LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

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VITTORIO DAN SEGRE LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

LA RESISTENZA !T ALIANA IN ERITREA

DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

CORBACCIO

Zona operazioni del Gruppo

Bande amhara a cavallo nello

Scacchiere Nord

In nero il tracciato dell'offensiva inglese (gennaio 1941-aprile 1941)

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QuESTO libro è né una biografia storica né una biografia completa. E il racconto di due anni di guerra (19401942) di un ufficiale di cavalleria italiano, Amedeo Guillet, divenuto per necessità Ahmed Abdallah al Redai. In questo periodo e per vari mesi dopo la resa dell'Eritrea, egli tenne testa, coi suoi ascari, agli inglesi nella sola guerriglia organizzata in quella parte dell'Africa Orientale allora italiana.

Tre ragioni mi hanno spinto a raccogliere le memorie di un soldato reticente a renderle ilote al di fuori di una stretta cerchia composta dai suoi ex nemici e da qualche amico italiano.

La prima è la speranza che questo scritto possa servire d'incitamento a sto.rici professionisti per descriverequando ciò sarà possibile - la carriera e il ruolo militare, politico é diplomatico assunto da un grande e schivo servitore dello Stato italiano, in tempo di pace e in tempo di guerra .

La seconda è il desiderio di rendere omaggio a un uomo che, con. perseveranza, discrezione e onestà ha costantemente operato per l'intesa fra arabi ed ebrei e per la pace nel Medio Oriente

La terza è la convinzione che gli ideali politici e sociali da lui perseguiti non debbano rimanere oggetto di riconoscimento solo da parte di cavallereschi avversari . Essi possono servire anche in Italia di incoraggiamento a chi crede in valori che non conoscono limiti di tempo, di luogo, di classe e di cultura.

Nella preparazione di questo libro, mi sono servito di molte pubblicazioni italiane e straniere sulla guerra d'Etiopia e sulla seconda guerra mondiale in Africa, in parti-

colare degli esaurienti volumi di A. Del Boca, Gli Italiani ù Africa Orù?ntale: la caduta 'dell'Impero, l;aterza, Bari, 1985 A. Mockler, Il Mito dell'Impero, Rizzoli, Milano, 1977; Sbacchi, Ethiopia Under Mussolinz; Fascism and the Co nial Experience, Zed Book, Londra, 1985. Particolarmente utile, per comprendere il movimento delle truppe italiane britanniche negli scontri in cui vennero impegnate le uniti di cavalleria al comando di Guillet mì è stato il libro d tenente colonnello Federico Camieluti, già Capo Ufficio Operazioni dello Scacchiere Nord, Africa Orientale, Scac· chiere Nord, Del Buono, Udine, 1962. Caratterizzato da grande sobrietà e cognizione di causa si distingue da altre testimonianze fomite su questa campagna, ricche dJ dettagli ma comprensibilmente ' scritte con l'enfa*a amarezza di chi ritiene che il valore e ' il sacrificio delle truppe italiane in .Orientale non siano stati ap· prezzati. Tipico di questa letteratura è L'Impero tradito, di Alessandro Brurtini e Giuseppe Puglisi, La Fenice, Firenze , 1957, da cui ho tratto una vivida descrizione battaglia per la 'difesa dell'Asmara a Ad Teclesan, in cw Amedeo Guillet ebbe parte .di rilievo, e Stanislao Cantono di Ceva, La perla de!Mar Rosso. 50 anni di storia eritrea (l)l85-1935), stampilto in proprio, 1991, libro ricco di det tagli l! utile per la sua precisione storica. La responsabilità di questo scritt0 è, , naturalmente, mia, anche se mi sono avvalso del consiglio e di utili critiche molti amici a cui va la mia riconoscenza. Ho tuttavia con tratto un debito particolare çon il professar Edoardo Borra, medico in Etiopia dal 1927 ·e direttore dell'Ospedal Italiano di Addis Abeba dal 193 3 al 1940, compagno dii prigionia del Duca d'Aosta, storico e conoscitore de)la società europ.ea e indigena dell'Africa Orientale. Al suo ap " poggio, alla freschezza e precisione dei suoi ricordi, alla sua attenta lettura di molte versioni di q4esto ,scritto, debbo buona parte del coraggio che mi ha permesso di portarlo a termine.

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Alla cura con cui Luigi Bonanate, Luigi Agangi, Alfredo Guillet , Sergio Romano e Rosetta, mia moglie, hanno letto più d ' una delle versioni di questo scritto debbo la correzione di molti e rrori di fatti e di stile. Sono loro profondamente riconoscente. Alla signora Mary Ann Romano devo il fortunato titolo di questo libro. Sono grato inoltre alla signoraJane Harari c;; alla signora Katiusha Gibbs per avermi gentilmente fatto avere le fotografie dei loro rispettivi mariti e alla School o/ Orienta! and A/rican Sudies (SOAS) dell'Università di Londra per avermi f0rnito il necrologio pubblicato sul suo bollettino in occasione della scomparsa del Prof. D . S. Rice . La segreteria della SOl, (Società di Organizzazione Industriale) di Torino mi ha offerto la generosa collaborazione dei suoi servizi tecnici.

Non mi sarebbe stato possibile concepire questo lavoro senza il beneficio della straordinaria memoria di Amedeo Guillet e della piena libertà da lui concessami di esaminare i suoi archivi . Essi comprendono piccole-grandi pagine inedite di storia italiana, africana, araba e indiana che meriterebbero ben più ampio studio .

I giorni trascorsi nella sua dimora irlandese, fra i cavalli, la pittura e la musica a cui egli ora si dedica, hanno trasformato una fatica letteraria - alla quale mia moglie ha pazientemente contribuito- in un'esperienza di vita molto speciale.

Un'esperienza che Bice Guillet ha illuminato con la Sua presenza sino al giorno in cui il Signore ce l'ha concessa.

Stan/ord, 1989, Kentstown Glebe, Govone, l992

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PREMESSA STORICA

LA storia coloniale italiana ha inizio a Genova nel1869 . I rappresentanti delle Camere di commercio del nuovo ma ancora incompleto Regno d'Italia, riuniti per la prima vblta nella città ligure, autorizzano, col consenso del governo, Michele Rubattino a creare una « stazione » sulla costa africana.

Rubattino, a quell'epoca, è il maggiore armatore italiano. Trentun anni prima aveva creato una linea regolare di « autobus >> - ben inteso a cavalli - fra Genova e Milano. Nel1840 aveva creato, sfidando l'opposizione dei proprietari di velieri, la prima società di assicurazione e di navigazione a vapore dello Stato sabaudo . Le sue navi avevano trasportato volontari per la difesa della Repubblica Romana, nel 1849, e nel 1860 i Mille di Garibaldi in Sicilia. Conscio della rivoluzione nei traffici marittimi che l' apertura del Canale di Suez avrebbe causato, aveva fondato la . prima linea di navigazione italiana fra Genova, Alessandria d'Egitto e l'India . Questa iniziativa lo aveva portato in contatto con le autorità egiziane che a quell'epoca mantenevano, per conto della Sublime Port11, una vaga presenza lungo la costa del Mar Rosso, nel Sudan e all'Asmara .

Senza chiedere l'autorizzazione del Cairo, Rubattino acquistò il 18 novembre del 1869 dai sultani Hassan e Ibrahim Ben Ahmed la baia di Assab, un angolo pressoché disabitato della costa eritrea .

A partire da quell'epoca e nei dieci anni successivi, cinque attori cominciarono a interessarsi del futuro di quella che sarebbe in seguito diventata la prima colonia africana

italiana: il governo imperiale di Costantinopoli che, come si è detto, manteneva una sovranità puramente formale sulla costa orientale africana; il governo kediviale del Cairo che, in nome della Sublime Porta ma di fatto per ambizioni proprie, manteneva piccole guarnigioni nella regione e, col pretesto di combattere il commercio degli schiavi, tendeva a estendere il proprio dominio sul Sudan; il nuovo imperatore d'EtiopiaJohannes IV, salito al trono nel 1872. Grande soldato, aveva sbaragliato nel 1875 due colonne egiziane al comando di ufficiali europei; nel novembre Ciel 1876 aveva sterminato a Gura il corpo di spedizione di ventimila uomini inviato dal Cairo, al comando di Mulay Assah Bey, figlio de! kedivè, lui stesso caduto prigioniero. Colle armi catturate aveva potuto sottomettere un altro dei principali attori del dramma eritreo, Menelik, ras dello Scioa, che, mirando a impadronirsi della corona imperiale, contava sulle forniture italiane per raggiungere il suo scopo. C'era infine Mohammed Ahmed, ,un musulmano nato a Dongola, nel Sudah. Nel 1843 questi si era assunto la ,missione di liberare il paese dalla presenza degli infedeli, pagani o cristiani che fossero, di marciare sull'Egitto per sottrarlo al dominio eretico dei turchi, ed eventualmente convertire l'intero mondo all'Islam. Nel 1881 si sarebbe proclamato Mahdi, << messia >>, e avrebbe 'conquistato Khartum, sconfiggendo nel 1885 le truppe egiziane al comando del generale Gordon,' ucciso nell'assedio della città. Nel frattempo egli faceva pesare la sua presenza sull'Etiopia dalla zon11 di Cassala, tenuta dai suoi dervisci.

Rubattino intanto, continuava a estendere la sua << stazione navale '», comperando dal sultano di Rubeita le isole di fronte .alla baia di Ass11b e, due anni dopo, un largo ttatto di litorale dal sultano Berham Dini. '

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ll congresso a Berlino ' nel 1878 ebbe un'influenza decisiva pt;r la politica coloniale italiana. Riunito da Bismarck per tirare le somme e spartire le spoglie della guerra russo-turca, scoppiata due anni prima, tutte le po-

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tenze europee ottennero qualcosa- l'Austria ebbe la Bosnia e l'Erzegovina, la Russia la Bulgaria, l'Inghilterra Cipro, la Francia mano libera sulla Tunisia . Solo l'Italia ne usciva, secondo !:espressione di Cairoli alla Camera, con «le marli .nette >>, che era quanto •dire a marii vuote. Per i partigiani della grandezza ·nazionale si trattò né più né meno che di un tradimento delle grandi potenze . Secondo Crispi, allora all'opposizione, una grande potenza, forte di ventotto milioni, era stata « umiliata a Berlino come l'ultimo paese d'Europa >>. Qqesto sentimento di frustrazione, che doveva in ·seguito a lungo la politica di Roma, fu la .spinta che decise un governo riluttante a impegnarsi nella corsa per la spartizione dell'Africa . Nell'82, dopo aver rifiutatb la proposta inglese di associarsi all'il;ltervento in Egitto per domare la rivolta di Arabi Pascià, l'Italia reagiva comperando dalla società Rubattino la stazione navale e creandovi un Commissariato civile che, con la legge approvata tre mesi dopo, diventerà la prima colonia del nuovo Regno d'Italia.

La comunicazione ufficiale della creazione di questa colonia viene ·fatta nel 1883 a Menelik, sovrano dello Scioa, più favorevole alla presenza italiana di quanto lo fosse l'imperatore Johannes IV Un anno dopo, a seguito della morte del sultano di Rebeita, l'Italia estendeva il suo controllo a nord di Assab e, reagendo all'eccidio ·dell'esploratore Bianchi, in Dancalia, occupava nel febbraio del 1885 i porti di Massaua e Zela, dandone comunicazione ufficiale a Johannes IV. Questi, in lotta coi dervisci nel Sudan, non poteva opporsi all. ' occupazione. del porto èli Zela che considerava il naturale sbocco al mare del suo regno.

In queste confuse circostanze gli italiani trasformavano, nel 1887, una ridotta tenuta per dieci anni nel Tigrai dagli egiziani in una sperduta località chiamata Sahati, in un fortino difeso da duecento soldati metropolitani, trecento indigeni e trenta cannoni. Un attacco lanciato da ras Alula, uno dei migliori capi militari di J ohannes IV veniva re-

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spinto con gravi perdite . Ma la colonna dei rinforzi comandata dal colonnello de Cristoforis, inviata da Massaua a Sabati, intercettata da diecimila abissini si sacrificava nella piana di Dogali .

La sconfitta provocava a Roma la caduta del governo e apriva la strada all'ascesa di Crispi, prima come ministro dell'Interno, poi come presidente del Consiglio. Deciso a vendicare l'affronto di Dogali e nello stesso tempo a dare lustro all'Italia con una politica di espansione coloniale aggressiva, contava sulle ·ambizioni del ras dello Scioa, Menelik, con cui il conte Antonelli - esploratore, appassionato d'Africa alla maniera di Kipling e Ceci! Rhodes, e convinto sostenitore del ruolo civilizzatore dell'uomo bianco - era in stretto contatto.

Nell'aprile del1889 era giunta a Roma la notizia cheJohannes rv era stato ucciso e il suo esercito annientato dai dervisci: Menelik si era proclamato Negus Neghesti (re dei re) al posto di ras Mangascià, designato da J ohannes come suo successore. Antonelli veniva inviato all'accampamento militare del nuovo imperatore, a Uccialli, per firmare un trattato che dava diritto all'Italia di prendere possesso di Asmara e di buona parte del Tigrai (occupati dal generale Baldissera in agosto) . Il trattato, quanto meno nella versione italiana, conferiva all'Italia (articolo 17) i diritti di Stato protettore sull'Etiopia. Ma già nell'ottobre dello stesso anno il negus, che nel frattempo era riuscito a consolidare il suo potere, informava re Umberto che il testo amarico del famoso articolo 17 non corrispondeva a quello italiano. Secondo Menelik esso stabiliva che l'Abissinia <<poteva », non <<doveva >> servirsi dell'Italia « per le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o governi >>. Questo messaggio raffreddava seriamente gli entusiasmi colonialisti italiani, (basandosi su quell'articolo, Crispi aveva persino fatto battere moneta con l'effigie di re Umberto con la corona imperiale etiopica) e segnava l'inizio della rottura dei rapporti fra i due paesi . Essa doveva con-

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durre in meno di cinque anni al maggiore disastro mai subito da una nazione europea in Mrica .

Gli , avyeni,menti si susseguirono 'a un ritmo sempre più rapido. Nel maggio del 1891 Menelik denunciava formalmente il trattato e nell'ottobre, al posto del più prudente Baldissera, veniva nominato governatore il generale Baracleri che aveva anche il vantaggio di poter corrispondere direttamente col capo del governo, ,col quale aveva partecipato alla spedizione dei Mille .

Lo fece toccando due corde mol,tb sensibili cuore di l'ambizione di dare all'Italia il prestigio e la gloria di una grande potenza e la speranza di trasformare l'Eritrea in terra di colonizzazione per la sovrabbondante popolazione agricola metropolitana, obbligata a emigrare oltre oceano. ,

Baratieri ottenne da Crispi )'incoraggiamento e le armi necessarie per allargare i confini della colonia che invece conoscitori della situaziope 'come Ailtonelli diventato nel frattempo sottosegretario agli Esteri - avrebbero voluto consolidare all' interno del triangolo Massaua-AsmaraCheren, mantenendo buoni rapporti con Menelik e soprattutto mettendo fine ai tentativi di indebolirlo con le promesse di aiuti e la fornitura cji up po' di armi ai suoi turbolenti vassalli, in primo luogo al ras del Tigrai, Mangas cià. ·

Così, nel luglio 1894, Baratieri aveva inviato Una colonna al comando del generale Arimondi prima contro i d'ervisci, occ upando prima Cassala nel Sudan , poi Adua e Axum, e sconfiggendo in due battaglie ras Mangascià, da cui si sentiva tradito.

Questi scontri venivano interpretati in Italia come grandi vittorie e .come l'inizio della creazione di U!l grande impero coloniale. Baratieri, ricevuto in Italia da trionfatore, otteneva un considerevole aumento di bilancio per l'Eritrea, dove ritornava nel settembre del 1895 . Menelik reagiva mobilitando ce?tomila uomini che all'Amba Alagi

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si scontravano e annientavano, dopo una feroce resistenza, la colonna del maggiore Toselli, forte di 2350 uomini .

Il 21 gennaio del 1896 le forze abissine obbligavano il presidio italiano di Macallè a ritirarsi, con armi e bagagli e l'onore delle armi . L'impressione creata in Italia era disastrosa e ancora più disastrosa era la decisione del governo di inviare di nascosto il generale Baldissera a sostituire Baratieri . Questi, desideroso di vendicare il disastro dell' Amba Alagi prima dell'arrivo del suo ex-capo, ma soprattutto spinto da Roma a ottenere una rapida vittoria, decideva di lanciare contro Menelik il più grosso corpo di truppe mai impegnato da un paese europeo nell'Africa nera.

n primo marzo 1896, tre delle quattro colonne inviate a occupare Adua venivano annientate, anche per un errore cartografico. Due generali, Arimondi e Dabormida, venivano uccisi assieme a 252 ufficiali e 4558 soldati italiani; un terzo generale, Albertone , fatto prigioniero con 45 ufficiali e 1300 soldati . Migliaia di soldati indigeni erano rimasti sul terreno e quelli presi prigionieri furono puniti col taglio di una mano e di una gamba per aver preso le armi contro l'imperatore.

Il disastro segnò la fine di Crispi, e fu un colpo terribile per il prestigio nazionale italiano. Esso divenne, nella sto- . ria del colonialismo, l'inizio del risveglio politico africano non diversamente da come la sconfitta dei russi a Port Arthur, segnò, nove anni dopo, l'inizio del risveglio politico dei popoli dell'Asia.

L' accettazione da parte dell'Italia del trattato di Uccialli, secondo l'interpretazione etiopica, e la firma del Trattato di pace di Addis Abeba nell'ottobre 1896 e di quello commerciale del giugno 1897 portavano all'abbandono di ogni velleità espansionistica nei successivi quarant ' anni nel Corno d'Africa. Essi permisero la restituzione dei prigionieri, la definizione ·del confine fra Eritrea ed Etiopia lungo il fiume Mareb e una normalizzazione di rapporti

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che rese possibile l'occupazione di Agordat, sino allora tenuta dai dervisci nonché la cessione all'Inghilterra della città di Cassala, in cambio di utili accordi di frontiera coi territori britannici.

L'Italia da principale nemica si trasformava così in ga· rante de facto dell'integrità territoriale dell'Etiopia e stabiliva con ras Tafari, principe ereditario adottato dall'imperatrice T aitù, vedova di Menelik, nuovi e ottimi rapporti che portarono ' nel l ?23 al decisivo appoggio dell'Italia all'ammissione dell'Abissinia alla Lega delle Nazioni . Nel frattempo l'Eritrea, un territorio grande' un terzo dell'Italia, veniva trasformata in colonia, con una popolazione indigena passata da 330 mila anime nel 1904 a un milione nel 1935. Nel 1928 veniva infine firmato col governo di ras T afari, divenuto imperatore col Ijome di Ailè Selassiè, un patto di amicizia e di arbitrato, una convenzione per la creazione di una zona franca abissina ad Assab e per la costruzione di una strada camionabile fra Assab e Dessiè che avrebbe allargato notevolmente l 'influenza italiana in Etiopia .

Questa politica di cooperazione e di buon vicinato non poteva coesistere con le ambizioni del regime fascista, specie dppo la soppressione, nel1932, della rivolta Sf!nussita in Libia. Le irelazioni fra Roma e Addis ·A:beba andarono rapidamente.peggiorando a partire dal /1934: nei due anni seguenti, due scontri minori - l'attacco al consolato italiano di Gondar nel novembre 1934 e all'accampamento di Ual Ual, alla frontiera somala - innescarono la miccia della guerra, che scoppiò il 2 ottobre 193 5 . La campagna, prima al comando del generale De Bono , poi del maresciallo Badoglio, portò alla conquista di Addis Abeba il 5 maggio 1936 e alla proclamazione dell'Impero quattro giorni dopo. 1

Nel giugno 1936 il maresciallo Badoglio, divenuto comandante delle Truppe Italiane e viceré d'Etiopia, veniva sostituito dal maresciallo Graziani , La dura politica di re-

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pressione della resistenza etiopica, accentuata dopo l' attentato in cui Graziani venne gravemente ferito, nel febbraio del 19 3 7, rafforzò una ribellione indigena che si era propagata in forme più o meno organizzate a tutto il territorio. Gli sforzi di pacificazione del duca Amedeo di Savoia; nominato viceré in sostituzione di Graziani alla fine dello stesso anno, ne limitarono gli effetti ma non ebbero il tempo, soprattutto dopo la pubblicazione delle leggi razziali in Italia, di permettere l'estensione dei diritti civili degli italiani agli indigeni delle colonie; politica già auspicata dal Duca sin dal 1924 in una tesi di laurea in diritto coloniale, che molti ufficiali e funzionari italiani avrebbero voluto vedere applicata in maniera radicale almeno nella più vecchia delle colonie, l'Eritrea.

Scoppiata la seconda guerra mondiale, a cui l'Italia, e in particolare l'Impero ·in fatto di armamenti, partecipavano impreparati dal giugno del1940, gli inglesi, dopo una ritirata dalla Somalia e da Cassala nel Sudan, passavano all' offensiva nel gennaio del 1941 con l'aiuto della resistenza etiopica. Esattamente cinque anni dopo la sua fuga da Addis Abeba il negus Hailè Selassiè vi faceva ritorno un mese dopo l'occupazione dell'Eritrea, nell'aprile del1941.

Il 17 maggio il Duca d'Aosta doveva arrendersi con le sue truppe all'Amba Alagi, e il27 novembre 1941, con la caduta dell'ultimo centro di resistenza italiana al comando del generale Nasi a Gondar, si concludevano settantatré anni di fortunosa e, nel suo insieme, tragica storia coloniale italiana in Africa Orientale. . ' .

In questa cornice politica, sociale e umana si sviluppa e va compresa la storia di un soldato di cui questo libro vuole ricordare le gesta e comprendere i moventi e il significato.

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Era stato un commento c;li ,Mario AJ:JPelius a spingere Bice Gandolfo, da tre' anni fidanzata con Amedeo Guil!et, suo cugn;o, a padre di da sola alla Torre Crestarella. ' ' ' '

Da quando la famiglia aveva lasciato Napoli, minacciata dai bombardrurtenti aerei e navali alleati, per ritirarsi nelle proprietà di Avella , le sorelle Gandolfo avevano presp l' abitudine di recarsi assieme alla Torre, a Vietri sul Mare . lo stato della vecchia costruzione , baluardo quattrocentesco contro, i saraceni ,' con il giardino e il frutteto coltivato dal mezza<;l.ro Nicolino, sperando che quell' angolo segreto 'di pace non venisse requisito dalla difesa costiera. li viaggio, a causa della guerra, era diventato lungo e disagevole : da Avella occorreva rientrare a Napoli1 attendere le incerte coincidenze dei treni che si arrestavano a Cava dei Tirreni; e di' lì proseguire illa volta della sul barroccio di Nicolino, ,ammesso ' che si 'fosse 'riusciti 'ad avvertirlo in 'tempo . ' , • l ' Nessuno aveva sollevatp obiezioni 'quando Bice avel(a annunciato che sarebbe andata da sola alla Torre. Da quando il governo aveva reso noto che Asmara era stata dichiarata «città aperta>>, di comune, tacito accordo in famiglia si era cessato di parlare , di ciò che succedeva in Etiopia. Nessuno così aprì bocca dopo cèna'' quando, riuniti nel salotto dove avevano preso l'abitudine di ascoltare la radio , avevano udito il comrrlentatore ufficiale del regime spiegare come la cavalleria si fosse sacrificata «sino all'ultimo uomo>> nella difl!sa città: Ma l'ingegner Gan1

dolfo si era alzato e si era ritirato nel suo studio; sua moglie aveva cercato di nascondere le lacrime che le riempivano gli occhi; le due sorelle si erano strette a Bice, che pareva impietrita.

A ventun anni appena compiuti, fidanzata col cugino che non vedeva da tre anni, non aveva dubbi che alla difesa dell'Asmara avesse partecipato anche lui con le bande di cavalleria indigena che comandava. Si ribellava al pensiero di poter essere improwisamente diventata una <<vedova di guerra» prima ancOFa di essere sposata. Era una situazione h uova, strana, confusa a cui nulla l'aveva preparata e per la quale sentiva un impulsivo bisogno di ritirarsi dal mondo per riflettere da sola al modo di affrontarla.

Aveva lasciato Avella due giorni dopo su un treno che a ogni fermata caricava e scaricava gente affannata, ingombrata da pacchi e ceste, uomini e donne che non cessavano di parlare di bombardamenti, carte annonarie, prezzi del cibo al mercato nero, familiari al fronte o in congedo. Si era immersa nella lettura delle novelle di Verga cercando di non pensare né ad Amedeo né alla guerra. A Nicolino, che l'aspettava alla stazione di Cava dei Tirreni e le chiedeva notizie di Amedeo, aveva risposto con un << purtroppo nessuna>>, in un tono che la diceva lunga su che cosa pensasse.

Durante il tragitto in barroccio' si era sforzata di mostrare interesse per quello che il contadino le raccontava dei suoi figli, della campagna, delle bestie, dei due fratelli richiamati, delle difficoltà di procurarsi i concimi, delle piante da frutto che facevano sperare un buon raccolto, sempre che la «mosca>> non fosse arrivata all'ultimo momento a rovinare tutto. Della guerra, invece, avevano entrambi, come per un tacito accordo, evitato di parlare .

Quando arrivarono alla Torre c'era ancora luce sufficiente per distinguere i colori delle piante e dei fiori lungo la scalinata di pierta che dalla fortezza portava alla spiaggia. Era qui che Amedeo, tre anni prima, al momento di

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partire per l'Etiopia, l'aveva ritratta con la sua nuova macchina fotografica. Lei era vestita di bianco, con una gonna di tulle decorata da fiori di seta: un fermaglio di diamanti le chiudeva il corsetto. Era l'immagine - le aveva detto Amedeo - che voleva portare con sé in Africa . Così voleva ritrovarla al suo ritorno .

Accelerò il passo sulla scala, perché Nicolino non si accorgesse dell'emozione che l'aveva assalita quando, osservando il mare, i raggi rossastri del sole morente sull'acqua le erano seml;:>rati striature di Nella sua stanza, al secondo piano della torre, nulla era cambiato. ll letto era fatto, nella rientranza del muro c'era il catino di porcellana un po' scheggiato sui bordi, infilato nella lastra nera di marmo accanto alla brocca dell'acqua; due asciugamani di lino pendevano dai manicotti d'ottone infissi nella parete . Sulla toilette sormontata da uno specchio mobile, l'attendevano, allineati in sbieco, come sempre, i pezzi del servizio di pettini e spazzole montati in argento.

La giornata era primaverile, ma le spesse mura della fortezza non avevano permesso al calore di penetrare nella stanza. Provò un senso di freddo, pella sua camicetta di seta a maniche corte: aprì la finestra, e da fuori le giunse, assieme a una lieve folata di tepore, lo sciacquio rf golare delle onde. ' ·

A quell'ora le montagne della costa amalfitana non erano più visibili; i contorni delle piante del giardino si perdevano nell'oscurità e una leggera brezza rimoveva le foglie. Lontano, un cane abbaiava.

Per la prima volta da quando aveva lasciato Avella, ripensando al commento radio di Appelius, si chiese se nella dècisione presa da Amedeo, tre anni prima, di rimandare il matrimonio - non voleva, le aveva detto, che qualcuno potesse accusarlo di sposarla per sottrarsi alla nuova legge fascista che bloccava gli avanzamenti degli scapolinon ci fosse qualcosa di più che una questione di onore e

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di orgoglio . C'era forse anche un segno nascosto del destino.

Chiuse la finestra, si accostò al tavolino, accese la piccola lampada che lo sovrastava, aprl il cassetto, ne trasse una penna, il calamaio e un foglio della sua carta da lettere . Macchinalmente vi segnò sopra la data ma non continuò a scrivere, pensando che quella lettera non sarebbe mai arrivata a destinazione. Si guardò attorno e il suo sguardo si fermò sul kimono ché Amedeo le aveva regalato prima di partire per l'Africa. Strano, pensò, come esso fosse il solo ricordd di lui che, con le sue ringonfie pieghe di seta, avesse conservato un certo spessore. Gli altri, le sembravano improvvisamen- · te appiattiti come la stampa dell'ussaro appesa accanto al suo letto .

La stampa rappresentava un cavaliere col dolman dagli alamari d'argento, e la scimitarra sguainata. Caricava un immaginario nemico in groppa a un cavallo che , col muso puntato verso l'alto, galoppava senza badare dove posava gli zoccoli . Quell'ussaro le era sempre sembrato il vero ritratto del fidanzato.

Quando Amedeo, uscito di fresco dall'Accademia, si era presentato per la prima volta nella casa degli zii -i genitori di Bice- in via dei Mille a Napoli, con l'uniforme dei Cavalleggeri del Monferrato, tutto fiero d'appartenere a un reggimento legato alle origini savoiarde-piemontesi della famiglia, le era sembrato molto buffo. Lei aveva allora solo dodici anni e quel cugino che considerava una specie di fratello maggiore, le incuteva un sacro rispetto. Anche quando folleggiava con le amiche delle sorelle , trovava il tempo per parlare seriamente con lei: le spiegava come giudicare l'età di un cavallo; come, nuotando, si doveva torcere il fianco e sincronizzare la respirazione col colpo del piede e del braccio ; come tendere sottovento il fiocco della barca a vela . Qualche volta avevano anche suonato assieme, lui il piano, lei il violino. Come pretendente non se lo era, però, mai immaginato; e in fondo, a pensarci bene, neppure come uomo.

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La sua fama di cavaliere glielo faceva sembrare piuttosto una naturale estensione di un cavallo. Amedeo non era, del resto, il tipo che poteva piacere alle Dame dell'Istituto del Sacro Cuore dove lei studiava. Per quelle suore, la FIAT 509 - dono dello zio generale quando era uscito dall'Accademia - con la quale scorrazzava fra balli, corse e teatri era un veicolo che, correva veloce sulle vie del peccato.

L'ingegper Gandolfo, . suo padre, vedeva invece in Amedeo il figlio avrebbe voluto avere. Lo chiamava il « >>' della famiglia 'e non si era mai spiegato la decisione Ciel nipote di rinunciare a partecipare alle Olimpiadi equestri di Berlino per ;inchiudersr in un fortino del deserto di Libia.

A molte ragazze l'improvvisa scomparsa dalla scena mondana di un promettente partito dell'aristocrazia italiana doveva aver spezzato il cuore . In invece, la partenza di Amedeo per la Libia a'veva suscitato una grande l! romantica amnì.irazione. Avrebbe voluto dirlo al cugino, quando era venuto a fare i suoi addii, ma non ne aveva avuto il coraggio. Del resto, preso com'era dai saluti a parenti, amici, famiglie colleghi, Amedeo non l'aveva quasi guardata.

Si era, fatto rivedere due ,anni dopo: intanto, in quei due anni, aveva partecipatd alla qmpagna d'Etiopia, alla testa di un reparto di cavalieri spahis "libici, era stato ferito ed era stato decorato al valore. Più sturo di .pelle e con un'espressione assorta negli occhi, non aveva fatto che occuparsi di lei. Perché? Non si sentiva cambiata per il solo fatto d'aver compiuto diciassette anni. Le era sembrato del tutto naturale andarlo a trovare a Capua, dove era stato colpito da un attacco di malaria, per aiutare la zia Franca, la madre di Amedeo, a cambiargli le pezzuole bagnate sulla fronte, mentre lui, ignaro della sua presenza, si girava e rigirava nel-Ietto pronunciando frasi scpnnesse. Gli av<:lva tenuto a lungo la mano, sperando che la sua vicinanza lo

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calmasse. Ma quel gesto istintivo," amichevole, non l'aveva preparata alla proposta di matrimonio che, qualche settimana dopo, Amedeo le aveva fatto.

Erano usciti assieme dal porticciolo della Torre, in barca a vela . Per tutto il tragitto lui, una volta tanto, non aveva fatto il gradasso: non si era vantato dei suoi successi equestri, non aveva parlato della vita di guarnigione in Libia, non aveva preso in giro le amiche delle sorelle di Bice che, da quando era riapparso a Napoli nell'esotica uniforme di ufficiale degli spahis, non smettevano di guardarlo con« occhi da pesce morto >>.

Con in mano il timone, Amedeo aveva cercato di spiegarle perché, rivedendola dopo due anni di assenza, era stato colpito dalla sua trasformazione: aveva lasciato una ragazzina e ritrovato una donna; aveva lasciato una sorella e scoperto la dama che aveva sempre sognato di avere per compagna . Aveva un'aria confusa, quasi contrita, quando, con voce esitante, le aveva confessato di amarla.

Sul momehto, Bice era stata tentata di rispondere con una bella risata. Infatuazione passeggera di guerriero in vacanza, aveva pensato, anche se dal calore che sentiva alle guance, si rendeva conto di quanto quella proposta solleticasse la sua vanità . Si era però controllata. Era rimasta a lungo ' in silenzio, come le avevano insegnato a fare le suore quando occorre mettere ordine nei pensieri turbati dagli slanci del cuore.

Con gli occhi fissi sulle mani incrociate sulle ginocchia, come era sua abitudine quando si concentrava su qualche problema, si accorgeva di stare scartando, una dopo l'altra, le parole di rifiuto che età, educazione e convenzioni sociali le·suggerivano.

Anche Amedeo, di solito cosl impetuoso e loquace, taceva. Seduto sul banco opposto della barca che ciondolava sull'acqua, con il suo teso silenzio la spronava a rispondergli. Ma non riuscl a strapparle che la sommessa richiesta di rientrare . Solo mentre facevano ·vela verso la torre, Bice

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gli disse -e si stupì della dolcezza con cui si esprimevache la proposta era troppo seria perché potesse rispondergli subito.

Amedeo non si era dato per vinto. Col pretesto che la ferita alla mano ricevuta in Eùopia gli doleva più del solito, aveva smesso di scorrazzare per Napoli. Aveva dichiarato di aver bisogno di riposo e di cure per poter riprendere a suonare il piano e a montare nei concorsi ippici. L ' aveva seguita in campagna , ad Avella, installandosi nella camera che gli zii tenevanq sempre pronta per il tempo in compagnia di donna ;Rosa, la nonna, a farsi raccontare le storie del prozio, il cardinale d'Avanzo: un prelato batta- ' gliero, vescovo di Teano, che si era beccato dai garibaldini cinque palle di fucile nel corpo , mentre anqavll in carrozza a vedere come volgeva la battaglia del Volturno. Quelle pallottole erano poi state messe in una teca di vetro ' sulla sua tomba a testimonianza dei suo coraggio e della sua miracolosa sopravvivenza. n popolino le chiamava con familiare rispetto <de palle del cardinale>>, in apprezzamento anche della risolutezza con· cui il ,prelato aveva difeso l'infallibilità del papa dalle criùche del rappresentante dellji Chiesa d'Austria . ·

« n Successore di san Pietro>> aveva detto Pio IX «non si difende . 'Mfida il compito di spiegare le sue ragioni al cardinale d'Avanzo.>> ,

Erano vecchi e , noti raccon,ti di famigli_a che Amedeo amava perché gli pef\llettevano, in presenza della nonna, di chiedere a Bice di la mano . Lei lo faceva con paziente dolcezza , rendendosi conto che si trattava sempre meno di un gesto da sorella.

Strano come nessuno, tranne nonna Rosa , si fosse accorto del mutato atteggiamento di Amedeo verso di lei e del suo nei confronti del cugino . Nelle ore trascorse assieme ad Avella aveva cominciato a provare per quell ' ussaro scapestrato un affetto diverso da quello che si prova per un compagno di giochi . Ma continuava a respingerlo, non

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ancora sicura della solidità dei loro reciproci sentimenti, preoccupata della differenza d'età, delle esperienze di vita troppo diverse e delle conseguenze che potevano derivare da un'unione fra parenti stretti. Alla fine, aveva dovuto ammettere che lo scrupolo per la loro discendenza futura era il solo vero ostacolo al suo assenso . Lo aveva spiegato, arrossendo, ad Amedeo. E lui le aveva risposto che, non potendo mutare la sorte, s'inchinava di fronte a .un destino più crudele che giusto, e che non si sarebbe sposato con nessun'altra donna . Avrebbe atteso, se necessario, tutta la vita che lei cambiasse parere.

Con quella promessa era nuovamente partito per la Libia e subito dopo si era fatto trasferire in Etiopia, a combattere contro i ribelli. Nel febbraio del '3 7, era partito volontario per la guerra di Spagna .

Dietro a questa brama di combattere Bice sospettava alle volte che si celasse la volontà di cogliere gloria da deporre ai suoi piedi, alla maniera dei cavalieri erranti. Temeva però che nascondesse anche una sfida alla sorte di cui si sentiva vagamente responsabile . Col risultato che, quando Amedeo era venuto a salutarla, in casa di sua sorella, a Firenze, prima di andare a combattere ·per Franco, in una cupa e fredda giornata di neve, Bice aveva messo da parte i suoi scrupoli e l'aveva autorizzato a chiedere la sua mano.

L'ingegner Gandolfo l'aveva concessa con entusiasmo al nipote e si era convenuto che il matrimonio sarebbe stato celebrato appena terminata la campagna di Spagna. .

Da quel giorno, l'esistenza di Bice si era trasformata in un'attesa piena di ansie e di speranze. Aveva continuamente a quelle nozze, aggrappata ai bollettini di guerra e alle lettere che lui le scriveva dal fronte come ad altrettanti anelli di una catena invisibile che condizionava ogni suo coinvolgimento mondano . Per questo le era stato difficile, doloroso accettare -e ancor di più spiegare ai suoi -la decisione di Amedeo, rientrato ferito e coperto di

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onori militari dalla Spagna, di rimandare il matrimonio. Ma si era resa conto quanto fQsse importante per lui guadagnarsi per merito di guerra, partecipando alla campagna contro i ribelli in Africa Orientale, la promozione che la nuova, assurda legge mussoliniana negava agli scapoli. Capiva che per rispetto verso di lei, Amedeo non avrebbe accettato di sposarsi, come tanti \Ùtri ufficiali e funzionari govern11tivi facevano, per salire di grado . .

Si erano nell'aprile del 1938, ,con Ja promessa che sarebbe rientnùo in Italia non appena fosse guadagnato una promozione sul campo. Nel frattempo erd scop-, piata la gul!rra con ,J'Inghilterra \! la ,loro separazione, invece di qualche mese, si era prolungata per tre anni, du,rante i quali la corrispondenza tra loro si era fatta sempre più rara e saltuaria a causa delle difficoltà di comunicazione con l'Etiopia. Per di più le notizie che Bice qai giornali e dalla radio sugli avvenimenti nell'Impero erano as sai diverse da quelle contenute negli scarni messaggi che Amedeo riusciva a farle pervenire . Perché avrebbe dovuto dare credito ora a quello ,che Appelius raccoptava? L'istinto le diceva che Amedeo era vivo e che prima o poi, in qualche modo, glielo avrebbe fatto sapere. Nell'atmosfera di solitudine protettiva e austera della Torre, quell'istinto, si trasformava certezza. . ' , Riprese la penna e volta senza esitare, con l:j calligrafia imparllta ·al Sacro 'Cuore, i caratteri up po' allunga- 1 ti verso l'alto, cominciò a scrivere : '· l

Amedeo carissimo, , , non so se potrò mai spedire ,questa lettera. La lo stesso perché tu poss·a leggerla al tuo rit?rno Torre ...

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MAx Harari, maggiore dell'Ottavo Ussari, direttore dell'lntelligence britannico in Eritrea, era un uomo flemmatico. Non che fosse incapace di arrabbiarsi. Ma, convinto com'era che l'ira non s'addice ai gentiluomini , la considerava antiestetica se esercitata nei confronti dei subordinati; meno efficace del disprezzo se manifestata nei confronti dei superiori. Tuttavia, dopo aver trascorso l'intera giornata a studiare l'incartamento del tenente di cavalleria Amedeo Guillet, al quale stava dando la caccia, faticava a nascondere la propria irritazione, dovuta soprattutto al fatto di non aver potuto fare la quotidiana passeggiata a cavallo.

A certe abitudini - cavalcare, prendere il tè alle cinque, fare un bagno caldissimo prima di cena - il maggiore non intendeva rinunciare. Erano piccoli piaceri che il suo nuovo incarico all'Asmara gli faceva apprezzare, dopo i mesi trascorsi col suo squadrone di carri in Libia, senz' acqua per lavarsi, fra nugoli di mosche e con birra calda da bere.

Lo seccavano anche le conrinue interruzioni, mentre studiava l'incartamento« Guillet ». D suo ufficio- aveva detto, sconfortato ; ai delegati dell'Unione Nazionale Antifascista, che erano venuti a trovarlo - stava diventando un porto di mare .

I delegati erano tre avvocati dell'Asmara che si litigavano un'autorità che non possedevano. Prima di loro aveva pazientemente ascoltato i lamenti di una deputazione di donne venute a perorare in favore dei mariti arrestati. Poi c'era stata la riunione settimanale del Governo militare d'occupazione dell'ex-colonia italiana. Fra un incontro e

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l'altro si era dovuto occupare di due casi di contrabbando d'armi e del sabotaggio di un ponte nei pressi di Axum, a centinaia di chilometri dall'Asmara. Attribuirne la responsabilità - come faceva il rapporto della Field Security - alla banda Guillet che, secondo lui, operava solo in Eritrea, gli pareva assurdo. Doveva però controllare .

« Cosl non si può continuare », si lagnò col sergente che gli offriva una tazza di tè .

Il sottufficiale non rispose . Si limitò a guardarlo con un'aria sorniona che confermava ciò che Harari sapeva meglio di altri: di quella baraonda di impegni, la colpa era sua.

La disponibilità che manifestava nei !=Onfronti degli itali ani , consentendo loro a qualunque ora del giorno l' accesso al suo ufficio, scandalizzava i subordinati e infastidiva i colleghi . Lui, invece, era convinto che fosse il segreto dei suoi successi : grazie a questa familiarità un po' cospirativa e a qualche favore amministrativo finiv a, di solito, col sape re ciò che voleva. Ma con Guillet il sistema non funzionava .

Per avere informazioni più precise su di lui era inutile rivolgersi ai suoi connazionali; con cui Amedeo non mante neva contatti. Ci sarebbe stato bisogno di informatori i ndigeni ma di tipo molto diverso da quelli che la polizia manteneva sui ruolini di paga: notabili o compagni di banda disposti a tradirlo. Personaggi di rango o di fegato, insomma, che difficilmente si sarebbero sottoposti al trattamento che i poliziotti inglesi di guardia all'entrata dello st abile avrebbero riservato loro per via del colore della loro pelle. Li avrebbero fatti aspettare per ore in strada, li avre bbero perquisiti prima di farli salire da lui e quelli, alla fi ne, si sarebbero sentiti troppo umiliati per parlare. Erano problemi che non poteva risolvere. Questo lo irritava non meno della mancata passeggiata a cavallo, ricordandogli la barriera invisibile che, alle volte, sentiva elevarsi fra lui, ebreo inglese ma nativo del Cairo , e i suoi colleghi . .

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n fatto che la sua famiglia facesse patte, 'come altre famiglie israelite -i Cattaui, i Rolo, i Nacamuli, dell'alta società egiziana e che l'educazione ricevuta lo avesse reso più inglese di un inglese, non lo immunizzava contro l'arroganza razziale altrui . Era l'altra faccia qella società britannica, una società che tanto ammirava pur sapendo di non poterla mutare. , , .

Imbronciato e sovrappensiero si avvicinò alla finestra'. La sera stava calando sull'Asmara, UJ;I pezzo d'Italia - chiese, negozi, trapiantato in Africa . Nelle sue strade si combatteva la battaglia quoti<#ana degli spazzini contro ' la polvere dell'altipiano , L'elettricità che illuminava #evol ' ' mente le finestre, le case costruite in uno stile così diverso da quellp colonia1e inglese , gli ricordavano cetti quattieri del Cairo in cui, come qui, l'architettura europea sconfinava senza confondersi in quella indigena. Quale delle due avrebbe finito per vincere in Africa?

Cinque anni prima, Henri de Monfreid - di cui Harari teneva Le Drame Ethiopien sul tavolo - era andato a chiederlo al mmandante in capo delle truppe italiane in Eritrea. La guerra contro l'Etiopia non era ancora iniziata e De Bono, il «Q.uadrumviro>> della ·marcia su Roma inviàto da Mussolini a occupare quella ·carica militare, aveva profetizzato che se questa fosse scoppiata si sarebbe trasformata in «un conflitto di razze in cui tutta l'Europa si sarebbe trovata coinvolta>>. , ., ' ' '

Era una profe,zia che il maggiore realizzarsi ·sotto i suoi occhi e che lo faceva riflettere sulla futilità della resistenza organizzata da Guillet e della caccia che lui stava dandogli . '

In che modo quella guerriglia indigena contro gli ipglesi avrebbe potuto influire sulle sotti ·della guerra? A che cosa sarebbe servita la cattura dell'ufficiale europeo che la guidava? A nulla , se non ad accrescere il disagio d'essere coinvolto nell'arresto -e ,nella probabile conseguente esecuzione - di un uomo di .cui ammirava il coraggio e al quale si

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sentiva legato da una solidarietà romantica che non osava confessare .

Fosse dipeso da lui, avrebbe invitato quel ribelle a prendere una tazza di tè con lui per parlare di cavalli. Avrebbero scoperto comuni amici fra i frequentatori dei concorsi ippici di Piazza di Siena; avrebbero discusso dei meriti del « metodo Caprilli >> , delle differenze di stile equestre tra il << C adre Noir >> di Saumur e la Scuola spagnola di Vienna. Poi , quasi per caso , avrebbe abbordato la questione della guerriglia.

Non avrebbe chiesto a Guillet, per quanto fosse curioso di saperlo, dove nascondeva le armi, da chi prendeva i soldi per p agare i suoi uomini o perché s'ostinava a continuare a combattere , quando ormai la guerra in Africa Oriental e era finita e da Roma era stata ordinata la resa alle truppe italiane in Eritrea. Domandarglielo , sarebbe stato scortese e probabilmente Guillet non gli avrebbe risposto . Avrebbe invece cominciato col dirgli che si scusava per la fo tografia stampata sul volantino, che aveva fatto distribuire in tutta l'Eritrea, con cui si comunicava la taglia di mille sterline oro messa sulla sua testa . Era proprio brutta: quegli occhi spiritati e quegli zigomi sporgenti non erano, certo, i suoi. Ma che cosa c'era da aspettarsi da una foto d'archivio militare? Anche nell'esercito inglese- gli avrebbe detto - riuscivano a trasformare i volti delle persone per bene in facce da galeotto. Per di più, un uomo dalla fama del << Comandante Diavolo >> non aveva bisogno di foto per essere riconosciuto. Ma l'annuncio di una taglia senza fo tografia non aveva valore : con le spie occorreva andare al sodo , dimostrare che il governo era pronto a pagare per le i nformazioni su qualcuno che esisteva davvero, in carne e ossa , non su un mito .

Harari era certo che Guillet avrebbe capito quanto fosse spiacevole per lui continuare a dargli la caccia : non sare bbe stato più elegante per entrambi mettersi d'accordo su come l'uno avrebbe cessato di occuparsi di quell'inutile

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resistenza e l'altro sarebbe scomparso dall'Eritrea? C'erano ancora posti nel mondo dove l'Italia e l'Inghilterra non si facevano la guerra. Guillet avrebbe potuto riparare senza perdere né faccia né onore nel Mozambico portoghese o nello Yemen, paesi che erano e probabilmente sarebbero rimasti , neutrali. Non ci sarebbe stato bisogno di firmare impegni o chiedere salvacondotti. Bastava la parola d'onore, fra due cavalieri. , Sarebbe stato bello se le cose avessero potuto andare in questo modo. Invece la caccia, per quanto sgradita, a quell'ufficiale italiano, lui doveva condurla senza quartiere. Doveva riuscire a vincere, non per ragioni di prestigio personale o perché quella ribellione rappresentasse un serio pericolo; ma perché faceva parte di una guerra che non ammetteva partite chiuse alla pari .

Guillet non era il solo italiano che continuava a combattere gli inglesì in Africa Orientale: nell'Ogaden operava un colonnello di nome Di Marco; nella Dankalia un altro di nome Rugli; ad Addis Abeba cospirava il maggiore Lucchetti; a Dessiè il maggiore Gobbi; all'Asmara il capitano di vascello Aloisi . C'era poi un certo capitano Bellia, che pareva più pericoloso di tutti. ' << Legionario» di D'Annunzio a Fiume, comandante di bande indigene, era noto per le sue liti con l'Amministrazione coloniale italiana, che l'a·veva ,anche fatto arrestare. Lo si sospettava in contatto con Abebe Aregaì, coordinatore 'della resistenza etiopica contro gli italiani che, al ritorno del negus sul trono, era diventato il principale consigliere dell'imperatore. Se era stato .lui a impadronirsi del carico di talleri che un convoglio inglese trasportava nel Tigrai, Bellia avrebbe potuto con quei soldi sobillare la popolazione indigena in favore del generale Nasi che continuava a resistere a Gondar.

Fortunatamente Bellia operava fuori della zona ·di sua competenza. A lui bastavano i grattacapi che gli procurava Guillet con la sua banda . Era la sola a essere interamente formata da indigeni e per questo, oltre al fastidio che dava

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agli inglesi, contraddiceva la tesi della liberazione degli eritrei dal << giogo fascista >>, pregiudicando la credibilità della propaganda alleata.

In questo il maggiore vedeva l'importanza dell'azione di Guillet, e non, come si sosteneva a Khartum e al Cairo, perché le sparpagliate attività di resistenza italiana potessero ricreare un secondo fronte in Africa . Anche se i ribelli avessero potuto ricevere aiuti dal nord, erano troppo pochi, troppo lontani dall'Italia, troppo divisi fra loro, per rappresentare un pericolo per gli Alleati. Tuttavia, dopo le vittorie tedesche in Francia e in Grecia, Londra aveva bisogno di disimpegnarsi dall'Etiopia e concentrare nel dese rto orientale tutte le forze disponibili in Africa per evita re una nuova sconfitta in Egitto . La ribellione di Guillet era quella che poteva impegnare il maggior numero di truppe in Eritrea. Ma come venirne a capo?

Dal forte Baldissera, che Harari intravedeva dalla finestr a del suo ufficio , non gli giungeva alcuna ispirazione. Non era una costruzione imponente, nonostante i vecchi cannoni sugli spalti. Era svilita dalla sua trasformazione in recinto per disordinati depositi. L'unica volta che il maggiore l'aveva visitato era stato in aprile, subito dopo l' occupazione dell'Asmara, quando il forte era stato adibito a ca mpo di raccolta per militari e civili italiani.

Riuniti nei cortili , senza distinzione sociale o di grado, alcuni arrivati direttamente dal fronte, sporchi e con le uniformi a brandelli, altri appena usciti dalle loro case all' Asmara, questi internati erano stati lasciati per tre giorni 'senz ' acqua e cibo, in custodia a soldati scozzesi che non ave vano altre istruzioni se non quella di tenerli ammassati .

I militari di guardia, non sapendo che cosa rispondere alle ce ntinaia di uomini che chiedevano da mangiare e da bere, avev ano permesso alle loro donne e a non poche prostitute, le sciarmutte , di calar loro dai terrapieni giare d'acqua e rot oli di pane arabo. Masakin, masakin, poveretti , dicevano le indigene .

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Harari ne aveva provato disgusto e pietà . Si era chiesto se in Egitto, qualora le sorti della guerra fossero state invertite, sarebbe successo lo stesso a dei prigionieri inglesi. Sul modo in cui si sarebbero comportati i tedeschi , specie con israeliti, come lui , non aveva dubbi . Era però convinto che gli italiani avrebbero tenuto verso il nemico un atteggiamento più umano. Era questa un ' altra ragione per la quale ,... senza ammetterlo - faceva loro la guerra a malincuore .

'' Ultimo rampollo di sir Victor, che al tempo di lord Cro- . mer abbinava iri Egitto le responsabilità dell' amministrazione dei suoi vasti beni a quelle del governo kediviale, Max Harari apparteneva a una famiglia cosmopolita ugualmente a suo agio nell ' alta società egiziana ed europea.

A Roma possedeva un appartamento . Sua sorella Yvonne era ricevuta dai Savoia , lui dai Churchill , a Londra . L ' italiano l'aveva imparato in famiglia. Alla fine della prima guerra mondiale suo padre aveva chiesto a Ronald Storrs , governatore di Gerusalemme , di assumere nell'Amministrazione militare della Palestina il figlio primogenito Ralph , ufficiale del Carnei C: orp egiziano. Lo avçva fatto con una lettera a cui aveva aggiunto un francobollo italiano con l'effigie di Dante e la scritta «La domanda ònesta l Si dee 'seguir con Fopera, Storrs gli aveva risposto pure lui in italij;U10, scriveddogli: <<A sì gentiJ si dà consenso >> 1

Suo fratello Ralph aveva avuto a che fare vent'anni prima con gli ebrei, i musulmani e i cristiani in Terrasanta. Era tornato a casa affascinato dall'arte musulmana di cui era diventato un esperto di fama internazionale. Ora toccava a lui , di dieci anni più giovane , occuparsi di un ' altra popolazione civile, quella europea e indigena dell ' Eritrea : compito che aveva accettato per dovere, ma senza entusiasmo, perché l'oqbligava a lasciare il reggimento di ussari , che combatteva sul fronte egiziano . .

La guerra non aveva mutato i suoi sentimenti verso l'I-

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t alia, né i legami d'amicizia che aveva in tessuto con molti italiani al Caito, sui campi di polo e nei caffè di via Condotti a Roma. Sapeva che in Eritrea molti europei continuavano a nascondersi nelle fattorie, nei villaggi indigeni e nelle grotte attorno all' Asmara, per sfuggire all'internamento. Non cercava di catturarli e chiudeva gli occhi sulle attività di chi forniva loro cibo e denaro. Era convinto che questi « autoproscritti >> non rappresentassero un pericolo come, del resto, non lo rappresentava neppure il « Fronte della Resistenza >>, teoricamente segreto ma di cui tutti parlavano. Ciò che lo preoccupava erano le intenzioni, più che le azioni, di militari come Bellia e Guillet, specie se fossero riusciti a unire le loro forze.

Del primo si occupava il comando di Addis Abeba. Di Guillet che operava in Eritrea, Harari possedeva solo una sbiadita fotografia e uno stato di servizio recuperati negli ar chivi del Comando italiano assieme a un articolo dell'Azione Coloniale, un giornale che aveva inviato un corrispondente di guerra a intervistarlo alla fine del '40.

Il giornalista scriveva di aver rintracciato Guillet nel bassopiano eritreo mentre, con le sue bande a cavallo, scorrazzava lungo la frontiera del Sudan anglo-egiziano. Aveva divulgato il soprannome di Cummundar-as-Shaitan (Comandante Diavolo) che gli indigeni gli avevano affibbiato e l'aveva descritto come un « corsaro del deserto : magro, bruciato dal sole, con un viso che « degli arabi fra cui ha vissuto a lungo e di cui conosce la lingua e i dialetti, ha preso l'espressione un po' assorta, enigmatica. >> Nella sua tenda, c'era una pelle di bue stesa per terra; una stuoia e un burnus arrotolato servivano da letto e da cuscino; un coccio, con un lucignolo nuotante nell'olio, stava accanto a quella specie di capezzale, assieme a un moschetto e una scimitarra, buttati quasi con disprezzo In un angolo. Sulla e elle .di bue - notava il giornalista - c'era la Germania di f acito, edizione vaticana, in latino.

Per catturare un tipo del genere - pensava Harari - non

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sarebbe bastato aumentare la taglia di mille sterline oro messa sul suo capo, allargare la rete degli informatori indigeni e ancor meno cercare consiglio presso gli antifascisti locali, tanto più che non c'erano prove che Guillet avesse simpatie per il fascismo . Monarchico, serviva il suo paese come tanti altri ufficiali, senza probabilmente porsi problemi ideologici. Se mai, il suo carteggio personale rivelava un dettaglio che aveva sapore di fronda: nel1938, dopo la pubblicazione in Italia delle leggi razziali, aveva arruolato nei suoi reparti degli ebrei etiopici, dèi falascià. Il che non era molto in linea con la politica antisemita di Roma .

Se per il maggiore Harari il caso Guillet era una preoccupazione, per il suo vice, il capitano Reich, quella guerriglia era diventata ut'l' ossessione.

Raramente due personaggi cosl differenti avrebbero potuto trovarsi accomunati nella stessa missione. Entrambi israeliti, Harari, nato al Cairo , era il prototipo dell' aristocratico sefardita; Reich, nato a Schoenbrunn, in Austria, dell'intellettuale askenazita. L'uno era il prodotto di una lunga tradizione di elitarismo e di opulenza orientale, educato nelle migliori scuole d'Egitto e d'Inghilterra; l'altro era figlio di un ingegnere della Galizia austroungarica, immigrato in Palestina subito dopo la,prima guerra mondiale.

Alto e biondo, Reich aveva un portamentb germanico che contraddiceva le teorie razziste hitleriane e si confaceva al nome poco ebraico di Zigmund ' che il padre gli aveva affibbiato. I suoi compagni di scuola a Haifa preferivano chiamarlo Sussya, nçm per attribuirgli origini russe ma perché in ebraico sus-ia significa << cavallo di Dio >>. Qualche cosa di equino, nel volto, Reich forse lo aveva, ma era il solo punto, collegato all'equitazione, in comune col suo superiore.

Al momento d'arruolarsi volontaiio nell'esercito inglese, Harari era stato accettato senza difficoltà in uno dei più famosi reggimenti di cavalleria. Reich, , anche lui volontario, si era arrampicato da un grade all'altro nel Corpo

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DEL TENENTE GUILLET

della sussistenza, uno dei pochi aperti ai palestinesi all'inizio della guerra. Non vi era rimasto a lungo perché gli studi di filologia semitica fatti a Parigi, l'amicizia che lo legava ad alcuni dei maggiori islamisti dell'epoca, la tesi di dottorato sui villaggi siriani di lingua aramaica e la passione per l'arte musulmana gli avevano rapidamente aperto la strada negli Intelligence Corps.

Reich comprendeva la simpatia di carattere estetico che il suo superiore sentiva per Guillet . La sua curiosità di studioso era del resto solleticata dalla perfetta conoscenza dell'arabo che ' veniva attribuita al ribelle. Di ufficiali italiani specialisti d'Islam non ce n'era'no molti . Ma da quando aveva abbandonato Ie .sue ambizioni artistiche per quelle accademiche, Reich aveva sviluppato un'avversione per tutto ciò che sapeva di romantico. Nell'esercito, si era creato la reputazione di ufficiale puntiglioso, circondato da un alone di mistero per le origini di cui non amava parlare, ammirato per la sua cultura e temuto per il gelido distacco con cui affrontava i problemi di lavoro. L'atteggiamento sportivo che Harari aveva nei confronti della guerra gli pareva quello di un dandy, incapace di comprendere il significato del conflitto in cui erano entrambi impegnati: una lotta totale che separava, per sempre, il mondo dell'eroismo da quello delle macchine; uno scontro che in -Africa, dove i resti dell'Europa ottocentesca sopravvivevano nella società coloniale, doveva perdere il carattere romantico di tenzone cavalleresca.

Nell'ottica del maggiore, Guillet era un nemico onorevole, espressione di una cultura e di un sistema sociale che non conoscevano frontiere, se non quelle orgogliose e impalpabili fra « coloro che prendono e coloro che danno ». In quella del capitano, Guillet era un bandito, un anacronismo militare che pervertiva la logica della sfida mortale fra democrazia e dittatura, la nuova crociata in cui tutti i mezzi erano giustificati dal fine.

L'ufficiale italiano che girava per l-'Eritrea vestito da

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arabo, assaltando depositi e tendendo imboscate ai convogli per dimostrare agli inglesi e agli indigeni che la ·guerra in Africa non era ancora finita, appariva così all'uno come la reincamazione - e all'altro come la caricatura - di quello che nella Grande Guerra erano stati Lawrence in Arabia e il generale tedesco von Lettow in T anganica; col risultato che la sua cattura era diventata per entrambi una questione personale.

Bussavano di nuovo alla pqrta.

«Avanti», disse Harari ·sospirand0. , ,, ,

Era spio il sottufficiale col solito malloppo di carte per la firma: prelievo di viVeri t; benzina, autorizzazioni di ·viaggi, rapporti, due proposte di promozione di caporali negli Intelligence Corps. Uno di questi era un volontario del Reggimento maltese.

«Sergente» chiese Harari «che tipo è questo candidato?>>

« Qualcupo a cui la Field Security sembra tenere, per via della sua conoscenza della lingua degli 'lta' che ha appreso , in famiglia e di quella dei 'Wogs' (arabi) che ha imparato in Egitto.>> ,

«Lo convochi per domani alle otto. Forse potrebbe fare qualche cosa anche per noi>>. . '

Firmò i rinchiuse ne)la cassaforte i caqeggi che gia,cevano ' spfirpagliaçi sul tavolo; prese il 'cappello a visiera, il bastoncino ,di comando foderato di cuoio, disse e <<buona notte>> al sergente e si avviò alla mensa ufficiali, convinto d'aver sprecato un altro giorno della sua inutile esistenza.

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DEL TENENTE GUILLET

CUMMUNDAR- AS- SHAITAN

AMEDEO Guillet, nato a Piacenza il 7 febbraio 1909, tenente di cavalleria in servizio permanente effettivo, con incarico di comando superiore, comandante del Gruppo Bande a cavallo am bara dal febbraio 1940, scapolo, altezza 1,74, colorito bruno, capelli e baffi castani, segni particolari: sterno incavato per frattura toracica, tatuaggio arabo sul seno sinistro, ferita alla mano sinistra, decorato di sei medaglie militari, di varie decorazioni militari spagnole al valore, una promoz ione per merito di guerra, campagne d'Etiopia, Spagna e operazioni di polizia coloniale.

n rapporto che il Harari stava leggendo era il «profilo» di Guillet che il graduato maltese aveva preparato dopo quasi un mese d'interrogatori, ricerche e inchieste. n sottufficiale non si era limitato a frugare negli archivi del <<Personale Ufficiali>> che le autorità militari italiane non avevano fatto in tempo a distruggere. Aveva preso contatto con numerosi europei che avevano conosciuto Guillet all'Asmara, conversato con funzionari e ufficiali prigionieri, rovistato nelle poche collezioni di giornali conservate nella biblioteca locale, consultato la storia dei reggimenti a cui aveva appartenuto l'ufficiale ribelle, parlato con sacerdoti e con capi villaggio.

Da questo lavoro, condotto in tre lingue e che gli aveva fatto guadagnare i galloni da sergente, era nato un fascicolo di una quarantina di pagine, con l'aggiunta di documenti originali e un paio di fotografie da cui scaturiva l'imma-

gine sfaccettata e contraddittoria di un personaggio complesso e di un ufficiale fuori classe.

Sulla famiglia di Guillet le notizie erano scarse. Da parte paterna c'era una tradizione militare di patrizi savoiardi che avevano dato a Casa Savoia una dozzina di generali. Da parte materna, d'origine ligure-piemontese, c'erano soldati, scienziati, artisti e religiosi.

. Amedeo risultava iscritto all'Università di Messina a dic,ia sset'te anni. La sua passione per la musica - all'Asmara ' c'era chi ricordava serate in cui si ,era esibito al pianoforte e alla chitarra classica - l'aveva fatto esitare nella scelta fra la carriera musicale e quella Alla fine, aveva optato per la seconda. Era entrato all'Accademia di Mode1 na dove il fatto di avete un padre e due zii generali gli aveva reso la vita più dup rispetto ai supi compagni di corso . Ne era uscito, con onore, come sottotenente dei C!!valleggeri di Monferrato.

Con uno degli zii, morto nel1939, i suoi rapporti dovevano essere stati complessi. Si chiamava Amedeo come lui, era generale d'·Armata, senatore del Regno, uomo di mondo, matematico, buon cavaliere e musicista . Doveva aver esercitato una certa influenza sul nipote e rappresentato il qtodello di soldato -gentiluomo da imitare e da superare.

L'equitazione, i Guillet sembravano •averla nel sangue, e Amedeò più del resto della famiglia. Alla scuola di Pinerolo era stato notatO•per le Sùe ,doti di cavaliere e qualche anno dopo era stato chiamato a far parte della squadra nazionale olimpica. Ma alla fine del '34 il tenente Guillet aveva chiesto di essere trasferito a un reparto di cavalleria coloniale .

Questa svolta nella vita del suo avversario, il maggiore Harari non riusciva a spiegarsela. Lui che in Egitto aveva ben figurato anche come giocatore di polo, considerava l'equitazione come un'arte, e la partecipazione ai concorsi ippici internazionali - per non parlare delle Olimpiadi - come l'aspirazione suprema e naturale di ogni cavaliere. Cosa

J?Oteva aver spinto Amedeo ad abbandonare una carrier!!

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sportiva che, per il solo fatto della partecipazione alle Olimpiadi, gli avrebbe assicurato fama internazionale?

Com'era sua abitudine, quando era in dubbio, accese un sigaro, spinse indietro la poltroncina e si mise a seguire con lo sguardo le spirali di fumo che disturbavano l'ozio delle mosche sul soffitto ingiallito dell'ufficio.

La decisione di Guillet poteva avere molte cause : una delusione d'amore, un duello o una perdita al gioco. Poteva essere il risultato di conflitti in famiglia, di una denuncia politica, poteva persino essere il frutto di una crisi religiosa. In cavalleria c'erano precedenti del genere, specie fra i nobili : in Francia, il barone de Foucault aveva lasciato la divisa per indossare il saio, andare a parlare di Cristo ai beduini e a morire nell'Atlante; in Italia, il conte Faà di Bruno si era fatto missionario e aveva fondato una congregazione religiosa.

Harari avrebbe capito la logica di chi, per sottrarsi alla schiavitù degli uomini, si fosse fatto schiavo di Dio. Ma di crisi religiose come di scandali, problemi d'amore, debiti al gioco, o passi falsi politici non sembrava esserci traccia nella vita di Guillet . Restava la guerra per il gusto della guerra, ma era un'ipotesi incoerente con rimmagine che si era fatta del personaggio : uccidere per il piacere di uccidere è proprio dei gangster, non dei soldati.

La decisione di un brillante ufficiale di venticinque anni di autoesiliarsi in un reparto di cavalleria coloniale, in tempo di pace, quando d'avanzare in carriera per meriti di guerra non c'era grande probabilità, poteva , forse, essere stata determinata dall'attrazione dell'esotico , dell'avventura, del rischio dell ' ignoto. Poteva anche nascere da un bisogno di mettersi alla prova, un bisogno che, nell'isolamento dal mondo , può assumere un carattere estetico, accendere la fantasia. n rischio poteva offrire redenzione e purificazi one a chi nell'infinito spazio del deserto· cerca di dare un senso nuovo alla propria vita.

Andare in Libia a studiare i costumi degli indigeni, im-

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pararne la lingua, comprenderne le convenzioni sociali e le speranze politiche, stupirli facendo sfoggio di coraggio e di bravura equestre, non aveva, forse, solo lo scopo di guadagnarsi il rispetto dei suoi soldati. Poteva essere un modo per prepararsi a un tipo di vita. Nel silenzio di un mondo africano idealizzato, lo sportivo, mondano e si educava al ruolo di eroe che voleva impersonare, perfezio J' nare, come av(;!ya insegnato Aristotele, le qualità - ethos, pathos, logos - che lo distinguono dal resto degli esseri umani . ' l,

Se cosl stavano le cose, se Guillet possedeva o sforzava di acquisire le virtù da cui sgorga la capacità di 'persuadere gli altri con l'esempio; se era in grado di stimolare l'intuizione dei suoi seguaci indigeni con la sua personalità carismatica senza bisogno di convincerli con dei discorsi, allora si poteva spiegare il donchisciottismo di una ribellione apparentemente insensata . Si poteva anche descrivere l'l!lomo e il suo comportamento con dei versi del Tasso meglio che con la logica militare e politica.

Com'era quel brano della Gerusalemme Liberata che gli avevano fatto imparare a memoria alla Scuola italiana del Cairo? Trattava di un cavaliere ferito che si straccia le fasce per meglio percepire nella morte il senso della vita:

Ei s'uccidea: ma quella doglia col trarlo di se stesso, in vita serba.

Harari si stupl che quei versi gli tornassero improvvisamente alla mente. Ri'flettendoci, annotò in calce al rapporto che Guillet poteva essersi dato alla macchia meno per riscattare l'onore di un esercito battuto che per raccogliere una sfida con se stesso. L'eroe, ammesso che il suo avversario intendesse assumersi questo ruolo, doveva essere qualcuno capace di affermare l' autono111ia della ragione propria contro l'eteronomia dell ' autorità costituita , italiana o inglese che fosse. Qualcuno che voleva verificare a che ,

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punto fosse in grado di misurarsi, da solo, come un cavaliere antiCo, contro tutto e tutti, foss' anche un impero. In tal caso, quella resistenza poteva dar luogo ad azioni imprevedibili come la sua trasformazione in indigeno: poteva essere una semplice dissimulazione di guerra o una conversione all'Islam, autentica al punto di farlo accettare dai musulmani come uno di lo ro.

Seguendo il filo dei suoi ragionamenti, Harari credeva d'aver individuato la ragione della capacità di Guillet di sfuggire alle trappole che gli avevano teso. Lui e Reich cercavano l'ufficiale italiano travestito da indigeno. Guillet, invece, era un indigeno che combatteva gli inglesi con i sistemi che, da ufficiale italiano, aveva imparato combattendo contro i ribelli etiopici.

Per mettere fine a una resistenza del genere occorreva cambiar strada; trovare il modo di isolare Guillet dai suoi piuttosto che cercare di sconfiggerlo in battaglia, convincerlo dell'inutilità dei suoi sforzi. Occorreva immaginare tattiche nuove, originali, come aveva fatto il colonnello Orde Wingate in Palestina, quando utilizzava ebrei contro arabi e, poi, in Etiopia, abissini contro italiani.

Com'erano diversi quei due uomini che gli sembravano concepire la guerra allo stesso modo.

Wingate, di cinque anni più vecchio di Guillet, era stato catapultato dall'Inghilterra a Khartum, nel novembre del '4 0 , per intervento personale di Eden, con un milione di sterline nella sacca, e il compito di organizzare la rivolta degli abissini in favore del negus. Farcito di Bibbia, inviso ai colleghi che definiva << scimmie militari » era, come Guillet, un attore che voleva la storia per palcoscenico.

Guillet non aveva obbedito ad alcun ordine nell' organizzare la sua rivolta . Al contrario, aveva disobbedito al governo di Roma, per il quale la guerra in Eritrea era finita. Di soldi non doveva averne molti; di appoggi politici ancor meno. In compenso era meno inviso ai suoi colleghi di quanto Wingate non fosse ai suoi.

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Entrambi, comunque, si erano costruiti la loro reputazione militare con truppe indigene, l'uno a cavallo, l'altro a ' piedi; uno era stato attratto dall'Islam, l'altro dall' ebraismo; l'uno 11veva combattuto con etiopici reclutati sul posto, contro ribelli abissini fedeli a Hailè Selassiè; l'altro, con ebrei reclutati in Palestina contro i ribelli arabi fedeli al Gran Mufti di Gerusalemme.

Amedeo Guillet appariva ad Harari come la personificazione di un certo tipo di aristocrazia latina: irruento, improvvjsatore, trascinatore di uqmini, romantico e sportivo. Orde Wingate era, anche lui, un leader nato, romantico e fanatico di cultura fisica. Ma rappresentava un tipo diverso di aristocrazia, quella burocratica ascetica, impregnata di cultura protestante e del senso di superiorità britannico .

In materia di politica coloniale Wingate e Guillet avevano probabilmente idee in anticipo sul loro tempo; entrambi disponevano, per i legami di famiglia e di 'classe, di contatti con le più alte gerarchie dei paesi : Churchill e il duca Amedeo d'Aosta. Interpretavano la « servitù militare » in colonia come un mezzo per imporre agli indigeni l'autorità dell'europeo, attraverso l'esempio. C'era tuttavia, nella loro azione, una fondamentale differenza: Wingate agiva cosciente di far parte di un 1esercito, dotato di immense riserve e sostenuto da una lunga esperienza di amministrazione imperiale. Guillet sapeva di essere il frammento abbandonato a se stesso di un esercito sconfitto, tagliato fuori dalla madrepatria, privo di forze di riserva e di appoggi locali.

Come si sarebbero comportati questi due uomini eccezionali, se si fossero incontrati? Spense il sigaro in un fondo di bossolo trasformato in portacenere, ma non ebbe il tempo di darsi una risposta perché il capitano Reich entrò nel suo ufficio. Un po' affannato, veniva ad annunciargli che una banda, probabilmente quella di Guillet, era stata avvistata nella zona di Ghinda, non lontano dalla strada che da Massaua porta all'Asmara.

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DEL TENENTE GUILLET

n maggiore Harari mormorò in arabo: Allah Akbar (Dio è grande); chiuse con un gesto stanco il fascicolo che gli stava davanti e si preparò ad ascoltare il rapporto del suo capitano . Fu, come al solito, una relazione chiara, breve e secca. Era stato un aereo Piper d'osservazione dell'artiglieria a informare il comando all'Asmara, verso le nove del mattino. n comando dell'Asmara, a sua volta, aveva avvertito il comando di brigata che, su richiesta di Reich, aveva disposto l'invio di du1= compagnie di fanteria sudanese con l'ordine di accerchiare la banda.

Ciò che aveva destato i sospetti del pilota era stata la maniera ordinata con cui aveva visto muoversi, in una fascia desertica, una cinquantina di uomini. Pellegrini non potevano essere. Mercanti neppure perché non avevano con sé bestie da soma e si tenevano troppo lontano dalla strada. Il pilota aveva notato nel gruppo un cavallo bianco, tenuto a briglia: dettaglio che rafforzava l'ipotesi che si trattasse di Guillet, che si spostava soprattutto a cavallo, per via di una ferita alla gamba. Con le forze che gli avevano inviato contro - diceva Reich - questa volta l'avrebbero preso: vivo, con un po' di fortuna; morto, probabilmente, perché certamente si sarebbe battuto.

Harari aveva percepito una nota di compiacimento nel tono con cui il suo subordinato pronunciava la parola morto. Era rimasto impassibile Reich aveva affermato che l'operazione sarebbe terminata prima di sera: le tenebre questa volta non dovevano permettere alla banda di fuggire . Aveva apprezzato, tuttavia, il distacco ' con cui il capitano aveva parlato di una questione che gli stava tanto a cuore. Avrebbe voluto ricordargli come, in passato, Guillet fosse riuscito a rovesciare in suo favore situazioni nelle quali sembrava perduto. Ma si limitò ad augurargli« buona caccia » e rispose con due dita portate alla fronte al saluto di Reich, notando che il capitano se ne andava con un passo più affrettato del solito.

Una volta uscito Reich, Harari rigirò la poltroncina ver-

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so il tavolo, riaprì il dossier contrassegnato « Guillet >> al punto in cui l'aveva lasciato . n documento che stava leggendo era la copia del suo stato di servizio. Prese a leggere la motivazione della prima medaglia al valore che « Guillet Amedeo di Alfredo da Piacenza Tenente s.p.e. nel 2ndo gruppo Spahis della Libia >> aveva ottenuto in uno scontro contro truppe etiopiche a Selaclacà, il25 dicembre 19 35 .

Lo scrivano militare che aveva copiato il documento dall' originale, invece di « nemico >> aveva scritto << numico >>: l'errore gli fece venire in mente Lucia, la donna che curava il suo appartamento a Roma e correggeva il suo italiano. Era una fiorentina che aveva frequentato solo le elementari ma che in fatto di pronuncia e di sintassi ne sapeva più dei professori d'italiano al Cairo. Lucia amava definirsi« fantesca >> e per la prima volta si accorse che fante e fantesca avevano la stessa radice.

Dov'era adesso Lucia? Le aveva lasciato le chiavi dell' appartamento, prima di partire alla volta dell'Inghilterra per arruolarsi. Forse lei continuava a tenerlo in ordine, sempre che non fosse stato requisito in quanto bene appartenente al nemico. Rien trame in possesso era un'al tra ragione per vincere la guerra.

Pensando a Roma, tornò alla motivazione della medaglia. Diceva: « Avuto il compito di proteggere con una ventina di spahis il fianco di un gruppo fortemente impegnato in combattimento, veniva attaccato da un nemico superiore di forze e favorito da terreno insidiosissimo. Respinti gli elementi avanzati , appiedava i suoi uomini e con ripetuti attacchi e contrattacchi a piedi e a cavallo, costringeva in fuga l' avversario, sventando ·così validamente la minaccia nemica sul grosso del gruppo . Bell'esempio di calma e di valore. >>

Che orrendo stile italiano. Ma era un peccato che Reich non avesse letto quella motivazione prima di andare a dirigere l'operazione contro la banda di Guillet . Avrebbe potuto essergli d'aiuto. Si ripromise dimostrargliela al suo ritorno, comunque fosse finita quella partita di caccia.

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DEL TENENTE GUILLET

AMEDEO Guillet sapeva di essere stato scoperto dall'aereo. Si chiedeva quanto tempo sarebbe passato prima che gli inglesi gli addosso'. Certo cerqto di stabilire un contatto 'con la sua banda prima del tramonto, per impedirgli di sfruttare l'oscurità . Ammesso che il pilota avesse comunicato per radio la sua posizione e che il messaggio fosse stato subito trasmesso a1 Comando truppe, agli inglesi ci sarebbero volute almeno quattro ore per avvistarlo. , Da quando aveva assunto l'aspetto di un arabo non portava più. orologio. Trovargliene uno addosso avrebbe sollevato sospetti e , solo per rubarglielo, un soldato sudanese avrebbe potuto arrestarlo. Abituato ormai a regolare , come gli indigeni, il tempo sui movimenti del sole, le settimane e i mesi secondo le feste musulmane, calcolava che l'aereo l'avesse avvistato a metà tempo fra ' la preghiera dell'alba e quella del mezzqgiorno, dunque yerso le nove . Gli inglesi non lo avrebbero raggiunto prima che le ombre si facessero corte, sul mezzogiorno. Aveva forse il tempo di uscire dalla zona scoperta in cui si trovavano . Radunò i suoi uomini e spiegò loro la situazione.

Gli inglesi non avrebbero inviato dei carri armati contro una banda di briganti. Se avessero disposto di una buona cav alleria, la situ 'azione sarebbe stata difficile, ma per fortuna non l'avevano . Probabilmente avrebbero impegnato truppe sudanesi contro le quali gente come loro, addestrata alla guerra, avrebbe facilmente avuto la meglio . Con un po' di fortuna e molto coraggio se la sarebbero cavata ancora

L ' ACCERCHIAMENTO

una volta. Se invece era scritto che quello dovesse essere il loro ultimo giorno, l'avrebbero vissuto da guerrieri. L'uomo non può cambiare il proprio destino . Maktub, ciò che è scritto è scritto. L'importante, ora, era muoversi in fretta. Diede ordine di controllare le armi, bere e riprendere la marcia.

Camminando quasi a passo di corsa, Amedeo si sforzava di pensare solo all'azione . Prevedeva che la fanteria coloniale inglese - truppa fatta per operazioni di polizia , non per la guerra - sarebbe arrivata su autocarri che·avrebbero avuto difficoltà a muoversi fuori strada. Una volta appiedati, i soldati, ignari della posizione esatta della banda , si sarebbero probabilmente mossi in ampio semicerchio, offrendogli la po'ssibilità di rompere l'accerchiamento , nel punto che avrebbe scelto e con forze localmente superiori .

Due erano le alternative di marcia che gli si offrivano. Poteva dirigersi verso il bassopiano, infilandosi nei greti dei torrenti, o costeggiare la strada in direzione di Cheren, meno ardua ma anche più praticabile per gli automezzi inglesi. Pensando che ogni ora guadagnata era un'ora che lo avvicinava al tramonto, scelse la strada degli uadi, più faticosa ma meno scoperta . Per raggiungerla, tuttavia, doveva prima attraversare un'altra zona pianeggiante in cui la banda sarebbe stata più vulnerabile. Era un rischio che valeva la pena di correre.

Distaccò alcuni uomini, dotati di una vista particolarmente ac uta , al settore in cui si aspettava l'arrivo degli inglesi, con l'ordine di avvertirlo alloro primo apparire; mantenne il resto della banda compatta dietro di sé e si diresse verso la par te più scoscesa del deserto.

Camminavano svelti, in silenzio, mentre la giornata si faceva sempre più calda e l'atmosfera sempre più tesa . A quell' andatura , la ferita al tallone gli indolenziva tutta la gamba . Si sforzava di non farlo notare, perché non voleva che i suoi uomini cerc assero d'assisterlo . Per questo non si voltava: in certi frangenti sono le spalle, non il volto del comandante a dar fiducia ai soldati .

50 LA GUERRA PRIVATA
DEL TENENTE GUILLET

Sentiva dietro di sé il respiro del cavallo, tenuto per la briglia da un eritreo. Per un senso di dovere verso i suoi uomini e di orgoglio personale, in quell'occasione non aveva voluto montare. Sandor,così si chiamava il cavallo, freme- 1 va trotterellando, come se condividesse la tensione degli uomini . Anche Amedeo era preso dall'ansia e, per un istante, pensò che forse quella sarebbe stata l'ultima volta che lui e Sandor sarebbero andati assieme in battaglia. Scacciò subito quell'idea dalla mente: portava sfortuna indugiare in presentimenti del genere prima dell'azione . Che senso c'era, del resto, a preoccupar-si della sorte di un quando in gioco c'era quella di cinquanta uomini che erano per lui come fratelli?

Si chiese, camminando senza voltarsi, che cosa stessero pensando quei suoi compagni d'armi che da mesi lo seguivano seBza mai domandargli perché continuava a sfidare gli inglesi e la morte. La loro fedeltà non , cessava di stupirlo: non ricevevano paga; non mangiavano a saziètà; si.spostavano continuamente e spesso il loro giaciglio, la notte, era la nuda terra. Erano vestiti di stracci, camicie e tuniche da settimane bagnate solo dal sudore. Di buono non avevano che le armi, che sentiva tintinnare dietro di sé, mentre il rumore dei passi di quelle decine di uomini si spegneva sul terreno sabbioso.

Camminava e gli pareva di non avanzare, come se stesse muovendosi sul tappeto mobile di un palcoscenico su cui gli attori danno l'impressione di correre, restando invece sul posto. Qui non c'era però nessuno all'infuori di Dio a osservarli : solo rocce nere, qualche acacia rada e assetata e, fra le zolle di terra e sabbia che si frantumavano sotto i piedi, miriadi di esseri invisibili - formiche, lucertole, mosc he, scarabei, pulci, zanzare, - indifferenti allo svolgersi di un dramma che, per loro, sarebbe stato solo un improvviso susseguirsi di esplosioni.

Chi aveva detto: « Il mondo sembra fisso solo perché siamo tutti sospesi nella stessa dimensione »? Non lo ricorda-

L'ACCERCHIAMENTO 51

va ma doveva essere qualcuno al quale, come a lui, il dolore fisico aveva tolto il senso del tempo e dei luoghi.

Cercava dì ignorare il dolore, concentrando il suo pensiero sulla battaglia che stava per cominciare, ma ci riusciva solo a tratti: il dolore lo assaliva con fitte violente che sì accompagnavano a ondate dì ìncontrollabili ricordi.

Fra i volti dì tanti compagni dì guerra, vivi o morti, che gli tornavano in mente, c'era quello dì un civile che apparìva con più insistenza: la faccia trasecolata dì Giovanni Rugìu, direttore del Banco dì Roma, quando l'aveva accolto nella sua villa qualche giorno dopo la resa dell'Asmara. Aveva precipitosamente richiuso la porta alle sue spalle, ascoltato incredulo la sua richiesta dì prestargli degli abiti civili e consentito a darglieli, ma a condizione che sì trattenesse da lui almeno per il tempo necessario per fare un bagno e mangiare qualcosa. Il ricordo dì quell'acqua tiepida in cui sì era immerso sino al collo, gli dava ancora un senso dì dolce torpore.

Uno sparo seguito da un altro e poi da una scarica, lo avvertirono che gli inglesi erano stati avvistati. Erano arrivati più tardi del previsto e potevano contare solo su un'altra ora dì luce. Inglesi erano, poi, solo gli ufficiali e i sottufficialì. I soldati, come aveva previsto, erano sudanesì, poco allenati all'attacco.

La vicinanza del nemico gli ridiede energia. Col binocolo - unico strumento non indigeno mai abbandonato, che affidava, quando non ne aveva bisogno, a un suo vecchio attendente - poteva seguire i movimenti dei plotoni che avanzavano sulla sua destra secondo le regole imparate in caserma: al passo, in ordine sparso, dieci metri fra un soldato e l'altro, gli ufficiali davanti e i sergenti dietro.

Scelse il punto in cui lo schieramento nemico pareva più rado. Raggruppò i suoi uomini per qualche minuto dì sosta dietro un avvallamento che li nascondeva alla vista dei sudanesi. Accoccolato con loro per terra, spiegò che per aprirsi un varco occorreva gettarsi tutti assieme, di corsa, sul ne-

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DEL TENENTE GUILLET

mica, appena fosse stato più vicino. Bombe a mano, fuoco a volontà e baionette innestat.e. Poi si sarebbero buttati nel fondo ·dello uadi •sperando1 che i sudanesi, dall'!lttacco, si fermassero per chiedeve rinforzi o rinuJilciassero a inseguirli a causa del pomeriggio avanzato : l Gli uomini lo ascoltavano in silenzio, seduti sui talloni, ciascuno appoggiato ali!! sua arma, in semicerchio. Di quelli che gli stavano di fronte vedeva gli occhi fissi su di lui, dietro palpebre che quasi non si muovevano. Di quelli accoccolati ai suoi scorgeva il profilo dei nasi sottili. , I volti scuri non tradivano emozioni!. uq gruppo scolpito nel ,bronzo. •Il fatto che nessuno muovesse una mano o un muscolo del viso per scacciare le mosche, gli faceva comprendere quanto tutti fossero tesi. , Aspettò ancora qualche minuto per dar tempo ai sudanesi di avvicinarsi. Con un colpo secco inserl un caricatore nel mitra!Watore da m'arina, agli uomini che attendevano il suo ordine, ii braccio e indicando la direZione del nemico si mise ll correre davanti a loro e urlando

<< Savoia! >> .1 , Anche i sudanesi sparavano. I loro ufficiali gridavano: << Fire! Fire! >>come se fossero stati al tiro a segno. Le pallottole sibilavflnO vicine. Qualcuno gridò di dolore dietro a Amedeo; altri , gli 1stavano ai la,ti protegllendolo con doppia cqrtina di fuoco. III drepitio delle. ar:mi si più intenso ma più distante c; alle loro spalle, 'una attraversata la linea nemica .

Nel punto in cui l'accerchiamento era stato rqtto, i sudanesi si eranq fermati e in attesa di ricevere rinforzi, avevano rinunciato a seguirli nei dirupi. Gli altri reparti che accorrevano verso il luogo dello scontro erap,o troppo lontani per poter Si sparava ancotll ma in disordinata e inefficace . Gli ufficiali 'raggruppavano i loro uo- ' mini, incerti sul da farsi e perdendo tempo. Intanto il sole sce ndeva, rapiçlo, sui dirupi dell''altopiano dietro ai quali la banda si era ormai volatilizzata.

L' ACCERCIDAMENTO 53

Quando Guillet si arrestò, vide che tre dei suoi uomini erano stati feriti e che uno mancava: l'eritreo che teneva Sandor per la briglia. Con lui era scomparso anche il cavallo . Una settimana dopo lo scontro, sir William Platt, comandante in capo delle forze britanniche in Africa Orientale, convocò il maggiore Harari a Nairobi.

Nell'aereo che lo trasportava dall'Eritrea al Kenya, il maggiore si rallegrava del fatto che l'incontro fosse stato fissato a Nairobi, invece che a Kharrum, dove il clima trasformava gli alberghi in fornaci. Ma quel Dakota, arrivato di fresco in Africa dall'America, nel quadro dell'accordo «scambi e prestiti>> stipwati da Londra con Washington, lo riempiva di malinconia. Era la prova che l'Inghilterra ormai poteva attingere a piene mani nei depositi d'oltre Atlantico ma che sarebbe stata obbligata a pagare con l'Impero la vittoria. Si era cominciato con «l' >> agli Americani le isole vicino alle loro coste, in cambio di cinquanta vecchi cacciatorpedinieri e si sarebbe finito col cedere l'India e l'Africa.

Per la seconda volta, in venticinque anni, veniva chiesto agli indigeni di ,aiutare i loro padroni europei a scannarsi. Terminata la guerra non sarebbero stati a tornarsene a casa con le mani vuote. Lo si era visto in Egitto dopo la Grande Guerra; ora sarebbe stata la volta di tutti gli altri possedimenti in Asia e in Africa. Perché un uomo come Guillet non lo capiva? Perché, volendo perpetuare la presenza europea, di fatto ne accelerava la fine, · combattendo con gli indigeni contro gli inglesi? Per le stesse stupide ragioni per le quali gli inglesi volevano cacciare gli italiani dall'Eritrea e dalla Somalia e i francesi da Gibuti. ll mondo, come aveva previsto Tocqueville, se lo sarebbero spartiti, alla fine , i russi e gli americani: due popoli barbari che agli europei non avrebbero lasciato neppure il

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GUILLET

ruolo di liberti-educatori che i romani avevano lasciato ai greci.

Per distrarsi, Harari prese a osservare la carlinga dell' aereo che sobbalzava da una nuvola all'altra , agitato dalle correnti d'aria calda che salivano dalla terra gialla dell'Africa. Se i due motori non avessero fatto tanto rumore, avrebbe potuto parlare con gli altri passeggeri e col sergente naviga· tore della RAF: questi andava e veniva dalla cabina di pilot aggio alla coda, tentando di chiudere la porta del gabinetto che continuava a sbattere contro la schiena Cii una soldatessa sudafricana.che stava vomitando.

Quel corpo piegato in avanti, sussultante 'con tutte le pieghe della gonna kaki ; offendeva il senso estetico del maggiore e accresceva la sua tristezza . Era un altro segno di un mondo che cambiava, di rapporti fra i sessi che non sarebbero più stati gli stessi: anche le donne , come gli indigeni, si sarebbero rivoltate, dopo la guerra. ,

Gli altri passeggeri fingevano, come lui, di non guardare dalla parte del gabinetto . Seduti sulle panche metalliche, lungo i fianchi dell ' aereo, erano un vero campionario delle popolazioni dell'Impero: militari indiani, inglesi, sudafricani, due civili che Harari catalogò come notabili arabi o agen· ti segreti levantlni. La sola donna era la sudafricana che , te1'\endo un fazzoletto premuto sulle labbra, aveva ,ripreso, confusa', il suo posto . Al fondo della carlinga, affastellati sotto una grande rete verde di tela, c'erano sacchi di posta pieni , probabilmente, di lettere a cui uomini e donne separati dalla guerra affidavano i loro pensieri, le loro speranze , le loro paure , le loro menzogne . Di fronte, assicurate da corde, sei casse lunghe di armi. In alto, al centro della carlinga , correva un filo d'acciaio che tremolava a ogni fremito dell' aereo. Ricordava al maggiore i fili su cui al Cairo la gente sten· deva la biancheria fra un palazzo e l'altro, su1Ja testa dei passa nti . A che cosa poteva servire? Quando il sergente naviga · to re gli ripassò davanti, lo afferrò per un braccio e glielo chiese , urlando, per sovrastare il frastuono dei motori .

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« Servono per agganciare il laccio d'apertura dei paracadute.>>

Harari annuì, per mostrare che aveva capito e quello aggiunse , perfido:

<< Ma i paracadute su questo aereo li hanno solo i membri dell'equipaggio >>.

Fare la guerra a terra era certo meno pericoloso che farla in aria. Ma non era per rimandarlo al suo reggimento che il comandante in capo lo faceva venire a Nairobi . Probabilmente gli voleva affidare qualche altra missione collegata con gli italiani, forse col Duca d'Aosta, che era stato trasportato, prigioniero, nel Kenya dopo che si era arreso all' Amba Alagi . Se di questo si fosse trattato , non avrebbe accettato . Il ruolo di Littleton con Napoleone a Sant'Elena, non gli era congeniale. Per rifiutarlo, non c'era bisogno neppure di inventare una scusa . Chiunque avrebbe capito che un ufficiale degli ussari non poteva trasformarsi in carceriere .

Con questa determinazione ben fissa nel capo, chiuse gli occhi e , ·preso dal sonno, li riaprl solo quando fu svegliato dai sobbalzi dell ' aereo sulle lastre di ferro bucate della pista d'atterraggio .

Il maggiore Chaudhauri dell'esercito indiano , venuto ad accoglierlo, lo tranquillizzò in merito al Duca d ' Aosta. Lo scopo di quella chiamata erano i rapporti contraddittori che sir William aveva ricevuto a proposito di uno scontro fra ribelli eritrei e reparti sudanesi. Voleva saperne di più su quell'incidente e sulla guerriglia in Eritrea.

« Ah >>, fece Harari, deluso che questa fosse la sola causa del suo viaggio . Ma non chiese chiarimenti perché l'indiano aveva subito aggiunto- cosa che lo stupì -che il generale lo attendeva per il breakfast nella s:ua residenza, l' indomani alle otto .

Sir William Platt era un uomo segaligno , rigoroso e burbero , che aveva servito a lungo in India e a cinquantacinque anni era stato nominato caid, comandante in capo delle

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PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

truppe nel Sudan anglo-egiziano. Era troppo onesto per attribuirsi il merito della vittoria sugli italiani nella battaglia degli altopiani. Non amava il titolo di<< Conquistatore d'Etiopia >> che certi giornalisti gli avevano appioppato, conscio di aver avuto molta fortuna in una campagna difficile che avrebbe potuto rivolgersi contro di lui se gli italiani, benché sprovvisti di mezzi moderni, fossero stati capaci di sfruttare la 16ro superiorità numerica.

Lo stato maggiore italiano aveva invece sperperato le poche riser'{e di trasporti e carburante nell'inutile conquista della Somalia britannica e di qualche posizione di confine in Sudan. Aveva commesso l'errore di dividere, le proprie forze su quattro fronti, distanti tra loro centinaia di chilometri . Se le avesse riunite nel quadrilatero montagnoso compreso fra Addis Abeba, Asmara, Dessiè e Gondar avrebbe potuto tenere a bada per mesi gli inglesi, obbligando le sue truppe a marcire nel caldo del bassopiano, alle prese con la malaria . Platt riconosceva che, anche cosl diviso, il nemico si era battuto bene. Del resto il dilemma che i comandi italiani avevano dovuto affrontare nella scelta della loro strategia a scaglioni, non era stato dovuto solo agli ordini di Roma di « non cedere un metro di territorio dell'Impero al nemico >>. Come si sarebbe potuto trasportare l'intera popolazione 'civile- italiana e indigena, decine e decine di migliaia di' donne e bambihi- in un quadrilatero montagnoso sprovvisto di servizi e di case?

La presa di Cheren aveva rappresentato per Platt il momento •più duro e incerto dell'intera campagna ! In un rapporto non aveva esitato a scrivere : « La difesa è stata tenace, dura, eroica. In tempo di pace , se fossi stato direttore di manovra, avrei dato partita vinta alla difesa ». Gli altri scontri, invece, non erano mai stati decisivi, incluso quello sotto Cherù dove Heath, il generale che comandava l' avanguardia, aveva creduto di essere stato cacciato in una trappola dalla cavalleria italiana , Se i comandanti di queste unità mobili di cavalleria erano gli stessi che ora guidavano la

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ribellione in Eritrea, c'era il rischio che atti sporadici di sabotaggio e banditismo si trasformassero in una lunga guerriglia. Questo, sir William, non poteva permetterselo.

n generale aveva fatto preparare una tavola per due sulla veranda della sua residenza. Dava su un prato rasato e un boschetto di eucalipti, cresciuti in voluto disordine . Le siepi e le aiuole di fiori celavano il volto dell'Africa ma le farf!llle, le cascate rosse di buganvillea e i silenziosi giardinieri indigeni testimoniavano quanto lontana fosse l'Inghilterra.

« Allora, Max >>chiese sir William, dopo che il servo keniota col fez rosso in testa e una larga fascia dello stesso colore sulla tunica bianca aveva riempito le tazze di tè e si era allontanato « chi sono questi italiani che ci stanno rompendo le scatole? Si comincia a parlare troppo di loro e di un capobanda, una specie di piccolo Lawrence, che riesce a tenere impegnate truppe che dovrebbero già trovarsi in Egitto . Questa guerriglia potrebbe diventare un argomento d'oro per i giornalisti ed è l'ultima cosa di cui ho bisogno. Perché non riusciamo a farla finita? »

<<Nell ' insieme, non si tratta di una resistenza organizzata, capace di estendersi e darci fastidio, specie dopo che N asi si sarà arreso a Gondar. In Eritrea abbiamo da fare con una sola banda pericolosa, non tanto per la sua consistenza - un centinaio di uomini al massimo - quanto per il suo capo . È un uomo che ha poco in comune con quegli italiani che parlano di organizzarsi contro di noi, sperando in una vittoria di Rommel in Egitto. Del resto anche il negus sta pensando a come voltar gabbana, in caso di vittoria dell' Asse. Abbiamo le prove che cerca di stabilire contatti con l'Italia .

<< Questo capobanda è un tenente di cavalleria, un certo Guillet. Gli indigeni lo chiamano Comandante Diavolo. A Cherù ha ostacolato per quasi due giorni la marcia della Gazelle Force, dando del filo da torcere agli Skinners e alla IV Divisione Indiana. Comandava allora, nonostante il suo grado, una brigata indigena, a piedi e a cavallo, qualcosa

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come duemila uomini. Dopo Cherù ha contrastato sul Cochen le truppe di Savory e di Masservy. È un tipo della stoffa di Wingate, che gli italiani non hanno voluto promuovere colonnello perché non era sposato. »

Harari si accorse di aver solleticato con questo dettaglio la curiosità del generale, che infatti aveva smesso di imburrare il suo toast caldo. Anche se dai timidi gesti dell' aiutante di campo, che si teneva discretamente in disparte in giardino, il maggiore comprendeva che il tempo, previsto per il breakfast volgeva alla fine, Harari decise di nori affrettarsi a spiegare nei particolari chi era Guillet. Riassunse quello che sapeva sul suo passato, ne menzionò i successi sportivi, ' la conoscenza dell'Africa e della Spagna, dove era andato a co mbattere per Franco. Si stupl che il generale commentasse quel fatto citando, sovrappensiero , un verso di Auden sulla guerra di Spagna :

L'accettazione cosciente della colpa nell'assassinio necessario ·

Quel brano Harari lo conosceva a memoria . Era diventato una specie di motto fra gli studenti e nei circoli intellettuali di Oxford e di Londra, dove si reclutavano volontari per la Brigata Internazionale e i marxisti tenevano 'banco. Non s' aspett ara che un generale venuto dalle frontiere dell'India lo conoscesse. Ancor meno che sir William applicasse questa descrizione dell'angoscia del volontario inglese << rosso »a un volontario italiano« nero >>. Evidentemente, il generale aveva capito molte delle cose che non gli aveva detto. Non c'era perciò bisogno di dilungarsi a spiegare gli aspetti psicologici del personaggio , anche se vi attribuiva una certa importanza .

<<TI nostro uomo>> concluse <<è l'opposto dell'intellettuale ideologicamente impegnato e moralmente torturato dalla violenza della guerra, a cui si riferisce Auden, anche se, sotto certi aspetti, dà l'impressione di un fanatico. In Spagna deve esserci andato senza scrupoli di coscienza, ri-

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tenendo che ciò fosse nell'interesse del suo paese e probabilmente per conoscere da vicino la guerra moderna . Definirei Guillet una corazza vuota di ideologia ma traboccante di ideali romantici . Se si è occupato di politica, deve averlo fatto in funzione di un fascismo di tipo monarchico, franchista, non populista come quello di Mussolini.

« In Spagna, come in Africa, cercava soprattutto l' azione. Lo prova il fatto che ha lasciato per due volte il posto di aiutante di campo del comandante della divisione di volontari italiani, per il comando di un tabor di cavalleria marcechina e per collezionare medaglie al valore . »

« Ma se non dava fastidio ai fascisti perché non l'hanno promosso? »chiese sir William.

« Secondo quanto ho appreso da gente che lo ha conosciuto, è stato per una questione strampalata , rpa in accordo col carattere di qualcuno nato nel secolo sbagliato . Avrebbe dovuto sposarsi in Italia al ritorno dalla Spagna . Nel frattempo era intervenuta una legge - voluta da Mussolini per incrementare le nascite - che bloccava le promozioni degli ufficiali e dei funzionari statali non ammogliati. Temendo che si potesse pensare che si sposava per fare carriera e non prevedendo che la guerra gli avrebbe impedito di tornare a casa, ha chiesto di venire in Africa per guadagnarsi promozioni sul campo combattendo contro i ribelli etiopici.

<<In gennaio, all'inizio della nostra offensiva, ci ha attaccato a Cherù . Poi ha continuato a combatterci a Agordat, a Cheren. A Teclesan, alle porte dell'Asmara, ha distrutto tre dei nostri carri e a quanto pare è rimasto ferito, ma non gravemente. In aprile ha sciolto i resti del suo reparto e si è dato alla macchia con quelli dei suoi ascari che erano disposti a seguirlo. Attualmente non dovrebbe disporre di più di un centinaio di uomini, - tutti indigeni -e di qualche animale da soma.

<<A giudicare dagli attacchi che ha portato contro i nostri depositi e i nostri convogli, sarebbe a corto di viveri ma non di armi e munizioni. Non si sa, invece, dove prenda i

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soldi per pagare gli uomini: di contatti con l'Italia non sembra averne, non ha mai svaligiato una banca né imposto taglie alla popolazione . Dispone però della complicità di molti capi indigeni, è sostenuto dille famiglie dei suoi ex-soldati ma non sembra che si avvalga della cooperazione di altri europei. Per questo è difficile avere informazioni precise su di lui. C'è chi dice che si è convertito aJI'Islam. E questo, che sia vero o no, accresce la fama di cui gode fra i musulmani, da sempre fllvoriti daJI'Italia in Eritrea, e infittisce il mistero che lo circonda. Sappiamo che prima che scoppiasse la guerra, si faceva accompagnare:;, anche in combatti-, mento, da un'indigena, figlia di un capo abissino . Probabilmente anche lei è ora attiva nelle sue 'retrovie' >>.

<< Una noce dura da schiacciare, allora >>commentò il generale. << Cosa intendete fare per prenderlo? >> >

<< Un uomo del genere, sir Willia\n, non lo si Ci\ttura né col denaro né col tradimento. Occorre giocare d'astuzia, con pazienza africana. Bisogna sfibrarlo, isolarlo, se J?Ossibile aiutarlo a sparire, piuttosto che affrontarlo in battagli a, specie con truppe sudanesi. Lo si è visto nell'ultimo sco ntro. Sono riusciti a fargli perdere un uomo contro tre dei nostri e a catturare un cavallo . Un bellissimo esemplare arabo, che io ho ora il piacere di montare. »

<< Ah >>, fece sir William finendo di masticare il suo toast << Capisco. E achercher la /emme ci 1\Vete pensato? >>

<< Sl, ma sinora quell'indigena non l' abbiamd trovata . >> ·

L'aiutante di campo si era avvicinato alla veranda e dava ' cortesi segni di impazienza. Harari, che aveva finito il suo rapporto, avrebbe voluto alzarsi . Ma il generale restava seduto. Pensoso, caricava macchinalmente la pipa con gli occhi fissi sul fondo dd giardino. Quando ebbe finito di pressare il tabacco, se la mise in bocca senza accenderla e con un gesto che Harari non capl se fosse di approvazione o di rimprovero, gli disse:

<< Grazie, Max >>.

E lo congedò.

L' ACCERCIUJ).MENTO 61

NEL 1938 Kadiìa aveva appena compiuto 17 anni: almeno cosl pretendeva . Era figlia di Sceik Yusef, un capo villaggio musulmano. Viveva nel cuore del Semien, una zona alberata con làghi e montagne, che avrebbe ricordato la Svizzera se non fosse stato per la guerriglia che vi infieriva. Guillet, reduce dalla Spagna, comandava uno squadrone del XIV Gruppo di cavalleria coloniale , al comando del maggiore De Sivo. .

In Italia si sapeva poco e si scriveva·ancor meno su questa ribellione. Contraddiceva le affermazioni della propaganda fascista per la quale gli abissini, liberati dal <<regime schiavista >> del negus, si sottomettevano di buon grado a una potenza europea<< apportatrice di civiltà e progresso >>.

La resistenza etiopica, invece, non solo esisteva, ma tendeva a estendersi e già nel primo anno della conquista italiana, alimentata da una mescolanza di antiche tradizioni guerriere feudali e da un nazionalismo moderno che sorprendeva, per la sua violenza, la nuova amministrazione coloniale.

La relativa facilità con cui l'esercito del negus era stato sconfitto in grandi battaglie campali, il passaggio dalla parte italiana di alcuni principi etiopici - come ras Hailù e ras Seyum - rafforzava l'errata impressione che la guerriglia fosse una semplice manifestazione di banditismo, reso più aggressivo dalle grandi quantità d'armi disponibili e dal denaro fornito ai ribelli dai governi ostili alla conquista italiana dell'Etiopia. L'esercito abissino, sconfitto nella primavera del1936, si era diviso in gruppi più o meno numerosi

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di armati. Ras Destà , per esempio , pote va contare su decine di migliaia di uomini nel Sidamo; ras Imrù nello W allega ; il dejac Aberra Kassa operava a Fiche; il dejac Balcha nel Gurage, mentre l'uomo di fiducia del negus, Abebe Aregai, si sforzava di coordinare la resistenza su scala nazionale .

A dar il via alla guerriglia non era stato tanto il banditismo quanto l'inesperienza di un'amministrazione resa baldanzosa dalla vittoria e incline alla violenza dall'incontro con inaspettati ostacoli. Contando su informazioni imprecise, sulla simpatia di una parte della popolazione influenza ta dai missionari della Consolata, il viceré Graziani aveva inviato il 26 giugno 1936 tre aeroplani con tredici uffici ali e molti talleri a Lekemti, nel sud-ovest del nuovo Impe ro . Lo scopo era di reclutare sul posto truppe indigene con cui controllare una zona in cui l'esercito non era ancora penetrato. I membri della missione furono tutti uccisi, la notte stessa del loro arrivo, dagli studenti della scuola superiore di Halettà: si salvò solo un missionario della Consolat a, padre Borello, che fungeva loro da guida . Ne derivò il bombardamento aereo di Lekemti. Questa rappresaglia e la strage degli studenti diedero impulso a una catena di atti di repressione e ribellione culminati nel febbraio 1937 nell'atte ntato a Graziani, ad Addis Abeba, al quale segul una spietata reazione.

I guerriglieri etiopici, che la stampa italiana descriveva co me briganti, taglieggiavano la popolazione ma non erano più banditi all'antica, armati di !ance, spadoni, scudi di pelle e vecchi fucili. Muniti di armi moderne, attaccavano co nvogli, posti militari e spesso villaggi per procurarsi cibo e denaro. Se non si dipingevano il viso e se non si ornavano il capo di piume come i pellirossa, il loro comportamento e il loro abbigliamento da guerra non erano meno impression anti : capelli irti e barba incolta (per il voto fatto di non tagliarseli sino al ritorno del negus sul trono) avevano rimesso in voga l'usanza- che facevano risalire ai racconti biblici

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di re Davide - di collezionare prepuzi nemici come prova del loro ardore guerriero .

Da parte italiana si cercava di << pacificare >>il territorio con presidi e reparti mobili indigeni, reclutati sul posto : una situazione che Guillet descriveva nelle sue lettere a Bice come un Far W est africano: un mondo di violenza in cui politica e prestigio, istinto e astuzia, disciplina e barbarie, si mescolavano all'interno di culture totalmente differenti.

·Amedeo aveva incontrato Kadija dopo una sortita col suo per il recupero di buoi razziati dai ribelli . Aveva intercettato ladri e animali al gual:io di un fiume, aveva messo fuga i guerriglieri ed era rientrato in trio rtfo . al villaggio di nu0 vo in possesso della mandria .

Era consuetudine ch'e ai militari fosse versato il dieci per cento del bottino ricuperato . Amedeo propose che i buoi destinati al suo reparto servissero per una festa fra soldati e abitanti del villaggio. Sceil< Yusef aveva accettato. Per formalizzare la rinuncia dei militari alla loro parte di preda, aveva invitatq il comandante dello squadrone nel suo tukul, l'aveva fatto sedere al posto d'onore su una poltrona sgangherata e ordinato alla figlia di lavargli i piedi in segno di ospitalità e ossequio , prima di offrirgli cibo e bevande .

La ragazza aveva assolto al rito con dignitosa grazia, con gesti quasi ieratici, che mettevano in risalto il .corpo fles- , suoso e i tratti delicati di un viso nobile, intenso, sostenuto , da un lungo collo tatuato . ' '

« Come ti chiami? >>le aveva chiesto Guillet .

<< Kadija . >>, aveva risposto, << ma il mio nome è Destà >>, · che significava allegrezza.

<< Perché non ti sei ancora sposata? >>

<< Perché debbo avere un capo per marito . Non l'ho ancora trovato. Ma lo troverò, prima o poi. Non temere . >>

Aveva parlato con fierezza, come se avesse voluto informarlo che l'inginocchiarglisi davanti non pregiudicava un rapporto di assoluta uguaglianza . Svolto il suo compito, si era alzata con movimenti che avevano qualcosa di felino.

64 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Aveva fissato negli occhi Amedeo, rimanendo un istante in piedi davanti a lui, come per farsi ammirare. Poi, voltandogli con sussiego le spalle, era uscita dal tukul con passo lento, tenendo un catino di ferro dallo smalto sfaccettato, in una mano, una brocca e la stoffa con cui gli aveva asciugato i piedi nell'altra.

Il festino era durato tre giorni. Ogni sera si faceva baldoria, quando attorno ai fuochi venivano distribuite grosse fette di carne ai civili e ai soldati. Era carne cruda o poco cotta, come piaceva agli etiopici, staccata a grosse fette dai quarti appesi degli animali, condita con berberè, un peperoncino mischiato con aromi. Spariva nelle bocche assieme a bocconi di angerà, un pane sottile come una cialda, accompagnato da grandi sorsate di tech, un idromele fatto con erbe fermentate, leggermente alcolico e rinfrescante. Nell'aria si spandeva l'odore del grasso bruciato, della carbonella e delle spezie. Dai fornelli improvvisati di terra battuta, s'innalzavano con gran scoppiettio voli di scintille che morivano subito, nel fumo biancastro che avvolgeva gli spiedi.

Guillet e Kadija, dopo il primo giorno di festa, s' allontanavano spesso dalla "folla; l'uno annoiato dalla lungaggine del convivio; l'altra per sorprenderlo, la sera, vicino alla tenda, avvolta nel suo scialle bianco bordato di ricami rossi e neri . Alle volte lo attendeva in piedi, statuaria; alle volte raggomitolata per terra, le braccia attorno ai ginocchi, il capo reclinato sulle braccia, in un abbandono di giovani membra che si stringevano affettuose le une alle altre.

Quando le passava davanti, Amedeo le chiedeva:

« Allora, l'hai trovato il tuo capo? >>

<< Forse sl >>,rispondeva lei, senza scomporsi.

<< E chi è questo fortunato mortale? >>

<<Sei tu .>>

<< Kadija, non ti sembra di montarti la testa? Anch'io, in questo caso, avrei qualcosa da dire. >>

Le parlava in tono scherzoso, paternalistico, ammiccando, senza però riuscire a nascondere un certo imbarazzo,

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misto al piacere che gli procurava quella proposta sfacciata e allo stesso tempo innocente. Poi, senza salutarla, le chiudeva il telo d'entrata della tenda sul viso. Dall'interno, attraverso lo spiraglio di luce che questa lasciava trapelare, ved eva Kadija allontanarsi dopo qualche minuto di incerta attesa, solo per fare puntualmente ritorno la sera successiva .

Se si incontravano nel villaggio, durante il giorno, gli riusciva più facile prenderla in giro .

«Allora, l'idea çhe il capo, per marito, çe lo devi scegliere tu, ce l'hai sempre in testa?>> le chiedeva ridendo ! .

<<Sl>;, lei, con un cenno deciso del capo : Te- · neva il labbro inferiore stretto fra i denti, come una bambina imbronciata , indecisa fra il pianto e il sorriso , mentre ' giocherellava, nervosa, con le belle dita affusolate sui bordi ricamati dello sciamma . Non eran0 mani curate . Lo hennè rosso delle unghie era ' screpolato in più punti ma quelle mani tradivano, come tutto il portamento di Kadija, un carattere al tempo stesso dolce e volitivo .

Terminata la festa, squadrone e villaggio erano cipiombati nella routine. I soldati, in attesa di una nuova missione , governavano i cavalli, lucidavano le selle , oliavano le armi. I civili portavano al pascolo le mandrie, lavoravano i campi mentre le donne cianciavano dav!j!lti ai tukul occupandosi del cibo e della prole. Amedeo perlustrava la regione e reclutava soldati. Sceik Yusef voleva fa'r arruolare uno dej. suoi figli , nato dal matrimonio con una donna copta. Glielo , aveva presentato dicendogli: ,

<<Te lo affido , si chiama Asfao Hussein . E un bravo ragazzo . l>rendilo coi tuoi cavalieri , insegnagli a usare le artni e fanne un guerriero >>.

Con queste nuove reclute , lo squadrone si era messo in marcia per rientrare alla base, nei pressi dell'Amba Gheorghis . Lo snodarsi per alcuni chilometri di questa specie di tribù militare , offriva uno spettacolo strano, al tempo stesso antico e moderno, barbaro e disciplinato . In testa e sui

66 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

fianchi cavalcavano pattuglie di protezione. Seguiva Guillet su un cavallo bianco, abbigliato con un'uniforme di sua invenzione : giacca sahariana, larghi pantaloni alla turca che ricadevano sui sandali e colbacco d'astrakan nero sul capo. Portava a tracolla un mitragliatore Mauser da mari- . na e un trombettiere caracollava al suo fianco. Lo precedeva, in avanguardia, una squadra guidata dal muntaz Salem Ben Amor Kaskas, un vecchio spahis che lo aveva seguito dalla Libia in Etiopia; alle sue spalle avanzava il suo picco- · lo stato maggiore, formato da graduati indigeni ed europei. Seguivano i vari reparti, gli animali da soma - cammelli e muli - con le tende, le munizioni e le armi pesanti. Infine, a piedi, venivano le famiglie degli indigeni recentemente arruolati, donne e bambini con ombrelli aperti per ripararsi dal sole e sottolineare la loro posizione sociale. I soldati più anziani formavano la retroguardia.

La disciplina nella colonna era compito del sergente maggiore Saggiamo, un sottufficiale che incuteva timore e rispetto per la sua corporatura, per il suo coraggio, ma soprattutto per la sfida che intenzionalmente lanciava al malocchio . Montava, infatti, un cavallo che nessuno voleva per via di una berrima cresciutagli sulla groppa: un segno raro, formato da lunghi peli, attorcigliati a vite. Quando appariva sul petto e sugli arti anteriori del cavallo, era, per gli indigeni, indice di buon augurio; sui posteriori, di morte.

Al forte, all'Amba Gheorghis, Guillet venne a sapere che fra le donne c'era anche Kadija. La mandò a chiamare e le ·chiese che cosa facesse nel<< reparto >>famiglie.

<< Seguo mio fratello >>, rispose altezzosa .

Perché non ci fossero dubbi sulle sue capacità di dividere con gli uomini le fatiche della vita militare aggiunse di saper montare a cavallo e di sparare come un soldato .

<< E che, dovrei creare per te uno squadrone di amazzoni? Torna subito da tuo padre che ti rimetterà la testa a posto. »

KADIJA 67

« Io non torno e tu non puoi darmi degli ordini. Io non sono cosa tua . Sto qui con mio fratello e ci resto. ·»

A Amedeo la situazione cominciava a dar fastidio . Anche se non fosse stato il comandante del reparto, quel corrergli della figlia ai un capo, bella e che non nascondeva le proprie intenzioni, sollevava curiosità e chiacchiere fra gli ascari.

Prendersi un donna africana per compagna era consuetudine corrente fra gli ufficiali dei reparti indigeni e i funzionari dell'amministrazione coloniale. Aveva persino un nome specifico, « ·madamismo >>,e regole non scritte . Prima dell'introduzione delle leggi razziali, esse obbligavano moralmente l'europeo a riconoscere i figli nati da queste unioni, estendendo loro automaticamente la cittadinanza italiana. Nel 1938 quest'uso non fu più permesso: il<< madamismo >>comportava l'immediato rimpatrio dell'uomo e ' l'abbandono, spesso in condizioni drammatiche, della donna.

Amedeo temeva queste complicazioni . Ancor più temeva che un legame del genere potesse intralciare la sua liber-' tà d'azione e la sua autorità di comando. Gli sembrava soprattutto che un'unione prolungata, in colonia, con una donna fosse 'agli impegni presi nei confronti della fidanzata in Italia. , Kadija, però, non mollava . Si piazzava nei pressi della sua tenda e lo aspettava a volte per ore, seduta su una cassetta, chiacchierando con chi le passava vicino, per nulla imbarazzata dalla corte che pubblicamente gli faceva. Aspersino un atteggiamento di superiorità verso le altre donne, conscia del sue rango e del fatto che lo scopo che si prefiggeva non contrastava con le convenzioni locali.

Questo atteggiamento fra l'ingenuo e il birichino, suscitava in Amedeo più allegria che attrazione sessuale.

« Cosa nascondi in quella cassetta? >> le chiese una volta, bonario.

68 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GIJILLET

«D mio corredo>>, rispose lei con orgoglio. «Vuoi vederlo? » E senza attender risposta, aprlla cassetta e ne sciorinò il contenuto .

Sull'interno del coperchio aveva appiccicato la fotografia di una bionda, ritagliata da un rotocalco italiano . Probabilmente, rappresentava l'ideale femminile a cui aspirava. Oltre a quel tesoro, c'era una collezione di oggetti, i più disparati: pennini, pinzette d'argento per estrarre le « pulci penetranti » da sotto le unghie dei piedi, - disturbo a cui andavano soggetti gli indigeni che si recavano a piedi nudi nei' pressi dei pozzi- sciamma di garza bianca bordati di ricami, specchietti e tagli di stoffa . Li spiegava per terra davanti a lui, come se fosse stata al mercato, convinta di poterlo impressionare con quelle ricchezze.

Amedeo la guardava con aria ironica, divertito e imbarazzato al tempo stesso .

<< E va bene >>, le diceva, << ora che mi hai mostrato tutta questa bella roba , riponi il tuo corredo nella cassa e torna da tuo fratello. >>

Kadija raccoglieva in silenzio le sue masserizie, le riponeva con cura nella cassetta, e poi, senza alzare gli occhi da terra, senza salutare, ferita nel suo orgoglio di donna, tornava al campo delle famiglie indigene.

Non avendo ottenuto l'effetto sperato, dopo qualche giorno di assenza Kadija si fece più ardita e chiese di entrare nella tenda .

<<Perché?» le domandò Amedeo seccato per l'intrusione.

<< Perché voglio stare con te >>, rispose, senza impudenza e con un'espressione fiera negli occhi.

« Torna da tuo fratello >>, si sentl ordinare, in tono che non ammetteva replica .

Kadija questa volta non seppe nascondere la rabbia. Sbatté con forza il coperchio della cassa, se la caricò sulle spalle, gli rivolse uno sguardo rancoroso, animalesco, e arapidi passettini scomparve.

KADIJA 69

UvENÈ Tessemmà non era un ribelle comune. Portava il ti, tolo difitaurari che, nella gerarchia militare etiopica, significava « ' comandante dell'avanguardia >> e in quella civile « fedele all'impenatore >>. Nelle prime settimane dell'invasione italiana, quando era ancora un semplice barambaras (comandante di un forte) si era creato un alone di gloria e di leggenda, saltando su un carro armato leggero e uccidendo i due militari italiani che l'occupavano. Terminata la guerra, era stato uno dei primi ad aderire alla ribellione. Assieme al fitaurari Mefin, con duemila uomini, operava nei distretti di Ermaciocò e Tseghedè, disturbando le comunicazioni fra Gondar e l'Asmara. Un ufficiale inglese che si teneva in contatto con lui lo aveva descritto in un rapporto come <<un bell'uomo dall'aspetto imponente, piuttosto giovanile, ma malaticcio ». .

Per ' gli italiani rappresentava un pericolo e una sfida. Avevano messo una grossa taglia sulla sua testa e promettevano ricompense a chi desse notizie utili per la sua cattura. Definito << bandito contrabbandiere >>, si era specializzato nell'attacco ai convogli: uccideva gli autisti e si impadroniva dei carichi. Le informazioni su di lui non mancavano, ma servivano a poco, non perché fossero false, ma perché Tessemmà maneggiava con astuzia gli stessi informatori di cui si servivano gli italiani . Tramite loro, si faceva inseguire, nella direzione sbagliata o giusta ; ma in anticipo o in ritardo.

Gli indigeni avevano dato a Tessemmà un soprannome, amàrà (avvp ltoio). Assistevano muti e ironici alle inutili ga-

L'AVVOLTOIO

loppate del XIV Gruppo, beffato da un guerrigliero che, nonostante i metodi spicci con i quali imponeva la collaborazione alla popolazione locale era diventato popolare e si era fatto una fama di invincibilità.

Guillet, dopo essere stato più volte giocato da lui, aveva incominciato, carta topografica e matita alla mano, ad analizzare il modus operandi di Tessemmà. Gli pareva di individuare una costante nei suoi movimenti: quella, cioè, di spostarsi in direzione opposta a quella comunicata dai suoi informatori agli italiani. Tattica che poteva essere dettata da necessità logistiche ma forse anche da un certo tipo di cultura che privilegiava il già sperimentato sull' innovazione . Non si trattava di mancanza di coraggio o di risorse, ma di innata diffidenza per il cambiamento . Era una tendenza propria delle società tradizionali che Guillet aveva già notato in Spagna, dove la ripetitività d'espressione, nell'arte musulmana, sembrava attribuire un valore quasi magico ai modelli - grafici o architettonici - ritenuti perfetti.

Se il metodo con cui Tessemmà conduceva le sue operazioni era effettivamente influenzato dalla convinzione di aver trovato il sistema ottimale per combattere gli italiani, confrontando i tracciati dei suoi effettivi movimenti con le indicazioni diffuse ad arte per sviare gli inseguitori si poteva, forse, ottenere la chiave d'interpretazione della sua strategia. in base a un'ipotesi del genere, nella direzione opposta a quella suggerita dagli informatori, rappresentava, però, una decisione piena di rischi, in un momento in cui Guillet si trovava, temporaneamente, a capo dell'intero Gruppo, per la prolungata assenza del suo comandante .

Prendere un'iniziativa del genere, poteva dare alla popolazione locale l'impressione che volesse evitare Io scontro. In caso d'insuccesso, poi, il peggio sarebbe toccato a un capo etiopico, Arayà Gheremedin, da poco passato con la sua banda dalla parte italiana. Era un nobile che Guillet aveva fatto promuovere al rango di de;ac (comandante della retro-

L'AVVOLTOIO 71

guardia) , titolo che l'amministrazione italiana aveva vuotato di contenuto, ma che agli occhi degli indigeni conservava ancora una sua solidità. Una vittoria su Tessemmà, ottenuta coll'aiuto degli italiani, non avrebbe accresciuto di molto il suo prestigio ; ma la partecipazione a un'operazione in cui gli italiani si fossero coperti di ridicolo avrebbe rovinato la sua reputazione più di una sconfitta.

Guillet tuttavia, decise di seguire il suo istinto . Ricevuta la notizia, da informatori sospettati di essere manovrati dall'« avvoltoio », che Tessemmà ·si apprestava ad attaccare una certa zona ; si mosse con tutto il Gruppo in direzione ; contraria

Gli uomini del dejac Ayerà non erano i soli irregolari abissini che aveva con sé in quell'occasione . C'erano anche dei falascià , arruolati nel suo assieme con il loro ca-· po villaggio, di nome Tessalem . Erano ebrei etiopici, i antenat i avevano combattuto a lungo contro gli scioa , per difendere la , loro autonomia religiosa e politica . Militarmente battuti due secoli prima , erano considerati gente imbelle, obbligata a vivere sopr attutto in villaggi della zoria di , Gondar , alla mercé dei signori feudali locali.

Tessalem era un personaggio dignitoso . Non più giovane, alto e austero, girava sempre, come tutti gli ebrei osservanti , a testa coperta . Il suo copricapo ricordava quelli larghe tese dei predicatori protestanti deì film del' Far W est, ma lui, predicatore, certo non era .

Aveva chiesto a Guillet di insegnare ai suoi « l'arte della ' guerra >> , come i suoi correligionari in Palestina ave\[ano ' chiesto al Wingate : curiose coincidenze di cui è piena la storia e che gli storici non riescono mai a spiegare.

« Facciamo una prova» aveva detto Amedeo a lem. Se li era portati dietro in una scaramuccia coi ribelli e l'esperimento non era stato felice. Ai primi spari, i falascià se l'erano data a ·gambe, lasciando accanto a Guillet solo Tessalem, in groppa al suo mulo.

<< Questa volta sono scappati >>, aveva commentato il ca-

72 LA GUERRA
PRIVATA DEL TENENTE GUILLET
. , ' ·

po falascià, dopo lo scontro « ma la prossima non lo faranno, perché gli metterai dietro dei soldati coi fucili spianati>>.

Non ce n'era stato bisogno. I falascià avevano rapidamente imparato a combattere e marciavano accanto agli uomini di Arayà Gheremedin e ai cavalleggeri di Amedeo alla ricerca deWAvvoltoio.

Guillet non si era sbagliato. In una località chiamata Dongurdubà, in direzione quasi opposta a quella in .cui la banda di Tessemmà avrebbe dovuto trovarsi, gli uomini del . dejac che marciavano in avanguardia, furono fermati dal fuoco dei ribelli.

Un vasto pianoro separava gli squadroni del Gruppo dal bosco da dove giungevano, fitti, gli spari. Amedeo diede ordine a due squadroni del Gruppo di aggirare il bosco, per prendere alle spalle i ribelli. Mentre la banda di Gheremedin attaccava sulla sua destra lui, con lo squadrone comando, avrebbe impegnato il nemico di fronte . Ordinò di suonare la carica e distaccò di qualche decina di metri i soldati che lo seguivano , in file successive di plotoni, alcuni con le scimitarre sguainate, altri con i moschetti che tenevano con una mano sola, sparando.

Il sole era alto e l'aria calda. l cavalli lanciati al galoppo e sudati per la marcia, eccitati dalle grida dei cavalieri e dagli squilli di tromba , tendevano il collo, la bocca ricoperta di schiuma e le narici frementi. Gli uomini, anch'essi protesi nella corsa, inseguivano la macchia bianca del cavallo del loro comandante su cui si concentrava il fuoco del nemico, nascostò fra gli alberi.

Improvvisamente quella macchia scomparve . Colpito da una pallottola, il cavallo di Amedeo si era afflosciato , morente, sulle zampe anteriori. Il muntaz (caporale libico) Kaskas, che lo seguiva da presso, si gettò giù di sella offrendogli il suo cavallo e gridando : << Monta, comandante, monta! >>

Con un volteggio Guillet fu in sella . Prese Kaskas in

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groppa dietro di sé e affiancato dai cavalieri dello squadrone che li avevano raggiunti, riprese la corsa verso il nemico.

Quei cavalieri indigeni che, a ondate successive, si rincorrevano verso un nemico invisibile, sembravano più un'orda scaturita improvvisamente dal suolo che reparti di un esercito europe\). La rabbia e il turbamento provocati dalla caduta del loro comandante, si erano vasformaticon la sua riappari:done alla loro testa- in baldanza. Un'eccitazione di istinti barbari, ancestrali li spingeva a superarlo in quello sfrenato galoppo che aveva la vittoria per stimolo e la vendetta come. scopo. ' · ·

Al momento di entrare nel bosco anche il st;condo cavai- 1 lo di Amedeo vennè colpito. Si impennò con un nitrito e crollò a terra, tràscinan,do con sé i due cavalieri. Entrambi si rialzarono contusi ma indenni. Appiedato, sparando all' impazzata col suo mitragliatore di marina, Guillet prese a correre verso i ribelli nascosti fra gli alberi. Nel frattempo, i due squadroni mandati da lui ad aggirare il bosco, erano giunti alle spalle della banda dell'Avvoltoio . Avevano ucciso una decina di ribelli, fatto una sessantina di prigionieri, parecchi dei quali feriti. Non avevano catturato il loro capo.

Tessemmà, per quanto ferito alle gambe, era riuscito a fuggire buttandosi in un precipizio . Avrebbe ripreso a combattere ·solo due anni dopo, col ritorno del negus in EtioA Gondar, avrebiJe invitato alla resa il generale Nasi con un curioso messaggio in cui , ringraziava gli italiani per aver« trasformato le montagne, superato le valli, sbarrato i fiumi » e di cui « per mille anni i figli dei figli dei figli ricorderanno l'opera ».

Era la prova che si trattava di un personaggio ben diver·SO dal volgare bandito descritto dalla stampa italiana. C'era in lui, come in molti etiopici, un forte senso dell'onore a cui Guillet era sensibile. Per questo gli ripugnava obbedire all' ordine, diramato da Roma, di passare per le armi tutti i ribelli catturati con le armi in mano.

74 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE
GUILLET

Il giorno dopo lo scontro, Guillet riunl i superstiti della banda dell'Avvoltoio . Davanti a quelle decine di uomini laceri, sporchi, alcuni ancora sanguinanti per le ferite, provò un senso di ammirazione e di vergogna per il loro contegno fiero . Volti impassibili, da cui non trapelava né odio, né paura, né dolore, gli parevano esprimere l'altero fatalismo di guerrieri pronti ad accettare la propria sorte . Decise sul momento di tenere loro un discorso poco conforme alla politica in vigore.

«Il vostro capo >> disse, «vi ha trascinati nell'errore. Vi ha fatto credere di combattere per una giusta causa e di essere invincibile . Invece la sua causa non è giusta e io sono più forte di lui . >>

Fece una lunga pausa, guardando uno dopo l'altro, fisso negli occhi, i prigionieri, come se avesse voluto intavolare cori ciascuno di loro un dialogo personale e assicurarsi, se non avevano afferrato il significato delle sue parole tradotte dall'interprete, che ne avessero almeno colto il senso dal suo sguardo. Poi riprese a parlare lentamente, arrestandosi alla fine di ogni frase e scandendo ogni parola .

<< Come ribelli dovrei passarvi per le armi. Potrei inviarvi a Gondar, dove sareste giudicati e probabilmente fucilati. Questa è la legge della guerra; questo il prezzo della ribellione. Ma sono un soldato che sa apprezzare il coraggio . Dal modo in cui vi siete battuti so che siete dei coraggiosi. Vi offro di arruolarvi nei miei reparti. Avrete una bella divisa, una buona paga sicura. Combatterete accanto a uomini coraggiosi come voi. Ma vi avverto : chi mi tradirà avrà da fare i conti con me. Lo raggiungerò, per punirlo, in capo al mondo. »

I prigionieri ·ascoltavano in silenzio. Si scambiarono qualche parola fra loro, poi il più anziano si fece avanti e chiese un giorno di tempo per dare una risposta.

Prima dello scadere del termine tutti avevano accettato di arruolarsi.

L'AVVOLTOIO 75

Nel combattimento c'erano stati morti e feriti fra i cavalleggeri e fra gli uomini del dejac.

n giorno prima, finito il combattimento, sepolti i cadàveri nemici, coi propri morti legati alle selle, con i prigionieri indenni che trasportavano i feriti delle due parti - curati alla meglio dal tenente medico Tullio Di Battista, che aveva partecipato alla carica - su lettighe improvvisate, la colonna si era messa lentamente in marcia per rientrare allà base. Oltre ai feriti, c'erano stati cinque morti fra i cavalieri del Gruppo, tra cui il sergente maggiore che aveva voluto sfidare il malocchio, e Mussa, un ascaro musulmano devoto come un'ombra a Guillet.

I cavalieri del Gruppo, di tanto in tanto, prorompevano in un canto di loro invenzione. Era una nenia che suonava all'orecchio di Guillet come << Le ho !è scimbihà', largo Savoia» (andiamo coraggiosi, largo Savoia), e gli pareva ritmass·e l'andatura dei cavalli.

Arrivati in vista del campo, gli ascari ,presero a scaricare in aria i fucili per annunciare la vittoria . Gli anziani, che li attendevano fuori dall'accampamento, s'avvicinarono correndo seguiti dalle donne, molte con bambini in braccio. Quando i due gruppi s'incontrarono, l'ordine di marcia si ruppe in un frastuono di grida e di pianti, in una confusio- . ne di esseri umani e animali, di vivi e di morti, che sollevava un gran polverone.

Amedeo scorse nella piccola folla la moglie ài Mussa. Le andò incontro a cavallo e lei, già da lontano, comprese il significato di quell'attenzione. Si mise a gridare hainè, hainè, curvandosi a raccogliere manciate di terra che si gettava sul capo.

Guillet era sceso da cavallo . L'aveva abbracciata e se la teneva singhiozzante vicino. Attorno a loro s'era ·fatto improvvisamente silenzio . Alcune donne, levatesi di dosso gli sciamma, avevano avvolto l'ufficiale e l'indigena con un improvvisato paravento di intimità , dietro il quale potessero dar libero sfogo al dolore .

76 LA GUERRA PRIVATA
DEL TENENTE GUILLET

« Mia cara >>, le mormorava << Mussa era un bra- · vo, un coraggioso soldato e un amico. E caduto da valoroso e io ne provo grande dolore. >>

Lei faceva cenno di sl colla testa e, singhiozzando, la reclinava sulla tunica sporca e macchiata di sudore dell'ufficiale . Poi si staccò da lui e andò a indossare la giacca insanguinata del marito, com'erano use fare le vedove per indicare che, per qualche giorno, i morti erano ancora con loro.

Data sepoltura ai caduti, provveduto allo smistamento su Gondar dei feriti, passata l'ebbrezza della battaglia, Amedeo si era sentito mancare le forze . Il corpo risentiva delle due cadute da cavallo; lo spirito risentiva, ancora di più, della scomparsa di Saggiamo, di Mussa e degli altri, che aveva condotto alla morte.

Disteso sulla branda, gli occhi chiusi, non si accorse che Kadija lo aveva seguito nella tenda e che se ne stava rannicchiata accanto alletto. Quando prese a slacciargli i sandali, la lasciò fare. Non aveva la forza di scacciarla né la volontà di nascondere il proprio dolore. Kadija piangeva silenziosamente, mentre lo spogliava. Gli lavò il viso, lo ricopri con una coltre, prese ad accarezzargli il corpo, senza parlare. Da quel giorno non si allontanò più dal suo fianco.

Nelle operazioni contro i ribelli lo seguiva a cavallo- come una piccola Anita Garibaldi, diceva lui - sparando dalla sella e incitando gli uomini al grido di haiè, haiè (orsù, orsù). Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, nel giugno del 1940, Kadija, colle famiglie degli ascari, si era installata nelle retrovie dove agiva coll'autorità di << rappresentante civile» del Cummundar-as-Shaitan . Si incontrava con lui nelle pause dei combattimenti e lo aveva anche seguito, senza esitare, nella rivolta contro gli inglesi.

Di questa vita in clandestinità la donna serbava solo un ricordo che per mesi l'aveva perseguitata come un incubo: l'incontro, sulla strada di Ghinda con l'inglese della jeep .

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Seduta in groppa al cammello dietro Amedeo, Kadija era - quel giorno - l'unica donna fra una ventina di uomini, all' apparenza normali paesani. Con le armi nascoste sotto i basti, carichi di legna e di erba, vestiti di misere fute, procedevano in fila indiana, al passo ritmato dei cammelli che a lei , quando il suo corpo toccava la schiena di Amedeo ,.da. va un senso di intenso languore.

Tutto sembrava tranquillo , in quel pomeriggio. Improvvisamente, dietro un dorso di collina, avevano visto avanzare, ancora lontane, due jeep che sobbalzavano sulle pietre. Non le avevano sentite arrivare perché il vento, che soffiava alle loro spalle , aveva attutito il rumore dei motori. Erano ormai troppo vicine per tentare di nascondersi o fuggire senza destare sospetti .

Quando il loro cammello, in testa alla colonna, fu a quale che metro di distanza dal primo veicolo, lo sguardo dell'ufficiale inglese che sedeva accanto all'autista incrociò quello di Amedeo . Non fu .pronunciata 4na parola. L'inglese - era ,un capitano, di - si alzò di scatto sul sedile, impugnò un mitragliatore e aprl il fuoco. Una pallottola forò il turbante di Amedeo senza scalfirgli la testa; un'altra segnò di striscio la gamba di Kadija.

Spaventati, i cammelli sbandarono accavallandosi e , segueado quepo di Guillet, si gettarono nel burrone che co' steggiava la pista. , '

Kadija si teneva stretta a Amedeo mentre entrambi ruzzolavano a terra assieme alla bestia. Dietro di loro ragliavano gli altri cammelli, alcuni dei quali erano feriti, mentre intorno continuavano a fischiare le pallottole .

Una volta al riparo fra i massi, stupiti di non essersi rotte le ossa in quella fuga, riuscirono a estrarre le armi e rispondere al fuoco. Lo scontro continuò finché l'inglese riprese la sua strada . Era , comunque, un miracolo che Guillet e i suoi fossero ancora vivi. '

78 LA GUERRA PRIVATA DEL
TENENTE GUILLET

Molti . anni dopo Amedeo, incaricato d'affari in Arabia Saudita, s'incontrò con Gibbs, nominato nel frattempo consigliere economico di Ibn Saud. Diventarono amici, dopo essersi scoperti protagonisti di quello scontro, e Amedeo gli chiese perché avesse agito in maniera cosl impulsiva contro un cammelliere sconosciuto e la sua donna.

« Per puro istinto, senza rendermi conto di ciò che facevo . Quando ti ho fissato negli occhi, qualcosa dentro di me mi ha dato la certezza che eri l'uomo che cercavamo. Sono felice di non avervi colpiti ma continuo a chiedermi come siate potuti sfuggire ai miei colpi. >>

Kadija, invece, lo sapeva : era stata la volontà del destino . Lo stesso destino che le aveva fatto incontrare Guillet, che aveva deviato la pallottola dell'inglese nel turbante di Amedeo, che aveva spinto i cammelli a gettarsi nel burrone, senza che nessuno di loro si rompesse il collo.

Destino, baraka, fortuna. Tutto è scritto e quello che è scritto non può essere cambiato. Come la sua sorte che, dopo quel giorno, considerò ormai unita per sempre a quella di Amedeo.

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LE BANDE AMHARA A CAVALLO

DISTESO sul dorso, col piede ferito appoggiato su un sasso, avvolto in un lembo della coperta che aveva steso per terra, Amedeo era corso da brividi . Sperava fossero provocati solo dal freddo della notte, e che non annunciassero un altro degli attacchi di malaria a cui andava soggetto. Quando si affaticava troppo, la febbre lo avvertiva che il suo fisico era giunto al limite delle possibilità di resistenza: chiedeva pietà per le membra incapaci di obbedire alla volontà.

Attorno a lui, distesi o accoccolati per terra, i suoi compagni riposavano. I feriti tacevano, assopiti, dopo essere stati sommariamente ·medicati, dominando stoicamente il dolore . La banda se l'era cavata ancora una volta. Ma per quanto tempo avrebbero potuto continuare quella guerriglia? Un mese? Due? Ogni operazione li avvicinava alla fine, perché gli inglesi intensificavano la caccia.

I luoghi dove nascondersi, rifornirsi di cibo, far curare i feriti, si facevano più rari. Mancavano ormai di tutto, fuorché di munizioni : Amedeo ne aveva disseminato un po' ovunque in Eritrea per dare maggiore mobilità al Gruppo di Bande a cavallo .

La scomparsa del cavallo Sandor e dell'ascaro che l'aveva in consegna rompeva un altro legame con i reparti con i quali si era illuso di poter cambiare il corso della guerra . La grande unità che aveva creato era ridotta a una banda di ribelli braccati. Gli sembrava di appartenere a un passato cosllontano da non poter ricordare esattamente quando tutto era cominciato . Probabilmente era stato nel febbraio del '40, quando in Africa tutti si dicevano convinti che Musso-

lini non. avrebbe coinvolto l'Italia nella europea. L'Impero non era in grado di affrontarla, aveva detto al duce il viceré d'Etiopia che gli aveva ricordato le cifre compilate dallo Stato Maggiore quanto alle magre disponibilità di armi, aerei e trasporti.

Per difendere un territorio grande cinque volte l'Italia e in parte non ancora pacificato, le forze militari al comando del viceré disponevano di 367 cannoncini da 20 millimetri, 388 pezzi detti da campagna, in gran parte someggiati per truppe alpine, di 93 caimani veri e propri, residua ti della prima guerra mondiale, e di 81 mortai. Le truppe corazzate disponevano di 39 carri leggeri armati di una mitragliatrice, 24 carri medi e 126 autoblinde, in parte autocarri protetti con scudi d'acciaio. Per l'intero esercito aveva 3300 mitragliatrici, preda bellica della Grande Guerra. L' aviazione disponeva di 244 aerei efficienti di ogni tipo e 81 in riparazione. Il parco trasporti contava 6000 autocarri . Solo di fucili c'era una certa abbondanza : erano 600.000, in parte provenienti dlÌi depositi dell'esercito del negus. Di automatici ce n'erano ;n tutto e pertutto 5300.

Erano cifre ridicole , di cui Mussolini sembrava essere perfettamente al corrente. Infatti a Roma, prima dello scoppio della guerra, aveva risposto al Duca d'Aosta che gliele sciorìnava, puntandosi il dito sul cranio pelato, che per farlo partecipare al conflitto << avrebbero dovuto tirarlo per i capelli >>.

La battuta, subito resa nota, era stata ripetuta a iosa dagli italiani delle colonie consapevoli del fatto che entrare in guerra contro l'Inghilterra, a quattromila chilometri di distanza dal territorio nazionale, sarebbe stata, per l'Impero, una follia .

Per gli inglesi, invece, queste cifre erano paurose.

Il generale Platt, caid del Sudan, ancora all'inizio del 1940 prima di disporre degli ingenti rinforzi che Londra gli av rebbe fatto pervenire, sei mesi dopo, ricordava al Cairo che tutto ciò che poteva mettere in campo contro gli italia-

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ni era una squadriglia di aerei Vinçent e« mille fucili >>. Secondo il suo servizio informazione gli italiani avrebbero potuto disporre di 92.731 militari bianchi e 250 .000 indigeni al primo agosto dello stesso anno, dopo la promulgazione dell'ordine di mobilitazione generale. Ciò che poi spaventava soprattutto gli inglesi era la presenza di otto sommergibili e sei cacciatorpediniere leggeri nel porto di Massaua, che avrebbero potuto intercettare l'arrivo di rinforzi dall'India. L'unica cosa che gli inglesi non sapevano -e se l'avessero saputa non avrebbero creduto ai rapporti dei loro agenti - era che nonostante questa enorme superiorità iniziale, nei colloqui avuti a Roma con i più alti responsabili militari e con Mussolini, al Duca d'Aosta era stato ordinato di mantenere « le forze armate dell'Impero strettamente sulla difensiva >>•.

Con questa disposizione trionfava la tattica del nuovo capo di stato maggiore nell'Africa Orientale, Claudio Trezzani, uomo freddo, uno dei pochi militari italiani di alto rango che non avessero mai partecipato a una campagna coloniale, scolastico, brillante professore alla Scuola di Guerra.

Quando il marconista aveva portato a Guillet l'ordine di recarsi a Gondar, dal generale Frusci, governatore dell' Amhara, a tutto egli poteva pensare fuorché a una missione offensiva di guerra. Sperava, dopo due anni di lotta contro i ribelli etiopici, di ricevere un incarico temporaneo in Italia, dove avrebbe potuto rivedere Bice, e - finalmentesposarla

Il generale Frusci, che in seguito avrebbe assunto il comando dello scacchiere nord, conosceva Guillet da tempo. L'aveva incontrato per la prima volta, a Roma, in casa del principe Prospero Colonna, pochi giorni dopo essere stato designato al comando della Divisione Fiamme Nere che Mussolini inviava in Spagna a combattere con Franco. Gli era piaciuto quell'ufficiale, arrivato fresco in licenza dall' Africa, che spiegava la situazione in"Etiopia in maniera

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DEL TENENTE GUILLET
. .

molto diversa da come la descrivevano al ministero della Guerr a. Gli aveva proposto di seguirlo in Spagna e Amedeo aveva accettato. , A due riprese l'aveva nominato suo aiutante di campo . Si era però accorto che il lavoro d'ufficio non era per lui . L'aveva lasciato libero di fare le sue esperienze di guerra prima in un reparto di carri armati, poi con un gruppo di Arditi e infine in un tabor di cavalleria marocchina . Dal modo con cui aveva assolto missioni rischiose- che italiani e spagnoli avevano premiato con medaglie ·al valore · - Frusci aveva tratto la convinzione che Amedeo fosse l'uomo ad.atto per il compito che voleva affidargli: la creazione e il comando di una grande unità indigena, mobile, autonoma, da pastoie burocratiche, idonea per una guerra che il generale riteneva sarebbe stata combattuta in Africa con movimenti rapidi, su grandi distanze .

GuU!et aveva accolto la proposta con entusiasmo. Era un incarico da colonnello . Se non gliene dava il grado, per via della sua situazione di scapolo, rappresentava un riconoscimento delle sue qualità militari. Gli permetteva, soprattutto, di mettere alla prova le sue teorie sulla guerra coloniale , la sua convinzione che, in questo genere di conflitto, occorresse affidare a giovani ufficiali , dotati di carisma, conoscenza delle lingue locali e spirito di iniziativa, nuclei speciali di truppe indigf!ne . Forrnare quello che il linguaggio burocratico militare definiva « nuovi strumenti di guerra dotati di particolari caratteristiche d'addestramento , autonomia, aggressività e mobilità >>, e che, in pratica, nessuno aveva, sino a quel momento, voluto o potuto creare .

Per otto giorni Guillet e Io stato maggiore di Frusci ne avevano discusso i dettagli, i compiti e gli organici. A molti ufficiali superiori poco piaceva l'idea dì affidare ·a un tenente l'equivalente di una brigata- quasi duemila uominiforniti di basi e salmerie proprie. Pareva loro assurda l'idea che un subalterno , sia pure conoscitore dell'ambiente locale, potesse assoldare centinaia di indigeni, in zone ancora

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infestate dai ribelli, acquistare sui mercati migliaia di animali da soma e da guerra, in un momento in cui l'amministrazione militare incettava tutto il bestiame su cui poteva mettere le 'mani . All'incredulità si univa anche l'invidia, e alle difficoltà tecniche la scarsezza di fondi. Eppure, in due mesi, il Gruppo Bande amhara a cavallo - Amedeo aveva voluto sottolineare coll'aggettivo amhara (dal nome della lingua nazionale etiopica) il fatto che i suoi reparti erano formati in gran parte da nuovi « sudditi >> dell'Impero - era nato.

Uomini e quadrupedi se li era andati a cercare di persona nei villaggi etiopici; aveva arruolato indigeni di ogni etnia e religione - ex ribelli , yemeniti, libici, eritrei, contrabbandieri sauditi, conoscitori del Sudan, dove prevedeva che il Gruppo avrebbe operato - contrattato sui mercati il prezzo dei cavalli, dei cammelli, dei muli . Aveva trascorso serate nelle abitazioni dei capi villaggio a spiegare loro , dopo lunghi pasti e interminabili conversazioni sul tempo, sui raccolti e sulla genealogia delle tribù, i vantaggi che l'arruolamento avrebbe assicurato ai volontari e alle loro famiglie: buona paga, prestigio, conquista di onor i sul campo di battaglia per sé e per il loro clan.

Se era riuscito, in poche settimane, a mettere in piedi quattro bande, di duecento cavalieri ciascuna, una quinta appiedata di quattrocento fanti e una sesta di duecento meharisti, lo doveva alla fama di<< Comandante Diavolo .>>. ll soprannome, ormai noto in buona parte dell'Eritrea e del Tigrai, lo precedeva anche in zone dove non aveva mai combattuto, ma di cui conosceva le usanze e nelle. quali aveva sempre trattato con grande rispetto i notabili indigeni.

Scosso dai brividi, non sapeva se stesse sognando o delirando mentre si dibatteva fra il dolore fisico e i ricordi che lo assalivano. Erano visioni che sembravano uscire da coltri di nebbia che gli appannavano la mente e la vista. Nella notte chiarissima, non riusciva a distinguere gli oggetti più

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TENENTE GUILLET

vicini. Confondeva uomini e rocce, li dissolveva in ombre mostruose che poi riprendevano forme reali. Nei momenti .;li lucidità rivedeva Sandor, il qtvallo da guerra, che aveva scelto per quel suo modo orgoglioso di arcuare il collo e piegare la testa .

Rivedeva gli squadroni schierati dietro le insegne che aveva disegnato e poi affidato ,a ogni reparto. Nel turbinio , sconnesso di immagini, gli apparivano, come in un grande affresco che aveva l'Africa come sfondo, i volti dei compagni che l'avevano seguito in quella avventura: Pietro Bonuta, primario•dell'ospedale ·di Agordat; Carlo Cali, vice direttore dell'Istituto sierobatterÌologico dell'Asmara, un veterinario altoatesino che gli ascari chiamavano « Gondt:and >> (la ditta specializzata in traslochi) per la sua corporatura; Angelo Majorani, avvocato all'Asmara, un arabista e africanista che aveva abbandonato il suo studio per fargli da interprete e topografo ; Fortunato Cirianni, un maresciallo pròmosso sottotenente 'slli campo ; Ambrogio Mattinò, funzionario ' del ministero dell'Africa i,taliana, suo ' aiutante maggiore .

A Guido Battizzocco, ufficiale di complemento degli AIpini, aveva affidato la banda cammellata; a un ex-insegnante di scuola media, Filippo Cara, la III banda a cavallo; ad Alberto tenente effettivo per merito di guerra, la rv. ll più anziano fra i suoi tenenti era Renato Togni, un amico d'infanzia che non l'aveva voluto seguire all'Accademia di Modena, forse perché comandata a quell'epoca dal padre, generale. Preso dal mal d'Africa, era riuscito a trasformare, per merito di guerra, la propria posizione di ufficiale di complemento in quella di ufficiale di carriera e si era unito al Gruppo Bande.

Dov'erano, ora, questi suoi compagni d'armi? Per quanto riguardava i caduti, come T ogni, lo sapeva: sotto un metro di calda terra africana. Ma ·i vivi? Erano stati fatti prigionieri, oppure continuavano a combattere come lui in qualche parte dell'Impero perduto? E gli indigeni? Quanti

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di loro non erano più tornati ai villaggi, quanti erano tornati feriti e quanti, forse, si erano vergognati di tornare, per non ammettere di aver scelto il campo sbagliato e di essere stati battuti?

Nel sonno che finalmente aveva avuto il sopravvento sulla febbre e sul dolore della gamba ferita, Guillet si vedeva passare in rivista i suoi reparti. Stanchi, sporchi e fieri, avevano concluso , nel giugno del '40 , l'addestramento con una marcia di quattrocento chilometri . Avevano camminato per due settimane, senza soste, attraverso zone montagnose in mano ai ribelli ; avevano saggiato, al di là della frontiera sudanese, le inesistenti difese degli inglesi ; si sen- · tivano preparati alla guerra cui ora attendevano con impazienza di partecipare, senza immaginare che sarebbe tenninata in una sconfitta.

Le sei bande, quel giorno , gli erano sfilate davanti algaloppo e a passo di corsa, ciascuna col proprio gagliardetto, adorno di una coda di cavallo. Lo stendardo del comando di Gruppo ne portava quattro, appese al ferro di lancia, a forma di mezzaluna abbinata a una croce . Gli ufficiali erano i soli a montare cavalli bianchi, per meglio farsi ritrovare in battaglia da lui e dai propri soldati , nonché per una specie di sfida cavalleresc a al nemico .

A vederli tutti assieme , quei duemila indigeni sembravano un ' orda e all ' orda dei mongoli, Amedeo, si era ispir ato nel creare le insegne del Gruppo. Ma orda era stata solo all'inizio: man mano che i combattimenti le avevano assotti- · gliate, le bande si erano trasformate in un sodalizio d'onove, in un'intesa di uomini in armi di cui rimanevano, ora, soltanto le tracce , in quei guerriglieri braccati.

Come lui, sapevano di essersi illusi, credendo di poter mutare il corso della guerra; ma nessuno di loro poteva scordare la mattina del21 gennaio, quando, per un istante, sembrò che ci fossero riusciti.

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DEL TENENTE GUILLET

IL FORTE DI CHERÙ

NEL tardo pomeriggio del 20 gennaio 1941, il Gruppo Bande amhara a cavallo aveva fatto ritorno al campo di Awasciat. Gli uomini erano stanchi, silenziosi, provati meno dalla lunga ricogruzione oltre frontiera che dalla delusione per non aver trovato traccia del nemico . Fatica inutile, borbottava Guillet mentre si dirigeva verso il comando di brigata, al forte di Cherù. Aveva preso un cammello per coprire i pochi chilometri che separavano il suo accampamento clal forte: non se la sentiva di chiedere a Sandor, dopo una marcia di trecento chilometri compiuta in pochi giorni, un nuove sforzo notturno.

Amedeo era irritato dal modo in cui vedeva impegnato il sup reparto. Quella ricognizione in territorio nemico, condotta sulla base di informazioni imprecise, gli sembrava confermare le contraddizioni di cui soffrivano, dall'inizio, i piani degli alti comandi.

Da u'n euforico stadio offensivo, in giugno, subito dopo l'entrata in guerra contro l'Inghilterra, si era passati in gennaio a una precipitosa e tardiva ritirata . L'occupazione di Cassala, nel Sudan e di Berbera, la capitale della Somalia britannica, erano state ,operazioni di prestigio, imposte da Roma. Senza ottenete risultati importanti avevano sprecato le riserve di carburante e logorato mezzi di trasporto che, in luglio, quando il Sudan era ancora sguarnito di truppe, avrebbero invece permesso - secondo Guillet- di occupare i porti di Suakin e Tokat, sul Mar Rosso.

Chi avesse letto con attenzione le carte geografiche e valutato i problemi logistici del nemico, avrebbe capito che

questi erano i porti di .cui gli inglesi si sarebbero serviti per convogliare verso il Sudan i rinforzi allo scopo di parare a un'eventuale offensiva italiana. Ma chi conosceva in Italia i no;ru di quelle due località sperdute sulla costa africana? Nessuno. .

Di Cassala, presa con una brillante operazione di cavalleria comandata dal colonnello Fannucci, si poteva almeno dire che era << stata riconquistata >> con un'offensiva che cancellava << l'onta della ritirata >> di quarantacinque anni prima. n c'era senso nel sostenere che con la conquista della Somalia britannica si era strappata la prima gemma coloniale alla corona imperiale britannica . La verità era che, a Cassala e a Berbera, gli italiani avevano atteso per sei mesi, in una inutile e dispendiosa inerzia, la reazione degli inglesi.

Appena questa si era manifestata, le guarnigioni in territorio nemico avevano ricevuto l'ordine di ripiegare su posizioni meglio difendibili ma con un inesplicabile ritardo che aveva permesso agli inglesi di stare loro alle calcagna.

Anche su queste posizioni i generali avevano discusso a lungo, indecisi fra la necessità di ridurre la linea del fronte e la volontà di rimanere presenti sul territorio, il più esteso possibile, dell'Impero, per motivi di prestigio ma anche per proteggere una popolazione civile europea e indigena che spesso si rifiutava di abbandonare le località in cui lavorava .

Nel primo caso, si sarebbe potuto organizzare un'utile difesa in un territorio relativamente ridotto, salubre, con riserve agricole proprie, protetto da un'ininterrotta barriera di montagne . In quel territorio sarebbe stato possibile raggruppare buona parte delle famiglie dei coloni, dei funzionari e dei militari indigeni, giovandosi della topografia e della superiorità numerica per compensare la mancanza di armamenti moderni. Nel secondo caso, si trattava di disperdere questa superiorità numerica su terreni vastissimi

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in parte ancora in mario ai ribelli senza disporre di adeguati collegamenti fra di loro né di protezione aerea sufficiente .

Il compromesso raggiunto pçr accontentare il governo di Roma, tenendo anche conto delle pressioni e degli interessi economici locali, fu di creare quattro « scacchieri » difensivi. Distanti centinaia di chilometri l'uno dall'altro, avevano il difetto - anche quando si appoggiavano a montagnedi lasciare al nemico l'iniziativa dell'attacco, con forze sempre localmente superiori.

Nella terza settimana di gennaio le truppe, col morale già scosso dalle notizie del disastro subito dal maresciallo Graziani in Cirenaica, si stavano cosl titirando verso Cherù e Agordat, senza comprenderne la ragione .

In questa atmosfera tesa e confusa, Guillet non si aspettava di trovare a Cherù molta gente che avesse tempo di ascoltare il suo rapporto suJ.l'inutile ricognizione condotta nel Sudan. Sperava, tuttavia, di ottenere informazioni più precise sj.Ù nemico. Se aveva veramente fatto affluire nel Sudan tutte le truppe scozzesi; sudafricane e indiane di cui parlavano gli informatori dal Cairo, il confine con l'Etiopia, prima o poi, in qualche punto avrebbero finito per attraversarlo .

La delusione per non aver intercettato nessuna delle colonne nemiche, la stanchezza e la sorda irritazione si sfogavano sul collo del cammello che, incitato dai colpi di piede, allungava il passo . Dietro di lui, ondeggianti sulle selle, lo seguivano silenziosi due portaordini .

Entrato nel forte, Guillet non ebbe tempo di smontare di sella, che già un ufficiale gli chiedeva di recarsi dal comandante di Brigata . Avrebbe voluto chiedere il motivo dell'agitazione che avvertiva attorno a sé, ma dalla stanza attigua all'Ufficio Operazioni il generale stesso gli faceva cenno' di venire subito da lui .

Fongoli, al momento dello scoppio della guerra, doveva aver raggiunto la cinquantina, ma sembrava più giovane,

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Africa Orientale e regione del Mar Rosso alla fine della seconda guerra mondiale

per il modo spigliato con cui si muoveva e il volto privo di rughe. Benché arrivato di recente ' in Africa Orientale, nell' assumere il comando del forte di Cherù si era subito reso conto della complessità della situazione . Ad aumentare la sua angoscia per la sorte del settore di cui era responsabile, c'era l'ordine ricevuto, poco prima che Guillet entrasse nel suo ufficio, di evacuare il forte, dopo aver assistito le truppe in ritirata dalla frontiera sudanese . Gli pareva disastroso far muovere la guarnigione di notte e illogico abbandonare una posizione che riteneva di poter difendere a oltr,anza, non foss' altro che per ritardare l'avanzata del nemico.

Di questo suo stato d'animo non c'era però traccia nell' esposizione che fece al tenente di cavalleria, appena questi fu entrato nel suo ufficio e la porta fu chiusa alle sue spalle.

Stava cercando di capire, spiegò, da che parte stesse avanzando il nemico. Le ' informazioni trasmesse dall'Asmara, 'basate sulle ricognizioni aeree di due giorni prima, facevano supporre che se, effettivamente, gli inglesi avevano attraversato la frontiera in un punto solo, le truppe italiane in ripiegamento da Cassala su Cherù non sarebbero state in serio pericolo. Ma gli era appena giunta notizia che camionette inglesi avevano aperto il fuoco contro un battaglione sulla strada fra Barentù e Agordat, 'nella valle di Aicotà, dunque già a sud-est di Cherù. Ciò significava che il nemico era riuscito non solo ad aggirare, inosservato, il forte ma anche a occupaFe il passo di Adal, un valico strategico cosl incassato fra i monti che pochi soldati sarebbero bastati a bloccarlo.

Fongoli stentava a crederlo, perché aveva affidato la difesa del passo a 11n'intera compagnia di polizia coloniale, da cui non aveva avuto notizia di scontri. Non c'era però' dubbio che il battaglione era stato attaccato . Ciò faceva pensare a due possibilità , una più preoccupante dell'altra: che la guarnigione di Cherù poteva essere presa alle spalle;

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che le truppe provenienti dal Sudan, in ripiegamento verso il forte, rischiavano d'essere sorprese dagli inglesi in formazione di marcia e annientate .

Il generale non poteva sapere, in quel momento , che la compagnia di polizia coloniale, per un errore topografico ; invece di occupare il passo di Ada!, si era sistemata su un'altura vicina, dalla quale non controllava il movimento del nemico . Non poteva neppure sapere che le camionette che avevano attaccato il battaglione in ritirata sulla strada di Barentù erano solo una pattuglia avanzata dell' avanguardia inglese e che, sorprese per la facilità con cui avevano potuto raggiungere la valle di Aicotà , si erano precipitosamente ritirate, temendo una trappola .

Fongoli aveva sufficiente esperienza di guerra per capire che, non appena il nemico si fosse accorto che la strada per Agordat era mal difesa, si sarebbe gettato su di essa in forze. In tal caso, le colonne italiane in ritirata verso quella città rischiavano di essere tagliate fuori . Aveva il presentimento che qualcosa di estremamente grave stesse succedendo e ·che in gioco ci fosse la sorte di quasi diecimila uomini in ritirata e, forse, dell'intero scacchiere settentrionale .

Il generale spiegava tutto questo a Guillet con calma, senza tradire la tensione di un uomo che sapeva di trovarsi in una situazione forse disperata . Indicava sulla carta , col bocchino d'ambra che si era tolto di bocca, le posizioni presunte delle sue truppe e quelle possibili del nemico .

Teoricamente disponeva ancora di interi battaglioni , di batterie di cannoni, di magazzini pieni e di ufficiali pronti a eseguire i suoi ordini. Poteva chiedere all'Asmara di far alzare in ' volo dei ricognitori, di inviare rinforzi, ma non poteva cambiare le distanze che separavano le unità l ' una dall'altra. Non poteva, sopratrutto, penetrare nell'oscurità della notte e nelle intenzioni del nemico . Di una cosa era cosciente: la sorte <;Ielle truppe in ritirata ; come quella della guarnigione del forte, dipendeva dagli ordini che lui , per

92 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

mancanza di informazioni, non era in grado di dare. La carta di cui antora disponeva era il Gruppo Bande di Guillet, l'unico reparto in grado di spostarsi rapidamente e di < j agganciare >> gli inglesi . Inviare quei duemila uomini, stanchi, contro un nemico di cui non si conosceva l'entità né l'esatta posizione,, in piena notte, significav a invÌarli probabilmente alla morte. Ma il sacrificio di quei reparti poteva forse servire per guadagnare il tempo necessario e riprendere in mano la situazione.

« Guillet >>, chiese «credi di essere in grado di fermate, almeno per un giorno, l'avanzata degli inglesi?' >> ' ' 1. ' Amedeo non rispose subito . Non al generale che i suoi uomini erano tornati sfiniti dalla ricerca 'del nemico nella dirc;:zione sbagliata; che •bande a cavallo e a col loro armamento leggero, potevano, far pen poco contro truppe motorizzate, probabilmente accompagnate da carxi. Pensò, con compassione , ' ai suoi asqri ··che al campo di Awasciait , a quell'ora, dovevano aver appena finito di abbeverare i quaqrupedi e cucinare la cena, pregustando il piacere di una notte dopo tre •giorni dimw- ' eia . Immaginò la fatica e il tempo che ci sarebbero voluti per rimetterli in sella, lo sforzo che stava per chiedere loro. Provò anche un'infinita pietà per il generale che gli aveva parlato col tono di un uomo che consiglio, non di un superiore che impartisce ordini. Non osava in faccia. Sentiva che 'g!i occhi di! Fongoli lb stavano scrutando per leggere sul suo volto la risposta che .le labbra non avevano ancora formulato. Continuò a fissare la carta stesa sul tavolo, come da quell'ultimo esame dipendesse la sua decisione. ' 0 ;, '

Fongoli non si sarebbe stupito di ricevere una risposta esitante o persino un ragionato rifiuto. Si rendeva conto che le bande erano fatte di soldati che avevano bisogno di cibo e di riposo come ogni altro essere umano; che ill0ro comandante sarebbe stato in diritto di chiedergli perché proprio la sua unità , con tutte le truppe che l'Alto Coman- '

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do aveva a disposizione , doveva rimettere in moto la grande macchina militare che si era inceppata.

Quando Guillet alzò gli occhi dal tavolo e disse:« Farò il necessario, generale », Fongoli fu colpito, più che da quelle poche parole, dal tono sommesso, pacato, sicuro con cui erano state pronunciate. Capì che sarebbe stato presuntuoso chiedergli in che modo intendesse eseguire la missione e inutile ascoltare - se ce ne fosse stato il tempo - il rapporto che quell'ufficiale sudicio, coi piedi nudi infilati in un paio di sandali, era venuto a fargli sulla sua fallita missione nel Sudan . Tutto questo non aveva ormai importanza: ciò che contava era come arrestare gli inglesi e la risposta poteva dargliela solo Guillet, uno o due giorni dopo, ammesso che fosse tornato vivo al forte.

Senza parlare, gli tese la mano e la tenne stretta nella sua pér un lungo momento. Era un gesto che esprimeva fiducia, incoraggiamento e speranza per entrambi. Avrebbe voluto aggiungere qualche parola. N on ne trovò di adatte e si limitò a rispondere al saluto del tenente, portando la mano alla fronte con un movimento che sembrava un inizio di segno della croce. ,

Così, almeno, parve a Guillet. Quel gesto lo riportò indietro di anni, quando all'Accademia militare- o forse al liceo- leggeva Guerra e pace di Tolstoj.

Strano, pensò, come Fongoli si trovi nel bassopiano eritreo in una situazione simile a quella di Kutuzov al comando delle truppe russo-austriache, fra le montagne boeme, centocinquant' anni fa. Rischiava di essere accerchiato dagli inglesi a Cherù come il generale russo aveva rischiato d'essere accerchiato dai francesi, a Krems. A lui, Fongoli chiedeva, come Kutuzov aveva chiesto al principe Bagration, di sacrific arsi, se necessario, con i suoi soldati per dargli il tempo di far ripiegare il grosso delle truppe.

L'essere chiamato a ripetere, non sulla lavagna di un' aula d'Accademia ma sul campo di battaglia, a migliaia di chilometri dall'Europa e con soldati ugualmente sfiniti, un si-

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mile fatto d' atmi, lo esaltava e allo stesso tempo lo impauriva. La storia non aveva l'abitudine di ripetersi. Forse lui avrebbe fallito là dove Bagration si era coperto di gloria, tenendo testa a Murat. Ma era una ragione di più per tentare.

Uscendo dall'ufficio di Fongoli provò un senso di << già visto » così forte da dargli l'impressione che il generale gli mormorasse dietro le spalle una preghiera, come Tolstoj raccontava che Kutuzov aveva fatto.

Fantasticherie, pensò. Si scusò con gli ufficiali in attesa nell'ufficio attiguo a quello del generale di non aver tempo di bere con loro il caffè che gli offrivano. Doveva tornate immediatamente a Awasciait, disse, e la ragione l'avrebbero appresa da Fongoli. La ragione vera, che gli impediva di discutere della sua missione, non era il segreto che doveva mantenere ma il timore di dire loro, se avesse cominciato a parlare, che gli era stato chiesto di fermare Murat sulla strada di Znaim: avrebbero pensato che li stava prendendo in giro o che gli aveva dato di volta il cervello.

N el cortile c'erano i suoi due portaordini. Avevano fatto inginocchiate i cammelli e immobili, appatentemente assenti, appoggiati alla groppa dei loro animali, attendevano il suo ritorno . Montò sulla rakla e si abbandonò al movimento della bestia, che, senza essere incitata col piede, si era rialzata e si era messa in marcia verso il campo dove sapeva attenderla il cibo.

L'accampamento del Gruppo era immerso nel sonno. Amedeo mandò i portaordini a convocare gli ufficiali. Quando li ebbe davanti, assonnati, curiosi e infreddoliti, riassunse loro brevemente la situazione.

Gli inglesi - disse - si erano fatti vedere sulla strada fra Aicotà e Batentù . il compito che gli era stato affidato era di fermarli nella piana sotto Cherù. Era l'occasione che il Gruppo cercava da mesi. Se si fossero messi tempestivamente in matcia, satebbe forse stato possibile sorprendere il nemico, quando non si aspettava un attacco .

Ordinò che le Bande si tenessero pronte a partire tre ore

IL FORTE DI CHERÙ 95

prima dell'alba. La marcia si sarebbe effettuata ad andatura veloce, parte in sella, parte a piedi, per risparmiare i cavalli. Probabilmente non sarebbe stato possibile tornare al campo. Ciascuno doveva prendere con sé doppia razione di cibo e munizioni . Chiese se c'erano domande. Nessuno aveva da farne . Li congedò, rispondendo alloro saluto . Rimasto solo nella tenda , stese sulla branda le carte topografiche della regione, le assicurò con dei pesi agli angoli e, sedutosi su una cassetta, prese a esaminare le varie possibilità di agganciare il nemico . Per la prima volta si rese conto delle difficoltà del compito che si era assunto. I suoi ufficiali probabilmente non se n'erano accorti, dal tono baldanzoso con cui aveva descritto l'operazione; meglio cosl : non avrebbe giovato a nessuno elencare i problemi a cui andavano incontto . Una cosa gli pareva chiara : per riuscire in quella missione, ammesso che gli fosse stato possibile intercettare in tempo il nemico, avrebbe dovuto, per fermarlo , fare qualche cosa di nuovo , di imprevisto , magari di assurdo . Il come, dipendeva più dall'avversario che da lui. Inutile, dunque, formulare ipotetici piani d'attacco. Ciò che poteva fare era cercare di stabilire, sulla base delle poche informazioni fornitegli da Fongoli, la zona in cui sarebbe stato più probabile e convèniente incontrare il nemico.

Era immerso in questa ricerca quando il soldato veterinario Call entrò nella tenda . Aveva in mano una gavetta e un cucchiaio .

« Comandante >>, disse, « per tutta la giornata non ha mangiato nulla. Le ho portato qualcosa da mettere sotto i denti. »

Amedeo gli fece ·segno di andarsene, senza staccare gli occhi dalla carta. Per nulla impressionato, Call gli si inginocchiò accanto e prese a imboccarlo con una specie di polenta , della quale il reparto si era nutrito in quei giorni .

Amedeo lo lasciò fare, senza interrompere lo studio della carta . L'aria fredda della notte aveva scacciato il sonno, mentre il pensiero dell'imminente battaglia aveva scacciato

96 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

la fatica . Finita la polenta e concluso l'esame della carta, si alzò, si gettò sulle spalle il mantello, una specie di poncho che aveva comperato in Spagna, e usci dalla tenda.

In piedi, senza interferire con gli ordini che gli ufficiali impartivano, segul con un senso di orgoglio il rapido organizzarsi dei reparti, fra nitriti e scalpitare di cavalli, brontolii di cammelli e incitamenti rauchi dei conducenti. Una dopo l'altra, le bande gli si allineavano davanti , con gli ufficiali in testa e i soldati immobili in sella, armi a .tracolla. Lo strumento di guerra che aveva creato reagiva alla sua volont à come le membr a di un corpo bene allenato.

L'attendente aveva sellato Sandor, glielo teneva accanto per la briglia , mentre il cavallo batteva nervoso lo zoccolo per terra. Amedeo lo accarezzò sul collo, montò in sella , passò in rivista il reparto schierato, distaccò alcune pattuglie di protezione sui fianchi del Gruppo e, seguito dal suo piccolo stato maggiore e da una lunga colonna di cavalieri e cammellati, mosse a passo rapido verso Aicotà.

Erano passate da poco le quattro quando, ai primi incerti bagliori dell'alba, sulla sinistra, cominciarono a disegnarsi i contorni delle colline . Poco dopo, si udirono degli spari e un ascaro, montato su un muletto, fu intercettato da una pattuglia del Gruppo . Aveva ricevuto l'ordine di raggiungere Cherù per avvertire il Comando che illOOesimo battaglione di fanteria coloniale, in ritirata verso Barentù, era stato attaccato dagli inglesi.

Guillet ordinò di accelerare la marcia . Ignare di dove e quando avrebbero incontrato il nemico , le bande mossero al trotto verso la brigata motocorazzata del maggiore generale Heath che , accampata all'imboccatura della valle, attendeva il levarsi del giorno per lanciarsi contro Cherù .

IL FORTE DI CHERÙ 97

L'INCONTRO CON LA GAZELLE FORCE

IL 21 gennaio 1941 il caporale Mohinder Singh del 4/11 Sikh, operante con la brigata motocorazzata del generale Heath, si svegliò intorpidito dal freddo . Il tela impermeabile su cui aveva dormito non lo aveva protetto dall'umidità del terreno .

<< Debbo·trovare un'altra sistemazione per dormire » pensò.<< Non mi muoverò più per i dolori ai muscoli. »

A Bombay gli avevano detto che in Etiopia il clima era simile a quello del Punjab . Ma sotto le montagne che il Creatore aveva pensato bene di aggiungere a quella pianura faceva freddo anche di giorno.

Si mise a sedere, sempre avvoltolato nella coperta, e cercò . d'individuare nell ' oscurità la camionetta vicino alla quale il suo colonnello aveva steso la branda .

L'alba non era ancora spuntata . Nel buio, i contorni degli alberi si confondevano con quelli delle rocce e dei veicoli militari. Poco distanti, imbacuccati nelle coperte dalle quali sporgevano solo il turbante e la canna del fucile, due sentinelle si stropicciavano le mani accanto a un fuoco aspettando che l'acqua del tè bollisse .

Singh non capiva perché il suo colonnello continuasse a chiamare<< bassopiano >>quella regione . Da quando avevano varcato la frontiera, non avevano fatto che avanzare fra dirupi e colline. Ma la guerra, si sa, è cosa insensata, in Africa forse più che altrove. Gli europei si ammazzavano, qui, con l'aiuto dei loro sudditi coloniali, senza rendersi conto che, in quel modo, stavano distruggendo la propria autorità e insegnavano agli indigeni come scacciarli da quei possedimenti.

Mohinder Singh non aveva l'abitudine di pensare al futuro, né di occuparsi di politica. L'uomo non può controllare il destino e il povero non può scegliere il cibo che riceve. Ciascuno deve vivere secondo il proprio karma. Quello di Mohinder Singh era il karma dello ksatrya, il destino del guerriero, per il quale il primo obbligo è .di combattere con coraggio. Da buon sikh, appartenente a una famiglia di soldati che, di padre in figlio, servivano il Raj britannico, era venuto in Etiopia a fare la guerra, come un suo avo, settantacinque anni prima, agli ordini del generale N apier. In casa si conservavano le medaglie che si era guadagnato nella battaglia di Magdala, contro l'imperatore Teodoro d'Etiopia.

Quelli, però, erano altri tempi, in cui si utilizzàvano cavalli ed elefanti, che solo gli indiani sapevano guidare in combattimento. Alloro posto, c'erano ora le jeep, con le mitragliatrici e i carri Mathilda arrivati di recente dall'Inghilterra. Gli sarebbe piaciuto guidare uno di quei mastodonti, per quanto l'idea di starsene chiuso in una cassa d'acciaio non lo attirasse. D'altra parte, fare - come lui faceva - da autista-attendente a un colonnello non era un compito ingrato. Quel continuo spostarsi fra un reparto e . l'altro, rompeva la monotonia della servitù militare e gli faceva conoscere luoghi e gente di cui non aveva mai sentito parlare. Solo un mese prima si trovava ancora in Libia, a combattere contro gli italiani che volevano penetrare in Egitto. Aveva scorrazzato nel deserto, imparando a guidare sulle dune dove chi o crede di poter cambiar marcia s'insabbia senza speranza di trarsi d'impiccio da solo. n colonnello apprezzava il suo modo di guidare regolare, fuori strada, in prima o in seconda. A quella velocità, gli era successo di affiancarsi a interminabili colonne di prigionieri italiani, osservare da vicino quegli europei, sporchi, stanchi, assetati, avviati come greggi verso recinti di filo spinato. Gli facevano pena e qualche volta, viaggiando da solo, si era fermato per dare loro un po' d'acqua da be-

L'INCONTRO CON LA GAZELLE FORCE 99

re. Gli sembrava un modo per garantirsi un simile aiuto se si fosse trovato un giorno alloro posto.

Il colonnello gli aveva detto, entrando a Tessenei - il primo grosso borgd al di là della frontiera sudanese - che la sconfitta degli italiani in Egitto aveva gettato il panico fra le loro truppe in Etiopia . E in effetti non avevano incontrato resistenza, da quando avevano varcato il confine .

A Tessenei c ' era solo la gente del posto a riceverli .

Mohinder Singh non comprendeva la logica di una guerra nella quale gli inglesi impiegavano indiani, ai quali negavano l'indipendenza, per combattere per un re negro che gli italiani avevano cacciato dal trono. Ma a lui la guerra offriva l'occasione di diventare sergente, forse persino sergente maggiore, e di garantirsi una buona pensione, quando avrebbe lasciato l ' esercito.

Combattendo, si sarebbe potuto guadagnare medaglie al valore che ai vecchi del suo villaggio davano tanto prestigio. Se poi gli italiani si fossero arresi, come pensava il suo colopnello , senza opporre resistenza , la medaglia per la campagna gliel'avrebbero data comunque . L'Etiopia, dopo tutto, non era il suo paese , come suo non era l'esercito britannico. Il giorno in cui l'India fosse diventata indipendente, le cose sarebbero cambiate . Per il momento , l'importante era aumentare il numero degli scellini che intascava ogni settimana,. oltre a ·quelli che l'amministrazione del Raj britannico mandava a sua moglie . A casa spèrava di tornare con i soldi necessari per comperare la terra del cugino, al quale il Creatore non aveva sinora accordato discendenti.

Stiracchiandosi; andò a prendere una tanica d'acqua sulla camionetta. Con gesti che l'abitudine aveva reso ieratici, disfece il turbante. Aveva le mani intirizzite e il rotolo' di stoffa gli cadde più volte a terra. Per scaldarsi, prese a battere i piedi e a colpirsi energicamente le spalle con le braccia incrociate. Si lavò le mani e il viso, si risciacquò più volte la boccà e, finite le abluzioni, si pettinò con cura.

100 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Riavvolto il . t.urbante attorno alla testa, lo assicurò con la spilla a forma di spada, che ogni sikh porta con sé. Poi andò a prendere l'acqua che bolliva sul fuoco acceso fra tre grosse pietre e preparò il tè per sé e per il suo colonnello.

Fu allora che ,' per la pdma volta da quando erano entrati in Eritrea, senti, lontani, degli spari. Erano spari di cui non si vedevano i bagliori, fucilate alternate a scariche di arrni automatiche . Da qualche parte, verso l'est, gli italiani dovevano essere stati « agganciati >>. Poteva però trattarsi solo di scontri di pattuglie perché il fuoco non era nutrito . Del resto, nella penombra che i chiarori dell'alba cominciavano a dissipare, era difficile capire dove esattamente si trovasse il nemico.

Senza fretta, Mohinder Singh versò l'acqua bollente in una teiera di coccio che, protetta dalla sua coperta, era sino allora sopravvissuta alle asperità della strada. Vi gettò dentro un pizzico di foglie verdi da una scatola di ferro rotonda, prese un'altra scatola con lo zucchero e portò il tutto al colonnello che, avvolto nel cappotto, scrutava una carta geografica con l'aiuto di una pila elettrica .

Gli spari si facevano più vicini e frequenti ma per una muta e orgogliosa intesa, l'indiano e l'inglese fecero mostra di non accorgersene.

« Buongiorno, signore >>, disse Mohinder versando il tè nella tazza che l'ufficiale aveva appoggiato al predellino della camionetta.

<< Buongiorno >>, rispose il colonnello, continuando a studiare la carta. Dopo aver gustato in silenzio il liquido caldo aggiunse, con un pizzico di contenuta baldanza:

<< Sembra che oggi, finalmente, gli italiani si faranno vedere>> .

« È possibile, signore >>, disse l'attendente, senza mostrare interesse. Non aggiunse altro, staccò il telo dai ganci delle gambe pieghevoli del letto da campo, arrotolò le coperte del colonnello, le ripose nella camionetta, notando che l'ufficiale si era già rasa t o .

L'INCONTRO CON LA GAZELLE FORCE 101

Il giorno cominciava a spuntare. L'accampamento notturno era in preda alla confusione. Gli uomini si affrettavano a terminare il rancio che i cuochi distribuivano, dietro tavole smontabili, a lunghe file di soldati ancora assonnati : il solito porridge di avena, la frittata di polvere d'uovo, che dell'uovo aveva solo il colore, e il tè, che per lo meno era caldo e zuccherato per la quantità di latte concentrato versato nei pentoloni.

Gli ufficiali andavano e venivano, la radio sulla camionetta gracchiava. Mohinder aveva terminato la colazione con calma, sgrassato la gavetta colla terra e dopo averla sciacquata con un po ' d'acqua, l'aveva riposta con cura assieme alla scatola del tè ·e dello zucchero . Aveva controllato l'olio e la benzina del camioncino, assicurato i pochi bagagli sul cassone scoperto, riempito le taniche d'acqua, controllato le armi . Ora attendeva, appoggiato al cofano, che l'agitazione dell'accampamento avesse fine e quel formicaio di uomini e automezzi si muovesse verso l'incerto orizzonte, dove li attendeva il nemico.

Dopo un'ora, l'avanguardia della Gazelle Force che aveva invaso l'Eritrea, era in moto. I veicoli avanzavano a ondate, in ordine sparso, nella piana di Aicotà, su una terra nera e friabile, attraverso boschetti di alberi e campi qua e là coltivati, sui quali non si scorgeva anima viva.

Aicotà , secondo il colonnello, avrebbe dovuto essere presidiata da una brigata italiana. Invece il borgo erà stato evacuato anche dalla popolazione locale, consapevole che qui i due eserciti si sarebbero potuti dare battaglia . Sul villaggio pesava un senso di vuoto. Solo qualche vecchio era rimasto ad attendere il passaggio del fato davanti al suo tukul, in compagnia di cani spelacchiati e rassegnati all'inutilità di abbaiare contro i soldati.

Mohinder Singh arrestò la camionetta a un cenno di UJ:?. poliziotto militare impegnato a mettere ordine nel caos di veicoli che si accalcavano nelle viuzze polverose del villaggio. Il colonnello scese, si diresse verso una casa di una

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certa dimensione, coi muri di calce scrostati e un gròsso portone di legno spalancato su un cortile in cui si assiepavano le antenne imbandierate delle camionette-comando. Doveva essere la residenza di qualche notabile e ora serviva da quartier generale provvisorio al generale Heath.

Mohinder Singh cercò di portare la camionetta più vicino possibile alla casa. Dal sedile, osservava i poliziotti militari che, nonostante la polvere e la confusione, continuavano imperturbabili a fare il loro lavoro, come se si fosse trattato di dirigere il traffico di una parata a New Delhi. Gli sembrò che una gallina spennacchiata fosse ammaliata dalla fodera rossa del cappello di un poliziotto; ma improvvisamente quella scrollò il becco e la piccola cresta e scomparve dietro una baracca, lasciando Mohinder a seguire i propri pensieri.

Al ritorno il colonnello appariva insolitamente eccitato.

« Attacchiamo Cherù >>, disse all'autista, « e il nostro compito sarà quello di proteggere l'artiglieria che preparerà l'assalto >>.

Parlando, indicava con la mano le colline, vagamente visibili a una decina di chilometri in linea d'aria, sovrastanti la valle attraverso cui la brigata doveva passare .

Guidata da mani invisibili, l'avanguardia della Gazelle Force si muoveva verso il forte, sollevando ondate di polvere fine e marrone nell'aria pulita del mattino. Sulla sinistra avanzavano i carri pesanti Mathilda, che a Mohinder Singh facevano pensare agli elefanti del suo antenato. Al centro, più indietro, c'erano gli uomini dello Skinner Regiment. Avevano sostituito i cavalli con jeep armate di mitragliatrici pesanti e mezzi blindati. Sulla destra, c'erano i sikh, col compito di proteggere l'artiglieria che si stava portando su posizioni da cui colpire le difese di Cherù.

C'era una collinetta brulla, alla loro destra. Il colonnello, che aveva difficoltà a usare il cannocchiale a causa dei sobbalzi della camionetta, fece fermare il veicolo e prese a

L'INCONTRO CON LA GAZELLE FORCE 103

studiare il terreno . li sole, di faccia, abbagliava la vista. Alle spalle, lo spettacolo di quelle truppe che si muovevano come su un terreno di manovra dava all'ufficiale e al suo autista un'impressione di sicurezza baldanzosa. Il rumore degli spari proveniente dalla direzione di Barentù, creava in entrambi un sentimento d'attesa e al tempo stesso di gioiosa rudezza . Si sentivano come bambini ansiosi di terminare un gioco appena incominciato e allo stesso tempo di protrarne le sorprese n ascoste .

Il bisogno di scoprire l'ignoto, che avrebbe potuto essere anche la morte, alla quale però nessuno pensava, tenein piedi , attaccati ai parabrezza delle jeep, gli ufficiali dei vari reparti. Sembravano aurighi di moderni carri da guerra: alcuni avevano la testa coperta da piatti elmi d' acciaio, altri sfoggiavano turbanti, altri ancora, col cappello a visiera ben piantato sul capo, tenevano il sottogola di cuoio abbassato contro il vento a guisa di immaginarie celate.

La pianura attraversata dal letto secco del torrente Amasciamoi sfociava in una gola : da Il stavano tornando le camionette che, durante la notte, avevano raggiunto la strada che da Aicotà conduce a Barentù . Avevano catturato dei prigionieri: il loro aspetto sembrava confermare lo stato d'animo depresso delle truppe italiane e faceva sper'are al generale Hedth che la guarnigione di Barentù non avrebbe contrastato la sua marcia su Agordat . Prima, però, occorreva debellare il forte di Cherù che lo minacciava sul fianco . Questo, i cannoni del Surrey Yeomanry Regimente dei sikh si preparavano, ora, a fare .

All'improvviso dal letto del torrente, dove si erano tenuti sino allora nascosti, proruppe un'orda di cavalieri urlando, sparando, alcuni.lanciando bombe a mano, altri agitando le scimitarre, mentre da .una piccola altura alberata sulla sinistra aprivano il fuoco a distanza le mitvagliat!ici.

Mohinder Singh vide il suo colonnello ripararsi dietro la camionetta, estrarre la pistola dalla fondina e cominciare a

104 LA GUERRA PRIVATA,DEL TENENTE GUILLET

sparare. A quella distanza non poteva colpire i cavalieri che si erano inseriti fra gli a1:1 tomezzi inglesi. Mohinder aveva imbracciato il fucile, ma non riusciva a usarlo. Era come impietrito da quella carica che sembravll uscita dai racconti dei cantastorie del suo villaggio , irreale, una sorta di bizzarra e gigantesca partita di polo.

Da ogni parte , fra polvere e sangue, si levavano nitriti degli animali colpiti e imprecazioni degli uomini. C'era confusione, rabbia e paura. C'era soprattutto stupore per l'ignoto che avevano atteso e ora apparso in maniera cosi diversa da ciò che si aspettavano , sotto forma di cavalieri già spariti alla vista, dietro le prime unità, nella scia delle esplosioni che avevano accompagnato la carica .

Scomparsi i cavalieri, anche le mitragliatrici italiane avevano cessato di sparare. Nell'improvviso silenzio, l'inglese e l'indiano si domandarono l'un l'altro, che cosa, in realtà , avevano visto. Ben poco , scoprirono: una massa di cavalieri indigeni su cavalli scuri che galoppavano urlando e sparando dietro quattro europei montati su quadrupedi bianchi. Di fronte, a distanza, sul crinale delle alture , si potevano vedere anche a occhio nudo reparti cammellati che parevano raccogliersi per l'attacco .

Il colonnello li osservò a lungo col binocolo , mentre apparivano e scomparivano dietro alle creste.

« Quanti sono, signore? »chiese Mohinder Singh.

« Non lo so , ma sembrano molti. Dobbiamo chiedere ai carri di andare a vedere. >>

Mohinder Singh avrebbe voluto domandargli se aveva notato come il cavaliere che comandava la carica, teneva puntato in avanti il braccio, da cui penzolava una scimitarra sguainata. Ma non disse niente: forse non era un dettaglio importante .

Quarant'anni dopo, Mohinder Singh, divenuto autista dell'ambasciata d'Italia a New Delhi, raccontava al suo

L'INCONTRO CON LA GAZEILE FORCE 105

nuovo ambasciatore di aver fatto la guerra ·in Etiopia e di aver assistito a una carica di cavalleria italiana nella zona diCherù .

« La guidava », disse, « un ufficiale su un cavallo bianco con la scimitarra che pendeva dal polso. »

«Avevi buoni occhi, Mohinder >> si sentl rispondere.

« Quando guidavo una carica, come Lannes, un grande soldato francese di cui probabilmente tu non hai mai sentito parlare, la scimitarra preferivo !asciarla pendere dal polso. >>

106 LA
GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

.Au.E prime luci de/21 gennaio la Gazelle Force di Masservy attaccò le posizioni italiane di Cherù occupate dalla 41esima brigata indigena del generale Fango li ... Mentre gli artiglieri stanno sistemando i cannoni, ·Vengono caricati da uno squadrone di cavalleria del Gruppo Bande amhara, comandato dal tenente Renato Togni .. . Con straordinaria audacia i cavalieri galopparono sino a una trentina di metri dalle posizioni britanniche, sparando selvaggiamente dalla sella e lanciando delle bombe a mano. I cannonieri girarono i pezzi a 180 gradi e aprirono il fuoco .con l'alzo a zero. A volte i proiettili scivolarono sul terreno senza esplodere ma altri trafissero i cavalli da parte a parte. Il Royal Regiment dovette ricorrere alle armi portatili prima di aver ragione di quella furiosa carica. *

La notte era fredda e gli uomini del Gruppo Bande amhara a cavallo sedevano intirizziti sulle selle . Più volte Amedeo li aveva fatti smontare e avanzare a passo di corsa perché si riscaldassero e risparmiassero i cavalli. Quando giunsero nella valle dell' Amasciamoi, si nascosero nel letto del torrente, di fronte al nemico, accampato per la notte, che le pattuglie avevano individuato a poca distanza da loro . Guillet ordinò alla sezione mitragliatrici di portarsi su

* The Abyssinian Campaign, Issued for the W ar Office by the Ministry of Information, His Majest y's Stationaty Office , Londor\ 1942 , p. 32, citato da Angelo Del Boca, Gli Italian i in Africa Orientale: la caduta dell 'Impero, Laterza, 1982, pp. 401-402

RENATO TOGNI

una piccola altura, alla destra del torrente, e di non farsi notare; ai meharisti, di muoversi in colonne ben visibili lungo le creste delle colline alle sue spalle, cercando di attrarre il più possibile l'attenzione del nemico. Dovevano girare in cerchio - come comparse sulla scena di un teatro - per dare l'impressione di essere un grosso contingente di truppa.

L'ala destra del suo schieramento gli sembrava la più minacciata . Fronteggiava i carri armati inglesi che, col binocolo, poteva vedere, fermi, a una distanza di tre-quattro chilometri. Sembravano scarafaggi attorno ai quali brulicavano, come formiche, uomini e automezzi; ignari, per il momento, della vicinanza del Gruppo, al primo colpo di fucile li avrebbero avuti addosso.

Decise di affidare questo settore a Togni coi duecento cavalieri della II banda e i quattrocento ascari della banda appiedata, col compito di ostacolare l'avanzata dei carri. Sulla sinistra schierò la m banda, rimanendo al centro con la prima e con la banda Comando.

n sole era da poco salito all'orizzonte quando chiamò gli ufficiali a rapporto . Renato Togni, quel giorno, compiva ventisei anni. Arrivò caracollando sul suo arabo bianco, allegro e sorridente, come se quel raduno fosse stato organizzato in suo onore. Restitul a Guillet il poncho che questi gli aveva offerto durante la cavalcata notturna, perché nella furia di svegliare e radunare il suo reparto, aveva trascurato di indossare una giubba più pesante.

<< Non è questa la giornata >>, gli aveva detto Guillet, << in cui gli ufficiali ·possono permettersi di prendersi un raffreddore . >>

Ormai non c'era più bisogno di coprirsi. L'aria si stava riscaldando, gli uccelli avevano ripreso a volare, i tafani infastidivano i cavalli . In questa atmosfera tranquilla, irreale, Amedeo, nascosto dal ciglio del torrente, spiegava il suo piano ai comandanti delle bande.

<< n nostro compito è tenere impegnati gli inglesi più a

108 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

lungo possibile. Hanno probabilmente visto le nostre pattuglie e, di certo, i cammelli che si stanno muovendo dietro le creste delle colline . Si aspettano d'incontrare della resistenza e per questo, se avanzeranno, lo faranno con prudenza, per evitare di essere sorpresi sui fianchi. Dobbiamo dar loro l'impressione di trovarsi di fronte all' avanguardia di un forte nucleo di truppe, deciso a combattere. , << Li attaccheremo di sorpresa e cercheremo di attrarli verso Tessenei, lontano da Cherù, dove le nostre truppe sono probabilmente ancora disposte in assetto di marcia. Da quella parte le confluenze degli uadi giocano in nostro favore. Ci offrono ripari naturali, con greti disposti più o meno in parallelo, dietro i quali possiamo progressivamente ritirarci . L'importante è impedire al nemico di valutare la nostra forza. I meharisti stanno già facendo bene il loro lavoro. Attaccheremo sui fianchi, per scuotere il loro morale e dare loro l'impressione di poter essere accerchiati. >>

Sarebbero state la I e la n banda ad attaccare per prime. Il loro compito era attraversare al galoppo le linee inglesi e, prima che il nemico si rimettesse dalla sorpresa, compiere un ampio semicerchio e ritornare alle posizioni di partenza. Lui, con la banda Comando, avrebbe partecipato a questa prima azione se ce ne fosse stato bisogno. Compiute queste prime cariche , che agli inglesi dovevano dare l'impressione di essere azioni di disturbo, miranti a saggiare la loro forza, il Gruppo avrebbe progressivamente ripiegato, nascondendosi nei letti degli uadi, senza rompere il contatto col nemico.

Era una specie di ·gioco a rimpiattino, impari e rischioso, che T ogni avrebbe avuto l'onore di aprire: era il suo compleanno e quella doveva essere la sua giornata . Guillet e gli altri ufficiali gli avevano fatto gli auguri e lui si era separato da loro a piccolo trotto, come se stesse per entrare in un campo ostacoli: sorridente, sicuro di sé, con quell'espressione di distaccata baldanza sul viso che attirava le donne e impressionava i soldati.

RENATO TOGNI 109

Le prime azioni di cavalleria si erano svolte secondo il piano e con poche perdite . La banda Comando , con Guillet alla testa e la banda di T ogni , protette dal fuoco delle mitragliatrici, avevano attaccato la fanteria indiana, creato confusione e obbligato i suoi comandanti a consultarsi per decidere come procedere . Era una sosta che non poteva durare a lungo. Infatti, appena rientrato nel letto dello uadi, Amedeo vedeva col binocolo automezzi inglesi scaricare soldati che si disponevano in ordine sparso per l' avanzata.

Dalle due parti la manovra si sviluppava con la precisione e il ritmo di una danza di guerra che, a causa della distanza, non si era ancora trasformata in un abbraccio violento . A turno, le bande attaccavano la fanteria indiana sbucando improvvisamente sui suoi fianchi mentre la b anda appiedata sparava con tutte le sue armi. Non arrivava a colpire gli inglesi ma col suo fuoco li teneva a bada più a lungo possibile per poi ritirarsi, a sua volta, dietro le nuove posizioni occupate dai cavalieri.

I cannoni del Surrey Yeomanry Regiment della rv Divisione indiana avevano intanto iniziato ad aprire il fuoco contro il forte di Cherù. Dalla direzione di Barentù, invece, non si sentiva più sparare , segno che il battaglione sorpreso dagli inglesi nella notte, era riuscito a sganciarsi e che le altre truppe italiane continuavano la loro ritirata .

All'avanguardia inglese non importava più dare la caccia a queste truppe appiedate quanto capire le intenzioni del Comando italiano che, con quelle azioni di cavalleria, sembrava volerla attirare in un tranello .

Era proprio l'impressione che Guillet aveva sperato di creare . Ma la guerra è fatta di imprevisti . Tre carri Mathilda a cui era stato evidentemente affidato il compito di farsi un'idea dell'entità delle truppe che molestav ano l' avanzata, ave vano trovato un passaggio fra le colline e si er ano improvvisamente presentati sul fianco della banda di T ogni. Se avessero continuato la marcia si sarebbero trovati

110 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

alle spalle di Guillet e l'avrebbero potuto attaccare prima che potesse opporre loro il fronte di un nuovo schieramento. Avrebbero anche scoperto la vera entità delle sue forze e smascherato il suo piano.

Togni si rese conto della gravità della situazione . Dalla sua posizione all'estrema destra del Gruppo, poteva vedere gli inglesi avanzare verso uno uadi, a poco meno di un chilometro. Col fuoco della sua banda appiedata non poteva fermare quei mastodonti d'acciaio ; con la banda a cavallo non avrebbe potuto fare di meglio . Pote· va, però, sorprendere il nemico con un'azione inattesa, spericolata, cercare di distrarlo per rallentare la sua marcia, avere il tempo per avvertire Guillet e permettergli di cambiare lo schieramento del Gruppo .

I romani antichi chiamavano l'azione che intendeva fare devotio. La consideravano un gesto sacrificale che il tribuna era tenuto a compiere , gettandosi nel folto della mischia, quando le sorti della legione parevano in pericolo . Togni, probabilmente, non lo sapeva . Ma ammesso che pensasse a qualcosa all'infuori di come fermare i carri, forse rifletteva sullo strano modo in cui stava per festeggiare il suo compleanno .

Chiamò a sé con un cenno il soldato veterinario dot· tor Call. A lui meglio che ad altri, riteneva di poter affidare il messaggio per Guillet da cui. poteva dipendere la salvezza del resto del Gruppo . In piedi , accanto al cavallo che brucava un ciuffo d'erba, trasse di tasca un blocchetto di carta , si appoggiò alla sella , scrisse all'amico che avrebbe « caricato coti trenta dei suoi marescialli >> .

Gli venne da sorridere nello scrivere quella parola . . Questo era uno di quei momenti in cui la spavalderia poteva dare all'ussaro il coraggio di affrontare la morte .

Tese il foglietto al veterinario e gli disse :

« Galoppa dal comandante . Avvertilo che dei carri gli stanno arrivando alle spalle . Digli che tenterò di arre· stadi per dargli tempo di rischierare le Bande . Portagli

RENATO TOGNI 111

questo biglietto e vedi di non farti prendere per strada».

Il veterinario ebbe un momento di esitazione e borbottò qualche cosa come « Preferirei restare con lei >>.

« Corri, Cali, corri>>, gli urlò, quasi, T ogni. « Da te dipende la salvezza del Gruppo. Di' al comandante che noi qui faremo il nostro dovere. >>

Cali saltò in sella, spronò il cavallo e si allontanò al galoppo lasciandosi dietro un nuvolo di polvere. T ogni guardò ancora una volta col binocolo i carri che avanzavano lenti arrestandosi a tratti per non distanziare i soldati che li seguivano. Forse non si erano ancora accorti di lui; forse rallentavano la marcia per dare tempo alla batteria di cannoni di raggiungerli; forse avevano solo il compito di sag' giare l'entità delle truppe nemiche, non di impegnarle .. Questo rallentamento gli parve di buon augurio e gli diede il tempo di spiegare ai graduati indigeni, che si erano rag, gruppati attorno a lui, ciò che intendeva fare.

La banda appiedata - disse - avrebbe ripiegato di corsa sulle colline all'estrema destra del Gruppo; quella a cavallo doveva portarsi al galoppo al suo centro. A lui accorrevano solo trenta volontari con cui caricare gli inglesi quando fossero stati più vicini . Non poteva fermarli ma sperava di creare abbastanza confusione per far guadagnare tempo al comandante del Gruppo. Era un'azione pericolosa ma gloriosa, da cui dipendeva la salvezza delle altre unità. Se qualcuno non voleva seguirlo, era libero di farlo.

Nessuno si mosse . Immobili accanto ai cavalli attendevano che scegliesse lui con chi di loro sarebbe andato alla morte. Togni indicò il plotone con cui avrebbe attaccato gli inglesi e stette a osservare per qualche minuto gli altri che ripiegavano in fretta.

Che cosa spingeva quei trenta cavalieri a restare? Disciplina? Senso del dovere? Vergogna di mostrare di avere paura? Non aveva il tempo per chiederselo .

Il vero coraggio è il prodotto della decisione di affronta-

112 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

re il pericolo a vantaggio di altri. N ella sua e nella loro risoluzione calma e aggressiva, c'era la volontà- forse il bisognodi vincere la paura animale che afferra l'uomo di fronte al rischio . Il coraggio non è soltanto la forza d'animo che permette il dominio di sé. Per chi non possiede maggior ricchezza della divisa che indossa, il coraggio è un bene che, come il denaro, riceve valore dalla maniera in cui viene speso.

T ogni accarezzò il collo del cavallo , raccolse le redini nella mano sinistra e montò in sella. Si assicurò che il risvolto del tascapane pieno di bombe fosse aperto; guardò un'ulti; ma volta gli uomini della banda appiedata che sparivano dietro a un avvallamento, già sorpassati dai cavalieri che galoppavano verso il resto del Gruppo. Rigirò il cavallo verso il nemico distante solo mezzo chilometro e rimase a osservarlo mentre avanzava lento , guardingo : tre carri avanti e i fucilieri indiani dietro, coi fucili imbracciati . Fu colpito dal silenzio che lo circondava, rotto solo dallo sbuffare dei cavalli che raspavano il terreno alle sue spalle, cacciando tafani a gran colpi di coda.

T ogni si calcò in testa il berretto, un po ' pi ù a sghimbescio del solito . Rigirò il cavallo verso i suoi uomini e spiegò che tutti assieme si sarebbero gettati nello spiazzo scoperto ; fra due torrenti, ai piedi della collinetta : avrebbero sorpreso i carri mentre stavano scivolando nel letto del primo uadi con il cannone e la mitragliatrice inclinati verso il basso. Inutile usare i moschetti. Le bombe a mano avrebbero fatto miglior effetto.

L ' espressione tesa dei volti dei tren'ta cavalieri indigeni non tradiva altro sentimento se non la preoccupazione di capire bene quello che stava dicendo . La devozione di questi .soldati lo .commosse. Tacque, e, guardandoli in faccia , sorrise .

Una dopo l'altra, le·facce scure e impassibili di quei guerrieri si sciolsero, anch'esse , in sorrisi d'intesa: sigillavano un patto d ' onore fra uomini eccitati da un comune pericolo e che si sentono uguali di fronte alla morte.

RENATO TOGNI 113

Quando i carri si avvicinarono al greto del primo uadi, T ogni sbucq dalla sua posizione e galoppando sul pianoro attirò su di sé il fuoco degli indiani e dell'artiglieria. I carri Mathilda, in bilico sulla sponda dell'alveo del torrente si videro piombare sul fianco una massa indistinta di uomini e bestie che, urlando e lanciando bombe a mano, si trasformava in un'arma di muscoli e sangue. The most gallant affair unti!! now in this war - il più intrepido episodio sinora di questa guerra - avrebbero annotato gli inglesi nella storia ufficiale della campagna d'Etiopia.

Dallo scontro, un solo cavaliere gravemente ferito sarebbe uscito vivente. Era l'attendente di Togni, che avrebbe più tardi raggiunto - non si seppe mai come - il resto del Gruppo. Fu lui a raccontare a Guillet come si erano gettati tutti e trenta assieme sui carri lanciando bombe a mano e come lui avesse visto T ogni stramazzare, assieme al cavallo, su uno di essi.

Dato per morto, aveva atteso che il nemico si allontanasse e aveva visto sollevare il corpo di T ogni dal carro per deporlo, con cura, su una camionetta.

Come il cadavere d'Amleto, trasportato da quattro guerrieri.

114 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUIT.LET

LA CARICA DI CHERÙ

IL tenente Togni faceva parte del Gruppo Bande a cavallo amhara, un reparto di cavalleria comandato dal tenente Guillet. Un'ora dopo , quest'ultimo temerariamente, ma non con foga così selvaggia, attaccò di nuovo con tutta la sua banda, composta da più di cinquecento uomini. Soverchiarono i sikh che si erano portati avanti e deviarono, quando vennero a trovarsi di fronte all'artiglieria dietro di essi . Deve essersi trattata dell'ultima grande carica di cavalleria guidata da europei in Africa e Churchill stesso , ·che in gioventù era andato alla carica con gli ussari a Ondurman, l'avrebbe ammirata. *

Il soldato veterinario dottor Carlo Cali, arrivò al galoppo al posto di comando del Gruppo Bande . Il cavallo era coperto di schiuma e il cavaliere ansimava per l'ansia più che per la fatica . Trovò Guillet appoggiato a un'acacia, intento a scrutare col binocolo il terreno ondulato che gli stava davanti , in cerca del nemico, scomparso alla vista. Da quando aveva arretrato le Bande, dopo i primi riusciti attacchi contro la fanteria indiana, l'avversario sembrava essersi volatilizzato nell'afa della tarda mattinata .

Appena vide arrivare Cali a briglia sciolta, ebbe il presentimento che qualcosa di grave era successo anche se, dalla parte di Togni, non si sentiva sparare . Cali era sceso di sella, aveva abbozzato un saluto e si era

* Anthony Mockler, Storia delle guerre italiane in Abissinia e in Etiopia, voi II, pp . 419 -422 , Riz zoli 1977.

messo a parlare ansimando, a scoppi di frasi brevi, congiunte da qualche << sl >> e « ja » tedesco, per dar loro più forza . Accanto a lui, il cavallo spruzzava su entrambi , con bruschi movimenti della testa, sudore e saliva.

« Cambiare schieramento, comandante, subito », diceva Cali. « Carri inglesi pesanti, ja, alla destra della banda . Tre o quattro, sl, con fanteria e artiglieria . n tenente le chiede, no la invita, cioè crede opportuno •spo'stare immediatamente lo schieramento del Gruppo. Può essere aggirato . Lui adesso attacca, sl, per darle tempo di cambiare fronte. Con un solo plotone . n resto delle bande sta ripiegando sul Gruppo. »

Il veterinario inghiottl un paio di volte la saliva, poi con un gesto rigido con cui dimostrava d'aver ritrovato se stesso, tese a Guillet il messaggio di T ogni . Erano poche parole, vergate in fretta coi caratteri larghi, pendenti a destra, che lui ben conosceva. Confermava quanto gli aveva appena detto Cali. Togni avrebbe tentato di arrestare i carri per dargli il tempo di cambiare schieramento e presentare al nemico il fronte invece del fianco delle bande. Inutilescriveva - impegnare in un'azione del genere tutti gli uomini. Una trentina dei suoi « marescialli » sarebbero bastati .

« Non ha perso il suo sense of humour >>, pensò Guillet . Mentre rileggeva il biglietto , si udirono esplosioni di bombe, un crepitio intenso di armi leggere, delle cannonate, ancora scoppi di bombe; poi, improvviso, il silenzio. n dottor Cali appoggiò per un momento la fronte alla sella del cavallo. Voltandosi di nuovo verso Guillet , chiese se c'erano ordini. Amedeo fece cenno di no con la testa e Cali ebbe l'impressione - ma non ne era certo - che gli occhi del comandante fossero arrossati . Forse era un effetto della stanchezza, forse un segno di quanto il messaggio di T ogni lo avesse turbato.

Senza allontanarsi dall'acacia, Guillet prese con calma a impartire ordini alle bande perché mutassero schieramen-

116 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

to e agli ufficiali perché venissero immediatamente a rapporto.

Tutti si rendevano conto che quegli spari e il successivo silenzio potevano aver segnato la sorte di T ogni. Amedeo sentiva che di Il a poco avrebbe dovuto dar loro una spiegazione. Cercava, ma non trovava, le parole adatte per farlo, per infondere fiducia ai suoi subordinati senza rivelare la sua ansia, esprimere il suo dolore senza suonare retorico. Se fosse dipeso da lui, avrebbe detto che sacrificarsi per salvare, anche per un'ora, il proprio reparto era quello che tutti dovevano fare. Ma non era il discorso che un co. mandante poteva tenere in battaglia. Ciò che i suoi uomini attendevano da lui in quel momento erano ordini precisi, per uno scopo che avesse senso, non per fare un <<bel" gesto >>.

, L'attendente gli teneva accanto per le ·briglie Sandor, che arcuava il collo e raspava con lo zoccolo per terra come per incitarlo a fare qualcosa. Montò in sella, lo toccò leggermente con il tallone per portarsi davanti alle che nel frattempo, cambiando posizione, si erano allineate su due file nel greto di un altro uadi, facendo di nuovo fronte al nemico.

Gli ufficiali gli vennero incontro al galoppo. Si portò con loro sulla destra dello schieramento, dietro alla sponda dello uadi, da dove si incominciava a vedere, nella piana, la fanteria indiana appiedata, protetta sui fianchi da camionette armate di mitragliatrici e da mezzi blindati. Non era più la pattuglia corazzata con cui T ogni si era scontrato, ma un grosso reparto dell'avanguardia nemica che si stava spiegando su un largo fronte, pronto a difendersi o a lanciare l'attacco.

La scena aveva qualcosa d'irreale: le rocce nere, la terra rossa, la vegetazione riarsa del bassopiano, gli alberi radi, i picchi delle alture lontane, gli inglesi che si muovevano lentamente, sollevando cortine. di polvere . E dietro di lui centinaia di cavalieri. Immobili in sella, con i fucili appog-

LA CARICA DI CHERÙ 117

giati alla coscia, formavano un assurdo scenario di guerra che aveva la storia per trama.

Tanti anni prima, quando Amedeo vestiva ancora alla marinara, suo padre l'aveva presentato a un vecchio colonnello che pareva uscito da una stampa militare. Era stato così impressionato dai suoi baffoni che continuava a ricordarsene il nome, Seyspel d' Aix. TI colonnello a cui lui aveva detto di voler fare, da grande, l'Ufficiale, gli aveva risposto, stringendogli la mano: «Ricordati che il vero ufficiale è un attore che sa recitare la sua parte anche nel sonno>>. Una raccomandazione che assumeva ora per lui il valore di una sfida.

Cercò ancora, ma invano, parole adatte al momento, da rivolgere al piccolo gruppo di ufficiali che gli si erano raccolti davanti. Se fosse stato un emiro musulrnano, gli sarebbe .bastato ricordar loro che «Allah è grande e solo gli infedeli non credono nella misericordia divina>>, perché capissero che era giunto il momento di morire combattendo. Ma non trovò niente di meglio da dire, con un tono che voleva essere leggero ma che non riusciva a nascondere un fondo di dolore e di rabbia, che: ·

«Signori, la perdita di Togni è grave, ma nessuno è mai nato in battaglia. Quanto a noi, prepariamoci ad attaccare. Lo scopo è di penetrare nelle linee inglesi, provocare . la maggior confusione possibile, tornarcene indietro dando ai carri l'impressione di poter essere presi alle spalle. Se potremo, ripeteremo l'azione. Oggi ci sarà gloria per tutti>> . ·

Con un certo sussiego rispose alloro saluto e li segui con .Io sguardo, mentre al galoppo ritornavano alle rispettive ìmità. Riinasto s0lo con l'attendente e due trombettieri, fece avanzare di qualche passo il cavallo per meglio osservare con il binocolo il movimento delle truppe nemiche. Dall'altra parte c'era probabilmente qualcuno - pensò ·che stava facendo la stessa cosa.

Fu in quel preciso momento che si accorse che la strut-

118 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

A pagina precedente: Amedeo Guillet, quando era tenente nel Reggimento Guide, 1932

A fianco: Kadija, 1939

Sotto: Amedeo Guillet al comando del Gruppo Bande amhara a cavallo, 1940-1941

seguente, in basso: Amedeo Guillet, comandante del Gruppo

n ._ J ..:1: ...... : 1.-l,.., .. ; t
A
\ Il
1 10.1()
generale Frusci passa in rivista il Gruppo Bande amhara a cavallo.
Il tenent e Rena to T ogni, Medaglia d 'oro ' • •..• 10111
hl b nsso: Il maggiore
, dell 'O ttavo Reggimento ussari,
lihirn 1C)A.?
Max Harari
nel

A fianco: Ahmed Abdallah al Redai (A. Guillet) quando lavorava come operaio nella concessione del Darfur. La foto fu scattata di nascosto da Rizzi (1941)

Sotto: L'imam Ahmed Ibn Y ahia , in una rara foto dedicata ad Amedeo Guillet ambasciatore d'Italia nello Yemen (Taiz, 1957)

tura del terreno aveva costretto i carri e le camionette inglesi a rallentare e stringere, sulla sinistra, la fanteria indiana . Questa si era a sua volta arrestata per dar modo all' artiglieria di manovrare sulla destra. Intuì che se si fosse gettato subito al centro di quello schieramento, le mitragliatrici dei carri e delle camionette da un lato e i cannoni dell'artiglieria dall'altro, non avrebbero potuto sparare sui suoi cavalieri senza rischiare di colpire la fanteria che stava nel mezzo.

Era l'attimo fuggente, la perfetta occasione di agire per la cavalleria. Occorreva coglierla al balzo o lasciarsi sfuggire uno , dj quei rari momenti in cui un comandante può, con un atto di ragionato coraggio, dare senso alla sua intera esistenza di soldato .

Attorno a lui era calato lo stesso teso silenzio che nei concorsi ippici, al termine di un percorso netto, lo avvolgeva quando si avvicinava all'ultimo ostacolo . Era il momento in cui si sentiva pi\1 calmo. Guardò ancora il nemico : sembrava fermo a meno di un chilometro di distanza. Abbassò il binocolo, si portò davanti alle bande schierate, in attesa di ordini .

Mentre sguainava la scimitarra, si ricordò che Tolstoj aveva scritto: « L'istante che precede l'attacco, è quello in cui il soldato si accinge a varcare la linea che separa i vivi dai morti, dietro alla quale si cela per tutti l'ignoto >>. T ogni l'aveva superata in bellezza. Lui avrebbe cercato di fare altrettanto .

Girò il cavallo, si sollevò sulle staffe, lasciando 'dondolare la scimitarra dal cinghietto di cuoio attorno .al polso e senza più voltarsi levò il braccio, puntando la mano verso il nemico .

« Caricat! >> urlò, con tutto il fiato che aveva nei polmoni.

Sandor, toccato da ambo i talloni, fece un balzo in avanti; itrombettieri, al suo fianco, suonarono la carica; dietro di lui seicento cavalieri uscirono dallo uadi urlando << Sa-

LA CARICA DI CHERÙ 119

voia! >>, sparando, gettando bombe e sciabolando le truppe indiane appiedate.

Sorpresa da quella massa di uomini e bestie, più impressionante che micidiale, che risvegliava paure ataviche dell'uomo di fronte alla belva, la fanteria indiana aprl due varchi al suo centro, ripiegò sui lati in disordine, cercando riparo dietro i carri. Questi, come aveva previsto Guillet, non potevano assisterla, temendo di colpire i sikh, se avessero sparato indiscriminatamente sui cavalieri.

Trasportate dal loro slancio, le bande avevano sorpassato le linee indiane che si trovavano sul fianco delle alture dove erano piazzate le artiglierie. Queste , girando i pezzi puntati in direzione di Cherù, sparavano a zero contro di loro. Dal lato opposto alcuni mezzi corazzati, uscendo dalla loro formazione, avevano aperto un fuoco d'infilata sui cavalieri, causando morti e feriti.

In pochi minuti la piana, trasformata in un campo di b;lttaglia d'altri tempi, si era coperta di uomini e bestie urlanti e di cavalli che scaldavano in agonia, di soldati indiani che sparavano in tutte le direzioni, mentre le bande tdrnavano ad attaccare , lasciandosi dietro una scia di sangue, di morte .

Il sole era quasi calato sulla pianura coperta di corpi quando la piccola radio a cavallo del Gruppo, rimasta incolume e una volta tanto funzionante, informò Guillet da Cherù, che il pericolo d'accerchiamento 'per le truppe italiane in ritirata era superato . Il Gruppo, se Guillet lo riteneva necessario , poteva disimpegnarsi dal nemico.

Il mattino dopo Fongoli attendeva all'entrata del forte la colonna di cavalieri che rientrava alla base, silenziosa e decimata. Guillet aveva lasciato sul campo centosettantasei uomini e cento cavalli e portava con sé duecentosessanta feriti.

. Il generale si avvicinò al cavallo dal pelo irto di sudore e il mantello bianco giallo di polvere . Porse la mano a Guillet ancora in sella e quando smontò lo strinse forte in un

120 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

abbraccio silenzioso. Ascoltato il suo rapporto, gli chiese quanto tempo sarebbe stato necessario al Gruppo per essere in grado di proteggere il ripiegamento della guarnigione. Obbediva di mala voglia all'ordine ricevuto, conscio com'era del pericolo di essere sorpreso in marcia dal nemico . Ma non aveva - disse- altra scelta.

Sebbene l'avanzata degli invasori fosse stata ostacolata, la ritirata dei difensori fu caotica e disorganizzata. Se non fosse stato per Guillet e i suoi cavalleggeri, sarebbero caduti quasi tutti nelle mani della colonna che bloccava la strada dietro Cherù. In effetti gli Highlanders fecero settecento prigionieri, compreso lo stesso Ugo Fongoli, il primo generale italiano a essere catturato. *

LA CARICA DI CHERÙ 121
* Anthony Mockler , cit ., p . 420.

CHISSÀ perché il Cochen era stato chiamato monte . Non era che una collina alta tre o quattrocento metri che si ele- 1 vava coi suoi massi di roccia sull'altipiano rossastro e pietroso. Un'altura quasi gemella, il Dantai, dominava da sud Agordat e controllava la strada per Cheren .

il Cochen avrebbe dovuto essere presidiato da un battaglione di truppe metropolitane ma questa unità era stata intempestivamente ritirata e a Guillet fu dato l'incarico di rioccupare il monte con una parte delle sue bande appiedate .

Inerpicatosi coi suoi ascari sul colle, a qualche centinaio di metri dalla cima era stato bloccato dal fuoco di mortai e di armi automatiche degli inglesi, arrivati sulla vetta poco prima di lui. Sfruttando il terreno roccioso cercava di impedire al nemico di scendere su Agordat . Si rendeva però conto, assieme a Guido Battizzocco - l'unico ufficiale che aveva portato con sé - di non poter resistere a lungo.

« Terremo duro sino all'ultimo » aveva scritto al colonnello Lorenzini che comandava Agordat, in un messaggio con cui gli chiedeva rinforzi. Temeva, però, dopo aver più volte tentato di contrattaccare, che non sarebbero giunti in tempo e che nessuno di loro sarebbe sceso vivo dal Cochen . Invece se l'era cavata grazie a uno di quegli interventi tempestivi di cui sono pieni i film di avventure, ma raramente le guerre vere.

Quando, a corto di munizioni, stava per ordinare un assalto alla baionetta contro le posizioni tenute dagli scozzesi, s'era visto comparire davanti, in mezzo ai proiettili che

AGORDAT

fischiavano da tutte le parti, un maresciallo eritreo. Lo sciumbasci diceva di essere il graduato più anziano del 9° battaglione « Zoppis >>. Tutti i suoi ufficiali erano temporaneamente assenti, perché chiamati a rapporto ad Agordat. Chiedeva, rispettosamente, se poteva essere utile con i seicento ascari che aveva ai suoi ordini .

Con questo inaspettato aiuto Guillet, assieme a Battizzocco , arroccato con i suoi uomini sul fianco del colle, era stato in grado di resistere sino all'arrivo di una brigata di rinforzo . A questa dovevano far seguito altre unità, impegnate in una battaglia alla quale, alla fine , dovevano partecipare migliaia di uomini da ambo le parti.

Delle quaranta ore trascorse combattendo sul Cochen Guillet ricordava ben poco . Nel corso di continui combattimenti aveva perduto la nozione del tempo . Non avrebbe potuto dire se e dove aveva dormito e mangiato. Ignorava persino il nome dello sciumbasci , che aveva proposto per una medaglia al valore. Gli rimaneva solo il ricordo delle pallottole traccianti che , sibilando , illuminavano la notte e , in gola, l'odore acre del fumo dei proiettili d'artiglieria.

Molti anni dopo , in Inghilterra , sir Reginald Savory, il generale inglese che dirigeva l'attacco sul Cochen gli confessò d'aver a più riprese temuto di perdere il controllo del monte. A Guillet venne fatto di pensare come , a tremila e più chilometri di distanza, il Cochen avesse inconsciamente rappresentato per lui quello che il Carso aveva significato per suo padre e suo zio , nella prima guerra mondiale: un'altura che aveva risucchiato le energie e il sangue di soldati che , senza conoscersi né odiarsi , si erano combattuti con la disperazione di chi sa che da quella posizione può dipendere la sorte di un impero .

In Italia tutti conoscevano il nome e il significato del Carso . Chi si sarebbe invece ricordato del Cochen o dell'ignoto sciumbasci che aveva rovesciato per qualche ora le sorti di una situazione perduta, o dei nomi dei guidatori dei carri veloci che, la sera del 29 gennaio, avevano tenta-

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to di bloccare la strada ai Mathilda apparsi fra le due colline che dominavano J\gordat? Dalla sua posizione, Guillet aveva vi,sto quei minuscoli cingolati, con cui lui stesso aveva combattuto in Spagna, gioielli di meccanica privi di corazzatura adeguata, saltare in aria, uno dopo l'altro , senza riuscire a graffiare con le loro mitragliatrici i carri avversari.

Erano gli unici mezzi corazzati di cui disponeva Lorenzini, il colonnello a cui , due soli giorni prima dell :attacco inglese, era stata affidata la difesa di Agordat . Quello scontro impari di carri era un segno premonitore di ciò che sarebbe successo in seguito.

Abbandonando Agordat, le truppe che avrebbero potuto portare la guerra in territorio nemico stavano già ritirandosi dalle linee avanzate di quello << scacchiere settentrionale >> contro cui avrebbe dovuto, secondo i piani dello Stato Maggiore , infrangersi l'offensiva inglese .

La speranza del comando italiano era ora che il miracolo avvenisse a Cheren, grazie alle montagne che circondavano la fortezza e verso cui affluivano le truppe in ritirata.

In una situazione di movimento del genere , il Gruppo Bande a cavallo di Guillet ritrovava la sua funzione iniziale. Creato per l'e splorazione e l'attacco, dopo essere stato appiedato sul Cochen era rimontato in sella per scortare le truppe che si ritiravano da Agordat .

Ad Agordat, fu il tenente Guillet con i suoi cavalleggeri, dopo aver resistito sino alla fine, a incanalare le colonne in ritirata lungo la strada fmata , comprendendo la difficoltà che i mezzi corazzati ingles i avrebbero avuto nel seguir/i lungo questa scarpata che contornava le montagne. In tal modo evitarono la trappola che gli inglesi avevano •teso loro nella piana (e così) di quindicimila uomini presenti ad Agordat, soltanto mille furono fatt i prigionieri. *

* Anthony Mockler , cit., p. 440

124 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Guardando da un improvvisato osservatorio la colonna che evacuava quella città, lungo una strada costruita e incatramata di fresco , Guillet, col cuore stretto, aveva il presentimento che i soldati marciassero verso una trappola .

« Se i carri inglesi >> , disse a Battizzocco che gli stava accanto, « sono riusciti ad aggirare il Cochen, possono anche essere penetrati più a est , nella vallata, e possono sorprendere Ja colonna priva di difesa. >>

« E probabile , com andante, ma chi può fermarla? E se questo fosse possibile, che alternative ci sono? Perduto il controllo del Cochen , la difesa della città è ormai impossibile . >>

Battizzocco avrebbe voluto aggiungere: « E noi, che facciamo? » Ma si trattenne perché capiva , dal modo in cui Guillet spostava il cannocchiale da destra a sinistra, che il suo comandante non gli prestava attenzione. Una grossa mosca si era posata sulla guancia del suo comandante senza che questi se ne accorgesse . Sembrava tutto preso a osservare due. corvi che sul tetto di una catapecchia saltellavano sbattendo le ali, incerti in quale direzione volare .

Amedeo quei due uccelli non li vedeva , preso com'era a calcolare mentalmente il tempo indispensabile ai vari reparti per oltrepassare le colline, a metà strada per Cheren , dietro le quali potevano nascondersi gli inglesi. Al posto del nemico, avrebbe lasciato passare indisturbate le prime unità per poi gettarsi sul grosso della divisione.

Un piano del genere avrebbe richiesto del tempo anche agli inglesi . Non potevano impegnare contro quelle truppe, sia pure in ritirata , i loro soldati sfiniti dalla battaglia del Cochen. C'era dunque ancora la possibilità di evitare un disastro, a condizione che i reparti evacuassero Agordat abbandonando la strada carrozz abile per seguire invece i binari della ferrovia . Questi correvano sul fianco dei monti, lungo un quasi ininterrotto precipizio, che rendeva impossibile ai carri inglesi operare contrò di loro .

AGORDAT 125

Come l'Iella piana di Cherù, Guillet ebbe di nuovo l'impressione di trovarsi di fronte a un'occasione che occorreva afferrare all'istante o perdere per sempre . Gli si offriva la possibilità di sfruttare la passività di truppe stanche e deviarne la marcia. Un'iniziativa che poteva salvarle ; ma portarlo, in caso di fallimento, davanti alla corte marziale . Valeva tuttavia la pena di tentare .

<< Corri da Mattinò >>, disse a Battizzocco che cont inuava a osservarlo in silenzio, << digli di raccogliere con la sua banda quanti più militari potrà e di scortarli fino ai binari. Chi non ci arriva è perduto. Abbandonare i bagagli ingombranti; preoccuparsi solo delle armi e delle munizioni. >>

Partito Battizzocco a briglia sciolta, Amedeo divise il resto dei suoi uomini in pattuglie a cavallo e a cammello . Ordinò loro di raggiungere la cresta delle colline sovrastanti la ferrovia : di Il avrebbero potuto vedere arrivare gli inglesi , ammesso che questi avessero deciso di correre loro dietro fra le montagne. Poi si mise a cercare i vari comandanti per spiegare loro i rischi che correvano continuando a procedere sulla strada asfaltata . Alcuni obiettarono che non stava a lui cambiare le istruzioni ricevute ; i più compresero la logica di quella proposta e convinsero gli altri a seguirli.

Tornato in città per unirsi ai reparti che per ultimi lasciavano Agordat, Guillet poteva vedere , dal tetto della casa su cui era salito, reparto dopo reparto cambiare direzione di marcia e dirigersi verso la strada ferrata .

<<Ce l'abbiamo fatta ancora una volta», mormorò asciugandosi il sudore che gli .segnava il viso sporco, come la striscia di una lacrima.

Scese dal suo improvvisato osservatorio, accarezzò Sandor , sall in sella e al passo, col trombettiere al fianco ·e i resti della Banda comando alle spalle, si portò sulla strada ferrata, sperando che quei reparti potessero contribuire alla difesa dell'Eritrea. Ma era stato uno sforzo inutile

126 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

perché poche settimane dopo, a Cheren, l'Italia aveva perso la guerra in Africa Orientale.

· Qui, per due mesi, 25 mila uomini, al comando del generale Carnimeo, avevano resistito agli attacchi inglesi con disperato valore. Attorno alle undici vette di roccia che cingono la città come altrettanti << denti di giganti », i due eserciti si erano affrontati con la determinazione di chi è cosciente della posta in gioco .

A tre riprese i britannici avevano attaccato e a tre riprese erano stati respinti: dal2 al 6 febbraio, con una brigata; il 10 co11 l'intera IV Divisione indiana; il 15, dopo aver neutralizzato l'aviazione italiana, con due divisioni protette da stormi di bombardieri.

Erano stati i giorni più duri e sanguinosi dell'intera campagna, con migliaia di morti da ambo le parti, incluso il generale Lorenzini, del quale un rapporto inglese diceva che << la sua morte fu un vero disastro » per gli italiani. Il 23 marzo Platt incominciava a dubitare della vittoria e a pensare alla riti.J:ata, tanto più penosa, per lui, in quanto in quel giorno le truppe che una settimana prima avevavo dconquistato Berbera, in Somalia, marciavano dal sud verso Harrar .

Molti dei suoi reparti avevano avuto il 65 per cento di morti e feriti. Churchill, conscio dell'importanza della battaglia, chiedeva al quartier generale del Cairo di inviargli rinforzi. Ma proprio quel giorno i genieri indiani erano riusciti ad aprire una breccia nel cumulo di rocce con cui gli italiani avevano bloccato la gola strategica di Dongolass, infiltrandosi alle spalle dei difensori. Per trentasei ore tutte le artiglierie a disposizione delle truppe britanniche avevano aperto il fuoco sulle posizioni italiane. Dal 15 al 17 marzo i suoi cannoni avevanò sparato 110.000 colpi. Il 25 le linee italiane avevano finalmente ceduto . Sui 45 . 000 italiani e indigeni che difendevano Cheren, 3 3. 84 7 vennero messi fuori combattimento, con più di 12 .000 morti.

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Se gli italiani avessero resistito per breve tempo ancora a Cheren ... si sarebbero potuti la vittoria ... La perdita di Cheren rappresentò la svolta nella guerra e poco mancò che tutto si svolgesse altrimenti. *

Amedeo, arrivato a Cheren col suo gruppo compatto, era stato subito inserito nello schieramento difensivo della città. Ai primi di marzo gli era stato affidato il settore del Gherher, da cui si dominava la piana di Mansura nella quale aveva condotto a termine arditi colpi di mano .

Durante quei combattimenti il Duca d'Aosta, venuto a ispezionare il fronte, l'aveva mandato a chiamare. Si conoscevano da anni e si incontravano sovente da quando Amedeo di Savoia era stato nominato viceré d'Etiopia. Si era sempre tenuto informato delle attività dei reparti di Guillet e a più riprese lo aveva assistito nel compimento delle sue missioni. Questa, però, fu la sola occasione in cui il principe gli aprl il suo animo, sapendo di poter contare sulla sua discrezione.

Tristemente aveva ricordato a Guillet come gli aiuti che Roma gli aveva promesso non fossero mai giunti . Se il governo avesse mantenuto la parola, l'Impero avrebbe potuto essere salvato . Non aveva pronunciato la parola disfatta, ma era chiaro che si rendeva conto della situazione disperata in cui si trovavano le truppe a Cheren e nel resto del territorio. Proprio per questo, voleva chiedere a tutti coloro che potevano farlo, di continuare a combattere . Occorreva resistere con ogni mezzo, gli aveva detto il Duca, per impegnare in Africa Orientale quante più truppe inglesi possibile, alleggerire il fronte libico e facilitare la conquista del Canale di Suez.

Ad Amedeo questo colloquio era sembrato il testamento di un uomo che si preparava a morire, un'ultima volontà

* A . Mockler, cit. , p. 440.

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da eseguire, che gli veniva affidata come pegno, al tempo stesso, di onore e di amicizia. Un pegno e un impegno che si era trasformato nella sua principale preoccupazione da quando, decisa l'evacuazione di Cheren , era stato inviato con i superstiti delle sue bande appiedate a Ad Teclesan, una gola dove Frusci aveva ammassato tutte le sue riserve per un'ultima difesa dell ' Asmara .

Qui, in sei giorni di combattimento aveva perso 126 uomini , distrutto tre carri armati inglesi con bottiglie incendiarie e per la prima volta, dall'inizio della guerra, era rimasto ferito al tallone.

Gli amhara , guidati dal capitano Guillet, si lanciarono contro i Fusiliers e gli indiani. Li sorpassano e cadono su una colonna di camionette e carri armati, che attaccano con bombe a mano e bottiglie di benzina . Bruciano tre carri armati e cinque camionette . Si riordinano e ripiegano. Questo disperato contrattacco serve a fermare per qualche tempo l'avversario e a dar modo alla difesa di Addigares di organizzarsi e di rinforzarsi con elemento che sopraggiungono dall'Asmara ... Il raggruppamento amhara è ridotto a 176 uomini appiedati ... Sorpassati dalle colonne inglesi, che marciano verso l'Asmara, dove giungono il l ·aprile, essi nella notte del 3 aprile si aprono la strada, con un 'azione di sorpresa, guadagnando le montagne, portando con loro Guillet ferito , ·e si mutano in guerriglieri . Il Raggruppamento ha avuto in tutta la campagna 826 morti, 600 feriti, nessun disertore . *

A Ad Teclesan, il colonnello Borghesi, comandante del Reggimento dei Granatieri di Savoia, era venuto a felicitarsi con Guillet per il modo in cui i suoi cavalieri indigeni continuavano a combattere. Raggiunto da una pallottola

* A Bruttini , G . Puglisi, L 'Impero tradito, p . 197-198.

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gli era caduto morente tra le braccia. Era stato probabilmente in quel momento che aveva deciso eli entrare in clandestinità se il governo a Roma avesse dato alle truppe dell'Impero l'ordine eli resa.

Non si faceva illusioni sul futuro dell'Etiopia. Nessun paese europeo l'avrebbe ormai potuta governare, dopo che il negus era ritornato sul trono. Ma con l'arrivo in Libia dell' Afrika Korps, si poteva sperare in un ribaltamento della situaziope militare, come era successo in Grecia dopo l'intervento tedesco. Non valeva perciò la pena di tentare eli guadagnar tempo, impegnando quanti più inglesi possibile in Eritrea dove si poteva contare sulla fedeltà degli indigeni? ll generale tedesco von Lettow-Vorbek, era riuscito in un'impresa simile e per cinque anni, in T anganica, nella prima guerra mondiale: con truppe indigene, senza rifornimenti, lontano migliaia di chilometri dalla madrepatria. In caso eli successo delle forze dell'Asse nell'Africa settentrionale, si sarebbero potuti ottenere aiuti con cui, forse, liberare la vecchia colonia dall'occupazione britannica; in caso eli insuccesso, l'aver dimostrato la fedeltà dei capi e della popolazione indigena all'Italia avrebbe potuto influire sul futuro della colonia anche se la guerra fosse stata perduta. ·

Questa idea, o piuttosto queste speranze, gli avevano dato la forza di rompere, con i pochi uomini incolumi, l'accèrchiamento nemico a Ad Teclesan nella notte del l aprile, zoppicando e lanciando bombe a mano. Aveva attraversato un bivacco eli truppe indiane, si era rifornito eli cibo in un loro deposito e aveva raggiunto l'Alto Ansebà dove sapeva eli poter contare sull'appoggio della popolazione locale. Bopo qualche giorno era tornato da solo all'Asmara, proclamata città aperta dal generale Frusci.

La città era in stato eli shock, con gli inglesi che non ne avevano ancora preso pieno controllo e gli italiani che si sforzavano eli esercitarvi un'autorità che non possedevano più.

130 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Non trovò nessuno a cui parlare dei suoi progetti di resistenza: tutti sembravano pensare solo a se stessi. Questo gli tolse gli ultimi scrupoli: realistica o no, l'azione che intendeva intraprendere dipendeva ormai solo dalla sua volontà.

Come e con chi, non Io sapeva; ma era chiaro che non avrebbe poruto agire in divisa. Era andato da Rugiu a chiedergli in prestito degli abiti. Vestito goffamente da civile, con qualche centinaio di lire che Rugiu aveva voluto fargli prendere, solo e zoppicante, si era messo in marcia verso il villaggio di Zazegà dove viveva Ghebrè Yesus Gheremedin, un suo amico .

AGORDAT 131

LA situazione di Guillet non era brillante. Poteva, naturalmente, nascondersi fra gli indigeni e attendere lo sviluppo degli avvenimenti in Africa settentrionale, prima di gettarsi nuovamente nella mischia. Procrastinare non gli pareva, tuttavia , né una soluzione degna di un soldato - specie quando a Gondar il generaie Nasi continuava a resistere - né logica , dato che la passività non gli avrebbe giovato. Prima o poi , la sua presenza sarebbe stata risaputa e gli inglesi gli avrebbero dato la caccia come militare nemico in fuga . La differenza fra l'essere preso con o senza le armi .in mano , stava solo nel tipo di condanna che avrebbe eventualmente subito . La morte gli sembrava preferibile a una lunga prigionia. Era dunque meglio -e sotto certi aspetti più sicuro - riprendere subito la lotta , approfittando della confusione che l'ordine di resa impartito da Roma aveva creato nella vecchia colonia.

Era un ordine a cui gli italiani erano tenuti a obbedire. Per gli indigeni, invece, Roma era un concetto astratto. Ciò che contava per loro era l'autorità personalizzata, detentrice locale del potere, di qualunque tipo essa fosse. Stava a lui continuare a rappresentarla nei confronti dei suoi exsoldati e degli indigeni che gli erano fedeli: non doveva esserci soluzione di continuità fra passato e presente .

Si rendeva conto , naturalmente , delle difficoltà d ' organizzare una resistenza armata in un territorio sottoposto all'occupazione militare nemica in cui, per di più, c'erano europei che per antifascismo, ma alcuni anche per interesse, erano disposti a collaborare con gli inglesi. Tirando le

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somme di ciò di cui disponeva, all'attivo poteva mettere solo le armi e le munizioni che in passato aveva immagazzinato e in più punti dell'Eritrea per servire ai bisogni del suo Gruppo. Al passivo, c'era la mancanza di fondi, di viveri e di mezzi di collegamento .

Queste deficienze non gli parevano incolmabili: chi l'avesse seguito, non l'avrebbe fatto per denaro; l'assenza di mezzi di collegamento lo liberava dalla tentazione di restare in contatto con altri italiani e dunque coinvolgerli nella sua awentura. I collegamenti fatti a voce, a mezzo di indigeni, gli sembravano più sicuri di quelli radio che gli inglesi avrebbero potuto facilmente individuare .

La penuria di viveri, invece, lo preoccupava non meno della mancanza del sostegno logistico per i feriti e gli ammalati, che non sarebbero certo mancati. Abbandonarli sarebbe stato disonorevole e deprimente per il morale dei compagni; trasportarli in luoghi sicuri e curarli presupponeva un minimo di organizzazione che a lui mancava . Per crearla non bastava fare affidamento sulla cooperazione e l'omertà della popolazione: occorreva sviluppare attorno alla sua resistenza un alone di mistero e di leggendaqualcosa fra il mito di Robin Hood e Fra Diavolo- che gli garantisse il rispetto e la collaborazione attiva della popolazione civile. Non sarebbe stato facile ottenerla. Avrebbe dovuto imporre ai suoi guerriglieri una ferrea disciplina , pur sapendo quanto sarebbe stato difficile resistere alla tentazione di vivere alle spalle dei contadini, per chiunque portasse un fucile: la sua guerriglia non doveva confondersi con la razzia; doveva unire il prestigio alla povertà, far risaltare la differenza fra guerrieri e banditi, distinguere la sua <<società d'onore>> da qualunque forma africana di «onorata società».

Un àltro problema lo turbava: la mancanza di ufficiali con cui dividere le responsabilità e la guida della guerriglia . Togni era morto. Pietro Bonura, primario d'ospedale

LA GUERRIGLIA 133

e Carlo Cali, veterinario - ammesso fossero liberi e vivigli sarebbero stati più utili nei loro laboratori che nella banda che intendeva creare . Angelo Maiorani era troppo anziano per imbarcarsi nella sua avventura con una famiglia da mantenere all'Asmara. Di lui , Amedeo non sapeva più nulla, ma sperava che avesse potuto riprendere l'attività di avvocato, senza dare troppo nell'occhio . Ignorava la sorte di Fortunato Ciriani e di Ambrogio Mattinò che aveva inviato all'Asmara prima della resa, l'uno per mettere in salvo l'archivio del Gruppo, l'altro per informarsi della situazione delle famiglie degli ascari, accantonate nei pressi della città. Quando pensava a Mattinò, Guillet lo rivedeva alla testa del suo squadrone, intento a richiamare su di sé il fuoco delle camionette inglesi infiltrate fra le truppe in ritirata della 4lesima brigata di fanteria . Non se lo poteva immaginare chiuso per mesi - forse per anni - in un campo d'internamento. Di Lucarelli e di Cara aveva, invece, notizie: erano stati fatti prigionieri, dopo aver protetto coi loro reparti il ripiegamento di un battaglione di granatieri, mentre, con pochi uomini , andavano alla ricerca di una colonna di munizioni che tardava ad arrivare .

Anche di Guido Battizzocco aveva perduto le tracce . li giorno prima della caduta di Teclesan, il31 marzo, gli aveya ordinato di occuparsi dei quadrupedi del Gruppo. Si trattava di un migliaio di animali - cammelli, cavalli e muli - accompagnati da quasi quattrocento uomini, molti dei quali feriti . Rappresentavano la « riserva strategica >> su cui Guillet contava per continuare la guerra, utilizzandola per i suoi trasporti e per farne dono ai capi locali , allo scopo di accattivarseli.

A Battizzocco avrebbe forse proposto di seguirlo nella clandestinità, anche se sarebbe stato difficile trasformare in indigeno quel grosso alpino. Ma era il tipo dell' organizzatore, pieno di risorse e di coraggio, di cui avrebbe avuto bisogno in quel momento, l'amico con cui confidarsi. Invece era rimasto solo.

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Questa solitudine gli pesava. Gli appariva stranamente diversa da quella che aveva lui stesso cercato nel deserto in Libia o nell'isolamento malinconico in cui sprofondava a volte, in Spagna, riflettendo sulla follia di una guerra civile a cui partecipava, al tempo stesso, da attore e spetta· tore.

A Zazegà fra il cicaleccio delle donne, lo starnazzare dei polli, il ragliare degli asini, affrontava per la prima volta la solitudine di chl ha rotto i legami con la società in cui aveva sino a quel momento vissuto. Libero come mai prima, osservava con stupore il vuoto che gli si era aperto - attorno e nel suo stesso animo - con la scomparsa di tutto ciò che siQ.o allora lui aveva rappresentato: un ufficiale, unitaliano e un cristiano.

Non lo turbava il fatto di doversi trasformare in un indigeno e accettarne le condizioni di vita, che non erano certo peggiori di quelle a cui la guerra l'aveva allenato. Temeva, però, di fare della su'a metamorfosi in arabo musulmano un goffo camuffamento temporaneo; di oscillare, fra due civiltà, due religioni, due mondi, incapace di identificarsi con uno di essi. Tutto questo lo riempiva di ansia, di angoscia, di dubbi che non poteva confidare a nessuno, neppure a Kadija, che l'aveva raggiunto. I suoi dolci silenzi non ser-Vivano, alle volte, che ad aumentare il suo malinconico isolamento .

Qualcosa del suo travaglio un vecchlo del villaggio doveva aver percepito se, una sera, mentre se ne stavano seduti per terra attorno al fornello, attendendo che l'acqua del tè cominciasse a bollire, gli aveva suggerito di disfarsi dei pantaloni di Rugiu.

« Anche delle scarpe >>, aveva aggiunto dopo una pausa. Non aveva detto altro e lui aveva assentito con un cen· no del capo. Con quel gesto sapeva di aver suggellato la conclusione di una vita ed essersi imbarcato in un'altra .

La sostituzione di ciò che gli restava di indumenti europei con una futa e un turbante avvolto intorno al capo fu

LA GUERRIGLIA 135

l'inizio di un mutamento esteriore e interiore, con il quale prendeva forma e contenuto quell' Ahmed Abdallah el Redai, musulmano yemenita di rito zeidita, soldato smobilitato delle truppe coloniali italiane, in attesa di rimpatrio . Era qualcuno molto diverso dal tenente di cavalleria, promosso capitano sul campo e privato del suo comando dalle sorti della guerra; qualcuno che si accorgeva di come i problemi morali potessero diventare semplici e i rapporti umani più complicati. Scopriva, con stupore, che allo stato quasi naturale in cui viveva, la religione cessava di essere un'istituzione per divenire una fede comune che pervade ogni atto della vita quotidiana; scopriva come fosse importante tacere su ciò di cui non si poteva parlare; come il rito rimpiazzasse sovente il discorso; come il gesto, anche il più involontario, potesse assumere un significato simbolico e celare un messaggio. Scopriva l'importanza dell'aneddoto, della forma, del tono con cui veniva pronunciato; scopriva la distinzione, alla quale non aveva mai prima fatto caso, fra umorismo e ironia: solvente di tensione, il primo, fra uomini semplici ma attenti; pericolosa, la seconda, perché poteva ferire più profondamente di un coltello .

Nel mondo indigeno di cui era entrato a far parte, la guerriglia appariva qualcosa di normale, s'inseriva in un sistema di vita tribale, dove la morte era sempre presente e i rapporti fondati su tradizioni di onore e di solidarietà familiare. In una società del genere, il male non teneva conto dei motivi che l'avevano prodotto. n male- e la presenza di un conquistatore straniero lo era per la sua stessa natura - creava da sé la ragione dello scontro, il malfatto che si doveva punire .

Amedeo si accorgeva che, per guidare quella guerriglia, non c'era bisogno di strutture, di organizzazione complessa, di gerarchie, ma di prestigio e lealtà personale.

La notizia che Cummundar-as-Shaitan aveva deciso di formare una banda si era subito sparsa fra i suoi uomini . Un po' più di cento indigeni - per lo più veterani del suo

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Gruppo - si dichiararono pronti a seguirlo nella prima riunione che aveva convocato in una sera senza luna, alla fine di maggio, un mese dopo la caduta di Addis Abeba.

Gli uomini si erano accoccolati per terra attorno a lui, in semicerchio , sotto un cielo pieno di stelle . Ciascuno portava con sé il fucile, le bandoliere con le :munizioni a tracolla e un pugnale infilato nella

Ascoltarono in silenzio ciò che Amedeo aveva da dire .

Chi l'avesse seguito , non doveva aspettarsi d'esser pagato, se ,non quando gli italiani fossero tornati in possesso dell'Eritrea. La loro lptta sarebbe stata, allora, riconosciuta come servizio militare regolare e volontario. Se fossero stati catturati con le armi in mano, rischiavano di essere giustiziati. Se feriti, non potevano contare che sulla solidarietà dei compagni.

Avrebbero attaccato solo bersagli militari . Non avrebbero preso ostaggi, non avrebbero assaltato banche o negozi per procurarsi cibo o denaro. Per nessun motivo avrebbe consentito loro di taglieggiare la popolazione: neppure una gallina avevano il diritto di estorcere ai civili. Soldati erano stati e soldati dovevano rimanere. il fatto di non vestire l'uniforme non li autorizzava 'a trasformarsi in banditi.

Non poteva promettere loro che una vita di sacrifici e di stenti. Ma sarebbe stata una vita in cui le occasioni di fare onore a se stessi e alle proprie famiglie non sarebbero mancate. L'eco delle loro imprese si sarebbe sparsa per tutto il paese.

Chi non fosse stato disposto a sottostare a queste condizioni, doveva andarsene . Nessuno , !''avrebbe accusato di codardia, perché ciascuno di loro aveva già dato prova del proprio valore . Chi restava, non doveva solo considerarsi un militare sottoposto a disciplina, ma come un membro di una nuova, grande famiglia che aveva deciso di sfidare un nemico numeroso e potente . Lui, in ogni caso, avrebbe continuato a combattere: da solo se fosse stato necessario, con loro sino quando Dio lo avrebbe permesso.

LA GUERRIGUA 137

Tacque e attese. Nessuno accennò a muoversi. Quando, dopo un lungo silenzio, Amedeo disse:

« Mashallah, sia come Dio ha voluto . Andiamo . » Si alzarono e in fila indiana presero a seguirlo come in passato, senza porre e, forse, porsi domande .

Ai primi di giugno un convoglio militare inglese fu attaccato sulla strada dell'Asmara; una settimana dopo fu la volta di un posto di blocco nei pressi di Ghinda. Gli inglesi attribuirono entrambi gli scontri a fuorilegge locali ,e non ne diedero notizia alla stampa . Quando la banda di Guillet distrusse il primo ponte, l'operazione fu definita << azione di sabotaggio », e una copia del rapporto fu inviata a Nairobi e al Cairo. La responsabilità dell'incidente non era attribuita a nessuno in maniera specifica, ma una nota interna della Field Security avanzava l'ipotesi che si trattasse di un'operazione ispirata dai servizi segreti italiani . Quando, in seguito, saltò in aria un deposito di munizioni a Massaua, per cause che non avevano nulla a vedere con le attività di Guillet - ma dopo che questi aveva attaccato colonne di rifornimenti , convogli militari e bloccato un treno dentro una galleria sulla linea Asmara-Cheren - la stampa inglese attribul l'esplosione a un gruppo di fuorilegge apparentemente guidato da un ex ufficiale italiano. In seguito , su queste attività venne imposta la censura, ma nell'ufficio dell'Intelligence, all'Asmara, dove era nota la vera identità del Cummundar-as-Shaitan, i rapporti concernenti Amedeo Guillet andarono a ingrossare cartelle stampigliate col timbro« Top Secret ».

Era una di queste pratiche che, dopo mezzanotte , il capitano Reich stava ancora spulciando con grande attenzione.

Il capitano amava definirsi realista . Non aveva apirazioni politiche ma era ambizioso in due sensi : riteneva che cultura e intelligenza giustificassero il diritto a un rapido

138 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

avanzamento. Era convinto che il rigore con cui espletava il suo compito e i risultati che otteneva avrebbero finito col prevalere sui pregiudizi che - secondo lui - la gerarchia militare continuava ad avere nei suoi confronti , a causa delle sue origini ebraiche palestinesi.

Questi sentimenti contribuivano a trasformare la cattura di Guillet in qualche cosa di più che una semplice operazione di polizia. Si trattava di mettere fine a una sfida lanciata da un ufficiale nemico all ' autorità d'occupazione .britannica; di neutralizzare un fattore di disturbo che poteva svilupparsi in un precedente di ribellione indigena .

Non era affatto sicuro che il suo avversario nutrisse intenzioni genere. Probabilmente si trattava solo di un militare in cerca di avventure e di fama . Ma la sua guerriglia metteva a confronto due conce zioni che non ammettevano compromessi.

Da una parte , c'era la sua visione della situazione fondata sull'analisi di elementi concreti - come la topografia, le possibilità di rifornimenti, i collegamenti , i rapporti tribali e le necessità finanziarie dell'avversario - visione che avrebbe dovuto determinare la tattica da seguire contro azioni di sabotaggio o di banditismo del tipo di quelle organizzate da Guillet. Dall ' altr a , c'era la razionalità o piuttosto l'irrazionalità, della condotta di quell'avversario che a Reich appariva animato da un complesso di esibizionismo e da una visione romantica della guerra. Non sottovalutava l'importanza di elementi come l'onore o il coraggio, ma si rifiutava di attribuire a un europeo, sia pure conoscitore della mentalità africana , la capacità di guidare per un lungo periodo una rivolta di indigeni, che secondo lui dovevano ,sentirsi vittime di un sistema coloniale oppressivo e corrotto come qqello fascist a .

Mettere fine alla rivolta di Guillet era perciò, per lui , più che un dovere, un imperativo morale , l'occasione per dimostrare che quel tipo di resistenza non aveva radici

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politiche, sociali o storiche. Si trattava di un caso, sia pure speciale, di banditismo.

Aveva anche la sensazione che il suo superiore diretto e, come lui, probabilmente, altri ufficiali britannici, vedessero nella caccia che stava dando a Guillet uno scontro fra un<< parvenu >>e << uno dei loro >>, anche se appartenente al campo nemico . Lo irritava l'idea che un ribelle potesse simboleggiare il contrasto tra valori che esulavano dagli scopi locali della guerra: un contrasto tra modernità e tradizione, tra lealtà di clan e di istituzioni di diritto, tra società ispirata dall'onore e quella mossa dal successo . Un conflitto che per la sua conoscenza del mondo islamico riteneva destinato a non essere risolto dalla guerra, bensì inasprito da essa sino a diventare, alla fine, uno scontro generale fra paesi<< retrogradi >>e paesi<< sviluppati >>.

Reich si rendeva conto dell'attrazione magnetica che Guillet esercitava sugli indigeni, ed era convinto di aver a che fare con un avventuriero: perciò, pensava, se fosse riuscito a cogliere la natura del carattere del suo avversario, ad afferrarne i meccanismi profondi, a interpretarne gli istinti e i moventi, avrebbe potuto prevederne le mosse o trovare la maniera di indebolirlo, separandolo dai suoi seguaci. Doveva però fare presto. Dopo lo scacco subito dai sudanesi e la convocazione del maggiore Harari a Nairobi, c'era il rischio che l'incarico venisse affidato a qualcun altro. Questo sarebbe stato per lui un triplice insuccesso: personale, professionale e ideologico. Non poteva permetterselo.

La stanza in cui stava lavorando aveva un aspetto monacale. C'era, su un lato, una branda con lenzuola e coperte accuratamente ripiegate le une sulle altre; al centro, un tavolo d'ufficio sostenuto da due cavalletti. Il resto del mobilio consisteva in una poltroncina militare, un armadio di ferro contenente due uniformi, biancheria e tre paia di scarpe, uno sgabello su cui era posato un asciugamano ripiegato accanto all'astuccio per il sapone, al pennello da

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barba e allo spazzolino da denti. Il pettine, invece , lo portava sempre con sé, nel taschino sinistro della camicia. Da alcuni chiodi attaccati al muro pendevano il cinturone con la pistola, l'elmetto , l'astuccio della maschera antigas e quello delle carte geografiche .

Era l'una di notte passata quando Reich arrivò all'ultima pagina del fascicolo Gui!let . Aveva letto l'intero malloppo senza arrestarsi , prendendo di tanto in tanto qualche appunto su pezzetti di carta che ora voleva riordinare.

La poltroncina su cui era seduto era un curioso sedile a forma di semicupio, di pelle e tela, probabilmente inventato da qualche pigro ufficiale della sussistenza britannica in India per godersi la siesta accanto a un bicchiere di whisky. Ma in quella poltroncina il capitane Reich non si era lasciato prendere dal sonno : al contrario , man mano che leggeva le idee gli si facevano più chiare e si sentiva pervaso da una insolita eccitazione. Temperò due matite con una lametta di rasoio usata, prese un blocco di carta, divise la prima pagina in tre sezioni. Sulla prima scrisse

<< Guerra », sulla seconda << Religione >>, sulla terza « Ca' rattere >> . Poi, con la sua scrittura minuta e nitida, cominciò ad annotare le sue conclusioni .

Il rapporto del comandante della batteria del Surrey Re- . giment e quello dell' artiglieria della rv Divisione sulle due cariche di cavalleria che avevano subito a Cherù , non lo impressionavano eccessivamente . Beau geste, pensò , di cui tutti gli eserciti si vantano e che spesso conducono a disastri. Vedi Balaclava.

I rapporti comando della Gazelle Force sulle azioni di disturbo che i reparti di Guillet, a cavallo e appiedati, avevano condotto contro i battaglioni indiani e scozzesi da Agordat a Cheren gli sembravano invece più rivelatori della personalità dell'uomo che stava studiando .

Erano stati questi reparti a raccoglie re e scortare fra i monti « gruppi disorganizzati di ascari appartenenti ad almeno cinque battaglioni >>. Erano ancora stati loro, nel

LA GUERRIGLIA 141

mezzo di una ritirata che i rapporti definivano «caotica e disorganizzata», a impedire che migliaia di soldati italiani, invece dei settecento che gli scozzesi avevano catturato, cadessero prigionieri.

In questi rapporti del comando della Gazelle Force Reich trovava conferma del fatto che Guillet, indipendentemente dal suo grado , si comportava come un comandante di grande unità correndo rischi e prendendo iniziative poco compatibili con le prerogative di un subalterno.

«Quest'uomo ha un bisogno compulsivo di uscire dai ranghi. » Per non dimenticare questa sua impressione annotò nella colonna riservata al <<Carattere», dove aveva già scritto courageous, coraggioso, due altre parole: highly independent, fortemente indipendente . Pensando poi ai cinquecento chilometri che il Gruppo Bande aveva coperto, combattendo, fra Agordat e Cheren, aggiunse: resistantresource/ul, resistente e pieno di risorse.

Prima di accingersi ad annotare le sue impressioni sotto le due altre colonne si grattò a lungo, lentamente, l'orecchio. Era un gesto che gli veniva istintivo quando non riusciva a mettere a fuoco con precisione i suoi . pensieri.

Era chiaro che Guillet non era soltanto un fegataccio o un romantico awenturiero, che faceva la guerra e la guerriglia come uno sport. Era un militare capace di concepire e attuare operazioni tanto offensive quanto difensive. La sua resistenza non aveva senso se si proponeva di creare un secondo fronte; ma se si fosse trasformata, per dirla alla francese, in un <<ascesso di fissazione», poteva diventare pericolosa, specie se le azioni di disturbo si fossero protratte nel tempo .

Seguendo il filo dei suoi ragionamenti, annotò nella colonna <<Guerra» le parole <<pericolo tattico e strategico», pensando che ogni scaramuccia riuscita poteva accrescere il suo prestigio agli occhi degli indigeni e assicurargli nuove reclute. Occorreva, dunque, isolarlo. Qui si presentava però un altro ostacolo di cui, grazie alla conoscenza che

142 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

aveva del mondo musulmano, gli era possibile valutare tut· ta l'importanza.

Amedeo Guillet aveva cessato - almeno per i suoi uomi· ni - di essere un ufficiale italiano . Era un musulmano che aveva preso le armi contro degli europei. Poteva contare sull'omertà africana e fare leva sui sentimenti an ti-europei latenti nelle masse indigene. La fede che aveva abbracciato, oltre a rafforzare il suo prestigio di capo, metteva a sua disposizione informatori più credibili e probabilmente più efficienti di quelli che lavoravano per gli inglesi.

Reich tornò a temperare con cura la matita prima di an· notare tre parole nella colonna della << Religione » accompagnandole con un punto di domanda : clero cattolico?clero etiopico? - ebrei? Poi, tornando alla colonna del << Carattere >>, scrisse rapidamente , una sotto l'altra, le pa· role : vergogna, onore, romanticismo, mania di grandezza, ideologia . Sull'ultima parola ebbe un ripensamento . La cancellò con un tratto di matita. Depose il blocco di carta sul tavolo e stiracchiandosi si alzò dalla poltrona.

Era troppo affaticato per a conclusioni più det· tagliate sul rapporto che aveva letto. Gli sembrava , però, di saperne abbastanza per formulare il piano che , l'indomani o il giorno dopo, avrebbe sottoposto a Harari.

Si passò più volte le dita nei capelli, prese in un angolo della stanza una giara di terracotta , col manico da un lato e il becco dall ' altro. Tenendola alta sulla testa rovesciata all'indietro colse, alla maniera indigena, il getto d'acqua fra le labbra semiaperte . Il liquido fresco gli suggerl un'idea . Depose la giara, stracciò un foglio dal blocco, lo posò sulla tavola e scrisse , come se fosse un'equazione : eroe x musulmano = località indigena x possidente italiano .

Se gli fosse riuscito di individuare la fattoria isolata di un italiano, con molti lavoratori indigeni, forse avrebbe potuto individuare una delle basi della guerriglia. Non si trattava che di un'ipotesi , ni.a valeva la pena di approfondirla . L ' avrebbe fatto l'indomani , chiedendo al Diparti-

LA GUERRIGUA 143

mento dell'agricoltura dell'Asmara la lista delle concessioni italiane situate nel perimetro di attività del Cummundar-as-Shaitan .

Macchinalmente, si pr eparò il letto , si tolse la divisa e fece per coricarsi. Mentre si abbottonava la giacca del pigiama si fermò di colpo . Si avvicinò di nuovo al tavolo e annotò, pensando alle capacità di marcia del suo avversaRaggio di almeno cinquanta chilometri •>> .

Poi si .infilò •sotto la coperta e cercò di dormire .

144 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

ORLANDO Rizzi si era trasferito in Eritrea nel 1911. Se avesse ritardato di qualche mese la partenza da Roma si sarebbe probabilmente arruolato volontario per la Libia e vi sarebbe rimasto, preso com'era dalla passione per l'Africa. Arrivato all'Asmara non si era più mosso, se non per combattere in Europa nella prima guerra mondiale. ·

Annamaria, la moglie, lei pure di stirpe pioniera - il padre colonnello dei bersaglieri aveva partecipato alla campagna d'Etiopia del '96 - divideva con il marito e le tre figlie lo spirito di patriottica avventura che caratterizzava i vecchi coloniali .

Piuttosto alto di statura, capelli tagliati" a spazzola, dotato di una salute di ferro, Rizzi non si interessava di politica. Come molti italiani d'allora, vedeva nel fascismo un movimento che ridava prestigio al paese e voleva correggere «le ingiustizie del Trattato di Versailles ». Aveva perciò approvato la conquista dell'Etiopia anche se, poi, era rimasto turbato dalla violenza con cui Rodolfo Graziani aveva reagito all'attentato in cui era rimasto ferito.

Rizzi non ammetteva un eccessivo cameratismo con gli indigeni. Disdegnava, però, anche lo sprezzante atteggiamento di superiorità adottato da molti residenti e funzionari italiani nei loro riguardi. Il suo comportamento nei confronti dell'africano era un miscuglio di paternalismo e di elitarismo, tipico di una gentry coloniale che, soprattutto in. Eritrea, si era andata formando attraverso un lento processo di integrazione, dall'alto, fra notabili indigeni ed europei.

LA FATTORIA

Rizzi, come Guillet, si considerava sincero quando dichiarava che « gli eritrei sono nostri figli >>. In pratica, questo poteva essere vero, sia pure su scala limitata, sino alla metà degli anni Trenta, quando alla prole nata da madri indigene veniva automaticamente estesa la cittadipanza italiana e aperto l'accesso alla società dd residenti europei . Una minisocietà sonnolenta, ma influenzata, all'Asmara come a Mogadiscio, dal protocollo governatoriale e dalla presenza di funzionari e militari appartenenti a famiglie che tradizionalmente servivano lo Stato e per motivi di carriera o di esotismo preferivano servirlo oltremare.

Politicamente, si trattava di un piccolo mondo provinciale, conformista, che si permettt:;va - grazie alla lontananza dall'Italia, a un. ritmo di vita più lento che in Europa e alla disponibilità di servitù - una certa fronda, sia pure solo verbale, nei confronti del fascismo e della sua politica coloniale .

Nei primi anni della conquista dell'Impero, questa politica era condotta da una pletora di neo-colonizzatori - affari. sti, burocrati• , disoccupati - inviati, al seguito delle truppe, a << civilizzare >>l'Etiopia. n Duca d'Aosta, nominato viceré nel1937, aveva tentato diporvi un po' d'ordine . n 30 marzo 1939, di passaggio a Khartum sulla strada del rit'?rno a Addis Abeba dall'Italia, aveva detto al governatore ingles,e del Sudan sii: Stewart Symes lo aveva diligentemente riferito nel suo rapporto) di aver espulso dall'Etiopia 1007 italiani indesiderabili. Due giorni prima, in occasione di una cena dall'Alto Commissario inglese al Cairo, sir Miles Lampson, ' aveva dato modo a un alto ,funzionario presente di informare Lòndra il Duca aveva spiegato i problemi che gli ponevano certi gruppi di nuovi colonizzatori con queste parole: << Supponete di aver mandato in Etiopia tutta la feccia dell'East End e di aver lasciato che si sc;;atenasse. Potete ben comprendere cosa sarebbe accaduto. E per l'appunto quello che abbiamo fatto noi e ora bisogna ripulire il paese, in un modo o in un altro >>. ,

146 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUillET

Non era un compito facile e Amedeo di Savoia non si limitava ad accusare. Aveva istituito scuole per funzionari , imposto severe regole di comportamento nei confronti degli indigeni. Aveva soppresso i tribunali militari autorizzati a ordinare esecuzioni sommarie in tutto il paese ; ave va rimesso in libertà oltre mille detenuti etiopici; abolito di fatto e de jure la schiavitù , distribuendo terre a qu attromila servi della gleba nella sola regione di Galla e Sidamo . Più importante ancora era stato il consenso ottenuto da Roma (riassunto in un ' analisi della situazione in Etiopia che ottenne l'approvazione di Teruzzi, ministro delle Colonie) per sviluppare una nuova politica in tutti i territori dell ' Africa

Orientale . Questa analisi, datata 29 maggio 1939 , riconosceva gli errori della precedente amministrazione che aveva distrutto il vecchio sistema di potere etiopico basato su pochi ma influenti personaggi indigeni; che l'amministrazione della giustizia era « pessima >>; che non si era capito il problema religioso; che si erano confiscate troppe terre; che la nuova politica di separazione razziale si traduceva molto spesso in maltrattamenti ingiustificati ; che non si era sufficentemente J:lotenziato Io sviluppo economico dell'Impero. Osservazione tuttavia non sempre esatta , se si pen sa che l'Italia aveva speso in Etiopia, per scopi non militari, 3 miliardi di lire nell'anno 1936-37; quattro e mezzo nel '37-38; tre e mezzo l'anno seguente e 26 miliardi e mezzo , dal 1936 al1938, per spese militari. ·

Somme enormi, per l'Italia dell'epoca, dalle quali il viceré non aveva potuto trarre i benefici sperati nel breve tempo a sua disposizione prima dello scoppio della guerra ; né aveva potuto porre riparo agli. errori commessi da funzionari di basso livello culturale e sociale, ignoranti dei costumi locali , spesso presi dalla cupidigia dei rapidi arricchimenti , e soprattutto all'arroganza dei funzionari del Partito .

I vecchi coloniali si sentivano incompresi ed emarginati, i notabili indigeni offesi . A questo si era aggiunto per Rizzi lo sgomento per i disastri provocati dalla guerra.

LA FATIORIA 147

Egli reagiva a questo sfacelo, dedicandosi con più passione all ' amministrazione della sua concessione agricola nel Dorfur, a una trentina di chilometri dall'Asmara . In essa si sforzava di promuovere con un paternalismo << illuminato >> una stretta cooperazione con i << suoi >> indigeni, sperando che una vittoria dell'Asse restituisse l ' Eritrea all'Italia .

La guerriglia di Guillet assumeva per lui un triplice significato : era la prova che la guerra in Africa Orientale continuava ; lo confermava nella convinzione della bontà del vecchio sistema coloniale italiano; , leniva l'imbara?Zo che gli .dav a il fatto di continu are a condurre un'esistenza relativamente comoda ·'e tranquilla nel bel mezzo di una guerra che sconvolgeva le sorti del suo paese d'origine e di quello di adozibne

Per amicizia e identità di vedute, Rizzi era l'unico italiano con cui Amedeo manteneva contatti, attraverso indigeni y nonostante la regola che si era imposta di non coinvolgere connazionali nell a sua avventura .

Rizzi ne era orgoglioso . Gli aveva offerto ospitalità nella sua fattoria dove - diceva - nessuno sarebbe venuto a cercarlo . Vestito da arabo, sarebbe passato inosservato fra i molti operai - cristiani, musulm,ani, soldati eritrei e yemeniti smobilitati - che abitavanb e lavoravano sulle s1!le terre. Gli avrebbe dato, come agli altri , un tukul- una capanna di frasche - per abitazione e dieci lire al giorno per il suo lavoro . Nessuno , all'infuori del nipote Nino, di Filomena, la cuoca piemontese, e di Peter, lo svizzero che si occupava del caseificio, avrebbe conosciuto la sua vera identità. Sulla loro discrezione non aveva dubbi. Amedeo avrebbe potuto servirsi della fattoria per curarsi la ferita o per riposarsi o anche per dirigere da fi, se l'avesse voluto, la sua guerriglia. '

Guillet aveva accettato l'offerta sia pure con qualche esitazione . La concessione gli sembrava un luogo altrettanto sicuro di qualunque villaggio indigeno , da utilizzare so-

148 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

prattutto nei periodi di pausa fra un'operazione e l'altra. Aveva però stabilito precise regole di comportamento: come yemenita smobilitato, doveva mantenere minimi rapporti con gli europei, godere di un trattamento uguale a quello degli altri indigeni e non essere oggetto di alcuna familiarità o favore.

Per la prima volta da: quando era entrato in clandestinità, aveva potuto cosl stabilirsi con Kadija in un'abitazione tutta loro, nella zona della concessione riservata agli indigeni. Usciva all'alba e tornava al tukul nel pomeriggio, sforzandosi, con fatica, di adottare il ritmo di lavoro degli altri operai. Impreparato com'era ai lavori agricoli, il palmo delle mani gli si era subito ricoperto di bolle che lo facevano soffrire, più della ferita al tallone, ogni volta che impugnava una zappa o un badile.

Rizzi lo teneva discretamente d'occhio. Si era accorto delle sue difficoltà e, col pretesto della ferita, l'aveva trasferito alla cura del giardino della villa incaricandolo, anche, di seguire i lavori nella piantagione di banane e di papaie. Ciò permetteva ad Amedeo di venire più frequentemente in contatto con lui . Una domenica, approfittando dell'assenza degli operai indigeni e della venuta di Rizzi dall'Asmara, aveva accettato il suo insistente invito a desinare ·con lui, il nipote e Peter, l'amministratore svizzero.

Sedevano a tavola, nella stanza accanto alla cucina, in un locale presso il caseificio . Peter, scusandosi, si alzò per andare al gabinetto situato nel cortile . Aperta la porta, la richiuse subito, dicendo concitato : << La casa è circondata da soldati! >>.

Amedeo ebbe giusto il tempo di alzarsi da tavola, afferrare per le spalle la cuoca Filomena che li stava servendo e farla sedere al suo posto, che già i militari spalancavano a calci la porta e ordinavano a tutti di alzare le mani.

Erano sudanesi agli ordini del capitano Reich, che doveva aver studiato bene la topografia della fattoria se era riuscito ad arrivare dritto allo stabile dell'amministrazione,

LA FATIORIA 149

dove gli europei si riunivano per i pasti . Come previsto, li aveva sorpresi a tavola.

L'unico a non obbedire all'intimazione dei militari .ad alzare le mani era stato Amedeo . Vestito da arabo, aveva deposto in un angolo una scopa e sotto lo sguardo dei sudanesi si dava da fare a raccogliere i piatti e portarli in cucina, chiamando Filomena, tutta tremante, a venirlo ad aiutare .

La naturalezza del suo comportamento aveva distolto da lui l'attenzione dei militari. In colonia, i servi indigeni sono ombre e Reich era troppo occupato a interrogare Rizzi, suo nipote e Peter, per curarsi di un indigeno ; jacero e sporco, ' che per di più si muoveva come se fosse sciancato . Amedeo, nel frattempo, cercava di guadagnar tempo e trovare il modo di svignarsela. Lavava i piatti, poi li rimetteva nell ' acqua sporca per rilavarli . Aveva preso in mano la scopa e ripulito con cura la stanza da pranzo, scostando i soldati che l'avevano invasa con i loro scarponi e cercando di non attirare l'attenzione del capitano.

Era la prima volta che si trovava faccia a faccia con il suo avversario . Di sottecchi, osservava quell'uomo, dall'aspetto professorale che ascoltava distratto i rapporti dei subalterni sugli interrdgatori del personale della fattoria e sulle inconcludenti ricerche di armi.

Reich indc;>ssava una divisa pulita e ben stirata, senza tracce del caldo e del viaggio . ,Aveva. fronte eccezional- . mente alta, capelli radi, orecchie larghe, un po' a sventola, con una crosta sul lobo sinistro . Il naso, largo in punta. sopra le labbra un po' carnose che davano al viso un' espressione di lieve e costante ironia . Le scarpe marroni di swede , alte alla caviglia, erano impolverate; dai calzettoni grigioverdi non pendevano bandierine reggimentali . Portava allacciata al cinturone di fibra una pistola d'ordinanza, dal cui calcio partiva un doppio cordone verde che, passando sotto l'ascella , andava a finire sotto la spallina destra della camicia. Amedeo notò le dita corte e forti della mano de-

150 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

stra strette sul bastoncino di comando, foderato di pelle, con cui non cessava di battere sul palmo aperto della mano sinistra. n cappello a visiera portava l'insegna dell'Ordinance Corps, invece della « primula >> dell'Intelligence Corps .

Fu il caffè che offri a Guillet una via d'uscita. n capitano, finiti gli interrogatori degli europei, senza chiedere il permesso a nessuno, aveva ordinato a Filomena di preparargli due uova. Si sentiva stranamente a suo agio in quella stanza da pranzo che, grazie alla vicinanza della cucina, conservava un non so che di casalingo europeo che lo rilassava piacevolmente.

Aveva çapito che tra quegli europei, di cui del resto conosceva i nomi, non c'era l'uomo che cercava. All'impazienza che portava con sé dall'Asmara e che nbn l'aveva abbandonato per trenta chilometri di strada polverosa, era subentrata la stanchezza, nonché un profondo senso di fioia . Aveva fame e, più ancora, bisogno di agire da padrone .

Filomena, trasudata e impaurita, era cosi visibilmente turbata e, al tempo stesso, cosi ovviamente fantesca, che gli sembrava far opera di carità nel rinviarla ai suoi fornelli. Del resto, quella era un'operazione di guerra, e due uova bollite potevano rappresentare una legittima preda bellica che, se non altro, gli avrebbe fornito un argomento con cui divertire al ritorno i colleghi alla mensa ufficiali.

Trasse un profondo sospiro, come chi è costretto a passare dal mondo delle fantasticherie a quello delle realtà.

La realtà, per lui, in quel momento erano le due uova . Le aveva chieste in un italiano cosi marcato dall'accento straniero che pensò Filomena non lo avesse capito . Si rivolse allora in arabo ad Amedeo, che era in piedi vicino all' acquaio; e Amedeo ripeté la richiesta a Filomena borbottandole, sottovoce, di non aver paura.

«A le nen par mi, povra dona, che l'ai paura>>, ripeté la cuoca, in dialetto piemontese , << ma par chiel >> ma per lei.

LA FA'ITORIA 151

' << Ca staga chi tu , Filomena >>, l'ammoniva a star zitta Amedeo, nello stesso dialetto , sperando che l'ufficiale inglese non sentisse .

La cuoca Con le mani tremanti aveva rotto le uova sul fornello acceso senza metter su il pentolino, tanto grande era la sua confusione.

« Ma cosa stai facendq, Filomena? >>la rimproverò Guillet in cattivo italiano, cercando di farsi sentire da Reich; e s'enza darle il tempo di rispondere, rivolto al capitanò gli disse, in arabo:

« ' Non vedi ,,che questa don ria trema dalla paura? L'hai spaventata . Vuoi due uova?' Te le faccio io. Còme le viloi? Dure, ben bollite? lo .sono più bravo di lei come cuoco. E ti faccio anche il caffè. Ma lei !asciala stare. >>

Reich acconsentì, con una scrollata di spalle, e Filomena ne approfittò per svignarsela verso la sala da pranzo: là, in mezzo ai sudanesi, si sentiva più sicuta che vicino a quell'ufficiale al quale Guillet parlava con tanta sfrontatezza.

Reich non sembrava avere sospetti. Seguiva con gli occhi i gesti lenti con cui Amedeo gli preparava il caffè, le uova e il pane, da setvo abituato a non affrettarsi nell' eseguire gli ordini. 'Apprezzava la, maniera con cui l'arabo aveva strofinato la cerata della tavola con uno straccio bagnatd, la cura con 'cui gli aveva messQ davanti due piatti, il sale per le uova, 'delle fette di pane, la tazzina ,del. caffè, lo zucchero e come, .alla fine;, gli versando il caffè pro" fumato e bollente. l '

Lo ringraziò in arabo quando Guillet gli porse un coltello per l,a testa dei due gusci d'uovo; poi gli chiese, mentre lui, in un angolo, con fare distratto, fingeva di occuparsi dei fatti suoi:

<<Dimmi un po', ne arriva qui di gente che scappa? Voglio dire, ci sono militari italiani che si nascondono nella fattoria? >>

«Ne arrivano di continuo . Vengono e vanno , perché il padrone è un fifone che ha paura della sua ombra . Quando

152 'LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

arriva uno di questi poveretti gli dà da mangiare e poi lo manda via. Non può rifiutarsi, perché sono italiani come lui . Ma , dopo che gli h :l dato un pezzo di pane e un piatto di minestra , non muove un dito per loro . >>

<< Sai se è passato di qui un comandante di cavalleria? >>

<< Sarà forse passato anche lui, ma io non ci ho fatto caso . Come si chiama? >>

<< Lo chiamano Cummundar-as-Shait an . >>

<< E a prenderlo c ' è da guadagnare qualche cosa? >>

<< Altroché, puoi esserne sicuro. >>

<< Allora va bene . A me degli italiani non me ne importa nulla. Se so qualche cosa, che debbo fare? >>

<< Vienimi a trovare. Al comando . In città, dove c'e la bandiera inglese e i soldati di guardia . Fammi sapere qualcosa e ti darò un bel regalo. >>

C'erano limiti all'impudenza, e Guillet pensò che era venuto il momento di mettere fine al gioco . Prese una catinella , un asciugamano, un'accetta e in cattivo italiano disse a Rizzi, seduto fra due sudanesi nella stanza da pranzo :

<< Badrone, io andiamo a far legna e a bregare . >>

Rizzi, che non lo aveva perduto d'occhio un istante , gli rispose , con voce irritata:

<< Vai e torna. E non farti aspettare come le altre volte sino a sera . >>

C'erano molti soldati sudanesi nella stanza e nel cortile . · Passando accanto a loro, Amedeo mormorava a bassa voce, in arabo:

<< Dio ti maledica, nazareno. » E poi, a voce più alta:

<< Sta bene badrone, torno subito badrone. >> E poi, di nuovo in arabo :

<< Maledetti i tuoi antenati, cristiano, maledetto tuo padre e tua madre , tua sorella e tua moglie . >>

I sud anesi ridevano. Lo lasciarono uscire . Zoppicando, si diresse lentamente verso una collinetta dove, alla vista di tUtti, stese l'asciugamano per terra e si mise a pregare .

i.A FATTORIA 153

DA che cosa nasceva, i.n Amedeo, il bisogno di pregare? Certo dalla necessità di mascherarsi, per sfuggire alla caccia che gli davano gli Inglesi. Ma la preghiera è un travestimento pericoloso: 'ciò ' che si vuole nascondere ·agli uomini non ,lo si può nascqndere a Dio, e ancor meno a se stessi. Praticata a lung'o , finisce per sviluppare una certa familiarità col Creatore, pietà nei confronti di se stessi e una visione della vita differente da quella del miscredente . Non per nulla le religioni sostengono che la preghiera dei peccatori è più efficace - oltre che necessaria e , secondo le circostanze, più accetta - di quella dei santi .

L'obbligo osservato dai musulmani di prostrarsi cinque volte al giorno per terra, quel loro p icchiare la testa sul duro sino a sviluppare un callo sulla fronte, l'abbandonarsi alla volontà del Creatore nel senso etimologico della parola Islam - che significa sottomissione , accettazione - favorisce un atteggiamento fatalista verso la vita, una disponibilità ad accogliere ciò che non siamo in . grado di controllare .

In Amedeo, il comportamento da devoto musulmano non attutiva la volontà d'azione. Ma quel pregare allevarsi del sole, a mezzogiorno, al tramonto, nella notte -e alle volte ancora prima dell ' alba - gli rendeva più accettabile l'assurdità della situazione in cui si trovava e lo aiutava a esorcizzare il timore di essere catturato .

L'Islam 1 a cui poteva ora guardare tanto dall'esterno quanto dall'interno, gli faceva scoprire la complessità dei codici che, in una società ,tradizionale, si celano dietro il

IL SERGENTE SUDANESE l

gesto, l'espressione del volto, il modo di arrotolare il turbante o di portare il pugnale.

Questo simbolismo lo faceva riflettere su quanto egocentrica fosse la cultura europea; quanto artificiale fosse la distinzione fra peccato e tabù, fra religione e rituale. Nella società in cui ora viveva, speculazione religiosa e intellettualismo non avevano senso. Si accorgeva di come ciò che gli europei chiamano con sprezzo magia non fosse un infantile insieme di formule capaci di operare prodigi. Era, per molti indigeni, uno strumento di unione e di comunione dell'umano col divino, diverso ma non totalmente opposto al sacramento .

Qualcosa di simile gli sembrava scoprire nel formalismo dell'Islam che univa, specie per i semplici, l' espressione di un culto esteriore con l'abbandono fiducioso a Dio. Anche quando vedeva questo abbandono trasformarsi in passività si accorgeva che l'assenza di senso critico, di volontà d'azione, non era dovuta a uno scollamento tra l'adorazione resa a Dio e le cerimonie che accompagnano la Era piuttosto il frutto di un senso profondo di sicurezza dell'individuo, l'assenza d'incertezze, di dubbi su ciò che si deve o non si deve fare, la mancanza del bisogno di prendere decisioni complesse e innovatrici. Il domani sarebbe stato probabilmente come l'oggi, che a sua volta era come l'ieri. La parola bid'a, dopotutto, in arabo significa tanto ii;movazione che eresia .

La vita che Amedeo conduceva allo stato quasi naturale, la semplicità nel vestire - una futa avvolta attorno alle anche, una camicia lacera e un turbante o una taghia sulla testa, estensione tessile della barba che mascherava il suo volto - il contatto diretto, diurno e notturno con la terra, la povertà del cibo e dell'abitazione, non erano soltanto più elementi dell'ambiente in cui conduceva la sua guerra . Erano impercettibili impulsi quotidiani di un processo di trasformazione psicologica che gli permetteva di

IL SERGENTE SUDANESE 155

guardare al paradosso della suf! esistenza -e del !llOnddcol distacco di chi si nasconde dietro una maschera.

L'operaio zoppo coesisteva col condottiero; la volontà di combattere con la convinzione che la presenza europea - non solo quella italiana - fosse condannata in Africa.

Quando è lal siccità a determinare ,la vita e la pioggia il movimento del bestiame, la geografia finisce per prendere il sopravvento sulla storia e sulla politica. n mondo cessa di essere antropomorfico; le ideologie perdono il lo ro valore . Conta solo la maniera - trasformata in rituale - in cui si affrontano le sfide del pre sente. Il resto è arroganza, illusione . Lo dimost r ava il fallimento della « missione >> dell'uomo bianco in Africa . Si stava espellendo da solo, lasciando dietro di sé i rottami di imperi coloniali senza avvenire . ( l

Amedeo si rendeva con'to che nessuna fratellanza d'armi fra indigeni ed europèi , nessun eroismo sul campo ' di battaglia avrebbe ormai potuto riscattare gli errori commessi dalla colonizzazione europea. Quando analizzava la sua stessa resistenza con l'ottica dell'indigeno, capiva che ar- 1 dimentd, fedeltà, onore militare, prestigio, 'non sarebbero bastati açl alimentare la sua impresa. Era dal mondo locale, dalle sue tradizioni, dall ' accettazione dell'intervento costante di una Provvidenza di cui non si cercava di comprendere la logica, the l'indigeno traeva il coraggio quotidianb di vivere, la convinzione che l'anima noli può essere divorata dal fuoco né morire di fame.

n pregare , oltre che a mascherare i suoi scopi, lo aiutava a pensare secondo una logica differente da quella influenzata dal razionalismo occidentale • , a dare alla sua .esistenza precaria un senso di equilibrio e un'apparenza di perennità . Della sua passata educazione religiosa forse non rimaneva che la coscienza di un'Alleanza, con l ' A maiuscola, di cui non trovava corrispondenza pell'Islam. Leggeva sul volto dei suoi soldati il segno di un ' altra alleanza, con la a minuscola , ma priva essa pure d'interessi personali e di

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calcoli materiali. Cose difficili da spiegare a Kadija, non per mancanza di vocaboli o di reciproca fiducia, ma per la diversità della visione che ciascuno aveva della propria sorte e dell'ambiente in cui viveva .

Di questa diversità si rendeva spesso conto quando, rientrando la sera dal lavoro dei campi, vedeva, ancor da lontano, la figura flessuosa della donna appoggiata con grazia allo stipite del tukul che Rizzi aveva loro assegnato.

Era una capanna circolare fatta di fango e letame cotto dal sole, col tetto di canne e frasche e il pavimento di terra battuta. Non aveva mobilio: due cassette contenenti un ricambio d'indumenti di lui e di lei; uno specchietto; qualche oggetto inutile raccolto qua e là, fotografie di attrici italiane stralciate dalle pagine ingiallite di vecchi giornali; due paia di sandali; uno scialle . In una cesta di vimini rotonda c'erano le suppellettili di cucina che non trovavano posto appese alle pareti . Due stuoie e due trapunte di cotone, arrotolate in un angolo, servivano da letto, materasso e coperta. C'era anche una sedia traballante, due sgabelli e, fuori, accanto alla porta, un fornello in terra battuta e pietre, due pali per stendere il bucato e le strisce di carne affumicata . Una capra pressoché scheletrica belava, legata a un piolo, fra tre taniche per benzina che formavano la riserva d'acqua.

Kadija, a quell'epoca, avrà avuto sì e no vent'anni. Con precisione, non Io sapeva neppure lei; aveva preso il abitudine di aggiungersi qualche anno, per civetteria e per rendersi più credibile e matronale nel suo ruolo di compagna del Comandante Diavolo . Di matronale, però, non aveva proprio nulla, anche se alla fattoria di Rizzi si era un po' ingrassata.

Questa inattesa parentesi di esistenza tranquilla a lei non dispiaceva . Il suo uomo guadagnava dieci lire al giorno, quanto guadagnava allora un operaio in Italia; ma i loro bisogni erano quelli, ben più elementari, degli indigeni. Anche dopo aver comperato il pesce secco, la farina, il tè,

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l · lo zucchero e aver investito parte dei risparmi nell' acqcisto di una gallina e della capra, era riuscita a mettere qualche soldo da parte. Le piaceva sentirsi in grembo il peso delle monete d'argento con la ' testa di re Vittorio o dell' imperatrice Maria Teresa d'Austria - se erano talleri etiopici - mentre andava a fare la spesa .

Il musulmano che teneva bottega nella concessione approfittava del fatto che gli operai avevano difficoltà a recarsi nei villaggi vicini per aumentare il prezzo delle merci. Kadija lo sapeva, ma non protestava: la deferenza con cui trattata, le offerte che di tanto in tanto il mercante le faceva di oggetti di cui non aveva bisogno - un pettine, uno sciamma nuovo fiammante, un paio di scarpe europee più o meno usate - era un tacito riconoscimentp del suo , rango sqciale. ·E questo le pareva dovuto e l'obbligava a mercanteggiare sui prezzi solo quel tanto richiesto dalla cortesia. Dal musulmano otteneva, Ù/oltre, notizie su quello che succedeva fuori della fattoria . Le riferiva, ad Amedeo, lieta di non aver dovuto porre domande, come facevano le altre donne. Fatti gli acquisti, se ne tornava al tukul, a testa eretta e anche oscillanti, soddisfatta di sé e delle sue compere.

Né lei né Amedeo temevano d'essere traditi. Lui era visto e accettato dagli altri operai come uno dei tanti soldati indigeni smobilitati dall'esercito, che attendevano la fine della guerra per tornarsene - forse -a casa. Lei era un'etiopica che lo aveva seguito, come avrebbero fatto altre mogli o compagne di soldati sbandati. ·

Kadii11 era bella . Aveva un rprofilo delicato e diritto l!he ricordava il volto regale di Nefertiti. Le corone di tatuaggi sul collo ne facevano risaltare la lunghezza e lo slancio. La sola foto sbiadita che ancora esiste di lei cpglie uno sguardo intenso, e mostra un naso fine, diritto, una fronte alta, in parte nascosta dal turbante. Le sue labbra, non spesse, lasciano intravedere la punta bianca di un dente.

Nel tardo pomeriggio della dpmenica susseguente all'in-

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contro con Reich, Amedeo la guardava più ammirato del solito. S'era allungato sulla stuoia all'interno del tukul, invece di attendere, com'era solito fare, lo spegnersi del giorno seduto su una tanica, accanto alla porta, guardando Kadija che preparava la cena o aiutandola a mungere la capra .

Prendendo il bicchiere di tè che lei gli porgeva, Amedeo notò il leggero tremito delle mani di let Anche Kadija lo notò, ed ebbe l'impressione che lui ,volesse dirle qualcosa. Gli si at:covacsiò accanto e attese, in un silt;nzio più insistente di domanpa, che ,si decidesse a parlare.

« Kadija, », disse finalmente 'Amedeo, « questa sera non: dovrei essere qui, con te, vivo, a cibarmi di ciò che mi hai preparato. Dovrei giacere sotto un albero, dove tu e Asfao mi sareste venuti a cercare, di notte, o forse all'obitorio dell'ospedale, dove gli inglesi non vi avrebbero lasciato entrare perché occupati a esaminare il mio cadavere, per accer-tarsi che fosse veramente quello dell ' ufficiale italiano che cercavano.

<< Se questo fosse successo, io solo sarei stato colpevole del tuo dolore, per aver rotto la consegna di prudenza che chiedo a te e a tuo fratello di osservare .

<< Tu sai quanto io ami la musica . È una debolezza che nella mia situazione non dovrei permettermi. Ma mi sentivo solo e triste. ,Rizzi m'aveva detto d'andare, quando volevo, ad ascoltare dei dischi nella sua palazzina . Sono entrato ' nel salotto, dalla finestra, facendo ben attenzione che nessuno mi vedesse . Se qualcuno mi avesse sorpreso là dentro, avrei potuto dire che il padrone mi aveva ordinato di spolverare i mobili.

<< C'era ombra e faceva fresco nel salotto . Ho messo un disco nel fonografo, era la musica delle Maschere di Mascagni . A te non dice molto, ma mi ha sempre affascinato. Mi sono steso sul divano, ho chiuso gli occhi e ho perduto il senso del tempo : pensavo alla mia casa, alla guerra, alla vita che stiamo facendo, agli amici che ho perduto .

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<< Sono stato preso da una grande angoscia, e senza accorgermene mi ·sono addormentato. Devo avere anche sognato. Non ricordo che cosa, ma da quel sogno mi ha strappato violentemente la voce di Filomena che fuori dal caseificio gridava: 'Ahmed sono tornati, Ahmed sono tornati' . Mi sono alzato di scatto, con la mente confusa dal sogno e dalla musica. Ho perduto la testa e ho avuto paura . Senza ragione, perché in quella casa ero più sicuro che fuori . Avrei potuto spiegare ai soldati, se me lo avessero chiesto, che st!IVO facendo le pulizie, in attesa dell'arrivo del padrone. Oppure avrei potuto nascondermi da qualche parte e attendere che se ne andassero. Invece tremavo, preso da un'angoscia, un senso di terrore inspiegabile, che nulla aveva in comune con la paura che si prova in battaglia. Era qualche cosa di atavico, di incontrollabile; violento più di qualunque spavento improvviso. Una paura che generava paura, una debolezza che scaturiva dal fondo del cuore. Era l'angoscia di qualcosa che mi diceva : questa volta non riuscirai a controllarti, a dominare l'istinto di fuggire, e ti darai per vinto.

« Senza pensare a ciò che facevo, sono uscito all'aperto, agitatissimo. Forse loro l'hanno percepita, la mia tensione . Comunque, devo averli insospettiti.

<< Camminavo come un automa verso la collina del santone, perché istintivamente sentivo che fra le tombe, accanto alle bandierine votive, avrei trovato protezione. Camminavo, zoppicando, con un unico pensiero in testa: non voltarmi qualunque cosa succedesse . Sapevo che se mi fossi voltato avrei fatto la fine della moglie di Lot.

<< Tu non sai, Kadija, chi erano Lot e sua moglie . Lei era cugina di Ibrahim, al Karim, il padre del santo Ismail, che Dio l'abbia in gloria. Disubbidendo all'ordine degli angeli , si voltò a guardare la sua città che bruciava e venne trasformata in statua di sale.

<< Alle mie spalle sentivo un gran vocio. Speravo che non ce l'avessero con me. Quando mi urlarono 'Alt!' non

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mi fermai, non allungai il passo . Feci finta di non sentire, anche se tutto mi diceva di obbedire . Mi urlarono dietro ancora una volta di fermarmi, prima in arabo e poi in inglese. Io continuavo a camminare con gli occhi fissi alla collina . Sapevo che se ci fossi arrivato avrei trovato là la mia salvezza .

« Mi spararono dietro . Ho sentito la pallottola fischiarmi sulla testa . Solo più tardi seppi che era stato un sergente sudaJ;lese a intimarmi l'alt e poi a spararmi, alle spalle . l ,

« La pallo'ttola mi è passata vici nissima, ma io, Kadija, non mi sono fermato. Non ho girato la testa , ho continuato a camminare con lo stesso passo , anche se tremavo come una foglia . Ma a quella distanza nessuno poteva accorgersene . Se sono vivo, lo devo a Mangasci à , il vecchi_o soldato erit reo copto che Rizzi ha fatto capo operaio. E stato lui, l'ho saputo dopo, a dare un colpo al fucile del su· danese e a fargli mancare il bersaglio. Gridava: 'Non ti vergogni di sparare alla schiena a un povero sordo? E debbo essere io, un nazareno, a salvare un tuo fratello musulmano innocente? Non capisci che non sente, che non sta scappando ma andando a 'pregare? ' ,

« Kadija, tosl li sentivo litigare alle mie spalle, mentre camminavo e tremavo . Se qualcuno mi avesse fermato t; mi avess ç cqiesto ,chi ero, non avrei sap1.1to mentire e mi avrebbero preso . E stata la musica a sconvolgermi, a stregarmi , e la malinconia a farmi perdere il controllo dei nervi . Sono salito sulla collina, ho pregato , pregato·, ripetendo sempre le stesse parole, senza pensare , sino a quando ho avuto la certe zza che i sudanesi se n ' erano andati. Allora sono tornato al caseificio . Ho chiesto a Filomena di darmi una matita e un pezzo di carta e ho scritto a Rizzi che è all'Asmara : ·

<< 'Caro Orlando , grazie per l'ospitalità che mi hai dato. Solo un fratello poteva trattarmi come tu mi hai trattato . Non voglio attendere il tuo ritorno perché saresti capace

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di persuadermi a rimanere . Io debbo invece andare dove il destino mi porta. Domani all'alba lascio la fa t· tona. »

Quest'ultima frase, per Kadija, fu come un colpo allo stomaco. Che senso c'era, ora, a raccoritargli il pericolo che aveva corso con lo stesso sergente sudanese? Lo fece solo dopo che lui insistette per sapere come avesse trascorso la giornata e se i sudanesi erano venuti anche a ispezionare i tukul.

Gli raccontò come un graduato, forse lo stesso che aveva sparato contro di lui, probabilmente inferocito per essere stato rimproverato di essersela presa con un sordo, aveva messo sottosopra il tukul.

Non c'era nulla che potesse rivelare la loro identità . Fuori della porta aveva trovato solo la capra che belava, attaccata al paletto, e un po' di carne messa a seccare al sole. All'interno aveva frugato nelle cassette degli indumenti e aveva trovato un flaconcino di profumo Coty. Era vuoto da un pezzo, ma Amedeo se lo portava dietro come un talismano. Alle volte, di notte, quando era assalito dallo sconforto, apriva la boccetta e aspirava i residui del profumo . Gli ricordavano i tempi in cui poteva prendere un bagno, radersi. ..

Quando il sudanese aveva scoperto la boccetta, aveva creduto di aver trovato l'appiglio che cercava.

«Questo prç>fumo non è arabo», l'aveva aggredita con aria feroce . <<E profumo da nazareno . Dove si nasconde questo cane? O lo dici o ti porto là dove ti faranno parlare. >>

Kadija si era gettata per terra, implorante. Gli aveva abbracciato 'le ginocchia, lo aveva supplicato di avere pietà di lei. Se il marito avesse scoperto quella boccetta - singhiozzava -l'avrebbe ammazzata di botte.

Il sudanese era scoppiato a ridere, convinto di aver scoperto una tresca. Non si trattava di sovversione ma di corna. Lasciare che crescessero sulla testa del sordo e per di

162 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

più mentre pregava, era la migliore delle vendette possibili.

Con un calcio aveva scostato Kadija, aveva gettato a terra il flacone e lo aveva ridotto in briciole con i suoi, scarponi; poi si era impadronito della carne appesa a seccare e se n'era andato lasciando lei a controllare il riso che le scoppiava in gola.

La voglia di ricostruire per Amedeo la scena di quel suo pianto ai piedi del sergente, di rifare il verso al sudanese, di dimostrare ad Amedeo che lei pure era capace di ingannare gli inglesi, le era passata. Sapeva, ormai, che l'indomaai il suo uomo avrebbe ripreso la strada del suo destino. n tukul che li aveva protetti di notte e dove lei aveva cucinato per lui sarebbe diventato un ricordd. Non ci sarebbe stata per loro una casa, dei figli ai quali raccontare, un giorno, le loro avventure.

Amedeo si era assopito. La mano che stringeva quella di Kadija si era allentata. Senza svegliarlo , silenziosa , Klldija uscì dal tukul .

In cielo, la luna del mese di Ragiab, il mese in cui quell' anno spuntavano i fiori, cominciava a morire. '

IL SERGENTE SUDANESE 163

LA BANDA SI SCIOGLIE

ALLA fine dell'ottobre 1941, Amedeo Guillet sciolse la banda. Dei cento uomini che ne avevano fatto parte all'inizio, ne erano rimasti una trentina. Magri, laceri , barbuti , alcuni con le ferite avvolte in sudici stracci, sarebbero sembrati tanti accattoni, se non fosse stato per le armi che ognuno portava con sé.

Nessun indigeno l'aveva abbandonato di volontà propria , in quei mesi di stenti e di azioni spericolate . Molti li aveva obbligati lui a tornarsene a casa , troppo malconci per . continuare a seguirlo . Altri non vi sarebbero mai più tornati e nessuno avrebbe saputo dov'erano sepolti. Tutti poi, Guillet compreso , soffrivano di febbri malariche .

Quante volte aveva atteso accanto a uno di loro , scosso dai brividi, che cessasse di tremare? Quante volte aveva visto dei volti scuri chini su di lui, aprirsi in un sorriso quando, gocciolante di sudore, era uscito lui stesso da uno di quegli attacchi? Avrebbe dovuto tenere un diario, per saperlo. Ma della carta, come del tempo, aveva perso l'uso e il ricordo.

A convincerlo a mettere fine alla guerriglia era stato il fallimento dell'attacco sferrato dalle truppe dell ' Asse, che non erano riuscite ad arrivare al Cairo . E poi pesavano anche le condizioni fisiche dei suoi compagni, le difficoltà di procurarsi cibo, di spostarsi senza essere scoperti , di trovare rifugi sicuri dopo ogni operazione. Gli inglesi avevano intensificato la sorveglianza, associando alle loro truppe gruppi di ex-ribelli etiopici . Avevano ingaggiato nuòvi in- ' formatori fra la popolazione eritrea e decretato draconiane

punizioni contro chi avesse collaborato con la guerriglia. Il cerchio attorno alla banda si stringeva sempre di più, di settimana in settimana ..

Morire assieme ai suoi uomini, combattendo, non preoccupava Amedeo. Lo turbava il pensiero che un giorno, o una notte, avrebbe potuto trovarsi improvvisamente circondato dal nemico, ed essere costretto a mentire per nascondere la propria identità; e poi finire -e far finire i suoi compagni- davanti a un plotone d'esecuzione . Non era un disonore t cessare la lotta senza •essere stati battuti, specie con la speranza di poter riprendere le armi; se le sorti della guerra si fossero volte a favore dell'Italia e della Germania.

Aveva \ cosi, radunati i suoi uomini, un pomeriggio, sotto un gruppo di acacie nella petraia fra Ghinda e l'Asmara; aveva atteso che gli si fossero stretti attorno , ciascuno col suo moschetto tra le ginocchia, i volti appoggiati alle canne, silenziosi, attenti, pronti a obbedire . Da lontano sembra'(ano un gruppo di dervisci intenti ad ascoltare le parole del loro imam.

<< Abbiamo lottato sino allo' stremo delle nostre forze >> diceva loro Amedeo, « abbiamo fatto più del nostro dovere e non c'è senso continuare a combattere senza rifornimenti e senza basi sicure. Non cessiamo la lotta perché siamo stati battuti; la sospendiamo per decisione nostra, dopo aver tepùto testa per mesi a forze cento volte impedendo inglesi di spostarle in Egitto. Le notizie che giungono dall'Africa del ,nord sono buone . Gli inglesi sono stati costretti a ritirarsi dalla Libia; le truppe italiane e tedesche hanno ripreso Tobruk e catturato trentamila prigionieri. Se l ' offensiva continuerà e l'Egitto verrà occupato, potremo ricevere aiuti. Allora vi manderò a chiamare, uno per uno, dai vostri villaggi per combattere di nuovo assieme . Ora, però, ci dobbiamo lasciare, se vogliamo essere in grado di riprendere la lotta quando ci sarà di nuovo bisogno di noi. Siamo stati fratelli in guerra . Lo resteremo anche in futuro . >>

LA BANDA SI SCIOGUE 165

Si levò in piedi e con lui si levarono i suoi uomini . La sua voce aveva di nuovo il tono di comando. Sull'attenti, ordinò di presentare le armi e di gridare << Viva il Re >>. Le voci di quelli che lui amava chiamare << i miei disperati » risuonarono, alte ma incerte, nel vuoto senza eco della pianura .

Erano voci incrinate dall'emozione per quell'addio collettivo . Riaffermavano la loro fedeltà a un re che non avevano mai visto e che ignorava anche la loro esistenza. Mettevano fine al vincolo che aveva legato ciascuno di loro all'uomo per il quale avevano rischiato la vita. Perché l' avessero fatto, senza ricevere un soldo di paga , soffrendo la fame, anche quando avrebbero potuto ottenere cibo in ogni villaggio, non l'avrebbero saputo spiegare. Non avevano neppure capito in che cosa consistesse la differenza fra il modo di combattere da « nobili >> che Amedeo aveva loro imposto e quello degli altri guerrieri. Il comandante diceva di saperlo perché l'aveva letto nei libri di un nazareno, un certo Chrétien de Troyes, che prometteva a ogni soldato di diventare nobile se si comportava in una certa maniera; per esempio, non chiedendo polli ai contadini. A loro, questo sembrava piuttosto un modo astuto di fare la guerra, perché non rubando diminuiva il pericolo di essere denunciati . Oppure era una maniera come un'altra per ingraziarsi la fortuna . Tutto questo, comunque, non aveva più importanza: la loro guerriglia era finita e dopo essere stati <<nobili» sarebbero tornati civili senza divisa, senza passato e con incerto avvenire . Ciascuno, d'ora in poi, avrebbe pensato a se stesso, e nessuno avrebbe provveduto a loro . Da fuorilegge, che per orgoglio avevano vissuto in miseria, sarebbero diventati uomini comuni che avrebbero continuato a vivere in miseria ma senza orgoglio; in famiglia ma senza fratellanza d'armi; liberi, forse, da autorità ma senza la guida d'un capo.

L'ordine di presentare le armi, di gridare<< Viva il Re>>,

166 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

in quei frangenti, accomunava l'eroico al grottesco. Chi salutavano? Se stessi o la gloria di cui non avrebbero mai potuto vantarsi? O un comandante, più miserabile di loro, che non aveva né casa né famiglia né terra da coltivare?

Il ricordo delle loro imprese sarebbe evaporato nel vuoto dell'Africa; monumenti non sarebbero mai stati eretti in loro onore; col tempo essi stessi avrebbero dimenticato i luoghi dove avevano assaltato gli inglesi, nascosto le armi, scavato le fosse per i compagni caduti. Per qualche tempo il nemico avrebbe ancora dato loro la caccia, chiesto informazioni ai capi villaggio, fatto parlare di loro. Poi, anche gli inglesi si sarebbero stancati di correre dietro a fantasmi, e di quell'avventura sarebbe rimasta, forse, qualche traccia solo nelle canzoni dei bardi tribali, mischiata con altri racconti di guerrieri e di banditi locali. Ma neppure di questo potevano essere sicuri.

Sciogliendosi, il sodalizio di quegli straccioni-guerrieri restituiva a ciascuno una libertà inquinata di solitudine; una maggiore sicurezza personale, ma turbata da ricordi di passioni insoddisfatte. L'orgoglio di sapersi imbattuti, la soddisfazione di non essersi piegati al nemico, avrebbe calmato solo per poco il rimpianto per un'esistenza di guerra diventata una seconda natura.

Amedeo, quand'ebbero finito di sotterrare le armi, se li vide passare, davanti, uno dop? l'altro, ciascuno portando la mano sporca alla fronte, tentandq di unire i talloni iq. un gesto di rispetto marziale che precedeva l'abbraccio fra uomini, subitamente sottratti a un'autorità mai dipesa da gradi. Dritti sull'attenti, erano oppressi dal sentirsi, al tempo stesso, vinti e vincitori, tristi e felici, umili e orgogliosi. Rimase a guardarli, sotto le acacie, sino a che divennero dei punti neri, all'orizzonte. Poi voltò loro le spalle e, zoppicando, si mosse lentamente sulla pista che fra la sterpaglia scepdeva, snodandosi, verso Massaua.

A qualche metro di distanza, lo seguivano in silenzio i due Daifallah, uno yemenita e l'altro saudita, Asfao Hus-

LA BANDA SI SCIOGLIE 167

sein, a testa bassa , la sua sorellastra, Kadija : la donna con la quale Amedeo sapeva di non poter più continuare a vivere.

Gli era più difficile rassegnarsi all'idea di lasciare lei che di separarsi dalla sua banda . Con Kadija non si trattava di sciogliere un sodalizio di fedeltà o di coraggio tra guerrieri gelosi, ciascuno, del proprio onore e della propria indipendenza . Si trattava di spezzare, nel cuore di una donna, i legami che ne avevano fatto un unico essere con lui; sottrarre all'altro una parte di sé; aprire ferite che il tempo, forse, non avrebbe sanato.

Uno scarabeo nero, indifferente ai suoi pensieri , stava attraversando faticosamente l'ombra di un arbusto, sul sentiero. L'insetto gli fece ricordare la meridiana dipinta sulla facciata di una casa, in Italia ; sulla quale le ore erano segnate in cifre romane . Si sorprese a pensare che da mesi non aveva più misurato il tempo con un orologio, che non avrebbe mai saputo con esattezza in quale giorno aveva messo fine alla sua guerra privata e obbligato Kadija a !asciarlo. Si sarebbe solo ricordato che era un pomeriggio in cui il sole volgeva al tramonto, all ' ora della preghiera, dopo la fine del Ramadan.

Con gli occhi fissi sulla pista, gli pareva che il sentiero su cui avanzava, corresse, come la sua vita , fra due calendari, uno solare l'altro lunare. Ciascuno voleva tirare dalla propria parte il tenente di cavalleria incaricato di comando superiore, alias Abdallah al Redai, yemenita, senza mestiere, senza donna e senza dimora.

Doveva aver camminato per un pezzo, avendo in testa queste immagini di calendari cristiani e musulmani , di orologi e meridiane, di marce e digiuni, di appelli di muezzin alla preghiera e squilli di tromba. Certamente aveva la febbre per via della malaria o dell'infezione al tallone; o forse · per la stanchezza infinita che lo assaliva al termine della sua missione inconclusa.

n sole era tramontato e l'aria, improvvisamente più fre-

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sca, aumentava i brividi che lo scuotevano. A qualche metro dalla pista c'era un grosso sasso, rotolato in quel posto da chissà quante migliaia di anni. Vi si appoggiò con la schiena e attese seduto per terra che i suoi quattro compagni lo raggiungessero. Senza alzarsi , spiegò loro perché era necessario dividersi prima di arrivare a Massaua: in due gruppi avrebbero destato meno sospetti e sarebbe stato più facile, per tutti, trovare lavoro . Kadija, con Asfao Hussein, su.o fratello, sarebbero andati ad alloggiare presso una famiglia indigena fidata. Poi, avrebbero deciso se tornare al loro villaggio o stabilirsi in qualche modo a Massaua. Lui, coi due Daifallah, lo yemenita e il saudita, avrebbe tentato di passare nello Yemen, paese neutrale, amico dell'Italia . Da lì, sperava poter contattare i comandi italiani in Mrica settentrionale, rimpatriare e riprc;ndere, disponendo di maggiori mezzi, la guerra contro gli inglesi. Era stanco - disse -e aveva bisogno di riposo. Non cercò di spiegare che nella povertà che si preparava ad affrontare, da solo, sperava di trovare la pace dello spirito di cui .mai aveva goduto quando doveva decidere della sorte degli altri. Lo pensò, ma non lo disse, perché sapeva che Asfao non avrebbe capito e Kadija ne sarebbe rimasta ferita.

Non fu -capace di controllare il tono burbero, da comandante, con cui diede loro le ultime istruzioni. Era un tono fuori posto, u-; qud luogo e in quelle circostanze, ma che gli serviva a nascondere l'emozione. E, soprattutto, che non ammetteva replica, e Kadija lo capì. Chinò il capo in un segno d'assenso e di rassegnazione umiliata. Senza un gesto di addio, si strinse nel suo sciamma e ritornò sulla pista. .

C'era qualche cosa di maestoso e di antico, in quel distacco. Ad Amedeo venne fatto di pensare alla separazione di Zipora da Mosè, che andava verso il suo destino in Egitto. Asfao abbozzò, invece, un goffo saluto militare e si avviò dietro di lei, seguendola a qualche distanza. I due

LA BANDA SI SCIOGLIE 169

Daifallah li videro scomparire nell'oscurità della sera incipiente.

Seduto per terra, con le spalle appoggiate al masso di pietra, Amedeo silenziosamente piangeva .

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IL Daifallah saudita era un contrabbandiere, arruolato nelle bande di Guillet dall'inizio dèlla guerra . Il suo mestiere lo aveva reso espèrto nello sfuggire ai doganieri sudanesi, imprecisi nelle loro mansioni come le frontiere che avrebbero dovuto custodire.

Quelle del Sudan, Daifallah le aveva attraversate innumerevoli volte, tanto dall'Eritrea che dall'Etiopia . Conosceva molte piste incustodite, lungo le quali ayeva guidato il Gruppo Bande, nel corso delle sue ricognizioni in territorio inglese .

Daifallah era convinto di poter contrabbandare anche il suo ex-comandante in Arabia Saudita . Ll - spiegava - sarebbe stato al sicuro . I sauditi si sarebbero tenuti fpori dalla guerra e lui contava tra loro amici fedeli e clienti potenti.

Probabilmente era vero . Ma 'Amedeo non si fidava della neutralità saudita. Conosceva trqppo bene la stqria•di quel paese per credere che i suoi governanti avrebb'ero resistito alle pressioni inglesi pur di proteggere un fuggiasco ricer- • · cato per banditismo. Al re Ibn Saud, che aveva conquistato la Mecca sette anni prima, la sorte di un ufficiale italiano non poteva interessare; agli inglesi , invece, importava per motivi politici, estradarlo e incrinare la sua fama in Eritrea, processandolo come un delinquente comune .

Anche la permanenza a Massaua aveva, però , i suoi problemi. Amedeo poteva contare sulla fedeltà e la discrezione dei suoi vecchi soldati; sull'omertà istintiva dei musulmani per un correligionario ricercato dagli infedeli; sulla

L'ACQUAIOLO

propria capacità di mimetizzarsi nella società indigena . Ma la taglia di mille sterline oro che pesava sulla sua testa era troppo allettante perché , prima o poi, qualcuno non lo tradisse .

Il solo rifugio sicuro gli pareva essere lo Yemen, paese neutrale, dove missioni mediche italiane continuavano a operare indisturbate . Arrivarci non era impresa facile: occorreva attraversare il Mar Rosso, e per salire a bordo di uno dei sambuchi che facevano legalmente la spola fra le due rive c'era bisogno dell'autorizzazione inglese. Le imbarcazioni di contrabbandieri interessati a sottrarsi a questi controlli non mancavano; ma erano rare, seguivano rotte irregolari e chiedevano compensi esorbitanti . Nell'attesa, e nella speranza di trovarne una, occorreva cercare lavoro per sbarcare il lunario e mettere assieme i talleri per pagarsi q1,1ell'ipotetico viaggio.

Il mestiere di facchino era aperto a tutti e pareva ad Amedeo anche il più facile da intraprendere. Non richiedeva permessi né capacità particolari, ma solo dei buoni muscoli e una solida schiena, due cose che a lui non facevano difetto .

Si procurò un sacco con cui coprirsi testa e spalle, una corda un po' sfilacciata, ma ancora sufficientemente solida, per assicurare i carichi sul dorso . Gli consigliarono di imbottire di stracci un cuscinetto di iuta da applicare sulle reni per proteggerle. E cosl si mise in fila al porto, e attese di essere chiamato a scaricare qualche nave o a trasportare nella sua stiva le poche merci civili e le molte militari che viaggiavano fra l'India, l'Africa e Suez.

Non era il migliore dei mestieri. La concorrenza fra i disoccupati era grande; il lavoro scarso e mal pagato; la fatica per chi non era allenato , penosa . Alla fine della giornata, Amedeo non sapeva se attribuire la stanchezza alla carenza di cibo, alle ore passate nell'ozio, seduto all'ombra di un muro, o alla fatica di trasportare correndo un sacco di farina dalla stiva sul molo o spingere a mano, assieme ad

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altri indigeni, veicoli militari e carrelli carichi di munizioni . L'unico vantaggio era di poter gironzolare nel porto, senza destare sospetti, e raccogliere notizie sui movimenti marittimi inglesi e indigeni . Annotava mentalmente i nomi delle navi, le armi che vedeva imbarcare, le informazioni sui proprietari delle imbarcazioni che, si diceva, raggiungevano lo Yemen, con o senza permesso. Non avendo né carta né , matita con sé, inventava filastrocche che gli servivano per ricordarsi di tutti quei dettagli, come aveva vis,to fare ai r agazzini delle scuole in Libia. Se le ripeteva sottovoce, per ore, e gli servivano a combattere il sonno e la tristezza . , n mestiere di facchino .pon durò a lungo: era superiore alle sue forze e inferiore alle sue necessità economiche. Cercò di accrescere i guadagni accettando, per quindici giorni, . di sostituire un guardiano notturno nella sorveglianza di alcuni ll].agazzini .

Erano gli inglesi a pagarlo, per questa incombenza che consisteva nel vegliare di nott'e su depositi appartenenti a un pascià di sua conoscenza - Kekia, si chiamava - e messi sotto sequestro per le attività svolte dal pascià in favore dell'Italia. Formavano una specie di quadrilatero e il suo compito, assieme ad altri tre consisteva nel ri< spendere ogni dieci o quindici minuti al grido dei colleghi che, .in sequenza, urlavano « Ha, Ha »per tenersi reciprocamente svegli e darne prova alloro controllore .

Guillet, dopo una giornata di lavoro al porto, non sarebbe stato in grado di espletare questo compito ' senza addormentarsi. Gli venne in aiuto una vecchia eritre11 , sofferente d'insonn.ia, che trascorreva le notti fumando il narghilè, seduta in una poltrona sgangherata, accanto alla porta della sua baracca, adiacente ai m11gazzini . Si chiamava Um Amina e si era subito accorta . che Amedeo non era capace di far buona guardia . Già dopo la prima notte, accortasi che tardava a rispondere al richiamo degli altri guardiani, si era messa a rispondere per lui per di più , col

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bastone sulla lamiera della baracca, in modo da farsi meglio sentire . Cosl Amedeo aveva potuto dormire, prima all' addiaccio poi nella baracca stessa della donna , che al mattino, lo svegliava con una tazza di ghiscer. Un'anima generosa, che poteva trarlo temporaneamente d'impiccio, ma che non poteva risolvere la sua situazione.

Coi due Daifallah e altri sette yemeniti che, come lui, vivevano alla giornata, Amedeo aveva preso alloggio in una stamberga del quartiere indigeno di Akadmia . Era una costruzione di tre scomparti, che difficilmente avrebbero potuto essere chiamati stanze, col tetto di lamiera e il pavimento in terra battuta su cui, di tanto in tanto, indisturbati, facevano l'amore gli scarafaggi. Il mobilio consisteva in angareb, letti di corde intrecciate, disposti in fila, su cui per cinque lire al mese gli inquilini potevano stendersi. Di giorno, i giacigli venivano affastellati l'uno sull'altro, per creare uno spazio dove si potesse cucinare, mangiare e circolare. C'era appena posto per qualche cassa in cui riporre oggetti personali, ma non un angolo dove isolarsi. Non c'era acqua corrente; il gabinetto, un buco scavato nel terreno, dentro il cortile, emanava in permanenza odore di orina e attirava le mosche.

A causa del caldo gli inquilini passavano, anche in autunno inoltrato, le notti all'aperto, in un cortiletto annesso alla stamberga, seduti sul bordo dei lettucci di corde. In quella promiscuità sudata che l'assenza di alberi e il gracchiare dei corvi assetati rendeva opprimente, l'unica distrazione erano le chiacchiere serali .

Alla luce di una sporca lampada a petrolio che allungava le ombre, in attesa che il sonno facesse sparire per qualche ora i morsi della fame e alleviasse la stanchezza, questi uomini, lontani dalle loro case , incerti sul futuro, ritrovavano un po' della dignità perduta nella ricerca umiliante e quotidiana di sfamarsi.

Era una comunità improvvisata di facchini e di sradicati, ma aveva sviluppato le sue leggi, che nessuno avrebbe

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osato impunemente rompere . n rischio principale, per chi avesse violato queste convenzioni, era quello di perdere il diritto di appartenenza a una società che non offriva vantaggi se non quello della comunicazione. Sostituiva il vuoto familiare, la lontananza dalla patria, l'emarginazione da un mercato del lavoro stabile. Offriva brevi momenti di rilassamento in cui venivano scambiati ricordi, chiesti consigli, espresse speranze, confrontate notizie, vere e false, ingrandite dalla paura o dall'immaginazione . Ciascuno aveva le sue da riferire, notizie raccolte nelle stive, nei magazzini militari, al mercato o udite per caso per strada: brandelli confusi di avvenimenti vicini e lontani che la censura militare aveva lasciato pubblicare sui giornali locali. Nessuno di loro poteva permettersi il lusso di comprarli, ma si potevano comunque diffondere le notizie che altri avevano letto o captato ascoltando i bollettini in lingua araba di Radio Bari.

In questa maniera seppero dell'offensiva tedesca in Russia e della prima avanzata di Rommel verso l'Egitto. In un ambiente condizionato dalla preoccupazione di procurarsi il necessario per sopravvivere, queste notizie, anche le più drammatiche, finivano per smussarsi nella monotonia di giornate trascorse nel ritmo lento di lavori occasionali o più spesso, nella contemplazione dell'alternarsi del sole, della luna e delle . stelle nel cielo . Erano giornate tutte uguali in cui, per i facchini, la sola ragione di tensione era quella, fisica, provocata dalla fune che assicurava i carichi trasportati. La fune avvolgeva la testa come una corona di canapa, scendeva sopra le spalle incurvate e andava a sostenere, dal basso, le casse, le balle di cotone o i mobili che il facchino trasportava , ttasformando il corpo in una molla di muscoli protesi in avanti. Quando , alla fine del percorso , la fune veniva finalmente allentata, lasciava sulla fronte un solco rossastro e un dolore diffuso sulle reni che il sacco imbottito non era bastato a proteggere .

Cucinare quel poco che c'era in una pentola dal fondo

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nero, sul fuoco di sterpi, fra terra battuta e pietre, era il momento più atteso della giornata . Assumeva la dignità del rito primordiale che distingue l'uomo e la bestia. La formula coranica di ringraziamento che precedeva il passaggio del cibo dalla pentola alla bocca, dava a quei miseri pasti una dimensione di sacralità naturale .

Le formule rituali, le cinque preghiere quotidiane, aiutavano Guillet a scordare il degrado della sua condizidne. A tratti, gli permettevano persino di ,percepire la sua esistenza in una luce diversa, inattesa. Nei rari momenti in cui riusciva a distaccarsi realtà, non aveva più nmpressione di guardare a se stesso e agli altri c0me da. dietro a una maschera, ma di rispondere a un richiamo ,sottile. Non era stat0 detto cht; il vero coraggio è quello dell'umile e la vera gloria risiede nella povertà? La massima poteva essere tantd di san Francesco come di Rudaqui, il poeta persiano, aveva cantato:

Lo vedi, il Favaliere giovane e ricco che vien da lontano?

Cerca gloria e saggezza. Ma il suo sceiCco non l'apprezzerà se non qhando tornerà a piedi mendicando.

La in non lo umiliava, ma gli faceva scoprire il valore di cose 'alle quali prima non ' aveva attribuito importanza: il gusto del pane ' sottile, impastato da mani di donna, di cui immaginava vedere ancora l'impronta, quando Io mordeva fragrante, appena 'tolto dalle pietre roventi; la carne affumicata che, quando riusciva a procurarsene, gli infondeva energia con ogni boccone.

Una manciata di riso serviva spesso da unico piatto per pranzo e per cena . Unto con del burro rancido , che costava meno, Amedeo lo masticava lentamente, assieme ai peperoncini tritati, sino 11 renderlo liquido , per assorbirne tutte le calorie. Gioiva ,dei frutti secchi di tamarindo che

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poteva comperare a buon mercato e delle sorsate . di ghiscer, l'infuso di scorza di caffè che rimpiazzava il tè, troppo caro. Godeva dei miseri diversivi culturali che l'ambiente gli offriva col miscuglio dei suoi rumori, a cui nessuno poteva sottrarsi: la voce del muezzin; lo scampanio lontano di una chiesa; la nenia diffusa da un piffero di bambù, il ritmo di dita battute sul fondo di taniche vuote; il vociare delle donne, i ragli degli asini, lo starnazzare delle galline spennacchiate, l'urlo notturno degli sciacalli, l'abbaiare continuo dei cani randagi e il brontolare di qualche cammello . Un insieme di manifestazioni di vita che si susseguivano e si intrecciavano come il filo di una matassa che lo imprigionava, senza permettergli di percepire la trama che tesseva.

Un fondo di secchia d'acqua pulita era un lusso: e fu bevendone un sorso, in una giornata di arsura, che gli venne l'idea di tentare il commercio dell'acqua. La guerra aveva distrutto gli acquedotti, le fontane non funzionavano e l'acqua era diventata una merce ricercata da gente costretta a comprarla per dissetarsi e fare le abluzioni di rito.

Nella baracca c'era un vecchio yemenita che, a suo tempo, aveva servito nelle truppe italiane . Possedeva un asino e due ghirbe di pelle di pecora. Le riempiva d'acqua alla fonte di Otumlo, distante qualche chilometro, e poi andava a venderla di casa in casa.

Col dovuto rispetto per l'età e con l'ingegno aguzzato

dalla fame, Guillet gli propose di costituire una società « a responsabilità limitata >>e a guadagno sicuro .

<< Tu sei vecèhio >>, gli disse, << e io sono giovane . Tu hai diritto di riposarti e io ho bisogno di lavorare. Tu fai un viaggio al giorno, io posso farne due. Uniamoci: tu metti il capitale, cioè l'asino e le ghirbe, io il mio lavoro. Ogni sera ci divideremo il ricavato. >>

.Il vecchio esitava. Si trattava di una decisione difficile, per i rischi che poteva correre l'asino e per la responsabilità che comportava l'impegno di soddisfare, con regolarità

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e precisione, clienti che dipendevano da lui per lavarsi e per bere . Alla fine acconsentl, dopo aver spiegato a lungo ad Amedeo come andava fatto il lavoro, quanta prudenza occorreva per non azzoppare l'asino e soprattutto quanta attenzione per non essere truffato. I clienti, diceva, oltre ad essere per lo più donne, tendevano a chiedere sempre maggiori quantità d'acqua e a pagare sempre meno del dovuto. Quanto alle condizioni dell'accordo, avrebbero diviso ogni giorno il ricavato a metà, dopo aver dedotto cin.que lire per il vitto dell'asino, anche se in realtà l'animale " si accontentava di steli e foglie di canne che costavano al massimo due lire.

Stipulato il contratto con una stretta di mano e un passaggio del santo Corano, Amedeo prese, ogni giorno, a seguire le orme dell'asino che , conosceva la strada meglio di hii e pareva crollare a ogni passo sotto il peso delle ghirbe. Per guadagnare il denaro necessario per passare nello Yemen c'era bisogno di fare almeno due giri al giorno; questo l'obbligava ad alzarsi prima dell'alba e fare sosta solo nelle ore più calde. Perché il mercato potesse .l!ssorbire quell'aumento improvviso di acqua potabile, Arriedeo aveva persuaso il socio a ridurne il prezzo da due lire e mezzo a due lire al gallone . Riusciva cosl a battere la concorrenza e allo stesso tempo ad allargare la clientela con una pub\:>licità d1 sua inv<;nziorle, diretta alle donne. Avevano sempre bisogno di acqua per lavare i bambini, gli sciamma e le pentole, tutte brutte abitudini che gli uomini le accusavano di aver imparato dagli europei. Amedeo le allettava al suo passaggio mattutino sostituendo il solit0 grido di moia, moia (acqua, acqua) con rime di sua inven- · zione: « Acqua dolce, belle donne >>, gridava per esempio in una strada, « Acqua pura e dolce per donne dolci e pure »in un'altra. E cosl via.

Le donne gli rispondevano, ridendo, dalle finestre delle loro baracche .o aspettavano il suo arrivo sulla porta di casa per chiedergli:

178 LA GUERRA PRIVATA DELTENENTEGUILLET

<< Che hai messo nella tua acqua, oggi, Ahmed Abdallab? >>

E lui rispondeva:

<<Del miele , oh donne, del miele e del profumo di rose.»

Con questi sistemi Amedeo era riuscito ad aumentare le entrate della società al di là di ogni previsione . Guadagnava dalle 700 alle 800 lire al mese, più di quanto aveva ricevuto in Italia da sottotenente. Migliorava la sua dieta, poteva permettersi il lusso di lavarsi tutti i giorni alla fonte e accumulava monete d'argento per pagarsi il passaggio illegale attraverso il Mar Rosso.

Come riparare nello Yemen, come rientrare in Italia, come continuare la guerra, era ormai diventata, per lui, un'ossessione ·alla quale si abbandonava quando tornava sfinito alla sua al termine di una giornata di lavoro . Lasciava che l'asino, col suo nuvolo di mosche e di zecche, se ne andasse da solo a masticare le canne in un angolo del cortile, gettava le ghirbe a cavalcioni dello steccato e si lasciava cadere sul letto di corda di fronte a quello su cui il suo socio lo attendeva fumando il narghilè .

<<Ahmed Abdallah >> gli diceva il vecchio, pesando ogni parola come se fosse stata una massima del Profeta, << tu non ti comporti bene con l'asino . Lui è il tesoro della nostra società, lui lavora per noi mentre noi godiamo del suo reddito . A lui tu devi pensare prima di stenderti sul letto . Gli devi dare da mangiare e da ber!'!. Solo dopo potrai occuparti dei fatti tuoi. >>

<<Padre mip >>, rispondeva Amedeo, <<tu hai ragione. Ma io sono stanco. Tu facevi un solo giro , io ne faccio due e in meno tempo . Porto a casa più soldi di quanto avevi previsto. Per lavorare tanto, cosi ferito al tallone come sono, qevo saper conservare le mie energie . E poi l ' asino ha quattro zampe, mentre io ho solo una ·gamba buona. Pensa tu a lui e alle ghirbe. Lascia che io prenda fiato . Da stam'attilla non ho bevuto un sorso di tè. >>

L'ACQUAIOLO 179

<< Come è cambiato il mondo », sospirava il vecchio, rando un'ultima boccata di fumo dal narghilè.

'Deponeva con cura la cannuccia d'ambra accanto al for · nello della pipa, scendeva con fatica dal letto e trascinando i piedi andava a verificare lo stato delle ghirbe.

<< I giovani · ,, mormorava fra sé e sé, in maniera però che Amedeo ·lo sentisse, << non hanno più rispetto per gli anziani . Te ne accorgerai , Ahmed Abdallah, quando anche ru sarai vecchio . Ma io so perdonare . All'asino penserò io.»

Di questo passo era arrivato il ' giorno in cui, tramite il Daifallah saudita, aveva saputo dell'esistenza di un'imbarcazione di contrabbandieri disposti ad accogliere passeggeri clandestini. ,

Era uno di quei sambuchi che possono portare sind a trenta persone sul ponte. Visti da fuori sembrano fuscelli, ma le lor9 stive, sotto il livello dell'acqua, hanno capacità imprevedibili. Con imbarcazioni del genere, costruite sen-• za un chiodo, gli arabi avevano fatto per secoli la spola fra, l'Oman, l'Africa e l'Indonesia, portando missionari che avevano diffuso la parola del Profeta fino all'Estrein l Oriente. ·'

L' per la traversata fu stipulato senza difficoltà. Il luogo dell'imbarco fu fissato , in un punto a sud di Massaua dove, a un'ora ' non precisata del mattino, il sambuco avrebbe raccolto Amedeo e il Daifallah yemenita.

Amedeo aveva spiegato al socio perché lui e il suo compagno non potevano perdere quell'occasione di tornare in patria. Ricevuto il suo rattristato consenso, si .era messo in marcia con Daifallah, nel cuore della notte per raggiungere in tempo il luogo dell'jmbarco. , Giunti al posto convenuto, si accoccolarono sulla riva del mare e, pazientemente, attesero che la volontà di Allah si manifestasse, secondo le loro speranze.

180 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

li tempo passava lento sulla riva del mare e i raggi del sole, ormai alto, rimbalzando sull'acqua argentata, ferivano i loro occhi socchiusi. Non avevano mangiato, non avendo potuto cuocere il riso che si erano portati appresso . Tacevano per risparmiare energie.

A un tratto, dalla loro posizione semi-nascosta, videro passare lontano, parallelamente alla riva, un gregge di capre. Daifallah si mise a seguirlo con prudenza, per non farsi vedere dai pastori. Dopo un po' riuscl ad acchiappare, senza farsene accorgere, una capra che si era attardata. La tenne ferma, impedendole di belare e poi la trascinò verso la spiaggia. Amedeo si chiedeva come avrebbero fatto a mungerla, senza un recipiente per raccogliere il latte, ma Daifallah non gli diede il tempo di domandarglielo.

•« Tieni la capra per le zampe di dietro >> gli disse, stendendosi a terra sul dorso « e fai come me . >>

Prese a succhiare i capezzoli coll'avidità di un lattante e dopo essersi ristorato, passò la capra ad Amedeo che fece lo stesso. L'animale . belava debolmente, ansioso di raggiungere le compagne .

Il sambuco si fece vedere solo nel pomeriggio . Accostandosi con prudenza alla riva, li prese a bordo senza che nessuno dell'equipaggio facesse domande . Sborsati subito i · dieci talieri ciascuno, si rannicchiarono accanto all'albero, sul ponte, sperando nella buona sorte.

Erano i soli passeggeri a bordo. A giudicare dal rullio, l'imbarcazione non doveva essere molto carica. Il nakuda che fungeva da capitano-armatore era uno yemenita di

UN TENTATIVO FALLITO

mezza età e di media statura. Un paio di baffi spioventi non riuscivano a dare al suo volto paffuto l'espressione feroce che forse voleva. Portava un turbante avvolto alla maniera sciafeita. Sul ventre, sostenuto da un'ampia fascia ricamata, sfoggiava un pugnale ricurvo e in entrambe le mani si era lasciata crescere l'unghia del mignolo, più cerchiata di nero delle altre .

Nessuno dei marinai, mistura di sauditi e yemeniti, era armato. I loro corpi erano scarni, bruciati dal sole, avvolti in semplici fute o semicoperti da camicie lacere e sporche. Scalzi e alcuni a testa nuda, se ne stavano, loro pure, seduti sul ponte, appoggiati alle murate, assorti nelle fantasie ispirate dalle foglie di kat . Le ,masticavano lentamente, in attesa che il nakuda li chiamasse al lavoro. Non avevano molto da fare se non tendere, di quando in quando, le corde della vela triangolare, appena gonfiata dal vento, e cuocere il pane su un fornello p.i pietra e di latta, su cui bolliva in continuljzione l'acqua del tè. . ' •

Per tutto quel giorno e la notte seguente il sambuco scivolò sull'acqua appena increspata dalle onde. Nel grande silenzio del mare, i soli rumori erano quelli provocati dal cigolio regolare delle assi del ponte e lo sciacquio dell' acqua per il beccheggio dell'imbarcazione .

Daifallah giaceva disteso; in coperta, in preda al mal di •mare, che lo aveva assalito dal momento stesso in cui aveva messo piede sul sambuco; Amedeo si sforzava di .dormire ma una strana agitazione gli impediva di chiudere gli oc·chi. Era una reazione alla tensione dei mesi passati , unita all'incredulità di lasciarsi alle spalle il mondo di guerra in cui aveva vissuto sino allora, e all'incertezza dell'igm>to verso cui stava navigando . Pensava al sodo che aveva lasciato a Massaua, all' che masticava le sue canne, alle donne che lo attendevano per comperare l'acqua; pensava soprattutto a Kadija. '

Gli sarebbe piaciuto averla accanto, appoggiare la testa sulla sua spalla invece che sul legno del ponte incrostato di

182 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

sudiciume . Assieme, avrebbero guardato le stelle; lui le avrebbe ripetuto i nomi delle costellazioni e lei le storie del suo villaggio. Chissà se era già tornata dal padre , sulla riva del lago dove s'erano incontrati la prima volta . Certo, Kadija soffriva e lui, col pensiero, cercava di persuaderla e persuadere se stesso che il tempo avrebbe lenito il loro dolore .

« Dio ha voluto che ogni cosa nasca piccola , perché possa, poi, crescere. Tutto, all'infuori del dolore, che ha creato grande, perché diminuisca col passare del tempo >>. Così gli aveva insegnato il rabbino di Tripoli. Si augurav a che fosse vero e che Kadija, come lui, avrebbe alla fine ricordato solo i momenti più belli della loro vita in comune .

Si consolava pensando che non av rebbe potuto offrire nulla a quella compagna coraggiosa . Né lui né lei erano fatti per l'esilio . L ' essersi sottratto al pericolo della cattura · non gli dava gioia. Creava in lui un senso di vuoto che sperava di vincere una volta arrivato nello Yemen. Si sarebbe dato da fare per tornare in Italia, informare Roma sugli avvenimenti in Eritrea , avvertire i suoi e Bice di essere ancora libero e in vita.

L'idea di tornare in Europa non lo attirava . Se le forze dell'Asse avessero trionfato o per lo meno ten,l.ito a lungo in Africa settentrionale, avrebbe cercato di raggiungere il fronte egiziano . Qui, purtroppo, di cavalleria non ve n'era bisogno ; ma l'esperienza fatta coi carri in Spagna gli sarebbe servita . Sempre che la ferita al tallone, che continuava a spurgare, e le febbri malariche, rron l'avessero spedito per mesi in qualche ospedale .

Istintivamente prese a palparsi le ascelle e l'inguine per accertarsi che le ghiandole non si fossero troppo gonfiate per l' infezione . Rassicurato, rivolse un pensiero grato al suo cuore che continuava a pompare sangue nelle membra malate , e alle sue ossa, che riuscivano a tenere assieme un corpo di cui si era così poco occupato . Dovev a essere grato anche alla povertà in cui aveva vissuto negli ultimi mesi : i

UN TENTATIVO FALUTO 183

levrieri, pensò, sono più sani e corrono meglio quando sono affamati.

A dalla rqtta che il sambuco stava seguendo, ci voluti alme11o Cinque o sei giorni' per tqccare la costa yemenita, anche se si trovava quasi di faccia. Il nakuda costeggiava la costa africana, anche quando il vento non era propizio, perché prudenza e abitudine avevano insegnato che il Mar Rosso si attraversa solo nel punto più stretto. Anche lui doveva ora essere più prudente e più pazierite di prima,. Una contrazione del viso, una parolll sbagliata avrebbero pOtJ.]tO creare sospetti in quei mar'inai, che avrebbero' altri soldi per portarlo a Hodeida. In un mondo in cui tutto è predestinato, l'impazienza è sempre indizio di colpa. Con questo tranquillizzante pensiero, riuscl finalmente a prendere sonno, poco prilÌla che, a oriente, il cielo cominciasse a schiarirsi. 1

Quando 'si svegliò, l:;t luce era intensa, l'imbarcazione ' aveva superato il porto di Assab e, ciondolav'a ferma sul- ' l'acqua ' di fronte alla pep.i.sola di Buri. Accanto, c'era un sampuco col padrone del quale il nakuda stava trattando.

Era un'altra imbarcazione di contrabbandieri. Si erano impadroniti di una quantità di fucili modello 9r - armi molto appr,ezzate nello Yemen - in un deposito d'armi italiano e li offrivano a un prezzo modico. Il nakuda voleva comperarne cinquanta, cqnvinto di poterli mol- , to più cari sulla costa . La prospettiva giustificava luijghe trattative alla fine delle quali i fucili passarono da una imbarcazione all'altra è la navigazione riprese verso sud ma , ,in un'atmosfera, a bordo, cambiata. Il nakuda non cessava di 'parlottare con l'uaki, il noi::chiero, e lan- 1 dare verso i due passeggeri occhiate poco amichevoli.

<< Daifallah », , diceva Arriedeo a1bassa voce, «quei due ' stanno parlart1o di noi in, una maniera che ilon mi persHade . >> '

'« Lascia che parlino >>, sospirava Daifallah, « a me interessa solo una cosa: scendere a terra . >>

184 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Dopo un po', il nakuda venne verso di loro :

<<Siete zeiditi , voi? >> domandò con tono aggressivo. «Lo siamo>> , gli risponde Amedeo, «e con questo? Lo sapevi anche quando ci hai preso a bordo . >>

Era chiaro , dal tono, che il nakuda cercava un pretesto per attaccar briga . Portare la disputa sul piano religioso era la maniera più facile , dato che lui, mi.Jsulmano ortodosso di rito sciafeita , non aveva motivo di simpatizzare con due zeiditi come loro, appartenenti a una corrente della Shi'a, l'Islam minoritario e secessionista. ll re dello Yemen, Y ahia, che come imam era anche califfo , capo religioso degli zeiditi, non aveva trattato con mano molto pietosa i sunniti di rito sciafeita . Come il nakuda, questi abitavano sulla costà e si erano opposti a lui in lunghe guerriglie .

«Allora >> , riprese a dire lo sciafeita in tono sempre più burbero , «allora voi non siete degli amici . Siete dei delatori , dei nemici , come tutti quelli della vostra genia . Avete ·visto i fucili che ho comperato e se vi porto nello Yemen so che cosa farete . Andrete dall ' imam o da qualcuno dei suoi servi a denunciarmi per farvi belli.

«Ma io non intendo perdere questa occasione di fare un affare·. Ho avuto la fortuna di comperare i fucili a dieci talleri l'uno e se Dio vuole li rivenderò anche a trecento . Voi, invece, appena arrivati, mi denuncerete all'imam che se li prenderà e li rivenderà per conto suo a quattrocento talleri l'uno. >>

«Non è vero . Che interesse abbiamo a denunciarti? I tuoi affari sono tuoi e a noi non interessano . Tutto q1:1ello che vogliamo è arrivare a casa. >>

«Io non ti credo e voi non potete più venire con noi. >>

« E allora, che vuoi fare di noi? >>

«Vi sbarchiamo sulla costa. >>

« Ma la costa è deserto . Non c ' è nessuno . Ci farai morire di sete .>> .

« Gli zeiditi meritano questo e ben altro>> , ruggiva il

UN TENTATIVO FALLITO 185

nakuda, eccitandosi alle sue stesse parole. << Gli zeiditi hanno ammazzato mio padre . Meritano que sta sorte . »

<<E che c'entriamo noi con questa storia? Siamo zeiditi, ma non abbiamo ammazzato né tuo padre né nessun altro . Quando mai l'avremmo potuto incontrare? >>

<<Tu o un altro zeidita,l'avete ammazzato. Per me siete tutti ug!fali. Dei nemici , siete . Sul mio sambuco non c'è posto per voi. Dovete scendere . >>

<< Ma come possiamo arrivare all11 cost a ? Il mio amico non sa nuotare. >>

<< Abbiarrib un uri, una barchetta, che tiene tre persone. Vi restituisco il •vostro denaro , vi do anche il cibo che vi siete portati appresso e vi faccio accompagnare alla riva . >>

<< Ma questo è impossibile . Se lo farai, allora sl che ti denuncerò all ' imam. >> · ,

Daifallah seguiva la concitata discussione col distacco di ' chi non' fa più parte di questo mondo . Quando, però, il nakuda si mise ad urlare , rivolto alla ciurma : << Lo sentite cosa dice questo, cane?. Che ci denuncerà 'all ' imam. Nel mare lo dobbiamo buttare, questo infedele, nel \mare >>, D!lÌfallah si scossè!dal suo torpore e come se fosse stato miracolato si mise a gridare che non sapeva nuotare e che sarebbemorto annegato .

Al nakuda importava soprattutto di liberarsi di Amedeo, che riteneva il più pericoloso dei due. Ordinò ai marinai che facevano crocchio attorno all'albero accanto al · quale Amedeo continuava .a stare appoggiato , di prenderlo e gettarlo in acqua .

Non se lo fecero dire due volte . Eccitati da quella lite che interrompeva la monotonia del viaggib, si buttarono su Amedeo, che si abbarbicava all'albero con -tutte le sue forze . Lo afferrarono per le braccia , le gambe , la testa, il torso e - maledicente e sgambettante - lo buttarono in acqua con la gioia incosciente di chi, la responsabilità ' ,altrui ,' trasfofma i.n gioco un viltà. Poi, allineati lungo il bordo del sambuco, ridendo e insultandolo , stette-

186 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

ro a guardare come se la sarebbe cavata in quel mare calmo, azzurro, scintillante di sole e infestato da pescicani.

La costa distava solo una cinquantina di metri . L'equipaggio, passando dall'ostilità all'allegria, si mise a fare il tifo per il nuotatore in quella corsa con gli squali che, per sua fortuna, non si erano accorti di quella presenza .

Amedeo non aveva mai nuotato con .tanta energia nella sua vita. Si sentiva ammaccato dai colpi ricevuti e temeva di perdere sangue e attirare con quell'odore i pescicani. Giunto a riva, vide che dal sambuco stavano calando in acqua lo uri. Avevano costretto Daifallah a prendervi posto con uno dei loro, assieme alla cassetta degli indumenti , un sacco con le provviste e i talleri che il nakuda, in un rigurgito di onestà e forse di senso di colpa, aveva restituito .

Quando l'uri fu vicino alla riva, Amedeo aiutò Daifallah a scendere nell'acqua mentre la barchetta si allontanava · col suo vogatore. Rimasero a guardare il sambuco sino a che non fu più che un punto all'orizzonte e, sconfortati, presero a camminare nel deserto, lungo la riva, pensando più che alla fame, alla sete che li attendeva.

« Daifallah >>, diceva Amedeo, << siamo mal combinati. Non sappiamo dove ci troviamo e non abbiamo acqua da bere . »

« Già », rispondeva Daifallah, << non lo sappiamo. »

<< Ma tu che sei un arab,o dovresti saperlo. »

« E tu che leggi sempre quei pezzi di carta, dove ci sono scritti i nomi delle città, dovresti saperlo meglio di me. >>

<< Inutile litigare, Daifflllah . Siamo soli e nel deserto. Camminiamo e che Dio ci assista . >>

Silenziosi, uno accanto all'altro, si inoltrarono nel deserto. Sul terriccio grigio, le loro ombre disegnavano strani contorni per terra, e ·la cassetta di legno che, a turno portavano sulle spalle, assumeva sul terreno ondulato l'aspetto di una croce.

Non avevano modo di misurare né il tempo né il cammino percorso. Avevano ·forse fatto quattro o cinque chilo-

UN TENTATIVO FALLITO 187

metri ·quando Da,ifallah, che teneva gli occhi puntati sal terreno, si arrestò di colpo e disse: '

<< Qui ci sono tracce di capre . Deve esserci un gregge, da qualche parte. Questo vuoi dire che ci sono dei pozzi. Seguiamo le ttacce . Ci porteranno al pozzo. »

I pozzi lungo la costa dankala sono frequei)ti. Contengono acqua marina che , filtrata dalla sabbia, diventa bevibile, anche se ha un forte sapore salmastro. Le greggi vi si abbeverano seguendo un ordine preciso. C'era dunque speranza di poterne, prima ,o poi, incontrare uno .. Infatti, dopo poco, Daifallab, coi suoi occhi di lince, vide da lontano una capra nera e smunta che cercava di brucare fra gli sterpi .

« Seguiamola >>, disse Daifallab. « Conosce certo la strada del gregge e ci porterà dai pastori. Siamo salvi. >> ,

I pastori dankali sono guerrieri abituati a tagliare i testicoli dei nemici . Amedeo ne aveva conosciuto anche di onesti e pacifici ma, più sospettoso di Daifallab , avrebbe voluto agire con prudenza .

« Andiamoci piano, con questi pastori. Sono dankali e voi yemertitì venivate qui a rubare i loro bambini per farli schiavi. Potrebbero amarci meno del nakuda. >>

« No >> , dice va Daifallab, tutto eccitato all'idea che non erano più soli e sperduti nel « Anche se sono dankali, sono musulmani come noi e non ci faranno del male. >>

Era un brav'uomo, ma ingenuo . Nel frattempo i pastori li avevano visti. Quello che sembrava il capo avanzava con fare superbo verso di loro, con uno spadone sulla spalla e un bastone in mano .

« Chi siete? >>domandò, fermandosi a una decina di passi di distanza. , '

Amedeo stava per rispondere ma Daifallab, felice di incontrare un essere umano, lo prec:;edette :

« Siamo poveri pellegrini che un nakuda traditore ha buttato giù dal sambuco su cui viaggiavamo . >>

« Siete soli? >>chiese il capo pastore .

188 LA GUERRA PRIVATA DEL TENEI'jTE GUll.LET

Amedeo stava per dire di no, che c'erano altri pellegrini che li seguivano, ma Daifallah ancora una volta non gli diede il tempo di parlare. Nell'entusiasmo di essere salvo e sperando di impietosire il pastore, si affrettò ad assicurar- . gli che con loro non c'era nessun altro. Erano due poveri naufraghi, bisognosi di aiuto.

<<Ah>>, disse il dankalo. <<Allora, quando mi restituite la cassetta e il sacco che portàte con voi? >>

<< Restituirla? >>

<< Sl, l'avete rubata a mio fratello. »

Storia da lupo e agnello di Esopo. A nulla servl che Daifallah spiegasse che non avevano mai incontrato suo fratello, che quel poco che possedevano era tutta roba loro, che non l'avevano presa a nessuno, che senza il poco cibo che il nakuda aveva lasciato loro sarebbero morti di fame.

<< Gli arabi come voi », ringhiava il capo pastore, << meritano questo e ben altro. >>

Era un 'sopruso che Amedeo non era disposto d'accettare. Quando il dankalo fece per impadronirsi della cassetta gliela strappò di mano, mostrando di essere pronto a difendersi.

Non lo avesse mai fatto. Gli altri pastori che avevano sino allora assistito impassibili alla conversazione, si gettarono su di loro: li immobilizzarono, li coprirono di bastonate e li abbandonarono tramortiti al suolo, portandosi via cassetta, provviste, soldi e vestiti. Lasciarono loro solo le camicie per la decenza che avrebbero meritato i loro corpi, quando si fossero trasformati in cadaveri.

UN TENTATIVO FALUTO 189

DAIFALLAH giaceva al suolo sanguinante . Amedeo si era finto morto ed era rimasto con la testa affondata nella sabbia, appena, per non tradirsi e per il gran dolore che provava alla schiena. Quando fu certo ,che i pastori se n'erano andati, si sollevò lentamente, esaminandosi le membra contuse .

« Sono ancora intatto >>pensò, constatando di non perdere sangue. Ma quando fece per orinare, si accorse che il liquido era rossastro per i colpi che aveva ricevuto sulle reni.

« Emorragia interna >>, si disse, e non provò sgomento all'idea che quello fosse un segno probabile di morte. Anzi, solo come era rimasto nel deserto, pensò quasi con sollievo che cosl sarebbe finito più presto .

Si accoccolò accanto a Daifallah, preso da infinito sconforto alla vista del volto cereo dell'amico.

« Quest'uomo è morto per causa mia . Dopo avermi seguito in guerra ha voluto accompagnarmi anche in questa avventura. Chi ,glielo faceva fare? Se non l'avessi coinvolto nelle mie fantasie, ancora vivo. Invece se n'è andato anche lui e mi ha lasciato solo. Solo nel deserto, derubato e ferito. Voglio morire accanto a lui . >>

Prima di stendersi al suo fianco, sperando chè la fine arrivasse prima del sole dell'indomani, gli accarezzò 'il capo ferito, con la tenerezza che solo uomini che hanno diviso assieme pericoli possono capire . Il sangue che cominciava a coagularsi fra i capelli e grumi di terra aveva segnato la fronte Daifallah con un rigo rossastro, scendeva sulla guancia. '

« Ahh >>,fece Daifallah.

AL
SAYED IBRAHIM

Quel mugolio di dolore fu, per Amedeo, un'iniezione di energia. Afferrò l'amico per le spalle, se lo strinse al petto ridendo e piangendo, chiedendogli, a lui che non riusciva ancora ad aprire gli occhi:

« Ma allora, Daifallah, non sei morto? >>

Era una frase stupida, dettata dall'immenso sollievo che provava nel non sentirsi più solo . Dimentico dei suoi dolori, corse al mare, raccolse un po' d'acqua in un angolo del camicione, ritornò accanto al ferito e gli strizzò quelle goc· cè d: l\Cqua salata sulla feritl\. , ' .Daifallah ebbe un sussulto di dolore , ma Amedeo conti· nuò a pre!llergli il lembo di camicia sulla testa ripetendogli : << Daifallah , tu sei vivo e stai benissimo. Non preoccuparti. Riposati un po' e vedrai che ci tireremo fuori anche da questo pasticcio . >>

L'altro annuiva con piccoli cenni della testa sofferente ' , senza aver forza di parlare . Rimasero cosi a lungo, l'uno disteso, con la testa in grembo dell'amico, ad attendere che il tempo portasse loro forza e consiglio . , ' Amedeo si ricordò delle capre e lasciato Daifallah che sembrava riprendere conoscenza, si mise alla ricerca del pozzo . Non era lontano, e dei pastori dankali non c'era più traccia.

Vicino all'imboccatura del pozzo, come è uso nel deserto, c'erano que recipienti di latta per permettere ai pelle· grini di passaggio <;li dissetarsi. Li riempi e di corsa li portò ·a Daifallah. Lo fece bere, sostenendogli la testa, e fu felice quando lo senti mormorare di dargliene dell'altra. Tornò al pozzo a prenderhe , prima di dissetarsi a sua volta: era acqua salmastra ma gli sembrava un liquore .

Il tempo passava . Daifallah pareva star meglio. Se volevano sopravvivere dovevano muoversi da quel luogo sperduto. Amedeo ricordava d'aver visto, dal sambuco, molte ore prima, la costa della penisola di Buri . Sulla sponda op· posta abitavano gli Assaorta. Il loro capo era suo amico. Se avessero potuto raggiungere il suo territorio, attraversan ·

AL SAYED IBRAHIM 191

do la penisola sarebbero stati in salvo . Potevano, invece· , seguire la pista delle greggi, lungo la costa . Avrebbero trovato dei pozzi, ina, oltre ad affrontare un cammino molto più lungo, rischiavano di imbattersi di nuovo nei dankali . Entrambe le alternative presentavano pericoli ma la scelta più pericolosa era non far nulla e morire di fame e di sete sul posto .

Espose la situazione a Daifallah, senza nascondergli la sua preferenza : camminando di notte, disse , avrebbero potuto attraversare la zona desertica; si sarebbero riempiti lo •stomaco d'acqua prima di partire e portando con sé i due recipienti d'acqua che aveva trovato sul bordo del pozzo, ne avrebbero avuto ·abbastanza per una marcia notturna di una trentina di chilometri .

Daifallah non era ancora in grado di rag ionare bene , ma anche se fosse stato in condizioni migliori, avrebbe accettato la soluzione scelta dal suo comandantè .

<< Se vuoi », disse, éon voce fievole, << lo facciamo. >>

Fu' un errore madornale. Non sapevano neppure se si trovavano veramente sulla sponda della penisola' per attraversare la quale avrebbero avuto bisogno di un cammello e di grosse ghirbe d'acqua. Non avevano , invece, nulla da mangiare e poca acqua da bere .

Quando la luna fece la sua comparsa, si accorsero che dal , mare salivano alla riva dei grossi granchi. Era un'offerta di cibo inaspettata , in cui Amedeo vide un segno favorevole alla decisione di attraversare il deserto . Con

Daifallah che cercava di aiutarlo alla meglio , prese a dare la caccia ai granchi . Li intontivano colpendoli con un ramo secco trovato vicino al pozzo, li rovesciavano sul dorso perché non scappassero e quando ne ebbero immobilizzati una decina, presero a succhiare la polpa delle chele, chè strappavano coi denti ai crostacei ancora vivi.

Colmarono .cosl i crampi dello stomaco vuoto ma non si nutrirono molto. La polpa dei granchi varia con le stagioni e quello era un mese in cui di polpa non ne '

192 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUIILET

avev ano molta . Masticandola, Amedeo rincuorava Daifallah:

« Vero che S<'>nO gustosi? »

E Daifallah rispondeva :

<<Certo che lo sono. Anzi non c'è nulla di più squisito al mondo . Solo che in questi granchi non c ' è nulla da mangiare.,.» ,

« E vero, tpa sono molto salati ., E un bene, per ché ,il cerpo 'ha bisogno di almeno cinque grammi di sale al giorno e ques ti ce li statino fornendo . >> . ,

, Daifallah ,' po,co impressioqato da 'quei calcoli , assentiva '' 1 masticando .. Quando non ne poterono più di quelle cartilagini, attesero che l'aria si fosse rinfrescata e si rimisero in marcia sotto la luna . '

Camminavano piano , badando a non versare l'acqua cl:ie tenevano i n mano nelle latte aperte, 'uno accanto all'altro, senza parlare per risparmiare fiato , scambiandosi qualche sorriso . Non avevano fatto neppure una sosta, quando spuntarono i primi bagliori dell'alba . L'acqua era·finita e il deserto si 'estendeva infinito davanti a loro.

A giorno avanzato Daifallah si fermò .

« Ahmed Abdallah >>, disse, chiamandolo per, la prima volta per nome, << continua tu solo. Io non ce la fac c,io più . >>

<< Ma che arabo sei? Se ce la faccio io, che non ,sol)0 ara, qo, anche ,tu puoi. >> '

«Sono ·un arabo >>, rispondeva Daifallah, «ma se tu avessi in una fe t ita come la mia , neanche se fossi un · ·arabo potresti continuare. >> '

« Daifallah , è inutile discutere . Perdiamo solo le forze . Piuttosto, avvolgiti il capo con la camicia . Quei mascalzoni di dankali ce l'hanno lasciata dopo averci derubati per un senso di pudore che tu non devi avere con me . Usala per copriti il capo altrimenti sarà il sole, non la a spaccarti la te sta . >>

« Ma Ahmed, non è bello camminare nudi. >>

AL SAYED ffiRAHIM 193

<< Fammi il piacere, queste discussioni nel deserto non servono a nulla . Mettiamoci tutti e due la camicia attorno . alla testa e continuiamo a camminare. Non possiamo fermarci, dopo aver fatta tanta strada . Alle volte bastano cinquanta metri per salvarsi. Tu devi camminare . Se ti fermi, mi fermo anch'io, perché non ti abbandonerò mai. Ascolta, Daifallah, ti prometto che, se al calar del sole non avremo incontrato qualcuno, ci fermeremo e moriremo assieme. Ma ora continuiamo. >>

Camminavano come automi sotto il sole, nudi, accecati dalla luce, tenendosi per mano, per paura di perdersi, senza meta e senza speranza, col viso tumefatto e le labbra screpolate dal!' a,rsura, spinti da una volontà animale di sopravvivenza. E stata - avrebbe in seguito detto Amedeo. l'esperienza più tragica della mia vita, da non augurare al peggior nemico.

Al calar del sole, fu Amedeo a darsi per vinto.

<< Inutile continuare, Daifallah. E scritto che dobbiamo morire e per lo meno moriremo vicini. Siamo stati assieme · in vita, rimarremo assieme nella morte . Che Dio ti benedica . Ti ringrazio per tutto l'aiuto che mi hai dato. Forse ci rivedremo nell'al di là, se ce n'è uno. >>

Daifallah, senza parlare, si era subito accasciato. Disteso per terra immobile, attendeva con fatalismo la morte. :Amedeo fece lo stesso, ma rigirandosi di tanto in tanto sul fianco incapace di sopportare a lungo il calore del terreno rovente.

In uno di questi di posizione, sollevandosi sul gomito, ebbe l'impressione che la notte si fosse tinta di rosso. Sto perdendo coscienza, pensò, oppure mi si è rotta una vena degli occhi. Se li coprì con la mano e guardando attraverso le dita, si accorse che il rosso , invece, era dovuto alla luna che si alzava e che la sfera purpurea pareva macchiata da un un puntino nero che si ingrandiva.

<< Daifallah, Daifallah >>, mormorò scuotendo l'amico.

<< Che vuoi? >>

194 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

« Vedb un puntino nero sulla luna>>

<< E guardalo . » 1 '

<< Ma no. Forse è qualcuno che arriva. »

<< Se è. vero sarà un dankalo .' Ci darà un colpo ih testa e cosl ci aiuterà a mor,ire. Tu continua a guardare la luna, se ti piace . lo non posso perché ho la congiuntivite. E poi voglio solo morire. >> 'i

«No, Daifallah, tu vedi meglio di me , con tutta la tua congiuntivite. Alzati e guarda la luna. Dimmi che cosa di, come quando riuscivi in guerra a scoprire cose che nes; ' sun altro vedeva. >> , 1

' Daifallall si sollevò un .gomito, con fatica, e ·disse di non veder nulla . Scosse il capo e si .ridistese. 1

<< Ahmed Abdallah, non darmi più inutili Sp!!r,anze. Per-' ché vuoi che io maledica Iddio prima di morire p er avermi ingannato? lo non ho fatto nulla di male . Lasciami morire in pace . »

: << Daifallah, 'fa' come ti dico : Siediti e sforzati di , guardare. Mettiti Ia.mano sugli occhi. Cosl. Osse,rva bene la lu,na. Cosa vedi? »

f< Vedo la luna. >>' , ' << Guarda p1eglio. C'è un punto in basso sulla luna. Un puhto -nero. E qualcuno che avanza verso di noi perché .ora è più grande di prima. » ,. ' ' ' , << Sarà spettro .che viene a prenderei e d liber,erà c\a qu,esto tormento . Oppure è un gigante perché è troppo alto 'all'orizzonte. »

Anche Amedeo, con i sensi annebbiati dalla stanchezza e dalla sete, incominciava a credere di essere in preda ad allucinazioni e a pensare che un essere misteripso, terribile, stesse avanzando verso di loro. Ma la- volontà di 'sopravvivere fu ancora una volta più forte della sua immaginazione.

<< Daifallah, perché uno spettro dovrebbe venirci a pren'dere? Tu sei un brav'uomo e io pure. Non abbiamo fatto nulla di male. Perché dovrebbe farcene lui? >>

AL SAYED ffiRAHIM 195

« Forse non è un jin ma un uomo su un cammello. Per questo sembra così alto all'orizzonte. Ma questo non cambia niente. Non ci soccorrerà, e se è un un dankalo ci ammazzerà. E sarà un bene perché così non soffriremo più. »

Si parlavano a fatica, con frasi smozzicate e sussurrate appena, per il dolore di muovere le labbra gonfie e screpolate. n solo fatto, però, di aver cominciato a parlare li liberava dal toFpore in cui erano caduti.

« Daifallah, noi dobbiamo agire come ci insegna il Corano: occhio per occhio, dente per dente. I dankali ci volevano ammazzare. Peggio, ci volevano far morire di sete, bruciati dal sole . Se questo cammelliere è un dankalo abbiamo il diritto, anzi il dovere di ammazzarlo. >>

« Ma come lo ammazziamo? >>

« Daifallah, non mi confondere le idee. Lui sta vénendo verso di noi e non sa della nostra presenza. Vedi questo avvallamento? Noi ci nascondiamo qui dietro e quando lui sarà vicino io gli intimerò : fermati nel nome di Dio! Lui risponderà: Chi siete? E io gli dirò: Fermati o 'ti spariamo. Non può sapere se siamo armati o no. Si fermerà. Io avanzerò verso di lui, tu gli andrai alle spalle, con una pietra e gliela darai in testa. l?,oi prendiamo il suo cammello e scappiamo.>>

« Hai ragione, Ahmed. Ma dove trovo la pietra per abbatterlo? >> .

In quella zona del deserto, infatti, di grosse pietre non ve n'erano. misero carponi a cercarne una: alla fine trovarono una pietra abbastanza grossa, ma era di pomice, pesante sì e no 400 grammi .

L'imminenza dell'attacco sembrava aver ridato ad Amedeo la sua energia. Con tono di comando disse a Daifallah:

« Dagliela in testa con tutta la forza. lo attaccherò di fronte . Vedrai che un risultato l'otterremo. Io davanti e tu di dietro, con l'aiuto di Dio e con la sorpresa. >>

Daifallah, obbediente come sempre, assentì in silenzio e traballando andò ad appostarsi nell'avvallatura che Ame-

196 LA GUERRA PRJVATA DEL TENENTE GUILLET
1

deo gli aveva indicato . Faticava a tenere la pietra in mano: là sollevò nd buio della nqtte, pèr verificare sino a eh!! altef!:Za le sue braccia erano ancorf! capaci di alzarla.

ll cammello e la figura umana che gli stava in groppa erano ormai vicini e i loro contorni si stagliavano irl nero contro .la luce- divenuta bianchissima- della luna. Amedeo si tenne acquattato sino a che l'animale fu •a una decina di passi da lui, e poi di scatto, gli si parò davanti. · ;. .

<< Hoguf, fermati >> gridò. << Bismillah, nel nome' di Dio,, fermati. >> 1 · ' ' , ·. '' , 1

·' , l<< Min anta, chi sei? >> rispose una vdee dall' alt.o del carn i ' mello : subito dopo · emise dei suoni per 'f af << barricare >> il cammello. Doveva credere di essere inca{i" pato.in ·uomini armati davanti ai quali nonera prudente reagire o tentare di fuggire.

<< Chi sei? >>gli chiese Guillet, facendo la voce più grpssa possibile . ' . . .

<< Al Sayed Ibrahim al Yemani >>, rispose il cammelliere .

Gli arabi che si proclamano Sayed, (signore) sono ritenuti discendenti del Profeta. Non è una distinzione sociale - fra essi ci. può un sovrano come un contadino - ma ciii è di stirpe sceriffale ha diriho di essere da chi' nòn lo è', fòsse ' anche un o un governatore . Ad

, Amedeo jl t\tolo e ·il fatto che· yemenit.a restituivano

: fiaucia nella razza umana. Col poco fiato che gli rest\iva, ' riuscl ·a dire con voce roca e strozzata da singhiozzi: ' '

<< Ya sidi, nahnu yamanain, mio signore siamo' due yeme-

•• l ' ' l '! , rutt >>,e stramazzo a ,terra svenuto. , ' '

Daifallah non aveva più energia di lui . In piedi diet,ro al cammello continuava a tenere stretta la pietra con le due mani . Assodato che lo sconosciuto non era né ano spirito malvagio né un dankalo, balbettò anche Jui qualche parola, e quando l'altro si volse per capire da dove veniva quella voce, stramazzò a sua volta per terra, svenuto.

Lo sceriffo prese a camminare avanti e indietro fra quei due corpi nudi di uomini che invece di aggredirlo, come

AL SAYED mRAHIM 197

aveva temuto, giacevano distesi al suolo, esanimi . Toccò il volto tumefatto di Amedeo; vide la ferita di Daifallah e non gli ci volle molto a capire pi, che si trattava . Tornò al cammello, staccò dilla sella la ghirba dell'acqua e cori delicatezza ne fece bere qualche sorso prima all'uno poi all'altro.

Amedeo, che stava riprendendo coscienza, mormorare, curvato su di lui

<< Oh masakin, Oh masakin, poveretti. »

Dopo aver dato loro da bere , Sayed Ibrahim prese da una sacca un po' di pane azzimo, lo masticò per 1ammollir: lo, sapendo che i due non avrebbero avuto la forza di usare i denti , e infilò nella loro bocca quella poltiglia . Quando vide Ehe facevano fatica a trangugiarla, prese ancora dell' acqua, la spruzzò sui loro volti e la versò con cura in quelle bocche che si aprivano verso di lui come quelle di uccelli in attesa d'imbeccata . ' l

Amedeo e Daifallah stavano riprendendo conoscenza. La notte era stupenda e la luna la illuminava a giorno. Entrambi potevano ora distinguere il volto del loro soccorritore, la keffia che gli copriva il capo e gli ricadeva sulle spalle avvolte da un mantello orlato di ricami dorati . Pareva un'immagine biblica, un angelo apparso dal. nulla, che temevano di veder scomparire di nuovo nel nulla, un sogno, un miraggio.

Con la voce rotta dalla fatica e dai singhiozzi , Amedeo prese a raccontargli la loro storia , mentre Daifallah di tanto in tanto interveniva per aggiungere un dettaglio . Aiutandosi cosi l'un l'altro , spiegarono allo sceriffo , che li ascoltava senza porre domande, come fossero yemeniti che cercavano di tornare in patria; come un nakuda sciafeita traditore li avesse buttati a mare; come i dankali li avesse• , ro derubati e quasi ammazzati. Pensando al nakuda, origi- ' ne di tutti i loro mali, Amedeo non poté trattenersi dall'esclamare:

<< Che Dio maledica il nakuda. >>

198 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

« Non maledire I)essuno >>, lo redarguì.lo sceriffo . << Anch'io sono sciafeita, ma vi ho soccorso anche ·se le intenzioni a mio riguardo non erano intenzioni di amici . E ppssibile essere malvagi senza essere sciafeiti. >>

<< Perdonami, signore >>, disse Amedeo, umiliato da quella lezione di morale in pieno deserto. , Nel frattempo lo sceriffo, vedendo che i due stranieri riacquistavano le forze, aveva cominciato a esaminare la situazione ad alta voce. Stava andando a , Barasol per barattare del, pesce secco con fru'.jna e caffè. Era stata una la 'loro- . tentare d'attraversare il deserto invece di ' la costa .· Anche se fossero stati in condizioni mi ' g!ìori non mai a piedi, raggl4ngere tra sponda della perusola . Ma era stata anche la loro fortuna perché , senza saperlo, erano arrivati - non capiya cç>,me - ,alla pista che lui stava seguendo . Se Dio li aveva messi sulla sua strada, qualche ragione ci doveva essere e doveva tenerne conto ; ma doveva tener conto anche del fatto che andava nella direzione opposta alla loro e che aveva degli impegni a Barasol.

Amedeo comprendeva le sue esitazioni.

<<Signore>>, gli disse, <<noi siamo nelle tue mani . Tu ci hai salvato e noi ti saremo grati per tutta la vita.• Ma s.e tu d abbandqni ce l'avrai allimgata soltanto 'di qualche ora.>>

<< Ma io devo andare a Barasol. >> .

' <<.Tu sei uno sceriffo, e sai che poche volte il dà 'occasione di fare del 'bene. Or.a tu hai questa occasione,. Ma non sei obbligato a prenderla. >> ·

« È vero, è vero >> ripeteva Sayed Ibrahim, vagliando il pro e il contro di una situazione che in mezzo al deserto e in piena notte, lo costringeva a scegliere fra i suoi doveri e· i suoi interessi. Alla fine decise: << E va bene >>, disse, <<a Barasol ci andrò un'altra volta. Montate tutti e due sul cammello . >>

Cosl, lui a piedi e loro sul cammello, con la camicia ·

AL SAYED ffiRAHlM 199

addosso, che non serviva a difenderli dal fresco della notte , il corpo intorpidito dalla marcia, dalle bastonate e dallo sforzo sovrumano che avevano compiuto per mantenersi in vita, ar rivarono a mezzogiorno al c ampo del loro salvatore . Questi, nel percorso notturno, si era fermato più volte per dar loro da bere e del ' pane che ormai potevano masticare da soli.

Sayed Ibrahim era urio strano tipo. Viveva nei pressi della spiaggia con la moglie e una figlia . In una piccola baia aveva eretto due capanne e scavato un pozzo . Possedeva una barca e pescava. D'inverno, grazie alla poca pioggia che cadeva , riusciva a coltivare un po ' di meloni, orzo e granoturco . Due volte al mese si recava a vendere a Barasol il pesce che aveva fatto seccare assieme al gran turco la cui farina , a lui come a molti arabi, piaceva poco .

In una capanna viveva con la moglie; nella seconda abitava sua figlia . Sotto una tettoia di frasche aveva messo una tavola e due angareb (letti di corda) per i pellegrini di passaggio. Li offrl ai suoi nuovi ospiti assieme a del caffè con zenzero, che a loro .parve un nettare, dentro un juvena (un bricco di creta) .

Nei due giorni che rimasero sotto il suo tetto, Daifallah e Amedeo, ciascuno a modo s-qo,, raccontarono più volte i dettagli della loro avventura . Lo sceriffo non sembrava dubitare della veridicità della storia ; né notare la differenza di pronuncia nell'arabo usato dai due ospiti che affermavano non solo di essere zeiditi e yemeniti, ma anche cugini . Poteva dipendere dal servizio militare che avevano fatto i n luoghi diversi o da altre ragioni, sulle quali preferiva non indagare . La sua curiosità, tuttavia , traspariva dalla maniera con cui osservava Amedep, e dava l'impressione di volergli dire qualcosa che poi tratteneva sulle labbra .

Alla fine si decise a prenderlo da parte . Guardandolo ben fisso negli occhi, come se avesse voluto ottenere una

200 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GIJILLET

risposta dalla loro espressione più c'he dalla sua bocca, gli disse: ·. '

. << Ahmed Abdallah, ti ho osservato atteptamente, durante que'sti giorni. Non so chi tu sia, ma ho capito che non sei un ibn suk, un figlio del mercato . Tu sei un ibn nass, un figlio di buona famiglia. A differenza eli tuo cugino, tu leggi e scrivi bene. Ti di andare nello Yemen. Per strada troverai altri mascalzoni che ti vorranno fare del male . Aspetta che la .guerra sia finita .' 1\llora potrai il! famiglia. Gente di fede mi ha detto c'è .. una nave chiamata Adua che va .da Massaua a Hodeida , Una nave straordinaria, dove se qualcuno ·qa bisogno di bere acqua, ciuff! ecco che l'acqua esce da un tubd ; se le un'aranciata, ciuff! ecco che l'aranciata esce da un altro tubo. Su una nave del ·genere, potrai arrivare comodamente e in un momento a Hodeida . Aspetta dunque a partire. >>

, << Ma sjgnore >>, rispose Amedeo, turbato da quell'improvvisa familiarità, << io debbo partire . E poi, dove posso attendere la fine della guerra? Se mi prendono mi fanno prigioniero. >>

<< Io ti ho osservato, Ahmed Abdallah e neJ;J. mi sbaglio nel giudicare la gente. Tu sei un ibn nass, un figlio di buona famiglia. Se vuoi, puoi stare qui con me, eon fJ;lia mo,glie e con mia figlia. >> ' ·

·· << E mio cugino? >>

<<Può restare anche, lui. Qui c'è lavoro per tutti. Se siamo in due o in tre, potremo fare due o tre volte di più d'orzo . Io ti insegnerò a pescare. E una cosa bellissima, sai, la pesca quando si vede, come qui, venirti incontro i pesci che Dio ti manda. Qui stiamo tranquilli. Possiamo trascorrere in pace la nostra vita e tu sarai per me come un figlio. Quando poi vorrai tornare al tuo paese, non tornerai solo. >>

Era una chiara proposta di matrimonio. La ragazza, un essere meraviglioso· , con un visino da miniatura persiana, l

AL SAYED IBRAHIM 201

doveva aver capito l'offerta che il padre faceva all'ospite e dal modo come aveva guardato Guillet, origliando dietro la capanna di frasche, non doveva essere scontenta . Amedeo fu sul punto di accettare . Lo sceriffo lo aveva strappato dalla morte e gli aveva ridato la vita . L'esistenza che si era portato dietro dall'Europa avrebbe potuto finire, ignorata da tutti, nel deserto . Gli sembrava di non aver più nulla che lo legasse a un mondo in cui aveva perduto 1\1 guerra, i suoi compagni, la sua divisa, e Kadija. In Italia, certo, lo credevano morto . .Nessuno sarebbe venuto a cercarlo su quella riva deserta del Mar Rosso : ecco l' occasione , pensò, per scomparire, per cambiar vita , per realizzare il sogno di un'esistenza tranquilla, pulita, priva di amb\ziòni e di tentazioni.

Una vita nuova, nella quale non avrebbe dovuto perdere altro , col tempo , che la sua giovine zza e il vigore di un corpo che gli anni gli avrebbero comunque carpito : qui , forse, meno rapidamente che altrove . In quell ' angolo di paradiso, dove il tempo non contava, avrebbe vissuto, tome lo sceriffo, alla giornata, senza nemièi alle calcagna, fiducioso nel cibo che Dio, dopo avergli ridato la vita, non gli avrebbe fatto mancare . Accanto alla ragaz z a avrebbe anche trovato la pace dei sensi e sarebbe vissuto felice.

ll pensiero di unirsi a lei gli fece tornare alla mente Bice, la donna che aveva inseguito per annr, che aveva accettato di sposarlo, e che lui aveva lasciato per andare a fare la guerra . L' istinto , più che il dovere , gli diceva che non . poteva abbandonarla per un'altra, senza sapere se lo attendeva ancora in Italia .

Se fosse stato ucciso, se fosse stato mangiato dai pescicani, se fosse morto di sete nel deserto , il vincolo si sarebbe sciolto non per colpa sua . Dal momento che era sopravvissuto, aveva il dovere di tornare da lei per mantenere la promessa fatta, se lei ancora lo aspettava .

« Mio signore >>, disse pesando ogni parola , « permettimi di chiamarti padre perché nessuno più di te merita que-

202 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

sto nome, dato che mi hai ridato la vita . .Io ti sono grato e lo resterò sino alla fine dei miei giorni . La tua offerta è generosa, degna di' quello che sei. Ma non posso accettarla. Io debbo andare dove 'il mio destino mi chiama . »

' <<Tu mi dici che devi andare. Per quale motivo, io l'i, gnoro e non te Io chiedo. La tua risposta non çambia la mia opinione su di te. Sei una persona per be11e e se devi andare, vai.. Ma vattene domattina. Non rimanere oltre, perche. sarebbe . troppo difficile il distacco e grande il rimpianto. in che direzione tj porta la rua strada? >> l ,11 «Verso Massau.a. >> ,

'!< ' Sta bene. Io ti accompagnerò .sino ad Akito. Di ,lì, potrai continuare a piedi da solo. È a una giornata di marcia. Ormai ti sei rimesso in forze. >> l

Si levò, entrò nella sua capanna, ne uscl con due paia di sirual (pantaloni), due sciamma e due taghie (copricapi). Al mattino seguente, dopo un furtivo congedo dalla moglie e , dalla figlia, fece salire. i suoi ospiti sul cammello, mentre lui procedeva a piedi, in segno di umiltà verso gli ospiti, come insegna l'Islam .

Giunti nei pressi di Akito smontarono e Sayed si rivolse ad Amedeo e gli disse• '

<< Non sono ricco e non ho denaro da pl\rte.'i Ma viv9 lo stesso felice : Ho còn lne due tilleri. Prendili. Te li do cose tu fossi mio figlio. Prendili, non li rifiutare. '>>

' Amedeo li prese senza discutere; gli baciò la mano e Daìfallah fece lo stesso. Si separarono senz' altre parole ma dopo aver camminato, per un centinaio di metri, si voltarono, contemporaneamente, come se avessero udito un richiamo, per salutarsi da lontano ancora una volta .

AL SAYED illRAHIM 203

NEL Dakota delle Linee aeree egiziane che trasportava a Aden Pasquale Jannelli, ambasciatore d'Italia al Cairo, non c'era, in quella mattina di luglio del1953, molta gente: un paio d'europei, probabilmente tecnici delle raffinerie in costruzione nella colonia inglese, qualche egiziano, qualche saudita e gli immancabili commercianti indiani o pakistani, che fossero. .

Già all'imbarco, nonostante l'ora mattutina, faceva caldo. Immaginarsi a Aden, aveva detto Jannelli a Guillet, primo segretario d'ambasciata, che gli sedeva accanto, do- . ve il caldo batte i record mondiali.

Lo rallegrava il pensiero che a Aden ci sarebbe .dovuto ·stare solo il tempo strettamente necessario per incontrare il console italiano con le jeep che li avrebbero portati a Taiz, nello Yemen, meta d!!lla sua missione.

Il viaggio aveva per J annelli sapore di e di consacrazione: primizia, perché a lui toccava l'onore di inaugÒrare la rappresentanza diplomatica italiana in quel paese chiuso, sospettoso di ogni influenza straniera; consacrazione, perché confermava la solidità di legami che la guerra non aveva scosso . Lo Yemen si era mantenuto neutrale, nonostante le forti pressioni inglesi; aveva permesso, durante tutto il conflitto, a una missione medica italiana di risiedere nel paese e offerto ospitalità e protezione ai militari che vi avevano chiesto asilo .

Per Amedeo Guillet, destinato a rimanere a Taiz come incaricato d'affari, il viaggio rappresentava qualcosa di molto diverso: oltre a essere il suo primo incarico come ca-

RITORNO

po missione, era upa specie di ritorno a casa da « figliol prodigp ». ,

' Non dubhava dell'accoglienza che lo Yemen gli ,avrebbe riservato, anche se dietro ' al rappresentante di uh paese amico, c'era il musulmano zeidita Ahmed Abdallah al Redai . Ciò che lo turbava era il timore di essere incapace di affrontare una situazione in cui le due personalità, che coesistevano in lui, l'una legata al passato l'altra al presente, si sarebbero potute scontrare. . ., A un del genere nessun manuale. di diplomazia potuto' prepararlo . Neppure la missione pe!' 1946, che nel ,nome del governo itali,ano lo aveva ritondotto in Eritrea per trattare con gli inglesi il rimpatrio dei connazionali, poteva servire da precedente . A quell'epoca, la condanna emessa contro il Cop1andante Diavolo era, tecnicamente, ancora in vigore. Le autorità 'britanniche ,avevane:> piena c;onoscepza, di ·eausa, la sqa 've. , '·.huta' •Eritrea e lo avevano ricevuto col rispetl:6 doyuto a ' un valoroso nemico e una cor<lialità che aveva contribuito \ al successo della missione: missione che indirettamente ' aveva influito sulla sua decisione di entrare nella carriera dopo aver lasciato quella militare·,.come molti altri ufficiali monarchici dopo ravvento della Repubblica. , t. TI, suo passato ' non lo aveva .né;ppure imbarazzato do, nèl cotso di quel in Eritrea, rivisto dopo cinque anni , Kadija .' Le aveva consegnato il regalo . che BiCe, sua moglie , aveva insistito le portasse. Avevano l?arlato poco e taciuto molto, in un incontro sofferto, dolce e maJlnconico, di due esseri che si erano amati sapendo, sin dal principio, di appartenere a mondi troppo divèrsi per poter•vivere assieme.

' Solo una volta e per un breve istante ·l'indigeno che era in lui si era risvegliato, in quel viaggio: quando, assieme al capo degli Assaorta, era andato a trovare Sayed Ibrahim. Lo sceriffo non l'aveva riconosciuto, sbarbato com'era, vestito all'europea e senza tracce della terribile marcia nel

RITORNO 205
;t

deserto . Amedeo aveva represso l'impulso di rivelargli subito la propria identità: aveva atteso di essere seduto nella capanna, sulla riva del mare, e. aver bevuto il caffè con lo zenzero, per decidere come comportarsi.

Sayed Ibrahim aveva raccontato - come probabilmente ormai faceva con tutti i suoi ospiti - la strana avventura in cui era incappato in una notte di plenilunio, mentre si recava a dorso di cammello a Barasol per vendere pesce secco e farina di mais. In pieno deserto si era imbattuto in due strani personaggi che pellegrini dicevano di essere, ma pellegrini, certo, non erano, e che pretendevano di aver tentato di attraversare a piedi la penisola di Buri, camminando per due giorni senz'acqua né cibo: cosa che nessun essere umano avrebbe potuto fare . Dicevano anche di essere stati buttati in mare da contrabbandieri, di essere sfuggiti ai pescicani, d'essere stati derubati e picchiati a sangue dai pastori dankali. Tutte cose incredibili, anche se sembravano veramente malconci' quando gli avevano intimato di fermarsi. 'Gli avevano persino confessato che erano stati decisi ad ammazzarlo, se lui non li avesse soccorsi . Per fortuna aveva subito capito che si trattava di inviati del incaricati di mettere alla prova il suo coraggio e la sua fede Misericordioso. Li aveva dissesfamati, .curati, ospitati: e da quel giorno, grazie al 1Gielo, . nulla era più mancato alla sua casa: · salvo un pozzo' in cemento, ·a sostituzione di quello in sabbia che continuava à sgretolarsi. Se i due « messaggeri » fossero riapparsi, la sola cosa che avrebbe richiesto, assieme alla loro benedizione, sarebbe stata di costruirgliene uno.

Amedeo non poteva sfatare un'innocente credenza che col tempo si sarebbe probabilmente trasformata in leggenda. Si disse convinto che i due pellegrini sarebbero riapparsi, perché Sayed Ibrahim era un uomo giusto, un nobile sceriffo, e la sua casa un luogo di pace . Augurò lunga vita e fortuna a lui e alla sua famiglia e dopo averlo lasciato, incaricò il suo amico, il de;ac degli Assaorta, di fargli

206 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

costruire ii pozzo in cemento, senza rivelargli la sua identità .

L'aereo stava oltrepassando Massaua e Amedeo indicava all'ambasciatore la costa dankala ,e la penisola di Buri che si profilava, come un dito giallastro di sabbia, nell'azzurro lucençe del mare . , «Un po ' più a nord >> , disse ,« ma per la foschia non lo si a vedere, ci dovrebbe essere Akito. >>

All'ambasciatore quel nome suonava giapponese. Volle saperne di più e si sentl rispondere che era , uno dei pochi posti al mondo in cui il suo collega non avrebbe voluto tornare, per tema di essere legnata .

Amedeo gli raccontò come, alla fine del '41 , dopo il suo primo f allito tentativo di passare nello Yemen e dopo essen; stato salvato da Sayed Ibrahim, era giunto ,assieme a Daifallah ad Akito, un villaggetto a sud di Massaua.

A chi chiedeva loro chi fossero e da dove venissero avevano risposto di essere mercanti, in attesa di una carov ana con un carico di farina che avrebbero venduto a Massaua. Per rendere più credibile la storia, avevano preso in affitto, con i due talleri di Sayed Ibrahim , uno sgabuzzino che dava sulla strada. Di giorno fungeva da negozio; di notte, abbassando la saracinesca, serviva da camera da letto , a condizione di dormire l'uno con la faccia rivolta verso i piedi dell'altro.

Senza soldi, ma con la loro dignità di mercanti assicurata dal possesso di un << banco >> , accettavano i doni che la gente portava loro per assicurarsi il diritto di acquistare un po' della farina in arrivo. Avevano stabilito una lista di futuri acquirenti . La manipolavano a seconda delle contribuzioni alimentari che ricevevano , spostando avanti e indie. tro i nomi sul ruolino . ·

Vari giorni erano così trasco r si, durante i quali si erano rimessi un po' in sesto dalle tremende fatiche , curato i loro corpi smagriti e ammaccati e atteso , con paziente filosofia, la carovana che non arrivava . Alla fine , resisi conto che le

RITORNO 207

preghiere con cui davano prova della loro b'uona fede non bastavano ad allçmtanarne i sospetti ,' avevano solennemente annunciato che l'indomani, se i cammelli non fossero giunti , sarebbero andati loro incontro. Nella notte, se l'erano svignata verso Massaua.

1 Qui, Amedeo-aveva ripreso il mestiere d' acquaiolp IJ?.entre Daifallah si era lanciato nel commercio di dolci di sua fapbricazione. per p1angiarli tuhi lui, perché nessuno sembrava apprezzarli. ' · 11 ,

l Anche la distribuzione dell'acqua incontrava

La clientela non mancava !Da'c'era anche un <<-ispettore sa:.l' nitarfo >> che colla scusa di' controllare la qualità del 1liqui- ' \ io, chiedeva alla ger\te e acquaioli notizie del dante Diavolo. l

Per uscire da quella situazione non c'era che da ritentare l'espatrio verso lo Yemen. Amedeo non se la sentiva di affidarsi di' nuovo a dei contrabbandieri . Decise di giocare d'azzardo e chiedere alle autorità inglesi, ·assieme ad altri yen\eniti che rimpatriavano, il permesso d'imbarcarsi su uno dei sambuchi autorizzati a fare la spola fra Massaua e Hodeida . ·

Non avendo documenti ·d'identità, come del resto molti degli indigeni disoccupati, si era reca t d · all'ufficio che congli espatri, aècompagpato da Daifallah e da ci1;1que suoi ex-soldati, perché face'ssero da testimoni della sua identità elo proteggessero da nuove disavventure, nel caso (esse riusdto a imbarcarsi per lo Yemen. , L'ufficiale responsabile di concedere i permessi di tdo era il capitano White, un inglese dalla faccia roseà a cui: il aveva dato una tinta gamberesca . Parlava un, arabo elementare ma corretto , ed espletava il suo compitb macchinalmente, annoiato di dover porre sempre le stess'e l domande a gente che dava sempre le stesse risposte. ·'

Amedeo gli aveva sciorinato le sua generilità,,incluso il . nome del suo capo kabila, Mohammed al Tahiri , e del go- ' vernatore di Reda· , suo presunto luo&o di n,ascita, il Qadi

208 LA G!JI'RRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Mohammed el Shani, dettagli che aveva appreso dai compagni yemeniti. Quando gli fu chiesto se sapeva scrivere, rispose con sussiego di sl e, in bella calligrafia, firmò il documento che il capitano .gli presentava. Ma la sua non era la firma di uno straccione ignorante e la cosa incuriosll'ufficiale .

« Perché vuoi tornare nello Yemen? >>

«Perché da quando ci siete voi, inglesi, qui non c'è più né lavoro né da mangiare. >>

« Chi credi di essere, per parlare cosl? >>

« ,Chi sono io lo sanno tutti qui. >>

«Davvero? Forse sei Napoleone?>>

« Sono chi sono e dico ciò che dico. >>

Il capitano si era fatto ancora più rosso in viso. Avrebbe voluto dare una lezione a quell'indigeno arrogante, ma si trattenne, vedendo .che alle spalle di Amedeo, gli. altri-gli facevano dei gesti per fargli capire che stava parlando con uno squilibrato .

Timbrò illasciapassare e lo tese ad Amedeo dicendogli :

<< Vattene, e non farti più vedere. >>

Era ciò che Guillet attendeva da mesi . Ma ancora una v,olta la traversata del Mar Rosso, intrapresa due giorni dopo, doveva rivelarsi problematica.

Sull'imbarcazione c'erano una trentina di passeggeri che, come lui, speravano di raggiungere lo Yemen in sei giorni di navigazione. Quasi subito, però, il vento era calato e il viaggio si era prolungato per due settimane. Ame'deo aveva cominciato a pensare d'essere lui la causa segreta di quel ritardo, voluto dal destino per dar modo agli inglesi, avvertiti della sua fuga, di raggiungere il sambuco e arrestarlo, assieme ai superstiti della sua banda.

La sorte, invece, si era accanita su un suo ex-soldato, uno yemenita di nome Giabran, malato di ameba . Per ore Amedeo lo aveva confortato, assicurandogli che avrebbe visto il suo paese natale prima di morire . Invece, era spirato proprio mentre si avvistava la costa . L'avevano sepolto

RITORNO 209

in maie, avvolto nella suà coperta, con dei pesi legati ai piedi , recitando tutti assieme la professione di fede coranica : ,

«La ilah illa Allah , la ilah illa Allah, non c'è Dio se non Dio >>, avevano intonato, dimentichi per un momento dei loro problemi. , 1

ll corpo era scivolato sulle assi, dalla murata vers,o l' ac1aprendosi nel mare appena increspato il sentiero da cui nessuno ritorna. ' \ ' '

''Berché - si era chiesto - il destino continuava a risparmiarlo? Perché il suo .nome restava ; critto nel liBro

1 della Non riusciva a ' darsi una risposta, anche se si rendeva conto che su quel sambuco, dondolante in un punto sperduto di mare, la vita eontinuava il suo corso ,' indifferente ·a ciò che succedeva nel mondo e ai sentimenti dei mortà.Ìi. Scorreva col •suo fardello di generosità e grettezza, d'istinti e di virtù, di paure e di sacrifici .

Nei primi giorni di bonaccia, il nakuda aveva di consdlidare la propria autorità, facendosi vedere a maneggiare una grande bussola che poco poteva dirgli sul .corso qei venti . I passeggeri l'avevano guardato, , per un pd ', con'

1 risp ktto. Ma appena si erano accorti che lo strumento n,on lo aiutava à far avanzare l'lmbarcaziop.e cop.linaia-

1 to 1\ prenflerlo in giro e a suggerirgli di chiedere consiglia ai delfini che guizzavano attorno al sambuco. · '1 lx

Le provviste dei poveri, intanto, erario finite; . era stato necessario requisire le vettovaglie dei passeggeri e razionarle, assieme all'acqua, per assicurare a tutti un minil

Non era stato facile ·imporre questa disciplina, specie a chi si vedeva privato senza compenso di provviste che, più previdente di altri, si era portato appresso . Eppure, le persone che difendevano accanitamente i loro averi erano poi le stesse che, quando una donna si accoccolava sulle assi sporgenti dalla murata, che servivano da latrina, volgeva,no c0 n [nnata educazione le spalle ; attprno a,lei,

210 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

aggrappata a una fune per sostenersi, un muro di civile pudicizia.

Quel senso di pudore faceva parte di una cultura di poveri che sapeva, all'occasione, generare slanci di solidarietà. Amedeo ne aveva avuto la prova quando aveva portato a Deifallah metà del pane che gli era toccato nella confusa distribuzione fatta dal nakuda . Pensava che l'amico non fosse riuscito a procurar si la sua razione a ·causa del mal di mare. Ma Daifallah aveva rifiutato l'offerta con un sorriso d'intesa, traendo dalla fascia la mezza porzione di pane che, a sua volta, aveva conservato per lui.

ll nakuda era un musulmano di rito sciafeita, come il proprietario del sambuco che li aveva buttati in mare. Eppure, quando vedeva Amedeo starsene lontano dalla piccola folla che . si accalcava attorno al forno, gli gettava U!Ja sfoglia di pane, sopra la testa degli altri . Perché? Aveva ragione Sayed Ibrahim nell'affermare che non si deve mai giudicare gli esseri umani come se fossero fatti della stessa materia: ci sono ·sciafeiti buoni e sciafeiti cattivi, come ci sono zeiditi, inglesi, italiani onesti e mascalz,oni.

Cosa distingue gli uomini? Educazione? Cultura? Oppure la maniera con cui essi concepiscono l'azione, quel prodotto d'energia animale che ciascuno di noi porta con sé dalla nascità? Ci deve essere un punto in cui questo primo potere di vita si trasformava in volontà cosciente: quel punto che Amedeo sapeva di aver spesso superato in battaglia, veniva definito valore . Un · termine appropriato, perché è la misura dell'azione cosciente che dà valore a chi la compie . Potevano, però, le leggi di guerra valere, là dove l'azione sembrava risiedere nell'immobilità e nel silen- , zio? Questo era il dilemma che aveva dovuto affrontare appena arrivato a Hodeida.

Prima di sbarcare, i doganieri, per nulla interessati ai fucili che il nakuda aveva tolto, coperti di cenere, di sotto una lastra metallica su cui era stato acceso il fuoco, durante tutta la traversata, si erano invece preoccupati di far re-

RITORNO 211

citare a ciascuno dei v,iaggiatori la di f ede musillmana . Volevano assicurarsi che han ci fossero fra loro degli infedeli.

Anche Amedeo l'aveva pronunciata ma, convinto di , non poter passare 'per yem f nita nello Yemen, aveva rivelato ai funzionari della dogana la sua vera identità, chit;dendo asilo nel paese neutrale. '

L'Amir al Bahr Qadi* Ahmed El Zubeiri, davanti al quale Alllede,q era stato condotto, l'aveva · ascoltato, lisciandosi il mento. ' · \ \f che gli stava dicendo d'essere un uffiçiale ,itiiliano , musulmano, ricercato ·,dagli inglesi, pareva sincero. ' Parlava un arabo corretto e nònost ante il vestire dimesso aveva un portamento dignitoso, diverso da quello dei aom{1agni - suoi fedeli soldati, diceva - che lo avevano ·segui; to . Non c'era traccia d ' arroganza nel comportamento di quello strapiero . Ma lo sguardo vivo , pungente , che non aveva mai abbassato durante la conversazione, lo turbava . Chi, del resto, aveva mai sentito parlare di un ufficijl!e •itàliano, un comandante di cavalleria, per giunta, che travestito da straccione era riuscito a eludere la sorveglianza degli i.Dglesi per tanti mesi? ' Anche i sedicenti ,soldati 'che lo accompagnavano destavano in lui qualche sospetto. Ji'erche , noh ena venuto da solo, se veramente era un: profugo in aerea ' di asilo? Ovviamente, si trattav a di un ,caso complicato, che lui non poteva risolvere da ' solo: richiedeva tempo e soprattuvo la decisione dell'imam . · ,

<< ' E chi mi dice che la tua storia sia vera? >> aveva chiesto , dopo matura riflessione .

«,I miei compagni, che mi conosconc;> da sempre. >>

« La loro testimonian za non vale . Sono tuoi amici, peg, gio , sono come tu dici tuoi fedeli soldati. Potrebbero mentire. Io debbo avere prove più solide . Indagheremo e tu attenderai la tua sorte in prigione , >>

212 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Nessuna prigione in Oriente è comoda ; quella di Hodeida non lo era per tre ragioni : si trovava in una specie di scantinato, al di sotto del livello del mare e della strada, alla cui altezza un'apertura protetta da sbarre lasciava penetrare in basso un po' di luce; i sei prigionieri che l'occupavano avevano i ferri ai piedi; l'amministrazione carceraria riteneva che il loro mantenimento non fqsse responsabilità dello Stato : erano i parenti a fornire il sostentamento ai prigionieri, o gente caritatevole , gettando loro, attraverso la finestrucola, pezzi di pane, pesce affumicato e qualche dattero.

E poi c'erano gli interrogatori.

Uscire pa quella tana per rispondere alle domande del Qadi Al Zabara, capo doganiere e responsabile della polizia locale, poteva essere un'occasione per respirare un po' d'aria buona e godere della luce del sole. Non essendo possibile chiamare un fabbro per rompere a colpi di martello l'anello della catena che gli imprigionava le gambe ogni volta che il Qadi lo interrogava, Amedeo doveva procedere a piccoli passi, tenendo la catena sollevata da terra con uno spago . D sistema non evitava il dolore provoèato dallo sfregamento degli anelli sul piede ferito; ma lo sopportava con stoicismo, sapendo che anche questa era una 'specie ·di prova della verità alla quale veniva sottoposto .

Non era la sola . Il capo doganiere era un uomo di mezza età, dai capelli biondi che dimostravano che fra i suoi antenati doveva esserci stato qualche europeo, forse un crociato sperduto in terra d'Islam. Alto , dal portamento elegante, interrogava quello strano prigioniero con gentilezza, facendolo sedere accanto a sé su un tappeto, offrendogli una sigaretta e una tazza di ghescer . Poi lo rimandava in prigione, apparentemente indifferente al fatto di aver conversato da pari a pari con qualcuno che aveva le caviglie strette nei ferri.

Il brutale passaggio da un livello sociale all'altro umilia-

RITORNO 213

va Amedeo, incrinava il suo ottimismo e lo gettava in uno stato di ansia che di notte si trasformava in ,incubo .

Erano momenti di scoramento i quali la SlJa vita, ricca di avvenimenti, fama, onori e decorazioni perdeva ogni valç>re . Nell'oscurità torrida della cella in cui il solo privilegio di cui aveva goduto, dopo una set,timana, a causa della ferita al tallonb infettata, era la rimozione dei ceppi , dal Qadi AJ Zabara , gli veniva da invidiare i conjpagni di , prigionia . .Erano degli sèoriosciuti, .fqpse . banc;liti, 1forse ·uomini onesti , ingiustamente puniti, che ac1 con pn, cb raggio che a lui ? ra rrtanca v: a. , , , 1 '

Tutte le fatiche passate, i .pericoli affrontati ,. le isQk azioni 'tr atte d ,alla musica, le« verità >> libri e la glori at acquisita in qattaglia , non lo aiutavano ad affro n tare una in cui libera poteva essere sol0 l'anima. Se, questa si nutriva, come affermavano i filosofi , di verità, 'dov'era la sua? Quella di marcire in una tomba di vivi, come il Radames dell'Aida, ma con dei malfattori al posto di una donna amata, senza difesa, senza in 3;ttes11 che si manifestasse la volontà di Dio ·e dell ' imam? · 1 di comprendere il , significato del brutale passaggio dalla. libertà alla prigione, dalla ·luce all'osfur.ità ,, dall'esUltanza per aver rlilggiunto lo scopo tlesid<iral:o ' erollo di .ogni suo piano, ma non sapeva farsene ragiÒne . Gli sembrava di essere caduto vittima di un ingiusto ' des t ino, di un'immeritata punizione delle Parche per a'v,er tentato orgogliosamente di mutare il destino . ·l'

Que sto orgoglio , questa volontà , l'impeto , il 'senso di' sicurezza che erano stati sempre alla base delle sue azioni , se .li sentiv a , ora , mancare. Alloro posto c ' era uno sconforto che a tratti si trasformava in disperazione : non era più in grado di pensare al futuro, di fare piani di fuga; non aveva i neppure la forza di tastare le pareti per controllarne la solidità o la possibilità di incidervi un messaggio . Scambiav!) qualçh,e ,rara parola con gli altti prigionieri.. Deluso, dol9 ; 1 ' l ;

214 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET
'"

rante, affamato, trascorreva i gi0rni e le notti rapnicchiato in un angolo, muovendosi appepa per raccogliere i resti del cibo che gli altri lasciavano o che qualche anima misericordiosa gli gettava attraverso le sbarre della finestra .

Anche ai suoi soldati .era stato proibito di 1,accostarsi a quella finestra. Continuavano a turno a passare per i vicoli adiacenti, nella speranza di stabilire un contatto con lui, o se ne stavano per ore accoccolati all'ombra dei muri della prigione. Amedeo non poteva vederli ma sapeva che gli erano vicini. Solo una volta Daifallah. era riuscito a gettar. gli, attraverso le sbarre, un pacchetto di sigarette, ma 'non i fiammiferi per accenderle: col risultato di farsi minacciare di prigione dalle guardie.

In quella solitudine , Amedeo si accorgeva di stare perdendo il controllo di sé . Si rammaricava di aver voluto sottrarsi alla ,prigionia degli inglesi - che, almeno ,' avrebbero rispettato la sua dignità di ufficiale - per finire in una galera dove gli sembrava di perdere, poco a poco, la sua dignità di essere umano.

.In momenti più lucidi, quando cercava di farsi una gione di quella sua discesa all'inferno -e una ragione ci doveva pur essere, oltre a quella dal capo' delle dogane - si chiedeva se quella prigione non fosse una prova che doveva affrontare, una battaglia in cui il vuoto preso il posto del nemico; un palcoscenico su cui era ahiamato a recitare una parte alla quale nulla lo aveva ' preparato .

Doveva essere stato in uno di quei momenti di allucinazione che vide -o. piuttosto credette di vedere - aprirsi la porta della prigione e sentir pronunciare il suo nome. Si alzò, stupito d'essere ancora capace di tenersi sulle gambe e camminare verso il quadrato di luce che si era aperto nel muro, al di là del quale lo attendeva, forse, la morte.

Non ebbe il tempo di dilungarsi in pensieri del genere : i carcerieri lo stavano portando, quasi a braccia, 'alla D ara ad Diafa , la Casa degli Ospiti. Qui lo fecero spogliare, lo

1

RITORNO 215

immersero in un caldissimo bagno, gl,i o'ffrirono una futa rtuova e pulita e lo invitarono a distendersi su pile di cuscini, sparpagliati sopra tappeti, in una sala fresca e piena di luce. Dalla finestra senza sbarre;, si poteva vedere il mate, mentt e ai suoi piedi! venivano deposti vassdi 'di rame, ,ricolmi di frutta, di carne e di riso con latte cagliato. Se non st'at'o per , l'espressione compiaciuta degli yemeniti eh!! gli stav:ano attorno osservando coh quanta ingordigia affdnda;và i 'denti nell'uva e boècbni di riso ayvpl pi (nelle v}te, Amedçd avrebbe credutb di vi\<ere ir\. ' un,sdgno, di 'essersi tpisfqtmat1<;\ in un Giuseppe bi,bli; cp, àal çarserl: all d\ torte per interpretare i ,soghf del faraon( A lui non si però, di intergi eta,re', nulla : La st'ui' libertà era dowta. - così ,gli spiégava il capo ,delle - al fatto che mentre i funzionari yemeniti ,disb.itevano se Ahrned Abdallah al Redai eta 0 no un agente britannico, da 'Aden era a .Sanàa una iQglese cÙ: estradizione per uh << bandito italiano, ex-militare, su cui la pena capitale >>. Era la copferma che 'Amedeo 'aveva detto il vero e l'imam, avev J dato di mandarlo a Sanàa. · '

·Chiarita l'a non restava che prepararsi al e all'j rtcontro \:.òl sovrano. ·Chiese di essere rasato 1 e quahdo ' si 'vide alld spi'lcchio, nqn' si riconobbe nel•volto chè ·di vitali sembtava çonserv:rrnc:: N occni. .l '' ' ' ' ' ' ·l '

C' etan8 se,tte gim;ni' e sei no t d per passare dal <;al- l do afoso ' di Hodeida ai ·duemilaquahròcento metri di Sanàa . M J n mano che la carovana avanzava, il deserto si train giardino, le alture, terrazzatè col lavoro di se- \ coli ,. si·coprivano di piante da frutta, di vigneti e di alberi. '

Era l'Arabia Felix, 'che gli si apriva davanti, il paesaggio , misteriqso e ridente, di una Sahgrilà araba, gelosa dei suoi tesori nascosti .'

Quando giunsero in vista · di Sanàa, l'alba era appena ' spup\:ai:a. Le m11ra di dnta, le •cupole delle cento moschee ,. l

216 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GU!LLET l

i palazzi di sei, sette p iani, con le finestre ornate di reticolati di gesso a vetri policromi , gli erano apparsi , nella bruma del mattino, come un mondo incantato, un miraggio, che l'appello alla preghiera dei muezzin, dall'alto aei minareti, rendeva ancora più irreale e fiabesco.

L'imam Yahiah lo aveva riCevuto nel suo al quale l'aveva accompagnato subito il ministro degli Esteri, Mohammed Raghib, vecchio e raffinato ex diplomatico turco . Si ·era informato della sua salute, aveva ascoltato il raccont o delle sue; peripezie, lisciandosi continuamente la barbetta bianca . Gli aveva offerto la sua protezione, il grado e lo stipendio di colonnello yemenita , perché - diceval'Italia era un paese amico, il primo ad aver riconosciuto l'indipendenza dello Yemen dai turchi. Inoltre era nato nello stesso anno di re Vittorio Emanuele m 'e questa coincidenza lo lusingava e , secondo lui , non poteva essere fortuita . Poteva dunque contare sulla sua ospitalità, assieme ai soldati che l' avevano acçompagnato , girare liberamente nel paese , ma non immischiarsi di politica. '

·« Sei un bravo soldato » gli aveva detto « e per noi tu sei e rimarrai Ahmed Abdallah el Redai. >> Era, co sl , trascor so più di un anno, durante il ,quale Amedeo si era fatto molti amici e aveva esercitato molti mestieri : veterinario, maniscalco, consigliere militare,, precettore dei giovani principi della famiglia reale . Era riuscito a bloccare un'epidemia di bestiame , aveva studiato l'economia del paese e seguito da lontano gli avvenimenti in Europa . Aveva saputo dell ' attacco giapponese a Pearl Harbour , dell' entrata in guerra degli americani, dei rovesci itac liani in Africa settentrionale, delle vittorie tedesche in Russia , di q'+elle giapponesi nel Pacifico e poi delle loro ritirate .

Con l' aiuto dell ' imam era riuscito a imbarcarsi senza sollevare sospetti a Hodeida per Massaua, nel giugno del 194 3. Si eta potuto introdurre clandestinamente nell'ultima delle tre navi della Croce Rossa italiana che riportava

RITORNO 217

in patria clonne, bambini, vecchi e ammalati , scambil\ti con prigionieri inglesi .' Per Muggire àll' attenzione della scorta britlmnica che viaggiava con loro si era nascosto, con la complicità de,! capitano, nel repatto dei matti.

La notizia della caduta del fascismo gli era mentre circumnavigavano l'Africa, all'altezza dell'isola di Sant'Elena . Aveva , sfruttato le lunghè ore di navigazione per redigere un lungo ,sulle sue attività clandestine in Eritre a e sull a' situazione politica ed ,, econo111ica pello Yemen. ,, , : ',,, ' ",,,,,, , ' ' Splrrcato a Taranto, H 2, non aveva, 'vò11lto ti- , prendere d mtatto j:Ofi i suoi e con Bice prima di recarsi '11 Roma, sperando di trovare ,.n modo 'di tornare subito in Africa per combattere. Aveva ·trovato la capitale immersa in un ' atmosfçra irreale. TI paese era ancora ufficialmente impegnato in una guerra che tutti consideravano ormai perduta , nell'attesa impaziente dell' attnistfzio e della pace . Cjò nonostante, era riuscito a persuadere H tninistero della Guerra a dargli un aereo per tornare in Eritrea.

Il suo piano era di utilizzate H velivolo a fondo perdut0, carico di attni, titoli onorifiCi per i capi ,locali, qenato e medicine. Inte!)deva 'atterrate nell'Adi Abò, al confine f[a ,H le dove a un campo di atterraggio di' fdrtuna ' costruito dal ,s1.1o atnico De Rege Thesaur9, al tempo cui era comlnissatid aAdua . Oltre al pilota, l'aaccompagnato H tenente degli alpini SH:vestd e UB medico ,lent'rambi ' incontrati bordo della dèlla Groce Rossa. ton loro a discusso tutti i patticolati del suo piano . Invece, sorpreso dall' attnistizio, 1'8 settembre , in abiti da ·civile si era messo in matcia per H sud . Aveva attraversato le linee del fronte e guadato H Volturno , preso contatto ' coi reparti dell ' vm Armata e col Comando italiano della Regione Militate di Napoli. Lo avevano subito spedito a Brindisi dove, dopo aver incontrato 'il sovrano è H principe ereditario , era stat b riassunto 1 in servizio, volta presso H SIM, H Servizio Informal

Il 218 LA
GUERRA TENENTE GUILLET

zioni Militare, per partecipare alla guerra di liberazione. Soltanto in seguito aveva rivisto i suoi a Capua e ritrovato Bice, che lo attendeva nella casa di campagna, ad Avella. Nel 1945 si erano finalmente sposati.

ll re gli aveva conferito l'Ordine Militare di Savoia mentre combatteva di nuovo, questa volta a fianco degli Alleati: chi può sapere ciò che c'è scritto nel libro del del Da avevano inforcato la strada per Taiz, Amedeo non aveva fatto che pensare a come l'imam Ahmed l'avrebbe accolto . Ricordava molto bene questo personaggio che prima della morte del padre, Yahia, assassinato a Sanàa nel 1948, governava da Taiz il Tehama (la grande zona costiera dello Yemen) . Era la città dove l'allora principe ereditario preferiva risiedere.

L'emiro Ahmed era un uomo tarchiato e imponente , dalla barba nerissima, con un grande turbante di seta attorno al capo , un pugnale ricurvo, la ;ambia, dall'impugnatura di corno di rinoceronte ornato da un fiorino veneziano cl'oro, infilato nella fascia che gli cingeva i fianchi: una figura d'altri tempi, un guerriero che amava comporre poesie e che governava il suo popolo con l'autorità patriarciùe di un despota orientale.

Con lui , pensava Amedeo, la posizione del rappresentante dell'Italia non sarebbe dipesa da titoli diplomatici, ma dalla maniera con cui l'imam l'avrebbe guardato, al loro primo incontro. Forse avrebbe finto di non riconoscerlo e preferito ignorare il suo passato di musulmano. Ma, in seguito, ogni qualvolta Amedeo ebbe a che fare con .l'imam, fu obbligato a chiedersi con chi l'imam parlava o mentiva : con l'incaricato d'affari d'Italia o con Ahmed Abdallah al Redai, falso zeidita , su cui pendeva una condanna degli inglesi al tempo in cui era stato accolto fuggiasco di guerra e che, da principe ereditario, l'aveva spesso

RITORNO 219

chiamato a Taiz per farsi raccontare le sue avventure di guerra?

Taiz non ' éra cambiata, in dodici anni : qualche veicolo a motore in più, qualche nuovo negozio, ma le stesse strade tortuose e misteriose, la ·stessa folla variopinta, gli stessi volti scuri e asCiutti che si aprivano al sorriso quando lo straniero, si rivolgeva loro in arabo . 1 1 .,, " Anc);le .'il palazzo dell'ilpall) non era cambi,ato:, le stesse ,dalle volte a sesto acuto, gli stessi tappeti un po' sdr.uciti le stesse; pile di cuscini ricamati, su,cui A re staV,fl, acl:agiato, attorniato ,.iiai suoi consiglieri, , ministri e p,aggi, tutti scalzi in· sua presenza, con grandi pugnali IDa cinturà, mc;:ntre accoglieva l'ambasciatore d'Italia. "

i Si era ridicolo, accanto a Jannelli, entrambi vestiti in abito a code ma senza scarpe, come il protocollo in da mille e una notte di pro- l vincia . Durante il breve discorso dell :ambasciatote, l'imam Ahmed non gli aveva staccato gli occhi di dosso. Quando J annelli ebbe finito di parlare, e l' di tnal'ill)atp. si levò in piedi e prip1a di rispondere all,'inviato di Roma, disse con aria burbera e un lampo arguto negli occqi : . ,

<< Allotà, Ahmed Abdallah, ,a casa ci sei finalmente tor, ' !

220 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

Delle persone ricordate in questo racconto , poche sono ancora in vita e non di tutte è stato possibile ritrovare le tracce .

Amedeo Guillet vive nella sua grande casa irlandese, dedicando il suo tempo ai suoi quattro cavalli, alle cacce alla volpe , alla pittura, alla musica e ai ricordi di una lunga vita che dalla carriera milit are lo ha portato a quella diplomatica in Egitto, in Arabia Saudita, alle Nazioni Unite , carriera elle ha fatto di lui, come ambasciatore nello Yemen , in Giordania, nel. Marocco e ip. India , uno dei grandi esperti del mondo arabo islamico della nostra epoca. Bice si è spenta a Roma nel1991 , dopo averlo seguito durante tutta la sua carriera diplomatica .

Dopo la morte del generale Togni, padre di Renato, Guillet è rimasto legato alla sua famiglia come con Guido Battizzocco che , rientrato·in Italia dopo una lunga e penosa prigionia, viv.e a Roma, occupato con successo nell' amministrazione di società private.

Il capitano Bellia ha trovato la morte in uno scontro con gli etiopici , mesi dopo la resa del generale N asi a Gondar, riell942.

Pietro Bonura, già direttore dell'Ospedale di Agordat, rientrato dalla prigionia si ritirò a vivere a Trapani , sua città di origine .

Carlo Call , veterinario, rientrato dalla prigionia in Eritrea, ha_ diretto a lungo l ' Istituto sieropatologico dell ' Asmara .. E stato decorato dall'imperatore d ' Etiopia per l'estensione del suo Centro di e di Produzione profilattica a tutta l ' Africa Orientale . E d eceduto a Roma nel 1981.

RITORNO 221

Filippo Cara, rientrato dalla prigionia e tornato all'insegnamento, è deced1.1to nel1953 di un male incurabile, con grande rimpianto del suo comandante che vedeva in lui uno dei più valorosi comandanti di squ'admne.

Fortunato Cirianni, ritiratosi dal servizio militare col grado dj maggiore, si è dedicato a riuscite attività econo· miche . E deceduto a Roma nel1980.

Al b ert<? Lucarelli, rientqto dalla prigionia: e lasciato il servizio ,attivp col grado <# tenente ·colonnello, è emigrato ,9all'Italia m;gli anni Sessanta.

,.Angelo aveva ripreso le sue attività di avvocato all'Asmara, dove era rientrato nel1945 . Appassio11ato d'agricoltura, aveva acquistato una concessi one ai piçdi dell'altipiano etitreo . Qui ha trovato la morte nel 1958, difendendo il denaro delle paghe dei suoi operai indigeni da un assalto di banditi.

Àmbrogio Mattinò, al ritorno dalla prigionia, ripreso il suo posto al ministero dell'Africa Italiana prit;na di passare al ministero degli Esteri. Dopo una brijlante c.arriera ·si è ,ritirato a Roma, dove màntiene tuttora cont\:ttti col suo(comanCiante. ' ' l

Rizzi non, ha mai vol1.1tp lasciare l'Eritrea e si è spento all'Asmara nel1968 :

' l Kadija è forse ancora viva e cosl pure il fratello Asfao, se il tempo e le vicende tumultuose del suo paese l'hanno risparmiata .

Mohammed Daifallah, ,si è spento a Hodeida nel1960, dopo aver a lungo servito come usciere della Legazione a Taiz .

222 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET
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Abebe Aragai, diveptato gene!ale e principale ministro del negus , ha trovato la morte nel c<ìlpo di stato organizzato nel1960 contro l'imperatore mentre questi era in visita di stato in Brasile.

I1 capitano Lory Gibbs ; divenuto consigliere finanziario del governo saudita , ha mantenuto, dopo il suo rientro nel Galles stretti contatti di amicizia con Amedeo Guilletche aveva ritrovato a Gedda come inpricato di affari d'Italia - Sf i:J.O alla· morte, avvenuta nel1987.

La amicizia sorta fra .. 'Amedeo Guillet e Max Harari è stata ricordata dai giornali inglesi in occasione della sua .scomparsa, all'età di 78 ,anni, nel 1987. Nel 1942 prima ili ritornare ,al ,suo reggimento e partecipare con valore allfl battaglia 'di E'l Alamein (Olivia Fitzroy, .Man o/ Valotlr, ' History of the Eighth Royal Irish Hussars, III vol., 1927-1958), aveva fatto montare .in argento lo zoccolo di Sandor, morto per malattia. Dopo la guerra, si incontrò con ,il vecchio avversario·e g)ielo consçgnò. Il gesto è 11pparso all'opinione pubblica .inglese •come il simbolo di una cavalleria che non conosce odii e frontiere, degno di un soldato gentiluomo, ricordato in Inghilterra anche come uno dei maggiori esperti d'arte londinesi.

Il generale sir William Platt, per quanto 'rriaJato, aveva voluto ricevere Amedeo Guillet nella sua dimora nel1976 e ha mantenuto con lui un'amichevole corrispondenza sino alla sua morte, avvenuta\ nel marzo 1977.

Il crapitano Reich è deceduto a Londra ne.;! 1962· , dopo una brillante carriera universitaria . Conoscendo questo straordinario personaggio, è sulla base del suo metodo di studioso che, mi sono permesso di immaginare il sistema che avrebbe seguito per u,na situazione come quella creata dalla guerriglia di Guillet.

RITORNO 223
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Numerosi sono stati gli ufficiali inglesi e indiani contro le truppe dei quali il Gruppo Bande arnhata si era scontrato, che hanno voluto onorate il loro avversario con ricevimenti nei vari club reggimentali. È stato il caso, a New Delhi, del generale Chaudati, diventato dopo l'indipendenza, capo di stato maggiore dell'esercito indiano; degli ufficiali dello Skinner Regiment e del Rajputan Rifles .

A Londra, il brigadiere generale Cubbit, presidente della Regimental Association del Surrey Yeomanry, ha voluto che il maggiore Angus Campbell, comandante a Cherù dell' attiglieria che aveva sostenuto il primo assalto delle Bande, sedesse accanto ad Amedeo Guillet, ospite d'onore alla cena reggimentale nel matzo 1976. Lo stesso aveva voluto fare al circolo dell' Army and Navy nel1976, il generale &ir Reginald Savory, con cui le Bande si erano più volte scontrate, ·in occasione della festa annuale della IV Divisione Indiana. Abbiamo ritenuto utile riportate un discorso di benvenuto pronunciato in quell'occasione, per il sup valore storico e umano . Un altro significativo incontro ebbe luogo nell'ottobre 1977, su iniziativa del brigadiere R.H . S. ·Popham, già comandante delle truppe corazzate della Gazelle Force, alla battaglia di Cherù e presidente dell'Associazione degli Ufficiali della Sudan Defence Force.

Mohinder Singh è tuttora in servizio presso l'Ambasciata d'Italia a New Dehli.

224 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

CREDO d 'ess Jrmi imbattuto per la prima nel , nqme di Guilletla Meadi , in Egitto, nel'1943 , negli dell 'Intellig(!nce quando si preparava lo sbarco in Sicilia. ,

· Ogni giorn o''mi l?_assavano sotto gli O(( chi nomi di :ufficiali e di unità ' italiane che ancora combattevano in Africa ' settentrionale e delle quali i comandi alkati seguivano , le mosse . Penso fosse in primavera , quando le forze dell'Asse erano attestate sulla linea Mare t, in Tunisia , e guastatori nelle retrovie dell'Ottava Armata di Montgomery . In quelle giomate, dal Nilo saliva una nebbiolina risucchiata dall 'aridità del deserto mentre una debole brezza agitava appena le 'foglie degli eucalipti, dei fichi e, delle magnolie attorno alle ville dei ricchi cairoti. , senza sosta. Divisi in piccoli gNfppi, catalogavamo noiizie proveljienti da ricognizioni aeree :o ilai rapporti 1degli dei prigionieri: ta sezione detta deì « ros:;i » si occupapa dei tedeschi; 41 mia, quella dei « blu », deg(i italiani; ' un'd/tra , 'di cui non ricordo il colore, trattava i balcani. Ciascun grupAo era geloso dei segreti di cui era entrato in ppssesso : qu i un deposito di carburante, là un campo m(nato e un ponte strategico. snobismo e pigrizia non leggev(lm b.i giornali ·egiziani in lingua inglese o francese . Eravamo convinti di saperne più degli altri sull'andamento della gue"a grazie ai bollettini ciclostilati affissi sul tabellone delle informazioni della mensa , accanto alla finestra del bar. Ripetevano più o meno le notizie dalla stampa locale, alle volte con un giorno di ritardo pe, rché qualcuno si era dimenticato di sostituire i vecchi ,bollettini con i nuovi .

POSCRITTO
1 • 11 ,

I rapporti circolavano nei nostri uffici in grandi buste gialle chiuse e contrassegnate Al Servizio di Sua Maestà, sempre timbrate «segreto», anche quando contenevano notizie di nessun interesse. Dicitura che contribuiva a tener alto il nostro morale, alimentando un senso di falso elitarismo, in perpetua lotta con ./a noiosa banalità del nostro lavoro di routine.

Deve essere stato in uno di questi documenti che incappai nel nome di Guillet. Il rapporto non si occupava di lui, perché a quell'epoca aveva già /atto perdere le sue tracce riparando •nello Yemen. Lo si menzionava in connessione con un altro ufficiale italiano, Olivazzi di Quattordio, che operava, con l'aiuto di guide indigene dietro le linee nella Libia occupata di fresco . Era un nome a me familiare perché Quattordio è un paesino del Piemonte che attraversavo, con i miei genitori, quando andavo in vacanza. Il rapporto diceva che questo Olivaui agiva con tattiche simili a quelle usate da Guillet in Eritrea. Con lui non mi sono mai incontrato. Con Amedeo Guillet, invece, le strade si sono incrociate, tessend,o brani di vita in comune e unamicizia che, iniziata a Roma, in una villa presso Porta Pinciana, quasi mezzo secolo fa, continua immutata.

In quella villa, situata •al numero 60 di via Quintino Sella, oggigiorno sede dell'Ambasciata ·de/Giappone, si era imtallato nell;estate del 1944 il mio reparto dell'Intelligence. Ero stato distaccato lì dalla mia unità> il II battaglione de1 Reggimento di fanteria palestinese nel quale mi ero arruolato assieme ai miei compagni di scuola, tre anni prima. Il mio compito consisteva nel compilare e tradurre in inglese le informazioni che ci pervenivano dal SIM, il servizio d 'informazioni militare italiano ricostruito dopo l'armistizio dell8 settembre. Ero il solo «colonia le » in quell'unità, scelto per la mia conoscenza della lingua italiana e per gli addentellati che la mia famiglia aveva a Roma, liberata di fresco, e in Vaticano.

Un avvenimento fortuito aveva favorito lo sviluppo dei miei rapporti col SIM e in seguito con Amedeo Guillet che,

226 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

col grado di maggiore, si occupava dal suo ufficio , situato in via xx Settembre, dei movimenti afro-asiatici e delle vecchie colonie italiane. '

Nel dicembre del '43 ; quando i resti della Cuneo furono trasferiti dagli inglesi dal fJodeca11neso in un campo militare presso Gaza, fui inviato dal Cairo in con l'incarico d'individuare e poi accompagnare fn '· Egitto, ' dei <<cooperatori» (così Si' chiaf!l(lvano le truppf! italiane P,assate dalla parte alleata), pratici dèll'Itali<J r/,ove i tedeschi stavano. '' le fortificazion,.i ;di quella ch à .in fu nota comC, « li.nea gqtièa » . Il :tapo di Stato ,'Maggiore ,della Cuneo, Ratt;, aveva .molto facilitato il, mio cqmpito. Eravamo diventati amici e 'avevamo deciso di trascorrere i[ Natale. , , ! ' , Era una tipica n(!tte d'inverno d'Oriente, fredda ·e piena di stelle. Nelle ·baracche degli inglesi, attorno a miseri alberelli di pino, si'cantava .e si rideva, mentre scorreva lJ. birra. ,Anche dall'attendamento italiano si ' cori. Ma erano canti sommessi, tris(i, esitanti . Pesava su quelle centinaia di soldati disorientati 'e lontani da casa l'incertezza del futuro 'e la vergogna sconfitt(l . · .' · · 1• ,, ·,, , :A,,l Ja un giro d'ispezione e di au.guri a qu,& i militari, Ratti appariva preoccupatq. Dubitava di poter mantenere la f disciplinO fra soldati non più 'a ,qna '$ala a'utorità. Privi ·•di ·notizie da !çasa; di ordini,'precisi e di speran;r.a, ,ondeggiavano fra 'l'obbedienza ai pochi ufficia# e h tentazione d'arrangiarsi ·:·come ·meglio poteva. •Questo maggiore, piccolo, nervoso che portava it cognome di un papa, era preoccupato anche per la sorte della cassa della Divisione che aveva salvato. Continuare a portarsi dietro quei soldi gli sembrava pericoloso; consegnarli agli inglesi non gli andava; dividerli fra gli ufficiali avrebbe creato sospetto e malcontento . Propose di darmeli, in cambio della promessa di consegnarli, appena possibile, alla-più vicina autorità consolare italiana. · 1 , ,

Ma di rappresentanze, ufficiali o ufficiose, italiane nella l :1

POSCRI'ITO 227

zona non ve n'erano; quel denaro non aveva corso legale in Egitto o in Palestina; se ne avessi denunciato i/ , possesso ai miei superiori mi sarebbe stato confiscato . Tenermelo, fino al giorno in cui avrei potuto consegnarlo, non mi pareva né onesto né prudente. Consigliai di bruciarlo, senza sapere che questo era anche l'ordine dato dal governo italiano alle truppe e alle Amministrazioni delle zone cadute in del nemico.

A !;{atti l'idea piacque. Assieme contammo i bigliettoni da mille, quelli piu scuri . da cento, quelli azzurrognoli da cinquanta; un rapporto con un lapis; lo firmammo . Poi, scavato un buco nella sabbia al centro della sua tenda, demmo fuoco al denaro e ci riscaldammo a quel calore . Avevo l'impressione di partecipare a un film di gangster, di quelli che accendevano sigari con biglietti di banca. Entrambi guardavamo affascinati quei pezzi di carta unta e colorata torcersi tra le fiamme, sprigionando spirali di fumo e scintille fra cui comparivano misteriose immagini in filigrana.

Trascorsero mesi. Quando ci incontrammo di nuovo a Roma, misi Ratti al corrente delle attività che - come la maggior parte dei militari ebrei palestinesi - conducevo a favore dei profughi israeliti che cercavano di arrivare clandestinamente in Palestina. Mi parlò di Guillet, che descrisse come il Lawrence d'Arabia italiano, mi disse che si occupava al SIM anche della questione palestinese e mi suggerì d'incontrar/o.

L 'appuntamento venne fissat(J a Napoli, all'ingresso del Comando del Corpo d'Armata, non lontano dall'imboccatura della strada che conduce alla Nunziatella, il collegio militare dove, se non ci fossero state le leggi razziali, mio padre avrebbe voluto farmi educare, in vista di un'eventuale carriera militare.

Era un giorno afoso. Davanti alla chiesa di San Francesco da Paola, in piazza Plebiscito, borsaneristi vendevano sigarette americane e calze di nylon. Da/lato opposto della piazza, lungo i terrazzi di Palazzo Reale, militari alleati sorbivano bibite, sdraiati su poltroncine, coi piedi appoggiati alle balaustre in ferro battuto. Dal basso, pareva un'esposizione surrealista

228 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

di suole. Sulla piazza, un cavallo iflcappuct ùitd da un copricapo di paglia infilato alle orecc'hie, scacciava con colpi lenti di coda le mosche fra le stanghe di un k;.ndau sgangherato, con il cocchiere che sonnecchiava in cassetia.

Il maggiore Guillet +l'Ùomo che.' mi' 9spettava vestito in borgkese1 sottb il portone d'entrata dél comando- era l'opposto del personaggio che mi ero immaginato. ·Smzlzo al punto di sembrare più piccok? del le spalle larghe, lei,germente protese in aiJatlti, i piedi infilati in un paio (li ·sarebbe P(lssato f/,appertutto inosseniatò se .non fosse per 'i suoi occhi! SemBravano assenti <! inve ' e ti fissavano, die'h:o pqlpebre leggermente La p-a scarna, abbrlJnzata. Un paio di baffetti tratti 'che avrebbero potuto essere arcigni. Ndtai che i capelli erano shuri era4i. A/Il' del/4 giacca solo i/ distit#ivo dei mu c ti/ati Non ·c'era nÙ/{a ,di mari.iale in fui e 'anco; menO' di aggressivo, ma ·di felino faceva alla ri(assata 'tensione di un gfJtto .in, riposo. , , ' , ; Poco distante; 4 una,, 1100 impolverata df color verde, c 'erq Ufl arabo , Era .un ,dscaro, #raqim .' Mi immobile, mentre stringevo ,(a mimo al suo '

POSCRI'ITO 229

MOTIVAZIONE DELLA MEDAGLIA D'ORO AL VALORMILITARE CONFERITA AL

TENENTE TOGNI

« Cavaliere eroico, più decorato al valore, comandante di un'ala di un g!1jppo di bande impegnate in azione ritardatrice contro un avversario soverchiante, con audace perizia caricava il nemico infliggendogli perdite e provocando disordine e scompiglio. Accortosi che ·una fo r mazione di carri armati avversari stava per aggirare il gruppo-bande , ne avvertiva il comandante informandolo 'che , per dargli il tempo di sventare la minaccia, avrebbe , attaccato a' qualunque costo il nemico . Manov'rò con fredda intelligenza finché messosi alia testa di parte dei suoi cavalieri caricava l' avversario con la certezza di andare incontro alia morte e con la coscienza che il suo sacrificio avrebbe salvato il gruppo. Piombato sui carri avversari li aggrediva con bombe a mano . Colpito prima al petto, ,poi alia fronte da raffiche di mitragliatrici, trovava la forza di lanciare ancora una bomba e si abbatteva morto con il proprio cavallo su un carro nemico. II nemico , colpito da tanto fulgido eroismo, rendeva alia salma gli onori militari. >>

230

AMEDEO GUILLET

MAGGIORE bi CAVALLERIA

CAVALIERE DELL'ORI!>INE MILITARE DI SAVOIA

« Combattente d'Africa e Spagna, ferito e mutilato di guerra, volte decorato al v.m . , nell'imminenza del conflitto con l'Inçostitui"a .e approntava A.O.I. il g""ppo bande a cavallo dell' Amhara forte di 1500 uomini, forgiandone un •completo e magnifico strumento di guerra . ·

Partecipaya ininte,rrottamente a ,tutto il ciclo ;9perativo dello ' scacchiere n!3rd , d.a Cassala a Tecle,san , è guidava con perizia e valore persdna1e il' proprio reparto ,in numerosi duri combattimenti corl tro il nemico prepçno;lçrante, imponendosi: avyers,ariot, , , · . 1 '

Dopo·la caduta di l}smara;. benché ammalato e feri t o• , col .reparto a 168 uomini si la strada le linee nemiche in un violento corpo a corpo e 'organizzava un'efficiente guetriglia sulle linee di rifornimento,dell'av'versario.

qgni possibilità di fa seg:no ·a un'accanita ricerca da parte dell'avVersario , 'riparava in paJ se neutrale dal quale attraverso peripezie e difficiltà di ogni genere riusciva a rimpatriare ·al solo scopo di chiedere mezzi per Ja,continuazione <Iella lotta. · . .. · : " ' ·i · " , · 1 ,

Magnifico esempio di combattente e . di trascinatore che al gtande val01;e personale e all'alta capacità professiohale unisce profonda fede nei destini della Patria >>. 1 • · '': 1 J\ ,0 . 1940; - 30 agosto 1943 . · '' ., · '

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DiscoRsq DI B,ENVENUT,O RIVOLto AD ,AMEDEO GUILLET IN, OCCASIONE DELLA FESTA ANNUALE DELLA IV DIVISIONE INDIANA

Ospite del geperale Savory, questa sera, è stato uno dei nostri ,v,ecchi n,eriljci1 dur'\Ilte la CaJ?gagnà Maggiore ·del Sav.oia Cavalleria, era al coll)ando di un Gruppo Bande (ami l;tara) di cavallefia indigena ,al forze italiane nell'inverno del1940 . Durante la ritirata delle tr4ppe italiane, iniziata nel gennaio 1941, fu orc;linato a lui e a) suo Gruppo di ope· rare sul settentrionìile cdel nostro asse ' di divisione nel tentativo di ra!lentarhe e di guadagn\lfe pre· zìoso perché due battaglioni italiani coidvolti generale riuséissero a conquistare una posizione a del nostro asse, sulle colline di fronte al vp!aggio di

I!;a Gazellç f.orce, un contingente CO!l\posto Cla 'çavàllena mo, torizzata , carri armati della SDF e un pattaglione di fanteria, condusse al comando Ilei ·nostro .defunto presidente, il c9lonnello Frank con slancio e vigore note· voli. 1120 gennajo al crepuscolo que,sta Forza ,aveva ser1Cato lF fi. ls sulle ·cdlline, di Cherù ç, ill)pos,sjbilitata a procedere oltre su)1' as,se, cercava la via c,he potesse rovesciare la posizione di forza degli italiani . Il giorno dopo, alle sette fie! mattino',. una parte della banda di Guillet fece irruzione dalla boscaglia sul lato nord dell'asse e con grande valore le linçe di fuoco di•Ciue truppe d,ç)39Q 0 battaglionj: del •144 ° , (eggip>ento and ,, Sussex ' Yeomanry), che si stavano preparando a un'azione di supporto alla Gazelle Force. carica fu un'azione di grande v'alore, che ricordava quella di Balaclava, con •i cavalieri eritrei che lanciavano il loro grido di guet ra, sparando, in pezzo alle loro piccole bombe a ,man,o, che esplodev,ano come a Balaclava; la carica si arrestò quando i ripresisi dall'iniziale sconcerto, rivolsero tutte le loro armi contro i ca-

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valieri. n giovane ufficiale che guidava la carica, il tenente T ogni, « perse >> letteralmente la testa a causa di un colpo di fucile e rimasero sul terreno morti e feriti tra cavalieri e cavalli, che si erano trovati troppo vicini al fuoco dell'artiglieria. È opportuno che 1 fu insignito della Medaglia d'Oro alla memoria per quest aziOne valorosa.

n maggiore Guillet, non ancora soddisfatto della confusione causata dal suo attacco, poco dopo mosse alla carica per la seconda volta, con i superstiti della banda, qu·esta volta contro il fuoco di un battaglione del 25° reggimento, schierato dietro al fuoco del 390° battaglione. Questa volta l'effetto sorpresa non gli riuscl, e i suoi valorosi cavalieri furono respinti dagli artiglieri e dalle mitragliatrici dei carri armati della SDF, mentre gli altri si ritiravano disordinatamente .

n maggiore Guillet, con quello che restava della sua banda (ormai appiedata) partecipò, alla fine !iel mese, a una tenace battaglia ai piedi del monte Cochen, un altopiano che dominava il campo di battaglia di Agordat. I due battaglioni indiani che lo attaccavano erano 'condotti dal brigadiere Savory, allora ancora sconosciuto a Guillet, che aveva comandato anche la Divisional Advance Guard a Cherù. Il maggiore Guillet partecipò anche al lungo ed estenuante combattimento che precedette la caduta di Cheren.

Dopo la resa dell'esercito italiano in Eritrea, Guillet si nascose sulle colline, raccolse una seconda banda e con questa bersagliò le forze di occupazione 'britanniche nell'ex colonia italiana con contiimi attacchi che ebbero un certo successo. Comandante in capo dell'Asmara, con il suo ' Generale, era all'epoca il maggiore generale Savory. . '

Alla fine Guillet ruiscì a fuggire dall'Eritrea travestito da arabo, attraversò il Mar Rosso e sì rifugiò nello Yemen, accolto benevolmente dall'imam. Nel 1943 fu<< rimpatriato», e si trovò a Roma al tempo dell'armistizio, a seguito del quale attraversò la linee tedesche e inglesi per raggiungere il suo re a Brindisi. Terminò la guerra mondiale come ufficiale di collegamento tra I' esercito italiano e l'Ottava Armata.

Questa breve nota può soltanto accennare a quella che fu la carriera militare in guena dell'ambasciatore Guillet; egli ricorda la campagna come una guerra caratterizzata dallo spi-

234 LA GUERRA PRIVATA DEL TENENTE GUILLET

rito nobile dei soldati nell'adempimento del loro dovere , da en· trambe le parti . Come ho avuto occasionç di ripetere anche in precedenza, la campagna in: ,Etiopia: fu un n;10dello di arte milic tare, di destrezza e valore sia rdei soldati , sia dei loro comandanti. l

L'ambasciatore Guillet è un cavaliere degno di nota e, nella s4a veste ambasciatore it'1lian&a New Dehli, è stato recente· mente invitato a orgahizzare degli incontri di polo in occasione della visita del principe Carlo·e dello zio, il conte Mountbatten di Birmania. ,

Sl amo pr9fonaamente onora ii di ilcvere fra, noi un ospite di cosl grande riguardo. '

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