato di Venezia, “Dispacci degli ambasciatori al Senato”, Roma, Archivio proprio Roma, 18, filza 214. XIV BELLARDI, Filippo Diego, Sbozzo della Vita del Cardinale Alberoni, ms. in Biblioteca Ambrosiana, Milano, cap. I, rip. in ROSSI, Giovanni Felice, L’Alberoni al servizio di Francesco Farnese duca di Parma e Piacenza, in Cento Studi, cit., vol. 1, pag. 157. XV BELLARDI, op. cit., cap. II, rip. in ROSSI, Giovanni Felice, L’Alberoni al servizio di Francesco Farnese duca di Parma e Piacenza, pag. 159. XVI Idem, pag. 327. XVII SAINT-SIMON, Louis de ROUVROY duca de, Mémoires de M. le Duc de Saint Simon, edizione Boislisle, 20 Voll., Parigi-Ginevra, 1976, tomo (vol.) VII, pagg. 283-285. XVIII SAINT-SIMON, op. cit., vol VII, pagg. 286-287. XIX BELLARDI, op. cit., cap. II, rip. in ROSSI, op. cit., vol. 1, pag. 159. XX BELLARDI, op. cit., rip. in ROSSI, op. cit., pag. 160. XXI Rip. in FALDELLA, Giovanni, L’assedio di Vercelli in Gesta ed eroi del tempo antico, Torino, Lattes, 1910, pagg. 85-86. XXII Archivio di Stato di Napoli, Carte Farnesiane, Alberoni al duca Francesco Farnese, dal campo di San Germano, 14 agosto 1704. XXIII Archivio Collegio Alberoni, Epistolario, I, Aa 7, Alberoni al conte Ignazio Rocca, dal campo di Soresina, 4 agosto 1705. XXIV Archivio Collegio Alberoni, Epistolario, I, Aa 16, Alberoni al conte Ignazio Rocca, dal campo di Gambello, 16 ottobre 1705. XXV Archivio Collegio Alberoni, Epistolario, I, Aa 16, Alberoni al conte Ignazio Rocca, dal campo di Gambello, 16 ottobre 1705. XXVI BELLARDI, Filippo Diego, Sbozzo della Vita del Cardinale Alberoni, cit., rip. in ROSSI, Giovanni Felice, L’Alberoni al servizio di Francesco Farnese duca di Parma e Piacenza, in ROSSI, Giovanni Felice, Cento studi cit., vol. 1, pagg. 157-158. XXVII ALBERONI, Giulio, prima postilla autografa alla Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R. *** tradotta dallo Spagnuolo, conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pagg. 33-34, cit., in ROSSI, Giovanni Felice, L’Alberoni al servizio di Francesco Farnese duca di Parma e Piacenza, in ROSSI, op. cit., vol. 1, pag. 163. II

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XXVIII

Rip. in CASTAGNOLI, Pietro, C.M., Il cardinale Giulio Alberoni, 3 voll., Roma, Ferrari, 1929, vol. I, pag. 46. SAINT-SIMON, op. cit., edizione Delloye, Parigi, 1840, vol VII, tomo XIII, pagg. 164 e segg. XXX Alberoni al conte Rocca, senza luogo, ma probabilmente da Versailles, 30 gennaio 1708, rip. in BOURGEOIS, Emile (a cura di), Lettres intimes de J.M. Alberoni adressées au comte I. Rocca, ministre des finances du duc de Parme, Paris, Masson, 1892, pag. 65. XXXI SAINT-SIMON, Mémoires, rip. in CHURCHILL, Winston Spencer, Marlborough, Torino, UTET, 1979, Vol. I, pagg. 917-918. XXXII Alberoni al conte Pighetti, ambasciatore farnesiano a Parigi, dal campo di Lovendegem, 24 luglio 1708, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pagg. 67-68. XXXIII Bibliothéque Nationale de France, Dossier “Extrait de l’inventaire du Cabinet de M.r Gaignères donné au Roi Louis XIV, par acte du 19 février 1711. Volume manuscript en folio, de l’Abbé Alberoni, f.° 255, XVII et XVIII, s. sur papier ; 377 feuillets, Ms 20.865, fond Français, ms 20.865. XXXIV POZZI, Giampietro, La prima storia del Cardinale Alberoni?, in ROSSI, Cento Studi, cit., vol. 1V, pag. 307. XXXV Idem, pagg. 307-308, nota 1, riportando in extenso la lettera di Chamillart a Vendôme del 10 agosto 1708, ms 10247 del medesimo fondo Francese della BNF, rip. in ROSSI, idem. XXXVI Articolo IV, rip. in CHURCHILL, op. cit., pag. 1029. XXXVII Alberoni al conte Pighetti, La Ferté Alais, 9 maggio 1709, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 100. XXXVIII Alberoni al conte Rocca, Parigi, 6 agosto 1710, in BOURGEOIS, op. cit., pag, 123. XXXIX SAINT-SIMON, op. cit., edizione Delloye, Parigi, 1840, vol III, tomo V, pagg. 168-169. XL Alberoni al conte Rocca, Saragozza, 28 gennaio 1711, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 134. XLI Alberoni al conte Rocca, Vinaros, 10 giugno 1712, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 178. XLII Alberoni, postilla nel vol. I, pag. 43 della biografia, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 102, nota 60. XLIII Alberoni al conte Rocca, senza luogo, però da Madrid, 4 luglio 1712, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 180. XLIV Alberoni al conte Rocca, Madrid, 10 luglio 1713, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 236. XLV Alberoni al conte Rocca, Madrid, 17 aprile 1713, rip. in BOURGEOIS, op. cit., II parte, pag. 211. XLVI Francesco Farnese al conte Rocca, senza luogo, 21 luglio 1713, rip. in ROSSI, Giovan Felice, Alberoni al servizio del duca Farnese, in Cento Studi, cit., in extenso a pag. 172. XLVII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 2 maggio 1713, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 123. XLVIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 13 marzo 1713, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 204. XLIX Lettera di Francesco Farnese ad Alberoni, in AS Napoli, Carte Farnesiane, fascicolo 54, cit. da CASTAGNOLI, in op. cit., vol. I, pag. 151. L ALBERONI, Postilla nona, in “Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R.” cit., vol. I, pag. 48, rip. da CASTAGNOLI, in op. cit., vol. I, pag. 151, nota 5. LI Alberoni al duca Francesco, Madrid, 16 aprile 1714, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 151. LII ALBERONI, Postilla cit., in Storia cit., Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pag. 48. LIII ALBERONI, Postilla cit., in Storia cit., Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pagg. 48-50. La postilla è riportata anche da Bersani, in op. cit., pag. 69. LIV Alberoni al duca Francesco, Madrid, 16 aprile 1714, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 154. LV ALBERONI, Postilla cit., in Storia cit., Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pagg. 48-50. LVI Alberoni al duca Francesco, Madrid, 10 settembre 1714, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 171. LVII Alberoni a Rocca, Madrid, 25 dicembre 1714, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 352. LVIII Alberoni al duca Francesco, Madrid, 31 dicembre 1714, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 176. LIX Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 180. LX Alberoni al duca Francesco, Madrid, 10 settembre 1714, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 171. LXI Saint-Agnan al ministro Torcy, Madrid, 5 gennaio 1715, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 179. LXII ROUSSET DE MISY, Istoria del Cardinal Alberoni, dal giorno della sua nascita fino alla metà dell’anno 1720, 2 voll., Amsterdam, Ipigeo Lucas, 1720, vol. I, pag. 67. LXIII OTTIERI, Francesco Maria, Istoria delle guerre avvenute in Europa e particolarmente in Italia per la Successione alla Monarchia delle Spagne dall’anno 1696 all’anno 1725, 4 voll., Roma, 1753, vol. III, 1707-1715, libro decimottavo, pag. 581. LXIV BAUDRILLART, Alfred, Philipp V et la cour de France, 5 vol, Parigi, Firmin-Didot, 1890, vol. I, pagg. 610-616. LXV Stato presente dei Paesi , e Popoli del Mondo di M. Salomon, tomo XIV, che tratta del Portogallo e Tomo XV, che tratta della Spagna Etc., Venezia, 1744, pag. 415. LXVI Rip. in ROTA, Ettore, Il problema politico d’Italia dopo Utrecht e il piano antitedesco di Giulio Alberoni, Piacenza, Biblioteca Storica Piacentina, 1934, pag. 7. LXVII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 20 luglio 1707, in BOURGEOIS, op. cit., pag, 53. LXVIII Mss. parmensi, 467: Informtations historiques et critiques sur les prétentions de l’Espagne aux duchés de Parme et de Plaisance, c. 622, in ROMANELLO, Marina, “Elisabetta Farnese, regina di Spagna”, in “Dizionario biografico degli Italiani,” Ist. Enc. Italiana, 1993, vol. 42, ad vocem. LXIX Alberoni al conte Rocca, Madrid, 27 agosto 1714, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 335. XXIX

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LXX

Alberoni al conte Rocca, Madrid, 15 giugno 1716, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 470. Atto d’accusa di Filippo V ad Alberoni, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 190. LXXII Ibidem. LXXIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 21 settembre 1716, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 492. LXXIV Alberoni al conte Rocca, Madrid, 17 settembre 1715, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 340. LXXV Alberoni al conte Rocca, Madrid, 10 agosto 1716, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 484. LXXVI Lettera aperta d’Alberoni al cardinale Paolucci, rip. in ROUSSET DE MISY, op. cit., vol. II, pag. 105. LXXVII Deposizione di Camilla Bergamaschi al Tribunale diocesano di Piacenza il 15 maggio 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 98-99. LXXVIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 3 febbraio 1715, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 364. LXXIX ROUSSET DE MISY, op. cit,, vol. I, pag. 69. LXXX Alberoni al conte Rocca, Madrid, 18 marzo 1715, rip in BOURGEOIS, op. cit., pag. 384. LXXXI Alberoni al conte Rocca, Madrid, 16 dicembre 1715, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pagg. 432-433. LXXXII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 23 dicembre 1715, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pagg. 434. LXXXIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 8 giugno 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 467. LXXXIV Alberoni al conte Rocca, Madrid, 26 ottobre 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 499. LXXXV Ibidem. LXXXVI Ibidem. LXXXVII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 3 febbraio 1715, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 365. LXXXVIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 15 febbraio 1717, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 521. LXXXIX Alberoni al conte Rocca, Balsain, 13 giugno 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 588. XC Rip. in KAMEN, Henry, Philip V of Spain, New-Haven-London, Yale University Press, 2001, pag. 109. XCI Ibidem. XCII MONTESQUIEU, Charles Louis DE SECONDAT barone di LA BRÈDE e di, Viaggio in Italia, Bari, Laterza,1971, pag. 201. XCIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 26 ottobre 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 499. XCIV Alberoni al conte Rocca, Madrid, 18 maggio 1717, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 540. XCV Rip. in KAMEN, op. cit., pag. 116. XCVI Rip. in KAMEN, op. cit., pag. 109. XCVII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 13 dicembre 1717, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 560. XCVIII Alberoni al conte Rocca, Balsain [Balzain], 30 maggio 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 582. XCIX Alberoni al conte Rocca, Balsain, 13 giugno 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 587. C Alberoni al conte Rocca, Balsain, 30 maggio 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 582. CI Alberoni al conte Rocca, Balsain, 13 giugno 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 587. CII Alberoni al conte Rocca, Balsain, 30 maggio 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 582. CIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 13 giugno 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pagg. 587-588. CIV Ibidem. CV Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. I, pag. 256. CVI Riferito da Bubb a Stanhope, Madrid, 5 agosto 1716, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., pag. 257. CVII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 18 febbraio 1715, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 373. CVIII ORAZIO, Satire, Libro I, 1, 24 CIX Alberoni al conte Rocca, Madrid, 20 febbraio 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 440. CX Alberoni al conte Rocca, Madrid, 18 maggio 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 459. CXI Alberoni al conte Rocca, Madrid, 8 giugno 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 466. CXII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 1° settembre 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 487. CXIII Alberoni al marchese Monti, Madrid, 5 aprile 1717, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Tb, 5049, rip. in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 248. CXIV Alberoni al marchese Monti, Madrid, 12 aprile 1717, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Tb, 5049, rip. in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 248. CXV Alberoni al marchese Monti, Madrid, 25 maggio 1717, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Tb, 5055, rip. in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag 248. CXVI Alberoni al conte Rocca, Madrid, 13 luglio 1716, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 476. CXVII “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1717”, “Il corriere ordinario”, pag. 88, Giorno di Posta XLIV, 2 giugno 1717, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1717. CXVIII Alberoni al conte Rocca, 28 giugno 1717, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag, 545. CXIX “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1717”, “Il corriere ordinario”, Roma, 17 luglio, pag. 128, Giorno di Posta LXII, 4 agosto 1717, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1717. CXX Alberoni al conte Rocca, Madrid, 3 agosto 1717, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag, 549. CXXI Alberoni al conte Rocca, Madrid, 21 novembre 1717, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag, 560. LXXI

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CXXII ALBERONI, Giulio, ventiduesima postilla autografa alla Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R. *** tradotta dallo Spagnuolo, conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, cit., rip. in BERSANI, op. cit., parte II, pag. 188. CXXIII Alberoni al conte Rocca, Madrid, 3 gennaio 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag, 566. CXXIV MONTESQUIEU, op. cit., pag. 201. CXXV BOURGEOIS, Emile, Le secret des Farnèse : Philippe V et la politique d’Alberoni, Parigi, Colin, 1910, pagg. 256257. CXXVI Francesco Farnese ad Alberoni, Parma, 27 maggio 1717, prima lettera, ostensibile, in AS Napoli, Carte Farnesiane, 57, 3. rip. in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 250. CXXVII Francesco Farnese ad Alberoni, Parma, 17 maggio 1717, in AS Napoli, Carte Farnesiane, 57, 3. CXXVIII Francesco Farnese ad Alberoni, Parma, 27 maggio 1717, prima lettera, ostensibile, in AS Napoli, Carte Farnesiane, 57, 3, rip. anche in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 250. CXXIX Ivi. CXXX Ibidem. CXXXI Il duca di Popoli a Filippo V, Madrid, 9 giugno 1717, in Archivio Alberoni, Epist. Alberoni, I, Bb, 643, rip. in CASTAGNOLI, op. cit. vol. I, pag. 274. CXXXII Il duca di Popoli a Filippo V, Madrid, 10 giugno 1717, in Archivio Alberoni, Epist. Alberoni, I, Bb, 644, rip. in CASTAGNOLI, op. cit. vol. I, pag. 275. CXXXIII Il duca di Popoli a Filippo V, Madrid, 10 giugno 1717, in Archivio Alberoni, Epist. Alberoni, I, Bb, 644, rip. in CASTAGNOLI, op. cit. vol. I, pag. 275. CXXXIV Alberoni al duca di Popoli, San Lorenzo all’Escuriale, 10 giugno 1717, in Archivio Alberoni, Epist. Alberoni, I, Bb, 647, rip. in CASTAGNOLI, op. cit. vol. I, pag. 275-277. CXXXV Il marchese Grimaldo al duca di Popoli, San Lorenzo all’Escuriale, 12 giugno 1717, rip. in BERSANI, op. cit., pagg. 141-142. CXXXVI Rip. in BERSANI, op. cit., pag. 142. CXXXVII ALBERONI, Giulio, diciottesima postilla autografa alla Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R. *** tradotta dallo Spagnuolo, conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pag. 59, cit., rip. in ROSSI, Giovanni Felice, La Spagna messa in guerra...cit., in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 255. CXXXVIII ALBERONI, Giulio, diciannovesima postilla autografa alla Storia.. cit., conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pag. 60, cit., in ROSSI, Giovanni Felice, La Spagna messa in guerra...cit., rip. in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 255. CXXXIX ALBERONI, Giulio, ventesima postilla autografa alla Storia..cit., conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pag. 61, cit., in ROSSI, Giovanni Felice, La Spagna messa in guerra...cit., rip. in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 255. CXL Deposizione di Patiño nelle carte processuali alberoniane, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 238. CXLI Alberoni a Francesco Farnese, Madrid, senza data ma luglio 1717, in AS Napoli, Carte Farnesiane, 57, 3. rip anche in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 257. CXLII Vittorio Amedeo II al viceré Maffei, dispacci del 17 e 27 luglio e del 4 agosto 1717 da Torino, cit., rip. in CARUTTI, Domenico, Storia della diplomazia della Corte di Savoia, Torino, F.lli Bocca, 1876, vol. III, pag. 509. CXLIII Francesco Farnese ad Alberoni, Parma, 23 luglio 1717, in AS Napoli, Carte Farnesiane, 57, 3. rip anche in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Giovanni Felice, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 258. CXLIV AREZIO, Luigi, “Il Cardinale Alberoni e l’impresa di Sardegna nel 1717”, in “Archivio Storico Sardo”, vol. II, Cagliari, 1906, pagg. 257-309. CXLV Francesco Farnese sotto il falso nome di Gennaro Felicioni, ad Alberoni, Napoli (ma Parma), 15 (ma 27) luglio 1717, in AS Napoli, Carte Farnesiane, 57, 3. rip anche in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 261. CXLVI Francesco Farnese ad Alberoni, Colorno, 10 agosto 1717, prima lettera, ostensibile, in AS Napoli, Carte Farnesiane, 57, 3. rip anche in ROSSI, La Spagna messa in guerra contro l’Austria dal Farnese, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 262. CXLVII MONTESQUIEU, op. cit., pag. 148. CXLVIII MONTESQUIEU, op. cit., pag. 90. CXLIX ALBERONI, Giulio, ventottesima postilla autografa alla Storia del Cardinale Alberoni del Signor J.R. *** tradotta dallo Spagnuolo, conservata nella Biblioteca del Collegio Alberoni, vol. 1°, pag. 59, cit., in ROSSI, Giovanni Felice, La storia del Card. Alberoni postillata da lui stesso, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pag. 329. CL Alberoni al conte Rocca, Balsain, 30 maggio 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 582. CLI Alberoni al conte Rocca, Balsain, 21 giugno 1718, in BOURGEOIS, op. cit., pag. 589. CLII STAAL, Marguerite-Jeanne CORDIER DE LAUNAY, baronessa von, Memorie, Milano, Adelphi, 1995. CLIII Alberoni al marchese di Nancré, Madrid, 28 gennaio 1719, rip. in BAUDRILLART, op. cit., vol. II, pag. 356, nota 2. CLIV Idem.

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CLV

Alberoni al marchese di Nancré, Madrid, 6 marzo 1719, rip. in BAUDRILLART, op. cit., vol. II, pag. 357. Alberoni al conte Rocca, Madrid, 5 settembre 1719, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 635. CLVII Ibidem. CLVIII BAUDRILLART, op. cit., vol. II, pag. 398. CLIX “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1720”, Giorno di Posta II, 6 Genaro 1720, “Foglio aggiunto all’ordinario – Estratto delle novità più essenziali dalle Lettere più fresche venute questa mattina – dalla Spagna”, pag. 4, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1720. CLX “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1720”, “Il corriere ordinario” pag. 16, Giorno di Posta VIII, 27 Genaro 1720, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1720. CLXI Alberoni al conte Rocca, Madrid, 6 dicembre 1719, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 643. CLXII POGGIALI, Ciro, Memorie di Piacenza, tomo XII, Piacenza, 1766, pag. 331. CLXIII Scotti a Francesco Farnese, postscriptum alla lettera da Madrid del 22 dicembre 1719, in AS Napoli, Farnesiane, fasc. 55, sottofasc. 4, cit., rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 3, nota 8. CLXIV Ibidem. CLXV Scotti, a Francesco Farnese, Madrid 1° gennaio 1720, in ASN, Farnesiane, fasc. 55, sottofasc. 5, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., Vol II, pag. 3 e Quarto manifesto dell’Alberoni al card Paolucci: da rifugio segreto senza data, rip. in ROSSI, G. F., Antologia di scritti alberoniani, in ROSSI,, Cento studi sul Cardinale Alberoni, cit., vol. IV, pag. 659. CLXVI Quarto manifesto, cit., rip. in Cento studi sul Cardinale Alberoni, cit., vol. IV, ivi. CLXVII Quarto manifesto, cit., ibidem. CLXVIII Ibidem. CLXIX CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 4. CLXX CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 6. CLXXI Il cavalier de Marcieu al Reggente, lettere da Perpignano il 6 gennaio e da Narbona il 7 gennaio 1720, Parigi, Archives des Affaires Etrangéres, Espagne, copia nell’Archivio Alberoni, Coll. Alb, Epistolario, I, Cb. 852, cit. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 4. CLXXII BERSANI, op., cit., pag. 281. CLXXIII Alberoni al cardinal Paolucci, rip. in BERSANI, op. cit, pagg. 281-282. Si tratta della lettera pubblica d’Alberoni al cardinal Paolucci in data 15 maggio 1720, riportata integralmente nell’Istoria del Cardinal Alberoni dal giorno della sua nascita fino alla metà dell’anno 1720, a Amsterdam, per Ipigeo Lucas, 1720, seconda edizione, parte seconda, pag. 121. CLXXIV Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 4. CLXXV Rip. in PAPA, Vincenzo, “L’Alberoni e la sua dipartita dalla Spagna – saggio di studio storico-critico”, in BARICCO Pietro (a cura di), Cronaca dell'anno scolastico 1875-76, Torino, R. Liceo-Ginnasio Cavour, 1877, pag. 76. CLXXVI Francesco Farnese al marchese Scotti, Colorno, 17 settembre 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, appendice, docum. 18, pag. 336. CLXXVII Alberoni al canonico Bertamini, Barcellona, 29 dicembre 1719, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Cb (Carteggio Bertamini), 868, rip. in ROSSI, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag 482. CLXXVIII ROSSI, Giovanni Felice, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag 482, nota 3.. CLXXIX ROSSI, Giovanni Felice, Le ricchezze del cardinale Alberoni – dove le ha attinte, come le ha usate, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pag 33. CLXXX Pietro Giorgio Lampugnani al conte Rocca, Milano, 17 gennaio 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 41, nota 1. CLXXXI Raisons et faits sur lesquels le Cardinal se fonde pour justifier sa conduite; originale nell’Archive Affaires Etrangères, Parigi, cit. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II., pag. 33, nota 15. CLXXXII Articoli principali per gli interessi della Francia e di Sua Altezza Reale, consigliati dal Signor Cardinale Alberoni; punto 3°, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 38. CLXXXIII “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1720”, Giorno di Posta XV, 21 Febraro 1720, “Il corriere ordinario”, pag. 31, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1720. CLXXXIV Rip. in ROUSSET DE MISY, op. cit., II parte, pag. 80. CLXXXV Rapporto del notaio Musso, rip, in QUAZZA, Romolo, La cattura del Cardinale Alberoni e la Repubblica di Genova, Genova, 1913, pagg. 161-162. CLXXXVI ALBERONI, Giulio, Lettera a S.E. il cardinal Paolucci de’Calboli, Segretario di stato di S.S., Manifesto datato 20 marzo 1720, rip. in extenso nel citato testo di ROUSSET DE MISY, Istoria del Cardinal Alberoni dal giorno della sua nascita fino alla metà dell’anno 1720, a Amsterdam, per Ipigeo Lucas, 1720, II parte, da pag. 85 in poi; qui è pag. 87. CLXXXVII Alberoni al conte Rocca, Sestri Levante, 13 febbraio 1720, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pagg. 643-644. CLXXXVIII Alberoni al conte Rocca, Sestri Levante, 2 marzo 1720, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 644. CLXXXIX Alberoni al conte Rocca, Sestri Levante, 17 marzo 1720, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 645. CLVI

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CXC

CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 43, nota 2. Il conte Rocca al marchese Scotti, Parma, 12 gennaio 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 42. CXCII Il conte Rocca al ministro Savigny, Parma, 5 febbraio 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 43. CXCIII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, appendice, docum. 10, pag. 318. CXCIV Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, appendice, docum. 9, pag. 318. CXCV Idem, pag. 317, nota 1. CXCVI MONTESQUIEU, op. cit., pag. 202. CXCVII Rip. in QUAZZA, op. cit. CXCVIII ROSSI, Giovanni Felice, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi cit., vol. 1, pagg 488. Il padre Rossi riporta la collocazione della dichiarazione rilasciata da Alberoni ai ministri dell’Ufficio di Sanità di Bologna, conservata in Archivio di Stato di Bologna, Archivio Monti, Cartone 24. CXCIX Alberoni al marchese di Villasor, Bologna, 16 aprile 1743, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. II, D, 6597, rip. in ROSSI, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag 491. CC Alberoni al generale Kevenhüller, Bologna, 1° aprile 1743, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. II, D, 6584, rip. in ROSSI, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag 491. CCI Originale latino rip. in BERSANI, op. cit., pagg. 322-323. CCII ROSSI, Giovanni Felice, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag 489. CCIII “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta XXXIII, 23 Aprile 1721, il Corriere Ordinario - “Continuazione del Diario di Roma durante la presente Sede Vacante dalli 29 di marzo fino alli 6 d’Aprile”, pag. 66, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCIV OTTIERI, op. cit., vol. 4°, libro vigesimoprimo, pagg. 261-262. CCV Ibidem. CCVI Alberoni al conte Rocca, Roma, 21 maggio 1721, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Da, 988, rip. in ROSSI, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 490. CCVII OTTIERI, op. cit., vol. 4°, libro vigesimoprimo, pagg. 263. CCVIII “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta XXXV, 30 Aprile 1721, il corriere Ordinario - “Continuazione del Diario di Roma durante la presente Sede Vacante dalli 5 fin’alli 12 d’d’Aprile”, pag. 70, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCIX Istoria dei Conclavi del secolo 1700, ms. in Biblioteca Vaticana, cod. Vat. lat. 12538, ff 79 recto – 80 recto, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 217-218. CCX Alberoni al conte Rocca, Roma, 22 aprile 1721, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Da, 988, rip. in ROSSI, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag 490. CCXI Alberoni a monsignor Paolucci nunzio a Vienna, Bologna, 16 marzo 1743, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. II, D, 6571, rip. in ROSSI, A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 491. CCXII Mercurio Storico e Politico, il quale contiene lo stato presente dell’Europa; ciò che si tratta in tutte le Corti; l’interesse de’Principi, i lor maneggi e generalmente tutto ciò che v’ha di curioso; il tutto accompagnato da Riflessioni Politiche sopra ciascun Stato, Tradotto dall’originale stampato in Olanda, Tomo XLII per lo mese di Giugno 1721, in Venezia, MDCCXXI, per Luigi Pavino, pag. 13. CCXIII “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta XLVII, 11 Giugno 1721, “il Corriere Ordinario”, pag. 95, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCXIV “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta XLIX, 18 Giugno 1721, “il Corriere Ordinario”, pag. 99, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCXV “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta LI, 25 Giugno 1721, “il Corriere Ordinario”, pag. 103, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCXVI “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta LXIX, 17 Agosto 1721, “il Corriere Ordinario”, pag. 140, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCXVII Alberoni al papa Innocenzo XIII, supplica, ms. in Archivio Segreto Vaticano - Roma, Miscellanea, Arm. X, vol. 202, f. 213, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 222. CCXVIII Alberoni al conte Rocca, Roma, 21 maggio 1721, in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Da, 988, rip. in ROSSI, G. F., A Godiasco nel palazzo Malaspina si rifugiò l’Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1, pag. 490. CCXIX Ibidem. CCXX Ibidem. CCXXI MONTESQUIEU, op cit., a pag. 269 per le rendite del principe Colonna, pag. 281 per quelle dello Stato Pontificio. CCXXII MONTESQUIEU, op. cit., pag. 201. CCXXIII Deposizione di Camilla Bergamaschi cit., rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 104. CCXXIV Alberoni a Filippo V, Roma, 10 ottobre 1726, rip. completamente in Rossi, G. F., Le ricchezze del cardinale Alberoni, – dove le ha attinte,come le ha usate, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pagg. 49-53. CCXXV Alberoni al conte Rocca, Madrid, 22 giugno 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 471. CXCI

270


CCXXVI

Alberoni al conte Rocca, Madrid, 21 settembre 1716, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 493. Memoria del 10 dicembre 1728, rip. da ROSSI, Giovanni Felice, Le ricchezze del cardinale Alberoni, cit., in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pag. 56. CCXXVIII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, appendice, docum. 17, pag. 332. CCXXIX Ibidem. CCXXX Alberoni a Filippo V, Roma, 10 ottobre 1726, rip. completamente in Rossi, G.F., Le ricchezze del cardinale Alberoni, – dove le ha attinte,come le ha usate, in ROSSI, Cento studi, cit., vol. 1V, pagg. 49-53 e cfr. BERSANI, op. cit., pag. 171. CCXXXI Alberoni al conte Rocca, 3 gennaio 1718, rip. in BOURGEOIS, op. cit., pag. 566. CCXXXII “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta XLIX, 18 Giugno 1721, “il Corriere Ordinario”, pag. 99, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCXXXIII Monsignor De Pretis al cardinal Paolucci, Madrid, 9 dicembre 1720, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 204. CCXXXIV CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 204. CCXXXV OTTIERI,, op. cit., vol IV, libro vigesimo primo, pag. 262. CCXXXVI Ibidem. CCXXXVII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 187-189. CCXXXVIII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 189-191. CCXXXIX Ibidem. CCXL Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 241. CCXLI Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 246. CCXLII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 250. CCXLIII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 252. CCXLIV Alberoni al cardinale Annibale Albani, San Lorenzo dell’Escuriale, 18 luglio 1718, in A.S.V., Miscellanea, Arm. X, vol. 147, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 252-253. CCXLV Fiorelli, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 254. CCXLVI Fiorelli, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pag. 255. CCXLVII Fiorelli, rip. in Ibidem. CCXLVIII Ibidem. CCXLIX Ibidem. CCL “Avvisi italiani ordinarii e straordinari dell’anno 1721”, Giorno di Posta LXXV, 17 Settembre 1721, “il Corriere Ordinario”, pag. 152, Vienna, appresso Giovanni van Gehlen, 1721. CCLI L’abate Bielato al conte Rocca, Genova 3 ottobre 1721, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. II, pagg. 228-229. CCLII OTTIERI,, op. cit., vol. IV, libro vigesimo primo, pag. 263. CCLIII OTTIERI, op. cit., pag. 262. CCLIV OTTIERI, op. cit., pagg. 262-263. CCLV Alberoni al padre Bernardo della Torre C.M., Bologna, 1° febbraio 1741, rip. in BERSANI, op. cit., pag. 385, nota 1. CCLVI Alberoni al cardinale Aldrovandi, Bologna 21 gennaio 1741, rip. in BERSANI, op. cit., pagg. 385-386, nota 1. CCLVII OTTIERI, op. cit., vol. IV, libro vigesimo primo, pagg. 262-263. CCLVIII Ibidem. CCLIX Ibidem. CCLX La Storia dell’Anno 1752, divisa in quattro libri, Amsterdam (ma Venezia), Pitteri, 1753, Libro Quarto, pag. 322. CCLXI Alberoni al canonico Bertamini, Roma, 13 maggio 1729, rip. in G.F. ROSSI, Le ricchezze del cardinale Alberoni, in ROSSI, Cento studi, cit. vol. IV, pag. 38., CCLXII GIARELLI, Francesco, Storia di Piacenza, Bologna, Analisi, 1990, pag. 24. CCLXIII OTTIERI, op. cit., vol. IV, libro vigesimo primo, pag. 263. CCLXIV Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, Piacenza, Collegio Alberoni, 1932, pag. 2. CCLXV Ibidem. CCLXVI Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 4. CCLXVII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., pag. 7. CCLXVIII Alberoni al conte del Benino, Ravenna, 26 ottobre 1735, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 48. CCLXIX Alberoni al cardinal Firrao, Ravenna, 15 settembre 1737, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 49. CCLXX Anonimo, Storia dell’anno 1736, Venezia, Pitteri, 1746, Libro III, pag. 165. CCLXXI Alberoni a Firrao, Ravenna, 5 ottobre 1735, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 61. CCLXXII Anonimo, Storia dell’anno 1736, Venezia, Pitteri, 1746, Libro III, pag. 165.. CCLXXIII Firrao ad Alberoni, Roma, 12 febbraio 1738, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 67. CCLXXIV Anonimo, Storia dell’anno 1739, Venezia, Pitteri, 1740, Libro IV, pag. 260. CCLXXV Idem, pag. 261. CCXXVII

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CCLXXVI Pubblicato in Anonimo, Storia dell’anno 1739, Venezia, Pitteri, 1740, Libro IV, pagg. 262-263, mentre l’originale risulta in Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Ma 2502, Il Rev.mo ed Em.mo Sig. Cardinal Firrao Seg. di Stato al Sig. Card. Alberoni Legato di Romagna. CCLXXVII Idem, pag. 264. CCLXXVIII Ibidem. CCLXXIX Archivio Alberoni, Carte di San Marino, Istromenti delle Dedizioni allo Stato della Chiesa, allegati: Dedizione del Popolo di Faetano, Dedizione del Popolo di Acquaviva, Dedizione del Popolo di Monte Giardino e Dedizione del Popolo della Chiesa Nuova. CCLXXX Archivio Alberoni, Epist. Alberon. I, Ma 2529, Il Rev.mo ed Em.mo Sig. Card. Alberoni Legato di Romagna al Sig. Cardinal Firrao Seg. di Stato. CCLXXXI Rip. in Anonimo, Storia dell’anno 1739, Venezia, Pitteri, 1740, Libro IV, pag. 264. CCLXXXII Rip. in CASTAGNOLI, op. cit.., vol. III, pag. 128. CCLXXXIII Anonimo, Storia dell’anno 1739, Venezia, Pitteri, 1740, Libro IV, pag. 264. CCLXXXIV Idem, pag. 265. CCLXXXV Ibidem. CCLXXXVI Idem, pag. 267. CCLXXXVII Il Segretario di Stato cardinale Firrao ad Alberoni, Roma 31 ottobre 1739, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 141. CCLXXXVIII Benedetto XIV al cardinal de Tencin, Roma, 29 febbraio 1744, in MORELLI, Emilia (a cura di), Le lettere di Benedetto XIV al Cardinale de Tencin, 3 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1955, vol. 1°, pag. 153. CCLXXXIX HARDENBERG, H., L’Alberoni nei Paesi Bassi – Alberoni, Ripperda e Stosch, in ROSSI, Cento Studi, cit., vol. IV, pag. 214. CCXC ROSSI, G. F., commento al saggio di cui alla nota precedente, in Cento Studi, cit., vol. IV, pag. 214 CCXCI De BROSSES, Charles, Viaggio in Italia, Bari, Laterza, 1973, Lettera XXXVIII, al Signor abate Cortois, pag. 330. CCXCII De BROSSES, op. cit., Lettera LIV, al Signor abate Cortois, pag. 603. CCXCIII De BROSSES, op. cit., idem, pag. 616. CCXCIV De BROSSES, op. cit., idem, pag. 615. CCXCV Rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 227. CCXCVI LOSCHI, Luigi, Orazione funebre in onore dell’E.mo e Rev.mo sig. Cardinale Giulio Alberoni, Vescovo di Malaga, nominato Arcives. di Siviglia, Grande di Spagna, Primo Ministro di S.M. Cattolica, Legato di Ravenna e di Bologna, etc. etc., recitata nella Sala del suo gran Collegio nel giorno 26 giugno dell’anno 1782, rip. in Cento Studi, cit., vol. IV, pag. 407. CCXCVII ROSSI, G.F., Benedetto XIV debitore della sua elezione all’Alberoni, lo manda Legato a Bologna scambiando con lui un carteggio confidenziale, in Cento Studi, cit., vol. II, pag. 556. CCXCVIII Rip. in ROSSI, op. cit., pag. 556. CCXCIX Alberoni a monsignor Millo, Bologna, 9 agosto 1741, rip. in ROSSI, op. cit., pag. 562. CCC Benedetto XIV ad Alberoni, Roma, 26 novembre 1740, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 168. CCCI Alberoni al cardinale Acquaviva, Bologna, 8 marzo 1742, rip. in ROSSI, op. cit., pag. 560. CCCII Alberoni a monsignor Millo, Bologna, 26 luglio 1741, rip. in ROSSI, op. cit., pag. 561. CCCIII Alberoni a monsignor Millo, Bologna, 17 agosto 1743, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 231. CCCIV Il marchese Paride Maria Grassi dei Quaranta al Senato di Bologna, Roma, 22 agosto 1740, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pagg. 161-162. CCCV BENEDETTO XIV, Capi che si propongono al Signor Cardinale Alberoni Legato di Bologna, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 172. CCCVI Rip. in MONTANARI, Francesco, Il Cardinale Lambertini (Benedetto XIV), Milano, Fratelli Bocca, 1943, pag. 48. CCCVII BENEDETTO XIV, Capi che si propongono cit., rip. in CASTAGNOLI, ibidem. CCCVIII Alberoni alla marchesa Spreti, Roma, 24 agosto 1740, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 162. CCCIX BENEDETTO XIV, Capi che si propongono cit., rip. in CASTAGNOLI, ibidem. CCCX Benedetto XIV ad Alberoni, Roma, 23 novembre 1740, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 166. CCCXI Alberoni a Benedetto XIV, Bologna, 19 novembre 1740, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 167. CCCXII Alberoni al conte von Traun, Bologna, 29 novembre 1740, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 175. CCCXIII Ibidem. CCCXIV Alberoni a Benedetto XIV, Bologna, 20 gennaio 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 178. CCCXV Il marchese Grassi al Senato di Bologna, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 179. CCCXVI Grassi al Senato, Roma, 3 marzo 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 181. CCCXVII Alberoni a Benedetto XIV, Bologna, 8 aprile 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 186. CCCXVIII Alberoni a Benedetto XIV, Bologna, 20 gennaio 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 178. CCCXIX Alberoni a Benedetto XIV, Bologna, 1° aprile 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 208. CCCXX Benedetto XIV ad Alberoni, Roma, 12 aprile 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 209. CCCXXI Alberoni a Benedetto XIV, Bologna, 19 aprile 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, ivi.

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CCCXXII

Alberoni al cardinal Valenti Gonzaga, Bologna, 19 aprile 1741, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, ivi. Alberoni a Valenti Gonzaga, Bologna, 23 maggio 1742, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 217. CCCXXIV Alberoni a Valenti Gonzaga, Bologna, 29 agosto 1742, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 223. CCCXXV Benedetto XIV al cardinal de Tencin, Roma, 29 marzo 1743, rip. in MORELLI, Le lettere di Benedetto XIV, cit., vol. 1°, pag. 63. CCCXXVI Alberoni a monsignor Millo, Bologna, 7 agosto 1743, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 231. CCCXXVII CARACCIOLI, Louis Antoine marchese de, Vita del Papa Benedetto XIV. Prospero Lambertini, con note istruttive, Venezia, Occhj, 1783, pagg. 46-47. CCCXXVIII Il marchese d’Ormea ad Alberoni, Torino, 26 febbraio 1744, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pagg. 243244. CCCXXIX Il marchese d’Ormea ad Alberoni, Torino, 10 giugno 1744, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 245. CCCXXX Il marchese d’Ormea ad Alberoni, Torino, 8 luglio 1744, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 245. CCCXXXI Anonimo, Storia dell’anno 1746, Venezia, Pitteri, 1747, Libro II, pag. 95. CCCXXXII Op. cit. pagg. 240-241. CCCXXXIII GIARELLI, Francesco, Storia di Piacenza, Bologna, Analisi, 1990, pag. 16. CCCXXXIV Ibidem. CCCXXXV Anonimo, Storia dell’anno 1746, cit. pagg. 240-241. CCCXXXVI Alberoni a Sebastián de la Quadra y Llarena, marchese di Villarias, Piacenza, luglio 1746, rip. in CASTAGNOLI, op. cit., vol. III, pag. 258. CCCXXXVII GIARELLI, op. cit., pag. 22. CCCXXXVIII Anonimo, Storia dell’anno 1749, Venezia, Pitteri, 1750, Libro I, pagg. 54-55. CCCXXXIX GIARELLI, op. cit., pag, 24. CCCXL Benedetto XIV al cardinal de Tencin, Roma, 2 settembre 1750, in Le lettere di Benedetto XIV, cit., vol. 2°, pag. 310. CCCXLI Benedetto XIV al cardinal de Tencin, Roma, 8 marzo 1752, in Le lettere di Benedetto XIV, cit., vol. 2°, pag. 460. CCCXLII Anonimo, La Storia dell’Anno 1752, Venezia, Pitteri, 1753, Libro IV, pag. 318. CCCXLIII Benedetto XIV al cardinal de Tencin, Roma, 5 luglio 1752, in Le lettere di Benedetto XIV, cit. vol. 2°, pag. 491. CCCXLIV Nuovo Dizionario Istorico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri segnando le epoche delle Nazioni, e molto più de’nomi famosi per talenti di ogni genere, virtù, scelleratezze, errori, fatti insigni, scritti pubblicati ec. Dal principio del mondo fino ai nostri giorni, 12 voll., Bassano, Remondini, 1796, vol I, pag. 174, ad vocem “ALBERONI (Giulio).” CCCXXIII

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BIBLIOGRAFIA

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