SAGISTICA POLICO-CIVILE DI GIANI STUPARICH

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«L’incancellabile diritto ad essere quello che siamo» La saggistica politico-civile di Giani Stuparich Fulvio Senardi

EUT EDIZIONI UNIVERSITÀ DI TRIESTE



Sommario

7 Capitolo I Percorsi e occasioni di Stuparich scrittore 47 Capitolo II Il giovane Stuparich fra mazzininianesimo e socialismo 77 Capitolo III A Firenze nell’orbita della «Voce» 125 Capitolo IV Gli anni difficili: il ritorno del reduce 155 Capitolo V Prima del silenzio: giornalista politico e paladino della Cecoslovacchia di Masaryk 203 Capitolo VI Nella notte della ragione: gli anni del regime

229 Capitolo VII Verso la libertà, nella speranza di una pace giusta 265 Capitolo VIII Stuparich voce della «città esclusa» 297 Indice



Capitolo I Percorsi e occasioni di Stuparich scrittore

Curioso destino quello di Giani Stuparich (1891-1961): nonostante Pietro Pancrazi abbia riconosciuto proprio in lui la fisionomia più tipica dello scrittore triestino, tanto da farne, nel segno di un insistente e fecondo «assillo morale»,1 il parametro di quella specifica maniera di sensibilità e di stile che, nel quadro dell’articolata “geografia” della letteratura italiana, potremmo anche chiamare, appoggiandoci al magistero magrisiano, “mittel-europea”, mai come in questi anni sembra scemato l’interesse per la sua narrativa. Di conseguenza le sue opere sono diventate quasi irreperibili, se non fosse per qualche editore minore («Il ramo d’oro» di Trieste in primo luogo) che si è azzardato a tentare la sorte, mosso indubbiamente da istanze culturali più che mercantili (con un certo successo, però, almeno nel caso di Trieste nei miei ricordi2). L’inattesa ripubblicazione presso Garzanti del suo romanzo più noto, Ritorneranno (l’epos della prima guerra mondiale nella prospettiva dei volontari giuliani), sullo sprone di una contingenza internazionale più unica che rara (averlo

1 Così Pancrazi, in Giani Stuparich triestino, in Id. Scrittori d’oggi, serie II, Gius. Laterza e figli, Bari 1946, p. 104, un saggio che riprendendo, con un breve bilancio in prefazione, pagine di critica stupariciana del 1929, 1930, 1931 (a proposito dei Racconti, Guerra del ’15, Donne nella vita di Stefano Premuda) allarga l’obiettivo su un’intera famiglia di scrittori giuliani comprendente Michelstaedter, Slataper, Saba, Giotti, Svevo, Cantoni, Carlo e Giani Stuparich. 2 G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi (1948), Il ramo d’oro, Trieste, 2004.

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inserito nel novero dei libri previsti nel 2009 e nel 2010 per l’accesso, in Francia, all’insegnamento dell’italiano nella secondaria superiore) ha preceduto la più prevedibile ricomparsa del capolavoro narrativo, Guerra del ’15,3 nel contesto delle celebrazioni del centenario della Grande guerra; mentre ad aggiornare la prospettiva critica è giunto, nel 2011, il grande convegno triestino voluto da Cristina Benussi e da Giorgio Baroni, un simposio, per la verità, piuttosto di ricapitolazione che foriero di nuovi inizi, nonostante il poderoso spiegamento di forze. 4 Non troppo diverso nella sostanza il caso dello Stuparich saggista politicocivile, almeno per quanto riguarda l’ampio corpus di testi: attendono ancora di essere raccolti in volume tanto i saggi vociani che i contributi che lo scrittore allora reattivo osservatore della realtà del suo tempo volle pubblicare sulla «Rivista di Milano» negli anni più roventi del primo dopoguerra mentre dal lontano 1915 non ha più visto la luce la prima redazione della Nazione czeca (tutt’altra cosa che la successiva riscrittura, apparsa nel 1922 per i tipi di Ricciardi). A fare un po’ di chiarezza, per merito di André Thoraval, una Bibliografia degli scritti di Giani Stuparich (Edizioni Alcione, Trieste, 1995), basata essenzialmente, come ha spiegato il compilatore, sul «Catalogo Anita Pittoni», nato dallo sforzo congiunto di Giani Stuparich e della compagna di vita dei suoi ultimi anni, minuzioso censimento dell'operosità dello scrittore, compresi gli interventi sul terreno civile. Eppure nel secondo Novecento, una stagione di acuita sensibilità per i temi dell’ideologia e della politica, si è guardato con particolare interesse allo Stuparich “impegnato”; e in special modo nel quadro di interpretazioni che considerano la valutazione della posizione storica e della visione del mondo come pregiudiziali alla comprensione dell’uomo e della poetica. Una categoria in cui cadono tutte le indagini che si sono volte a Stuparich con il respiro della monografia: il Giani Stuparich di Renato Bertacchini (La Nuova Italia, Firenze 1968), opera per più aspetti inaugurale, atto di indirizzo di un nuovo approccio che privilegia l’uomo sullo scrittore (o che li interpreta in strettissima dialettica) con l’obiettivo di una sintesi tra presenza storica e mestiere letterario; Il ritorno di Giani Stuparich (Vallecchi, Firenze 1988) scaturito dalla penna di Elio Apih, uno dei migliori storici triestini (ricerca settoriale, per i limiti cronologici che si è data, ma tanto ricca di spunti da valere come ripensamento generale); il Giani Stuparich di Roberto Damiani (Edizioni «Italo Svevo», Trieste 1992), il libro più ricco di annotazioni polemiche nei confronti di un’attività intellettuale che sembra a tratti sfiorare la categoria della «servitù volontaria»5 (come ha voluto definire Mirella Serri, appoggiandosi allo storico Carlo Morandi, la posizione

3 Stuparich, Guerra del ’15, a cura di G. Sandrini, Quodlibet, Macerata, 2015. 4 G. Baroni e C. Benussi, a cura di, Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, Biblioteca della «Rivista di letteratura italiana», Serra editore, Pisa-Roma, 2012. 5 M. Serri, I redenti, Corbaccio, Milano 2005, p. 17. Ricerca che, relativamente al tema del percorso dell’intelligenza italiana dal fascismo all’antifascismo (in chiave di camaleontismo, conversione, rinascita) stabilisce il punto odierno della riflessione storiografica.

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ideologico-morale di tanti intellettuali del Ventennio, nella sua esemplare rassegna di uomini e percorsi negli anni del fascismo); infine il mio Giovane Stuparich - Trieste, Firenze, Praga, le trincee del Carso (Il ramo d’oro editore, Trieste 2007), che chiude la carrellata delle riflessioni più impegnative. Ma non basta: è storia recente la valorizzazione dello Stuparich saggista “civile” da parte di quegli ambienti giuliani che nel mondo post-ideologico del III millennio sentono il bisogno di riallacciarsi ad una tradizione liberal-socialista e democratica mai troppo quotata in una città, Trieste, dalla doppia e costrittiva polarizzazione: destra-sinistra e mondo italiano-mondo slavo. Ne è nata una miscellanea6 che uno dei curatori, Patrick Karlsen ha ampliato in un volume dedicato, appunto, allo Stuparich dell’impegno civile negli anni caldissimi della “questione di Trieste”, arricchendo la parte antologica di una prefazione breve ma densa di stimoli. 7 Era allora che la città giuliana riscopriva quel proverbiale “romanticismo” intriso di amor di patria che, in una stagione di riaccesa conflittualità civile, la rendeva eccessiva e feroce, nel bene e nel male dei suoi entusiasmi e delle sue intolleranze, col rischio di farle di nuovo «smarri[re] la realtà e perde[re] la storia»,8 come scrive, con parole di miele e di fiele, uno dei suoi figli presto esuli. È tuttavia opportuno, prima di proseguire, insistere ancora su questo “romanticismo”, che spiega tante cose di Stuparich e della sua visione del mondo, costituendo, come si vedrà, il nucleo profondo della sua personalità di uomo e di scrittore, nella curvatura patriottica che assume e mantiene, come un filo rosso che mai sbiadisce nel lungo percorso dell’impegno civile, tanto da determinare una particolare collocazione etico-ideologica (oltre che incidere nella più intima sfera affettiva) che è stata giustamente definita di «umanesimo risorgimentale». 9 Romanticismo dunque: una caratterizzazione che ha finito spesso per contagiare anche molti di coloro che hanno interpretato l’uomo e l’opera sullo stimolo, si direbbe, di una consentaneità tutta vissuta sul piano dell’emozione e del sentimento, e nella quale i triestini soprattutto hanno voluto riconoscere l’aspetto dominante e specifico della propria posizione spirituale, intesa come estrema eredità della

6 Cfr. S. Spadaro e P. Karlsen, La cultura civile della Venezia Giulia 1905-2205 – Voci di intellettuali giuliani al Paese, LEG, Gorizia, 2008. 7 Karlsen, a cura di, Un porto tra mille e mille. Scritti politici e civili di Giani Stuparich nel secondo dopoguerra, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2012. Più ampiamente, sul volume di Karlsen, F. Senardi, Protagonista del dibattito civile - La saggistica di Stuparich negli anni della “questione di Trieste”, «Artecultura», Trieste, Giugno 2013. 8 R. Rosso, La dura spina (1963), postfazione di A. M. Mutterle, ISBM edizioni, Milano, 2010, p. 305. Per una interpretazione del libro in relazione alla condizione storica della Trieste del secondo dopoguerra, rimando a Senardi, Una corona di dure spine intorno al cuore di Trieste, in M. Menato, a cura di, L’osservatore giuliano, Istituto giuliano di storia cultura e documentazione, Trieste, 2012. 9 La formula, proposta da V. Frosini (La famiglia Stuparich, Del Bianco, Udine, 1991, p. 73), circoscrive perfettamente a mio avviso la posizione spirituale di Stuparich, caratterizzata dall’ancoraggio nel “lungo Ottocento” delle sue idealità etico-politiche.

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tradizione risorgimentale.10 Interpretazione certo suggestiva, ma rispetto alle quale c’è la motivata necessità di ritrovare equilibrio e rigore metodologico, senza esitare a sondare l’Immaginario per individuare il filo esplicativo che collega l’uomo al contesto storico, il mondo ideale, sentimentale, morale, e perché no, le illusioni del singolo a quell’intreccio di forze e successione di eventi che chiamiamo storia. Affermava, immerso nelle roventi giornate di Fiume, una comparsa del Caso di Fabio (Trieste, 1933), romanzo di Federico Pagnacco (scrittore che ebbe una certa rilevanza, e tutta negativa, nella vicenda di Stuparich):11 In fondo noi siamo dei sopravvissuti. Siamo nati con cinquanta anni di ritardo, fragili virgulti di un romanticismo che tramontava sul nuovo mondo pregno di materialismo. Ed ora la settimana è finita e siamo in piena domenica. La nostra piccola epopea s’è chiusa. […] La materialità dell’esistenza quotidiana, le piccole necessità della vita, ci schiacceranno sotto il loro peso.12

Un romanticismo al tramonto, dunque, insidiato dal materialismo di un’epoca povera di ideali; sentimento di opposizione e di consolazione, senza rivolta ma con un certo compiacimento malinconico. Incarnazione esemplare, forse anche sullo spunto di Pancrazi, 13 del luogo comune che, come si è detto, accompagna, influenzandola, la consapevolezza di sé dei più grandi scrittori triestini (e degli studiosi che, con più assiduità e sintonia, ne hanno accompagnato il cammino, 10 Si tratta per la verità di un’illusione ottica, giustificata dal fatto che l’amor di patria, facile da professare entro i confini del Regno sabaudo, acquistava un risvolto di pericoloso azzardo per gli “irredenti”, e confermata in apparenza dal numero altissimo di volontari (un quinto circa di tutti volontari italiani della Grande guerra) che, nei mesi precedenti il maggio 1915, sciamarono in Italia dalla Venezia Giulia, da Fiume, dalla Dalmazia per servire sotto il tricolore. In realtà, se consideriamo, come giustamente suggerisce E. Papadia (Di padre in figlio. La generazione del 1915, il Mulino, Bologna, 2013), che la “generazione del 1915” venne integralmente contraddistinta da una passione patriottica altrettanto accesa di quella “irredentista”e che fu probabilmente diffusissimo il «volontarismo soggettivo» fra i giovani del Regno di appartenenza borghese (qui Papadia segue Isnenghi, cfr. p. 9, nota 5), il “romanticismo patriottico” triestino acquista più giuste proporzioni e non appare più, come ancora all’irredento Sestan nel 1929, l’unica forza spirituale di grande significato ideale e nazionale dei primi decenni del secolo - cfr. G. Turi, che ne ha curato le memorie (Memorie di un uomo senza qualità, 1997), Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 222. 11 A Pagnacco si deve infatti, sulla rivista triestina «La Porta orientale» dell’aprile-maggio 1942, una velenosa recensione a Ritorneranno che veniva giudicato libro disfattista e, nella sostanza, antifascista, in polemica con quanto aveva scritto Silvio Benco sul «Piccolo» e, con entusiastica approvazione, sulla stessa «Porta orientale» (agosto-ottobre 1941), Lina Gasparini, per limitarci ai recensori locali. 12 F. Pagnacco, Il caso di Fabio, Soc. ed. mutilati e combattenti, Trieste 1933, p. 163. 13 Pancrazi, cit., particolarmente a p. 104: «questi scrittori di lingua, di cultura e spesso di sangue misto, sono intenti a scoprirsi, a definirsi, a cercare il proprio punto fermo; ma quasi con il presupposto di non trovarlo, come chi faccia della ricerca non il mezzo, ma addirittura il fine del suo cercare. E questi scrittori sempre in fieri, inventori di “problemi” e romantici a vita, hanno pure avuto e continuano ad avere il loro compito in una letteratura come la nostra che spesso s’adagia volentieri in schemi chiusi, e scambia la rettorica per classicismo e l’inerzia per nobiltà».

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un Bruno Maier per esempio), diventando, ben oltre la retorica, mito umano e sogno letterario assunti, con disarmante sincerità e (spesso) con acritica adesione, come un genuino paradigma identitario. Puntuale come un rintocco d’orologio ritornerà l’accenno al “felice” ritardo della città adriatica nella Storia e cronistoria del Canzoniere di Umberto Saba,14 e perfettamente sintonico, anche per cronologia, il riferimento ad un romanticismo di passioni vissute fino in fondo (insofferente tanto di opportunismi e convenienze quanto di cavilli intellettuali) in un pulviscolo di accenni e riflessioni disseminati per tutto l’arco di scrittura di Giani Stuparich, ma che trova in Trieste nei miei ricordi la sua formulazione più ampia ed esplicita.15 Il nostro non era né affievolito né superficiale romanticismo, se dentro di noi Mazzini e De Sanctis poterono rivivere con tanta foga e intensità, quando sembravano ormai echi perduti nell’anima della nazione. Oggi, dopo due guerre, dopo tutti gli sconvolgimenti che hanno aperto un abisso tra il mondo d’allora e quello d’adesso, io penso che fummo noi triestini gli ultimi degli italiani a raccogliere senza titubanza l’eredità spirituale del Risorgimento; e penso che se quest’abisso potrà essere col tempo colmato (la storia è senza soluzioni di continuità), lo spirito italiano nel farsi europeo dovrà passare ancora una volta per di qua.16

Approfondire la fenomenologia di tale “romanticismo” equivale inevitabilmente a sondare il tema della “religione della patria”, condizione spirituale assai diffusa fra i triestini di lingua italiana a mano a mano che l’irredentismo nasce, cresce e si diffonde in una città sempre meno nazionalmente agnostica e incrollabilmente fedele ai suoi augusti patroni asburgici, sempre meno la «cosmopolita furba»17 che era stata, secondo il giudizio di Slataper, nel primo secolo della sua irresistibile crescita economica. Una parabola che comincia, con inizi esitanti e timidi, a partire dalla istituzione del porto franco (risalente, nella sua forma più compiuta, all’anno 1769), quando venne stilato il vero e proprio atto di nascita della Trieste moderna. Irredentismo si è detto, il nodo più rilevante della storia recente della città asburgica. Da intendere in senso ampio ed elastico (al di là cioè dell’ossessione separatista di pochi e irriducibili estremisti) come un pervasivo dato d’ambiente, 14 «Dal punto di vista della cultura, nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel 1850. […] Quando il poeta era ancora giovanissimo […] la città di Saba era ancora, per quel poco che aveva di vita culturale, ai tempi del Risorgimento: una città romantica». U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id. Tutte le prose, a cura di A. Stara, saggio introduttivo di M. Lavagetto, Mondadori, Milano, 2001, p. 115. 15 Ma già nell’anteguerra il tema del “romanticismo” triestino trova spazio nelle pagine di Stuparich: «il sogno di Slataper e di me», scrive al fratello Carlo nel dicembre 1913, «è di portare il centro della nuova generazione dalla Toscana, da Napoli a Trieste. Trieste è vergine, noi che siamo romantici per eccellenza dar la classicità alla nazione!». In Archivio diplomatico della Biblioteca civica A. Hortis di Trieste, Fondo Stuparich, d’ora in avanti AD-TS. 16 G. Stuparich, Trieste nei mie ricordi, cit., pp. 37-38. 17 S. Slataper, Scritti politici, a cura di Stuparich, Mondadori, Milano 1954, p. 15. La pagina risale al 1910 ed è tratta dai saggi slataperiani pubblicati sulla «Voce» sul tema dell’irredentismo.

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una “luce” particolare che illumina la città di lingua italiana (una soltanto, per altro, delle tre – Trieste, Trst, Triest18 – che si confrontano, intrecciano, sfidano, combattono, negli anni del lungo crepuscolo dell’Impero d’Austria) determinandone, a partire dal secondo Ottocento, il clima psicologico, morale, politico.19 Il tema è importante ed è opportuno iniziare ad affrontarlo, pena l’impossibilità di comprendere tanto la particolare angolatura della prima saggistica di Stuparich (nella sua stretta contiguità alle teorizzazioni slataperiane dell’«irredentismo culturale», ovvero un irredentismo, spiegava Slataper, nel senso dei socialisti e della «Voce», che «nega […] l’importanza dei confini politici»20), quanto, come si è premesso, quel peculiare accento di sensibilità che caratterizzerà lo scrittore per tutta la vita. Introdurlo ci consentirà di garantire a quel “romanticismo” cui abbiamo accennato, così importante per la coscienza di sé degli scrittori giuliani del tramonto asburgico, e così sfuggente quando si viene al nocciolo della questione, contenuti storicamente più concreti. Occorre partire da Ernesto Sestan, il grande storico trentino che, in pagine di magistrale equilibrio, ha cercato di interpretare la natura della «crescente inquietudine, […] irritabilità […] ipertensione quasi patologiche del sentimento nazionale che […] diviene l’atmosfera quotidiana quasi ossessionante nella quale vive l’italiano [del Litorale austriaco e di Trieste in special modo, NdA] e alla quale son ricondotti come a un motivo unico, tutti i giudizi di valore, ogni misura di merito». 21 Elegante maniera per raccontare, nel particolare contesto triestino tra fine Ottocento e inizi Novecento (quando cioè lotta di classe e conflitto nazionale stringevano nodi complessi di alleanza e/o antagonismo), l’ardore patriottico di una parte della cittadinanza italiana, in particolare le fasce di un crescente e irrequieto ceto medio22 quanto mai variegato e sfrangiato verso il basso: una passione vissuta 18 Particolarmente attento a questa “trinità” di osmosi e antagonismo è J. Morissey, F. M. Rinner, C. Strafner, a cura di, Trieste Trst Triest, Edition Umbruch, Mödling - Wien, 1992. 19 Interessante citare quanto scriveva Mario Alberti, testa pensante del partito liberal-nazionale di Trieste, settario sì (per quanto, alla fine degli anni Trenta, è ancora ostile a Scipio Slataper, ampiamente “sdoganato” invece anche in ambienti nazionalistici) ma non miope, sulla funzione condizionante del microcosmo triestino, spiegando che il “deviante” patriottismo slataperiano era dovuto al «dramma di un immaturo contatto con un mondo troppo lontano dall’ambiente donde egli era uscito» (L’irredentismo senza romanticismi, Cavalleri, Como, 1936, p. 72). Lì avrebbe dovuto maturare, lì saturarsi di “sano” amor di patria. 20 Cfr. Slataper, Scritti politici, cit., p. 103. 21 E. Sestan, Venezia Giulia - Lineamenti di una storia etnica e culturale (1947), Del Bianco, Udine, 1997, p. 102. A proposito di Sestan utile il profilo che ne traccia Turi, in Lo Stato educatore, cit. 22 Così Gaetano Salvemini: «nella borghesia triestina, accanto al ceto commerciante e capitalistico vero e proprio, che è tratto dai suoi interessi a guardare verso l’Austria, si muove e spasima la borghesia e la piccola borghesia intellettuale, che riceve la lingua, la coltura, la luce del pensiero, tutto dall’Italia. Staccati politicamente da noi e uniti a uno Stato multilingue, in cui essi non saranno mai altro che una minoranza appena apprezzabile e non hanno nessun avvenire, gli intellettuali italiani dei paesi soggetti all’Austria saranno sempre nemici dell’Austria ed aspireranno sempre a riunirsi all’Italia», in Irredentismo, questione balcanica e

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con aggressivo fervore e mantenuta al calor bianco dai riti e dai miti diffusi e filtrati da una fittissima rete associazionistica e da giornali increspati di fremiti patriottici («L’Indipendente» e «Il Piccolo» in primo luogo). Tralasciando ogni tentativo, di “quantificare”, e prima ancora di “qualificare” in senso ideologico-politico i pianeti e i pianetini della galassia irredentista23 (problema di non poco conto, ad ogni modo), bisognerà sottolineare invece il dato fondamentale che sul Litorale austriaco (la Venezia Giulia per gli italiani) era sbocciata una inconfondibile temperie, definibile, senza azzardo, di «sacralizzazione della politica», secondo una formula

internazionalismo-Risposta al dott. Angelo Vivante, «Critica sociale», genn-febbraio 1909, ora in Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti 1900-1915, a cura di A. Torre, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 67. Un durissimo atto d’accusa rivolto contro «la piccola borghesia umanistica» la cui mentalità «si riassume in una sola parola: retorica» (pp. 22-23), stilato in un momento cruciale della storia italiana, si legge in L. Salvatorelli, Nazionalfascismo, Gobetti ed., Torino, 1923. 23 Per quanto riguarda l’irredentismo va premesso che ai fini di una corretta messa a punto storiografica è in gran parte inutilizzabile, per lo smaccato spirito apologetico, la memorialistica di matrice irredentista e nazionalista (ma non, per esempio, Diego De Castro, Memorie di un novantenne – Trieste e l’Istria, MGS Press, Trieste 1999): il suo orizzonte argomentativo emerge chiaramente dalla voce “irredentismo” firmata da A. Tamaro sull’Enciclopedia Italiana, che sintetizza un resistente impianto ideologico ad alto tasso di slavofobia (ma da tener presente, in Tamaro anche l’accenno all’«ostilità» anti-irredentista «del gruppo della ‘Voce’ e dei salveminiani»). Utili per la mole di informazioni e documenti, i tre volumi di A. Sandonà, L’irredentismo nelle lotte politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache, Zanichelli, Bologna, 1931-38, e i due fascicoli della «Voce», curati da Slataper, dove il triestino tenta una classificazione dei vari “irredentismi” approfondendone i postulati teorici e la prassi politica. Ancora in prospettiva generale, da vedere, oltre alle panoramiche di A. Millo (Un porto fra centro e periferia (1861-1918), in Storia d’Italia – Le regioni dall’Unità ad oggi, Il Friuli-Venezia Giulia, a cura di Finzi, Magris, Miccoli, Einaudi, Torino 2002. Vol. I) e M. Cattaruzza (Il primato dell’economia: l’egemonia politica del ceto mercantile,1814-1860, in Finzi, Magris, Miccoli, a cura di, cit.), il saggio di C. Schiffrer, Le origini dell’irredentismo triestino (1813-1860), Del Bianco, Udine, 1978 e i contributi di G. Sabbatucci, Il problema dell’irredentismo e le origini del movimento nazionalista in Italia, in «Storia Contemporanea» n°3, 1970 (parte prima) e n° 1, 1971 (parte seconda). Una buona sintesi bibliografica offre M. Garbari, La storiografia sull’irredentismo apparsa in Italia dalla fine della prima guerra mondiale ai giorni nostri, in «Studi trentini di scienze storiche», 1979, n° 2. Per l’irredentismo e la Lega nazionale vedi D. Redivo, Le trincee della nazione: cultura e politica della Lega nazionale (1891-2004), Ediz. degli ignoranti saggi, Trieste s.d. (ma 2004), cui si deve anche, pertinente al tema, Lo sviluppo della coscienza nazionale nella Venezia Giulia, Del Bianco editore, Udine, 2012. Per l’irredentismo come “religione della patria” cfr. E. Maserati, Simbolismo e rituale nell’irredentismo adriatico, in F. Salimbeni, a cura di, Miscellanea du studi giuliani in onore di G. Cervani, Del Bianco, Udine 1990 e Id., Riti e simboli dell’irredentismo, in «Quaderni Giuliani di Storia», XV, 1, 1994 (ma significativo l’intero fascicolo della rivista). Per l’irredentismo in prospettiva ideologico-culturale si veda E. Capuzzo, L’irredentismo nella cultura italiana del primo Novecento, in «Clio», 2002, n° 1 e A. Brambilla, Parole come bandiere. Prime ricerche su letteratura e irredentismo, cit. Peraltro, a conferma del giudizio dell’economista Mario Alberti (1884-1939), che non fu certo estraneo al movimento, e che ha valutato in non più del 2% della popolazione la percentuale degli irredentisti impegnati ed attivi nell’ultima fase della Trieste asburgica («gli irredentisti consapevoli saranno stati, in media, il due per cento della popolazione», Alberti, cit, p. 32), da vedere il “case study” proposto da chi scrive, Una giornata speciale: Trieste, 4 luglio 1907 (in Senardi, a cura di, Riflessi garibaldini - Il mito di Garibaldi nell’Europa asburgica, Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione-Università degli studi di Pécs, Trieste, 2009), utile cartina di tornasole, nell’anno del suffragio universale maschile in Cisleithania, per verificare logiche di schieramento e disponibilità “sovversiva”.

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che appartiene ad Emilio Gentile (ma che è stato George Mosse ad introdurre nel dibattito storiografico24), cui va lasciata la parola (ma, ben prima di lui, già Mazzini: «se la patria non è per noi una religione, io non intendo che sia»25): [la] sacralizzazione della politica […] si manifesta nell’epoca della modernità e si verifica quando la dimensione politica, dopo aver conquistato la sua autonomia istituzionale nei confronti della religione tradizionale, acquista una propria dimensione religiosa, nel senso che assume un proprio carattere di sacralità, fino a rivendicare per sé la prerogativa di definire il significato e il fine dell’esistenza umana, quanto meno su questa terra, per l’individuo e la collettività.26

Non c’è da stupirsene: a Trieste infatti, ben più che in ogni altra città di lingua italiana, aveva modo di esprimersi, nel weberiano mondo “disincantato”, il peculiare fenomeno moderno della «disseminazione del sacro», 27 per adottare una formula di Giovanni Filoramo: “sacro” che, correndo sotto traccia, si allarga e si ramifica, invadendo campi tradizionalmente non suoi, fin dentro gli interstizi della società secolarizzata; «una delle modalità possibili», spiega Filoramo «per dare ordine e coerenza» (e, aggiungerei, valore assoluto e indiscutibile, proprio come per i dogmi religiosi) «ai significati socialmente condivisi». 28 «Reinvestimento complessivo» che affonda le radici nell’oscuro di sentimenti ed emozioni, strettamente parallelo al «declino delle religioni istituzionali» (e qui spicca nuovamente emblematica la Trieste italiana di allora29), capace di mettere in opera una «macchina sacralizzante»30 che canalizza quei bisogni spirituali ai quali la società laica e materialista non era in grado di dare risposte 24 George Mosse: «nella stretta di un intenso processo di industrializzazione e di urbanizzazione […] la nazione si impadroniva del passato, dei miti e dei simboli pre-industriali […] il “sacro” si fondeva con il concetto di nazione», cfr. L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste (I ed. 1980, I ed. italiana 1982), Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 4, 5, passim. 25 G. Mazzini, Ai giovani - Ricordi (1848), in Idem, Scritti politici, a cura di F. Della Peruta, Einaudi Torino 1976 (II ed.), vol. II, p. 325 26 E. Gentile, Le religioni della politica – Fra democrazie e totalitarismi (I ed 2001) Laterza, Bari 2007, pp. XVII-XVIII. Gentile aveva anticipato il discorso, relativamente all’Italia fascista, nello stimolante Il culto del littorio (I ed. Laterza 1993) che permette di capire assai bene come i triestini, avezzi a vivere la passione patriottica come fede manifestata, mobilitazione collettiva, coreografia processionale, si adattassero poi senza scosse alle liturgie del littorio, amministrate dalla patria fascista. 27 G. Filoramo, Che cos’è la religione – Temi, metodi, problemi, Einaudi, Torino 2004, p. 110. 28 Ivi, cit. p. 110. 29 «Italianità morale, italianità di elezione e perciò impetuosa e intransigente», appare l’irredentismo a Gioacchino Volpe, intelligente voce di regime, ideale «che teneva il posto della fede religiosa, quasi assente dalla vita triestina», in L’Italia in cammino (1927), Laterza, Bari, 1991, p. 110. Utili per mettere a fuoco la complessa personalità dello storico gli approfondimenti di G. Belardelli, fra i quali, riassuntivo, Il Fascismo di un grande intellettuale del regime: Gioacchino Volpe, in Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 2005. 30 Filoramo, cit., pp. 333, 334 passim.

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soddisfacenti, fagocita istanze intime della religione, si appropria del suo lessico (fede, testimonianza, sacrificio, martirio, eresia, sacrilegio, ecc.), ne mutua la cerimonialità (celebrazioni pubbliche delle festività e degli eroi della patria, consacrazione di monumenti, culto dei martiri31): insomma, una «religione secolare», dove l’italianità giuliana interpreta e anticipa rispetto alla nazione madre «una delle manifestazioni più rilevanti della modernità europea». 32 Prende così forma una specifica sensibilità che pervade l’intero orizzonte sociale e a cui lo stesso Giani Stuparich, con gli strumenti della letteratura, darà un’importante contributo nel primo dopoguerra. E basterà pensare, per averne conferma, all’imponente “cenotafio” letterario eretto alla memoria di Scipio, amico e guida degli anni fiorentini, raccogliendo e curando dal 1920 agli anni Cinquanta tutti i suoi scritti. 33 Ma c’è di più: come ha notato Cristiana Colummi lo sviluppo dell’associazionismo, così intenso nel corso dell’800, può essere interpretato anche come risposta ad una mancanza di identità e di radici culturali che la formazione di grandi nuclei urbani, connessi allo sviluppo dell’industrializzazione e ad intensi processi migratori, comporta.34

Così, in una delle più emblematiche “città-fungo” dell’Impero35 (140.000 abitanti ca. nel 1880 e 235.000 ca. nel 1910, di cui meno del 60% nati a Trieste), dove sradicamento, isolamento e struggle-for-life rappresentavano i risvolti inevitabili di un destino comune (lo ha mostrato benissimo Svevo modellando Alfonso Nitti, il suo personaggio di più marcata impronta sociologica), è sull’associazionismo come forma vicaria di Gemeinschaft che l’élite politicoculturale affida il compito di riallacciare legami infranti, orientandolo però in senso rigorosamente “nazionale”: facendo cioè «diventare le tematiche nazionali

31 Su questi temi si dovrà vedere, oltre ai citati Maserati, Simbolismo e rituale nell’irredentismo adriatico e Riti e simboli dell’irredentismo, e Brambilla, Parole come bandiere, F. Todero, Le metamorfosi della memoria – La Grande Guerra tra modernità e tradizione, Del Bianco, Udine, 2002. 32 M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, il Mulino, Bologna, 2007, p. 56. 33 Sui limiti di queste edizioni slatapariane, alla luce delle attuali procedure filologiche, cfr. M. Rusi, Problemi testuali per una moderna edizione degli «Scritti letterari e critici» di Scipio Slataper, in «Otto/Novecento», sett.-ott. 1988. 34 C. Colummi, Ideologia, cultura e consenso nella Trieste del secondo Ottocento: un sondaggio nell’ambito associazionistico, «Qualestoria», N.S., anno IX, n° 3, ottobre 1981, p. 17. 35 Si vedano, a questo proposito, i saggi contenuti in A. Moritsch, Alpen-Adria Städte, Hermagoras/Mohorieva založba, Klagenfurt-Ljubljana-Wien, 1997, con interessanti contributi su Trieste in relazione alla sua crescita urbana ed ai conflitti etnici di cui è stata teatro. Per un esauriente quadro d’insieme dei problemi e delle dinamiche economiche, finanziarie, sociali, e demografiche relative a Trieste da tenere presente: R. Finzi e G. Panjek, a cura di, Storia economica e sociale di Trieste, Vol. I, La città dei gruppi - 1719-1918, LINT, Trieste 2001 e vol. II, La città dei traffici - 1719-1918, LINT, Trieste, 2003

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elemento fondamentale, direi quasi necessario, della vita quotidiana»36 di masse cittadine esposte a frequenti «esperienz[e]a comunitari[e] esaltant[i]», 37 caratterizzate dalla capacità di provocare «stati emotivi d’alta intensità». 38 E si ritorna così alle formulazioni di Sestan e alle osservazioni di Gentile e di Filoramo da cui abbiamo preso avvio: grazie all’«Ecclesia secolare del Leviathan»39 la folla (sempre più) solitaria di una società ormai irreversibilmente improntata da un pervasivo capitalismo finanziario ed industriale si trasforma in una compatta e facilmente mobilitabile comunità di credenti. All’interno di una «sub-cultura diffusa», e qui siamo agli italiani d’Austria, che rappresenta, nei partiti di più forte connotazione nazionale, «un luogo di educazione e di integrazione separato rispetto allo stato». 40 In questo senso e con caratteri suoi propri, il “caso triestino” – di cui Giani Stuparich è figlio ma anche co-artefice, come sempre l’intellettuale rispetto ai processi storici41 – mette in evidenza, nella prospettiva delle scienze sociali e della cultura, significativi aspetti di modernità, dei quali si era accorto con buon anticipo Fabio Cusin, storico “eretico” (ed emarginato) come pochi altri, e con il quale ripercorriamo in sintesi il discorso finora svolto. «L’ideale irredentistico», ha spiegato: fu solamente per pochi egregi uomini e in certi determinati momenti politici, un solido programma politico. Per la massa fu aspirazione sentimentale a base prettamente religiosa, in quanto essa sorse in epoca adatta a riempire una lacuna dello spirito, che le condizioni speciali dell’ambiente avevano contribuito a formare. […] Il sentimento sorto così per volontà di pochi uomini si sparge, sostenuto dalla sua stessa necessità, rapidamente fra le masse, che lo accolgono come il dogma di una nuova religione, nella quale trovano un conforto per il momento e una speranza per l’avvenire.42

Conferma e approfondisce Anna Millo, in quello che rimane il migliore ritratto collettivo dell’élite politico-economica di Trieste a cavallo dei due secoli (a 36 Colummi cit., p. 17. 37 Maserati, Simbolismo e rituale nell’irredentismo adriatico cit., p. 141. 38 Ivi, p. 148. 39 Gentile, Le religioni della politica, cit., p.100. 40 G. Quagliariello, Masse, organizzazione, manipolazione. Partiti e sistemi politici dopo il trauma della Grande Guerra, in Il partito politico dalla grande guerra al fascismo, a cura di F. Grassi Orsini e G. Quagliariello, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 27. Il discorso di Quagliariello tocca il tema dei partiti di massa, ma coglie perfettamente, mi pare, il particolare doppio carattere di separazioneintegrazione (rispetto allo Stato la prima, rispetto alla comunità che essi contribuiscono a modellare la seconda) dei partiti di ispirazione irredentista del Litorale austriaco. 41 Sondando il franoso crinale dove si intrecciano storiografia e mitopoiesi, si occupano di questo tema, anche per gli anni che ci interessano, i saggi di Miti e storia dell’Italia unita, a cura di G. Belardelli, L. Cafagna, E. Galli della Loggia e G. Sabbatucci, il Mulino, Bologna, 1999. 42 F. Cusin, Appunti alla storia di Trieste, Cappelli, Trieste, 1930, p. 228.

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completamento di quanto hanno mostrato per l’Ottocento Giulio Cervani e Marina Cattaruzza43): l’élite liberal-nazionale, al pari di quanto accade tra il 1870 e il 1914 tra le classi dirigenti dell’Europa occidentale che trovano nella “invenzione della tradizione” uno degli strumenti per non perdere il consenso delle masse ammesse dal suffragio universale alla vita politica, “inventa” procedure e cerimonie di pregnante significato simbolico con cui contrassegnare la vita pubblica, al fine di mantenere viva la tensione patriottica, di rafforzare l’identità del gruppo sociale di cui vuole tenere desta la mobilitazione, di ottenere il coinvolgimento di sempre più vasti strati di popolazione sulle parole d’ordine della lotta nazionale.44

Ma che religione sarebbe stata senza una forte ricaduta nella vita pratica, senza, nei casi estremi, una disponibilità al sacrificio? Ecco allora il senso del mito di Oberdan, l’attentatore mancato che l’iconografia ufficiale avrebbe elevato allo status di proto-martire della Trieste irredenta45 (e che Stuparich scrittore continuerà a celebrare insieme a Slataper, assunto al suo fianco nel proprio Pantheon personale, fino alla morte). Martire però almeno quanto “caproespiatorio”, colui che dovette scontare il peccato di indifferenza patriottica di una città sempre troppo attenta ai vantaggi materiali e troppo incline ai compromessi per ottenerli: «Trieste è italiana; è necessaria all’Italia; ma le manca una cosa perché l’Italia non la dimentichi, il martirio. […] Tutta una storia senza sangue pesa su Trieste», 46 commenta istruttivamente Slataper. Se è poco, ci penserà la 43 Cervani, La borghesia triestina nell’età del Risorgimento, Del Bianco, Udine 1968. Cattaruzza, Trieste nell’Ottocento – Le trasformazioni di una società civile, Del Bianco, Udine 1995. Da vedere di quest’ultima anche La formazione del proletariato urbano a Trieste, Musolini editore, Torino 1979, indispensabile per capire i processi di crescita e di formazione della coscienza di classe dell’antagonista sociale della borghesia cittadina. 44 Millo, L’élite del potere a Trieste - Una biografia collettiva 1891-1938, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 138-139. 45 Sul mito di Oberdan, mito irredentista per eccellenza, ma fruibile e strumentalizzato in epoca fascista, opportuni rilievi in Brambilla, Parole come bandiere, cit; Id., Guglielmo Oberdan, suggestioni e finzioni letterarie, in «Archeografo Triestino», 2006, n° 66; M. Baioni, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Comitato di Torino per la storia del Risorgimento italiano - Carocci, Torino, 2006; A. Vinci, Sentinelle della patria - Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 145 e segg. Nel dicembre 1942, a commemorare sotto l’egida dell’Istituto di cultura fascista l’anniversario del sacrificio di Oberdan nella sala del Ridotto del teatro Verdi di Trieste, fu chiamato il «camerata dottor Ettore Chersi» (così nell’apostrofe del presidente Sticotti), membro del Comitato regionale della Venezia Giulia della Società nazionale per la storia del Risorgimento, costituito nel 1920 e presieduto da P. Sticotti. Un’anticipazione del discorso ufficiale, pronunciata nella sala del Comitato regionale si legge on line nella «Rassegna storica del Risorgimento», anno 1943. Questa la conclusione: «più tardi il vecchio irredentismo, rinnovato, sarà l’ispiratore e il creatore dei Fasci di combattimento della Venezia Giulia e Tridentina, per ridestare le energie dell’Italia, per liberarla da ogni straniera infezione, per ricondurla sulla strada smarrita dei suoi imperiali destini». 46 Slataper, Scritti politici cit., pp. 81-82. Di Oberdan Slataper scriverà anche sul «Resto del Carlino» nel 1914 e, ad avere spazio, sarebbe interessante confrontare i due interventi.

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guerra mondiale a infoltire il martirologio: olocausto di giovani vittime che vanno all’altare per consacrare Trieste all’Italia, cementando col sangue un vincolo che si era nutrito fino ad allora solo di sogni, speranze e gonfie enunciazioni retoriche (colpito dal pensiero dei triestini mandati al macello sui campi di Galizia, «c’è una morte italiana e ci sono altre morti. Ma soltanto quella può e deve essere la nostra»47 annota Carlo Stuparich il 9 novembre 1915 – in quelle pagine di diario che, ora lo sappiamo, scandiscono un tragico tempo d’attesa – quasi a esprimere un voto che provvederanno le armi, e senza risparmio, ad esaudire). Fenomeni e processi che, va da sé, non si possono pienamente capire nei loro contenuti più significativi e più ricchi di implicazioni pratiche, se non si tiene presente il nuovo clima politico inaugurato in Cisleithania dalle elezioni a suffragio universale maschile, quando, per dirla con le parole del programma della Democrazia Sociale, il giovane partito di ispirazione mazziniana sorto a Trieste nel 1907 e sul cui giornale, «L’Emancipazione», Stuparich confessa di aver appreso i rudimenti della propria educazione politico-civile: «la riforma elettorale riconosce finalmente al popolo il diritto d’occuparsi della vita politica». 48 E si tratterà di elezioni destinate a ridisegnare su basi del tutto nuove gli scenari della vita pubblica, perché è da allora che comincia ad imporsi alle élites il tema inedito ma irrimandabile della conquista del consenso presso ceti proletari e piccolo-borghesi chiamati, nella loro componente maschile, ad eleggere il Parlamento di Vienna secondo il principio della Rivoluzione francese, “una testa un voto”, che mandava in soffitta il sistema elettorale censuario fino ad allora vigente (ma che continuava a valere in sede di elezioni dietali). Di conseguenza, la società che si andava democratizzando richiedeva ben altri puntelli che la sola coercizione e si inaugurava invece un nuovo ciclo storico fondato sul consenso partecipativo e sulla capacità dei partiti scesi impetuosamente nell’agone nella stagione dell’allargamento della cittadinanza politica, di articolare coinvolgenti strategie di mobilitazione e propaganda. Tutto ciò avrebbe inevitabilmente sancito il trionfo dell’ “organizzazione”, come dimostrò appunto, nel 1907, il clamoroso successo triestino del Partito socialista – tra quelli in lizza il più moderno e il più attivo fra le masse – che il 14 maggio (il ballottaggio del 23 fu disertato dai liberal-nazionali per non ufficializzare la più che probabile sconfitta) conquistò la vittoria in cinque collegi su quattro (nel V collegio “carsico” trionfò l’avvocato sloveno Otokar Rybar).

47 C. Stuparich, Cose e ombre di uno, a cura di G. Stuparich, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1968 (III ed.), p. 234. 48 Cito dall’abbozzo di programma stilato per l’adunanza costitutiva della Democrazia Sociale Italiana, che sarà tenuta nella giornata di domenica 7.I.1907, e che si legge in AST (Archivio di stato di Trieste), Direzione di polizia, b. 351-1300, 1907. In data 1 maggio 1906, il numero 1 de «L’Emancipazione» aveva già esposto con ricchezza di dettagli «il nostro programma» [«siamo un pugno di lavoratori della penna e dell’officina devoti a un ideale di giustizia (…)»]: «economico», «politico» e « nazionale».

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Per reazione alla disfatta il partito liberal-nazionale triestino49 – appassionato difensore, in un intreccio di ideali e di interessi, dell’italianità giuliana – seppe riorganizzarsi su nuove basi, iniziando un’opera di capillare penetrazione nella società, resa possibile anche grazie alla “Lega nazionale”50 (che conterà poco meno di 12.000 soci nel 1912), associazione che si distinse nell’istituzione di enti educativi51 e di biblioteche circolanti con lo scopo di “nazionalizzare” l’esistenza fin dall’infanzia, e che rivaleggiò con i socialisti nell’attività di agitazione e proselitismo, organizzando, per esempio, cerimonie patriottiche e “feste in piazza” rivolte al popolo (per non parlare poi dell’astuta penetrazione propagandistica condotta tramite gli aspetti più prosaici della quotidianità: quelle scatole di fiammiferi, quei francobolli chiudilettera, quelle cartoline di cui aveva perfetta memoria lo scomparso Diego De Castro52). Nata nel 1891 in sostituzione della disciolta “Pro Patria”, la “Lega” seppe infatti varare insinuanti strategie di «nazionalizzazione delle masse», consapevole che «la vera partita si giocava nel coinvolgimento del mondo rurale e operaio»,53 andando così a riguadagnare molte delle posizioni perdute (e non solo a Trieste nella sfida con i socialisti, ma anche in Istria e Dalmazia nel braccio di ferro con i partiti slavi). Con il risultato di inviare al Reichsrat di Vienna, con le elezioni anticipate del 1911, due deputati liberal-nazionali (Giorgio Pitacco e Edoardo Gasser) dei cinque concessi a Trieste, e di riconquistare, a spese dei socialisti, una sostanziale, e in seguito non più scalfita, egemonia culturale. Queste, per quanto è ora opportuno anticipare, alcune coordinate del contesto, dove il tema del “romanticismo” di Trieste, ovvero della religione della patria della sua maggioranza italiana, è ricondotto a quell’oggettivo orizzonte storico al di fuori del quale è fin troppo facile cedere alla retorica. Ed è questa l’atmosfera che i due fratelli Stuparich e i loro sodali respirano nella stagione formativa della giovinezza,54 un’aria il cui ossigeno è dato dall’italianità che 49 «Partito dove il termine è solo un eufemismo» – commenta A. Riosa in Adriatico irredento Italiani e slavi sotto la lente francese (1793-1918), Guida, Napoli, 2009, saggio interessante anche per l’inusuale ma fruttuosa prospettiva d’analisi – «che sta a significare un raggruppamento di interessi, continuamente a rischio per le rivalità personali […]» (p. 170), e a cui diede compattezza un esiguo direttorio guidato con pugno di ferro dall’avvocato Felice Venezian (1851-1908). 50 Su questo tema imprescindibile Redivo, Le trincee della nazione, ecc., cit. La Lega Nazionale, spiega Riosa, cit., «rompe con la tradizione elitaria delle analoghe istituzioni di lingua italiana e che caratterizza lo stesso partito liberal-nazionale» (p. 149). 51 Cadono in questa rubrica i “ricreatori” comunali di Trieste, istituzioni parascolastiche a sfondo filantropico inaugurate nel 1908, con cui il Comune intendeva far opera di pedagogia patriottica fra i giovani. Cfr. L. Milazzi, I ricreatori comunali di Trieste, Del Bianco, Udine, 1974. 52 D. De Castro, Memorie di un novantenne – Trieste e l’Istria, cit., p. 8. 53 Redivo, Le trincee della nazione cit., p. 70. 54 Tra i progetti incompiuti dei fratelli Stuparich, da realizzarsi nella scia dell’autobiografismo vociano e, si direbbe, dalla chiara intenzionalità patriottica, un’opera da scriversi a quattro mani, il diario di due anime che colloquiano e concrescono, con una «visione netta precisa del movimento delle nostre personalità e della sua espressione – soprattutto la linea ben chiara – esperienze

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assimilano nell’ambiente familiare e nell’esperienza scolastica presso il liceo Ginnasio Comunale, dal 1912 “Dante Alighieri” (una istituzione di cui Stuparich offrirà un affettuoso ritratto in Un Anno di scuola). Ed è questo infine, a mostrare la persistenza di una fede che non è solo infatuazione adolescenziale, lo spirito che risuona in quel canto di Mameli («All’armi, all’armi! Ondeggiano le insegne giallo-nere. Fuoco, per Dio, sui barbari, sulle nemiche schiere»), intonato a piena voce da uno Stuparich poco più che ventenne mentre pedala con un gruppo di amici, tutti «allegramente spensierati», a quanto ricorda in Guerra del ‘1555. Giani Stuparich traccerà anch’egli un profilo della Trieste d’antan, e del suo percorso in essa, di crescita umana, morale e intellettuale, nella sua maggiore riflessione autobiografica – il già citato Trieste nei miei ricordi (1948) – sulla quale dovremo fondare gran parte della ricostruzione della parabola politico-ideologica (oltre che letteraria) dello scrittore, e nel primo capitolo, dal taglio ovviamente meno personale, della monografia su Scipio Slataper.56 Racconto di sé che è anche costruzione del sé, l’autobiografia farà ovviamente da basso continuo a tutto il nostro discorso, ed è perciò opportuno anticipare alcune puntualizzazioni per evitare i rischi di letture falsate o impressionistiche. Congedato nel giugno 1948 con la firma della prefazione, Trieste nei miei ricordi vedrà la luce per Garzanti in quello stesso anno, dopoché numerosi capitoli erano stati anticipati nel biennio 1945 - 1947 sulla rivista di Calamandrei, «Il Ponte». Con quest’opera Stuparich perseguiva un triplice obiettivo etico-ideologico. Esaltare la stagione dell’ “irredentismo storico”, quando la Trieste italiana aveva dato il meglio di sé nel fermento – lo abbiamo mostrato – di un romanticismo attardato ma nobilissimo che l’aveva vista, nelle sue minoranze attive, vibrare di amor di patria: un ruolo e un impegno che la difficile pace che l’Italia si apprestava a negoziare non avrebbe dovuto tradire. Rivendicare per sé una posizione di sofferto e insofferente “esilio interno” negli anni del regime, attenuando le sfumature di opportunismo, se non di connivenza, che inevitabilmente (se non si è pronti al martirio) inquinano la vita in epoche di dittatura (specie se si è personaggi di spicco della scena pubblica), e andando così a porre le premesse della propria credibilità anti-fascista. Ribadire infine l’italianità – indiscutibile, assoluta, inalienabile – della città giuliana, in un momento in cui essa, nel tumultuoso dopoguerra, veniva messa in dubbio e minacciata. Così infatti a proposito di San Giacomo, in passato uno dei rioni più nazionalmente “misti” di Trieste, con l’implicita finalità di enucleare una supposta “legge di natura” di valore eterno per la città mistilingue e plurietnica (enunciata con tanto candore partigiano da non far quasi percepire la carica di

(famiglia, scuola, università), cultura intima (filosofia, storia) – tutto questo armonizzato e proiettato dal contingente all’universale», lettera di Giani a Carlo, 27. II. 1914, in Fondo Stuparich, AD-TS. Sottolineature nel testo. 55 G. Stuparich, Guerra del ’15, cit., pp. 171-172. 56 G. Stuparich, Scipio Slataper, Roma, edizioni della «Voce», Roma, 1922, poi Mondadori, Milano, 1950.

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violenza implicita in questo come in ogni altro progetto, sia pure solo teorico, di “semplificazione” etnica57): Basta una generazione per fondere gli elementi disparati: friulani, sloveni, istriani si “triestinizzano” presto. […] In realtà avviene che gli operai italiani si familiarizzano con gli slavi ed apprezzano anche le loro qualità e che gli slavi assimilano, con la lingua e coi costumi, la natura tradizionalmente italiana della città. I figli d’uno sloveno e d’una friulana immigrati si sentono triestini; parlano spontaneamente il dialetto triestino non solo sul lavoro e coi compagni, ma in casa anche col padre che lo parla male, e soltanto nelle occasioni, quando arrivano i parenti slavi, si ricordano di sapere lo slavo (se non ci fossero i politici di professione, le terre di confine avrebbero già risolto da tempo nel modo più naturale il problema delle diversità nazionali, che è sopra tutto problema di convivenza di civiltà. E nella classe operaia, molto meglio che nella borghesia, più complicata e artificiata, questa fusione avviene spontaneamente).58

Certo, se non ci fossero i politici di professione, sospira Stuparich … e intende ovviamente i Rybar, i Wilfan, i Tuma, i dirigenti di maggior peso della minoranza slovena, la parte “avversa”, visti da Stuparich come pericolosi mestatori, mentre altro non erano che le figure-guida di una comunità impegnata anch’essa a sopravvivere, proprio come quella italiana, in virtù di una strenua difesa identitaria. Visione dell’assimilazione come destino giusto e necessario che rispecchia un persistente senso comune della città “irredentista”, un dogma che sarà in seguito accolto ed ufficializzato nel “catechismo” nazionale del ventennio fascista, e che Stuparich sembra aver fatto ormai proprio, con un deciso arretramento rispetto al mazzinianesimo del primo anteguerra e degli anni Venti, quando aveva spezzato una lancia, in Italien über alles,59 a favore degli slavi della Venezia Giulia, pur senza mai voler loro riconoscere il predicato di autoctonia dentro il sacro pomerio della città di San Giusto. 60 57 In realtà, da un punto di vista squisitamente personale, lo scrittore non aveva torto. Proprio la storia della famiglia Stuparich, come degli Slataper, e di molti altri triestini di accesa fede patriottica rappresentava la più inconfutabile dimostrazione della storica forza di assimilazione dell’italianità giuliana. Il problema nasceva quando di fronte agli italiani andava a porsi non una plebe dispersa che nome non ha, ma un popolo sempre più consapevole della propria identità nazionale e risoluto ad affermarla. Di questa crisi della capacità di assimilazione da parte italiana degli slavi di Trieste e dell’Istria si erano accorti benissimo Angelo Vivante e, qualche decennio dopo, Saba (“Scorciatoia” 100). Meglio e prima di loro avrebbe potuto capirlo Stuparich, vuoi per le sue convinzioni politiche che dovevano portarlo a riflettere con attenzione sulle Lettere slave di Mazzini, vuoi perché egli stesso aveva celebrato, in uno splendido libro, la rinascita di uno dei “popoli senza storia”, il popolo ceco. 58 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, p. 63. 59 Stuparich, Italien über alles, in «Rivista di Milano», 5 maggio 1921. 60 Secondo un intramontabile pregiudizio: città italiana-contado slavo, di cui è interessante spia letteraria la novella di Delia Benco (siamo nell’ambiente di Stuparich) Il loro mondo, in Id., Creature, Casa ed. Apollo, Bologna 1926. Bisogna aggiungere che, come spiega M. Verginella, «nel clima di competizione nazionale [del Litorale e dell’Istria] il richiamo al diritto di autoctonia, all’esclusivo possesso del territorio, fu un dispositivo argomentativo usato da entrambi gli schieramenti

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L’incertezza sul proprio destino vissuta dagli italiani – abbarbicati su un fragile e precario confine statuale, arretrato, dopo una guerra colpevolmente voluta e disastrosamente condotta, a pochi chilometri dalla periferia di Trieste – poteva nel secondo dopoguerra (quando esce Trieste nei miei ricordi) far facilmente prevalere l’impegno militante, con tutte le sue asprezze, risentimenti, chiusure, su un equilibrato ripensamento storicizzante. Anzi, a voler scavare più a fondo – tesi, certo, da saggiare con ulteriori verifiche – si potrebbe ipotizzare un cauto avvicinamento di Stuparich, sullo sprone di esigenze di difesa nazionale e quindi di coesione del fronte filo-italiano, alle «tardive ma spiegabili velleità nazionaliste che spesso riecheggiavano negli ambienti legati alla Società di Minerva ed all’antica tradizione municipalista e irredentista dell’ “Archeografo Triestino”». 61 Una interpretazione che ci mostrerebbe uno Stuparich fagocitato dalle “nevrosi” triestine nella loro forma più diffusa, 62 essendosi ormai perdute nel tempo le positive influenze di Prezzolini e di Slataper (grande ammiratore quest’ultimo di Irredentismo adriatico di Angelo Vivante, il politico socialista che, qui il punctum dolens, aveva dimostrato tanto l’infondatezza e la strumentalità del mito irredentista dell’inesistenza di uno slavismo urbano triestino quanto l’esaurimento della forza assimilatrice dell’italianità cittadina). Ma questo è un altro discorso, che andrà ripreso al momento opportuno. Il tema che bisogna invece affrontare, perché contiguo alle riflessioni qui svolte, è quello della vocazione letteraria di Giani Stuparich, che in un primo momento si affaccia, come protagonista attivo del mondo culturale, in veste di saggista e di storico. Sarebbe sbagliato dimenticare che parliamo di un intellettuale che, scrittore d’invenzione per gran parte della vita, non ha voluto essere, in lunghe fasi di essa, nulla al di fuori di ciò. E in effetti, sia là dove la pratica della scrittura narrativa supplisce l’impegno etico-ideologico, sia là dove lo costeggia e lo integra, essa – come vedremo – contribuisce a svelare importanti implicazioni della visione del mondo e della psicologia di Stuparich: un retroterra, per esempio, di moderatismo e di pacato buon senso, che si riflette da un lato nella cautela delle (rarisssime) prese di posizione di impronta politico-civile negli anni difficili del dispotismo, dall’altro nel conservatorismo di uno stile che risulta sempre terso ed equilibrato, tanto per scelta che per vocazione. Prosa chiara e riposata, di grana tutto sommato ottocentesca, dalla facile e piana leggibilità: nel tempo stesso, per i suoi modi tradizionali ma men che mai formalistici, tanto difesa della letteratura quanto difesa nella letteratura. Dopo un breve soggiorno praghese nei primi anni Venti – Stuparich vi era stato mandato come lettore all’Università e vi aveva contribuito alla fondazione

nazionali» (Il confine degli altri - La questione giuliana e la memoria slovena, Donzelli, Roma, 2008, p. 90, nel capitolo L’essenza nazionalista dell’antiitalianità, tutto da vedere per i temi trattati in queste pagine). 61 C. Ghisalberti, La storiografia triestina del Novecento tra Tamaro e Cusin, in Id. Adriatico e confine orientale tra il Risorgimento e la Repubblica, Esi, Napoli 2008, p. 143. 62 Su questo tema in particolare si vedano le mie riflessioni in Giani Stuparich e il ‘genius loci’ dell’antislavismo, in Baroni e Benussi a cura di, Giani Stuparich fra ritorno e ricordo, cit.

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di un Istituto italiano di cultura63 – avvertendo che il nuovo clima non consentiva più spazi per quell’incisiva riflessione in pubblico da cui erano scaturiti, tra il 1920 e il 1921, i saggi pubblicati sulla «Rivista di Milano», Giani rivela il proposito di diventare scrittore in una lettera da Praga a Elsa Dallolio, 64 datata 14 giugno 1922: Rientrerò nel piccolo ambiente di Trieste e della mia scuola, ma questa volta con la persuasione di dover tentare quello che altre volte non ebbi il coraggio di tentare: produrre per conto mio, creare.65

Annuncio in sordina di una risoluta volontà di impegno creativo che, riallacciandosi a velleità ed esperimenti dell’anteguerra, 66 tarderà ancora qualche anno prima di concretizzarsi pienamente, ma che gli allarmanti segnali del contesto renderanno poi ferma e definitiva. Di lì a poco – e siamo al 1923 di un fondamentale discorso agli alunni del Liceo Dante, 67 uno dei decisivi “tornanti” del percorso intellettuale di Stuparich – egli sentirà definitivamente svanire ogni speranza di progresso civile e morale, soffocata, per far eco a Saba, dalla marea che «un popolo ha sommerso» (popolo, non dimentichiamolo, assai incline, allora come oggi, a lasciar fare). Al 1925 risalgono i fondamentali Colloqui con mio fratello, angosciata meditatio mortis di un superstite della guerra che, in un momento di grave crisi, si sforza di ridare significato all’esistenza (Giani, ricordiamolo, era entrato volontario nell’esercito italiano e, a partire dal 1916, aveva trascorso due anni di dura e perigliosa prigionia). In essi è stato riconosciuto uno «spartiacque della vita

63 Cfr. A. Cosentino, L’attività editoriale dell’Istituto di Cultura Italiana di Praga, in AA.VV., Stampa e piccola editoria tra le due guerre, a cura di A. Gigli Marchetti e L. Finocchi, Franco Angeli, Milano 1997. 64 Elsa Dallolio (1890-1965), nata in una famiglia di tradizioni militari, ha la ventura di trovarsi a Trieste nello stesso Ufficio di propaganda della Terza armata dove Stuparich rimase alcuni mesi dopo il ritorno dalla prigionia, la breve quarantena a Modena, e prima della smobilitazione. Nasce fra i due, sullo sfondo della comune vicinanza alle posizioni dell’interventismo democratico e del condiviso interesse per il destino delle nazioni slave exasburgiche un’amicizia che durò, in forma attiva, per alcuni anni. Resta un prezioso carteggio di cui E. Apih ha presentato una scelta. 65 Cit. in Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, Vallecchi, Firenze, 1988, p. 165. 66 Fra i tanti, potrebbe rivestire un particolare significato di anticipazione e chiarimento un saggio sulla poesia di Kleist che Prezzolini rimandò al mittente e che non ci è pervenuto, evidentemente l’ipotesto dell’introduzione (firmata Giancarlo Stuparich) all’epistolario del poeta tedesco pubblicato nel 1919 da Carabba, a proposito del quale Stuparich, anticipando certe messe a fuoco del narratore intento a spiegare la sua arte, dichiara di avervi inteso «lumeggiare e far risaltare Kleist uomo e concepire l’artista Kleist come ombra o riflesso dell’uomo», trovando in confronto il lavoro storico – è alle prese con i saggi sui cechi – pesante e astratto (lettera a Carlo, senza data, ma ottobre 1913, in Fondo Stuparich AD-TS). 67 Il discorso Davanti alle salme dei caduti, rivolto agli alunni del Liceo Ginnasio Dante Alighieri di Trieste – l’ex Ginnasio comunale della Trieste asburgica, e la sede dove Stuparich svolgeva la sua attività di insegnante – si legge ora in I Quaderni giuliani di storia per Giani Stuparich, «Quaderni giuliani di storia», n° 2, dic. 1989, pp. 253-6.

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e dell’opera»68 di Stuparich che, a partire da quel «liberatorio […] esame di coscienza», 69 sceglie di «chiudersi nel mondo dell’arte e dello scrivere», dove troverà «il suo posto e ruolo», 70 inflessibilmente risoluto a «quietarsi nella letteratura». 71 Libro intenso e affascinante – in fondo un primo e già maturo esperimento autobiografico, oltre che passo iniziale di una fortunata carriera di narratore – che è apparso a Cesare De Michelis, curatore della più recente edizione, permeato di «misteriosa solennità […] e di tensione verso l’assoluto»72 (parole nelle quali non è difficile cogliere l’eco di un famoso giudizio di Svevo). E se l’assoluto è il polo irraggiungibile di una metastorica verità spirituale, l’altro polo, quello più concreto del fare letterario, è invece la tradizione: i versi di Omero che aprono con lunghi echi di parole classiche, il nono, conclusivo colloquio, rappresentano un esplicito invito a rendere più stretto il legame con l’arte del passato, modulando per forme antiche le nuove tematiche che, di crisi in crisi, Giani sta individuando con l’aiuto di Carlo, il fratello perduto. L’intellettuale lascia la scrivania della storia per assumere un ruolo di scrittore, protagonista di una metamorfosi che lo avvicina alla sensibilità della «Ronda» (altro poi e diverso, meno contratto e più generoso con le proprie curiosità umane e intellettuali lo Stuparich “solariano” che ha l’antefatto minimo in un primo racconto del 1925, La vedova). Paladino dunque di un linguaggio dell’ordine contrapposto alle seduzioni del caos (fuori metafora: ai modi delle avanguardie, cui Stuparich aveva concesso, in concreto, assai poco, pur esprimendo giudizi attenti sul futurismo73). Sotto questo profilo, i Colloqui74 spiccano come una assoluta eccezione nel quadro complessivo dell’attività di uno scrittore a cui siamo abituati a pensare come a un narratore di intonazione raffinata ma pure scioltamente discorsiva. Qui prevale invece il tono oracolare, la pronuncia di sostenuta eloquenza, il periodare solennemente panneggiato, scandito da vistosi iperbati e da martellati troncamenti. E ancora: attenzione al ritmo e clausole curate, arcaismi lessicali e sintattici, abbondanza di reminiscenze colte, come a voler istituire, nell’esibito 68 Apih, cit., p. 134. 69 Ibidem. 70 Ivi, p.140. 71 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 96. 72 C. De Michelis, Amor fraterno, postfazione a Stuparich, Colloqui con mio fratello, Marsilio, Venezia, 1985, p. 149. 73 Chiosando, nell’edizione del 1950 della monografia del 1922, una frase sull’«italianità vergine [e] libera» di Slataper scrittore vociano, capace di liberarsi della tradizione con una scrollata, «ahimé», Giani sessantenne commenta, «quanto si è inconsapevolmente figli del proprio secolo. Il futurismo soddisfaceva a una nostra esigenza più profonda di quanto vogliamo ammettere». G. Stuparich, Scipio Slataper, cit., pp. 145-146. 74 Per un’analisi più dettagliata, stilistico-ideologica dei Colloqui si veda Senardi, Il giovane Stuparich - Trieste, Firenze, Praga, le trincee del Carso, Il ramo d’oro editore, Trieste 2007.

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anacronismo della pagina, una condizione di assolutezza estetica che si fa inespugnabile baluardo contro ogni tentazione anarchica e ogni pervertimento del senso morale. Un dominio perfetto sulle forme che vale da risarcimento (aggiungiamo: risarcimento per eccesso) della perduta presa sul reale e un sogno di classicità come compensativa auto-investitura per scrittori in crisi di mandato. Linguaggio insomma letteratissimo e monotono eppure, a suo merito, tutto butterato da insorgenze autobiografiche, da schegge amare di vissuto difficili da disciplinare: un’intima tensione che incrina l’artificio, incide la crosta sottile di quel bene-rifugio, la forma, dietro la quale ribolle la passionalità di un idealista deluso. L’erede morale di Slataper chiude così definitivamente i conti con il periodo eroico delle sperimentazioni d’anteguerra, con quella maniera di sentire e di vivere l’arte che Carlo Stuparich aveva giudicato, dando eco alle opinioni dell’amico Bastianelli, «adolescentesca» (tutta inquietudine e «nostalgia verso quell’età là, come se fosse l’unico periodo poetico dell’uomo»75). E di “stürmisch” e di sperimentale c’è in effetti assai poco perché è tempo ormai, come avrebbe titolato Borgese un suo libro famoso, di edificare. Ne risulta, in conclusione, un’estetica assai densa perché insieme affermativa e polemica: oltre a espletare la funzione compensativa e di difesa di cui si è detto, questo circoscritto ed effimero “classicismo” intende anche valere, per riprendere il tema da cui abbiamo preso avvio, come solenne celebrazione della patria nelle forme della sua grande tradizione letteraria esplicito richiamo contro ed oltre gli sviamenti del presente. Al lutto concreto, la morte di Carlo, si aggiunge infatti un lutto meno definito ma altrettanto straziante: quello di chi vede la legge impunemente pervertita, dissacrati gli ideali di pace e di giustizia, condotte al disordine ed all’odio le consuetudini di rispetto e tolleranza che si vorrebbe reggessero la Città dell’uomo. Per Giani che ormai vive il proprio tempo da esiliato (condizione che come in un gioco di specchi si riflette nelle metafore di isolamento che affollano i Colloqui) ecco dunque profilarsi un nuovo compito etico-civile, indiretto ma non per questo meno pressante: saldando la nascente vocazione letteraria alle insopprimibili esigenze morali, farsi carico della tradizione, la «preziosa retrovia politica e ideologica»76 dove, senza nostalgie di grandi gesti, si possono attendere tempi migliori. Di conseguenza, chiusa la strada della prassi, perduta ogni dimora politica e pur senza approfondire in modo selettivo e critico il rapporto con la letteratura del passato (più scrittore d’istinto che teorico), Stuparich inizia a elaborare, non senza il rischio di un irrigidito “formalismo”, un suo personale mito nazionale: per riprendere una figura di Saba (si ricordi, ovvia metafora di istanze civili, la graffiante scorciatoia sul fratricidio), si potrebbe suggerire che, per sfuggire al conflitto coi fratelli (i contemporanei), Giani decide di stringersi ai Padri, di votarsi anima e corpo al loro culto (l’esilio nella tradizione per sottrarsi alle ondate di torbide passioni 75 C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 169 (lettera da Firenze, 17.V.1914). 76 A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, 4, II, Dall’unità ad oggi, Einaudi, Torino, 1975, p. 1469.

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che stavano investendo la civitas). Trovando in ciò un prestigioso avallo nel maestro di sempre, le cui parole, oltre il sinistro dramma di un presente inabitabile, prefigurano un mandato coniugabile al futuro e tratteggiano un’idea di missione non inconciliabile con il ritiro dall’agone politico, dentro un bozzolo di ripiegamento introspettivo. Così infatti Mazzini nel 1862: L’Italia non è finora creata, e dobbiamo intendere tutti a crearla. Ogni uomo che scriva è mallevadore, a tutti, per quanto ei può, della Patria futura. L’Arte è davvero Sacerdozio di educazione alle generazioni che sorgono. La creazione d’un Popolo è cosa sì santa che i poeti, i cultori dell’Arte, dovrebbero, finché non è compita, scrivere come taluni fra i pittori dell’Umbria pingevano, prostrati a preghiera.77

Ha dunque sostanzialmente ragione Elio Apih, quando rileva che «per il suo processo di formazione, Stuparich sarà sempre anche scrittore civile». 78 Osservazione da comprendere nel senso largo indicato da Aurelio Benevento: «‘il tirocinio’ compiuto nel campo delle indagini storiche e politiche e i suoi ideali democratici spiegano anche perché Stuparich assegni all’arte una finalità educativa, che lo ha sempre spinto a cercare di ‘comunicare con tutti’ e ad evitare di diventare ‘uno scrittore d’eccezione, d’avanguardia o di gruppo chiuso’». 79 Resta comunque, radicale e appariscente spartiacque di una lunga attività intellettuale, la svolta dal saggismo alla narrazione, momento di passaggio in cui lo scrittore lascia intravvedere un’esigenza di intimo bilancio e di raccoglimento pensoso che lo motiva, sull’orizzonte di un serrato esame di coscienza (e, ben più impegnativamente, di esistenza, come voleva Carlo80), alla ricerca del senso autentico della vita. «Oggi mi danno più da pensare gli uomini che l’Italia», 81 scriverà il 15 gennaio 1923 ancora all’amica Dallolio: il dado era ormai tratto. 77 G. Mazzini, Ai lettori (marzo 1862), in Idem, Scritti letterari, I, Istituto editoriale italiano, Milano, s.d., p. 40. 78 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 145 79 A. Benevento, «L’isola» di Giani Stuparich (narrativa e liricità), in «Otto/Novecento», genn.-febbraio 1978. p. 234 80 C. Stuparich, cit., Esame di esistenza, pp. 53, 54. 81 Apih, cit, p. 172. Di particolare interese anche un altro passo della lettera: «fino a poco tempo fa mi preoccupavo esasperatamente e diffidavo degli uomini di governo, diciamo anzi dell’uomo di governo, per i precedenti, e per il modo in cui l’aveva ottenuto, oggi mi pare un errore di prospettiva l’importanza, sia positiva che negativa, ch’io davo, o che si possa dare, a Mussolini. L’Italia non poteva necessariamente cadere che nelle mani di Mussolini, ed io posso anche ammettere, per ragioni storiche contingenti che sia caduta per il suo bene nelle mani di lui: ma non è lo stato italiano che io oggi possa vedere in prima linea. […] Le rivoluzioni politiche mi paiono manifestazioni effimere: siamo invece a una vera rivoluzione della civiltà, ad uno di quei momenti in cui l’uomo ha bisogno di ritrovare dentro di sé la più semplice via». Per altro, tracce di un analogo disorientamento e qualche simile apertura di credito si leggono anche negli scritti privati di uno dei grandi maestri di Stuparich, Gaetano Salvemini. Cfr. Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di R. Pertici, il Mulino, Bologna, 2001.

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Riandando, parecchi anni dopo, a quel decisivo trapasso, Stuparich confesserà che finita la guerra non ci fu più possibilità di ritorno. Tra la realtà del dopoguerra e le aspirazioni a cui gli spiriti più attivi ed eroici erano giunti in guerra, s’aprì un abisso. Il fondo d’una parte dell’umanità sconvolto, salito in rottami alla superficie, tratto nei vortici di correnti torbide e contrarie, era troppo potente e rapinoso per poterlo non solo guidare ma neppur fermare alle basi di quelle aspirazioni. Le vette non solo viste, ma respirate sotto il dominio della morte, tornavano ad avvolgersi di nubi.82

Da qui un insinuante senso di impotenza che prospetta l’inevitabilità della resa. E, pertanto, l’opzione per un’esistenza ripiegata dentro la modesta parentesi di una vita oscura, come consigliato dai filosofi per proteggersi dai capricci della sorte. Allusivo ma perfettamente decifrabile, in Trieste nei miei ricordi, il fatto che l’annuncio del carattere nuovo dell’impegno letterario («divenni narratore per l’ingiustizia degli uomini e per la noia del mondo»83) si collochi a poche righe di distanza dall’omaggio reso a Pietro Jacchia che era stato fascista finché aveva «riconosciuto l’abbaglio preso, specie dopo l’assassinio di Matteotti», 84 scegliendo infine di battersi per la libertà della Spagna, pronto anche a versare sangue fraterno pur di opporsi alla dittatura. Ma è un vivere in disparte dal palcoscenico dei grandi dibattiti ideologici, dentro la quieta sociabilità letteraria di una città ormai sicura del proprio destino, che non implica soltanto rinuncia e grigiore, anzi! Inizia una lunga stagione di soddisfazioni sul piano umano (gli affetti familiari) e letterario, scorrono veloci e dense le ore dedicate all’esaltante disciplina dell’arte, della quale è ovviamente Trieste nei miei ricordi a dar conto nel modo più chiaro: Accanto alle ore tranquille, piene di luce e di felice emozione, ch’io dedicavo ai classici delle varie letterature, c’erano le ore più inquiete, quando leggevo di filosofia, di storia, di politica in libri, riviste e giornali. L’arte era più su, era come staccata da tutto il resto, un mondo di libertà e di grazia in cui mi pareva di poter entrare soltanto quando ne fossi degno. […] L’uscita nel 1929 dei primi Racconti segna per me una posizione raggiunta sulla via dell’arte. […] Io avevo (e con gli sfrondamenti e la messa a fuoco dell’esperienza e della riflessione, mantengo tutt’ora) un concetto vorrei dir “religioso” dell’arte. Non intendo parlare di teorie filosofiche sull’arte […] penso all’arte 82 Stuparich, La guerra vissuta, «Pan», 1, 1934. Si legge ora in I Quaderni giuliani di storia per Giani Stuparich, «Quaderni giuliani di storia», n° 2, dic. 1989, qui p. 261. «Pan» era la rivista che Ugo Ojetti aveva fondato nel 1933 in sostituzione di «Pegaso» (1929-1933) che, pur sposando la tradizione contro gli sperimentalismi, non aveva esitato ad aprire, con qualche cautela, la cultura italiana agli aspetti più interessanti della letteratura moderna, anche straniera. Iniziative di spirito conservatore e moderato che incontreranno aperta opposizione presso gli ambienti del “fondamentalismo” fascista (per Maccari l’ “ojettismo” sarà sempre come fumo negli occhi: Ojetti, «mummia venerabile […] di mediocrità filistea», cfr. «Il Selvaggio», 1929, in G. Luti, La letteratura nel ventennio fascista. Cronache letterarie tra le due guerre 1920-1940, La nuova Italia, Firenze, 1995, III ed., p. 159). Stuparich, mosso da affinità di sentire, collabora all’una e all’altra delle riviste, non troppo impressionato, evidentemente, dal fatto che il primo numero di «Pegaso» si aprisse con uno squillante “saluto al Duce”, ovvero al «Capo, nato scrittore». 83 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 98 84 Ivi, p. 96.

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in atto, all’arte dell’uomo-artista. Fin da adolescente avvertivo che c’era un’espressione di me stesso la quale mi obbligava (religio?) a un fondo misterioso, dove, ritrovandomi proprio con la più genuina natura, valicavo tutti i confini della mia persona: dovevo scavare in fondo a me, per ritrovare un cielo in cui sciogliermi senza residui. Ho capito più tardi che il tormento e la gioia dell’arte, mai scompagnati, consistono appunto in questo scavo e in questa liberazione: una galleria che costruiamo, a rovescio, dentro di noi, per procurarci un varco sull’universo.85

Non manca in questo passo qualche formula che farebbe pensare a Letteratura come vita, di Carlo Bo (su «Il Frontespizio», settembre 1938; poi in Otto studi, Firenze, 1939), il manifesto più emblematico e più noto di una religione letteraria che, assunta a massima espressione della vita dello spirito, intende negarsi ad ogni compromesso con programmi, manifesti politici, propagandismi; con la caduca esteriorità dell’esistenza, insomma, rigettata, come è stato scritto, anche «in nome dell’integrità dell’uomo», quel valore di sostanza dove, nonostante tutto, «si saldano vita e letteratura». 86 Spiegherà Stuparich a Prezzolini nel 1926, facendo il punto del suo percorso umano e culturale, e chiarendo motivazioni e natura di scelte ormai irrevocabili: mi son fissato a Trieste, ho visto che è ancora il posto migliore per me, per la vita che faccio. Ho una casetta con un piccolo giardino sul colle di Scorcola. Tre bambini: Giovanna, Giordana e Giancarlo. Vivo tra la scuola, che è il mio impiego, e la mia casa che è la mia necessità e la mia consolazione […]. Io ho finito ormai il ciclo delle mie vocazioni e dei miei tentativi, io sono sulla mia strada e la seguo.87

In esplicito: chiudersi nel proprio “particolare”, sbarrando le finestre al mondo di fuori, in ciò che esso offriva (o piuttosto imponeva) sul piano politico ed ideologico. Soluzione non rara fra gli intellettuali italiani del Ventennio, come basta a chiarire una carrellata anche minima di ricordi e opinioni: «infine ci rifugiammo nella letteratura»88 scrive per esempio Bilenchi di sé, di Vittorini e Pratolini alla vigilia della guerra, testimoniando una volontà di “disimpegno”, di silenzio raccolto e riflessivo, anche da parte di coloro che pure il fascismo, o una certa idea di esso, avevano accolto con fervore (lo stesso Bilenchi che era stato presente sul «Bargello», nei primi anni Trenta, con interventi interessati a indagare il rapporto politica-società). Mentre Montale, che pure ha pagato il prezzo della dissidenza, ha ricordato – a caldo, se teniamo presente la data di queste riflessioni (7 aprile 1945) – che gli scrittori che apparvero e vollero considerarsi “liberi” di fronte a un regime non troppo duramente interventista in campo culturale, furono invece «schiavi addirittura se si pensa a quanta parte 85 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 57, 96, 97, passim. 86 G. Luti in Cronache letterarie fra le due guerre 1920/1940, cit., p. 178. 87 Citato in Apih, cit, p.175. 88 R. Bilenchi, Amici, Einaudi, Torino 1976, p. 134.

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di se stessi dovettero soffocare, e quali limiti dovettero imporsi per non incorrere in scomuniche e per non vedersi preclusa ogni possibilità di vita». 89 Così invece Guido Piovene, ben più pesantemente compromesso, in riflessioni raccolte e pubblicate negli anni Sessanta: Ho sempre obbedito in questi anni a due bisogni: quello di accettare tutto e insieme quello di non perdermi mai. Mi ero formato un involucro di atonia di fronte ad ogni fatto esterno con lo scopo di preservare gelosamente me stesso da ogni pericolo, e dicendo me stesso intendo solamente l’opera letteraria. A quel padrone consegnavo la vita come una cosa morta.90

La scelta di Stuparich di ripiegamento e di silenzio in campo politico-civile, che culmina in quel supremo atto di conformistica “auto-difesa” che fu l’iscrizione al partito nazionale fascista (un tema su cui dovremo ovviamente ritornare), evento di cui nulla fino ad oggi era trapelato, non è mai stata tuttavia semplicemente una “fuga” alla disperata nella letteratura, un precipitarsi a peso morto verso un “bene-rifugio” da tenere stretto per la sua istituzionale (e in fondo tollerata) reticenza. I suoi personaggi, tanto dei romanzi che dei numerosi racconti, sono infatti invariabilmente inseriti in un vivo contesto relazionale da cui traggono il senso delle proprie responsabilità umane e ai quali Stuparich solitamente s’accosta armato d’una sonda introspettiva ricca di pietas, secondo un’inclinazione prima di carattere che di poetica, ma che tuttavia mostra, felice impronta di un’epoca meno ingrata, l’«eredità evidente della consuetudine vociana all’esame di coscienza». 91 Non atomi vaganti dunque, sciolti e irrelati, ma molecole ben inserite in un denso connettivo sociale. Tuttavia, a correttivo di quanto detto, bisogna ancora aggiungere che gli intrecci di vite e i fermenti d’anima che lo scrittore racconta si agitano in uno spazio di rappresentazione che nulla concede al fascismo, alle sue realtà e ai suoi riti, alle sue figure canoniche e ai suoi miti. E nonostante l’innegabile appartenenza, volens-nolens, di Stuparich, come di ogni scrittore dell’epoca, ad una comunità culturale in camicia nera, un contesto dov’egli è costretto ad integrarsi, magari a un minimo livello, magari con sostanziose remore interiori, misurandosi, giorno dopo giorno, con la «miscela di restrizioni ed elargizioni»92 di cui è inevitabile tener conto, più o meno disponibile al compromesso con il «vasto sistema di protezioni e incentivi»93 che gli lega le mani ma che, insieme, gli permette di vivere. Discorso che vale, nella sostanza, per tutto il mondo 89 E. Montale, Auto da fé, Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 23. 90 G. Piovene, La coda di paglia, Mondadori, Milano 1962, p. 217. 91 F. De Nicola, Genesi e vicende dei racconti di Giani Stuparich negli anni Trenta, in «Il banco di lettura», n° 30, Trieste 2005, p. 11. 92 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, il Mulino, Bologna, 2000, p. 85. 93 Ivi, p. 326.

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letterario italiano, anche per quei giovani che in un primo tempo avevano fatto entrare il fascismo dentro il cono di luce della loro indagine (il Bilenchi del Capofabbrica, 1935, il Vittorini del Garofano Rosso, 1933, ecc.); protagonisti tutti di una generale rimozione, in parte dovuta forse al «desiderio di mantenere l’illusione collettiva di libertà creativa sotto il regime», 94 in parte alla crescente inclinazione per percorsi introspettivi e intimistici, o al gusto di una stagione che vedeva il non plus ultra della modernità nei rifinitissimi medaglioni della prosa d’arte. 95 Modo sornione per trarsi d’impaccio che nulla ha a che fare con quel no forte e chiaro che pochi ebbero il coraggio di pronunciare, «picchi isolati in una distesa di piatto conformismo». 96 Una situazione paradossale, vista l’articolata ramificazione sociale del fascismo, il consenso di massa di cui godette e la poderosa macchina di coercizione: la riassunse nel 1940 un emblematico bilancio di Alessandro Pavolini, a capo del Miniculpop, che stilò e fece pubblicare sui giornali un rapporto sullo stato del cinema italiano (dove pure il regime poteva contare su una generazione di registi perfettamente allineati) con l’ambizione di indicare una strada valida per tutte le arti, anche per quella che più scantonava, la letteratura: «resta la nostra esigenza fondamentale che la vita italiana sia rispecchiata sì nel suo male parziale, ma soprattutto nel suo bene collettivo e tanto prevalente», 97 affermava, quasi a sottintendere che quel suo «bene collettivo» era rimasto quasi sempre, con più o meno beffardo ostracismo, al di fuori dall’angolo visuale degli scrittori. 98 94 Ivi, p. 84. 95 «La più pura arte moderna, la prosa d’arte», scriveva nel 1942 con fare di rimprovero un sornione Calvino a Scalfari, che aveva firmato degli articoli esaltando l’ “arte sociale” su «Nuovo Occidente» e «Roma Fascista». Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, con una introduzione di C. Milanini, Mondadori, Milano, 2000, p. 85. 96 G. Bonsaver, Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Laterza, Bari, 2013, p. XI. 97 Ben-Ghiat, cit., p. 314. 98 Un’incursione parziale ma nondimeno istruttiva nella letteratura fascista propriamente detta (cioè non semplicemente la letteratura dell’età fascista) lo consentono le antologie. In primo luogo l’Antologia degli scrittori fascisti curata da G. A. Fanelli e M. Carli (lui sì autore di un romanzo schiettamente fascista, L’italiano di Mussolini, 1930), Bemporad, Firenze, 1931. Che quasi nulla può presentare sul versante della narrativa sintonica alla “rivoluzione fascista”, se non scritti di lontana anticipazione di futuristi e interventisti e, dopo la presa del potere, contributi sulla stampa periodica e sui giornali di intellettuali-funzionari, di solito quadri del partito. Poco diversa, non per i nomi ma per la scarsità di narrativa fascista che squaderna, la fortunata antologia per le scuole del 1941, a firma di C. Muscetta e M. Alicata (destinati a diventare, nel volgere di pochi anni, l’uno maestro della critica militante di sinistra, l’altro figura di raccordo tra il PCI e il mondo della cultura) Avventure e scoperte - Nuove letture per i ragazzi della scuola media, Sansoni, Firenze, 1941; la quale, nonostante la dichiarata intenzione di presentare «pagine di cronaca ispirate alla vita quotidiana», non riesce a trovare nulla o quasi nulla dove il fascismo venga rappresentato nella quotidianità dei suoi riti di massa, salvo nell’ultima sezione, goethianamente intitolata Verità e poesia, dove, sviolinando, raccontano la guerra italiana (la Grande e quelle fasciste) non tanto scrittori, quanto gerarchi, giornalisti di regime e lo stesso Duce: «universalmente nota la potenza della sua oratoria. Giornalista geniale,

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Ma la testimonianza che maggiormente convince, tanto più che, giungendoci da un protagonista assoluto della scena culturale del Novecento, cancella ogni sospetto di facili generalizzazioni, è quella del già ricordato Montale. Se non suona del tutto lusinghiero il giudizio sulla letteratura italiana che gli appare, su scala europea, «la più statica, la più indifferente alle contingenze della vita, l’interprete meno fedele dei tempi in cui nasce», 99 si tratta in relazione al regime di una colpa felice. Il bilancio all’attivo per la causa fascista è uguale a zero: «fu questo un tempo di prosatori intimisti, di saggisti squisiti, e di poeti ascetici […]».100 La fedeltà ai caratteri originari della tradizione sarebbe dunque stata, per gli scrittori, la strada più efficace per garantirsi l’autonomia sul piano dell’ “inventio” narrativa. Tanto che neppure la folta schiera dei letterati osannanti (se prescindiamo ovviamente da giornali e stampa periodica dov’era difficile non piegarsi all’omaggio servile, al «conformistico ottimismo» richiesto dal fascismo «che respinge tutte le ipotesi di crisi della società italiana»101) volle mai veramente adeguare forma e contenuti a quello “stile fascista” che, nel corso degli anni Trenta e in particolar modo nell’era Starace, veniva imposto al Paese per «spogliare gli italiani di certe usanze ed abitudini sociali giudicate simboli di un autocompiacimento e di una mollezza “borghesi”, in diretto contrasto con il rigore e lo spirito di sacrificio propri dell’uomo nuovo fascista e romano».102 Va da sé che la cancellazione delle più imbarazzanti contingenze della sfera civile, nel rifiuto di un aggancio sostanzioso alla vita vera dell’Italia littoria, fa sparire ogni traccia di sentimento o giudizio, se non abilmente criptato, sull’Italia del duce. Ed è di mordente efficacia, si è rivelato anche come scrittore nel Diario di guerra, […] libro da legger tutto come uno dei più notevoli documenti umani sul grande conflitto mondiale. […] L’intera raccolta delle opere e dei discorsi sia oggetto della tua più attenta e meditata lettura, quando avrai acquistato la maturità che ad essa è necessaria» (p. 652). Interesserà il lettore triestino la rubrica dei giuliani antologizzati: fa la parte del leone Slataper, con tre brani, quindi Spaini, Stuparich, Morovich, Giotti. Esclusi, ovviamente, gli “ebrei” Svevo e Saba. In tempi recenti G. De Donato e V. Gazzola Stacchini, ne I best seller del Ventennio. Il regime e il libro di massa, Editori Riuniti, 1991, Roma, hanno raccolto una smilza rubrica di opere narrative etichettabili per tema e contenuto come fasciste, nelle sezioni Il romanzo coloniale (questa ovviamente la tematica più frequentata) e I romanzi di propaganda fascista (fra gli autori: Mario Carli, Guido Milanesi, Mario Massa, naturalmente Marcello Gallian, ecc.). Nella prefazione G. De Donato, con una lettura, a mio avviso, troppo generica e onnicomprensiva tanto in termini temporali quanto tematici, tende ad ampliare il concetto di letteratura fascista a tutte quelle opere collocabili su un orizzonte di tradizionalismo piccolo-borghese, permeato dai valori dell’obbedienza, del sacrificio, dell’ordine e incline – qui una messa a fuoco più appropriata – a celebrare miti quali romanità, giovinezza, guerra, razza, italiano nuovo, stato totalitario. 99 E. Montale, Il fascismo e la letteratura (7 aprile 1945), in Auto da fé, cit., p. 20. 100 Ivi, p. 24. Nonostante i roboanti proclami e i concorsi doviziosamente banditi, soggiunge Montale, «tutto fu vano: nessuno scrittore di rilievo ne venne fuori, nessuna pagina degna di ricordo fu rivelata. Bastò allora per essere detto scrittore fascista, l’aperta adesione al regime o meglio ancora qualche esplicita piaggeria al suo fondatore» (ivi, p. 22). 101 R. Contarino, Dal fascismo alla Resistenza, LIL 64, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 41. 102 P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Bari, 1975, p.146.

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ciò che invece, senza riscontri nella successiva narrativa, avevano svelato i Colloqui con mio fratello, nel segno di un’ambigua “correità” che suscita ambivalenti stati d’animo: «Passa la giovinezza per le strade», aveva scritto allora Giani Stuparich, registrando i segni premonitori di nuovo fanatismo, l’annunciano fanfare e il canto, e il suo ritmo è come d’assalto all’aria e all’avvenire. Se tu potessi travolgere anche me, giovinezza! Essere tra le tue schiere, avanzare con la gola aperta e con gli occhi bendati! Sono i vostri occhi, giovani ch’oltrepassate, accesi, ma una benda fatale è tra l’ardor che gl’illumina e la vista […]. La patria è oggi una luce che abbaglia e un fumo che accieca […]. E il torbido intanto montava, per via della nostra perplessità. Poi, su quello affiorò una gioventù generosa e crudele, esaltata e cieca, ma forte del suo impeto di dominio e franca nell’errore – e ripetè l’idolatria. E d’allora eccomi in solitudine amara.103

E quindi, lasciando la parola a Carlo, che è chiamato ad esprimere un giudizio definitivo e inappellabile, dalle altezze di una sapienza che oramai supera i limiti e i condizionamenti delle umane opinioni: La prova è fallita, tu senti: inutile rammaricarsi. La storia non è degli uomini solo, è di Dio. E se tu t’accorgi di non poter consentire coi più, non cercare un falso equilibrio né, cruccioso, d’opporti al fluire degli elementi vitali di cui più non fai parte; ma eleva la fronte verso la stabilità delle cime. Forse non vano fu il tuo percorso finora nel mondo, e come la naturale salita per l’arco degli anni isola in mezzo alle nuove vite, così tu ora, deserto, più in alto ti trovi.104

Ma intanto, mentre attende alla severa pulizia di tutte le “scorie” di un disamato mondo evenemenziale, Stuparich sacralizza il suo universo di piccola borghesia colta, individuandovi le manifestazioni di quell’Uomo che, nel frattempo, nella sua forma concreta e prosaica di uomo storico, chinava il capo a un dispotismo sempre più prepotente, sempre più intenzionato, mettendo in opera tutti gli strumenti coercitivi e propagandistici a disposizione, a creare l’ “italiano nuovo”: una stirpe di conquistatori «meno ‘simpatici’» degli italiani del passato, capaci di diventare finalmente «duri, implacabili, odiosi»,105 come andava farneticando Mussolini con Galeazzo Ciano. Consueta manovra diversiva da parte di «quella saggia e dolente intellettualità borghese che si era “ricoverata” in una coscienza del privato scissa dal pubblico»,106 e che il fascismo intransigente non si sarebbe mai stancato di attaccare. È ovvio del resto che la profonda tenerezza per il proprio micro-cosmo umano e sociale finisca per impedire a Stuparich di rappresentare, nei suoi cartoni “ottocenteschi” che appena traballano per l’irruzione degli Hyksos (e di capire, 103 Stuparich, Colloqui con mio fratello (1925) Garzanti, Milano 1950, pp. 77, 80, 91-92, passim. 104 Ivi, p. 92 105 G. Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano, 1990, p. 156. 106 G. C. Marino, L’autarchia della cultura – Intellettuali e fascismo negli anni trenta, Ed. riuniti, Roma 1983, p. 63. Corsivo nel testo.

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prima ancora che mostrare, se è vero che la letteratura è atto gnoseologico, inscindibile dal fatto estetico), le gravi complicità con la dittatura della società borghese, in tutta l’articolazione dei suoi ceti; quasi che quell’ambiente potesse essere considerato, con le sue educate consuetudini di vita, le sue maniere per bene, gli accattivanti riti del lavoro e del tempo libero, un argine alla barbarie, e non vi si dovesse invece vedere un colpevole apprendista stregone della violenza in camicia nera. Così lo scopriamo indulgente perfino nei confronti del notabilato di provincia, fra i primi fautori del fascismo in ascesa, e che ha ben ricambiato la bonarietà dello scrittore riconoscendo in lui la voce più autentica di una comunità di cui egli continuava imperterrito a rivendicare la “salute” morale, le energie costruttive, il passato “romantico”, illustrandoli sull’esempio delle contingenze private e del radicato patriottismo dei suoi personaggi. Per dire altrimenti e con maggior chiarezza, Stuparich, quasi a schivare un duro confronto con il presente, è incline a scrivere del ceto medio degli anni Trenta – del suo “privato” e delle sue intermittenze del cuore, dei suoi angoli dolenti e della sua integrità – come se si trattasse ancora della piccola borghesia della Trieste austriaca; ma, qui il paradosso, senza rendersi conto che la religione patriottica di quel mondo in apparenza così civile, il suo orgoglio paternalistico e ingenuo dei privilegi di censo e di cultura, il fastidio, o qualcosina di più, per l’antagonista etnico erano stati il piano inclinato su cui, quasi senza accorgersene, la società era scivolata nel fascismo107 (quanto poi l’idoleggiamento della condizione piccolo-borghese potesse risultare consono a certe strategie ideologiche e a certi miti del fascismo – o meglio di certi settori di esso, quelli meno “strapaesani” per intenderci –, tanto in direzione anti-proletaria, per il sospetto verso una classe indiziata di “socialismo”, quanto anti-altoborghese, dove giocava invece il rifiuto verso il cosmopolitismo snobistico di un ceto “internazionale”, è tema ovviamente suggestivo, ma che non può entrare nel nostro campo d’indagine108). Mentre l’Italia marcia a passo romano, l’impareggiabile narratore di interni borghesi, di conflitti intimi e di psicologie arrovellate, specie al femminile, il cesellatore di ambivalenti affettività parentali e sessuali (affrontate sempre con discrezione, mai sul registro crudo o morboso), l’aedo dei valori della famiglia e della dignità del lavoro, il nostalgico cantore della guerra “giusta” del ‘15’18, attende paziente – entro un piccolo mondo di sentimenti e di parole – che l’atmosfera si sveleni, che tacciano gli inni urlati dagli altoparlanti, che il mondo giri pagina («i tempi andavano facendosi sempre più tristi per noi. Il regime che 107 Emblematico – e si fa solo un esempio – il caso di Silvio Benco, che pure fascista non è mai stato (ma che accettò nel 1932 il Premio Mussolini della Reale Accademia d’Italia), il poligrafo triestino che per decenni è apparso il vero arbitro della vita letteraria della città, il «nostro nocchiero spirituale […] genuino figlio della nostra terra» – come lo apostrofò Stuparich in un articolo celebrativo sulla «Voce Libera», 21 luglio 1947; e che pure ha educato una città a sensi di conservatorismo slavofobo. Cfr. Senardi, a cura di, AA.VV. Silvio Benco, «Nocchiero spirituale» di Trieste, Istituto Giuliano di Cultura e Documentazione, Trieste, 2010. 108 Per l’approfondimento di queste tematiche si rimanda alle finissime pagine di Marino, L’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta, cit. In special modo p. 140 e segg.

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pareva avere corta durata, si consolidava: non era quella febbre passeggera che noi speravamo»109). Reciso ogni nesso tra il nuovo ruolo di «letterato-letterato» e quello antico, largamente e fruttuosamente sperimentato, di «letteratoideologo» (per far nostra una fertile distinzione di Romano Luperini110), Stuparich coltiva una scrittura di particolare, aerea nitidezza che lo consacra come grande elzevirista sulle pagine della «Stampa» (nell’anteguerra) e del «Tempo» (nel dopoguerra). Un maestro di cartigli cesellati, rifiniti fino all’ultimo dettaglio: tele di ragno perfette ed impalpabili, effimere come i giornali che le accolgono. Uno scorcio rubato, un attimo fuggente, una riflessione appuntita, a metà strada tra cronaca accarezzata con amore e invenzione sobriamente accordata alla realtà. Sillabazioni di un genere minore che qualcuno volle far apparire come una forma di «opposizione culturale sotto la dittatura»111 (e che smaschera invece la centrata ironia di Franco Contorbia: «strategia dell’Evasione e dell’Elusione tranquillamente tollerata dal regime, fino al 1943, e caricata, dagli interessati, di responsabilità eroiche dopo il ’45»112). Nel 1929, l’anno stesso in cui vedevano la luce a Milano Gli indifferenti (giusto per fare il nome di un grande libro controverso, di cui Mussolini ebbe a notare la subdola natura di «antifascismo che non parla, che non rivela la propria presenza»113) escono presso l’editore Buratti, i Racconti stupariciani, il grande debutto nazionale del narratore. Una raccolta in cui, al contrario di Moravia, sarebbe difficile trovare qualche sfumatura “frondista”. In effetti, se come suggeriva, in linea generale, Calamandrei114, qualche accenno di insofferenza e di critica negli scrittori del Ventennio andrà cercato fra le righe piuttosto che sulle righe, rimane il fatto che nella narrativa di Stuparich, perplessità e tormenti, speranze e illusioni, dolorosi grovigli di crisi e difficili trapassi mirano, sempre

109 Stuparich, Trieste nei mie ricordi, cit., p. 151. 110 R. Luperini, Il Novecento, tomo II, Loescher, Torino 1981, pp. 355-6. 111 Ci si riferisce a Curzio Malaparte, Obbiezione di coscienza, posizione che presenta e discute R. Liucci, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino, 2011, p. 201. 112 F. Contorbia, Introduzione a Giornalismo italiano, a cura di Contorbia, vol II, Mondadori, Milano, 2007, p. XXXII. 113 Cfr. S. Casini, Introduzione a A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli con altre lettere familiari e prime poesie (1915-1951), Bompiani, Milano, 2009, p. 23. Senza entrare nel merito delle interpretazioni (per una panoramica che mantiene ancora validità cfr. C. Benussi, Il punto su Moravia, Laterza, Roma-Bari, 1987), è indubbio, come ha riconosciuto recentemente W. Pedullà, che il romanzo presenta una marcata apertura polisemica (Raccontare il Novecento. Modelli e storie della narrativa italiana del XX secolo, Rizzoli, BUR saggi, Milano, cfr. il capitolo Luci e ombre del decennio nero). 114 Di allusività come arma di verità ha parlato, a proposito degli anni di illibertà, Piero Calamandrei, sul «Ponte», ottobre 1956, nel breve intervento: Anche i giudici sono uomini, riferendosi a una «letteratura antifascista “allusiva” nella quale la protesta contro il regime era scritta non sulle righe ma tra le righe» (p. 1684).

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e soltanto, a mettere a nudo, con sondaggi di «problematismo esistenziale»115, il dramma “eterno” dell'umanità, una condizione su cui la grande Storia poco o nulla incide. Ed è lontano da essa che più pienamente l'uomo si realizza, in chiave sentimentale e morale, dentro la minuscola parentesi del privato, in una Casa tranquilla per esempio, come Stuparich intitolava, quasi a celebrare un personale esorcismo, 116 il conclusivo racconto dell’autobiografico Donne nella vita di Stefano Premuda (1932). Non diversamente da tanti altri scrittori, anch’egli finisce così, per scelta o per indole, per sposare quella strategia del silenzio dove resistenza e resa vanno sostanzialmente a coincidere. Del resto il triestino è ben lungi dal negare che anche da dentro il regime si potesse fare utile opera morale, se non proprio preparando il trapasso verso tempi migliori, alleggerendo almeno il disagio del presente. Così a proposito di Antonio Baldini, ben accomodato nelle istituzioni culturali del fascismo: ogni fanatismo si spuntava contro l’ostacolo di tali uomini che non era vistoso, non s’ergeva come muraglie […], ma come argini appena visibili e, seppur friabili e all’apparenza molli, solidamente fondati, sicché la corrente torbida che in certi momenti poteva sembrare smuoverli e trascinarli erratici con sé, ne era invece corretta e guidata.117

Mentre rimane assolutamente convinto che ciò che conta, assai più delle appartenenze dichiarate, è la generosa integrità del “ cuore”: «Gentile»,118 spiega, ed è un passo da tenere presente in relazione a quanto ancora si dirà, era un uomo di cuore e con l’esperienza ho imparato a capire che gli uomini di cuore possono commettere molti errori, ma non si chiudono in aridi sistemi dove non sono più possibili le azioni generose. La vita non è la politica, non è né fascismo né antifascismo, ma qualche cosa di molto più essenziale, al di qua d’ogni ideologia e d’ogni prassi politica. E allora bisogna scrutare sotto la maschera.119

Tentazioni spiritualistiche (salvo una simpatia più umanistica che mistica per l’etica cristiana) o gusto decadentistico, per continuare a definire la posizione dello scrittore, resteranno sempre estranee all’ispirazione di Stuparich, che si riallaccia invece, e volutamente, alla grande letteratura dell’Ottocento, con qualche circoscritta e cauta simpatia per i contemporanei: egli stesso coerente, in 115 B. Maier, Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, Mursia, Milano, 1962, p. 210. 116 Impossibile non pensare, ma lì il discorso e più ampio e radicale e si riferisce a un periodo ben più drammatico della storia italiana, a R. Liucci, La tentazione della «casa in collina». Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana (1943-1945), Unicopli, Milano, 1999. 117 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 169. 118 Lo scrittore aveva frequentato Gentile nell’agosto del 1919 a Trieste, dove era venuto per un ciclo di conferenze, e lo considerava, come vedremo, uno dei suoi massimi maestri sul terreno filosofico. Cfr. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, op. cit., pp. 136-139. 119 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 139. Corsivo nel testo.

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fondo, con il ritratto che ci propone di Italo Svevo, sbagliato nel taglio critico ma interessante come involontaria proiezione di autocoscienza artistica. Nel quadro della sua interpretazione infatti, dopo avere minimizzato tanto l’infatuazione freudiana del narratore di Zeno che il suo raccordo con lo psicologismo decadente, il più grande scrittore triestino figura come un «semplice, sano uomo dell’Ottocento, educato e maturato nel positivismo», che «nulla [ha] da spartire coi decadenti e con gli innovatori moderni»120 (così nel 1929 su «Solaria»). Un autoritratto, senza ombra di dubbio; per il quale forse si prende lo spunto – ma per ribaltarne il giudizio negandone i presupposti – da una sarcastica chiosa di Malaparte: «la nostra società borghese», aveva scritto, «si incanta agli arzigogoli della psicanalisi di quel povero Joyce italiano che è il triestino Italo Svevo».121 I canoni di riferimento della poetica di Giani Stuparich sono stati, peraltro, perfettamente individuati: «l’ancoraggio di Stuparich narratore», ha sintetizzato Renato Bertacchini, «resta fermo ai grandi scrittori del secolo XIX. Col ritorno alla loro arte, arte di sintesi intesa alla chiarezza etica, con la personale assunzione di modelli come Keller, Čechov, Verga (e solo più tardi la Mansfield) molte cose si rimettono a posto»122 (dove “ritorno” ha il significato di una riscoperta che espunge, in anticipo, possibili seduzioni solariane di registro estremo, estranee, nell’apertura sperimentale, alla severa logica della tradizione, e si ricordino a questo proposito le simpatie di «Solaria» per Majakovski). Affinità che vanno inquadrate sullo sfondo di una particolare attenzione ai valori morali e alle finalità pedagogiche della letteratura, cui si riconosce il compito di guidare con occhio tollerante alla piena comprensione dell’uomo. Del resto Stuparich non poteva che imboccare questa strada, venendo da un milieu di educazione e cultura – un motivo su cui ci siamo fin troppo diffusi – vivificato dalla religione del Risorgimento e quindi impregnato dall’idea mazziniana di “missione”. Un altissimo ideale da cui gli deriva il culto della letteratura, attività in cui «poesia, morale e vita vissuta confabula[no] insieme», 123 guida al perfezionamento interiore e palestra di tolleranza ed empatia. Propensione già tutta presente nella personalità del futuro narratore nel momento stesso in cui – nel suo primo, maggior libro di riflessione storicopolitica, La nazione czeca – sceglie Neruda e Machar come scrittori emblematici della cultura boema e della sua rinascita, alfieri di uno spirito nazionale di cui il «realismo», gli pare, in letteratura, l’«unica originalità intuitiva».124 120 Stuparich, Un romanziere - Italo Svevo prima e dopo la sua morte, in Idem, Giochi di fisonomie, Milano, Garzanti, 19462, p. 227. 121 Malaparte, Strapaese e stracittà, in «Il selvaggio», 10. XI.1927. 122 Bertacchini, cit., p. 86. 123 Stuparich, Trieste nei mie ricordi, cit., p. 99. 124 Id., La nazione czeca, Battiato, Catania, 1915, p. 92.

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Dei presupposti del suo impegno di ricerca e autorealizzazione sul terreno dell’arte è difficile per altro tracciare un diagramma più netto: non lo consente la reticenza dello scrittore ad indicare tanto suggestioni, parentele e debiti, che antipatie, contrapposizioni, rifiuti. 125 Comunque, a rovistare negli annali della repubblica delle lettere, in quel crepuscolo degli anni Venti in cui Stuparich tende la vela al vento delle Muse, non si manca di cogliere indicazioni utili. È fuori di dubbio che, rimanendo sempre saldamente se stesso, non dovesse riuscirgli discaro, entro precisi limiti, il monito “strapaesano” a tener fede a una italianità non astratta, ma con una sua carta di identità precisa e inconfondibile («Ma fammi il piacere, che sugo c’è in questa italianità che non sta di casa né a Firenze, né a Roma, né a Trieste né a Napoli: ma così in aria librata sulla penisola come se la penisola fosse un punto e non un mondo […] italianità novecentesca da treno espresso, che non essendo cittadina di alcuna città non è neppure nazionale di alcuna nazione», 126 esclamava in data 18 settembre 1927 sul «Selvaggio» Berto Ricci, il futuro fustigatore della retorica del regime sulle pagine del «Bargello»). Mentre è facile concludere – ne danno concreta testimonianza, come abbiamo visto, I colloqui – che avesse seriamente meditato l’invito rondista a convertirsi all’«autosufficienza letteraria», 127 ed erano echi da un ambiente dove, certo subendone il fascino, Stuparich ritrovava, e poco conta quanto opacizzati, volti e accenti del crepuscolo della «Voce» e conferme alla sempre più salda “fede” crociana («Croce era per gli scrittori della “Ronda” un punto di riferimento proprio in quanto dalla sua filosofia sembrava ad essi non discendere alcuna implicazione politica»128). Di quel Croce che, è stato giustamente suggerito, aveva favorito l’esito “escapista” della letteratura del Ventennio, teorizzando «un fatto estetico risplendente e affrancato da ogni screziatura etico-politica». 129 Di «Solaria», rivista di nicchia con le sue 700 copie eppure autorevole come poche altre del suo tempo («nata gracilissima ma forte d’orecchio», 130 come è stato felicemente commentato), è certo che lo convincesse il tentativo di «sintesi attiva tra le antiche istanze dell’europeismo barettiano e il rigore letterario di impostazione rondiana»;131 e poi non poteva che piacergli quel

125 Una sintetica carrellata di scrittori affini si legge comunque in Trieste nei miei ricordi, cit., p. 110. 126 Cit. in Luti, Cronache letterarie fra le due guerre 1920/1940, cit., p. 167. 127 Ivi, p. 20 128 L. Mangoni, L’interventismo della cultura - Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1974, p. 44. 129 Liucci, cit., p. 59. 130 G. Ferrata, La letteratura europea di «Solaria», in Letteratura italiana, ‘900, Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, diretta da G. Grana, Marzorati, Milano, 1982, vol. VI, p. 4900. 131 Luti, Cronache letterarie fra le due guerre 1920/1940, cit., p. 78

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suo certo carattere modernamente «aristocratico, nel totale distacco dalla base conformistica della società borghese», 132 e attrarlo, ipoteca non irrilevante di libera sperimentazione, tanto l’assenza di una linea ufficiale («“Solaria”», ha spiegato Alberto Carocci, «andò cercando a tentoni la propria strada, ondeggiò fra richiami diversi e talora contrastanti»133), quanto l’interesse verso ipotesi di restaurazione morale per le quali si osava guardare, curiosi di stimoli e modelli, anche verso le regioni più periferiche e l’italianità più nuova (Svevo, Saba). A questo punto nulla di più sbagliato però che inserire Stuparich narratore, senza residui e senza distinguo, nella categoria di un a-problematico conservatorismo. 134 Se dei suoi rapporti col fascismo dovremo ancora parlare, per quanto riguarda la sua posizione di scrittore va chiarito che egli è tutt’altro che digiuno, come è stato bene evidenziato, di tecniche narrative novecentesche: “trucchi del mestiere” che mette anzi in opera con grande abilità, per esempio, in uno dei suoi capolavori narrativi, il racconto lungo L’isola (1942), dove il gioco di flash-back e monologhi interiori è discreto, ma convincente. 135 Proprio qui del resto egli dimostra di tener d’occhio (anche con disposizione appropriativa) i nuovi traguardi della narrativa italiana, se a una lettura di Conversazione in Sicilia (pubblicato a puntate nel 1938-39 su una rivista, «Letteratura», che Stuparich seguiva con interesse) si deve, ne sono convinto, il tentativo di caricare «il padre» e «il figlio» di una assoluta esemplarità umana, facendone i portavoce di una vicenda eterna, un ciclo “edipico” di incomprensione e riavvicinamento, di rifiuto e riaccettazione che tende quasi a sfumare nel mito (forse la restituzione di un debito – e lo si propone senza riscontri probanti – se è vero che in Conversazione in Sicilia, uno dei conclusivi colloqui di Silvestro – quello che egli intreccia con Liborio, il fratello morto soldato, che invoca da chi lo piange sincerità d’affetti e non retorica136 – non può non far pensare, tematicamente almeno, ai Colloqui con mio fratello). 132 Ivi, p. 79 133 A. Carocci, Presentazione, in E. Siciliano, a cura di, Antologia di «Solaria», Lerici, Milano 1958, p. 9. 134 Non mancano, ad ogni modo, opinioni in questo senso. E ricorderemo M. Guglieminetti, assertore della sostanziale «estraneità» di Stuparich, «anche nei racconti migliori, quelli della silloge del ‘29», alla letteratura del suo tempo (Poeti, scrittori e movimenti culturali del I Novecento, in Storia della letteratura italiana diretta da E. Malato, Vol. VIII, Tra l’Otto e il Novecento, Salerno editrice, Roma, 1999, p. 1063). 135 Si veda a proposito l’attenta analisi di Benevento, cit. e, a proposito dell’Isola, «l’esito forse più compiuto», G. Manacorda (Storia della letteratura italiana tra le due guerre 1919-1943, Editori riuniti, Roma 1980: ne «L’isola […] la consueta nitidezza della prosa stupariciana tocca il suo momento più alto nella resa di una situazione piena di chiaroscuri psicologici, di timori taciuti, di affetti e pudori trattenuti», p. 207) e Senardi, «Die Insel» von Giani Stuparich, in «Zibaldone», n° 56, Tuebingen, Herbst 2013. 136 «Ed è molto soffrire?», chiede Silvestro al visitatore ancora sconosciuto, nel romanzo di Vittorini. «Per milioni di volte […] per ogni parola stampata, per ogni parola pronunciata, per ogni millimetro di bronzo innalzato» (Vittorini, Conversazione in Sicilia, Rizzoli, Milano 1995 [XV ed.], p. 318).

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Sempre comunque al di qua di ogni astrattezza simbolistica perché Stuparich che sa nutrire la pagina della linfa di personali, dolorose esperienze, e ama collocare le sue storie sullo sfondo di una realtà geografica ben identificabile, socio-culturalmente connotata e sentimentalmente vicina (nell’ambizione di evocare, contro un’ “italianità senza sugo”, «una città-ambiente non separabile più dai personaggi, connaturata con essi»137), mira costantemente a un piano di concreta e convincente verità umana. Ha commentato Alberto Spaini: «quando Stuparich incominciò la carriera letteraria andavano di moda personaggi che si chiamavano “la donna in nero”, “il signore in grigio”. I personaggi di Stuparich hanno tutti un nome e un cognome molto precisi, uno stato di famiglia, una classe sociale, una patria, una parlata».138 Ormai radicato con resistenti propaggini sul terreno dell’arte, perfettamente inserito nell’élite culturale di una città impoverita – una “giovane vecchia signora” cui il fascismo ha tolto l’impaccio di dover pensare a se stessa – Stuparich ridà voce, nei suoi libri più impegnativi, a quella passione patriottica, il “romanticismo”, che aveva costituito uno dei nuclei generatori della sua esperienza di studioso. Basterà ricordare Un anno di scuola (1929), prova per nulla inferiore all’Isola, e perfino più cara ai suoi lettori: un racconto lungo che evoca – con un recupero commosso e nutrito, come spesso in Stuparich, di autobiografismo – la Trieste irredentista dell’anteguerra raccontata in uno dei suoi più emblematici ambienti giovanili. Mentre intanto nella città degli anni Trenta – «lavoratrice e ineducata» […] dove «all’Avanguardia sono due o tre persone, il resto […] ha gusti che in tutta Italia sono ormai sorpassati», come, senza indulgenza, descrisse Trieste Quarantotti Gambini139 – si mantiene intellettualmente vivo e moralmente integro frequentando un piccolo nucleo di eletti amici; un cenacolo di spiriti fraterni come strategia difensiva per meglio sopportare «tempi [che] andavano facendosi sempre più tristi per noi. Il regime che pareva dovesse avere corta durata si consolidava: non era quella febbre passeggera che speravamo». 140 Uno dei tanti passi di Trieste nei miei ricordi accordati sul motivo dell’estraneità e del rifiuto, sviluppato con torsione epica ed auto-assolutoria. 137 Stuparich, Trieste nei mie ricordi, cit., p. 117. 138 A. Spaini, Autoritratto triestino (1963), Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002, p. 229. E questi personaggi, continua, «sono la costruzione di molti anni; particolari colti dal vivo e identificati intimamente in loro li compongono. Spesso i loro casi sono capricciosi, come quelli della psicologia sbandata dell’epoca espressionista o delle fobie che assillavano Svevo; ma la loro precarietà non è mai arbitraria; e se mai la tragica sorte che li ha colpiti, esiliandoli da un mondo (famiglia, paese, ceto sociale) ben definito; dove tutto è positivo ed essi, essi soli, col loro contrasto, personaggi dolorosi» (pp. 229-239). 139 Lettera di P. A. Quarantotti Gambini a A. Carocci, 24. XII.1932. Ora in Intellettuali di frontiera – Triestini a Firenze (1900-1950), Catalogo della mostra fiorentina, a cura di M. Marchi, Comune di Firenze - Gabinetto Vieusseux, 1983, p. 194. «I famosi ‘triestini’ non hanno nulla a che fare con la vera Trieste», aggiunge Quarantotti Gambini, «si sono formati da sé, faticosamente, guardando assai oltre la città che li ospitava». 140 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 129.

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La grande consacrazione pubblica di Giani Stuparich scrittore ha luogo però nel 1931, con la pubblicazione in volume di Guerra del ’15 (a puntate sulla «Nuova Antologia», a partire dal luglio 1930, con il sottotitolo Dal taccuino di un volontario): un diario dei primi mesi di trincea dei due fratelli Stuparich, destinato ad entrare subito nel canone più scelto della narrativa della Grande guerra. Silvio Benco, naturalmente, ma poi Pancrazi sul «Corriere della sera», Bonaventura Tecchi sulla «Nuova Antologia», Gadda in «Solaria» ebbero per il libro parole di elogio. Capolavoro in sé, ma anche l’opera maggiormente equilibrata fra tutti gli scritti che il narratore dedica al tema del cuore,141 Guerra del ‘15, racconta uno scorcio iniziale della guerra giusta e necessaria che diede all’Italia le province “irredente”, registrando con schiettezza senza veli l’affievolirsi dell’entusiasmo iniziale di chi aveva voluto che l’Italia scendesse in armi contro il vecchio Impero: memoriale personalissimo ed insieme emblematico di quella schiera di giovani giuliani che scelse il grigio-verde e volle combattere, «senza fanatismo e senza odio, ma nella fedeltà più assoluta agli ideali iniziali».142 Scevro da solipsistiche auscultazioni d’anima, «il libro di Giani», come ha ben evidenziato Giovanni Capecchi, «è anche la storia di Scipio e di Carlo: ‘Noi tre, Scipio, Carlo ed io’, si legge nelle prime pagine, dominate non tanto dall’io ma dal noi»,143 una triade il cui nucleo più stretto è costituito dalla coppia fraterna (e solo chi ha letto Cose e ombre di uno, e magari, le lettere ancora inedite di Giani a Carlo144 capisce veramente di cosa si tratti), unita da un vincolo che è ragione di vita per ciascuno dei due. Quando la guerra spezzerà il legame il sopravvissuto ne ricaverà quei tremendi sensi di colpa che emergono, in prima istanza, in un racconto più che esplicito La grotta, pubblicato in rivista nel 1933, quindi nei Nuovi racconti (1935, Treves), e che vanno poi a costituire il nucleo sentimentale più teso e coinvolgente del grande romanzo della guerra vista con gli occhi di un triestino, Ritorneranno (1941). Il diario di Giani, nella forma originaria di appunti presi frettolosamente in trincea, era stato letto e lodato da Carlo,145 ma il libro che leggiamo è ben altra cosa, nonostante le rassicurazioni dell’autore di avergli

141 Vedi F. Todero, La guerra di Giani, in Id., Pagine della Grande Guerra. Scrittori in grigio verde, Mursia, Milano, 1999 e Senardi, Giani Stuparich testimone e narratore della Grande Guerra, in Trento e Trieste - Percorsi degli italiani d’Austria dal ’48 all’annessione, a cura di F. Rasera, Edizioni Osiride, Rovereto, 2014. 142 A. Ara e C. Magris, Trieste - Un’identità di frontiera (1982), Einaudi, Torino, 2007, p. 105. 143 G. Capecchi, Morire non è più che fare un passo - Per una lettura di ‘Guerra del ’15’ di Giani Stuparich in Id., Lo straniero nemico e fratello - Letteratura italiana e Grande Guerra, CLUEB, Bologna, 2013, p. 226. 144 Sono conservate, per gli anni 1913-1914, nel Fondo Stuparich, AD-TS. 145 «Se da quegli appunti sarai capace di fare un ingenuo tessuto semplice forte, in modo non di allungare gli strappi ma di completare quello che io, avendolo vissuto, mi creo istantaneamente ma gli altri no, farai un magnifico lavoro; forse ecco là una storia, un concentramento che cercavi» (Verona, 24 agosto 1915), in C. Stuparich, Cose e ombre di uno, p. 219.

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conservato «tutto intero il suo carattere di annotazioni fatte sul momento»:146 in effetti da una condizione di febbrile trascrizione di attimi di vissuto quotidiano, dove è la realtà stessa a riflettersi in forma frammentaria e caotica sulla pagina, a prescindere da considerazioni di stile e riguardi di pulizia formale, il brogliaccio evolve in un testo di letterarietà consapevole e studiata, secondo le migliori tradizioni della memorialistica (ma attento a conservare l’impressione di presa diretta sulla realtà),147 restituendoci l’immagine di uno scrittore che, se ha chiesto consiglio ai più fini stilisti per superare le incertezze dell’italiano di frontiera (a Bruno Cicognani, nella fattispecie, di cui certo Stuparich aveva ammirato il capolavoro, La Velia, racconto delle vicende di un’astuta ragazza del popolo che poteva ricordargli la Angiolina di Svevo), è ormai da ogni punto di vista un narratore compiuto. Tanto compiuto anzi da poter guardare senza timidezza alla sfida del romanzo, seguendo del resto una tendenza che andava lentamente affermandosi148 in direzione del superamento di quel frammentismo in cui, all’altezza degli ultimi anni Venti, uno dei migliori italianisti europei (oltre che benemerito della cultura triestina), Benjamin Crémieux, aveva riconosciuto la qualità originaria e l’inclinazione più assidua della letteratura italiana (a partire da fondamenti, spiegava, posti tanto dalla «Voce» che dalla «Ronda», con il supporto filosofico crociano e avendo come privilegiato banco di prova le III pagine dei giornali).149 Un elzevirismo, aggiungeva, che, sull’orizzonte di un rimarchevole «classicismo moderno»150 e magari per interposta autobiografia, viene sollecitato a ritrovare, e siamo al dunque, il sodo della vita, cedendo al «bisogno di toccare terra e di inventariarne i dettagli dopo 20 anni di lirismo futurista, di formalismo 146 G. Stuparich, Guerra del ’15, cit, p. 7. 147 Si deve a Francesca Bottero il merito di aver riconosciuto tra le carte donate all’Archivio Diplomatico della biblioteca Hortis di Trieste il taccuino di Stuparich, dato per perduto, e di averne offerto la trascrizione, compiendo quindi un’acuta disamina delle operazioni di riscrittura che conducono, attraverso tre “forme” (il taccuino d’appunti, la sua parziale rielaborazione a beneficio di Elody Oblath, fidanzata e poi moglie dello scrittore, il testo apparso su «Nuova Antologia») al libro che conosciamo, nella sua Tesi di dottorato: Sul laboratorio di Giani Stuparich - ‘Guerra del ’15. Dal taccuino di un volontario’, discussa presso l’Università di Genova nell’aprile 2013. 148 Secondo l’autorevole opinione di Sergio Solmi: «il gusto per il romanzo e la narrazione in genere sembra destinato ad avere una ripresa in Italia, a dispetto delle tesi recentemente affacciate sulla ragione della innegabile deficienza d’opere narrative nel corso della nostra tradizione antica e recente, o addirittura sull’incompatibilità del genio nazionale per i procedimenti analitici e psicologici del romanzo moderno», cfr. S. Solmi, Tre narratori (1929), in Id., Scrittori negli anni Saggi e note sulla letteratura italiana del Novecento, Il Saggiatore, Milano, 1963, p. 77. 149 B. Crémieux, Essai sur l’évolution littéraire de l’Italie de 1870 á nos jours, KRA, Parigi, 1928. Interessante citare ciò che il critico scrive a proposito del rapporto letteratura-fascismo: «non è il caso di parlare in senso proprio di letteratura fascista e l’influenza del fascismo sulla letteratura non si è ancora manifestata» (p. 300), tanto che perfino le scaramucce di “Strapaese” e di “Stracittà” si sarebbero svolte in «termini fascisti» solo per contingenti «necessità polemiche» (p. 301). Traduzione mia. 150 Ivi, p. 28.

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neo-classico, di astrazione e di negazione del reale».151 Osservazioni non solo acute, ma del tutto pertinenti al “caso Stuparich”. E il grande libro è destinato a venire. Se lo scrittore continua a indulgere nel modulo evasivo, raffinato (e lucroso) dell’elzeviro, ciò non gli impedisce di impegnarsi, nel periodo 1935-39 nella monumentale impresa di Ritorneranno. Romanzo inattuale per la ottocentesca torsione stilistico-strutturale con il sovrappiù di qualcuno degli effettacci sentimentali della tradizione appendicistica, quanto attualissimo invece per le tematiche, ancora la Grande guerra vista nella duplice prospettiva degli irredenti al fronte e dei triestini in ansiosa attesa di redenzione. Ad un duro zoccolo ideologico nel segno della slavofobia,152 dove Stuparich sposa i pregiudizi più triti del notabilato già liberal-nazionale di cui ormai fa parte (le ragioni dell’Altro, anzi, più tendenziosamente, la sua “natura” vengono fatte pesare sulle gracili spalle della servetta di casa, la slovena Berta,153 dapprima indocile e poi infine, rifiutate le avances di Dusan sobillatore slavo e spia della polizia, folgorata dalla luce purissima dell’italianità dei Vidali), si accompagna una visione della guerra come tremendo male, necessario solo quando sia in gioco una causa di giustizia (Sandro diventato cieco, l’unico sopravvissuto di tre fratelli, colui che incarna l’altissimo principio etico del valore redentivo del dolore, chiarisce a se stesso, per non soccombere a una tempesta del dubbio: «hai dato la luce dei tuoi occhi per l’idea di giustizia, per cui combatte la tua patria […]»154). Controcorrente dunque sotto questo profilo, come fu notato negli ambienti di più limpida fede fascista, rispetto ai dogmi di un regime che, dopo «l’esaurirsi dell’ideologia corporativistica»155 andava trovando nel corso degli anni Trenta in razzismo e bellicismo156 nuova linfa per rilanciare su scala “imperiale” la rivoluzione

151 Ivi, p. 312. 152 Cfr. Senardi, “Ritorneranno” di Giani Stuparich: il romanzo di Trieste in guerra, in Gli scrittori e la Grande Guerra, a cura di P-C. Buffaria e C. Mileschi, Istituto italiano di cultura, Parigi, 2009. Per un inquadramento di Ritorneranno, resta insuperata, per la ricchezza informativa, l’Introduzione di B. Maier all’edizione Garzanti del romanzo, nella collana “i grandi libri”, 1991. 153 In essa «certe fibre dure», rappresentavano «l’ostacolo più grave al suo incivilimento», ovvero all’assimilazione. La sue compagne, ferquentatrici della «‘casa nazionale slovena’», «le dicevano infervorate ‘noi dobbiamo sentirci slave’ […] ‘dobbiamo odiare gli italiani» (Ritorneranno, I ed. 1941, Garzanti, Milano, 1991, pp. 12, 18). Insomma, la messa in scena narrativa del principio enunciato in Trieste nei miei ricordi, vedi supra pp. 20-21. Il fatto che Domenico, il padre degli eroi, abbia degli amici a Lubiana, rispetti gli sloveni e parli la loro lingua (cap. III, parte III) non attenua l’intransigenza di Stuparich relativamente all’integrale e indiscutibile italianità di Trieste. 154 Stuparich, Ritorneranno, cit. p. 268. 155 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano, vol. X, p. 134. Più approfonditamente G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma, 2006, sondaggio minuzioso di come fiorì e sfiorì il mito corporativo, «il cui fallimento pratico […] era dopo il 1934 sotto gli occhi di tutti quanti volessero vedere» (p. 221). 156 Cfr. P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Mondadori, Milano, 2006.

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in camicia nera. Così, nel non raro paradosso di un libro che parla solo di guerra ma per rifiutarne l’orrore, Ritorneranno, nonostante il tradizionalismo e l’eccessiva arrendevolezza alle seduzioni del patetismo si allinea a quelle opere, Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, Golgatha di Peter Schmitz,157 Il fuoco di Henri Barbusse, ecc., sapientemente in bilico tra denuncia più o meno incondizionata della crudeltà della guerra, e tentativo di conferire nonostante tutto un senso positivo a quel vissuto, nella misura in cui ha saputo suscitare valori autentici di altruistica dedizione.158 Nel Dopoguerra, in una stagione di ritrovata libertà, vede la luce, sullo sfondo di una nuova tempestosa rinascita dell’impegno civile a salvaguardia dell’italianità di Trieste, l’ultimo romanzo di Stuparich, Simone (1953). Narrazione che, al rivagheggiamento, perfino troppo esplicito, di una dolcissima stagione amorosa al crepuscolo dell’esistenza (già dal 1946 Stuparich ha lasciato il domicilio coniugale, per vivere più liberamente il nuovo legame amoroso con Anita Pittoni, la seconda delle due donne straordinarie che ne hanno condiviso l’esistenza), intreccia cupe premonizioni dell’apocalisse atomica interpretata a simbolo dell’incapacità dell’uomo di condurre la propria storia verso il bene. Pochi sopravvissuti intrappolati in un orribile campo di concentramento – l’esperienza autobiografica della prigionia di guerra si somma qui al ricordo freschissimo della settimana trascorsa nella “Risiera” di Trieste e alle riflessioni sull’universo concentrazionario e criminale del nazi-fascismo – attendono che si compia un destino che ignorano. E intanto riflettono sulla follia dell’Uomo che ha scelto di fare della morte la propria suprema missione. Racconta la vicenda, nella forma di un accorato bilancio esistenziale, lo stesso Simone, «oltre che uno scrittore, un politico. E [che] come tale può apparire un “doppio” del medesimo Stuparich, una sua emblematica “controfigura”».159 «Un poema di amore e morte», commenta Spaini, «con l’incredibile intreccio di due storie così lontane l’una dall’altra, che sembra impossibile un poeta abbia potuto pensarvi per anni contemporaneamente».160 Ma ormai la voce dello scrittore ha un suono amaro e strozzato. Che solo in qualche oasi di memoria si può ancora rasserenare (i Ricordi istriani, del 1961). Per quanto, la “Comunità dei sei”, incunabolo dell’Europa di oggi, iniziasse proprio allora, come primo passo, ad armonizzare, la propria politica economica, allo Stuparich sessantenne dei primi anni Cinquanta nulla di ciò sembra portare conforto: sulla vaga prospettiva di un bene possibile continua a prevalere l’accoramento per il bene perduto – i confini “naturali” della Patria, l’urbanità di una “Welt von Gestern” spazzata via dal diluvio di volgarità e di violenza del fascismo – nostalgia che spinge a stilare spietati bilanci, senza indulgenza nei confronti dell’inguaribile hybris dell’uomo: 157 Cfr. Senardi, “Golgatha” di Peter Schmitz, «Il Ponterosso», n° 4, settembre 2015. 158 Per una incursione nel canone, con un saggio su Guerra del ’15, si veda Senardi, a cura di, AA.VV. Scrittori in trincea. La letteratura e la Grande Guerra (atti del Convegno internazionale, Trieste, aprile 2008), Carocci, Roma, 2008. 159 Maier, Introduzione a Stuparich, Ritorneranno (1941), cit., p. XII. 160 Spaini, Autoritratto triestino, cit., p. 230.

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ci fu un’epoca, a memoria di noi ultimi, che gli uomini s’eran messi veramente a credere che la vita d’ogni singolo fosse sacra; pareva che, dopo secoli, quel certo insegnamento di Cristo desse i suoi frutti; allora ogni omicidio faceva orrore e ogni suicidio pietà. Ma quella credenza ebbe durata d’un occhio di cielo in un tendone di nuvole temporalesche. D’un tratto quegli stessi uomini, cioè noi, ci buttammo nella persuasione che non la vita dei singoli fosse sacra, ma la vita della patria, e poi la vita della comunità perfetta a cui bisognava sacrificare tutto, e infine più sacra della vita in se stessa fosse la morte, la morte senz’altro. Allora menammo le mani, lanciammo gli ordigni livellatori. Ci si ammazzava a vapore e a catafascio; non c’era il tempo di seppellire tanti morti, sicché giungemmo alla trovata: “Scavati la fossa, che t’ammazzo!”. E l’uomo imbecille se la scavava; non aveva il coraggio neppure di risparmiarsi quest’ultima fatica.161

Le nuove prospettive di integrazione europea (che avrebbero avuto una significativa accelerazione con i Trattati di Roma e con l’elezione del Parlamento europeo nel 1958) non offrono speranze all’uomo sfiduciato, nel cui sguardo sembrano gravare come un incubo la minaccia della “bomba”, le rivolte per la libertà schiacciate a Berlino, in Polonia, in Ungheria, lo stalinismo in apparenza granitico – nonostante la morte del dittatore – instauratosi a Est; tutti gli incubi insomma dell’Europa divisa in blocchi. Come le Scorciatoie di Saba anche Simone è pervaso da una sensibilità del “dopo Maidaneck”, segnato con una piaga insanabile dalla consapevolezza che l’odio, la guerra e la morte sono componenti ineliminabili della Storia. Ma la vecchiaia di Stuparich non è circondata soltanto da fantasmi di minaccia; in essa si accende ora qualche speranza per il presente per merito di piccoli e grandi gesti di persone comuni e di statisti, ora con accento intenerito, il richiamo del tempo che fu con le sue seducenti ombre nostalgiche. Risale al 1955, per la precisione, uno dei più espliciti vagheggiamenti di un’età dell’oro irritrovabile, se non nei labirinti della memoria. Comincia a fiorire anche a San Giusto, sintomo esplicito di un insormontabile disagio col presente, il “mito asburgico”: Nel 1911 – avevo da poco terminato il Liceo – intrapresi un viaggio: attraversai l’Austria, percorsi la Germania, feci una puntata nel Belgio, ridiscesi per il Reno in Svizzera, dalla Svizzera passai in Francia per ripiegare sull’Italia […] e tornai a Trieste […]. In tutto quel viaggio nessuno mi chiese mai un documento, nessuno visitò la mia valigia, nessuno ebbe sospetti su di me […]. Neanche l’ombra di un poliziotto dietro di me. Nessun documento. Vi figurate viaggiare buona parte dell’Europa con la semplice tesserina di studente in tasca e nessuno che vi chieda nemmeno quella? Non sapevo neppure che cosa fosse un passaporto.162

Rimpianto per un’epoca di sogni di fratellanza universale e di convivenza pacifica dei popoli d’Europa: «la vecchia Austria», conclude Stuparich pensando al presente, «con tutti i suoi difetti, nel destreggiarsi fra le sue nazionalità, era più civile».163 E poco importa – lo scrittore lo sa bene – che quelle genti si guardassero in cagnesco: tutto meglio dell’ odio che trasmoda in guerra combattuta e mira all’annientamento dell’altro. 161 Stuparich, Simone, Garzanti, Milano, 1953, pp. 510-511. 162 Id., Piccolo cabotaggio, ERI, Roma, 1955, pp. 92-93. 163 Id., Trieste nei miei ricordi, cit., p. 63.

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Quel male Stuparich non aveva cessato di combatterlo, vivendo l’arte, sullo sprone di un bisogno esistenziale, come esperienza del sacro e dell’amore, e impegnandosi nel saggismo come missione di verità e di giustizia. Quarantotti Gambini, scrittore che gli è tanto simile nell’affettuoso pendolarismo tematico fra Trieste e l’Istria, lo ha ricordato nel 1963 «nel cuore e nell’animo, in tutto il suo spirito d’uomo romantico formatosi agli albori del nostro secolo […] inesauribilmente giovane»;164 eppure, come ancora vedremo, l’ultimo autunno della sua vita non appare rigoglioso di forze maturate quanto piuttosto segnato da cupi presagi di rovina. Preoccupazioni che nascevano da un amore sconfinato: per Stuparich, il piccolo mondo urbano, di Trieste stretto fra i monti e il mare, era stato il centro di tutto il cosmo. Lì aveva vissuto, amato, sognato, scritto. Lì era sempre ritornato, dopo Firenze, dopo Praga, dopo la guerra. Per esso si era battuto. Potrebbero benissimo valere anche per lui le parole di Saba, pronunciate al Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste e poi riprese in una prosa per Linuccia: «il mondo io l’ho guardato da Trieste. Il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro, e di Trieste non fanno nemmeno il nome […]. Del resto», aveva aggiunto, «io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria».165 Questione di radici, dunque. E della capacità dall’arte di rinforzarle, edificando. Così Stuparich, due anni dopo, in un elzeviro sul «Tempo» di Roma, Amore di Trieste: I poeti sono le guide migliori per capire l’essenza d’una terra, d’una città, perché sono quelli che la vivono dal di dentro e aprono su di essa impensate, quanto intense visuali. L’arte è la prima, la più accorta e perspicace interprete e rivelatrice di un luogo.166

Parole che avrebbero voluto chiarire i valori della sua arte, e che suonano come un malinconico messaggio d’addio. Stuparich si spegnerà nel marzo 1961. Con lui, per cedere la parola ad Angelo Ara e a Claudio Magris, sembra tramontare, in un malinconico congedo peno di dignità, la cultura, l’anima risorgimentale di Trieste. […] La grande lezione di Stuparich è la dirittura morale, l’umanissimo stile con il quale egli ha vissuto il tramonto della propria civiltà, senza rinnegare i propri ideali.167

164 P. A. Quarantotti Gambini, Giani Stuparich (1963), in Id., Il poeta innamorato, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1984, pp. 92-93. 165 Saba, Trieste come la vide, un tempo, Saba (1957), in Id., Tutte le prose, a cura di A. Stara, Mondadori, Milano, 2001, p. 1090. 166 Si legge in S. Arosio, a cura di, Stuparich, Il guardiano del vecchio faro e altri scritti dispersi, Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione, Trieste 2003, p. 204. 167 Ara e Magris, Trieste ecc., cit., p. 170.

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Capitolo II Il giovane Stuparich fra mazzininianesimo e socialismo

Tutti coloro che si sono occupati di Stuparich con riflessioni meno occasionali della breve recensione o della svelta nota critica hanno richiamato l’attenzione sulla famiglia di provenienza, come crogiolo di formazione di sensibilità e valori. Seguendo del resto un percorso nitidamente tracciato dallo stesso scrittore. Successivamente al più noto Trieste nei miei ricordi Giani dà infatti alle stampe Sequenze per Trieste (sul «Tempo» di Roma, 1954-57, poi Edizioni dello Zibaldone, Trieste 1968, a cura di Anita Pittoni, quindi, con il titolo di Cuore adolescente, Ed. Riuniti, Roma 1984) e Ricordi istriani (Edizioni dello Zibaldone, Trieste 1961, e in seguito, ivi, 1964, in edizione accresciuta), affettuosa registrazione di momenti d’infanzia e giovinezza che precedono il fatale 1914.1 A formare, per frammenti e luminose ma ragionate “istantanee”, un ampio racconto di sé che ha l’ambizione di far uscire dalle nebbie dell’oblio, insieme con i lacerti della propria esistenza, i quadri di un perduto mondo di ieri, malinconica pietra di paragone per un presente opaco: le sinopie di un emblematico vissuto che si intreccia e si fonde con un periodo cruciale delle vicende della patria quando, e qui Giani presta la voce all’«infelice generazione» di cui si sente interprete, «vedemmo [..] salire la realtà verso il sogno più bello» (aggiungendo quindi, in riferimento al secondo dopoguerra, «e poi

1 Vedi Brambilla, Appunti sui ricordi istriani, in Baroni e Benussi, cit.

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ripiombare giù, più giù d’ogni temuto incubo»2). Guizzi di narcisismo? Tutt’altro: nei cartoni dell’affresco, il percorso esistenziale dell’io narrante si lega tanto strettamente a uno sfondo di storia collettiva da dissiparne ogni sospetto. È tutto un mondo che ritorna alla luce, il “piccolo mondo antico” dell’italianità adriatica che si prepara, si direbbe per naturale fermentazione di sensibilità e di ideali, alla fiammata del proprio Risorgimento. Una svolta “nazionale”, vuoi in senso culturale vuoi politico, invocata da quegli eterogenei ambienti di irredentismo che pure, nella loro prima sostanza, erano un prodotto del “meticciato” asburgico. In effetti anche nei giovani Stuparich – Giani del 1891, la sorella Bianca Angela del 1892, Carlo, che resterà sempre il “cucciolo” della famiglia, del 1894 – confluiscono, emblematicamente, più linee di sangue e di cultura: per via paterna la linea marinara dei lussignani – da cui deriva il cognome della famiglia, forse in origine un antico Stuparovich – insieme a quella austriaca dei Kaschmann; l’ebraismo dei Gentilli invece, di lontane origini italo-ungheresi, per parte di madre. Di questa ricca eredità familiare, dall’etimo complesso ma del tutto usuale nella città multietnica, e che poi sfocia, per influenza locale, in un destino italiano sentito (come già da Marco e da Gisella, il padre e la madre) assoluto e irrinuciabile, quasi il punto d’arrivo di una teleologia, Giani lascerà un ricordo bellissimo nei Colloqui con mio fratello, in un passo che non resta che citare. A maggior chiarezza di sé – della propria sorte di uomo segnato da fati che occorre seguire – Giani è salito insieme a Carlo sul colle di San Giusto, dove la chiesa cristiana si erge sui resti di un tempio pagano. Lì, nel simbolo di una fede in cui la Patria ha sostituito Dio, lo scrittore trova conferma ad un destino che, scendendo da volontario nell’agone della Grande guerra, ha voluto riaffermare davanti al mondo: Mi rivedo con te, quassù, a quella medesima torre, appoggiate le fronti alle sbarre per cui si scorgono i resti del tempio romano […]. Salivamo col pensiero alla nobiltà delle origini, ma vedevamo la grande povertà di quelle colonne ricinte e legate perché non s’abbattano in polvere […]. Sangue di nostro padre, venuto dai barbari, ma come un’ondata di vigore e larghezza, con tutto il salso e l’esperienza generosa dei mari […]. Sangue di nostra madre, troppo civile e stanco, ma egualmente perenne come una corrente nel suo millenario letto […]. Allora, tutto un ingorgo violento. – Ma da questo una creazione balzava improvvisa: l’Italia più grande. Per noi era creazione ciò che per gli italiani sorgeva formato dai secoli, ed atto di fede.3

Si annuncia con un «ingorgo violento» un potenziale conflitto interiore, innescato dall’intreccio di radici diverse: il sangue di Marco «venuto dai barbari, ma come un’ondata di vigore e larghezza» e quello «troppo civile e stanco, ma egualmente perenne» di Gisella (qualificato con un’immagine non infrequente, e basterà pensare alla recensione di Slataper alle Poesie di Saba, che

2 Stuparich, Trieste nei miei ricordi cit., Licenza, p. 201. 3 Stuparich, Colloqui con mio fratello (1925), cit., pp. 87, 88 passim.

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giudica semiticamente intrise di « stanchezza» e di «intima malinconia»4). Una tempesta interiore che si quieta ed illimpidisce grazie all’assunzione dell’ideale di un’«Italia più grande»5 come somma ragione di vita. Torsione verso una forma di laica trascendenza – la religione della patria, interpretata a partire da una nozione di identità che in Stuparich sarà sempre di impronta culturale e mai biologistica6 – verso la quale lo conduce e lo educa l’esempio dei genitori. Il padre è vicino alle posizioni dell’irredentismo, vissuto con un trasporto mazziniano che in qualche occasione gli ha fatto conoscere perfino la prigione. 7 La madre, com’è normale negli ambienti dell’ebraismo triestino, 8 nutre di valori patriottici la propria tempra di donna insieme severa ed affettuosa. Una costellazione familiare, dunque, non poco articolata. Riassumiamo: c’è un padre, vagabondo e leggero (e tuttavia occasione dello splendido racconto: L’isola), un amabile filibustiere impiegato nel commercio e quindi spesso assente da casa, a inseguire i suoi sogni di guadagno e, probabilmente, qualche invitante fantasma femminile, due figli maschi, mai – a quanto è dato di capire – in competizione tra loro, una sorella, oggetto e soggetto di protettiva tenerezza, infine ma centrale la madre. Una madre sulla quale è opportuno ancora brevemente riflettere, non solo perché prevale (con un netto vantaggio sugli altri membri della famiglia) nelle trasfigurazioni narrative di Stuparich (che le erige un commovente “altare”, per dire con Ferdinando Camon, nelle pagine di Ritorneranno) ma in quanto ha rappresentato – Giani lo ha messo instancabilmente in evidenza – la vera 4 Vedi Slataper, Poesie di U. Saba, «La Voce», Bollettino bibliografico, 26 gennaio 1911, ora in Id. Scritti letterari e critici, a cura di G. Stuparich, Ed. de «La Voce», Roma 1920, pp. 240-241. 5 Si veda E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari, 2006, che segue l’evolversi del mito della “Grande Italia” tanto in prospettiva cronologica che nelle sue varie e contrastanti declinazioni ideologiche. 6 Per quest’ordine di problemi andrà tenuto presente – la frontiera più avanzata del discorso – A. Campi, Nazione, il Mulino, Bologna 2004. Ampia riflessione dove il nodo cruciale della contrapposizione tra una “maniera italiana” di intendere il valore nazione e una “maniera tedesca” (più incline ad assolutizzare l’aspetto etnico-naturalistico, a riconoscervi il riflesso di un mitico Volk) viene opportunamente tematizzata, allo scopo di individuare quella «significativa diversità d’accento o di registro» (p. 41) fra linea romantico-tedesca e autori italiani che si esplicita, già a metà Ottocento, nella riflessione di alcuni giuristi e uomini politici come Pasquale Mancini. In polemica con una interpretazione solo naturalistica della nazione, proposto dal fortunato A. M. Banti, La nazione del Risorgimento – Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000, e ribadita dallo stesso Banti e da P. Ginsborg in Per una nuova storia del Risorgimento, in Risorgimento, Storia d’Italia Einaudi, Annali XXII, Einaudi, Torino 2007. A proposito Senardi, Riscoprire il Risorgimento: un percorso a margine del “Risorgimento” di Banti e Ginsborg, in “La battana”, n° 166, Fiume, ottobre-dicembre 2007. 7 Cfr. R. Damiani, Giani Stuparich, Ed. Italo Svevo, Trieste 1992, pp. 20-21. 8 Su questo tema da vedere per es. Millo, L’élite del potere a Trieste – Una biografia collettiva 18911938, cit., e T. Catalan, La comunità ebraica di Trieste (1781-1914) – Politica, società, cultura, LINT, Trieste 2000. Per una sintesi focalizzata sugli scrittori triestini cfr. Senardi, Percorso storico e protagonisti letterari dell’ebraismo triestino, in Tra storia e immaginazione: gli scrittori ebrei di lingua italiana si raccontano, a cura di H. Serkowska, Istituto italiano di cultura di Varsavia/Rabid, Cracovia 2008.

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“cinghia di trasmissione” di quei valori etici vissuti con enfasi romantica sui quali lo scrittore ha intonato la propria vita. Gisella – e qui mi appoggio a Roberto Damiani che ne ha tracciato un vivace ritratto a partire dalle pagine delle stupariciane Sequenze per Trieste – «a serena pacata dolcezza, accomuna larghe doti di decisione, caparbietà, disponibilità al sacrificio, realismo e pragmatismo». 9 Madre dal carattere forte, a tratti addirittura dispotica per amore dei figli (del tutto simile alla madre di Anteo, nel racconto Un anno di scuola, personaggio che Giani modella infatti sui tratti della propria): figura certo assai particolare, ma in cui ci vuol poco per riconoscere i tratti tradizionali del “matriarcato” triestino, istituzione spontanea in una città portuale di uomini assenti o assenteisti dove tocca di frequente alle donne tenere fermo il timone della casa nelle frequenti tempeste della vita (ne ha disegnato uno straordinario profilo Ricarda Huch inventando, nel suo Vicolo del Trionfo,10 il personaggio di Farfalla, e se ne ritrovano facilmente i connotati nella madre di Umberto Saba, figura così assolutamente centrale nella vita infantile del poeta e, rovescio della medaglia, così tragicamente nevrotizzante da farlo diventare, a spese della maturazione dell’uomo, l’artista autentico, inquieto ed abissale che conosciamo). Ma figura anche squisitamente “risorgimentale”, se è vero che proprio nell’epoca delle guerre per l’indipendenza ed in relazione a quella stagione di accesi ideali e di abnegazione senza riserve (quando la donna italiana, a dar credito a Marina d’Amelia11, plasma in modo decisivo la propria identità) inizia a profilarsi una particolare modalità relazionale in forma di «simbiotica complicità con i figli maschi» tanto da rendere l’istituto familiare, di cui la madre è anima e vestale, «la prima comunità in cui mettere in pratica i nuovi ideali di libertà, dedizione, senso del sacrificio che dovevano essere a base della nuova Italia».12 E il pensiero corre, più che ovviamente, a Maria Drago e ad Adelaide Cairoli. Almeno in questo caso dunque, e siamo di nuovo a Gisella, non si tratta di un portato esclusivo del fin troppo proverbiale “romanticismo” triestino, perché è nell’intera nazione che a ridosso della Prima guerra mondiale e quindi nel corso del conflitto venne «riverdi[ta] la visione edificante della madre risorgimentale» con la conseguenza che, «sul piano delle rappresentazioni culturali, dello stile degli appelli e della 9 Damiani, Giani Stuparich cit., p. 19. 10 R. Huch (1864-1947), narratrice tedesca innamorata del Risorgimento italiano (cui dedica non solo romanzi ma anche un volume di analisi storica, Uomini e destini del Risorgimento) e ospite, per un breve lasso di tempo a Trieste (1898-1900) a fianco del marito, Ermanno Ceconi, ha ambientato nella città giuliana un romanzo che viene riconosciuto come uno dei suoi capolavori, Aus der Triumphgasse - Lebensskizzen (1902). Si legge ora tradotto in italiano: Vicolo del Trionfo - Racconti di vita, Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli 1997, con interessante prefazione e postfazione di G. Biegel e di M. Bressan. Sull’autrice e sul libro si vedano anche, in lingua italiana, C. Tivoli, Ricarda Huch a Trieste, in «Nuova Antologia», Maggio 1961 e F. Moscolin, La Trieste di Ricarda Huch, in «Metodi e Ricerche», gennaio-giugno 2006. 11 M. d’Amelia, La mamma, il Mulino, Bologna, 2005. 12 Ivi, pp. 53, 52

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comunicazione politica, la guerra riportò indietro, per molti versi, al tempo degli anni del Risorgimento e della costruzione dell’Unità nazionale».13 Non è forse un caso che proprio Ida Finzi alias Haydée, scrittrice triestina di origine ebraica, firmasse sull’«Illustrazione italiana» del 20 maggio 1917 un servizio dedicato alle Donne italiane per la guerra, attento, come ha messo ancora in rilievo la d’Amelia, ai nuovi ruoli, e non solo di supplenza, che la guerra aveva imposto alle italiane e, viene di aggiungere, a tutte le donne delle nazioni in guerra. Ecco allora comporsi un’icona materna che potenzia la funzione femminile di sostegno morale e di consolatrice del combattente – colei che vive nell’orgoglio di vedere i propri figli risoluti al sacrificio, nel nome di quella religione patriottica alla quale è stata lei ad iniziarli – ed è pronta a pagare, con un austero stoicismo che cancella ogni traccia di fragilità femminile, il prezzo che la patria comanda. Anch’essa del resto rappresentata, nell’immagine più diffusa, in figura di madre: quella Madre suprema davanti alla quale ogni egoismo deve cadere. Non sorprende così leggere, nelle lettere di Elody Oblath, la donna che, nel febbraio 1919, entra come moglie di Giani in casa Stuparich, la consapevolezza del carattere assoluto ed esclusivo di un rapporto tanto stretto da non ammettere intrusioni; come quando, ma senza alcun moto di fastidio, la giovane confessa a Giani di aver «visto troppo da vicino cosa sei tu per mamma tua, per potermi illudere di esserle di qualche reale giovamento nella tua assenza»;14 per quella madre che, durante l’intero periodo di guerra, nella casa triste e desolata, non si è stancata di infiorare il ritratto dei figli come un altare agli dei Penati. Del resto basta scorrere il diario di guerra di Giani per capire di cosa stiamo parlando: subito, a ridosso del fronte, quando la guerra si annuncia da lontano con un brontolio ancora misterioso, è il pensiero della mamma a provocare nel giovane soldato che sente prossimo il battesimo del fuoco un primo brivido di turbamento: fra pelle e carne mi serpeggia un brivido improvviso: «mamma»: pensiero, sentimento indefinibile, come un’essenza che riempie tutto. Mi perdo e mi tremano le gambe. È un momento. Ritorno padrone di me e marco il passo.15

E poi, ricordando una scena di vacanze sull’aia di una fattoria istriana, con Carlo che gettava briciole alle galline, idealmente rivolto alla madre lontana per descriverle quel figlio così fiero, per quanto quasi ancora adolescente: «se tu lo vedessi, ora, mamma, a fare lo stesso, al tuo Carlo, vestito da granatiere, col cinturino e la baionetta al fianco, grande come allora, più grande forse, con una tinta di tristezza sulla faccia, ma con gli occhi sorridenti e buoni».16 E vi è un momento in cui la mamma e la città 13 Ivi, pp. 170, 172. 14 E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, a cura di G. Criscione, introduzione di G. M. Antignani, nota di G. Manacorda, Officina edizioni, Roma, 1994, p. 36. La lettera è datata Roma, 30.VI.1915. 15 Stuparich, Guerra del ’15, cit., p. 15. 16 Ivi, p. 46.

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fanno tutt’uno e il cuore respira di quella dilatazione cosmica del principio materno che tinge l’orizzonte di trepida malinconia (e spiega tante cose, del traboccante intenerimento per i propri luoghi, triestini e istriani, che vena la narrativa di Giani): la città si confonde con l’azzurro delle colline. […] Vorrei esserle ancora più vicino, solo un attimo, per distinguerne le case e le vie. Nel palpito dell’aria che le sta sopra, immagino il respiro di mia madre. Sento con un senso misterioso che non è la vista e non è il tatto, ma è un complesso dei due, la presenza della nostra casa che ci aspetta. Non mi sazierei mai di guardare.17

È da questa madre così ansiosa per il futuro dei figli che sogna capaci di misurarsi con successo nella dura lotta per la vita della città mercantile, che parte la decisione, non comune negli ambienti triestini di lingua italiana, di iscrivere Giani alla Grundschule, ovvero alla scuola elementare di lingua tedesca. Lì, come ha ricordato Damiani, Giani è condiscepolo di Giulio Camber (Barni, all’anagrafe dei volontari), che sarà anch’egli ufficiale nell’esercito italiano e consegnerà alla nostra letteratura quel piccolo, originale capolavoro di poesie di guerra che è rappresentato da La buffa.18 Ma nella scuola tedesca l’aria è pesante per il giovane di sentimenti italiani: «tu non vuoi studiare, tu sei un vergognoso piccolo irredentista»,19 ripete il maestro a Toio, il protagonista autobiografico di Cuore adolescente (il cui nome, azzardiamo, si può forse attribuire alla sempre più stretta amicizia, negli ultimi anni di vita, fra Stuparich e Vittorio Vidali, dirigente comunista ma ostile a Tito e al suo regime, e che negli anni giovanili era stato appunto “Toio”, per amici e familiari). Ma poi, seguiamo ancora la traccia autobiografica, il «miracolo»: il miracolo fu semplicemente determinato dal passaggio dalle Scuole popolari tedesche al Ginnasio comunale italiano […]. All’inaugurazione ci fu una cerimonia che impressionò il ragazzo. Già l’atrio per se stesso, nel cui mezzo si levava il severo busto di Dante, tutti quegli ordini di colonne nei corridoi aperti sulle balaustrate e quella luce diffusa che proveniva dall’alto lucernario, esercitavano una profonda suggestione sull’animo di Toio: gli pareva d’essere in un tempio […]. Entrava in un ambiente, in un mondo, che lo avrebbe non solo armato per una carriera, ma che gli avrebbe creato una mentalità e plasmato un carattere. Egli non conosceva ancora la storia di quell’istituto, né poteva sapere che il suo Ginnasio era il focolare della spiritualità triestina, da cui uscivano i migliori, gli illustri, coloro che, di generazione in generazione, si passavano di mano i valori e le aspirazioni della città, nella gelosa custodia della sua fisionomia e nell’immutabile fede nel suo destino.20

17 Ivi, p. 59-60. 18 Cfr. L. Tommasini, Di speranze e bacalà. L’epica popolaresca di Giulio Camber Barni, «Studi e problemi di critica testuale», 2015 n° 2. 19 Stuparich, Cuore adolescente, in Id. Cuore adolescente, Trieste nei miei ricordi, con uno scritto di G. Stuparich Criscione, Ed. Riuniti, Roma 1984, p. 24. 20 Ivi, pp. 34, 35, 36 passim.

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Come in un tempio della religione della patria, in questo ginnasio comunale, 21 massimo «focolare della spiritualità triestina», si veniva consacrati alla lingua e alla cultura di Dante, Petrarca, Carducci – per fare i nomi dei “profeti” più amati – e preparati ad esserne, in pace e in guerra, i paladini22. Periodo fondamentale degli anni di formazione che ci è stato restituito con incomparabile grazia in un altro capitolo di quel racconto di sé e del destino della propria generazione in cui consiste una porzione notevole della narrativa stupariciana, Un anno di scuola. Certo, il passare degli anni e l’irrigidimento stupariciano su posizioni di “difesa nazionale” non permettono più allo scrittore di vedere con chiarezza, negli scritti del secondo dopoguerra, ciò che quarant’anni prima aveva saputo cogliere con ammirevole lucidità: il fatto, per esempio, che il Ginnasio comunale fosse un volano di ideali liberal-nazionali e inculcasse le forme caratteristiche di quella mentalità («per cui soltanto, si crede, può essere mantenuta alta l’Italia a Trieste»23) veniva ormai sfumato dai filtri della nostalgia (e si intende, in concreto, un visione del mondo ed una sensibilità vicini alle posizioni del conservatorismo triestino, pessimo modello sul piano dell’apertura sociale, dello spirito di convivenza, della disponibilità a costruttivi compromessi). Mentre troppo permeata dagli ideologemi della storiografia più arretrata e nazionalistica la prospettiva, ancorché non meglio specificata, di una Trieste sempre coerente «nella gelosa custodia della sua fisionomia e nell’immutabile fede nel suo destino», dove sembra echeggiare quella «mitizzazione irredentistica»24 del passato di una città che si vorrebbe italiana ab origine e naturaliter. Non per nulla Attilio Tamaro25 sentirà di dover concluderà la sua emblematica Storia 21 Ha caratterizzato molto bene le peculiarità del Liceo ginnasio comunale della Trieste asburgica A. Quercioli, in Giovani irredenti nelle università italiane 1880-1915, in «Passato e presente», n° 77, maggio-agosto 2009. Utilissimo per cogliere l’accesa temperatura patriottica del corpo degli insegnanti italiani della scuola triestina, che, «con una non celata critica ai partiti politici, si attribuiva[no] il ruolo di difensor[i] della nazione» (p. 65), V. Caporella, Le associazioni degli insegnanti italiani a Trieste e l’identità linguistico-nazionale alla vigilia della Prima guerra mondiale, in A. Vinci, a cura di, Grande guerra e scuola, «Qualestoria», Trieste, giugno 2015. 22 Così Damiani, in una breve nota storica che è utile riportare: «Il ginnasio è stato aperto alla frequenza il 6 ottobre 1863 con una popolazione di 199 alunni dei quali 182 di nazionalità italiana e complessivamente 60 di religione ebraica […]. Soppresso nel 1915 e per tutto il tempo della guerra il Ginnasio fornisce quasi 400 dei poco più di mille volontari giuliani che nella prima guerra indossano la divisa italiana, con una punta di 18 tra i 32 maturati del 1913, cioè della classe d’età di Carlo Stuparich […]» (Damiani, cit., pp. 25-26). 23 Stuparich, Scipio Slataper, cit., p. 34. 24 Per questa ormai insostenibile visione del passato cfr. G. Cervani, Gli «Appunti alla storia di Trieste» di Fabio Cusin ed il problema storico del particolarismo triestino, in Cusin, Appunti alla storia di Trieste, Del Bianco editore, Udine, 1983, p.35, oltre ai capitoli di riflessione storiografica di C. Ghisalberti (Adriatico e confine orientale dal Risorgimento alla Repubblica, ESI, Napoli 2008), che offrono una prima ma sostanziosa messa a fuoco di quei problemi di interpretazione della storia triestina, nel dibattito degli storici e dei politici, che richiederebbero, a volerli esaurire, un volume a sé. 25 A. Tamaro, Storia di Trieste (1924), Edizioni Lint, Trieste 1976. Con illuminante introduzione di G. Cervani, La «Storia di Trieste» di Attilio Tamaro – Genesi e motivazioni di una storia. Per un profilo

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di Trieste (1924) – emblematica perché interprete del senso comune dell’élite irredentistica di fede nazional-liberale – con l’episodio dell’annessione della città all’Italia. La piccola storia cittadina – storia minima ma gloriosa, così nel mito localistico, di un’italianità di confine di discendenza romana capace di resistere e di affermarsi nei secoli contro ogni sfida – confluisce allora in quella italiana. Doppio coronamento: dell’unità nazionale per la patria; del destino da sempre italiano per la città adriatica. Comunque, al di là delle nebbie della mitizzazione, ciò che appare assolutamente degno di fede, pur nella genericità di ricordi autobiografici sfrangiati di nostalgia (e qui entra in gioco, più che Cuore adolescente, Trieste nei miei ricordi), è la sottolineatura da parte di Stuparich del doppio etimo della propria Weltanschauung; messa a fuoco degna di fede perché collima perfettamente con l’intonazione dei saggi storicocivili apparsi sulla «Voce». E si tratta, per anticipare ciò su cui dovremo alquanto diffonderci, del mazzinianesimo e del socialismo. 26 Che del primo risuonassero a Trieste, soprattutto negli ambienti più intemperanti dei giovani irredentisti, echi più che sostanziosi è tema storiografico sufficientemente acclarato: lo stesso Stuparich delucidando, in un lungo passo di Trieste nei miei ricordi che varrebbe la pena citare intero, di quali fermenti e nutrimenti si alimentasse l’intensa vita politica della sua popolazione italiana, menziona, fra i principali raggruppamenti politico-ideologici (austriacanti, liberali e socialisti), «il piccolo gruppo dei repubblicani che nel programma sociale si avvicinavano ai socialisti, ma politicamente erano irredentisti fervidi e sinceri: prima di tutto anche a Trieste l’Italia di Mazzini e poi la fratellanza dei popoli». 27 Quindi, personalizzando l’analisi, racconta che «la parte passionale della mia natura mi port[ò] ad affiatarmi col gruppo repubblicano: i miei amici erano repubblicani, leggevo l’«Emancipazione» e frequentavo il caffè Edera». 28 «L’Emancipazione», bisogna spiegare, era un foglio settimanale di ispirazione progressista (bimensile dal luglio 1912 e destinato poi a interrompere la pubblicazione della prima serie con un numero di congedo il 16 del mese seguente), apparso nel panorama pubblicistico triestino a partire dal 1 maggio della personalità e dell’attività del Tamaro, non viziato da provinciale condiscendenza, vedi L. Monzali, Tra irredentismo e fascismo. Attilio Tamaro storico e politico, in «Clio», 1997, n° 2. 26 Ricca la bibliografia sul socialismo di lingua italiana nel Litorale austriaco. Si dovranno vedere almeno: Maserati, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla Prima guerra mondiale, Giuffré ed., Milano 1973; G. Piemontese, Il movimento operaio a Trieste (in parte già edito nel 1961 /Dalle origini alla fine della prima guerra mondiale/), Editori riuniti, Roma 1974; Apih, Il socialismo italiano in Austria, Del Bianco ed., Udine 1991; Cattaruzza, Socialismo adriatico – La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica: 1888-1915, Lacaita editore, Manduria-Bari-Roma, 2000; S. Rutar, Kultur, Nation, Milieu: Sozialdemokratie in Triest vor dem Ersten Weltkrieg, Klartext, Essen 2004. Costeggia questo tema, con fondamentali rilievi socio-ideologici, il già citato M. Cattaruzza, La formazione del proletariato urbano a Trieste. 27 Stuparich, Trieste nei miei ricordi cit., p. 53. 28 Ibidem

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1906, e subito diventato – in quanto organo di un minuscolo partito di tendenza repubblicana formatosi a Trieste nel primo decennio del ‘900 e di cui già si è fatto parola: la Democrazia Sociale Italiana29 – fucina di fede patriottica e di principi etico-politici di orientamento mazziniano. E in effetti la tradizione mazziniana aveva in città radici profonde e vigorose, se già in occasione dei fatti del 1868, il primo sanguinoso faccia a faccia tra cittadini di sentimenti italiani e milizia territoriale slovena, gli atti del processo registrano le simpatie degli imputati non per l’Italia ufficiale, ma piuttosto per quella dei «Mazzini, Garibaldi e consorti». 30 E se, come è stato documentato, gran parte delle società triestine di mutuo soccorso, fiorite nell’ultimo Ottocento prima delle riscossa socialista successiva al congresso di Hainfeld (1889), aderivano allo «spirito del cooperativismo mazziniano». 31 Legati inizialmente al partito liberal-nazionale (di cui anzi avevano costituito l’ala sinistra, la frazione più impegnata e attiva) – espressione della borghesia cittadina, e presidio tanto dell’italianità che di un geloso potere di classe –, i mazziniani non «aveva[no] esitato a unirsi ai socialisti nella battaglia per i diritti democratici di partecipazione alla vita politica», 32 propiziando quella concessione del suffragio universale maschile («legge non a caso avversata in parlamento dai deputati triestini»33) che avrebbe caratterizzato 29 Così in forma completa l’abbozzo di programma stilato per l’adunanza costitutiva della Democrazia Sociale Italiana, che avrà luogo nella giornata di domenica 7.I.1907, citato succintamente a p. 18, nota 48: «mentre la riforma elettorale riconosce finalmente al popolo il diritto d’occuparsi della vita politica; mentre il governo di Vienna compie più intensamente che mai l’opera sua di snazionalizzazione dei nostri paesi; e al Comune un partito di classe e moderato, incontrollato amministra la cosa pubblica; e un solo partito dirige la maggior parte delle organizzazioni economiche imprimendo a queste un carattere politico che esse non devono assolutamente avere; mentre i due partiti, liberale e socialista, con programmi unilaterali, separano le due grandi questioni, nazionale e sociale, che – come insegna Mazzini – non sono che due forme assunte da una questione sola, di quella cioè che riguarda la trasformazione dell’autorità; è necessario che la Democrazia raduni in forte fascio quella parte numerosa di cittadini lavoratori coscienti e giovani generosi, che intendono il pensiero moderno, e pensano che la trasformazione democratica, con le più alte finalità di redenzione sociale, debba essere anche qui assecondata e promossa tanto negli istituti politici e amministrativi, quanto nei rapporti fra capitale e lavoro». 30 Cit. in G. Negrelli, Al di qua del mito – Diritto storico e difesa nazionale nell’autonomismo della Trieste asburgica, Del Bianco, Udine, 1978, p. 135. Bisognerà aggiungere che il repubblicanesimo triestino dell’ epoca asburgica, solo sfiorato fino a ieri dalla riflessione sul mazzinianesimo italiano in età monarchica (cfr. per es. G. Macchia, L’irredentismo repubblicano, in «Rassegna storica toscana», 1971, n° 2, e G. Spadolini, I repubblicani dopo l’unità, Le Monnier, Firenze 1980 – IV ed. accresciuta) o dalle ricerche sull’austro-marxismo (cfr. per esempio E. Maserati, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla prima guerra mondiale, cit.), è stato recentemente oggetto di un chiarificante contributo di F. Todero, Appunti per una storia dei repubblicani nella Venezia Giulia tra questione sociale e questione nazionale 1906-1922, in L. Nuovo e S. Spadaro, a cura di, Gli italiani dell’Adriatico orientale. Esperienze politiche e cultura civile, LEG, Gorizia, 2012. 31 Maserati, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla prima guerra mondiale, cit., p. 52. 32 Millo, Un porto fra centro e periferia (1861-1918), cit., p. 220. 33 Ibidem.

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le elezioni del 1907. 34 Ed erano scesi quindi anch’essi nell’agone, per contendere ai socialisti il voto popolare. La cellula mazziniana ed il suo battagliero settimanale non erano ovviamente passati inosservati a chi scrutava la realtà cittadina con partecipe attenzione e vigile spirito critico: «L’Emancipazione» viene citata con favore da Scipio Slataper, sia pure nello spazio di poche righe («Si sente in lei sola dei nostri giornali l’ansia bollente d’un entusiasmo, la fede di una gioventù. In lotta contro l’indifferenza»35) e con una certa aristocratica asprezza invece, sulla «Voce» di un anno dopo, da Alberto Spaini, incline per natura al pragmatismo e di conseguenza ostile ad ogni forma di “politica del cuore”: Le idee che animarono i capi mazziniani sono le più adatte a far naufragare ogni tentativo di azione, sin dai suoi primi passi. Il dogma più assoluto: pensieri dei loro maestri estratti a casaccio dagli scritti […] affastellamento di utopie, da Mazzini a Bovio, accolte senza nessuna critica […] intransigenza da apostoli […] adorazione intensa per tutto quanto è tradizione e retorica: San Marco, Roma con le sue aquile e le sue legioni, i liberi comuni italici, Legnano, la rivoluzione francese, Mentana.36

Toni aspri e solo in parte giustificati. Sfugge a Spaini il valore attivistico dei miti nella società delle masse (un tema su cui andava allora esercitandosi l’intelligenza di Sorel e di meno prestigiosi politologi) rendendogli così incomprensibile la straordinaria forza d’impatto del formulario patriottico che «L’Emancipazione» squaderna in pagine di vivacità esuberante: parole d’ordine da far echeggiare nell’anima, a prescindere dal loro quoziente di realismo politico. Per certi aspetti cruciali «L’Emancipazione» è un giornale infatti già decisamente “post-liberale”: non fa appello alla capacità di giudizio, ma mira piuttosto a convincere il lettore toccandolo nel sentimento con slogan trascinanti, con il richiamo alle imprese 34 Così un illustre politologo italiano sulle elezioni del 1907, svolta cruciale – non lo si sottolineerà mai troppo – della politica e della società asburgica: «il fatto nuovo cui dà luogo sul piano parlamentare l’estensione del diritto di voto è l’emergenza, e la subitanea affermazione, dei gruppi socialdemocratico e cristiano-sociale. Anche se alcuni deputati sono stati eletti sotto le due etichette fin dal 1896, è con il 1907 che detti gruppi si espandono tanto da divenire numericamente i più forti della camera bassa. Tuttavia questa forza numerica non si traduce in positiva influenza parlamentare, in una fase storica in sui l’esasperazione delle pratiche ostruzionistiche provoca l’irrigidimento dell’imperatore, che accentua la tendenza a governare per via di decreti, rendendo così il parlamento vieppiù impotente» (D. Fisichella, Elezioni e democrazia – Un’analisi comparata, il Mulino, Bologna 2008, I ed. 2003, p. 40). Da vedere, ancora su quelle elezioni: W. A. Jenks, The Austrian Electoral Reform of 1907, Columbia University Press, New York 1950, che ne evidenzia energicamente il limite: «il suffragio universale maschile, in quanto imposto a uno stato che perseverava in una politica di centralizzazione delle funzioni di governo nonostante sempre più forti richieste di autonomia, non aveva alcuna vera possibilità di successo [relativamente alla crisi austriaca NdA]» (pp. 209-210. Traduzione mia); e, di particolare interesse perché relativo al caso triestino, E. Winkler, Wahlrechtreform und Wahlen in Triest, Oldenburg, München 2000. 35 Slataper, Lettere triestine, in Id., Scritti politici, cit., p. 48. 36 Spaini, I mazziniani a Trieste, in «La Voce», 15.12.1910. Ora in Baroni, Trieste e «La Voce», IPL, Milano 1975, pp. 152, 158 passim.

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eroiche del patriottismo risorgimentale, in ispecie repubblicano, con l’esempio dei martiri della fede mazziniana: mettendo in opera insomma tutte le “figure” più tipiche e coinvolgenti del «discorso nazionale». 37 Del resto, a conferma della particolare natura sentimentale e fideistica del mazzinianesimo triestino può valere la constatazione che lo stesso Stuparich, ai cui occhi Mazzini è il più alto garante dell’agire politico, non abbia mai sentito il bisogno di articolare una riflessione sul proprio maestro più approfondita di qualche breve passo traboccante di passione, se si esclude il corso monografico dedicatogli all’Università di Praga nel primo dopoguerra – ma non ce ne resta nemmeno un appunto – e andato inevaso il proposito, manifestato a Salvemini nel 1922 di studiare l’evoluzione del suo pensiero;38 per dirla altrimenti una fede mazziniana che non promana in Giani da razionali messe a fuoco operate nel quadro di un lucido percorso intellettuale di analisi e ricerca ma, almeno nel suo nucleo fondante, da uno slancio di entusiasmo patriottico, impulso e passione più che processo di elaborazione discorsiva. Cifra identitaria che resterà per sempre indelebile, nutrita di solide conoscenze dirette degli scritti del Genovese ma, ribadiamo, mai veramente arricchita da incisive e sistematiche elaborazioni ideologico-intellettuali, tale da costituire più che un’articolata cultura politica un inalienabile patrimonio di coscienza. A onor del vero, possiamo aggiungere che Spaini, per quanto incapace di cogliere il nesso tra il caldo entusiasmo dei fedeli e i toni coinvolgenti del loro Vangelo, non nega qualche merito ai repubblicani di Trieste: «pur non riuscendo a nulla di pratico», spiega, «essi ottengono tuttavia di tener desto lo spirito irredentista e bisogna applaudire alla loro fede ed alla loro abnegazione». 39 Fin dalla sua fondazione «L’Emancipazione» si era infatti adoperato per diffondere gli ideali patriottici e sociali di Mazzini contrapponendosi da un lato a un socialismo considerato affetto da sclerosi burocratica, rinunciatario rispetto ai valori nazionali e ipocritamente abbarbicato al dogma della lotta di classe (lasciato però cadere nella pratica politica, tanto da risultare, e non solo ad occhi pregiudizialmente polemici, sostanzialmente ‘imborghesito”, vale a dire vittima dell’«equivoco», lo ha suggerito Vivarelli a proposito di Kautsky e Turati, «già presente nel programma di Erfurt, della forzata coabitazione fra programma minimo e mito socialista»40); dall’altro al partito liberal-nazionale, la forza egemone in città, di cui si metteva in rilievo – con contraddittorio serrato e intransigente – lo spirito socialmente conservatore e l’ambiguità di una politica nazionale tanto rigorosa a parole quanto disponibile nei fatti (e per comprensibili ragioni di portafoglio) al compromesso con le autorità austriache. Venivano invece energicamente riaffermati i valori della

37 Per queste tematiche (e per il senso della formula virgolettata) si veda A. M. Banti, La nazione del Risorgimento - Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, cit. 38 Cfr. Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p.119. 39 Spaini, I mazziniani a Trieste, in Baroni, Trieste e «La Voce», cit., p. 156. 40 R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, II, il Mulino, Bologna 1991, p. 264.

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nazione, del repubblicanesimo, del laicismo, si chiamava alla difesa dell’italianità est-adriatica contro ogni tentativo di snazionalizzazione (andando così a trovarsi spesso a fianco della Lega nazionale), si chiedevano l’università italiana a Trieste e la creazione di Camere del Lavoro a-partitiche, espressione degli interessi di categoria dei lavoratori e capaci di contrastare l’egemonia socialista sul proletariato e la piccolissima borghesia. Del resto non va dimenticato che proprio in questo lasso d’anni inizia a svolgersi per merito di Weber, Michels, ecc. di un’ampia riflessione europea sulle tendenze oligarchiche insite nelle organizzazioni politiche di massa, viste come conseguenza della burocratizzazione e della “cristallizzazione” dei loro gruppi dirigenti: vizi che sembravano tutti rappresentati nella forte e radicata compagine, ormai parlamentare e legalista, del socialismo internazionalista e che pertanto chiamavano piccole minoranze vivaci come la pattuglia dei repubblicani triestini a forme di “riscossa democratica”. Fra le armi propagandistiche più efficaci, facile esca per il fuoco di entusiasmo dei giovani che gravitavano intorno alla D.S.I. (molti dei quali nomi di spicco nelle future vicende triestine), il richiamo fervido e pressoché costante a Mazzini, a Garibaldi, agli eroi più famosi ed agli episodi più fulgidi del Risorgimento (la Repubblica romana, per esempio, «la sintesi più pura, più grande di tutta la lotta nazionale, ma anche esempio immortale di governo popolare, giusto, libero», cfr. «L’Emancipazione», 6.II.1909), e la ferma sottolineatura tanto delle ingiustizie che gli italiani d’Austria dovevano subire da parte di un Governo imperial-regio considerato pregiudizialmente ostile, quanto della minaccia rappresentata per l’italianità adriatica dal risveglio delle nazioni slave: «nell’Adriatico e nei Balcani» chiariva un corsivo dell’«Emancipazione» in polemica con N. Colajanni, che aveva sostenuto che la presenza slava sull’Adriatico avrebbe potuto utilmente controbilanciare il pan-germanesimo: non vi sono tedeschi se non in quanto vi sia l’Austria e l’aumento dei sudditi austriaci slavi va unicamente a svantaggio dell’elemento etnico italiano, nelle cui terre essi sudditi slavi si vanno infiltrando e vi godono gli stessi diritti di cittadinanza degli indigeni, mentre gli italiani che vengono d’oltre il confine politico non possono esercitare alcuna azione neutralizzante perché privi di tali diritti («L’Emancipazione», 7.I.1908).

E tutto ciò nel nome di ideali nazionali visti non in antitesi ma come necessaria premessa al progetto della fratellanza dei popoli: Siamo dunque noi forse contro l’internazionalismo? […]. No. Mazzini nei suoi Doveri dell’uomo lo pone come primo fra i doveri verso l’umanità […]. Ma egli afferma che senza patria non è possibile compiere la nostra missione, poiché la patria è il punto di appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio comune («L’Emancipazione», 2.I.1909).

Se veniamo poi al socialismo, l’altra fonte alla quale Giani Stuparich appaga la sua sete morale e intellettuale di cittadino consapevole e attivo, andrà premesso che la riflessione austro-marxista in cui esso declina la sua più specifica identità asburgica, stava ponendo al centro dell’elaborazione teorica proprio il problema nazionale. Fin

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troppo ovvio, si dirà, in una compagine statuale tanto etnicamente frammentata quanto sottoposta lungo le linee di faglia dei confini etnici a una lenta deriva centrifuga e, per di più, in una situazione in cui una burocrazia ministeriale poco lungimirante – e, nelle intenzioni almeno, autocratica – cavalcava i conflitti invece di attenuarli (come metteva in rilievo la formula politica del ministro Taafe, poi posta ampiamente in atto anche dai successori: «mantene[re] tutte le nazionalità della monarchia in una condizione di eguale e ben concertato malcontento»41). E in effetti fin dalla metà dell’Ottocento proprio in Austria questo tema aveva acquisito una particolare attualità: si consideri solo Ludwig Gumplowicz – studioso destinato, grazie alla mediazione francese, ad una rapida notorietà anche in Italia42 –, il quale, nel Rassenkampf del 1883, opera che conclude parecchi decenni di studi e riflessioni, individuava darwinisticamente nell’eterna lotta delle razze la legge fondamentale della storia, pronosticando un futuro europeo di aspri conflitti fra popoli germanici, latini e slavi come premessa per la formazione di un «einziges europäisches Culturgebiet, eine einzige europäische Rasse». 43 Ogni novità, è ovvio, stenta inizialmente ad affermarsi, tanto più che i padri fondatori del movimento socialista, Marx e Engels – dei quali gli studiosi ricordano sempre la famosa dichiarazione che «gli operai non hanno patria» – non avevano riconosciuto la cruciale importanza del tema nazionale per il futuro europeo. Eppure in Austria era la stessa realtà dei fatti a rendere improrogabile una riflessione in tal senso: «nella tradizione socialcomunista», chiarisce Alessandro Campi cui si rimanda per una prima messa punto del problema, «la svolta si sarebbe avuta sul finire dell’Ottocento, solo con gli scritti di Karl Kautsky e successivamente con quelli di Otto Bauer». 44 Così, se nel programma della socialdemocrazia austriaca votato al Congresso di Hainfeld (1889) non c’è ancora traccia della questione nazionale, al congresso di Vienna del giugno 1897, «sotto la pressione delle minoranze nazionali, in primo luogo dei cechi, ma anche degli sloveni, e poi dei galiziani polacchi e dei ruteni ucraini, la socialdemocrazia austriaca, per salvare il partito dalla disintegrazione, abbandona la sua struttura centralizzata per un’organizzazione federale che raccoglie sei sezioni autonome, tedesca, ceca, rutena, polacca, italiana e slovena». 45 Da questo momento, e con solenne sanzione nel successivo Congresso di Brno/Brünn (1899) il problema nazionale, come si è già anticipato, sarebbe 41 Citato in C. A. Macartney, L’impero degli Asburgo 1790-1918, Milano, primo l'editore Garzanti, 1976, p. 703. 42 Su questo tema, e su altri stimoli che consegna al futuro l’ultimo Ottocento utilissima la ricognizione di L. Mangoni, Una crisi fine secolo – La cultura italiana e la Francia tra Otto e Novecento, Einaudi, Torino, 1985. 43 L. Gumplowicz, Der Rassenkampf, Wagnerschen Universität Buchhandlung, Innsbruck 1883, p. 345. Così la traduzione: «un solo spazio culturale europeo, una sola razza europea». 44 Campi, Nazione, cit., pp. 148, 149 45 R. Gallisot, Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio, in AA.VV., Storia del marxismo, II, Il marxismo nell’età della Seconda internazionale, Einaudi, Torino, 1979, p. 828.

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diventato uno dei baricentri della riflessione austro-marxista, 46 nel tentativo di esorcizzare, canalizzandoli, i più accesi fermenti nazionalistici e di smorzare quegli antagonismi che inquinavano la società civile e che paralizzavano la vita politica della monarchia danubiana, fornendo un alibi perfetto all’esecutivo per governare a colpi di decreti, in virtù di quel paragrafo 14 della Costituzione che tendeva a trasformare il Parlamento, così nella pubblicistica dell’epoca, in un «teatrino di scimmie». 47 «Nella lotta contro l’imperialismo», scriveva Otto Bauer in quella Questione della nazionalità e socialdemocrazia (1907) che rappresenta, insieme alla Lotta delle nazionalità austriache per lo Stato (1902) di Karl Renner, uno dei più originali contributi teorici del marxismo austriaco, «è adesso la classe operaia a scrivere sulle proprie bandiere le grandi rivendicazioni della libertà, unità e autodeterminazione delle nazioni». 48 Inutile aggiungere quanto acceso diventasse subito il dibattito intorno a temi considerati non a torto vitali per la sopravvivenza dell’impero, in una fase fortemente dinamica della sua storia contraddistinta dall’impetuoso e irrefrenabile risveglio delle cosiddette “nazioni senza storia”, quelle che Engels, sulla «Neue Rheinische Zeitung», aveva frettolosamente condannate all’assimilazione: dibattito destinato a esprimere, fin dall’elaborazione della “piattaforma” di Brno, una tale complessità (perché sottoposto a contrapposte tensioni e volontà egemoniche politiche e nazionali) da apparire perfino contraddittorio49 nei suoi altalenanti richiami ora ai temi dell’autonomia territoriale ora ai diritti linguistici e culturali dell’individuo; e purtuttavia capace di messe a fuoco assai produttive, sia per quanto riguarda, per esempio, l’idea di nazione (intesa da Otto Bauer come «comunità di destino», in uno sforzo di arricchimento dei parametri semplicemente o prevalentemente etno-linguistici proposti dai movimenti nazionalistici, e che andava deliberatamente a togliere terreno sotto i piedi ad ogni fondamentalismo della lingua e della razza), sia in relazione al diritto individuale di “vivere” pienamente la propria appartenenza nazionale, soprattutto nelle sue implicazioni culturali (un tema particolarmente caro a Karl Renner, che avanza la proposta «estremista [di] considerare la nazionalità un attributo personale»50). Per cui, quand’anche si volessero sottoscrivere certe accuse di velleitarismo mosse a questo progetto politico tanto dai contemporanei quanto dalla storiografia

46 Un rapido profilo in Cattaruzza, Il problema nazionale per la socialdemocrazia e per il movimento comunista internazionale, in Ead. (a cura di), La nazione in rosso. Socialismo, comunismo e “questione nazionale”1889-1953, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. 47 Vedi H. Rumpeln, Parlament und Regierung Cisleithaniens 1867 bis 1914, in particolare il capitolo Das Scheitern der Parlamentarier 1895 bis 1914, in A. Wandruszka e P. Urbanitsch (a cura di), Die Habsburgermonarchie 1848-1918, vol. VII, Verfassung und Parlamentarismus, tomo I, Verfassungswirklichkeit und zentrale Repräsentativkörperschaften, Vienna, 2000. 48 O. Bauer, La questione nazionale, Editori riuniti, Roma 1999, p. 159. 49 Così Gallisot, cit., p.830. 50 G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, III, La seconda internazionale 1889-1914, cit., p. 44.

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dei nostri giorni,51 non siamo autorizzati, credo, a sottovalutare la provocatoria propositività che espresse, ai suoi tempi, l’ipotesi austro-marxista di un riassetto istituzionale dell’Impero in senso federale (tanto che, quando ormai era tardi, anche l’ultimo imperatore vi vide la soluzione di emergenza per salvare il salvabile, e ci riferiamo al proclama di Carlo d’Asburgo del 16 ottobre 1918), un programma di cui rimane ancora utilmente attuale, in epoca di globalizzazione, la messa in guardia nei confronti delle «mistificazioni dei nuovi universalismi insofferenti della diversità»;52 il messaggio che Arduino Agnelli, cui si deve la più ricca analisi del problema in lingua italiana, ha voluto esplicitare mettendo in rilievo la conclusione della prefazione alla II edizione della Questione delle nazionalità: «non livellare le particolarità nazionali, ma produrre l’unità internazionale nella varietà nazionale può e deve essere il compito dell’Internazionale».53 Di tutto ciò non poteva ovviamente mancare una forte eco nel socialismo triestino: si coglieva nella multietnica Trieste, meglio forse che altrove, l’opportunità di pacificazione del conflitto etnico che poteva provenire dalla positiva acquisizione delle più aggiornate riflessioni sulla questione nazionale: una “teorica di emergenza”, non originalmente rielaborata in sede locale ma assunta come sfondo del tentativo di conciliazione delle diverse anime etno-linguistiche della città, per impedire che la società triestina scivolasse, come poi accadde, verso il baratro di conflitti apertamente dispiegati. «Il Lavoratore», l’organo del partito socialista triestino scriveva a questo proposito il 21 maggio 1904: noi socialisti crediamo fermamente che il problema della coesistenza molteplice delle varie razze in uno stato come l’Impero austro-ungarico è suscettibile di una sola e inevitabile soluzione, quella della federazione delle varie nazionalità rese amministrativamente autonome, arbitre, in casa loro, del governo dei destini locali e congiunte politicamente soltanto da quei vincoli che necessariamente devono congiungere i rapporti dei vari aggregati a quelli dello Stato centrale.54

Parole chiarissime; alle quali dava un’eco ufficiale di risonanza non solo locale il Convegno internazionale del Partito socialista dei paesi dell’Austria tenutosi a Trieste il 21 e il 22 maggio dell’anno seguente,55 particolarmente attento, e non certo per ragioni opportunistiche, alle problematiche del federalismo. Un’occasione di incontro e di discussione cui dobbiamo dedicare un certo spazio: lascia un segno indelebile nel socialismo adriatico rendendolo capace di affrontare con modernità di progetti quelle tematiche che l’irredentismo agitava facendone motivo di 51 N. Merker, Introduzione a Bauer, La questione nazionale, cit. Spec. p. 19. 52 A. Agnelli, Questione nazionale e socialismo, il Mulino, Bologna, 1969, p. 245. 53 Ibidem. 54 Cfr. Per l’università italiana, «Il Lavoratore», Trieste, 21.V.1904. 55 Per una attenta disamina dei principali temi del Convegno cfr. Cattaruzza, Il socialismo di lingua italiana in Austria, cit., pp. 83 e segg.

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scontro etnico, e contribuisce a spiegare le ragioni di fondo dell’interesse per il socialismo di Stuparich e, insieme a lui, di molti triestini insoddisfatti della piega di «nazionalismo morboso»56 che stava prendendo in città la sfida nazionale. Detto ciò, non stupirà che, constatando la necessità di «considera[re] l’autonomia nazionale come presupposto alla libertà di sviluppo di ciascun popolo, conformemente al programma di Bruna», 57 si scegliesse, nel convegno triestino, di inserire il tema nazionale nell’agenda del dibattito congressuale. E in quel dibattito, senza nulla concedere alle più estreme posizioni irredentistiche («io metto in dubbio che Trieste aggregata all’Italia possa mantenere la sua attuale importanza di sbocco dei paesi che compongono l’Austria»), ma sostenendo, anzi, forme di solidarietà nazionale che prescindessero dall’unione politica («noi viviamo solidalmente col popolo italiano, mentre siamo legati da interessi politi economici con altri paesi e con altre nazionalità»), Valentino Pittoni, 58 il dirigente di maggior spessore del socialismo triestino, avrebbe concluso il suo intervento con un ideale collegamento con il congresso moravo, rivendicando «agli italiani di Trieste e della regione» il diritto di poter sviluppare la loro cultura nazionale [posto che] per noi la nazionalità non è mezzo di speculazione ma di progresso, non è fine a se stessa, ma mezzo di progresso umano.59

I contributi del Convegno sono riassunti, nell’essenziale, nei due numeri del «Lavoratore» – ancora «organo trisettimanale» – del 22 e del 23 maggio 1905: ampia relazione dei lavori congressuali che si chiudono con una «risoluzione impegnativa» del comitato ristretto, dove vengono accolte molte delle proposte di Pittoni. Poco lo spazio e troppe le osservazioni da fare. Tuttavia pur rispettando l’esigenza di stringatezza, impossibile non dedicare una piccola parentesi per evidenziare ciò che già emerge con sufficiente chiarezza dalle parole di Pittoni: la convergenza della problematica nazionale, il tema più caldo ed attuale, e dei valori internazionalisti del partito operaio. In quest’ottica significativo il contributo dello sloveno Etbin Kristan che riconosceva, facendosi portavoce dei «lavoratori slavi», il «diritto degli italiani ad avere l’università italiana a Trieste», perché, così il resoconto: non ritiene essere questo un pericolo per gli sloveni, né per il loro sviluppo nazionale ed economico, poiché della coltura italiana molto si può apprendere e nulla temere. 56 Così G. Martinuzzi, una delle figure più limpide e degli spiriti più combattivi del socialismo del Litorale, che aggiungeva: «di quest’ultimo è infetta tutta l’Austria». Cfr. G. Martinuzzi, Nazionalismo morboso e internazionalismo affarista, Tip. Brunner, Trieste 1911. Ora in M. Četinja, Giuseppina Martinuzzi, Documenti del periodo rivoluzionario (1896-1925), Naučna Biblioteka/ Biblioteca Scientifica, Pola 1975, p. 217. 57 AA.VV., I convegni socialisti di Trieste, Valentino Pittoni Editore, Trieste 1905, p. 12. 58 Su Pittoni vedi Apih, Il socialismo italiano in Austria, cit. 59 AA.VV., I convegni socialisti di Trieste, cit. Qui p. 38, in precedenza pp. 37 e 34.

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Dice che se un’università italiana a Trieste facesse scomparire la nazione slovena sarebbe meglio fare subito fagotto ed andarsene da queste provincie, perché vorrebbe dire che la nazionalità slovena non avrebbe in sé alcuna vitalità (applausi).60

Un discorso di cui non sfuggirà, prima ancora che Slataper ne inventi la formula e Stuparich ne assimili il concetto, una marcata impronta di «irredentismo culturale»: rispetto per ogni nazionalità, in primo luogo per quelle compresenti sullo stesso territorio, cui si offrono garanzie di libero sviluppo sul piano culturale, economico, sociale, in una sfida leale aliena da secondi fini di sopraffazione. C’è un altro contributo, tuttavia, al Congresso socialista del 1905, da cui è impossibile prescindere: quello di Leonida Bissolati, 61 ospite al Convegno insieme a Enrico Ferri, uno dei deputati socialisti italiani più noti e attivi a Trieste. Bissolati sarà, come sappiamo, figura di riferimento, negli otto mesi della neutralità e negli anni della guerra, di quel fronte di interventisti di sinistra che va sotto il nome di «interventisti democratici», fra i quali, per ragioni ideologiche e morali, è giocoforza comprendere Giani Stuparich. E comincia infatti ad annunciarsi qui, al Convegno triestino del 1905, nell’infoltirsi di germi destinati a maturare, quella rotta che porterà Bissolati alla collisione aperta con la linea egemone del partito socialista, pacifista ad oltranza, e quindi a schierarsi, una decina d’anni dopo, per l’intervento. «I socialisti italiani e dei paesi dell’Austria», chiarisce nella prima giornata dei lavori: contrariamente alle insinuazioni calunniose stilate dalla malafede nazionalista, non credono che per giungere al concetto dell’Internazionale si debba passare, calpestandolo, su quello del sentimento nazionale. Noi vogliamo organizzare la tutela democratica dei diritti nazionali, accioché questi siano preservati dalle sopraffazioni e non offrano più oltre, con le lotte che ne derivano tra le stirpi, il punto d’appoggio all’imperversare del dispotismo (applausi). Noi siamo venuti a Trieste ad affermare che respingiamo le soluzioni guerresche dei problemi nazionali, i quali vanno risolti dallo sforzo concorde dei popoli, che noi, in nome dell’idealità che ci anima, dobbiamo suscitare gagliardo.62

Quindi, in un intervento successivo: ieri, assistendo alla discussione, noi abbiamo compreso che le origini della calunnia nazionalista sono tutte nella lotta di classe, che schiera la borghesia nazionalista contro il proletariato socialista. […] Noi avremmo desiderato la presenza dei socialisti della Germania in questa discussione. Essi ci hanno telegrafato associandosi a tutto ciò che noi affermeremo contro lo sciovinismo e contro il militarismo. Ma sarebbe stato bene che essi fossero venuti qui a garentire con la loro firma sotto quella dei compagni austriaci nella nostra lotta contro ogni sciovinismo, compreso quello pangermanista (Vivi applausi) e contro ogni aberrazione militarista, compresa 60 «Il Lavoratore», Trieste, 22 maggio 1905. 61 Per il complesso percorso ideologico-politico di uno degli indiscussi protagonisti del socialismo italiano, si dovrà vedere almeno R. Colapietra, Leonida Bissolati, Feltrinelli, Milano 1958. 62 «Il Lavoratore», Trieste, 22 maggio 1905. Corsivi nel testo.

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quella del militarismo germanico, che addensando una minaccia contro la Francia, mette la Triplice, e quindi anche l’Italia, sulla via di una possibilità guerresca (Bravo. Applausi).63

Ipersensibilità dunque, e pour cause come dimostrerà la storia, allo sciovinismo tedesco e attenzione alle forme di lotta di classe che alimentano il nazionalismo. Secondo un’analisi – qui nemmeno tentata nello schematismo di una contrapposizione che puzza di catechismo marxista – di cui offre campioni ben più sofisticati Gaetano Salvemini64 e, all’ombra di San Giusto, Angelo Vivante, con le acutissime osservazioni di Irredentismo adriatico. Non andremo fuori tema sottolineando come Stuparich tenesse ben presente questo approccio nella fase d’anteguerra del suo impegno di scrittore civile, prima cioè che la conversione idealistica (nel segno di Gentile e di Croce, i grandi protagonisti della «complessa e contraddittoria temperie idealistica»65 che andava imponendosi su un positivismo fragile fin dall’origine) cancellasse dalla produzione saggistica degli anni ’20 ogni suggestione marxista (e con essa quell’attenzione alle articolazioni della dialettica socio-economica, oltre che nazionale, che gli permette di far vivere, sullo scacchiere delle sue interpretazioni, non solo gli ideali ma anche gli interessi, tenendo presente la concretezza storica di gruppi umani che crescono, si organizzano, lottano fra loro). È infatti nel fervido laboratorio etico-politico del repubblicanesimo e dell’austro-marxismo che egli tempera quella fine sonda intellettuale che nella Nazione czeca (1915) gli permetterà di comprendere l’importante ruolo della «giovine borghesia industriale e commerciale, che vien su allevata dal primo capitalismo», 66 visto che è «il capitalismo, inteso come concetto che inchiude una quantità di diversi fattori» che «attrae alla superficie della civiltà […] le nazioni senza storia […] negli stati misti», 67 suscitando però nel contempo la «lotta [di] borghesie nazionaliste per la sicurezza e il dominio». 68 E che quindi, sullo sfondo di interessi nutriti di personali implicazioni intellettuali e morali, da triestino che pensa alla Boemia e vede in controluce la Venezia Giulia, lo renderà capace di riconoscere il ruolo dei ceti medi, i veri protagonisti nella società imperiale dei conflitti nazionali: si sa che [in Austria] ci sono certe categorie di gente le quali traggono tutti i vantaggi dall’indebolimento della nazione concorrente e dal prevalere della propria, e sono la

63 «Il Lavoratore», Trieste, 23 maggio 1905. Corsivi nel testo. 64 Cfr. i già citati contributi salveminani su «Critica sociale» del 1909, ora in Irredentismo, questione balcanica e internazionalismo - replica al dott. Angelo Vivante, cit. 65 R. Luperini, Il Novecento, I, Torino, Loescher,1981, p. 77. 66 Stuparich, La nazione czeca, cit. p. 17. 67 Ivi, p. 29. 68 Ivi, p. 30.

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piccola borghesia commerciante e gli impiegati dello stato. […] È così infatti perché tutti quegli impiegati postali e ferrovieri czechi – di quest’ultimi poi la maggior parte – che sono organizzati nel partito «socialista nazionale» vedono nei posti occupati dai tedeschi altrettante possibilità d’avanzamento per loro e nel numero maggiore d’impiegati czechi maggior solidarietà nella difesa dei propri interessi, e infine il superiore tedesco, loro nemico, vedrebbero volentieri trasformarsi in czeco.69

È il passo più deciso di Stuparich verso una sorta di psicologia-sociale della politica, reso forse più agevole dal fatto che dietro il profilo dell’ambiguo partitino dei «socialisti nazionali»70 e dei suoi oscillanti ceti di riferimento, con tutto ciò che significavano in chiave di avventurismo politico, il giovane studioso poteva scorgere in controluce interrogativi e problemi attualissimi, in un’Europa che andava sperimentando la subdola proliferazione, veramente e paradossalmente “internazionale”, di forme ibridate di socialismo nazionalista in lenta deriva verso i radicalismi più estremi (lo aveva messo in evidenza, e con non poca ironia, Bertha von Suttner, premio Nobel per la pace nel 1905, in occasione di un episodio di contestazione subito da pacifisti tedeschi per opera di nazionalisti francesi nel 1896: «è degno di nota il modo unanimemente internazionalista con cui procedono i nazionalisti nella lotta contro il pensiero internazionalista»71). E senza mai perdere di vista l’ ideale secondo-internazionalista: la democratizzazione di uno Stato – dove ciascuna nazione potesse conservare e accrescere identità e cultura – che andava assolutamente preservato per le avanzate forme di civiltà e di integrazione socio-economica e per le prospettive di progresso che schiudeva oltre che per l’Austria anche per l’Europa intera. Ma per concludere il discorso sul Convegno socialista del 1905 andrà infine rilevato come i delegati socialisti non avessero in genere alcuna timidezza nell’affrontare il tema apparentemente spinoso dell’ “irredentismo”, e anzi, come nel caso di Lazzarini, membro del Comitato esecutivo della Sezione adriatica del Partito socialista in Austria, rivendicassero proprio al socialismo la capacità di esprimere forme più “nobili” di irredentismo di quelle semplicemente (e aspramente) contrappositive: «approviamo l’irredentismo […] ma l’irredentismo che noi intendiamo; quello cioè di mettersi d’accordo con tutte le popolazioni dell’Austria per tenere in piena evidenza la questione economica, politica ed elettiva». 72 Il fatto poi che anche in seguito, nonostante prese di posizione così chiare ed equilibrate, il socialismo triestino apparisse, perfino agli occhi dei suoi critici meno pregiudizialmente ostili (i mazziniani 69 Ivi, p. 68-69. 70 Sui “socialisti nazionali” (dal 1898 Ceska strana narodně socialni), formazione politica particolarmente interessante perché sposa istanze sociali ad accentuato spirito nazionale, si veda M. Kelly, Without remorse. Czech National Socialism in Late-Habsburg Austria, Columbia University, New York, 2006. 71 B. von Suttner, Giù le armi - Fuori la guerra dalla storia, ed. gruppo Abele, Torino, 1989, p. 23. 72 «Il Lavoratore», Trieste, 23 maggio 1905.

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della Democrazia sociale in primo luogo, ma anche i transfughi del Gruppo socialista autonomo, attivo dal 190973), fondamentalmente subordinato alla pregiudiziale centralista e internazionalista, è un argomento troppo legato da un lato alle sfumature ed alle contingenze della lotta politica locale, e troppo dipendente, dall’altro, dai temi, diremo gramsciani, dell’egemonia, per consentirci un approfondimento. Se ora da un livello più generale di sfondo e di contesto che è impossibile omettere a proposito di un saggista politico-civile così attento e documentato, scendiamo ai dettagli dell’esperienza personale di Stuparich, colpisce, sempre a proposito del socialismo, una sua maggior precisione e ricchezza di dettagli nell’individuare ascendenze ideologiche e parentele politiche di quanto non abbia saputo fare per il mazzinianesimo, dove tutto si risolve, potremmo dire, nell’incondizionata adorazione per il profeta dell’Unità italiana. In relazione al socialismo, Giani ci fornisce infatti, sia pure a parecchi anni di distanza, una sorta di “canone” ideologico, che potrebbe tornare utile per cogliere alcuni aspetti delle sue convinzioni. Senza troppo dilungarci, basterà dire che Stuparich conferma nei suoi ricordi la giovanile inclinazione per il socialismo secondo-internazionalista così come interpretato dai «socialisti classici illuminati»: quella forza legalista e gradualista da cui egli sente dipendere, negli anni triestini e vociani, l’unica possibilità di sopravvivenza dell’Impero (e, se è lettura legittima, di pace in Europa).74 Come spiegherà nelle prime pagine della Nazione czeca – il libro che corona la sua riflessione etico-politica d’anteguerra – in una Prefazione firmata quando l’Europa era precipitata nel conflitto e la situazione era sfuggita di mano alle forze progressiste, coinvolte anch’esse nell’euforia nazionalista di un’Austria che aveva giocato la carta autocratica e militarista (decretando il trionfo dell’«Austria impero, l’Austria tradizionale del governo Austriaco» sull’«Austria dei popoli», come scrive Stuparich in questa stessa prefazione, arieggiando una formula socialista75): la possibilità di un’Austria nuova che soddisfacesse a tutte le esigenze della civiltà moderna e risolvesse tutte le contraddizioni dell’Austria antica era sbocciata prima che altrove dalle speranze di questo popolo [i Czechi NdA]. Infatti essi cercarono fin da quando ebbero 73 Su questi temi vedi Maserati, Il movimento operaio a Trieste dalle origini alla Prima guerra mondiale cit., pp. 225 e segg. 74 «La redazione che frequentavo più assiduamente era quella del Lavoratore, il quotidiano socialista. Ne era ancora direttore in quei tempi Valentino Pittoni, l’amico di Angelo Vivante, deputato prima della guerra al parlamento di Vienna e creatore di quel meraviglioso e solido organismo che erano le Cooperative operaie; temperamento piuttosto freddo ma conseguente e fattivo: apparteneva alla schiera di quei socialisti classici illuminati (Turati, Labriola, Bernstein, Bauer, Liebknecht, Renner), che avrebbero potuto essere, in circostanze favorevoli, le guide d’un mondo sociale europeo riformato, veramente civile e fraterno» (Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 48-49). 75 V. Adler, tra più influenti e prestigiosi esponenti del partito, nel corso del Convegno socialista di Trieste del maggio 1905, aveva dichiarato, con una frase che, pur nella sua brevità, acquista il valore di una bandiera politica, che «noi socialisti dell’Austria senza distinzione di lingua vogliamo sostituire all’Austria attuale … l’Austria dei popoli» (cfr. «Il Lavoratore», Trieste, 22 maggio 1905).

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ottenuta una qualche influenza, di dare una forma moderna all’Austria […]. Il loro ideale era che il complesso di nazionalità che formava lo stato danubiano diventasse un po’ alla volta un organismo perfetto e preparasse così in Europa quella profonda coscienza che di questa doveva fare la famiglia delle nazioni […]. Dagli czechi partirono i primi progetti di federalizzazione, di autonomia dei popoli su base territoriale e poi su base personale, da essi fu affrettato con ogni mezzo il processo che democratizzava lo stato.76

Discorso di cristallina chiarezza: lo regge la salda convinzione (ormai, va da sé, superata dalla storia) che la rete di rapporti di complementarità dell’Europa danubiana, compresa la sua estrema appendice adriatica, Trieste (rapporti non solo economici, ma di civiltà e di cultura, di tradizioni e di “senso della vita”) avrebbe potuto garantire tanto la crescita socio-culturale delle nazionalità che il perfezionamento della democrazia, ma solo a condizione che venissero attuate radicali riforme di natura federalistica. Quel decisivo passo in avanti istituzionale che le forze politiche ceche77 non cessavano di domandare, considerandolo il presupposto irrinunciabile per il pieno dispiegamento dell’identità nazionale, e che tanto ambienti vicini al potere imperiale, in quel “laboratorio” del Belvedere78 che faceva capo all’erede al trono, Francesco Ferdinando quanto, con altra solidità di presupposti teorici, i socialisti austriaci avevano da tempo allo studio. Eppure, se qui, nelle pagine sui cechi, dove ancora dovremo tornare, è facile vedere il frutto maturo di una crescita intellettuale e morale che si condensa in punti fermi interpretativi di generoso slancio utopico e di indiscutibile solidità d’analisi, non è azzardato ipotizzare che, proprio come per il mazzinianesimo, 76 Stuparich, La nazione czeca, cit., pp. 9-10 passim. È interessante notare come in questa Prefazione manchi ogni accenno alla deriva patriottica subita e perseguita, in forma quasi generalizzata, dai partiti socialisti europei nella fatale estate 1914 (per questo tema: Senardi, a cura di, Profeti inascoltati. Il pacifismo alla prova della Grande Guerra, Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione, Trieste, 2015), precisazioni che avrebbero costretto Stuparich a sfumare la comoda contrapposizione: Austria dei popoli e Austria dell’Impero, e, verosimilmente, a sciogliere il nodo del suo sincretismo mazziniano a sfondo austro-marxista obbligandolo a qualche ripensamento. 77 Che la visione di Stuparich non derivasse da un sogno del cuore, ma dall’oggettiva valutazione del contesto asburgico e delle forze che più sanamente vi scommettevano sul futuro, lo mostra il fronte articolato ma omogeneo di studiosi di lingua italiana che hanno individuato nei cechi e nel socialismo, negli anni del primo anteguerra, i protagonisti più accreditati per la trasformazione democratica dell’Impero, cfr. Senardi, Il “caso ceco “ nella percezione degli intellettuali italiani nel primo anteguerra: un “irredentismo” separatista?, in F. Todero, a cura di, L’irredentismo armato - Gli irredentismi europei davanti alla guerra, Quaderni IRSML, 33, tomo I, Trieste, 2015. Fra di essi di particolare interesse i brevi ma succosi contributi di Angelo Vivante sull’«Unità» dell’estate-autunno 1913 in perfetta sintonia con quanto Stuparich scriveva sulla «Voce». A monte di entrambi, e da qui - io credo - l’analogia concettuale, il programma politico dell’austro-marxismo che finiva così per trovare un’inattesa vetrina nella Firenze delle riviste (cfr. R. Pertici, Irredentismo e questione adriatica a Firenze, in Id., a cura di, Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950), Olschki, Firenze, 1985). 78 Nascono in quel contesto tanto il progetto politico di Aurel Popovici (cfr. A. Popovici, Die Vereigniten Staaten von Gross Österreich, B. Elischer Nachvolger, Leipzig, 1906), che i germi di un’idea trialistica, destinata ad essere presto abbandonata (cfr. Jean-Paul Bled, François-Ferdinand d’Autriche, Tallandier, Parigi, 2012).

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anche l’avvicinamento al socialismo dovette comunque avvenire, almeno in primissima istanza, sulla spinta di una dominante sentimentale che rendeva Stuparich particolarmente sensibile verso valori, in questo caso, di giustizia sociale. È ancora il nucleo etico a prevalere, quell’inclinazione della personalità che l’educazione familiare aveva confermato e potenziato. In più luoghi lo scrittore ha descritto la viva impressione provocata in lui poco più che bambino dagli scontri di piazza avvenuti in occasione dello sciopero dei fuochisti del Lloyd nel febbraio 1902. Da quel momento la partecipazione alle rivendicazioni sociali di un «popolo che spezzava le proprie catene» si salda con un nodo indistricabile alla fede nazionale: «Marx e Mazzini», come si legge in una pagina di Sequenze per Trieste, «che possono camminare a braccetto». 79 Due apostoli che, nella luce del ricordo, trovano un simbolo comune nella camicia rossa di Garibaldi: La mia naturale evoluzione, maturando in me l’esperienza e lo studio, era verso il socialismo. I duri anni della mia infanzia e della mia adolescenza, (la fatica dei miei genitori per migliorare le nostre condizioni economiche, la lotta contro la miseria prima e lo sforzo tenace dopo per non ricadervi, il contatto con la strada e con gli strati sociali più diseredati, il senso del “lavoro retribuito”, avendo io incominciato fin dai quattordici anni a fare da “ripetitore”) mi facevano solidale coi poveri, con le creature che vivono affollate in spazi ristretti, che guadagnano tanto per vivere e che godono d’una scampagnata, d’un bicchier di birra, d’una manciata di ciliegie e d’una fetta d’anguria, come d’un piacere straordinario. Il mio avvicinamento razionale al socialismo è dell’epoca in cui studiavo all’Università, ma ricordo che, molto prima, sugli undici anni, al tempo dello sciopero generale e poi della vittoria socialista per il conquistato suffragio universale in Austria, io vissi nel chiuso della mia anima emozioni fortissime. Nelle famose giornate dello sciopero generale, nel rigido febbraio del 1902, abitavamo allora sul Corso, io ero a tutte le ore, pur che potevo, alla finestra. Le dimostrazioni, la folla caricata, le tegole lanciate giù dai tetti, i soldati in riga che avanzano e sparano, l’orrore, i morti e i feriti, e poi lo stato d’assedio, le pattuglie dei gendarmi che battono sinistramente il passo per le vie deserte, tutto era avvenuto davanti ai miei occhi e al mio animo appassionato. Io parteggiavo per la folla, ero con quelli che urlavano e ogni tanto scappavano da una parte per ricomparire dall’altra. [….] Poche settimane dopo fu il trionfo. Per quella via delle tragiche fucilate si riversava, coll’impeto di un torrente, il popolo inneggiante alla libertà. Di sera la fiaccolata. Io ero giù in istrada: sotto le torce quelle prime file di donne trasfigurate, tutte con la blusa rossa, e il canto, la fusione dei cuori, l’entusiasmo mi commossero al punto ch’io tremavo di gioia, avevo i brividi dall’esaltazione, come per la vittoria di una giustizia che dovesse di punto in bianco cambiar tutta la vita e far bello il mondo. (In quella stessa casa del Corso, sopra di noi, abitava un tipografo socialista, che nei giorni dello sciopero era stato arrestato; il figlio, mio coetaneo, era il mio miglior compagno d’allora, io salivo tutti i giorni da lui: quanti giochi facemmo nell’abbaino pulito, sotto la barba di Marx che ci guardava, come un padre severo, dalla parete!). Questo senso di partecipare col cuore alle rivendicazioni di un popolo che spezzava le proprie catene, era in me altrettanto vivo del sentimento nazionale, e mi pareva che questi due sentimenti non si conciliassero mai tanto bene in me come davanti alla figura simbolica di Garibaldi in camicia rossa.80

79 G. Stuparich, Cuore adolescente, Editori riuniti, Roma 1984, p. 31. 80 Id., Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 54, 55 passim.

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Anche la triade triestina di ispiratori e maestri, Pittoni, Vivante, Oberdorfer (cui si accenna, in Trieste nei miei ricordi, in pagine dedicate al primo dopoguerra) rimanda a uno stesso orizzonte orizzonte secondo-internazionalistico: sono i gentiluomini del socialismo d’antan, un socialismo colto ed autorevole, più a loro agio nelle assemblee elettive, nelle biblioteche e nelle sale-conferenze delle società operaie che sulle piazze ad arringare folle rivoluzionarie perché espressione di un partito «tutto fatto di coscienza e di educazione» (come scrive Tasca a proposito di Turati – ma potrebbe benissimo valere come formula generale – nella famosa pagina in cui esalta la spinta missionaria «invocata da Scipio Slataper in una taverna della vecchia Trieste»81). Un socialismo in guanti e bombetta che verrà messo del tutto fuori gioco dalla torsione estremistica di un dopoguerra torbido e incattivito. E sono figure che non si stenterebbe ad iscrivere nella rubrica che Stefan Zweig ha dedicato ai «buoni e solidi maestri dell’età dei nostri padri»82 insieme a Ibsen, Brahms, von Hartmann e infiniti altri. Sfiorati anch’essi da quel mito di «impeccabile signorilità e rispettosa educazione», 83 così Claudio Magris, che comincia a sorgere intorno all’Austria asburgica in una città sempre più avviticchiata nella propria frustrazione. Mentre, a confermare il valore di quelle figure esemplari e a spiegare ancor meglio l’influenza che esercitarono sulla società del loro tempo, contribuiva il «forte tono culturale»84 che la “piccola internazionale” austriaca era riuscita a darsi, e che si rifletteva in una rivista che faceva scuola, la «Arbeiter Zeitung» (dal 1895 addirittura quotidiano), e in una serie di istituzioni culturali di altissimo prestigio. Non bastava comunque la statura intellettuale e morale dei dirigenti del Socialismo austriaco né la forte compagine del partito, nella società e in Parlamento, per rendere possibile quel salto nel futuro che forse avrebbe salvato l’Impero: ancorché proprio il progetto federalista rappresentasse un importante risvolto della strategia ufficiale del partito socialista austriaco, esso ne perseguiva il progetto con tutte le lentezze, le esitazioni e i compromessi di una forza obbligata, per la delicatezza del contesto e per i doveri dell’internazionalismo, ad una più che responsabile “real-politik”; tanto da apparire, splendido appiglio per spietate polemiche, fautore dello status quo, suscitando, di conseguenza, l’avventurismo di gruppuscoli intransigenti85 (ironicamente si parlava a Trieste fra gli avversari 81 A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo (I ed. francese 1938- I ed. italiana 1950), Laterza, RomaBari, 1974, p. 542. 82 S. Zweig, Il mondo di ieri (1944), Mondadori, Milano, 1994, p. 42. 83 C. Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino, 1963, p. 124-5. 84 G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, III, La seconda internazionale 1889-1914 (I ed. inglese 1953), Laterza, Bari 1972, p. 31. 85 Nota Giani Stuparich, nella Nazione czeca, che «in Boemia, dove la nazione czeca ha ormai sviluppati tutti i suoi strati sociali, son quelli di mezzo che non hanno trovato ancora il loro equilibrio» (p. 71), e che è qui che attinge il suo elettorato la nuova formazione dei «socialisti nazionali» di Klofac i quali, «sorti in contrapposizione ai socialisti internazionali, per quanto autonomi» (p. 69) di

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politici di un “imperial-regio socialismo” e di Pittoni, il più rappresentativo dirigente socialista della città giuliana, come del “Reichsabgeordneter Dr. Pittoni”). Non è difficile capire, d’altra parte, come un tale programma di riforme radicali fosse più facile a dirsi che a farsi in uno Stato in cui non solo i gruppi nazionali erano frammisti nella maggior parte dei suoi tradizionali Kronländer ma dove la complessità e le tensioni apparivano destinate ad aumentare per l’inurbamento di masse contadine in città a differente base etnica. Con il risultato, tanto paradossale quanto ovvio, che le singole nazionalità mentre rivendicavano la soluzione federale rispetto all’autorità viennese, apparivano per contro irremovibilmente centraliste (e subdolamente oppressive) nei confronti delle minoranze presenti sul territorio dove esse costituivano maggioranza. Ma – qui il fondamentale quesito politico-istituzionale – dove cominciare a mettere mano nel puzzle austriaco? Da dove iniziare quell’opera di ammodernamento e razionalizzazione che rispondeva alle attese dei gruppi di più avanzata coscienza civile, politica e sociale del mondo asburgico? Nel vortice incontrollabile di una crescita tumultuosa delle periferie che doveva confrontarsi con l’irrigidimento dei centri di potere tradizionali, in un contesto di dibattito articolato e contraddittorio – dove idee progressiste si contrapponevano a idee conservatrici, dove il realismo e le chimere, sullo sfondo di una situazione mobilissima sul piano nazionale, sociale e politico, quanto cristallizzata su quello istituzionale, sembravano indistricabilmente intrecciate86 – il Partito Socialista cercava di giocare al meglio le proprie carte, in una corsa contro il tempo che lo avrebbe visto sconfitto. Ulteriori difficoltà nascevano dal fatto che nemmeno le opinioni dei maggiori teorici socialisti apparivano del tutto concordi: Stuparich, in quei saggi vociani cui stiamo lentamente avvicinandoci, cita, a questo proposito, due testi fondamentali: Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie (Vienna, 1907), di Otto Bauer – volume effettivamente presente, a quanto ha riscontrato Anna Storti Abate, 87 nella biblioteca dello studioso triestino –, e Der Kampf der österreichischen Nationen um den Nèmec e nonostante il nome, «maschera di un partito borghese» (p. 70), si mettono subito in aspra concorrenza da un lato con i socialisti internazionalisti, dall’altro con i «giovani czechi». Sulla situazione triestina importanti ragguagli giungono da Sabine Rutar, che mette in luce come da una costola del Partito socialista austriaco nascesse la slovena «Narodna delavska organizacija», la quale «mise esplicitamente sullo stesso piano le richieste di emancipazione nazionale e sociale ed identificò come nemico l’italiano di per sé» (cfr. Rutar, Le costruzioni dell’io e dell’altro nella Trieste asburgica, in Nazionalismi di frontiera – Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale 1850-1950, a cura di Cattaruzza, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 39). 86 Non è nostro compito ragguagliare in modo esauriente sulle condizioni dell’Impero nei lunghi decenni del suo declino. Per una sintetica panoramica dello stato degli studi, in crescita, per altro, vorticosa, si veda M. Cornwall, Einleitung (Introduzione) a Die letzten Jahre der Donaumonarchie, Magnus Verlag, Essen 2004, I ed. inglese 1990. Dove non viene segnalato un libro da tenere invece ben presente: L. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1960. Imprescindibile infine Wandruszka e Urbanitsch, a cura di, Die Habsburgermonarchie: 1848-1918, cit. 87 Cfr. A. Storti Abate, I libri di Giani e Carlo Stuparich, in R. Pertici, a cura di, Intellettuali di frontiera, cit . vol. II.

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Staat di quel Rudolf Springer che altri non era che Karl Renner sotto pseudonimo, il politico cui toccò l’ingrato compito di sottoscrivere, per parte austriaca, il trattato di Saint-Germain. Commentando il volume di Virginio Gayda La crisi di un impero («Bollettino Bibliografico de ‘La Voce’», 4 settembre 1913) Giani spiega che: i socialisti tedeschi, i centralisti, non ignorano il problema nazionale, anzi lo studiano: basti dire che gli studi più seri in proposito provengono da socialisti, Rudolf Springer, Der Kampf der österreichischen Nationen um den Staat e Otto Bauer, Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie. Quest’ultimo statuisce la politica delle classi lavoratrici quale politica dell’autonomia nazionale di fronte a quella della borghesia capitalista che è imperialismo nazionale e ne hanno tentato una soluzione teorica, suggestiva e fondata.

Opinioni e progetti indubbiamente generosi, ma di difficile attuazione, anche a prescindere dalle loro interne contraddizioni e dalla callosa opposizione dell’establishment asburgico. E si pensi soltanto, per non aprire un discorso inesauribile, a due modalità possibili e spesso dibattute di autonomia nazionale, basata, in tema di diritti, come spiega Stuparich nella Nazione czeca, sul «criterio personale» o su quello «territoriale»88 (e se è chiaro come si potesse realizzare quello «territoriale», non altrettanto evidente l’attuabile risvolto pratico del «criterio personale»89). Valutando il bipolarismo dell’inclinazione politica del Triestino si sarebbe forse portati a pensare, a questo punto, a un focolaio di latenti contraddizioni; magari proprio in relazione a quel concetto di nazione nel quale Apih ha creduto di poter riconoscere «la prevalenza dell’ispirazione mazziniana, rispetto all’influsso del socialismo asburgico»90 (ma merita notare che nelle prospettive teoriche del giovane Stuparich, così vicine al tema slataperiano dell’«irredentismo culturale» e così lontano invece dal “misticismo” di Mazzini manca, negli anni d’anteguerra, proprio l’aspetto più qualificante dell’utopia mazziniana, ovvero la rivendicazione, categorica e incondizionata, dell’indipendenza nazionale). 88 Stuparich, La Nazione czeca, cit., p. 75. Come le due prospettive venissero dibattute nel milieu socialista nel corso della guerra, per salvare in extremis la compagine asburgica, documenta e commenta con la nota competenza Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., spec. p. 363. 89 Si veda a proposito, oltre ovviamente al solito Wandruszka e Urbanitsch (a cura di), Die Habsburgermonarchie 1848-1918, R. A. Kann, Storia dell’Impero asburgico (1526-1918), Salerno editore, Roma 1998 (I ed. 1974), pp. 541-2, H. Slapnička, Significato e funzione dell’autonomia nella politica austriaca dal 1867 al 1918 (in M. Garbari e D. Zaffi, a cura di, Autonomia e federalismo nella tradizione storica italiana e austriaca, Trento, 1996), che fa entrare in gioco l’interessante figura di un poco noto teorico della questione nazionale, J. M. Baernriether (autore del Zur böhmischen Frage, Wien, 1910) e Alan J.P.Taylor (La monarchia asburgica, I ed. 1941, Mondadori, Milano, 1993, pp. 271-2) che scrive pagine istruttive sulla concreta realizzazione dell’ipotesi dell’autonomia personale in Moravia e in Bucovina mettendo in rilievo come in questi casi il numero di seggi spettanti nella dieta a ciascuna nazionalità fossero stati prefissati in maniera che il voto non poteva in nessun modo alterare la quota assegnata, soluzione quindi inadeguata laddove avessero luogo rapide modificazioni degli equilibri etnici. 90 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 34

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In realtà, la sintesi, per provvisoria che sia, risulta particolarmente felice. E assolutamente comprensibili le ragioni che potevano spingere un intellettuale come Stuparich a sentirsi perfettamente a suo agio in certe forme di sincretismo: le priorità etico-sentimentali del suo mazzinianesimo e i limiti, non solo suoi ma dell’epoca, di una conoscenza solo a grandi linee del pensiero del Genovese – non esente per altro lui stesso, com’è stato ribadito, dagli inceppi di «principi dicotomici»91 – rendeva possibile “saltare” certi aspetti delle sue teorizzazioni probabilmente scomode per uno studioso di orbita austro-marxista. 92 D’altra parte era evidente come il progetto federalista potesse far ritrovare a un mazzinianesimo troppo incline a perdersi in grandi sogni di palingenesi il concreto terreno della politica, mettendo d’accordo utopia e realtà, idealismo e pragmatismo. 93 Mentre le idee-guida del patriota genovese avrebbero forse saputo ravvivare una fiamma ideale e un dinamismo di teoria e di prassi che certe sfumature di evoluzionismo positivistico del socialismo secondointernazionalista avevano spento in un fatalistico attendismo94 (e da qui infatti, caso limite che può molto spiegare, la simpatia per Mazzini di Georges Sorel, che riconosce in lui un maestro di quel volontarismo rivoluzionario di cui lo studioso francese aveva innalzato la bandiera). Del resto proprio la tendenziale conversione “democratica” dei partiti socialisti di fine Ottocento (così per esempio Eduard Bernstein nel 1899: «la democrazia è al tempo stesso mezzo e scopo. È il mezzo della lotta per il socialismo, ed è la forma della realizzazione del socialismo»95), un processo che 91 R. Sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 265. 92 Mi riferisco per esempio a un motivo non raro nella pubblicistica di Mazzini e dei mazziniani, la condanna senza appello dell’Impero austriaco, «uno Stato e non una Nazione. Aggregato fittizio di popolazioni diverse, senza legame all’infuori di quello della forza brutale, senza pensiero comune all’infuori di quello di Vienna che lega il progresso e la legge d’amore: cadrà vittima espiatoria degli errori del mondo monarchico europeo». In G. Mazzini, Del moto nazionale slavo (1848), ora in Idem, Lettere slave ed altri scritti, a cura di G. Brancaccio, Biblion edizioni, Milano 2007, p. 97. Questo passo specifico, aggiungiamo, era sicuramente ignoto a Stuparich, che non cita però né discute altre proposizioni simili. 93 Sul caratteristico «abito mentale» di un mazzinianesimo troppo incline verso generose, ma astratte utopie, lucide messe a fuoco interpretative da parte di R. Vivarelli, Il fallimento del liberalismo - Studi sulle origini del fascismo, il Mulino, Bologna, 1981, pp. 138-139 e, con l’intransigenza di chi è impegnato nella lotta politica, Gobetti, che si sofferma, salutando la nascita di un nuovo «repubblicanismo», sulla «forma di psicologia di altri tempi» che aveva caratterizzato il mazzinianesimo dei «decenni precedenti al ‘14», cfr. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino, 1960, p. 488. 94 Magistrale la sintesi di Altiero Spinelli sul fallimento del socialismo secondointernazionalista: «impantanato nel culto pseudo-scientifico delle “leggi della storia” si è proposto di seguirne il presunto insegnamento e ha mellifluamente atteso che la storia stessa non si limitasse a porre i problemi ma fornisse anche le soluzioni», cfr. Spinelli, La crisi degli stati nazionali, a cura di L. Levi, il Mulino, Bologna, 1991, p. 88. 95 E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (I ed.1899), Laterza, Bari, 1968, p. 185. Del resto anche Karl Kautsky, uno dei leader della maggioranza

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si era svolto non senza dibattiti, lacerazioni e conflitti, li predisponeva ad un incontro non antagonistico con il pensiero di Mazzini. Se nei Doveri dell’uomo e, prima ancora, nei Pensieri sulla democrazia in Europa, egli aveva sostenuto le ragioni del solidarismo interclassista, negando con fermezza l’utilità della lotta di classe per l’emancipazione dei lavoratori («Famiglia, nazione, umanità […] le tre sfere per le quali l’individualità umana deve lavorare al fine comune, il perfezionamento morale proprio e degli altri»96), fermo, in economia politica, a una rigorosa «‘alternativa associazionistica’ rispetto al socialismo scientifico»97 e ben radicato in una visione mistica e teleologica della storia che individuava nei popoli il tramite imprescindibile del progresso dell’umanità («come crediamo nella libertà, nell’eguaglianza, nella fratellanza, nell’associazione per gli individui componenti lo Stato, crediamo nella libertà, nell’eguaglianza, nella fratellanza, nell’associazione. I popoli sono gli individui dell’umanità»)98, tutto ciò poteva essere acquisito come obiettivo intermedio al progetto socialista, e senza insormontabili difficoltà. Lo aveva notato ed evidenziato anche Salvemini che, da posizioni ormai eccentriche rispetto all’antica appartenenza marxista, aveva sostenuto, nel 1914, in un significativo intervento sull’«Unità» che «il programma democratico non era che il programma minimo dei socialisti»;99 quello stesso Salvemini che, nell’ottobre del 1905, nell’anno stesso della pubblicazione a Messina del suo Pensiero religioso politico sociale di Giuseppe Mazzini, aveva pronunciato a Trieste, ospite del socialista «Circolo di studi sociali», tre conferenze dedicate al pensiero politico e sociale di Mazzini (1- Il pensiero di Giuseppe Mazzini; 2 - L’azione politica di Giuseppe Mazzini; 3- Mazzinianesimo e socialismo), 100 un ciclo di lezioni di cui dà ampio ragguaglio «Il Lavoratore». Il “connubio” socialismo-Mazzini, se di tale vogliamo parlare, non poteva dunque avvenire nel modo più ovvio e più spontaneo che in quel contesto mitteleuropeo e specificamente asburgico che, per la sua stessa complessità etnocentrista del Partito socialdemocratico tedesco, fra i più accaniti oppositori di Bernstein nel corso del decisivo “Bernstein Debatte” avviato nel 1899, fece ampie concessioni allo spirito del riformismo gradualista in quella Via al potere (Der Weg zur Macht, 1909) in cui il partito ampiamente si riconobbe. 96 Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, a cura di S. Mastellone, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 168. 97 S. Mattarelli, Postfazione a Roland Sarti, cit., p. 327. 98 Mazzini, Manifesto del comitato democratico europeo (1850), in Idem, Scritti politici, a cura di F. Della Peruta, Einaudi, Torino, 1976 (II ed.), vol. II, p. 356. 99 F. Golzio e A. Guerra, L’ «Unità» di Salvemini e «La Voce politica» di Prezzolini, Einaudi, Torino, 1961, p. 20. 100 Per il Mazzini di Salvemini, utilissimo A. Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, MessinaFirenze, D’Anna, 1981 anche per la luce che getta sul percorso e le motivazioni che fecero accogliere a Salvemini, probabilmente per il tramite di Battisti, la convinzione mazziniana della necessità dello smembramento dell’Austria, e R. Vivarelli, Salvemini e Mazzini, «Rivista

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linguistica, si presentava come il laboratorio ideale per una grandiosa visione di “associazionismo” (uso di proposito un’espressione mazziniana), almeno relativamente alla sua più evoluta metà occidentale, la Cisleitania, predisposta a diventare - Stuparich sarà assai chiaro su questo punto - il volano di un modo inedito di intendere i rapporti tra i popoli: da Praga, come non mi sarebbe stato possibile da Trieste – riflette Stuparich a parecchi anni di distanza – io m’accorsi che l’Austria, nella grave crisi di trasformazione che i tempi le imponevano, poteva esser veramente avviata a diventare una più grande Svizzera e, conciliando le vite libere delle varie nazioni nel suo seno, formare la base per una prossima federazione di tutti i popoli europei. Le menti più illuminate e degli storici e dei politici (e fra i maggiori quel Th. G. Masaryk, ch’io allora venivo a conoscere in Boemia) la sospingevano dalle cattedre, dal parlamento, dalle piazze per questa via di salvezza: la sola, prospettavano nella diagnosi che si vide poi quanto fosse giusta, che restasse all’impero se voleva continuare a vivere. E il partito socialista, almeno la parte più intelligente di esso, contro i vari nazionalismi esasperati, che cercavano o d’impadronirsi del meccanismo del governo per sopraffarsi a vicenda o di disintegrare lo Stato, sostenevano un equilibrio che avesse nel centro, cioè al Parlamento di Vienna, un organo di coesione fattiva e lasciasse per il resto che le varie nazioni si governassero da sé con autonomia e reciproco rispetto. Era l’azione più ragionevole, per tentar di superare i dissidi nazionali che andavano aggravandosi, e la più intelligente cautela per evitare che l’Austria diventasse l’esca di una guerra che avrebbe dato fuoco all’Europa (come in realtà avvenne).101

A rischio di soccombere a un ingenuo ottimismo, non si può negare che il discorso contenga un inattaccabile filo logico. Praga come specola ideale per cogliere i processi che allora meglio caratterizzavano l’ecumene asburgica, sottoposta, per merito dei cechi, a sollecitazioni politico-istituzionali di natura non chiusamente nazionalistica, ma vantaggiose per tutti i suoi popoli: battendosi per la propria autonomia i cechi finivano infatti per avanzare proposte di valore generale, dove lo specifico interesse nazionale andava a fondersi con un ampio programma di modernizzazione dell’Impero. A Praga dunque il nuovo pareva fermentare con una ricchezza altrove ignota; ed è all’ università tedesca di questa città che Giani effettivamente si iscrive nel 1910, per frequentare poi – una specie di borsa Erasmus ante-litteram concessa dall’Italia ai giuliani frequentanti un ateneo imperial-regio – l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Rientrerà in Boemia negli ultimi mesi del 1912 per laurearsi infine a Firenze, nell’aprile del ’15, dove avrebbe storica italiana», 1985, pp. 42-68. L’interessante appendice di inediti di Salvemini nel volume di Galante Garrone riporta i testi di quattro lezioni su Mazzini svolte al Circolo di Filosofia di Firenze (1910), che ricordano, nell’approccio tematico, le conferenze tenute a Trieste nel 1905 risultando quindi utili per capire come Salvemini avesse interpretato, a beneficio dei triestini, il pensiero del grande Genovese: «in Mazzini», spiegava Salvemini ai fiorentini, «non bisogna considerare il pensatore e il filosofo, ma il credente, l’apostolo, l’uomo d’azione» (ivi, p. 380), e, toccando il tema del sansimonismo nella formazione del pensiero mazziniano: «egli non adotta il San Simonismo», sostiene, «che fino al punto in cui gli sembra particolarmente atto a provare che l’Unità d’Italia è un’opera divina, frutto di tutta l’evoluzione umana» (ivi, pp. 375-376). 101 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 56.

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ritrovato il fratello Carlo, diventato studente di quell’Ateneo. Approfondendo nella triangolazione Trieste-Praga-Firenze gli interessi e le curiosità dell’italiano d’Austria, ma nella prospettiva di chi viveva ancora l’appartenenza statuale della città giuliana come un’opportunità e non come un limite, e si studiava di capire come l’Impero potesse diventare un domicilio più ospitale per i suoi popoli. Cercando innanzitutto di chiarirsi, fra tutti i problemi dello Sato, quello che pareva il più spinoso ed urgente, il problema nazionale.

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Capitolo III A Firenze nell’orbita della «Voce»

L’analisi del retroterra politico-intellettuale di Stuparich non finisce però qui: se, in termini ideologico-culturali, è giusto riconoscere nella dialettica mazzinianesimo-socialismo – di cui potremmo prendere Praga, con tutto ciò che significa, come valore-simbolo – lo “zoccolo duro” della visione del mondo e quindi della saggistica stupariciana d’anteguerra, il catalizzatore del suo impegno intellettuale è, fuori di dubbio, la “famiglia” fiorentina dei giovani della «Voce», alla quale egli si avvicina per approfondire il versante nazionale della sua identità di austro-italiano. Un cenacolo etico e culturale, quello vociano, assai particolare per natura e finalità, tanto, ha commentato Luisa Mangoni, da «non [avere] riscontri nella storia della cultura italiana»1 (ancorché perfettamente inquadrabile nel panorama complessivo delle riviste novecentesche, con il loro «vivace odore di eresia, singolare attitudine critica […], indole largamente anti-dogmatica»2). In esso Stuparich figurava fra i cadetti più freschi, essendo giunto sull’Arno solo nell’ottobre 19113, quando il gruppo vociano, pur con le sue vivaci dinamiche 1 Cfr. L. Mangoni, Giuseppe Prezzolini (1908-1914), in «Belfagor», 1969, p. 324. 2 G. Langella, Cronache letterarie italiane - Il primo Novecento dal “Convito” all’ “Esame”, Carocci, Roma, 2004, p. 13. 3 Sul tema degli studenti irredenti nelle Università italiane, si rinvia ancora al citato Quercioli, «Tutti gli studenti dovrebbero venir quassù». Giovani irredenti nelle università italiane 1880-1915.

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di adesioni e apostasie, si era ormai saldamente costituito. Il giovane triestino aveva da poco ottenuto il diploma al Ginnasio comunale, era reduce da un “grand tour” di larghi orizzonti europei (di cui ci consegna pittoreschi scorci un capitolo di Piccolo cabotaggio), ed aveva già frequentato un primo anno di università a Praga: Venivo da questa mia città [Trieste, NdA]; avevo passato il confine, come altre volte, con un senso di leggerezza: uno strano senso che noi, allora “irredenti”, provavamo nell’entrare in Italia; era un sollievo dell’animo: terra nostra e terra amata, ma da cui eravamo costretti a vivere staccati, quasi avessero lasciata la nostra casa di fuori, oltre il margine. Ma questa volta lo passavo con una gioia intensa, tutta personale: finalmente realizzavo il mio sogno. Avrei fatto il secondo anno di Università a Firenze. Il primo l’avevo compiuto a Praga e ne riportavo un ricordo non sgradito, ma estraneo al mio cuore […]. Quelli furono i momenti decisivi per la mia vita. Avevo l’animo orientato verso i valori umani, verso la ricerca della verità, che nei giovani è il solo nutrimento spirituale che conti; e scoprivo che nella mia patria tutto si confaceva alle mie aspirazioni. Se prima amavo l’Italia d’un amore d’oltre confine, amore di sogni e di visioni, di grandezze passate e di speranze, ora cominciavo ad amarla concretamente. Cominciavo a conoscerla così com’era nella realtà, anche nei suoi difetti e nelle sue miserie.4

Difficile dire in poche parole (e forse inutile, considerando la ricorsività del tema nella saggistica letteraria) cosa sia stata «La Voce»5 e che cosa abbia rappresentato per la cultura italiana nella breve ma intensa parabola del suo svolgimento (1908-1916); altrettanto almeno quanto resistere alla tentazione di ampliare il discorso, sfiorando tutte le sfaccettature di una collettiva avventura intellettuale che quasi sfuma nel leggendario. Eppure il nostro tema rende inevitabile una digressione, pena l’incomprensione dello sfondo e dei contenuti dell’esperienza saggistica di Stuparich. E bisognerà iniziare dicendo che «La Voce» nasceva, in un clima effervescente per la vivacità e la varietà di iniziative culturali di più diversa matrice (siamo al culmine della “stagione delle riviste”), con l’ambizione di contribuire a una «riscossa morale in tutti i campi, dalla letteratura alla politica, intonata a un criterio di verità». 6 Si viveva allora una temperie in cui l’agitato crepuscolo del positivismo veniva scosso, per dirla pittorescamente con Garin, dal «frenetico battere a tutte le porte più impensate, dall’idealismo magico agli inesplorati e avventurosi lidi della metapsichica», 7 e si avvertiva quindi con particolare 4 Stuparich, A Firenze nel 1911, «Il Piccolo», 22.VIII.1943, ora in R. Bertacchini, Giani Stuparich, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 3. 5 Si rimanda, per un esauriente aggiornamento della bibliografia ormai oceanica su «La Voce», al saggio di E. Pellegrini, «La Voce» e i vociani, in G. Luti, a cura di, Storia letteraria d’Italia – Il Novecento, nuova edizione a cura di A. Balduino, Vallardi, Firenze 1989, Tomo I, contributo che, con equilibrio e competenza, fa il punto sullo stato degli studi. Per un intervento di alto saggismo sulla «Voce» cfr. M. Biondi, «Non è la nostra una rivista di lucro o di vanità», in Id., Cronache da Dante ai contemporanei, Le Lettere, Firenze, 2011. 6 G. Prezzolini, L’italiano inutile, (1954), Vallecchi, Firenze 1972, p. 330. 7 E. Garin, Cronache di filosofia italiana – 1900-1943, I, Laterza, Bari 1975, p. 23.

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urgenza il bisogno di interventi equilibrati e chiarificatori; un’operazione dove «La Voce» aveva la pretesa di inserirsi costruttivamente, pur prendendo alimento (e in un certo senso legittimandola) «dall’inquietudine psicologica e morale che contraddistingue l’atteggiamento delle classi giovanili della borghesia di fronte agli aspetti della vita italiana contemporanea». 8 Da qui l’eclettica vivacità del foglio fiorentino, con le sue varie anime e con quel certo tono di sfida che tanto piacque ai giovani d’allora: «espressione di forze eterogenee e contraddittorie», condizione che fu, nel tempo stesso, «la sua forza e il suo limite, la causa della sua nascita e della sua fine».9 Lo spirito “interventista” della rivista si concretizzava in una brillante opera di mediazione e di sintesi, utilissima in un Paese ancora solo geograficamente europeo e frammentato – le sue mille città e province – in infinite scaglie eterogenee: vi scrivevano, fra tanti giovani ansiosi di rinomanza intellettuale, i protagonisti più noti del fronte anti-positivista e anti-giolittiano, vi si svolgevano inchieste di ampio respiro («sulla Questione meridionale, sull’Irredentismo, sul Canton Ticino, sulla Filosofia Italiana, sulla Questione sessuale» per cedere la parola a Prezzolini 10), vi si presentavano artisti e pensatori fra i più significativi dell’Europa del momento, Claudel, Bergson, Sorel, ecc., per restare sulla cengia più alta, e con loro un intero repertorio di nomi della cultura internazionale, molti dei quali, ha osservato tuttavia severamente Carpi, andranno poi a sfilare sulla passerella lukácsiana della Distruzione della ragione.11 Se non faceva difetto alla «Voce» una scintilla di spirito d’avventura e perfino qualche controllata inclinazione “sovversiva”, almeno quanto una certa sorniona disponibilità ad acrobazie intellettuali («sia Papini che Prezzolini una cosa avevano chiara fin da principio, e cioè che l’uomo è un punto di assoluta libertà, ossia rischio totale e possibilità infinita»12) nel segno di quella «rinascita dell’idealismo» su cui Croce avrebbe scritto il suo celebre saggio del 190813 per rimettere la questione entro limiti di equilibrio e razionalità (ma si veda di Croce anche la pagina squillante della Storia d’Italia, 1928, in cui esalta il superamento «del semplicismo positivistico»14 in una impetuosa rinascenza del pensiero), era proprio al magistero crociano che guardava la rivista – o meglio Prezzolini, come si dovrà ancora vedere – per garantirsi un solido ed inattaccabile baricentro intellettuale. D’altra parte, com’è stato correttamente osservato, «il crocianesimo 8 A. Romanò, Introduzione a Id., a cura di, La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, III, «La Voce», Romanò, Einaudi, Torino 1960, p. 14. 9 Pellegrini, «La Voce» e i vociani, cit., p. 515. 10 Prezzolini, La cultura italiana (1927), Corbaccio, Milano 1938, p. 161. 11 U. Carpi, «La Voce» - Letteratura e primato degli intellettuali, De Donato, Bari 1975, p. 12. 12 Garin, Cronache di filosofia italiana - 1900-1943, cit. p. 23. 13 B. Croce, Per la rinascita dell’idealismo, in Id. Cultura e vita morale, Laterza, Bari 1955. 14 Id., Storia d’Italia dal 1817 al 1915 (1928), Laterza, Bari 1984, p. 226.

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della ‘Voce’ anziché caratterizzarsi come puntuale e fedele ripetizione della Filosofia dello Spirito, va riconosciuto in ‘un generico idealismo di fondo’ tutt’altro che definito filosoficamente e tale anzi da consentire la libera coesistenza dei punti di vista più inconciliabili»15: «la ‘Voce’ è nata crociana», ha confermato Slataper, «ma va a poco a poco verso Gentile».16 Una fede però non ugualmente condivisa, perché è indiscutibile che molti collaboratori della rivista, «Amendola, Boine, Papini, Soffici, Slataper, Salvemini […] furono personalità completamente libere se non ostili alla giurisdizione crociana».17 Comunque, in termini generali, se di Croce affascinava la pacata sicurezza speculativa capace di porre ogni quesito in una limpida luce razionale per portare la chiarezza nella confusione e l’unità nella distinzione, si era attirati nell’orbita del filosofo siciliano, Stuparich in particolare, in virtù del suo peculiare «uso dell’idealismo come ideologia dell’essere totale nella storia […]» che ne faceva «un teorico dell’impegno […] della subordinazione della politica alla filosofia e all’etica».18 Verso Gentile, avrebbe confessato Giani in pagine del secondo Dopoguerra, lo spingeva il suo «temperamento romantico, la [sua] tendenza d’allora a teorizzare in assoluto» (e «scrissi anche delle pagine, una specie di confessione, in cui cercavo di giustificare, con l’ingenuità e l’entusiasmo del neofita, la mia maggiore aderenza alla filosofia gentiliana»), accorgendosi però ben presto «di quanta maggior chiarezza, solidità e vorrei dire, onestà di raziocinio fosse dotata la filosofia crociana», tanto da allontanarsi definitivamente da lui (dal filosofo e dal politico, perché continuerà ad apprezzare l’integrità dell’uomo), quando lo vide «appoggiare il fascismo e un po’ alla volta divenirne addirittura il filosofo ufficiale».19 Una ricostruzione a posteriori – che evidenzia fasi di maturazione dalla sequenzialità tanto netta da apparire sospetta, e stilata quando ormai Croce veniva sentito, nella consapevolezza comune, come il filosofo antifascista della «religione della libertà» – da tenere certo presente, ma da utilizzare con cautela. È evidente comunque quanto Gentile, a prescindere dai dettagli del suo sistema, potesse sedurre una gioventù dal temperamento acceso ed irruente, risoluta a spezzare il diaframma tra teoria e pratica, tra pensiero e azione, tra filosofia e vita, per convertirsi a un mito eroico e volontaristico che l’interventismo e la guerra avrebbero presto trasformato in esperienza vissuta. Per altro, attratti con moto alterno nelle orbite sempre più distanti dell’«idealismo metodologico e liberale […] di Croce e [del]l’idealismo esasperato

15 Langella, La prima «Voce» prezzoliniana e gli intellettuali, in «Critica letteraria», 1977, I, p. 131. 16 Slataper a Prezzolini, lettera del 21 aprile 1911, in Prezzolini, Il tempo della «Voce», Longanesi - Vallecchi, Firenze, 1960, p. 395, ma si veda anche E. Gentile, «La Voce» e l’età giolittiana, Pan editrice, Milano 1972., p. 161. Sull’influenza di Gentile nell’ambiente della «Voce», utili indicazioni in G. Turi, Giovanni Gentile - Una biografia, Torino, UTET, 2006, p. 213 e segg. 17 Pellegrini, cit., p. 516. 18 Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, 4, II, Dall’unità ad oggi, cit., p. 1310. 19 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 137.

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e profetico di Gentile»20 come stupirsi che molti vociani portassero in sé, con sofferta consapevolezza, l’impronta di entrambi, vissuta quasi come una dicotomia da sanare? «Ma chi è Carlo?», scrive al fratello il più giovane Stuparich, «Ti rispondo presto: una particola di Gentile, una di Croce […]». 21 Contraddizione in termini? È più che ovvio, intendiamoci, che certi scritti dell’uno o dell’altro dei due dioscuri dell’idealismo sortissero di quando in quando un effetto trascinante e irresistibile, quasi l’inattesa scoperta di mondi nuovi; eppure per molti vociani, in ispecie i meno filosoficamente attrezzati, testimoni oculari del dissidio che consumandosi sulle pagine della rivista sui temi dell’idealismo attuale e dei “distinti” allargava lentamente il fossato tra i due pensatori, il problema filosofico rimaneva drammaticamente irrisolto, mancando l’interesse, o meglio, la capacità di distinguere e selezionare in una koiné di cui, piuttosto che le particolari e personalizzate sfumature speculative, si coglieva forse meglio l’enfasi polemica (e i generali dati di fondo: antipositivismo, antideterminismo, autonomia dell’Io, sull’orizzonte di un’accesa rivendicazione dei valori dello spirito). Utile per comprendere un appunto di Biagio Marin:22 Ricordo: Carlo Stuparich mi aveva raccomandato di leggere il Sommario di Pedagogia del Gentile. Lui ne era allora tutto caldo. E io andai subito a comprarmelo, e la lettura fu tutta una festa. […] Ebbi a scrivere una volta a Gentile, che l’estetica del Croce mi era più semplice, più comprensibile: ma che l’afflato religioso che permeava la filosofia dell’arte mi affascinava.23

Che poi Carlo Stuparich avesse benissimo compreso il taglio “egocosmico” della filosofia gentiliana (per dire con Saba, che mutua a sua volta il termine da Edoardo Weiss): «Gentile annegò dio e pianeti nello spirito», 24 non gli impedì di guardare con simpatia al messaggio di un filosofo che proclamava, proprio in quel Sommario di Pedagogia citato da Marin, che la «la realtà è il soggetto 20 Biondi, Renato Serra - La critica, la vita, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2012, p. 122. 21 C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 147, lettera a Giani del 17. II.1914: «Ma chi è Carlo? […] Una particola di Gentile, una di Croce, una di De Sanctis, una di Prezzolini, una di Platone anche, anche una di Papini e… calcolo infinitesimale». 22 Per il percorso etico-ideologico di Biagio Marin, cfr. Senardi, Un maestro di vita civile (Biagio Marin), in «La Panarie», n° 162, 2009; Id., Biagio Marin uomo del dialogo, in «Studi mariniani», n° 14, dic. 2008; Id., «Gli slavi sono un temibile nemico e noi li abbiamo tremendamente offesi»: Marin e le ragioni degli “altri”, da «Gorizia a «La pace lontana (diari 1941-1950)», in «Studi mariniani», n. 15, dicembre 2009. Saggi tutti da vedere sullo sfondo di quella “rifondazione” dell’interpretazione mariniana che si deve soprattutto a E. Serra, in, a titolo di esempio, Biagio Marin, Ed. Studio tesi, Pordenone, 1992. Per il Marin cultore di filosofia e per gli orizzonti filosofici del suo poetare, cfr. P. Camuffo, Biagio Marin, la filosofia, i filosofi: tracce per un’interpretazione, Edizioni della LagunaCentro Studi “Biagio Marin”, Monfalcone, 2000. 23 B. Marin: la lettera del 10. II. 1960 si legge in Claudio Magris carteggio con Biagio Marin. Ti devo tanto di ciò che sono, a cura di R. Sanson, Milano, Garzanti, 2014, p. 105. 24 C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 23. Si tratta di un pensiero del 1914.

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nell’atto del suo sviluppo», e che il soggetto quando tenda all’azione decisa «è in quel punto in cui, se vuole, col suo solo volere, genera quel nuovo mondo a cui tende». 25 Nasce evidentemente da qui peraltro, oltre che per suggestione vociana e risorgimentale (il mazziniano «pensiero e azione»), l’esigenza «non di affermare qualche fede, ma di essere qualche fede. Fare la storia meglio che credere nella storia»26 da parte del più giovane Stuparich, e il trasporto “romantico” che Giani afferma di aver provato a contatto con una filosofia della prassi a base spiritualistica, che esalta l’attività creatrice dell’uomo, e per la quale conoscere è fare, in un movimento senza soste di continuo superamento. 27 Inclinazione per il messaggio e la persona del filosofo siciliano che, presso gli Stuparich, la guerra deve aver accentuato, 28 contribuendo alla scelta del volontarismo. In una prima fase, comunque, disciplinando le varie ispirazioni e i crescenti antagonismi (più di carattere che di Weltanschauung) in una «concordia generale di discordi»29 «La Voce» saprà promuovere la ricerca seria, le analisi nutrite di cifre e di fatti, le riflessioni pensose, i bilanci equilibrati, impegnando i suoi redattori, in nome dell’ideale dell’«eticità della vita intellettuale», a «essere onesti e sinceri», a «star sempre al sodo», 30 con l’occhio concentrato sui movimenti collettivi, le tendenze del pensiero, gli aspetti concreti della vita culturale (biblioteche, università, ecc.), civile e sociale: educazione a un’idea di cultura, come avrebbe scritto della rivista Giaime Pintor in un anno fatale per

25 G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, I, Pedagogia generale, Laterza, Bari, 1913, pp. 84 e 85. 26 C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 139, lettera a Giani del I febbraio 1914. Corsivi nel testo. 27 G. Stuparich: «Gentile mi sembra tanto poco Crono che si rimangia i figli quanto un poeta che compiuta un’opera d’arte non se la sta ad ammirare in eterno, ma o la trasforma o la lascia per darsi a un’altra. Gentile ha scosso la saldezza del primo principio, ha ucciso il padre che partorisce, la sua filosofia non vomita per mangiare, non è chiave per provar porte, ma prova continuamente se stessa in se stessa» (annotazione del Diario del 1913-1915, in Fondo Stuparich AD-TS, in data Firenze, 18 febbraio 1914). 28 «Ai tempi della guerra, tempo di passione e di epica del sacrificio, la personalità di Gentile prevalse nettamente su quella del neutralista Croce. Essere neutralisti significava essere e confermarsi razionalisti, senza concessioni ad alcuna poematicità della storia», commenta Biondi, «Non è la nostra una rivista di lucro o di vanità», cit., p. 132. Rivelatrice e in controtendenza una riflessione di Giani che sembrerebbe avvalorare lo schema evolutivo proposto in Trieste nei miei ricordi: «Tutto questo intrico di coscienza [la propria, NdA] mosso dunque e sollevato un po’ dalla lettura di alcune pagine crociane. Croce di nuovo! Sì, anche fra la tanta novità, le tante ideacce e ideucce, la tanta politica e entusiasmo, la letteratura alla Robertis e l’arte alla Papini, Croce resta ancora quello che dà da pensare, che ti muove il pensiero, che ti scuote in fondo! Purtroppo, ma la è così. Un ritorno a Croce (e oggi Croce è dell’‘Italia nostra’ [un’esile rivistina neutralista del 1914-15, NdA], è germanofilo, non vuole la guerra come la voglio, la devo volere io!» (annotazione del Diario del 1913-1915, datata Firenze, 1 febbraio 1915, in Fondo Stuparich AD-TS. Sottolineature nel testo). 29 Prezzolini, L’italiano inutile, cit., p. 185. 30 Prezzolini, La nostra promessa, in «La Voce», I, 2, 1908, ora in Luperini, Gli esordi del Novecento e l’esperienza della «La Voce», LIL 57, Laterza, Bari 1978, pp. 22-24 passim.

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l’Italia, «che fosse approfondimento spirituale e scuola di giusto rigore», 31 e nella quale si rifletteva positivamente la «deontologia etico-intellettuale»32 di Prezzolini. Ricorda Jahier, che ebbe poi un percorso simile a quello di Stuparich – dentro la guerra nella scelta del volontarismo, e a rodersi poi nella delusione per le speranze clamorosamente tradite –, che la prima «Voce» era stata animata da un tale fervore di verità che si incarnasse in azioni di rinnovamento culturale e morale, da una così convinta aspirazione ad una letteratura attivamente impegnata nella società, che attirò nel suo vortice i migliori della nostra generazione, imponendo una atmosfera di dialogo culturale sincero, seppure un po’ autodidatticamente ingenuo, grazie o malgrado, le contraddizioni insolenti dei suoi collaboratori.33

Un atteggiamento di apertura e di impegno che andava però di pari passo col mito del primato degli intellettuali e con la speranza (o l’illusione) di riuscire a suscitare, grazie alla serietà del proprio lavoro di studiosi, una produttiva opera di «risarcimento fra cultura e politica». 34 Mettendo tra parentesi la letteratura, o meglio, escludendola dalle pagine della rivista per esplicita volontà del direttore (e da qui non pochi malumori in redazione), si intendeva proporre – e non era poco se pensiamo alla provenienza (ed alle ambizioni) ancora umanistico-letteraria dei vociani35 – «una nozione dell’attività culturale sostanzialmente dialettica rispetto al momento della prassi»36 che rifletteva, in sostanza, l’«impostazione tipicamente idealistica del rapporto tra verità teoretica e realtà pratica del sistema dei distinti», 37 ma senza far mai perdere la presa sul terreno solido del certo e verificato. Sacrificato il momento estetico, non si poteva dire altrettanto dell’esigenza morale: ha commentato Stuparich, nella monografia slataperiana stilata in stagione di verifiche, il 1922, che «si fece sentire un certo rigore, una specie di protestantismo, un’aria kantiana di imperativo categorico», in

31 G. Pintor, L’onore d’Italia (1940), in Idem, Il sangue d’Europa, Einaudi, Torino 1950, p. 105. 32 Biondi, Il giovane Prezzolini, in R. Salek, Giuseppe Prezzolini - Una biografia intellettuale, Le Lettere, Firenze 2002, p. XXIV. 33 P. Jahier, Contromemorie vociane, «Paragone letteratura», n° 56, 1954, p. 29. 34 G. Petronio, Quadro del ‘900 italiano, Palumbo, Palermo 1976, p. 38. 35 Sulla nuova figura di intellettuale che va lentamente configurandosi anche attraverso «La Voce» si devono interessanti osservazioni a Mangoni, Lo stato unitario liberale, in Letteratura e potere, Letteratura italiana - Il letterato e le istituzioni, sotto la direzione di Asor Rosa, Einaudi, Torino 1982, p. 506: «Proprio ai primi del Novecento […] l’intellettuale si era riconosciuto parte di un ceto autonomo. Non si trattava più […] del politico che era anche letterato, come spesso era avvenuto nel periodo risorgimentale; né del letterato che esprimeva anche apprezzamenti politici, come negli anni dell’assestamento dello Stato unitario: ma dell’intellettuale […] che da un’ipotesi interpretativa riteneva di far discendere la comprensione e il controllo della realtà». 36 Langella, La prima «La Voce» prezzoliniana e gli intellettuali, cit., p. 129. 37 Ivi, p. 132 nota.

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Amendola, in Prezzolini e «perfino nel Papini». 38 Anche la sfumatura nazionalista, all’alba di una stagione di sogni di grandezza coloniale e continentale, acquista sul foglio fiorentino un’intonazione particolare: è la «vocazione umanistica del nazionalismo vociano» che Emilio Gentile vede incarnata in Slataper e che andrà a sfociare nell’«interventismo democratico». 39 La volontà di “far opinione” motivava per altro ad un costante contatto col pubblico, da educare e far crescere superando i vecchi vizi dell’accademismo e dell’elitismo, pubblico che veniva individuato soprattutto nei lettori delle «province e dei piccoli centri e delle campagne, dove si respira aria meno scettica che nelle mezze grandi città d’Italia»40: insomma le forze nuove di un Paese che si agitava nelle pastoie di vecchie retoriche, schiacciato sotto il peso di un centralismo poco rispettoso delle diversità. «Piccole velleità d’arte piccole false superbie piccoli sofismi moralistici piccole vigliaccheria pratiche si spuntano si correggono all’azione della ‘Voce’», scrive Stuparich in una lunga ed entusiastica lettera-memoriale indirizzata a Prezzolini da Umago, in data 13. VIII. 1913. Un enfatico grido di riconoscenza rivolto alla rivista e in lode del suo spirito animatore, cui si riconosce il merito di aver trasformato un giovane provinciale immergendolo in un turbine che scuote inerzie e accende curiosità: Ogni settimana porta un’esperienza nuova, la conferma di verità solitariamente conquistate la nascita di dubbi fecondi. Gli articoli di Prezzolini di Papini di Soffici di Slataper sono ondate che si sbattono sulla riva secca e la dissetano la impregnano la trasformano la fertilizzano. È tutto un lasciarsi prendere un inebriarsi con ceca (sic) fiducia i primi mesi. Poi viene la calma: si sviluppano i germi, comincia la critica. Gli articoli soli non bastano più: bisogna conoscere gli uomini che gli (sic) scrivono, per quanto è possibile, nella loro attività anche fuori della «Voce», respirare dell’atmosfera che respira il loro spirito per vivere e creare.41

Vera intelligenza motrice dell’impresa era il versatile ed irrequieto Prezzolini, l’autodidatta brillante e spregiudicato che si era fatto le ossa, da polemista tagliente, nella campagna anti-socialista del «Leonardo» (firmandosi Giuliano il Sofista), e che – trovata, come si è detto, la sua “fede”, dopo tante svolte, sbandamenti e dilettantesche infatuazioni – avrebbe poi assunto il ruolo, così Gramsci42, di “chierichetto” del Croce (e in effetti proprio al filosofo abruzzese Prezzolini aveva dedicato un volume divulgativo nel 1909, traendo dall’uomo e dall’opera l’invito a «tenersi in contatto con il tempo suo» e l’aborrimento per il 38 G. Stuparich, Scipio Slataper, cit., p. 54. 39 Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, cit., pp. 129, 134. 40 Prezzolini, La nostra promessa, cit. 41 Lettera custodita presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano e in parte citata nel Catalogo della Mostra «Intellettuali di frontiera - Triestini a Firenze», a cura di M. Marchi, cit., pp. 137-8. Sottolineature nell’originale. 42 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950, p. 164.

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ruolo sterile di «filosofo da tavolino e da lucerna»43); ironizzando, nel febbraio del 1912, sull’infatuazione internazionale per Bergson – quel «Bergson for ever» allora tanto di moda nei salotti intellettuali – Prezzolini scriveva che questa è la nostra fortuna: di avere il Croce. Il merito suo è, all’infuori di ogni valutazione particolare e speciale del suo sistema, proprio quello di avere un sistema […]. Il Croce è quello che nel nostro tempo è riescito, più profondamente e coerentemente d’ogni altro, a dare un impulso totale alla coltura e al pensiero del nostro paese, coltivando nei giovani tutto l’uomo, interessando tutti, dal religioso all’ateo, dal letterato al politico.44

Del resto niente in Prezzolini che faccia pensare a un grigio amministratore, o a un parassita di energie altrui: «se», come è stato notato esprimendo un’opinione ormai acquisita alla critica, «è sbagliato e riduttivo stabilire un’equazione fra Prezzolini e “La Voce”, altrettanto errato sarebbe sminuire l’importanza del ruolo svolto nella storia della rivista dal suo fondatore e direttore». 45 Prometeico rapitore di scintille, dunque, piuttosto che opaco burocrate della cultura. Al suo fianco, personalità di grande spicco (abbiamo già fatto qualche nome) di volta in volta dominanti nell’ampio ventaglio dei collaboratori e una fitta schiera di giovani, la fibra viva e reattiva della rivista. Individualità tutte originali e svettanti, che solo grandi ideali e grandi malintesi potevano far armoniosamente cooperare, in un foro di discussione e in un laboratorio di idee caratterizzato dal vivace dibattito interno (nelle forme, è stato detto bene, di una «capricciosa democrazia redazionale»46) e dagli intensi scambi di opinioni e di esperienze: «“La Voce” n.1 era un intero», garantisce idealizzandola Prezzolini, proprio mentre ammette la fatica di «trovarsi sempre fra l’incudine ed il martello di collaboratori che si dilaniavano – sempre per ragioni ideali e morali». 47 Molti nodi vennero al pettine con la guerra di Libia: nelle polemiche accese dal conflitto «il movimento vociano si sfalda in atteggiamenti e programmi contrastanti di cui ‘Lacerba’ e ’L’Unità’ costituiscono i poli estremi, sui versanti contrapposti dell’ideologia nazionalistica e di quella democratica». 48 Se ne va allora Salvemini, critico dell’impresa africana, colui che avrebbe voluto varare forme di impegno più esplicitamente politiche: «per me», scriverà a Prezzolini nel settembre 1911, «la coltura vera oggi consiste nel parlare di Tripoli. Tutto il resto oggi non è coltura, è letteratura. La stessa questione meridionale oggi è

43 Prezzolini, Benedetto Croce, Ricciardi, Napoli 1909, p. 21. 44 Prezzolini, Io devo…, in «La Voce», IV, 7, 1912. Cfr. La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, III, «La Voce», a cura di Romanò, Einaudi, Torino 1960, pp. 435-436. 45 Pellegrini, cit., p. 516. 46 Biondi, «Non è la nostra una rivista di lucro o di vanità», cit., p. 135. 47 Prezzolini, L’italiano inutile, cit., pp. 162, 159. 48 F. Golzio e A. Guerra, «L’Unità» di Salvemini e «La Voce politica» di Prezzolini, cit., p. 8.

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letteratura». 49 Si produce allora la prima importante scissione: sulla barca dei rimasti è ancora Prezzolini a tenere la barra del timone, salvo un periodo di direzione indiretta, da dietro le quinte, di Slataper ed un brevissimo interregno papiniano, che favorisce uno slittamento verso la letteratura. Poi, dopo un paio d’anni di crisi e di lisi, la svolta definitiva nel 1914, anno in cui, essendosi ormai allontanati anche Amendola, Slataper, Boine – ed erano stati fra i collaboratori più vivaci e stimolanti – la rivista, trasformatasi in organo dell’«idealismo militante», si riduce ad «essere la proiezione dei velleitarismi prezzoliniani avendo ormai perduto la problematicità e la disponibilità critica della prima “Voce” ed essendosi ormai aperta ad un irrazionalismo di fondo». 50 Mentre anche l’unghiata polemica veniva a cadere, trasformandosi il conclamato impegno di «rinnovamento morale e civile in progressiva assuefazione agli interessi della classe dirigente». 51 «La caratterizzazione così definitiva della “Voce”», è stato spiegato, «sanzionerà l’esclusione di fatto di tutto un arco di uomini e di tendenze che nel nuovo indirizzo, proprio per la sua perentorietà non possono più riconoscersi»;52 “sfoltimento” che non mancherà di produrre uno strascico di amarezze, rimpianti, rancori. È proprio allora che Boine assesta contro gli amici della «Voce» e Prezzolini in particolare quella «botta» spietata (datata 1.I.1914 uscirà in marzo sulla «Riviera Ligure») che è ormai entrata a far parte dell’aneddotica letteraria: «la “Voce” ha cessato di essere la viva la libera la intelligente espressione di un gruppo di uomini colti ed onesti e diventa l’organo di propaganda (sempre interessante) di una semisetta di benintenzionati che han quattro dogmi fissati, quattro giacobinerie sentimentali da imporre»53 (ma, qualche settimana dopo, anche Carlo Stuparich cede al bisogno di commentare: «‘La Voce’ di ora non mi va punto […] se diventa militante si militarizza davvero e ‘La Voce’ sarà ripetizioni e catechismo»54). Quindi, a concludere la parabola della rivista, un “crepuscolo” 49 G. Salvemini, lettera a Prezzolini, da Roma, 28 settembre 1911, in Id., Carteggi, I, (1895-1911), a cura di E. Gencarelli, Feltrinelli, Milano, 1968, p. 507. Sulla spaccatura che allora si evidenzia nel campo dei collaboratori, vedi Romanò, Introduzione a La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, III, «La Voce», cit., pp. 57-58. Istruttiva, sulla defezione di Salvemini, anche la sua lettera del 1 ottobre 1911, ora in Salvemini, Carteggi, I, (1895-1911), cit. e in E. Kühn Amendola, Vita con Giovanni Amendola, Parenti, Firenze, 1960: «Essendo uscito dal Partito Socialista e non trovando nella “Voce” e intorno alla “Voce” quel gruppo che facendomi sperare in un’azione utile mi obbligherebbe lavorare, ed essendo convinto che un uomo solo nella società moderna è un impotente, faccio la riverenza al mondo moderno, e mi metto a ‘studiare’ per conto mio» (p. 299). 50 Luperini, Gli esordi del Novecento e l’esperienza della «Voce», cit., p. 28. 51 Luti, La letteratura nel ventennio fascista, cit., pp. 5-6. 52 Strappini, Cultura e nazione. Analisi di un mito, in Strappini, Micocci, Abruzzese, La classe dei colti, Laterza, Bari 1970, p. 87. 53 G. Boine, Il peccato - Plausi e botte - Frantumi - Altri scritti, Garzanti, Milano, 1983, p. 78. 54 C. Stuparich, Cose e ombre di uno, Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1968. Lettera del 18.I.1914, p. 130. Diversa l’opinione di Giani: «‘La Voce’ nuova, caro Carletto, è eccellente, magari

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di due anni sotto la direzione di Giuseppe De Robertis55, che vi imprime un carattere ormai solo e chiusamente letterario. Restano a questo punto solo un ricordo quei toni da battaglia politica che facevano della «Voce» una rivista di fronda, schierata, nel suo «periodo eroico»,56 senza compromessi né titubanze, su posizioni anti-giolittiane, nella speranza di poter contribuire a spianare quella “gobba” nazionale sulla quale Giolitti andava tagliando, in maniera non poco spregiudicata, gli abiti della sua politica (un antigiolittismo che, nel quadro di un giudizio sempre sfaccettato, va però a poco a poco attenuandosi e, come ha mostrato Emilio Gentile57, finisce anzi per sfociare nell’apprezzamento degli aspetti positivi della politica di Giolitti, cui Prezzolini renderà omaggio in un articolo sulla Pace giolittiana, del 24 ottobre 1912). Si chiuderà così il capitolo delle generose intenzioni (e della coraggiosa presenza polemica), per quanto, come è stato scritto, vissute nella prospettiva comunque anacronistica «di restaurare il prestigio del ruolo attraverso l’individuazione e l’aggregazione di un’élite altrimenti dispersa ed avvilita […] ora con linearità di programma politico e culturale […] ma più spesso con enfasi attivistica»58 (e qui cadono più a che a proposito le legittime perplessità di Serra che confessava, nel 1911, di sentirsi infastidito da certe pose enfatiche di Salvemini e Prezzolini: «scrivono di politica e di economia con fervore e con astio, col desiderio di rifare, di mescolarsi alla pratica e pur con la teoria di chi alla pratica è superiore; e allora, con tali pretese questa gente che non dispone né di un voto né di un uomo né di un soldo, fa ridere insieme e fa rabbia»59). Fra i tanti che vi avevano collaborato anche il triestino Scipio Slataper (trapiantatosi a Firenze già nel 1909), con qualche segreta frustrazione per il suo ruolo gregario e per le resistenze di Prezzolini ad aprire la rivista alla letteratura. continuasse sempre così; e altro che ci può essere un idealismo militante! Non inteso però come lo intendi tu: non si tratta di propaganda […] si tratta di lavorare in intensità, senza perdersi, senza cercarsi più; ti paiono ripetizioni vuote certe idee di Prezz nel num di gennaio? Non è vero, non mi sembra. Prezz è nuovo, è fresco, è meravigliosamente sano: per mio conto la prova è riuscita - l’idealismo militante sarà l’uomo di esperienza idealista che costruisce dove ha abbattuto e, ricco dell’esperienza che chi ha costruito non deve accontentarsi d’ammirare la sua costruzione riposando, rifonde le parti fuse e procede con la continua attività della pelle che perennemente si rinnova; l’uomo che galleggia sui rottami! (mentre gli altri li hanno sulla testa e soffocano sotto)». Lettera a Carlo, 23. I. 1914, in Fondo Stuparich AD-TS. Abbreviazioni e sottolineature nell’originale. 55 Sbotta Giani nel Diario 1913-1915: «come ha fatto Prezz. a dare in mano ‘La Voce’, lui che andava a cercare il pelo dell’oscurità nell’uovo della chiarezza, a quest’uomo confuso, caotico che di meriti non ha forse che una sensibilità dilatabile e gonfiabile come una vescica!» (in Fondo Stuparich AD-TS). 56 Così G. Stuparich, che si riferisce ai primi tre anni di vita della rivista, nella lettera del 13.VIII.1913, vedi nota 41. 57 E. Gentile, «La Voce» e l’età giolittiana, cit. Spec. pp. 197 e segg. 58 Carpi, «La Voce» - Letteratura e primato degli intellettuali, cit., p. 21. 59 R. Serra, Epistolario, a cura di Ambrosini et alii, Le Monnier, Firenze 1934, p. 407.

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Nel secondo anno della «Voce», tuttavia, «la posizione di Slataper (…) cominciò ad essere, sia pure saltuariamente, più direttiva che di collaboratore» e «si deve proprio al maggior ‘potere’ di Slataper in seno alla rivista il fatto che diversi giuliani iniziarono a collaborare alla ‘Voce’: era lui che li sollecitava o, a volte, li accostava». 60 Una presenza dunque, a tutti gli effetti decisiva: Slataper orienta l’attività della rivista, in uno dei suoi molteplici filoni di ricerca ed approfondimento, verso tematiche triestine, sia con interventi di suo pugno (quelli noti, ma non sono i soli, come Lettere triestine), sia favorendo l’aprirsi di uno spazio di dibattito (vi parteciperanno in prima linea i giuliani dell’ambiente vociano e alcuni intellettuali di Trieste) che culminerà nei due «Quaderni della Voce» dedicati al problema dell’Università italiana a Trieste (1, 31.X .1910) e, nello stesso anno, nei due numeri della rivista sul tema dell’irredentismo, curati da lui personalmente. Grazie a questo particolare impegno «La Voce» assume un ruolo mediatore di rivista-ponte, come ha spiegato a distanza di sessant’anni Alberto Spaini,61 uno dei triestini di Firenze, tale da consentire, nei due sensi di marcia, una conoscenza più intima e completa: in Italia rispetto alla sua quasi ignota appendice nazionale in territorio austriaco, e a Trieste intorno ai problemi della fin troppo mitizzata madrepatria. Relazione nutriente, sebbene per nulla simmetrica, vista la costante difficoltà della città adriatica a riconoscersi nello specchio che, senza indulgenza, le veniva porto da Firenze (e da qui le numerose polemiche “triestine” nei confronti della «Voce»). Eppure insostituibile palestra di cultura, ideologia, metodo per la maturazione della migliore intellettualità giuliana, come ha ricordato Prezzolini che, intervistato nel 1973 da Giorgio Baroni, ha parlato, a proposito della partecipazione dei triestini alla rivista, di un fruttuoso apprendistato di sincerità: «sincerità alla base di ogni impostazione; […] semplicità, chiarezza, naturalezza, esattezza di dati, cognizione storica del problema, opposizione a ogni retorica […] modo nuovo e realistico per risolvere i problemi».62 Giudizio che ritocca con larghezza quanto lo stesso Prezzolini aveva annotato, a proposito degli “irredenti”, quasi sessant’anni prima: «più parlo con Trentini, Triestini e Dalmati», osservava allora, «e più mi convinco che tutti parlano ‘provincialmente’ senza capire che il loro problema è italiano e anzi europeo; ma faccio un’eccezione per Slataper, il solo triestino che si sia sollevato sopra il comune ‘campanilismo’».63 Chiarito questo sfondo – che abbiamo dovuto tracciare con veloce schematismo – è opportuno ritornare finalmente a Stuparich, che ritroviamo, alla fine del 1911 in quella madrepatria che fin da ragazzo aveva vagheggiato fantasticando di Garibaldi e recitando Carducci. Per le strade di Firenze lo conquistano le straordinarie atmosfere della città di Dante, così diversa dai 60 Baroni, Trieste e “La Voce”, cit., pp.53-54. 61 Ivi, p. 88 e segg. 62 Ivi, p. 85. 63 Prezzolini, Diario, 1900-1941, Rusconi, Milano 1978, p. 143. La nota risale al 13 dic. 1914.

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monotoni orizzonti del luogo natio, tanta natura rigogliosa ma povero nelle espressioni d’arte: una città portuale opulenta ma ancora provinciale, nonostante la supponenza che traspariva anche da certe ambiziose scelte architettoniche che, ispirate a modelli trecenteschi e rinascimentali, 64 intendevano evocare in terra d’Austria le atmosfere della patria italiana. In Toscana la linea del cuore e la linea della vita possono finalmente coincidere: sull’Arno, davanti a Santa Maria del Fiore, al Campanile di Giotto, al Battistero Giani scopre la «grandezza senza pompa, la bellezza senza sfoggio […] l’espressione solida d’un linguaggio austero e ricco di intime vibrazioni, in una forma di sostanziale armonia», acquistando consapevolezza dell’«Italia dei secoli passati, viva nella continuità della sua storia. Il mio stupore non aveva radici nella titubanza, ma in una gioiosa sicurezza di ritrovarmi, di capirmi meglio, d’espandermi nelle cose e di sentire in esse una corrispondenza che mi liberava e mi elevava». Così A Firenze nel 1911; una pagina poco nota, già in precedenza citata, ma che andrebbe tutta riletta perché ci ridà l’uomo nella sua interezza di emozioni e idealità, sull’eco fedele e commossa della riscoperta entusiastica delle proprie radici. Stato d’animo che a distanza di decenni riemerge intatto con le sue vibrazioni appassionate, certo modulato dai travagli di un’esistenza non facile, ma sempre sotteso dalla limpida luce di quella prima esperienza. Sentimento speciale e ampiamente condiviso da tutti quei giovani che, provenendo dall’estremo lembo della nazione, vivevano i capolavori del genio italiano raccolti a Firenze come in una sorta di ideale galleria, con stupefatta ammirazione e, insieme, con la gioia spontanea e con l’orgoglio di chi entra in possesso di un bene lungamente agognato, riconoscendo in quelle chiese, in quei palazzi, in quelle testimonianze d’arte e di cultura l’espressione più alta e più compiuta della vita estetica e morale di una civiltà millenaria – la propria – che aveva saputo perfettamente fondere creatività e disciplina, individualismo e socialità. «La visione della città fu una rivelazione», racconta di Firenze («che mi pareva tutta meravigliosa»65) Biagio Marin: accattivante epifania di bellezza che, con la sua misura d’ordine e di armonia, proponeva un senso della vita ricco di un inconfondibile pathos e rendeva orgogliosi di un’appartenenza spesso vissuta, a casa propria, con un inconfessato senso di inferiorità. E qualche anno prima il geniale e sfortunato Carlo Michelstaedter: «e come parlano, dio che musica. Mi fa l’effetto che ognuno abbia un tesoro in bocca, e non lo sappia». 66 Lì sull’Arno, fra tante entusiasmanti scoperte, ovvio e naturale l’incontro fra gli “espatriati” delle terre adriatiche, a creare caldi e indistruttibili legami

64 Per questi aspetti urbanistico-architettonici di Trieste, visti però in luce favorevole da uno degli ideologi della “difesa nazionale”, si rimanda a Senardi, ‘Trieste’ di Silvio Benco. Un ‘Baedeker’ militante, in Id., Silvio Benco «nocchiero spirituale» di Trieste, cit. 65 Cit. in E. Serra, Biagio Marin, cit., p. 31. 66 C. Michelstaedter, lettera alla famiglia, 27. X.1905, in Id., Epistolario, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1983, p. 31.

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di affetto, sull’orizzonte di un comune ethos che Firenze rappresentava come simbolo concreto della continuità di una civiltà nella storia. L’amicizia con Slataper, per esempio, intrecciata da Stuparich (e da Marin, che ne diventa il più fedele seguace), conquistato da una personalità dalle traboccanti energie morali, intellettuali, fisiche oltre che ricca del fascino di un maturante talento di scrittore. «Da Firenze», rivela Elody Oblath (dal cui epistolario molto possiamo desumere su quello Stuparich intimo e segreto di cui così poco è filtrato), «Scipio mi scriveva: Ho letto il mio Carso a Stuparich, triestinello, che ne rimase commosso»67. E Giani, tanti anni dopo, ricordando lo stesso episodio: C’è una relazione del Carso con l’anima triestina […] fu Scipio Slataper a darle espressione in un’operetta singolare che a riprenderla in mano ogni volta mi sembra più fresca. Me la leggeva lui, manoscritta, nell’inverno del 1911 a Firenze, quando la stava ancora elaborando […]. Non dimenticherò mai quella voce pastosa che via via si inteneriva e vibrava di commozione […]. Credo che fosse soddisfatto perché, anche se non le parole, il mio volto tradiva i sentimenti che provocava in me la sua lettura. Era proprio la scoperta poetica della nostra anima triestina.68

Trascorrono molti mesi da quelle coinvolgenti letture – quasi da esuli in terra straniera, uniti da comuni ricordi e condivise nostalgie – e una lettera di Slataper inaugura una nuova fase nella vita dello studente, che ha iniziato a muoversi, con l’entusiasmo di chi vuole tutto abbracciare, fra Praga, capitale di una nazione in impetuosa fase ascendente, fervida di vita e di stimoli intellettuali, Firenze, e Trieste, il nido degli affetti. «Non si potrebbe fare io e te e qualche altro semmai», scrive Scipio da Firenze, «una serie di articoli sull’Austria attuale? Tu, per esempio fra un mese o due potresti di certo scrivere qualcosa sugli Ceki. In questo momento l’Italia ha molto interesse di conoscere le cose austriache».69 Scipio è reduce dalla lettura dell’articolo di Stuparich I tedeschi dell’Austria, che apparirà sul numero del 9 gennaio 1913 della «Voce» e ne ha parlato con Guido Devescovi, per manifestargli il suo entusiasmo. Aggiungerà, qualche mese dopo, «tu non sai quanto godo vedendoti seriamente interessato ed occupato delle nostre questioni, e come mi compiaccia con me d’aver subito capito a Firenze, che tu potevi e dovevi fare»;70 parole che si leggono in quella stessa sede dove comincia a prendere forma l’ipotesi di fondare a Trieste una rivista (che avrebbe dovuto chiamarsi, com’è ben noto, «Europa») «dedicata alle lotte nazionali, viste con l’intelletto nostro aperto, fondato su serietà religiosa della vita e sentite con la nostra esperienza di triestini […] una rivista che vedesse le cose contemporanee con onestà di storia: non per 67 Lettera del 26.IX.1915, in E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, cit. p. 62. 68 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 35-36. 69 Slataper, Epistolario, a cura di Stuparich, Mondadori, Milano 1950, p. 156. Senza data, ma ottobre/novembre 1912. 70 Slataper, Epistolario, cit., p. 157. Lettera da Amburgo del 23 giugno 1913.

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pigliar nessuna posizione pratica, ma per pigliarne una che duri più di un giorno. Affermare insomma in concetto e in atto la civiltà nazionale».71 Ma intanto era accaduto un fatto destinato a gettare scompiglio nella schiera dei triestini della «Voce». Slataper, dando seguito alle incertezze sempre più marcate sulla qualità della rivista e sul suo ruolo in essa, conclude in sostanza, già alla fine del ’12, il suo rapporto di stretta collaborazione con una redazione che ormai gli stava stretta. Alla passione succede il disamore: così a Marcello, agli inizi di febbraio 1912, contemplando la possibilità di un ritorno a Trieste: «mi è venuto a galla più crudamente di prima la mia non completa quiete nella ‘Voce’, il mio stato di preparazione armata»;72 e ad Elody, nel dicembre dello stesso anno, persuaso ormai al passo inevitabile: «scrivo poco perché qui c’è novità: stiamo per decidere la morte della ‘Voce’, perché a poco a poco diventa inutile e ridicola». 73 Col Mio Carso in valigia – la sua rivincita nei confronti di una rivista che aveva voluto negarsi (e negarlo) alla letteratura74 – Slataper, ottenuta la laurea nel dicembre 1912, sarà prima a Vienna, poi si sposerà, per recarsi quindi ad Amburgo, lettore di italiano al Kolonial Institut. Osserva giustamente Bertacchini: Stuparich pubblica dunque i suoi articoli su ‘La Voce’ proprio in quell’anno 1913, nel quale si rende soprattutto avvertibile come l’impegno di concretezza e la premura originaria di studio e di ridimensionamento dei problemi da parte della rivista vengano sempre più pericolosamente sostituiti da nuovi interessi dogmatici, dalle novelle enunciazioni più dottrinali e metafisiche che storiche. E fa davvero uno strano stridente effetto, in questo mutamento di clima, vedere gli articoli e i saggi di Giani Stuparich, I tedeschi dell’Austria […], Gli Czechi […] e La Boemia czeca […] alternarsi nella pubblicazione con gli articoli per esempio di un Enrico Ruta, tutto occupato a dare del problema meridionale una versione impaziente, attivistica, violentemente mistico-irrazionale.75

Ma non tutto il male viene per nuocere: da questo momento in poi il ruolo di mentore della crescita intellettuale di Stuparich, e di tramite delle sue ambizioni saggistiche verrà esercitato da Prezzolini, con il quale il triestino intreccia un’affettuosa amicizia destinata a durare nel tempo. A lui Stuparich invia, con lettera del 31 gennaio 1913 da Praga, Gli czechi, il suo secondo articolo destinato alla «Voce»:

71 Ivi, pp. 158-159. 72 Ivi, p. 95. 73 Slataper, Alle tre amiche, a cura di Stuparich, Mondadori, Milano 1958 (II ed.), p. 271. Lettera a Elody del 17. XII.1912. 74 «La composizione del Mio Carso», è stato scritto, «diviene così il risultato logico dell’urto, reazione e delusione con l’esperienza vociana, e costituisce la prova ‘estetica’ della personalità di Slataper a confronto dei compagni fiorentini» (A. Abruzzese, Da Trieste a Firenze. Lavoro e tradizione letteraria, in Strappini, Micocci, Abruzzese, La classe dei colti, cit., p. 268). 75 Bertacchini, cit., p. 20.

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Caro Prezzolini, ecco Gli Czechi. Ho cercato di seguire i tuoi consigli. Non so in quanto ci sia riuscito. Riguardo ai fatti ho creduto bene di risolverli nelle idee che li portano. Questo sarebbe il primo articolo […]. Il secondo che è in farsi, darebbe un’idea della vita czeca dal ’60, che fu eminentemente politica, e ragguaglio dell’odierna civiltà che, col principio del secolo supera il momento esclusivo politico per svilupparsi e progredire nei diversi rami della cultura. Se in questo articolo si cominci a mantenere la “promessa”, non so. In ogni caso voglia di fare c’è.76

Palese offerta di collaborazione ed omaggio, non sarà sfuggito, ad uno dei dogmi intellettuali di Prezzolini, a «S.M. la Ragione e il Re Pensiero» (intese, ovviamente, in senso rigorosamente crociano), come aveva scritto con staffilante ironia Papini in una lettera all’amico nel maggio 1908. 77 Prezzolini, da parte sua, informandosi se mai Giani avesse qualcosa da proporre alla «Voce», dopo la pubblicazione, sul numero del 17 aprile del ’13, del saggio sugli Czechi, gli si rivolge affettuosamente nell’estate dello stesso anno con quell’atteggiamento protettivo e pedagogico che sarà lo stesso triestino a sollecitare. 78 Dunque, tu studi e leggi, e sei così in contatto con persone che valgono tanto più di me, che io non potrei dirti nulla di più di quello che esse ogni giorno possono dirti. Dal punto di vista puramente pedagogico ti consiglio di legger molto italiano e buono italiano perché ho dovuto spesso fare correzioni nel tuo testo, causa certe espressioni imbarazzate e confuse, o certi periodi di sintassi poco nostrana, lasciati in aria. Ciò è spiacevole, perché nella tua prosa si sente già l’inizio di un ritmo, si trovano già abbozzi d’immagini che tendono alla poesia o ad una prosa numerosa e più robusta. Un’altra volta ti manderò il manoscritto con correzioni per farti vedere dove ho osservato qualche mancanza. Ma del resto tu hai già molto migliorato e migliorerai ancora di più se potrai passare, come spero, qualche tempo in Italia. Continui a studiare lo czeco?79

Nell’ottobre del 1913, con una cartolina da Berlino, 80 Stuparich annuncia l’invio di un saggio su Kleist sul quale Prezzolini avrà parecchio da ridire per «squilibri di forma» e «passi oscuri». Giani, in una lettera successiva, cerca di motivare la sua interpretazione: esiste a suo parere un Kleist uomo che non si può risolvere nel 76 Stuparich a Prezzolini, da Praga, Vinohrady, 31 gennaio 1913. Lettera conservata presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano. 77 Lettera di Papini a Prezzolini del 18 maggio 1908, in Prezzolini, Storia di un’amicizia, Vallecchi Firenze 1966, p. 206. 78 «Sappi che lavoro volentieri per la ‘Voce’», così Stuparich a Prezzolini, inviandogli una recensione sul libro di Gayda, La crisi di un’Impero, «ho bisogno di esser corretto e consigliato: mi manca molto. Fallo quando puoi, aspramente e sinceramente». Da Praga, Vinohrady, 12 giugno 1913. Lettera conservata presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano. 79 Prezzolini a Stuparich, da Firenze, 13 luglio 1913. Cfr. Catalogo della Mostra «Intellettuali di frontiera - Triestini a Firenze», cit., p. 136. 80 Cartolina postale del 18. X.1913. Conservata presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano.

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Kleist artista e che il critico ha il dovere di mettere in luce. Se il tema è già stato toccato, conta qui sottolineare, conferma di una militanza intellettuale vissuta con impegno e abnegazione, l’atteggiamento di affettuosa umiltà di Giani (che si apre invece fino in fondo con il fratello, confessandogli una dolorosa incrinatura nell’auto-stima81): «mi sarà di grande vantaggio capire dove tu mi correggi»82 scrive perciò all’amico. Ma a fianco di Prezzolini è ora Carlo, impegnato in un utile apprendistato culturale presso «La Voce», sostituto quasi, nella stima e nell’affetto del direttore, del fratello lontano. Al quale si rivolge Prezzolini, quasi a rassicurarlo della sua costante attenzione: «ora stiamo benissimo insieme e ci diamo del tu, un altro anno ci sarai anche tu, spero, qui e così triestinizzerete Firenze e vi fiorentinizzerete voi». 83 Giani raggiungerà in effetti l’amico e il fratello qualche mese dopo, nel gennaio 1915, in tempo per partecipare alla battaglia politica per l’intervento. Mentre intanto matura segretamente in lui, con lentissima chilificazione, quell’inclinazione per la letteratura destinata, in un breve volgere di anni, a prevalere. Il saggio che Slataper lesse e apprezzò negli ultimi mesi del 1912, rappresentò, sulla pagine della «Voce» il biglietto da visita del nuovo collaboratore. Avvalendosi della sua invidiabile posizione di triestino e per di più ospite nella Boemia rinata alla coscienza nazionale, Stuparich è in grado di proporre osservazioni e di avanzare giudizi come nessun altro nell’Italia di allora. 84 E inizia un discorso – destinato a protrarsi lungamente e a sfociare quindi nel suo 81 In un gruppo di lettere dell’autunno del 1913, conservate presso il Fondo Stuparich AD-TS. 82 Lettera del 6. XI. 1913 conservata presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano. 83 Prezzolini a Stuparich, da Firenze, 30 novembre 1913, Cfr. Catalogo della Mostra «Intellettuali di frontiera - Triestini a Firenze», cit., p. 140. 84 Colpisce la disattenzione della cultura italiana, in tutti i suoi settori, nei confronti di quello Stato che era, dal 1882, il più importante alleato del regno sabaudo. Se per esempio si sfogliano le annate della «Nuova Antologia» negli anni fra il 1882 e il 1915, e non parliamo di una rivista qualunque ma della “voce” semi-ufficiale dell’establishment, salta subito agli occhi l’esiguità dei contributi dedicati all’impero dell’aquila bicipite (fra i pochi menzioneremo almeno per l’importanza dell’autore e la significatività del tema: F. Salata, Le nazionalità in Austria-Ungheria, 16 agosto 1903). Disinteresse? Ignoranza? Scriveva Papini (e, non a caso, sulla «Voce»): «qualunque sia l’opinione che possiamo o che potremo avere dell’Austria (amica o nemica, alleanza perpetua o guerra vicina?) è necessario sapere con precisione – con tutta la precisione possibile – cos’è, cosa vale, com’è costituita e organizzata. Mi sono accorto, parlando con molti, che non ne sappiamo nulla. Al di fuori delle magrissime statistiche (invecchiate), dei trattatelli scolastici di geografia e degli almanacchi per le famiglie e di quelle poche notizia che si posson raccattare e indovinare leggendo i giornali non conosciamo altro» (Un libro sull’Austria, «La Voce», 15 dicembre 1910). A ridosso della guerra le cose tenderanno a cambiare: contribuiranno ad ampliare gli orizzonti gli articoli di Pietro Mitrovich sulla «Voce» sul tema degli Slavi meridionali oggi (per questi contributi, in relazione a Stuparich e alla sua visione del mondo slavo vedi Storti Abate: Stuparich, “La Voce” e il mondo slavo del primo Novecento, in «Metodi e ricerche - Rivista di studi regionali», gennaio-giugno 2002, dove si mette utilmente in evidenza come Mitrovich valorizzi la prospettiva risorgimentale e le ambizioni unitarie che animano gli slavi del sud), i libri di Arturo Labriola, Gayda, Barzini, Dudan e, naturalmente, i contributi di Stuparich.

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primo libro – affrontando innanzitutto il problema dei «Tedeschi dell’Austria» («La Voce», 9 gennaio 1913, d’ora in avanti nelle citazioni TdA) ed esponendo opinioni che, a posteriori, giustificano pienamente, nell’ottica sciovinistica dei liberal-nazionali triestini, il rifiuto che gli universitari della città giuliana opposero, in uno dei loro circoli, alla sua richiesta di associazione. 85 Del resto, a indicare la temperatura rovente del dibattito triestino, e di come certe posizioni de «La Voce» venissero sentite sacrileghe per i dogmi del più intransigente patriottismo giuliano, basterebbe la durissima reazione all’articolo di Stuparich, anonima ma di Ruggero Fauro-Timeus, apparsa sull’«Idea Nazionale» del 30 gennaio 191386: battuta di un dialogo tra sordi, visto che Timeus, che si sente bruciare sulla pelle il giudizio espresso da Giani sui sudditi italiani dell’Impero – lo leggeremo tra breve –, non ammette per loro un diritto ad esistere se non «come figli coscienti e attivi della Grande Italia del domani». 87 Comincia ad aprirsi il solco tra il giovane vociano e la Trieste della cultura egemone, come si potrà ben giudicare dalla lettura dei saggi fiorentini, presi in esame, nelle pagine che seguono, con analisi che vogliamo intonate a un severo scrupolo documentario, cedendo quanto più possibile la parola, a rischio magari di pedanteria, allo stesso Giani Stuparich. Prendendo occasione da un appello del «deputato Baernreither [che fu addirittura ministro nel 1916-17 NdA] dalle colonne del periodico radicale tedesco di Praga» rivolto ai tedeschi d’Austria affinché stringessero i ranghi e collaborassero più strettamente tra loro in un momento così difficile per l’Impero, Stuparich si interroga sul futuro della Doppia Monarchia che, dopo le recenti guerre balcaniche e la stabilizzazione a sud di un giovane e forte stato slavo, la Serbia, si trova ormai nell’impossibilità di completare quella “missione” balcanica alla quale si era sentita vocata. «E il nostro sogno d’Oriente?», metaforizza Giani prestando la voce all’Austria imperiale preoccupata per i propri destini, «la necessità del nostro moto, la funzione storica imposte a noi dalla diva madre teutonica? Saranno i servi di ieri a impedire il nostro destino? a mettere il tappo al flutto rigoglioso del vino che ha in se la forza fatale d’espandersi?» (TdA). In prima fila, a coltivare sogni di potenza, noncurante delle crepe che minavano la costruzione statuale, la «borghesia chauvinista» (TdA): «borghesia che dice di no a una università italiana in Austria, che applaude ed eccita il governo a ogni repressione, che non riconosce nulla fuori dell’orizzonte a cui arriva la sua vista» (TdA), nella convinzione – condivisa da molti osservatori stranieri – che «la tradizionale ben piantata burocrazia tedesca, l’esercito tedesco, e il sentimento dinastico, adoprino mani e piedi a murar quest’opera di difesa 85 Se ne lamenta Giani in una lettera a Slataper del 26 aprile 1912 (Slataper, Epistolario, cit., p. 155). Così il commento, in nota, del curatore: «gli studenti universitari triestini non vollero accettare Giani Stuparich quale socio in uno dei loro circoli, perché vociano e sospetto slavofilo» (ivi, p. 342, nota 65). 86 R. Timeus, ne La missione austriaca di Trieste, in Id., Scritti politici (1911-1915), Tipografia del Lloyd, Trieste 1929, pp. 123-125, dove aveva scritto di «masochismo filoslavo dei Vociani». 87 Ivi, p. 123.

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(Sbagliano: ché breccie e falle inotturabili han viziato anche queste trincee)» (TdA). Bisogna invece saper cogliere, osserva Stuparich, la vera natura delle alternative che si pongono: rinnovare lo Stato, senza cedere a nostalgie per il passato o a tentazioni di egemonia etnica e politica, oppure andare incontro al declino. O incanalare l’energie vitali dello stato – scrive – oppure venirne travolti perendo nei gorghi o ricomparendo qua e la sfiniti. Se inteso a questo modo, il raccoglimento a cui oggi da tutte le parti si chiama sarà proficuo; altrimenti è il principio della fine. Ma pare si tratti proprio di questa seconda eventualità, a giudicar dalle premesse: possesso (?) culturale e politico minacciato, tendenze che minano tutta la vecchia Europa alle quali i tedeschi dell’Austria sarebbero destinati a opporsi per la sicurezza del mondo civile (TdA).

Il pessimismo che questo passo rivela – giustificato dalle tentazioni di sciovinismo intransigente che insorgevano sempre più diffuse in campo austro-tedesco – viene però bilanciato da una serie di considerazioni ottimistiche destinate a costituire l’ossatura intellettuale e il piano di giudizio dei saggi successivi e del libro che ne deriva. A partire, innanzitutto, dalla messa in rilievo che, in Austria, lo stato odierno non ha più bisogno di artificiale cementazione; esso poggia ormai su un fondamento di interessi di reciprocità vitale talmente connesso negli elementi, che è insolubile. Fin che fu il processo di combinazione, è stato facile dargli una forma. Ragioni storiche, naturali e di cultura, fecero dei tedeschi i plasmatori, che trovandosi sotto mano una materia duttile e pastosa approfittarono per formarla a immagine e somiglianza loro. Ma combinato in un organismo ricco d’energie disparate e autonome, non s’adatta più in rivestimenti costrittivi o inadeguati, e la forma la si elabora da sé (TdA).

Una considerazione cui si aggiunge il riconoscimento che esistono nell’Impero forze politiche e intellettuali capaci di pilotare il Paese verso quegli approdi istituzionali resi inevitabili dal fitto tessuto di vene economiche che congiungono le due parti in un corpo solo [Stuparich sta prendendo in esame la più macroscopica frattura del tessuto imperial-regio, quella che divide la Cisleithania dalla Transleithania, ma il discorso ha un’ovvia valenza generale, NdA], uno spessissimo tessuto di fili sentimentali e di cultura fa dei gruppi politicamente staccati, comunità nazionali con eguali bisogni e eguali aspirazioni: così gli sloveni [si intendono ovviamente gli slovacchi, NdA] cogli czechi (la differenza fra i due idiomi è minore di quella fra due dialetti vicini d’Italia; la lingua letteraria è la stessa), i croati coi bosno-erzegovesi e coi dalmati, i tedeschi di là con quelli di qua, i rumeni coi rumeni della Bucovina (TdA).

E queste forze di progresso si esprimono in primo luogo in Boemia, che ha rinunciato a ogni tendenza centrifuga, se mai ci fu, e su una base di realtà provvedono gli czechi non al miglioramento del loro paese soltanto ma di tutta la monarchia: sempre essendo stata la nazione che al problema dell’intero regno ha avuto l’occhio. (Qual funzione di rinnovamento politico e miglioramento sociale abbia

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assunto questa, delle nazionalità ignorate la prima a risorgere, a completare l’interno sviluppo e a porsi in difesa di tutte le altre partecipi della sua sorte, è taciuto in Austria e fuori, ma non dovrebbesi più oltre ignorare) (TdA).

Altrettanto positiva è la funzione esercitata dai socialisti austriaci: «quella parte della nazione tedesca che, assorbita nell’organismo, collabora al bene dell’insieme con le proprie facoltà attive (i socialisti partito di grandi promesse nell’Austria, dove l’internazionalismo ha una vera ragione), è anche la più sana e sarà potente fattore nel nuovo ordinamento dello stato» (TdA). Diverso il discorso per i polacchi («i quali, completamente disinteressandosi delle vicende della monarchia, fanno l’effetto di ospiti che aspettano d’esser satolli per ritirarsi ringraziando» - TdA), ma non per gli slavi del sud, che «più labili in confronto degli czechi, i cui interessi combinano con quelli dello stato, non avrebbero però, date le premesse per una garanzia d’indipendenza, non abbandonando il tradizionale commercio, vantaggio alcuno per unirsi a uno stato in formazione [una Serbia ingrandita NdA] il quale con rischi e sacrifizi deve ancora farsi una base sociale» (TdA). Tenendo conto di ciò – l’ormai compiuta integrazione economica, gli stretti legami politico-culturali, le vigorose forze progressiste – «i tedeschi potranno ancora avere la parola decisiva; sorretti dalla dinastia, dal governo e dalla tradizione, e sapendo ricavare nutrimento da vasto materiale di lavoro e da ricche esperienze dirette per il proprio criterio nell’azione innovatrice» (TdA). Quanto agli italiani viene loro riservata la secca frustrata polemica che non piacque a Timeus e che va a colpire l’inclinazione all’isolazionismo, all’assenteismo politico-culturale, all’astio polemico (in poche parole, l’irredentismo nel suo versante più miope, il cui nome non è però mai pronunciato), atteggiamenti che condannano Trieste a una sterile se non autolesionistica contrapposizione rispetto allo stato cui appartiene (mentre «è inevitabile il momento in cui la logica della storia trionferà di tutti gli errori e falsi giudizi. Allora verranno registrati solo i beni che ognuno, di fatto, avrà saputo conquistarsi attraverso le fatiche d’una attività sincera. Forse che anche gli italiani di quest’Austria non farebbero male a pensarvi qualche volta» - TdA): Gli italiani poi continuano come da lungo tempo, a subire passivamente le leggi d’un complesso politico cui appartengono senza curarsi di sapere quel che di esso potrebbe avvenire (e non saranno sorpresi, speriamo almeno, quando gli altri non si cureranno di ciò che potrà succeder di loro). E però pochi e senza influenza formano un’entità trascurabile per la costruzione futura dello stato (TdA).

Nulla per altro sul grande conflitto che agitava allora Trieste, in relazione alla sempre più impetuosa presa di coscienza nazionale da parte di quello scomodo antagonista etnico (gli sloveni della Giulia, i croati dell’Istria) di cui si voleva negare da parte delle forze politico-culturali egemoni cultura, civiltà, storia, e, perfino, ogni traccia di presenza all’ombra di San Giusto (bella l’ironia del socialista Angelo Vivante in una lettera del 27 giugno 1911 a Prezzolini: «i risultati

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nazionali di Trieste» – si riferisce al famoso e controverso censimento del 1910 – «ritardano – dicesi – perché non si è ottenuto ancora, dagli organi comunali incaricati, il numero di slavi … occorrente; risultano troppi e si vorrebbe ammazzarli almeno sulla carta! E questa è difesa nazionale!»88). Il successivo intervento di Stuparich sulla «Voce» riguarda il tema sul quale il Triestino sta conducendo le riflessioni più acute e originali, il popolo ceco (czechi, nell’ortografia d’anteguerra). Lo spinge a guardare più da vicino le vicende di questa nazione il fenomeno «troppo nuovo e importante […] d’un popolo il quale dopo tre secoli di morte risuscita e non adopra che cinquant’anni per rifarsi la vita» (Gli czechi, pubblicato il 17 aprile 1913, d’ora in avanti nelle citazioni CZ); con l’esplicita finalità – e siamo di nuovo a metà strada fra Mazzini e il socialismo – di «comprender meglio e penetrar più in fondo il fatto storico complicato del ritornar a galla d’un popolo sommerso» [CZ]. Una rinascita inattesa che, come spiega Stuparich, è da intendere proprio nel senso indicato dal prefisso, perché le «radici» del «rigoglio d’oggi» erano «ben ramificate nel terreno dei secoli» [CZ], in un “fusto” di cultura e civiltà vieppiù fortificatosi nel recente passato: Il fusto annoso era stata la civiltà boema dei secoli XIV, XV, XVI […]. Le città […] vanno acquistando sempre più carattere czeco […]. Vien tolta ai tedeschi ogni preponderanza non solo, ma qualsivoglia influenza, all’Università di Praga […]. Un decimo resta appena elemento tedesco (attualmente i tedeschi formano un buon terzo della popolazione). La lingua di stato, in sostituzione alla latina, è la czeca; czechizzata completamente l’università; la letteratura nazionale celebra la sua età d’oro […]. Pensiamo che questa civiltà è fiorita con Giovanni Hus (1369-1415) e il suo frutto maturo l’ha avuto in Gian Amos Komensky (Comenius; 1592-1670) […]. L’umanità trova allora il suo posto più avanzato in quel piccolo popolo che le garantiva con la fede del martire (Hus) e coll’entusiasmo combattivo dell’eroe e santo (Zizka) le sue esigenze spirituali, e le portava a vittoria. Breve vittoria. Ma il vessillo col quale, un secolo più tardi, Lutero conduceva la sua nazione alla grande e duratura vittoria, e con la sua nazione diciamo pure l’umanità, era quello, quello con cui gli czechi avevano segnato la loro, breve. Ma questi ultimi vissero anche oltre Lutero, in quell’«Unità di fratelli boemi» da cui ereditarono i secoli seguenti l’umanitarismo razionale, patrimonio aumentabile ed aumentato (teismo inglese, Lessing, Herder, massoneria) e in quel Comenius, precursore della moderna filosofia religiosa slava, nel cui grande animo si identificavano religione e educazione e si concretava il «pace agli uomini di buona volontà» - verità che stiamo cercando ancora e non sappiamo attuare [CZ].

Con le guerre di religione, che ebbero in Boemia l’episodio culminante nella battaglia della “Montagna bianca” del 1620, si realizzò «la rivincita della Chiesa sugli Ussiti, dell’Austria tedesca reazionaria sulla Boemia czeca libera pensatrice» [CZ]. «Ma la terra», continua Stuparich, era ormai imbevuta di sangue ussita, nell’animo del contadino il principio di nazione e libertà aveva avuto il tempo di imprimersi e ne restò il germe […] così la nuova nazione

88 Vivante a Prezzolini, lettera del 27.VI.1911 conservata presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano.

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czeca attinge essere e energia direttamente dalla terra, dal popolo delle campagne […]. Dopo quasi due secoli di inverno e di morte, un’aria nuova che, dall’occidente distendendosi, annunzia a tutta Europa la primavera veniente, suscita anche qui gli umori vivi nelle fibre intirizzite. Mentre che dal basso, nel popolo, si connettono tradizioni e interessi a formare una base incrollabile, dall’alto, nell’intelligenza, sboccia un’aspirazione, un desiderio di libertà che si fa coscienza e più tardi volere; intermediaria tra l’alto e il basso la giovine borghesia, industriale e commerciale, che vien su allevata dal primo capitalismo [CZ].

È bene distinguere, spiega Stuparich, «due movimenti nella rinascenza czeca»: quello «consapevole dell’intelligenza che lavora con lo scopo preciso di educar la propria nazione e il movimento inconsapevole che procura le condizioni perché il lavoro si realizza» [CZ]. Bella maniera per schivare le difficoltà concettuali e storiografiche di spiegare un complesso fenomeno di nation building che viene così ricondotto ad una sorta di “inconscio storico” in progressivo riaffioramento. Ovviamente «nella sfera dell’intelligenza», continua Stuparich, «c’è un elemento non puro». Ma se «la crosta è tedesca […] sotto vi scorre sangue slavo» [CZ]: son giovani contadini, i quali con sforzi materiali e spirituali han saputo ottenere la cittadinanza a questa sfera, assumendone, s’intende, usi e costumi. Pochi e per la maggior parte ecclesiastici […]. Herder, non ultima causa per cui sentirono in sé risvegliarsi l’anima slava, li volse a cercar le fonti e studiar la lingua del proprio popolo. Lo fecero con lo scopo di contribuire seriamente alla cultura universale ben lontani dall’aver chiaro dinanzi agli occhi il sollevarsi e affermarsi d’una nazione czeca. Scrissero in tedesco [CZ].

Passano i decenni, lo spirito nuovo del Romanticismo viene acquisito e metabolizzato, e cresce «la generazione la quale aveva approfittato delle moltiplicate e migliorate scuole popolari, per merito di Giuseppe II, e aveva potuto sentir lezioni di lingua e letteratura czeca all’università di Praga (prima cattedra di czeco, 1791)» [CZ]. Individuate in modo così preciso e convincente le mediazioni culturali e istituzionali, vive e fertili nel nuovo contesto romantico dell’Europa dei popoli, Stuparich inaugura l’ultima sezione del suo saggio: «cominciava insomma il patriottismo», dichiara. E subito annuncia: «bisogna scrivere nella madre lingua, dar vita a una letteratura nazionale» [CZ]. Entrano in scena gli eruditi («Jungmann,1773-1847, professore a un ginnasio […], si prefigge lo scopo di liberare il suo gruppo d’amici dalla schiavitù della letteratura tedesca e d’incitarli a una produzione propria, nazionale. Traduce dal francese, dall’inglese […] e si mette a un lavoro immane che assorbirà tutta la sua esistenza. Ma così riesce a dar agli czechi la storia della loro antica letteratura,1825, e il dizionario czeco-tedesco,1835-1839, cinque grossi volumi» - CZ) e i primi poeti, fra i quali lo spigoloso Kóllar, ormai nel «pantheon dei benemeriti della nazione» ma dimenticato come scrittore, fondatore della «nuova religione panslavista» con i seicento sonetti della «figlia di Slava». Antenato e necessaria premessa dei buoni lirici delle ultime generazioni: Machar dal «realismo crudo», il «decadente Sova», il «mistico Brezina» (CZ).

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Ormai lo spirito ceco è maturo e cosciente di sé: appaiono all’orizzonte «le teste più buone e complete che abbia avuto il risorgimento: Francesco Palacky (1798-1876) e Carlo Havlìcek (1821-1856)». Vero «padre della nazione» il primo, per le monumentali imprese culturali che mettono a disposizione dei czechi il tesoro della propria storia («la sua “storia della Boemia” – va sino al 1526; pubblicata dal ’36 al ’76, anche in tedesco – è il primo dei grandi atti nazionali, in quanto è opera che ha schiuso agli czechi le sorgenti della propria vita, otturate nella catastrofe del 1620 ma non esaurite») ma pure intelligenza politica delle più fini: è a lui che si deve il «principio politico, che fu per gli czechi il punto fisso di direttiva e di luce nella loro difficile e sudata conquista della libertà civile – Completa autonomia nazionale in un’Austria federalizzata» (CZ). «Geniale giornalista» il secondo, «apostolo, nel puro senso della parola, e martire»: A vent’anni è fervente patriota, ammiratore di Kollár, sogna anche lui il panslavismo nei suoi più bei colori; […] fondatore del giornalismo boemo, che attualmente ha una organizzazione ammirabile e degna d’esser invidiata dalle più colte nazioni […]. Il primo che parlò, inteso veramente dal popolo, cioè da un più largo strato di persone che non fosse il ristretto circolo dei letterati e scienziati. In religione, neoussita coscienza limpida del proprio Dio; in politica democratico-realista (non da re, ma da reale): ossia propugnava, in opposizione all’astratto panslavismo, l’individualismo nazionale; ammetteva il principio del Palacky; in arte sincero: non fu poeta, ma combattè il sentimentalismo e il patriottismo commerciante-letterario (CZ).

Due spiriti magni della rinascita boema: «accanto a essi gli czechi d’oggi possono mettere soltanto il vivente Masaryk» (CZ), che Stuparich ebbe effettivamente occasione di conoscere e al quale, nella Nazione czeca, dedicherà pagine di entusiastico elogio per la sua capacità di elaborare un patriottismo di tempra nobile e sincera che nega e supera, nel culto della verità, le formule opportunistiche del dogma nazionale (e il pensiero corre a Slataper e, di converso, alla profluvie di pregiudizi e luoghi comuni che pullulavano nella propaganda dei liberal-nazionali triestini). Il saggio seguente, dove si spiega «perché [fosse gettato il seme] e come la terra si fecondasse» (CZ), è già in cantiere: il 26 giugno del 1913 «La Voce» pubblicherà infatti la I parte della Boemia Czeca (BC 1) che rilancia e articola i temi già trattati con focalizzazioni di maggior dettaglio. Chiarito che «la nazione senza storia aveva dimostrato di avere una gloriosa storia non solo, ma, ripresi, in mano i fili interrotti, la continuava a fare» (BC 1) e «visto svolgersi il rinascimento per l’opera positiva dell’intelligenza» si tratterà ora, spiega Stuparich, di seguire «il movimento sociale che con gettito regolare butta dalla passività all’attività un numero sempre maggiore di elementi nazionali» (BC 1). Registrare, in altre parole, l’operosità delle società ceca in tutti gli aspetti della vita nazionale, per lumeggiarne la complessiva rinascita, senza assegnare, come in altri passi, un particolare rilievo alla cultura, ma nella stretta dialettica che lega società, storia e civiltà, e che soltanto esigenze di esposizione sistematica hanno obbligato a sciogliere.

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Per altro, che alla categoria economico-sociale spetti un’importanza fondamentale, causa prima o concausa dello «svegliarsi delle nazioni senza storia» (BC 1), Stuparich, con un occhio alla riflessione socialista sul tema (a Otto Bauer in primis) lo riconosce apertamente in esordio di articolo, in un passo che è opportuno citare perché esprime un concetto-base che dobbiamo ritenere acquisito alla visione del proprio tempo da parte del giovane saggista: Negli altri stati, etnicamente omogenei il progresso del capitalismo allarga la base alla cultura, chiamando un numero maggiore d’individui alla cooperazione organizzata; in Austria, differenzia le nazionalità, le stacca in gruppi chiusi e le arma l’una contro l’altra. L’inurbarsi dei contadini, l’educazione degli operai, il bisogno aumentato d’impiegati e di maestri, l’arricchirsi degli artieri, dei piccoli commercianti, sono fra gli altri, tutti motivi per cui un nuovissimo strato di popolazione entra nella sfera attiva dei cittadini: quella che determina lo stato. Sia il nuovo flusso qualitativamente uno col contenuto preesistente a cui si mescola, e avremo un aumento di quantità con relazioni di forze secondarie; sia invece specificamente diverso, e si formeranno due correnti contrarie. Quest’ultimo avvenne nei vari paesi dell’Austria, dove l’acqua nuova sgorgava da fonti etniche eterogenee. E così poterono sorgere le borghesie nazionaliste, in lotta continua per la sicurezza e il dominio. La Boemia presenta l’esempio classico (BC 1).

È nel periodo assolutista del Ministro Bach che lo stato austriaco – spiega Stuparich – si rinnova economicamente: «la nobiltà di feudo, materia vecchia e in sgretolio, è stata in molta parte sostituita dai forti blocchi d’una borghesia giovane e maturata dal crescente industrialismo. Questa borghesia che dà la scalata alle sfere più alte dell’amministrazione, che vien rappresentando una parte sempre più vitale dello stato, ha la sua culla in Boemia, la provincia più ricca e industriale» (BC 1). Ma «il progresso dell’industria e del commercio accelerato e intensificato, specialmente dopo il 48, solleva dal basso omogeneo strato di contadini, servi e lavoranti, di cui si componeva la massa del popolo czeco, l’ordine degli impiegati, piccoli industriali, commercianti, che stringendosi intorno all’aumentata classe dei liberi professionisti vengono a formare la nazione cosciente e in movimento. Sua tendenza è il libero sviluppo» (BC 1). Lo inceppano, prosegue Stuparich, due ordini di ostacoli: «barriere materiali, opposte dall’ordinamento politico, oppressione morale da parte dei tedeschi» (BC 1). La politica e la lotta nazionale saranno i principali strumenti per rimuoverli, a partire da un’intuizione di Palacky, cui i cechi si sono mantenuti sempre fedeli e che Stuparich mette di nuovo in evidenza, come a indicare che poteva rappresentare una soluzione valida, forse la soluzione per tutti i popoli dell’Impero, compresi gli austro-italiani: «autonomia della nazione in un’Austria federalizzata» (BC 1). Del resto, stretta tra la Germania e la Russia è proprio grazie all’Austria che la Boemia può preservare condizioni favorevoli ad un autonomo sviluppo; ma a patto che il gigante assolutistico abbia la capacità di rinnovarsi: Mettano gli czechi tutte le proprie forze al servizio di questa monarchia ideale, e lavoreranno per sé: un’Austria cosi costituita [leggi: federalizzata, NdA] cinge di ferro

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la Boemia perché non sia preda a brame esterne, e garantisce la libera concorrenza a tutte le nazioni ugualmente, che la compongono (BC 1).

A questo punto il discorso prende a snodarsi, con notevole fluidità, a illustrare la fasi della politica ceca, il rafforzarsi e frazionarsi dei partiti, in funzione di una società che va facendosi modernamente complessa. Il periodo dell’assolutismo (1860-1878), in un’Austria caratterizzata dal prevalere dell’elemento tedesco, è il momento in cui si stringe l’alleanza fra il partito nazionale ceco, «i vecchi cechi», e la nobiltà boema (opposta ad esso, per radici sociali, interessi economici e convinzioni ideali). Ceto aristocratico che, da parte sua, aveva accettato il “connubio” per conservare i vecchi privilegi contro un governo di cui era diventata strumento la grande borghesia tedesca. Eppure «opponendosi al centralismo, indirettamente contrastava anche alla germanizzazione» (BC 1). Dal punto di vista delle istituzioni, sono gli anni dell’astensionismo parlamentare dei cechi, che solo il Ministro Taafe riuscì a far rientrare in Parlamento nel 1878. «Era la provincia più grande e più ricca, la quale non mandando deputati esautorava l’istituto parlamentare e la costituzione!» (BC 1). Ma l’impossibile fu possibile appunto perché la politica czeca aveva progredito. Il partito dei vecchi czechi, attaccato ai potenti feudali, era venuto crescendo: l’allargamento del suffragio dietale e la borghesia ingrossata e compatta avevano aumentato di assai il numero degli elettori di nazionalità czeca delle città e dei comuni rurali […]. I nuovi e giovani deputati che, fuori, avevano sentito tutto il disagio di una vita politica unilaterale ed erano disgustati della sua falsità, entravano nel gruppo dietale del partito un po’ diffidenti e decisi alla critica. Presto formano un’ala sinistra […]. È il germe del nuovo forte partito dei “giovani czechi” che soppianterà in brevi anni il vecchio. Il distacco avvenne nel 73, quando, prima delle elezioni provinciali, Giulio Grégr dichiarò esplicitamente che lui e i suoi amici erano decisi a far politica attiva, a entrar all’occasione anche in parlamento, per controllar il governo e costringerlo a provvedere alla nazione […] (BC 1).

I deputati cechi presero dunque posto in parlamento dopo quindici anni di assenza volontaria, portando «nell’atmosfera ammuffita, una fresca corrente di critica e entusiasmo oratorio» (BC 1). In contatto con la vita della loro nazione […] esprimevano semplicemente i suoi bisogni, ma quanto calore e individualità, quanta sincera rudezza, senza riguardi a falsi convenzionalismi […]. La vita in Boemia ha ora una grande finestra aperta, da cui entra aria rigenerante (BC 1).

Le elezioni li premiano: «essi sono ussiti e perciò anticlericali, democratici e perciò antifeudali, liberal-costituzionalisti e perciò federalisti […]» (BC 1). Ormai si impone, in politica, «un fine solo, supremo […] il diritto riconosciuto dell’esistenza civile e politica, incondizionata, della nazione»: i successi della loro politica prendono corpo nei seguenti vantaggi ottenuti alla nazione: l’università autonoma (1882), il Politecnico, parecchie scuole industriali medie e professionali, le ordinanze sulle lingue, che presso a poco riconoscono alla lingua czeca diritto uguale della tedesca negli uffici dell’amministrazione provinciale

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e statale della Boemia (ordinanze più tardi ritirate e in parte soppresse), riforma elettorale per la dieta, parecchie ferrovie statizzate e molte altre costruite (BC 1).

Con la concessione del suffragio universale maschile – essenziale presupposto della nuova realtà boema e svolta cruciale della vita politica austriaca, ma tema che Stuparich sfiora appena in nota – comincia a profilarsi, e siamo alla seconda parte del saggio sulla «Boemia czeca» («La Voce», 3 luglio 1913, siglata BC2), la «religione politica»: La politica sino allora l’avevan fatta non soltanto i circoli ufficiali, i politici di professione, ma tutti: era penetrata, come motrice della attività pratica come segna-direzioni nella vita quotidiana, nella famiglia, nel commercio, nella scuola, e tutta pregna ne era la letteratura. Di più, la politica nazionale era diventata una religione; sacerdoti i giovani czechi, deputati e giornalisti, la chiesa dei fedeli unita concorde sottomessa al dogma e obbediente ai consacrati. Guai agli infedeli! Guai agli atei! - E chi non approva la religione politica d’un popolo fin che, minacciato in giro da elmi e corazze, con le nude braccia tende a conquistarsi le armi per la difesa? Ma la religione politica è fra le religioni la più caduca, affermata sulla storia, includendo vicende sociali, porta in sé la contraddizione della forma rigida e immobile e del contenuto in precipitoso corso e perenne mutarsi. La sua prevedibile certa e presta fine è quella di rimaner vuota, sfuggendole di sotto il riempitivo (BC 2).

Correttivo ai dogmi ed ai pericoli della «religione politica», che tende ad alimentare settarismo ed intransigenza avallando per mero opportunismo ogni vantaggioso pregiudizio, è la revisione critica dell’universa attività nazionale, l’analisi realistica di tutte le manifestazioni della vita dal primo sorgere all’ultimo affermarsi, una sincera introspezione nello spirito della nazione come si è venuto formando; secondo e parallelo: il differenziarsi dell’unico partito, a tutto sovrastante, in più altri con programmi dissimili e diverse mète (BC 2).

Sincerità nella vita nazionale che gli elettori sanno riconoscere: «prima del 1907 i deputati czechi al parlamento appartenevano per quattro quinti al partito dei giovani czechi; l’esito delle prime elezioni a suffragio universale fu per gli czechi delle tre province, Boemia, Moravia, Slesia: 22 deputati giov. czechi, 28 agrari, 24 socialisti, 9 radicali, 2 realisti» - (BC 2). Strumento di tale opera di rifondazione del pensiero e della prassi nazionale «l’università autonoma […] la libera repubblica entro lo stato, divenuto conservatore e reazionario, della borghesia nazionalista» (BC 2), protagonista indiscussa dell’opera democratica di sgonfiare «le gonfie idee-vesciche» (BC 2) di un tronfio nazionalismo imbevuto di retorica grazie soprattutto all’impegno del maggior intellettuale della nuova Boemia: F. G. Masaryk (nato nel 1850) […] il padre, l’educatore per eccellenza della giovane generazione, e insieme [colui che doveva] coi suoi discepoli metter il fermento nel mondo boemo. La sua attività è tutta di viva educazione e formazione: non tanto nei suoi libri, scritti in fretta e tumultuari, benché in ogni periodo risalti l’individualità

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e penetrazione dell’autore, sta il valore di quest’uomo, quanto nell’opera orale d’ogni giorno come maestro, che tocca approfondisce ricerca nelle intime radici i problemi vitali, tutti i singoli problemi che possono presentarsi a una nazione fresca di forze e fervente d’ideali. Temperamento religioso, allargato da una disinteressata e vasta cultura, fatto sodo energico e sottile da un’abitudine di filosofico raziocinio, di fronte alla speciosità della vita contemporanea e alla vuotezza del dogma doveva riescire estremamente negativo e spietatamente sovvertitore (BC 2).

«Questo differenziarsi di partiti», chiarisce subito dopo Stuparich, attento alla vita istituzionale ceca soprattutto in funzione delle prospettive di sviluppo complessivo, solidaristico e non antagonistico che essa schiude per la Doppia Monarchia, è anche un segno evidentissimo della moltiplicata e approfondita vita della nazione, i cui bisogni aumentano si complicano e si organizzano. Della serietà nel soddisfarli è pegno la coscienza sempre più diffusa, che sono vane e costano inutili sforzi le lotte nazionali (nel significato austriaco, che una nazionalità pone il suo ultimo fine sopra la schiena dell’altra vicina). La quale fa sì che gli czechi lavorino per sé senza curarsi dei tedeschi comprovinciali. Altro è se al parlamento fanno valere i propri diritti anche esagerando o magari sopraffacendo; perché qua è legge che mangia chi ha denti e non chi è affamato. In Boemia invece, che fu e non è più giustificato chiamar il paese classico delle baruffe nazionaliste, eccettuati i pochi dall’una e l’altra parte i quali fan professione di intorbida acque e per riempir la pancia sono costretti a vuotar i polmoni, la lotta senza quartiere s’è trasformata in una gara fruttuosa ad ambedue le nazioni in ogni campo dell’attività (BC 2).

Dalla «gara fruttuosa» (un concetto di cui non ci stancheremo di richiamare gli addentellati con la prospettiva slataperiana dell’«irredentismo culturale») può nascere il modello per un nuovo rapporto tra i popoli dell’Austria, capace di sviluppare i germi di democratizzazione seminati dal progresso economico e civile. Ma ne discende anche un particolare metodo d’analisi del problema boemo. Aggiunge in nota Stuparich che, nella mia esposizione, non ho fatto centro di gravità il dissidio nazionale. Si sarebbe chiarito il lato più contingente delle nazione czeca, ove si fosse fatta la pura storia della politica esteriore combattente e la si fosse seguita per i gradi di rapporto con la politica della nazione rivale. Non nego che di grande momento per lo stato tutto siano le relazioni dei tedeschi con gli czechi in Boemia: è un fatto che il tentato accomodamento (Ausgleich) fra czechi e tedeschi, dopo venti e più anni di fatiche e dimissioni costate a vari gabinetti, non è ancora riuscito: la dieta non lavora regolarmente da anni in causa dell’ostruzione tedesca e la provincia minaccia bancarotta finanziaria. Ciò non toglie che gli czechi progrediscano lo stesso; ed è chiaro che i tedeschi dovranno cedere, come dovranno cedere i radicali czechi nelle loro esigenze più esclusive. Ma colpa ne ha, più che le differenze nazionali della provincia, l’organizzazione statale stessa dell’Austria o, quel che fa (sic) per essa gli uomini al governo i quali preferiscono saltar di qua e di là a lubrificar le parti dell’organismo che s’incantano, piuttosto che cambiar le ruote arrugginite (BC 2).

Della crescente autonomia culturale e consapevolezza civile dei cechi sono testimonianza le tavole statistiche con cui, vocianamente, Stuparich chiude il suo secondo contributo sulla Boemia. Dimostrazione, insieme alla bibliografia

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ragionata, che lo studioso intende stare sul sodo, muoversi sul terreno dei fatti provati e dell’oggettività insindacabile, con metodo che non si esiterebbe a definire “positivistico”. Gli specchietti che riportano comparativamente (per cechi e tedeschi) i dati dell’analfabetismo, del numero e della frequenza nelle scuole popolari e medie e all’università, chiariscono la portata culturale della rinascita: per Stuparich cultura è civiltà, è atto pieno e legittimo di affermazione nazionale. Inveramento di una specificità che pone il popolo ceco, nei confronti dei tedeschi, in una particolare posizione rispetto a tutti gli altri slavi dell’Austria, dal momento che «gli czechi […] hanno un fondamento di civiltà affatto diverso dalla tedesca, e la loro radice è piantata in proprio terreno, sì che il giovane tiglio czeco fronteggia la vecchia quercia germanica» (BC 2). Mentre, ma in questo caso l’analisi è solo superficialmente delineata, lo slancio dell’industria è qua sì meraviglioso, che in poche decine d’anni l’industria della sola Praga (e ci sono altre città czeche che vanno industrializzandosi sempre più: Budejovice-Budweis sarebbe una) contrappeserà l’industria dell’intero territorio tedesco, nordboemo. Se parecchi e parecchi anni fa l’industria boema era di fatto puramente tedesca, oggi lo è per tradizione leggendaria: perchè in causa dell’arricchirsi della borghesia e per via dell’accentramento del denaro operato dalle casse di risparmio e dalle cooperative e per l’organizzazione bancaria (eccellente), si è formato aumentato risaldato un grosso capitale czeco, il quale trova naturale sfogo nell’industria; e quindi a un’agricoltura evolutissima gli czechi aggiungono un’industria in fiore e crescente sempre più (BC 2).

Abbiamo letto ormai abbastanza per esprimere un giudizio di carattere generale su questa saggistica: vi si incontrano, come abbiamo spesso sottolineato, un’intuizione della storia di impronta materialistica ed una grosso modo idealistica, sull’orizzonte del mito del progresso di matrice romantico-positivista (e socialista), inteso come una marcia inarrestabile dell’umanità verso traguardi sempre più avanzati. Prove d’officina, ad ogni modo, ma di un apprendista già molto maturo e nutrito di un corredo di ottime letture. Se è incontestabile il dato rilevato da Anna Storti Abate (ovvero la mancanza, oggi, nella biblioteca stupariciana legata dagli eredi all’Università di Trieste di «qualunque tipo di scritto in cui una problematica politica venisse collegata a fatti di carattere economico e sociale, secondo una concezione moderna della politica»89), va aggiunto, a correttivo di un bilancio troppo secco, che è ovvio quanto il buon senso insegna, ovvero che una biblioteca personale può modificarsi anche di molto nel corso di cinquant’anni, secondo i gusti e le passioni che vanno costantemente mutando (ricorda a proposito Apih che «risulta, da ricordi familiari, che libri di economia e di economia politica c’erano ma vennero donati al cugino Attilio Oblath, studioso di economia che risiedeva a Ginevra»90). Per tralasciare poi il ricco e continuo scambio di volumi e pubblicazioni – presi e dati in prestito, capitati in redazione e recensiti, sfogliati o letti nelle biblioteche – caratteristico dell’ambiente vociano (basta leggere gli epistolari dei protagonisti di allora per rendersene conto) e i probabili (e imponderabili) acquisti 89 Storti Abate, I libri di Giani e Carlo Stuparich, in Intellettuali di frontiera - Triestini a Firenze (19001950), cit., p. 506. 90 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit. p. 86.

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culturali risultanti dalla frequentazione di biblioteche, universitarie e non, italiane e straniere nei lunghi Wanderjahren dei giovani giuliani (del resto non c’è che da posare gli occhi sulla bibliografia che completa il saggio La Boemia czeca II, per averne la prova). Sarà dunque anche vero, per una certa parte, quanto confessava Marin (ovvero che il «dissidio [tra l’interesse e gli ideali, NdA] e la lotta per l’indipendenza nazionale […] assorbivano tutta la possibilità politica della nostra generazione. Di rigorosi principi politici, di testi ideologici, se si escludono i Doveri dell’uomo di Mazzini, di una cultura teoretica-politica non era il caso di parlare»91), resta tuttavia inconfutabile che lo Stuparich del saggismo “asburgico” sia culturalmente del tutto all’altezza del suo compito. Di parere diverso Elio Apih, che, tra coloro che con più profitto si sono occupati di Stuparich, ha letto i saggi vociani con consenso solo parziale: in essi, ha sostenuto, «è frequente l’intreccio fra giudizio storico e vis polemica, né mancano gli unilateralismi».92 Ma, mi permetto di ribattere, come avrebbe potuto affrontare uno studioso triestino argomenti che così tanto lo coinvolgevano – come intellettuale e prima ancora, come uomo – se non con partecipazione appassionata93? Ancora: se, coerente con la metodologia vociana, poteva sentirsi incline, per una certa parte, all’indagine oggettiva, portato alle tabelle, alle statistiche e alle bibliografie ragionate più che a voli pindarici dettati dal cuore, come stupirsi che un’idea di cultura intesa come impegno assoluto di moralità (anche questo un portato della «Voce») dovesse finire di converso per alimentare una vis polemica, mai dimentica del richiamo della realtà concreta, in aperta opposizione a miti, pregiudizi, interpretazioni di comodo, falsità? Se lucidità non vi fosse stata (ma solo ed esclusivamente partecipazione appassionata), certo Stuparich non avrebbe potuto stendere riflessioni così acute e lungimiranti intorno ai temi della «religione politica» (nel secondo saggio sulla «Boemia czeca»): quasi un esorcismo preventivo per una malattia cui anch’egli sarebbe soggiaciuto, e che intanto imperversava a Trieste (gonfiando le vene del suo “romanticismo”), e non solo lì, spingendo l’uomo europeo verso il primo massacro continentale

91 Marin, I delfini di Scipio Slataper, Scheiwiller, Milano, 1965, p. 143. 92 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit. p. 29. Ecco il giudizio completo: «Questi scritti rappresentano l’applicazione più organica (degli ideali e dei metodi vociani, NdA) all’interpretazione del mondo asburgico. È qui la loro originalità e non è il caso di valutarli col metro della professionalità storiografica (è frequente l’intreccio fra giudizio storico e vis polemica, né mancano gli unilateralismi). Stuparich sa per altro capire quello che era – ed è – il nodo più intricato per chi voglia interpretare storiograficamente il fenomeno AustriaUngheria, la difficoltà cioè di collocare in un quadro unitario soggetti di storia numerosi, differenziati e spesso contrapposti, di fare la storia di quella che fu detta ‘la monarchia delle contrapposizioni’ (Benedikt) tra lo stato, i ceti, i popoli». 93 Si rileggano le puntate di Nazione e Stato in Austria-Ungheria di Angelo Vivante, una serie di interventi apparsi sull’«Unità» salveminiana (e che Prezzolini segnala a Giani in una lettera dell’estate 1913), e si capirà quanto il problema asburgico spingesse i triestini, anche i pensatori più lucidi, a cedere all’enfasi.

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della Modernità. 94 Né le diagnosi sulla situazione boema95 sarebbero state così azzeccate (nonostante, forse, qualche minimo eccesso d‘ottimismo96). Nessuno

94 A questo proposito, mi pare arduo sostenere, come qualcuno potrebbe, che non aver visto le ragioni imperialistiche alla base del conflitto possa essere ascritto nel caso di Stuparich ad una cultura politica particolarmente arretrata. Della natura vera e profonda di quella guerra, dei suoi moventi economici prima che meramente espansionistici, pochi si erano accorti in Italia, anche fra quei nazionalisti che si riempivano la bocca con espressioni quali: espansione, conquista, impero (Corradini e Timeus, per andare a due estremi generazionali). Il dibattito sull’imperialismo finisce da noi in genere per risultare marginale, circoscritto e, cosa che più conta, faccenda di “letterati” (cfr. Giuseppe Are, La scoperta dell’imperialismo. Il dibattito nella cultura italiana di primo Novecento, Roma, Edizioni Lavoro, 1985) oppure per venir ricondotto alle tradizionali concezioni della politica di potenza e coloniale. Per di più, doveva riuscire difficile ad un triestino di inclinazione irredentista, sfuggire alle sirene di una interpretazione in chiave “risorgimentale”: la guerra del ’15 come IV guerra di indipendenza.D’altra parte, le riflessioni di Slataper sul «Resto del Carlino» (cfr. Slataper, Scritti politici 1914-15, a cura di Baroni, introduzione di Damiani, Trieste, Italo Svevo, 1977), dove esponeva la giustificazione politico-ideologica del suo interventismo (seguito attentamente, credo, da quei giuliani che vedevano in lui il grande ispiratore), così attente al programma di espansione politicomilitare della Germania giuglielmina verso il Mediterraneo e l’Oriente, adombrano il tema imperialista, pur senza svilupparlo in termini teoricamente coerenti. 95 Aprire un discorso sulla storia ceca non fa certo parte del nostro compito. Non si potrà tuttavia mancare di rilevare come il profilo tracciato da Stuparich trovi sostanziale conferma in ciò che la storiografia recente, più straniera che italiana a dire il vero, ha spiegato a proposito della Boemia asburgica. Intorno ai partiti e alla società civile, per esempio, in quel quadro disegnato con sicurezza da A. Laudiero, nell’introduzione a Id., Il tiglio slavo – Fonti del liberalismo in Europa centrale, Archivio Guido Izzi, Roma 1992. Che poi, in Boemia, contrariamente al mito di una volontà secessionista radicata e diffusa nella società ceca già in anni precedenti la Grande guerra (appropriate osservazioni su questo tema si devono a C. Nolte, Ambivalent patriots: Czech culture in the Great War, in A. Roshwald e R. Stites, European Culture in the Great War. The arts, entertainment and propaganda 1914-1918, Cambridge University Press 1999), tendessero a prevalere, soprattutto sul piano economico (e nonostante l’endemica conflittualità sul terreno politico e scolastico), sforzi di collaborazione tra le due comunità ceca e tedesca, facendo ben sperare per il futuro (vi si riconoscerà la posizione di Stuparich) lo spiega chiaramente C. Albrecht, in un saggio (2004) che fa il punto sullo stato della critica (Die Bömische Frage, in M. Cornwall, cit.): «il periodo dal 1897 fino alla fine della Monarchia», spiega, «è stato spesso risolutamente dipinto come un’epoca di grande inimicizia e antagonismo, di aspre pretese e di dura, intransigente retorica su entrambi i versanti nazionali boemi. Nello stesso tempo tuttavia le energiche richieste per i diritti nazionali nascondevano una silenziosa opera di collaborazione di tedeschi e cechi nei campi di comune interesse» (p. 85, traduzione mia). Utilissimo, per altro, per capire l’elaborazione del punto di vista stupariciano sul problema boemo (oltre che emblematico per tutte quelle situazioni di gruppi nazionali minacciati per nulla rare nei territori della Doppia Monarchia), G. B. Cohen, The Politics of Ethnic Survival. Germans in Prague, 1861-1914, Purdue University Press, USA 2006. Infine, per una aggiornata valutazione della cultura, soprattutto letteraria, della Boemia ceca, tema anch’esso assai caro a Stuparich, si dovrà vedere almeno B. Meriggi, Le letterature ceca e slovacca, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1968, che ci permette di capire, cosa ovvia del resto, come la sintesi di storia letteraria ceca proposta da Stuparich pecchi sempre più di opinabilità sul piano dei “valori” (ovvero risenta del soggettivismo di gusto dell’interprete) a mano a mano che egli si muove dal passato dei “padri fondatori” al presente. 96 Da vedere, Ara, Giani Stuparich, uno scrittore triestino fra Austria, Italia e Slavia (1913- 1922), «Römische historische Mitteilungen», n° 37, Vienna, 1995, ora in Ara, Fra nazione e impero. Trieste, gli Asburgo, la Mitteleuropa, prefazione di C. Magris, Garzanti, Milano, 2009. Miscellanea importante nel suo complesso, per la contiguità a molti temi trattati in questo libro.

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negherà del resto che vi siano crudezze di stile, ingenuità d’espressione, fumosità lessicali e sintattiche: la lingua è a tratti ostica (eppure robustamente innervata di metafore efficaci!). In altri passi invece secca, di taglio quasi telegrafico, ma tutto a beneficio dell’evidenza del concetto. Insomma: il pulcino sta mettendo le penne e, inevitabilmente, i primi voli hanno qualcosa di goffo. Ritornando ora al nostro tema, aggiungeremo che, a completamento dei saggi dedicati alla nazione czeca e alla Boemia, Stuparich pubblica sulla «Voce» una serie di riflessioni che traggono spunto da volumi dedicati ai problemi o a personaggi di rilievo dell’Austria del tempo: occasione, nell’analisi e nella critica, tanto di ripensamento e di riflessione quanto di affinamento metodologico. Non si esplorano più ampi orizzonti di ricerca, ma si scava nel solco già tracciato: come primo campione comparirà, sul «Bollettino bibliografico della Voce» del 4 settembre 1913, una recensione a Virginio Gayda, La crisi di un’Impero (Bocca, Torino 1913), quanto di meglio il giornalismo italiano aveva prodotto sulla scomoda alleata, le sue vicissitudini politico-istituzionali, le nazionalità che ne componevano l’inquieto mosaico (ma di Gayda si dovrà ricordare anche L’Italia d’oltre confine, Bocca, Torino, 1914, che insieme a Italiani della Venezia Giulia, Ravà, Milano 1915, di Barzini, rappresenta la migliore ricognizione, alla vigilia della guerra, sugli italiani d’Austria). Il giudizio sul libro è, nel complesso positivo («anche con queste sconnessure logiche, dovute in parte alla stessa composizione esterna, e senza la pretesa d’esser uno studio storico sistemato, La crisi di un impero è il libro sull’Austria che mancava agli italiani per una conoscenza spregiudicata della vita odierna di questo stato»), considerando anche l’oggettiva difficoltà dell’argomento: fissare il centro per formarsi un concetto dell’Austria è cosa difficilissima. […] Anacronistico stato feudale con salda impalcatura burocratica e cementato di militarismo […] labirinto statale che ha un parlamento su base la più democratica d’Europa ed è più assolutistico della Russia, stampa giornali quotidiani con tirature favolose e fa vergogna alla civiltà moderna col suo oscurantismo, è una salda compagine economica e minaccia ogni giorno di rompersi in schegge.

Come dunque procedere dal punto di vista metodologico? «Meglio di tutto è, provvisoriamente rinunciare a una definitiva unità di comprensione, studiare i piani ognuno per sé e rappresentare contigui i diversi aspetti di questo stato multiforme e complicato». Modus operandi che si riflette nel taglio monografico dei singoli capitoli, dove però – osserva Stuparich – si ha l’impressione che a momenti sfugga all’autore il dinamismo di una situazione in continua e aperta evoluzione. D’altra parte, prosegue il recensore, intonando una nota nuova che non gli conoscevamo, «un esame più critico del moto etnico in Austria ci risolverebbe forse anche la contraddizione del partito socialista che finisce coll’esser niente più che un partito borghese, con idee per un verso ancor più ristrette e colto da marasma senile (i. r. socialisti)». Ed eccoci invece al problema etnico e all’approfondimento della posizione politico-culturale del Partito socialista (in cui Gayda finisce comunque per

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riconoscere, alla fine del libro, «un grande trionfo democratico che trasformerà l’impero»): proprio i due motivi che maggiormente pesano nelle focalizzazioni stuparicane della questione austriaca, la chiave di volta di analisi dove la valutazione della realtà oggettiva si sposa all’utopia di una società che progredisce grazie alla collaborazione solidale dei suoi popoli. 97 Le nazionalità dunque, «il problema centrale»: concepito sì chiaramente […] ci ha dato i capitoli sugli czechi, plastici e attinti a una conoscenza diretta e sicura, ma è illuminato solo nella sua parte esteriore: il dramma qui sta proprio, per quanto sembri paradosso, alla superficie. Nel fondo, il problema nazionale come tutti i grandi problemi della storia è rigorosamente logico ed epicamente semplice; a rivestirlo di tragica teatralità è venuto il nazionalismo, fenomeno che passa e muore, mentre il problema trasformandosi permane. L’affermazione nazionale czeca non è una vittoria sui tedeschi: è la necessaria conseguenza di uno sviluppo autonomo intimo che avrebbe fatto il suo corso anche senza le sopraffazioni tedesche senza le società di difesa per le minoranze e senza bastonate e senza bandiere; come il pericolo tedesco non è una minaccia esterna ma una debolezza interna. Compito dello storico tener distinto il caduco accidente dall’essenziale che perdura. Il campo le armi la lotta a coltello, tutte belle o brutte immagini prese in prestito dall’imperialismo e dalla guerra, saran moderne fin che volete, ma non ci fanno penetrare nell’essenza del problema delle nazionalità.

E, ad esso correlato, il tema del socialismo, forza politica e movimento d’opinione che potrebbe felicemente risolvere in un equilibrio superiore i rigurgiti di uno stato che aspira confusamente a trovare la sua “forma” più congeniale: il socialismo in Austria conserva in sé dei buoni germi; le scissioni nazionali interne non sono la sua rovina, sono anzi sintomi d’una trasformazione salutare: non bisogna che sia un esercito uniforme e pesante nei movimenti; e io non credo che il partito socialista autonomo czeco sia più vicino ai partiti borghesi della sua nazione che agli altri socialisti: la grande differenza fra nazionalismo e socialismo czechi è che questo lavora senza preoccupazioni esterne su base democratica, cosciente di far il bene del suo popolo, quello riferisce ogni suo passo all’atteggiamento del nazionalismo avversario con un programma non fondato su necessità interne. E d’altro canto anche i socialisti tedeschi, i centralisti, non ignorano il problema nazionale, anzi lo sentono profondamente e lo studiano (basti dire che gli studi più seri in proposito provengono da socialisti: Rudolf Springer: Der Kampf der österr. Nationen um den Staat e Otto Bauer: Die Nationalilätenfrage und die Sozialdemokratie. Quest’ultimo statuisce la politica delle classi lavoratrici quale politica dell’autonomia nazionale di fronte a quella della borghesia capitalista che è imperialismo nazionale [p. 456]), e ne hanno 97 Non è ozioso sottolineare, avendo quasi esaurito l’esame della saggistica vociana, che la prospettiva d’analisi e la messa fuoco dei compiti, dei meriti e dei limiti della socialdemocrazia porta in Stuparich la netta impronta del suo «avvicinamento razionale al socialismo» (vedi supra p.68, corsivo mio), senza che vi siano da parte sua approfondimenti della questione sociale o accenni di partecipazione al disagio economico o al ruolo duramente subalterno, nella società di classe, del IV stato, quasi che l’ingegneria istituzionale o più ingenuamente, le leggi “necessarie” dello sviluppo sociale, potessero tutto risolvere. Un approccio insomma da teorico della politica, che lo colloca, per scelta deliberata, in quella posizione di separatezza rispetto alla lotta di classe duramente criticata da Gramsci, ma assolutamente coerente con lo spirito del “pre-partito” vociano.

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tentato una soluzione teorica, suggestiva e fondata. Le scissioni nazionali [del socialismo internazionalista austriaco NdA] sono forse la via a una riorganizzazione più viva e più feconda. Certo che il quadro che ne fa il G. corrisponde perfettamente alla realtà esteriore, ma la precoce senilità, il legittimismo, diciamo pure il borghesismo del partito socialista austriaco non potrebbe esser un segno che questo partito tende a un lavoro positivo: di erosione ma pari passo di costruzione, in un paese dove non ha un fondamento saldo sotto i piedi per abbatter spensieratamente d’intorno pensando a fabbricar poi?

A completamento, si direbbe, della recensione precedente, il 13 aprile del 1914 Stuparich fa apparire sulla «Voce» un ampio riassunto del primo dei due volumi dello Charmatz, Oesterreichs innere Geschichte vom 1848 bis 1907, pubblicato nelle edizioni del tedesco Teubner, promettendone il seguito per un successivo articolo che non vedrà mai la luce. Pur riconoscendo allo Charmatz qualche merito sul piano meramente informativo, il suo libro appare al recensore piuttosto «compilazione» o «cronaca» che «storia» propriamente detta, per l’incapacità di tracciare «un disegno logico intuitivo della realtà organica che imprende a descrivere»; difficoltà che è nella cosa stessa, «inafferrabile o malamente afferrabile», considerata la fisiologica sfasatura austriaca fra nazione, stato e governo. Ne deriva così «più una cronaca legata che una sintesi storica», e, aggiungo io, attenta al solo aspetto politico-istituzionale. Chiudendo il suo discorso al 1878 – l’arco cronologico del primo volume – Stuparich, commentando Charmatz, spiega come la dialettica storica dello stato asburgico si sia svolta fra le polarità dell’assolutismo e del costituzionalismo, del centralismo e del federalismo, dell’idea di stato tedesco e di stato slavo. Vuoi sulla spinta di processi politici, nazionali ed economici interni all’Impero, vuoi di pressioni esterne: quelle sconfitte militari per opera dell’alleanza franco-piemontese prima e della Prussia successivamente, che hanno obbligato l’Austria a ridefinirsi, in politica interna ed estera, compiendo un percorso lungo ed esitante verso gli esiti costituzionali di un fragilissimo parlamentarismo, intimamente inceppato tanto dall’assentesimo e dall’ostruzionismo delle nazionalità non tedesche, che dal famoso paragrafo 14 della costituzione che dà «facoltà di governare anche senza quel misero aborto di parlamento». Gli ultimi decenni del secolo sono stati però caratterizzati da nuovi scenari: mentre la crisi economica alimenta brutali scossoni di antisemitismo, si va sviluppando il movimento operaio il quale nell’organizzazione preparava le armi per influir con la forza sul governo. Col socialismo però cresceva il nazionalismo, il suo formidabile rivale delle molte teste, il nazionalismo delle nazioni. Soprattutto con questo dovette fare i conti la borghesia liberale tedesca che dal 48 si può dire fino allora, al ’78, aveva avuto il predominio.

Al 28 luglio 1914 risale invece la pubblicazione sulla «Voce» della recensione alla traduzione tedesca di The Southern Slav Question and the Habsburg Monarchy, 1911, (Südslavische Frage im Habsburger Reiche, Berlin, 1913), di Robert William SetonWatson, giornalista e studioso inglese che, negli anni della guerra e dei trattati

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di pace, si adoperò con tutte le sue forze per sensibilizzare al problema delle nazionalità oppresse l’opinione pubblica anglosassone, patrocinando soprattutto la causa degli Slavi del sud. «La base di documenti e libri su cui poggia il lavoro è vastissima», spiega Stuparich, tanto che «vi si può dir raccolto tutto ciò che interessa in una questione importante qual’è quella dei serbo-croati in Austria-Ungheria»; di conseguenza, conclude, «non si esiterebbe punto ad aggiungere al merito di completezza che va fatto a questo libro, anche quello di essere lo studio fondamentalmente storico sulla nazionalità serbo-croata». Se non vi fossero aspetti di contenuto ad inficiare il valore dell’indagine: in primo luogo il difetto d’aver considerato il problema da un punto di vista troppo esteriore, sottoponendolo a delle possibilità di soluzione dal di fuori, mentre andava trattato conseguentemente in sé, cioè come un complesso di forze storiche che devono trovar da sole un’uscita e un’organizzazione.

Quindi il fatto che «il centro del libro si gonfia del processo Nastić-Friedjung [in realtà due processi, svoltisi nel 1909 a Zagabria, nei quali – ma sulla base però di documenti contraffatti, come emerse chiaramente nel corso del dibattito – si cercava di dimostrare il coinvolgimento di cittadini croati in presunti intrighi serbi anti-austriaci, NdA]. Processo che, è verissimo, illumina meravigliosamente le condizioni della Croazia, ma come è trattato dal W. esorbita da uno studio inteso a comprendere le vicende storiche della nazione serbo-croata». Insomma, suggerisce Stuparich, un difetto di proporzioni, se non proprio una scivolata fuori tema. A veder meglio però, se è indiscutibile che Seton-Watson dedichi spazio notevole all’analisi dei processi, posta nel libro in posizione centrale, egli appare guidato con scelta tutto sommato felice dalla volontà di mostrare come certi ambienti conservatori del mondo politico della Doppia Monarchia, e in campo ungherese soprattutto, fossero pronti a tutto pur di ostacolare l’accordo fra croati e serbi dell’Austria-Ungheria, mettendo spregiudicatamente in opera quel principio del divide et impera che il compromesso serbo-croato del 1905, la cosiddetta “risoluzione di Fiume”, aveva iniziato a incrinare. «Lo scopo del mio libro», spiega Seton-Watson in un passo citato da Stuparich, «è di descrivere il sorgere di una coscienza nazionale presso i croati e i serbi della duplice monarchia e di trattare più estesamente il movimento di unificazione serbo-croata»: da qui l’ampio excursus storico-politico relativo alle vicende croate: Cominciando dalla formazione del regno di Croazia, [Seton-Watson] ne segue i destini prima del quarantotto e ne illustra più specialmente dopo quest’anno le relazioni con l’Austria e con l’Ungheria, sino a venire al compromesso con quest’ultima del 1868. Compromesso necessario e d’altro canto fatale, nella forma in cui fu accettato, per l’avvenire della Croazia-Slavonia. Che dal non aver ben precisata la sua posizione di fronte all’Ungheria le derivano tutti i malanni e le vergogne della sua vita civile e politica nell’ultimo cinquantennio. Il punto di partenza per comprendere il popolo serbo-croato proprio nel periodo in cui si sviluppa a nazione cosciente dei suoi destini, è appunto questo contratto legale confusionario e contraddittorio per cui il

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suo paese è insieme autonomo e sottomesso, pari contraente e vassallo dell’Ungheria. Il popolo sbattuto fra l’orgoglio di far valere da sé i suoi diritti e la speranza d’esser aiutato dal di fuori pencolante fra un’Ungheria che gli riconosca libertà di governo e un’Austria che lo salvi dalla schiavitù, diviene sempre più vittima della finezza politica e dell’astuzia dei magiari che valorizzano per proprio conto le oscure determinazioni del compromesso. Attraverso l’amministrazione questi hanno reso la Croazia schiava del tutto finanziariamente e per mezzo del bano esercitano la pressione che vogliono sulla vita politica del paese. In origine responsabile di fronte alla dieta di Zagabria, il bano è venuto ad essere sempre più un mandatario con pieni poteri del ministero ungherese; egli prepara le elezioni, corrompe gli impiegati e in mancanza d’altri rimedi governa senza leggi. L’astuzia diventava così prepotenza palese, e i serbo-croati che dapprincipio per egoismo o per ingenuità servivano coi loro rancori personali al giuoco degli avversari, cominciarono a capire e, elevando il livello morale nella loro vita politica, giunsero alla risoluzione di Fiume del 1905. Serbi e croati s’unirono allora e formarono una coalizione con chiare direttive nazionali.

La pars costruens politico-istituzionale del libro, così Stuparich, propone che «ai serbo-croati venga dato un parlamento autonomo e uno pure all’Ungheria che verrebbe in questo modo privata della Croazia, ma che ambedue questi parlamenti siano abbassati a un secondo rango, mentre il primo lo debba occupare il parlamento centrale di tutta la monarchia». Senza che manchi, nell’ultima parte del saggio, a quanto ancora osserva il recensore, una chiarissima critica delle tanto dibattuta e confusa questione del trialismo. L’ideale pancroato che ne propugna la forma più completa e radicale, cioè un regno sotto la Drava, unito solamente nella persona dell’imperatore al resto della monarchia, è assurdo; perché è contrario ai tedeschi che sarebbero preclusi dal mare, contrario agli czechi che resterebbero minoranza nel parlamento cislaitanico (sic), contrario agli italiani che vi vedono a ragione la loro morte, contrari tutte le nazionalità insomma. Ciò che il popolo di Croazia ha invece diritto di domandare è l’unione con la Bosnia e la Dalmazia e l’autonomia interna, lasciando alla competenza del governo centrale esercito finanza e esteri.98

Il succo dell’«esposizione strettamente storica» di Seton-Watson – così come la interpreta lo studioso triestino – è che «il popolo croato non è politicamente maturo. I partiti si sono mostrati quasi sempre informati da motivi egoistici e 98 Va chiarito che il rigetto del progetto trialistico, evidente e giustificato in Giani Stuparich, triestino di lingua italiana, non riflette la posizione di Seton-Watson, anzi: «Senza voler nulla togliere alla splendida opera del presente Re-Imperatore nella crescita politica delle sue terre, non è improprio sottolineare che un compito altrettanto splendido attende il suo successore – l’abbattimento del monopolio politico e razziale in Ungheria e la creazione di una libera comunità di nazioni uguali, legate da vincoli indissolubili a un Trono e a un Parlamento centrali. […] Indubbiamente la soluzione ideale si trova nella direzione di una moderata forma di Trialismo, sotto gli auspici dell’Austria. […] La creazione di uno stato trialistico rafforzerebbe enormemente il prestigio dell’Austria nei Balcani occidentali e potrebbe facilmente produrre effetti di simpatia in Serbia, dove la sterilità della politica russofila è da tempo evidente ad osservatori lungimiranti. Se ciò accadesse non è da escludere che la Serbia e il Montenegro sarebbero pronti a concludere una convenzione militare e un accordo doganale con una Monarchia ristrutturata».Vedi The Southern Slav Question and the Habsburg Monarchy, Howard Fertig, New York 1969, riproduzione anastatica dell’edizione 1911, p. 341, traduzione mia.

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i loro capi hanno mancato d’ogni tatto e intelligenza politica». Per non contare gli errori strategici e la fiducia erroneamente riposta in una «cricca di deputati professionisti». Inoltre «le opposizioni che sorgono in seguito fra i partiti dimostrano una visione molto ristretta e una coscienza poco salda e non parlano certo di quella fede concorde e ostinata che animò i loro i fratelli di stirpe, gli czechi, quando si trattava d’ottenere la libertà nazionale». «Ora», conclude Stuparich, «un popolo non si rialza col mettergli sotto le grucce; e il Watson ha avuto il torto di credere a rimedi esteriori, mentre doveva mostrare quel che diversamente fecondo ci fosse nel popolo stesso - torto di fronte a noi che lo leggiamo con interesse storico». L’ultimo contributo di Stuparich sulla «Voce» («Un libro sulla Russia», 28 settembre 1914) riguarda due volumi di Masaryk dedicati alla filosofia della storia e della religione in Russia che Giani legge nella versione tedesca (Th. G. Masaryk, Russland und Europa – zur russischen Geschichts – und Religionsphilosophie. Diederichs Jena 1913, 2 voll., pp. 382 e 533). Masaryk, spiega Stuparich: ha una posizione tutta speciale: quale czeco egli è di coltura tradizionalmente europea (in senso stretto), perché la nazione czeca è l’unica fra le slave che sia concresciuta con la civiltà occidentale e vi abbia partecipato (Hus, Comenius), quale slavo egli possiede un senso sviluppatissimo per sentire anche il fondo delle manifestazioni d’ogni vita slava. Queste due qualità fanno si ch’egli abbia i vantaggi dell’europeo e del russo nell’interpretar la Russia e d’altra parte ch’egli possa sfuggire alle difficoltà in cui cadono e l’uno e l’altro. A ciò va aggiunto ancora il temperamento personale del Masaryk, che è quello di un critico attivo […]. Ben differentemente allora che da giornalista […] acutamente qualche volta, ma sempre alle superficie […] Masaryk scopre invece la Russia nei pensatori russi. La Russia del pensiero russo, la Russia più viva dunque, non quella che si esteriorizza nelle istituzioni o nella cronaca dei fatti, ma quella che s’attualizza nella dialettica dei pensatori. E ne vien fuori una Russia più ricca, più organica e fondata e conseguente anche nelle sue contraddizioni.

D’altra parte, il difetto del libro – che, così Stuparich, dipende in fondo da una filosofia, «il realismo», che rende l’autore «disprezzante o diciamo meglio non curante dell’unità armonica» – si individua nella mancanza di «organicità della forma» (sul piano dell’«unità d’espressione», dell’«elemento estetico insomma»). Nell’esposizione di Masaryk, aggiunge, la sincerità la penetrazione la certezza dell’affermare e la base solida di coltura sono meravigliose, perché il suo realismo lo porta ad affermare solo con piena coscienza, anzi a parlare con la sicurezza con cui si parla di fatti personali di esperienze toccate o ben afferrate, tanto che i suoi lavori sono irti per troppa durezza e per spessezza di strati - quel che manca, è appunto la ordinata stratificazione, la serenità dell’equilibrato.

Da qui anche la difficoltà a sintetizzarne il ragionamento: io nell’esporre le idee del Masaryk ho organizzato quel che mi è stato possibile: sicuro che per la mia rete son sfuggite molte ricchezze che il libro ancora contiene,

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ma ho preferito rinunciare alla pienezza e magari correr pericolo d’interpretare abusivamente, piuttosto che lanciare di qua e di là, senza relazione estrinseca né intrinseca, enunciazioni e formule, mantenendomi fedele al testo.

Questo, in rapida sintesi, il giudizio critico. Per quanto riguarda il tema in analisi invece, ciò che a Stuparich preme evidenziare è che la filosofia russa è tutte irta di problemi pratici, in essa si versa la vita coi suoi torbidi e i suoi detriti, tutta la complessità della vita è l’oggetto suo, per essa non si tratta solo di spiegare, ma di risolvere, soprattutto di risolvere. Essa deve preparare una convinzione per ogni giorno, per ogni ora, essa deve educare e perciò i suoi problemi s’incentrano tutti nel grande problema dell’etica. Ma la morale che i filosofi russi cercano, deve aver presa con la realtà e realtà è storia e quindi la filosofia russa è storia compenetrata di filosofia, filosofia materiata di storia (o equivocamente filosofia della storia). La morale però mette l’altro suo capo nella trascendenza e ciò fa sì che la filosofia russa sia anche ed eminentemente filosofia della religione.

Una filosofia, continua, che «si riattacca alla rivoluzione dei decabristi», tanto che «il problema russo è in ultima analisi il problema della rivoluzione». Tuttavia, dal momento che per abbattere la trascendenza il pensiero russo si appoggiò «più a Feuerbach che a Kant», i pensatori russi che avevano eroicamente annullata una trascendenza, non poterono non fabbricarsene un’altra; cosi alcuni per liberarsi da ogni autorità che poggiasse su ragioni ideali, obbedirono ciecamente ai domini del materialismo, altri per non riconoscere la disciplina delle stato, si sottomisero agli ordinamenti addirittura gesuitici di certe organizzazioni segrete.

Specificità del pensiero russo che Stuparich ama ribadire con troppo indugio e gusto del dettaglio, da “orecchiante” della disciplina non sempre capace di illimpidire la materia elevandosi sul formulario dei tecnicismi: i russi invece non hanno accolto (assimilato) il meglio della filosofia kantiana e postkantiana: la sintesi a priori, la soggettività e attualità del pensiero; essi sono andati piuttosto a scuola (e hanno imparato, cioè simpaticamente sviluppato quello che c’era in germe in loro) dallo Schelling che rintrodusse la mitologia, dall’oggettivisrno trascendente che fu l’errore dello Hegel e dal Feuerbach che sostituì il mito Dio col mito uomo […] cosi in Europa poteva sorgere un Marx (per cui rivoluzione era in ultima analisi dialettica) nello stesso tempo che in Russia sorgeva un Bakunin (per cui rivoluzione era annientamento e sulle rovine dovevasi costruire la nuova civiltà) ma anche perciò fu Marx il vero democratico senza contraddizioni assurde, mentre Bakunin potè parere la traduzione in politica del pope russo semioccultista: l’anticlericale per eccellenza parere (ed essere) un prete (invertito).

Del resto è di pretta di marca vociana – e non fa differenza se Stuparich abbia ripreso pari pari, con sostanziale assenso, la riflessione da Masaryk, o ci abbia messo del suo, «organizza[ndo] quel che mi è stato possibile» – voler rilevare, che «le debolezze dei pensatori sono state e sono le debolezze dei rivoluzionari.

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L’insuccesso dell’ultima rivoluzione è in gran parte dovuto alla forma difettiva del pensiero». 99 Fiducia nelle potenze suscitatrici della cultura e, pur nella perenne oscillazione stupariciana, trionfo dello spirito sulla materia. Indirizzo che poi sembrerebbe conciliarsi assai male con l’ammirazione per Marx che traspare da queste pagine, se non forse nel significato suggerito da Emilio Gentile di riconoscere nell’«idealismo militante», proposto se non imposto da Prezzolini sulla «Voce» del 1913-14, una «estrema conseguenza dei principi idealistici, derivante, in un certo senso, da un’interpretazione marxista dell’idealismo, che era in realtà alla radice dell’attualismo gentiliano».100 «Dopo la prova persa del 1905», conclude Stuparich, s’incominciò a rivedere non solo l’organizzazione dei rivoluzionari ma anche la sostanza e la forma del loro pensiero. L’atomismo dei terroristi cede al movimento unitario e sistematizzato del socialismo marxistico e revisionista, il materialismo su cui si fondavano le ideologie rivoluzionarie fu superato nel bisogno d’un pensiero più vasto e più completo. Di questo pensiero il centro fu inteso come religione: “Ritorniamo a Cristo!”. Ma questo grido era uscito già tanti anni prima dalla bocca del Dostojevsky, e la religione (una religione intima), era patrimonio anche più lontano: degli slavofili della prima metà dell’Ottocento. La nuovissima Russia ritorna dunque, rientra in sé stessa, e da questo ripiegamento sta per uscire più salda e più veramente cosciente e padrona di sé. L’Europa ha fecondato la Russia e la Russia dà il suo frutto. Il Masaryk ci darà il risultato del suo studio di quest’ultimo momento della Russia in un prossimo libro. Egli ha scelto come figura centrale e come fonte di luce che ne illuminerà tutte le facce, la personalità di F.M. Dostojevsky […]. Egli ha voluto analizzare il pensiero (i pensatori) che ha (hanno) preceduto e seguito l’opera grandiosa del Dostojevsky, ha voluto in breve schizzare lo sfondo dal quale si leva la figura che più di tutte raccoglie in sé le fila di quel complicato tessuto che è l’anima russa.

Qualche mese prima di questa recensione, già alle prese con il libro sugli czechi e mentre il pezzo su “Scotus Viator” (Seton Watson) era pronto per l’invio, Stuparich aveva scritto a Prezzolini, rivelando tra l’altro – indicazione utile per tarare la sua evoluzione – l’intima freddezza che cominciava a sentire nei confronti del lavoro dello storico: comincia a prendermi la noia; io non son fatto per scriver della storia, mi manca la visione plastica e la comprensione organica; sento poi una frammentarietà interiore che mi costa sforzo grandissimo di cementare nell’espressione e perciò mi stanca. Vorrei provare tutto quello che posso altrove, forse in filosofia; non so, ma dopo il libro sugli Czechi voglio lasciare e Austria e politica.101

99 «Non v’è retta azione che non sia giusto pensiero, né retto pensiero che non sia giusta azione», chiariva Prezzolini nella risposta a Boine, cfr. Boine - Prezzolini, Ringraziamento e Risposta di Prezzolini, «La Voce», 1914, n° 7, 13 aprile. 100 Gentile, «La Voce» e l’età giolittiana, cit., p. 203. 101 Stuparich a Prezzolini, 6 maggio 1914. Lettera conservata presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano.

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Eppure, dal confronto tra i saggi storici e la dissertazione di filosofia condotta sulla falsariga di Masaryk, non è difficile concludere che il migliore Stuparich sia proprio il primo, impastoiandosi il secondo in una ragnatela nominalistica che lo studioso è incapace di chiarire, uscendo dal vicolo cieco delle definizioni («di fronte al soggettivismo assoluto non si sapeva muoversi in un oggettivismo autocosciente, ma si cadeva nell’oggettivismo immobile oppure si cercava rifugio nell’egoismo personalistico; e la rivoluzione che si contrapponeva all’ortodossia o alla teocrazia non era negazione sistematizzata e attiva, ma negazione isolata e terrorismo», ecc.). Per di più, smarrendosi in un pendolarismo non risolto tra Marx e Mazzini, tra Croce e Gentile (movimento inquieto che ha poca influenza, del resto, sulla sostanza delle analisi storiche), troppo proclive a salire in cattedra e a tranciare giudizi sul valore e sulla tenuta delle diverse tradizioni di pensiero, Stuparich finisce per condannare ad esiti di ingenuo dilettantismo le pagine di più esplicita ambizione filosofica. Azzardo speculativo di uno di quei non filosofi educati alla filosofia in cui Prezzolini riconosceva una caratteristica della nuova generazione. 102 I tre saggi di argomento boemo andranno a costituire la base del prossimo libro sui cechi,103 che Stuparich aveva annunciato nella citata cartolina a Prezzolini del 18 ottobre 1913. Il saggio vociano sui czechi del 17 aprile 1913, confluirà, arricchito di maggiori dettagli, a formare il I capitolo del libro, intitolato I seminatori. La Boemia czeca costituirà il grosso del II capitolo, La messe, mentre la II parte del saggio sulla Boemia viene riplasmata nel III capitolo del volume, in una sezione dedicata espressamente alla figura di Masaryk. A rendere il libro più ampio e più nuovo rispetto agli ipotesti, non solo i maggiori dettagli storici e politici ma anche e soprattutto l’aggiunta di sezioni che allargano il campo d’analisi su aspetti della vita ceca non ancora affrontati con l’attenzione che meritano: quello per esempio, dedicato all’arte, in cui Stuparich sottolineando con ricchezza di osservazioni e di esempi che l’ispirazione prevalente è di impronta realistica, ribadisce uno dei concetti che, in prospettiva generale, più gli sono cari: il fatto cioè che ancorché impegnati nel difficile compito quotidiano di conquistarsi, oltre al pane, «il diritto di avere un’anima» (NC, 86), i cechi vivono, come popolo, «positivamente e non per negazione» (ivi), senza modellare cioè tutti i loro atti di vita con sterile spirito reattivo sulle mosse dell’antagonista, in un piccino ribattere colpo su colpo che li condannerebbe, nell’astioso gioco di rimpallo, a trascurare la cura dei caratteri specifici della loro identità nazionale. Del tutto nuovo anche l’ultimo

102 «Nella “Voce” scrivono filosofi […] e vi sono anche altri che filosofi non possono dirsi. Sono tutti però educati alla filosofia. C’è in tutti quell’interesse di pensiero che è stato la caratteristica degli ultimi anni e della nuova generazione», Prezzolini, in Boine - Prezzolini, Ringraziamento e Risposta di Prezzolini, «La Voce», cit. 103 La nazione czeca, Battiato, Catania, 1915. Nel testo con sigla NC. Per un’analisi di più ampio respiro di quest’opera, che riprende, nella sostanza interpretativa e negli snodi dell’analisi, i contenuti dei saggi vociani, si veda il capitolo relativo in Senardi, Il giovane Stuparich – Firenze, Praga, le trincee del Carso, cit.

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capitolo, Lavoro ed economia teso a mostrare, oltre alla crescente operosità della società ceca, l’alto livello di collaborazione e di positiva emulazione sulla cui base, sotto il velo di una conflittualità giudicata evidentemente strumentale, un mostrarsi i denti senza mai mordere, si svolgeva ormai la secolare sfida cecotedesca. Il messaggio, potremo dire, che Stuparich ricava dalla riflessione sulla Boemia e che vorrebbe venisse accolto da tutte le nazionalità dell’Impero, non un coacervo di popoli, gementi sotto il peso dell’oppressione, come avrebbe potuto suggerire soltanto un mazzinianesimo miope, ma un organismo dinamico e vitale avviato su un cammino ascensionale: ciò che dovrà essere la relazione in ogni riguardo fra le nazionalità di un’Austria che voglia sussistere nel futuro è già sbozzato qua nel campo economico fra czechi e tedeschi: autonomia e libera disposizione del proprio essere e del proprio avere, non sterilita da esclusivismi, ma fecondata da un’aperta emulazione (NC, 116).

Accento slataperiano, che si ritrova, quasi nel segno del Mio Carso, anche nelle pagine conclusive del libro, il cui epilogo esalta la riuscita sintesi di individuale e collettivo, di genialità artistica e di operosità diffusa che trionfa nel mondo ceco. Una chiusa squillante che, mostrando lo scrittore dentro la pelle dello storico, celebra, con un crescendo appassionato, l’armoniosa complessità di una civiltà compiuta (e, in quanto tale, ricca di acquisizioni di valore universale) e la qualità dell’arte che da essa scaturisce (mazzinianesimo e socialismo, per riferirci alla matrice intellettuale dello studioso, ancora felicemente coniugati: ideali nazionali che nutrono, nel progresso della comunità tutta intera, una fiorente civiltà del lavoro): per gli czechi […] Praga è la radice e il fusto e la chioma, essi hanno inteso che farla rivivere era rimettere in circolazione il sangue gelato nelle vene del popolo […]. Ogni czeco sente il suo polso battere col gran polso della città […]. Disceso dagli alti giardini dove la città silenziosa gli mostrava i suoi tetti frastagliati e le mille torricine come un ricamo in finissimo grigio viola, egli gira meravigliato, col senso di delicatezza sentimentale ancora negli occhi, per le vie brutali di lavoro, dove gli uomini parlano una lingua asciutta ferma ben decisa e il loro viso è tutt’altro che velluto o sentimentalità – i giardini sorridono ancora di tratto in tratto in qualche corpo di donna, ma sono sorrisi assorbiti tosto dalle grandi lastre degli uffici bancari. Praga centrale, la città delle banche! Delle banche czeche! Tutta la storia del risparmio, soldo a soldo, della tenacità del lavoro e dell’intraprendenza, della volontà e della energia di questo popolo ritornato è espressa nella storia di pochi anni delle sue banche [...]. Contadino, commerciante, industriale lo czeco ha inteso la serietà del suo lavoro […]. Se la nazione czeca s’è riconquistato un posto nella storia, lo deve soprattutto alla costanza calma e chiara del suo lavoro […]. Neruda ha interpretato profondamente questo perseverare ad onta di ogni contrarietà e fatalità […] Il lavoro è la coscienza dei forti. E il canto sboccia allora spontaneo. (NC, 120, 121, 124, 125 passim)

Così, nel nome di Neruda, va idealmente a concludersi la lunga analisi che ha visto celebrata la laboriosità di un popolo in ascesa, e sul cui orizzonte Stuparich, dopo averci guidato attraverso spirito e forme dell’arte ceca, grazie ai suggerimenti che gli provengono dall’approfondimento per sintesi e per scorci di una letteratura a pieno

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titolo “nazionale”, può affiancare al binomio del «dionisiaco»104 Slataper: «amare e lavorare»105 una sua “apollinea” formula etico-estetica: «lavoro» e «canto». Suggello che chiude in modo personale le pagine più tese del libro annunciando l’ideaforza della futura narrativa dello scrittore triestino: arte-religio, intesa, ha spiegato Bertacchini, «come convergenza dei doveri umani, morali e sociali dell’artista»106. Per concludere: La nazione czeca è un libro che permette a Stuparich di approfondire la riflessione condotta con lo strumento di un duttile saggismo sulle pagine della «Voce», consolidando la convinzione della validità esemplare per tutti i popoli dell’Austria dell’ “esperimento” ceco, anche a prescindere dagli specifici traguardi di civiltà raggiunti in terra boema dal popolo di Hus, Comenius e Masaryk, e che appaiono, in senso stretto, difficilmente esportabili. Lo studioso va così pienamente a realizzare, soprattutto per affinità di intenzioni, l’invito che gli proveniva da Umberto Zanotti Bianco, relativamente alla collana dove il volume sui cechi si sarebbe inserito (e il cui nome, «La giovane Europa», e la scelta del titolo d’apertura, il Mazzini di Gaetano Salvemini, dicono già tutto): «oltre che una esposizione storica delle varie questioni nazionali, un programma d’azione per tutti coloro che sperano attraverso lo sviluppo armonico delle varie coscienze nazionali di giungere ad una periodo di maggior solidarietà, di più sincera fratellanza fra i popoli».107 Quale amara delusione rappresentasse per quest’uomo di fermi ideali il colpo di pistola di Sarajevo, lo mostra egregiamente la Prefazione alla Nazione czeca, stesa dopo lo scoppio della guerra, mentre Stuparich già stava maturando la scelta interventista: terminavo di comporre questo libro poche settimane prima che l’Austria mandasse l’ultimato alla Serbia […]. Allora né la critica né il giudizio storico era opportuno calcolassero su eventualità catastrofiche; anzi, una visione serena delle condizioni di un popolo dell’Austria richiedeva la base stabile d’un processo regolare e che avesse in sé tutte le premesse del suo svolgimento […]. Se mi si domanda ora, quale sia la posizione del popolo czeco di fronte a questa guerra, bisogna convenire che la risposta è difficile […]. Certo è che gli czechi non la hanno voluta, anzi sono quelli che più d’ogni altro popolo austriaco, se fosse stato in loro, vi si sarebbero opposti. La loro storia parla chiaro: il primo postulato per l’integrità e lo sviluppo della nazione era d’una pace 104 Così si è autodefinito Scipio all’amico Marcello, cfr. Slataper, Epistolario, cit., p. 62. 105 Slataper, Il mio Carso (1912), Mondadori, Milano, 1980, p. 160. 106 Bertacchini, Giani Stuparich, cit., p. 80. Questo motivo, sul quale Bertacchini orchestra tutta la sua lettura, e che ha – come abbiamo visto – sostanziose pezze d’appoggio in alcuni passi autoesegetici di Stuparich, era stato felicemente anticipato, con precisa delimitazione di campo, da Maier (Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, cit.), che scrive, a proposito di Stuparich, di «concezione “religiosa”» della vita e dell’arte, specificando quindi che «tale religiosità» è «interamente trasposta in una commossa, vissuta, sofferta partecipazione all’inquieta e travagliosa “condizione umana”, in un impegno di risolvere, o di contribuire a risolvere, quei problemi che investono le ragioni stesse del vivere» (pp. 208, 210). 107 U. Zanotti Bianco, Carteggio 1906-1918, a cura di V. Carinci, Laterza, Bari 1987, p. 315. La lettera a Stuparich risale alla fine del 1913.

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duratura e assicurata all’Austria. In una guerra essi non presentivano che il doppio pericolo: d’esser fracassati dalla Germania o di venir assorbiti dalla Russia […]. Il loro ideale era che il complesso di nazionalità che formava lo stato danubiano, diventasse un po’ alla volta un organismo perfetto e preparasse così in Europa quella profonda coscienza, che di questa doveva fare la famiglia delle nazioni […]. Ma nel meglio del loro procedere è capitato ciò che sempre li spaventava ed ha inesorabilmente tronco il loro lavoro. Tuttavia, nell’esitazione penosa in cui sono caduti, gli czechi devono pensare che l’Austria, scendendo in campo, ha posto la soluzione dei suoi problemi davanti a un tribunale molto più vasto e infallibile di quello dei suoi popoli in pace: essi, come gli altri, sono rimessi ora nelle mani della storia – e storia è giustizia (NC, 7, 9, 10, passim).

Ma prima di girar pagina, c’è ancora un problema da affrontare. Abbiamo visto quanto poco spazio Stuparich dedichi, nella panoramica della situazione imperiale, agli italiani d’Austria; senz’ombra di dubbio il terreno più scottante per un triestino con ambizioni di storico. E qui occorre chiedersi come mai lo studioso eviti con tanta cura gli interrogativi più attuali e di più diretta pertinenza per un intellettuale delle sue origini: forse per la consapevolezza dei limiti della propria preparazione sul problema di Trieste, o piuttosto per non gettare altra legna sul fuoco della polemica? Sia quel che sia, è impossibile pensare che tali tematiche non costituiscano, in forma magari implicita, parte integrante, se non centrale, della “mappa mentale” del triestino. Si tratta di ricostruire allora, con speciale riguardo al problema inter-etnico, il punto di vista stupariciano sulla questione giuliana, quel “non detto” che va collocato sullo sfondo della sensibilità per la rinascita dei “popoli senza storia” così vivacemente all’opera nei saggi cechi, e che forse contribuisce a spiegare qualcosa delle future prese di posizione dell’uomo e dell’intellettuale. Non sarà sfuggito che Stuparich, discutendo il volume di Seton-Watson, sia stato molto severo sui vicini di casa sloveni e croati, e sulle loro ambizioni di un ruolo rinnovato e ben altrimenti cruciale nei difficili equilibri della Doppia Monarchia, (non aveva notato i contributi di Mitrovich sugli Slavi meridionali d’oggi, ai quali abbiamo accennato, così lusinghieri nei confronti di popoli animati da una schietta volontà di rinascita?108). Riepiloghiamo brevemente: come a negare legittimità ai progetti politici degli Slavi del sud aveva affermato sulla «Voce»: «un popolo non si rialza col mettergli sotto le grucce; e il Watson ha avuto il torto di credere a rimedi esteriori, mentre doveva mostrare quel che diversamente fecondo ci fosse nel popolo stesso». «Un anno dopo», osserva però Apih, «Stuparich darà un giudizio meno duro su questi slavi»109, come a dar ragione a Prezzolini che lo accomunava, a buona distanza d’anni, a Slataper 108 Cfr. Storti Abate, I vociani e il confine orientale, in Le identità delle Venezie, 1866-191: confini storici, culturali, linguistici, a cura di T. Agostini, Antenore, Roma, 2002 e Eadem, Stuparich, «La Voce» e il mondo slavo, cit. Osserva Storti Abate che «una delle conseguenze del mutamento di rotta [della «Voce», che si converte in rivista dell’idealismo militante, NdA] fu il fatto che la rassegna dei ‘popoli oppressi’ non ebbe ulteriori sviluppi […] il che conferma l’ipotesi che l’interesse vociano per tale tema nascesse dal suggerimento dei triestini», in Stuparich, «La Voce» ecc., cit., p. 29. 109 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit. p. 36.

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e a Vivante, per i «tocchi di realismo nella questione dell’irredentismo […] giustificati da[ll’] amore per il vero»110: era giusto che i ruteni combattessero per acquistare una salda coscienza nazionale, ciò che i loro fratelli di stirpe, i serbi e croati cercavano a loro volta di depurare d’ogni contraddizione, mentre gli sloveni facevano sforzi non indegni per sfuggire alla stretta di due potenti civiltà e salvare una loro qualunque autonomia.111

È come se la guerra avesse suscitato in Stuparich una reazione empatica a favore di quei piccoli popoli che rischiavano di rimanere schiacciati nel cozzo delle grandi potenze. A volere comprendere di più e meglio dobbiamo però ricorrere a quell’articolo del «Marzocco», frutto della penna di Giulio Caprin, giornalista nato a Trieste ma presto trasferitosi a Firenze, che Giani loda incondizionatamente nell’epilogo della seconda parte della Boemia Czeca («un buonissimo articolo sul ‘Marzocco’») e, poi di nuovo, a indicare una profonda impressione di lettura e un sostanziale consenso di pensiero, sulla «Voce degli insegnanti» (Per un’educazione nazionale concreta, Trieste, 20 aprile 1913). Una lusinghiera attenzione che ci obbliga a chiederci quale fosse in sostanza la visione delle cose di Caprin (che di lì a qualche anno avrebbe sottolineato con durezza – L’ora di Trieste, Firenze 1915; Trieste e l’Italia, Milano 1915 – il pericolo rappresentato per Trieste dagli slavi, strumento, a suo parere, dell’assolutismo austriaco e del pangermanesimo): Su per giù per tutti gli slavi meridionali – aveva sostenuto – da che dall’agreste rozzezza di mezzo secolo fa sono pervenuti a una forma di civiltà europea, la forma della loro civiltà europea è civiltà tedesca, tradotta in sloveno o in croato […]. Lo slavismo dell’Austria è costituito da frammenti di nazioni che esprimono in lingue slave la loro recente civiltà quasi unicamente tedesca.112

Diversa invece la posizione degli italiani d’Austria: essi sono i soli che con la loro lingua possano anche esprimere un contenuto di civiltà propria, diversa, in antitesi anzi con quella germanica. Perciò la loro posizione è unica in Austria, la più solitaria, la più tragica […].113

In altre parole ciò che Caprin va suggerendo è che gli Slavi del sud non abbiano ancora sviluppato, in termini di civiltà, una vera capacità di elaborazione autonoma; un limite che implica, a quanto dobbiamo presumere, la delegittimazione delle loro pretese nazionali nel braccio di ferro etnico in atto nel Litorale austriaco. 110 Prezzolini, L’italiano inutile, Vallecchi, Firenze 1964 (I ed. 1954), p. 170. «era vero che a Trieste c’erano degli slavi», continuava Prezzolini per spiegare meglio il giudizio espresso, «non si diceva, non si calcolava se era conveniente, utile, opportuno dirlo. Si diceva soltanto che era vero». 111 Stuparich, La Nazione czeca, cit., p. 8. 112 G. Caprin, Lingue slave e civiltà tedesca in Austria, in «Il Marzocco», Firenze 19 gennaio 1913. 113 Ivi.

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Da ben altre premesse e con altri risultati ha sviluppato invece Stuparich le sue analisi della rinascita ceca: lì siamo posti di fronte ad un popolo che riemerge alla civiltà dopo aver lasciato nella storia dell’umanità una traccia luminosa; un popolo che nel passato ha espresso, per dirla con Hegel, almeno due «personalità storico-mondiali»,114 Hus e Comenius; un popolo infine che dopo aver svolto un’importante missione nella storia del mondo («l’umanitarismo razionale», CZ), ritrova, con un suo ruolo ben definito, il senso profondo del proprio destino: di nuovo, mazzinianamente alla testa dell’umanità nell’impegno per «un’Austria nuova che soddisfacesse a tutte le esigenze della civiltà moderna e risolvesse tutte le contraddizioni dell’Austria antica».115 E gli slavi di Trieste e dell’Istria dunque? Che si debba concludere che Stuparich sia altrettanto miope di quel Gayda al quale Vivante riserva una pesante frecciata («chi ha compreso il risveglio czeco, mostra di non comprendere più il risveglio sloveno, identico»116)? In effetti regge bene l’ipotesi che Stuparich considerasse gli Slavi del sud dell’Impero, popoli che si affacciavano con prepotenza sull’orizzonte della storia, nazioni di “fratelli minori” di cui andavano positivamente salutati gli sforzi di incivilimento, ma ancora mancanti, parlando in termini mazziniani, di uno dei requisiti fondamentali per il diritto allo Stato, la «tradizione storica»117; e che, in una luce di “irredentismo culturale”, gli italiani “civilizzatori” (si pensi all’ampio spazio dedicato al ruolo del «missionario della cultura» nel saggio I tedeschi dell’Austria, con frasi poi riprese nella Nazione Czeca) avrebbero dovuto aiutare nell’elaborazione di una autonoma civiltà, senza temerne le velleità antagonistiche, nella assoluta certezza della superiorità della propria cultura, cresciuta più ricca e robusta al sole dei millenni. Un atteggiamento che, come si capisce, non va esente da una punta di paternalismo e che si presta inoltre a pericolose strumentalizzazioni sul piano politico. 114 Il concetto è noto. La formula di «personalità storico-mondiale» è utilizzata da Hegel per definire, per esempio, Federico II, che, «come re [ha] per primo compreso, e recato in atto nella sua funzione, l’universalità del pensiero» (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, IV, La Nuova Italia, Firenze, 1963, pp. 195, 196). Comunque, secondo G. Stuparich «la storia non è fatta dalle grandi personalità ma è tutta riflessa nelle grandi personalità». Ed è l’idealismo, aggiunge, ad aver risolto il potenziale conflitto di metodo storico fra l’approccio di un Carlyle e quello di Taine: «l’idealismo lo ha risolto in teoria con l’idea universale universalizzantesi» (Diario 19131915, annotazione in data 26. II. 1914, in Fondo Stuparich AD-TS). Interessanti osservazioni di Croce su questo concetto in Intorno alla teoria hegeliana degli individui storici (1946), in Croce, Filosofia e storiografia, Laterza, Bari, 1949. 115 Stuparich, La Nazione czeca, cit., p. 9. 116 Vivante a Prezzolini, Trieste, 11 febbraio 1914. Lettera conservata presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano. 117 Cfr. N. Dell’Erba, Giuseppe Mazzini. Partito, nazione e associazionismo operaio, in «Rassegna di storia del Risorgimento», n° IV, 2005. Una riflessione in cui Dell’Erba richiama l’attenzione, in modo particolare, su Nazionalismo e nazionalità (1871) di Mazzini, un saggio nel quale il Genovese definisce «la Nazione […] un tutt’organico per unità e di fine e di facoltà, vivente d’una fede e d’una tradizione propria, forte e distinto dagli altri per un’attività speciale a compiere una missione secondaria, grado intermedio alla missione generale dell’umanità» (p. 558).

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Così scriveva Stuparich nel 1913 dell’italianità adriatica e triestina in particolare, spronandola a consolidare le basi della propria civiltà, in modo da raggiungere una limpida coscienza di identità e di fini e realizzare la propria “missione” nazionale (proprio ciò che gli Slavi del sud dell’Impero d’Austria non erano, secondo Stuparich, ancora capaci di fare, con la necessità quindi di un sostegno esterno, «le grucce»), dentro uno stato, «l’Austria, [le] cui nazioni che non sia la tedesca, hanno fatto tutto da sé, si sono conquistate civiltà, benessere, tesori morali con le proprie energie e sangue delle proprie vene; e il governo infine hanno costretto a dar loro quello che loro occorreva per avanzare»118: Noi triestini, noi italiani della sponda orientale dell’Adriatico formiamo una patria a sé, e a noi. Come la formano i toscani, come i piemontesi e così via. […] Si richiede che [le] cognizioni speciali aventi per oggetto la regione nostra: uomini e cose, la patria intima, si organizzino per modo che siano un’unità attiva e formino il centro di tutte le altre cognizioni in genere: la posizione nostra individuale donde ci sia possibile abbracciar gran parte dell’universa cultura. Sul fondo esteso della civiltà latinoitaliana, i nostri padri hanno anch’essi innalzata la loro collina, per allargar la vista sul territorio proprio e lanciar lo sguardo anche oltre di qua.119

Si legga bene: non si tratta solo del suggerimento ad approfondire la cultura locale, «piccolo elevamento fra le grandi altezze di cui si compone il sistema della nostra cultura nazionale» (EdNa), ma di un caldo invito a declinare la civiltà italiana secondo i caratteri, la natura, lo spirito di «questo ritaglio di nazione che siamo» (EdNa) con l’intima coscienza di una ricchezza unica e peculiare che andava capita e incrementata. Se ciò non fosse, anche l’esigenza dell’Università, per giusta e importante che ne sia l’istituzione, «per sé non diventa nulla. Dobbiamo prima sentir in noi l’esigenza di una nostra individuale fisionomia, d’una autonoma cultura, per farnela diventar il centro e il cuore» (EdNa). Vivere insomma – per dirla con un pregnante lessico stupariciano – «positivamente» e senza «grucce». Facendo proprie le parole di Ferdinando Pasini, nell’introduzione ai Canti di Renato Rinaldi, 120 Stuparich annunciava, ma senza nulla concedere a 118 Stuparich, La voce d’un giovane, in «La voce degli insegnanti», 1 marzo 1913. 119 Id., Per un’educazione nazionale concreta, in «La voce degli insegnanti» Trieste, 20 aprile 1913. D’ora in avanti siglato EdNa. 120 Renato Rinaldi, Canti, con prefazione di F. Pasini, Niccolini Editori, Pola 1910. «Negli ultimi tempi», osservava Pasini nella Prefazione [NB.: pagine non numerate], «s’è avuto qualche accenno alla letteratura de’ nostri paesi che mira ad oltrepassare il patriottismo declamatorio, per cogliere le ragioni della nostra vita attuale più alle radici e darcene una sensazione più intima, una visione più complessa. […] Sinora abbiamo dovuto appagarci di importare dal di fuori quanto bastasse a tenere la nostra letteratura al passo con quella della nazione: sarebbe ormai prossimo il momento di cominciar ad esportare, ad essere anche noi non della folla, ma qualcuno, non un fanale ma un faro. […] Tentarlo almeno giova. […] Per rientrare, nota dominante, nella enorme sinfonia sociale conviene che questa nota squilli per sé stessa fra tutte. Per essere originalmente nazionali conviene ritornare più profondamente regionali e locali». Rimane da chiedersi – ma esula dal nostro discorso – che effetto abbiano potuto produrre parole del genere su uno Slataper (e quindi, di conseguenza, sulla “colonia” giuliana della «Voce»), in ottimi rapporti con Pasini,

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forme di chiusura localistica, che era giunto il momento, per l’italianità adriatica, di essere «faro» e non semplicemente «fanale»: lo sarà, quando saremo saliti sulla nostra collina, anche se bassa, appunto perché è nostra ed è la sola che con le nostre braccia possiamo aumentare: in alacre lavoro accumulando terra e ponendo strato sopra strato per sollevarsi su su nell’atmosfera più pura, dove respirano quelle cime [le cime di Toscana, le vette più vertiginose, e francesi e tedesche e inglesi], gloria e potenza dell’umanità. (EdNa)

Ma, a prescindere dal legittimo orgoglio per la civiltà che l’italianità est-adriatica aveva saputo creare e dalla consapevolezza di quanto ancora restava da fare, che conclusioni trarne nel complesso, riallacciandosi al tema dei popoli “civilizzatori”, per gli Slavi del sud? Che salgano anch’essi l’impervia china della civiltà sotto l’occhio benevolo degli italiani, sembra concedere Stuparich, se hanno forza e volontà di salire. E venga loro riconosciuto, come diritto incontestabile e inalienabile, l’accesso all’istruzione e alla cultura, come perorava con voce forte e chiara Slataper;121 con la consapevolezza tuttavia della modestia del loro esordio: concedendo le scuole – un altro tormentone triestino, dove, per quanto riguarda l’area urbana, suonava duro e incondizionato il no dei liberal-nazionali – ma solo dei primissimi gradi di istruzione. Una sfumatura che Stuparich aveva chiarito nella Nazione Czeca, in un’analisi volta a sviscerare le implicazioni del «criterio personale»122 delle teorie federalistiche: «alle scuole primarie dovrebbe provvedere lo stato, [mentre] la coltura superiore va per forza e per ragione di pari passo con la ricchezza»123 (come a dire: scuole di secondo grado solo per quelle nazionalità che fossero in grado di mantenerle, con implicazioni classiste che Stuparich non pare cogliere).

intellettuale che il triestino aveva incontrato presso la redazione della « Voce» proprio nel 1910, anno in cui i «Quaderni» della rivista fiorentina inaugurano le pubblicazioni con il saggio pasiniano L’università italiana a Trieste. Relazione sicuramente nutriente, come non ha mancato di notare Simone Volpato: «la figura del Pasini, assieme ai temi della fratellanza del destino tra le città di Trento e di Trieste, del rapporto con gli slavi, dell’università e dell’irredentismo, sono i nodi sui quali ruota la documentazione che fonda le Lettere triestine» (S. Volpato, La lingua delle cose mute - Scipio Slataper lettore vitalissimo, Forum, Udine 2008, p. 31). 121 Slataper, L’avvenire nazionale e politico di Trieste, «La Voce», 30 maggio e 6 giugno 1912: «Ma quando la nazione italiana (e qualunque altra) delle nostre provincie per la stessa forza datale dalla maggior intensità di cultura, nega i mezzi, le scuole, il diritto d’esistenza nazionale agli slavi, essa nega l’elemento essenziale su cui la sua vita è basata: non la giustizia assoluta, non “il principio di nazionalità”, ma il riconoscimento d’umanità, la stessa virtù per cui essa s’arricchisce autonomamente dalla coltura degli altri popoli. Bisogna essere intransigenti, ma non si deve essere intolleranti» (Slataper, Scritti politici, cit., pp. 155-156). 122 Proprio i socialisti sloveni, nella persona di Etbin Kristan per l’esattezza, si erano dimostrati al convegno di Brno i più accesi fautori di una particolare modalità di “autonomia personale”, in apparenza vantaggiosa per una nazione divisa fra molti Kronländer e in fase di rapida urbanizzazione. 123 Stuparich, La Nazione czeca, cit., p. 75.

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Conclusioni queste, ovviamente, del tutto ipotetiche; ma che, oltre a un alto grado di plausibilità, hanno il vantaggio di consentirci di scorgere alcuni riflessi delle idee stupariciane (concediamo: né espliciti né rettilinei) in relazione al piccolo dramma della questione triestina, ancorché estranea, nei saggi per «La Voce», all’angolo visuale dello scrittore. Che poi – se si accettano queste inferenze – si debba concludere che Stuparich peccasse doppiamente è un aspetto che vale la pena di esplicitare: sbagliava, in primo luogo relativamente alla tradizione storica e al patrimonio di cultura per ignoranza del grande passato letterario e civile della Dalmazia slava del Rinascimento (di Ragusa in particolare) e della travolgente rinascita culturale degli Slavi del sud nell’Ottocento, fenomeno che pure Mazzini aveva messo in rilievo in saggi di argomento slavo che probabilmente il triestino conosceva solo in parte o ignorava (Zagabria, per restare agli Slavi del sud di appartenenza imperial-regia, possedeva un’Università fin dal XVII secolo e da essa, alla fine dell’Ottocento, molti giovani croati, per conquistarsi una maggior apertura d’orizzonti, erano accorsi a Praga per seguire le lezioni di Masaryk124: fra di essi il dalmata Josip Smodlaka che qualcosa avrebbe contato per la questione adriatica); in secondo luogo nella vociana sottovalutazione dell’elemento “numero” a vantaggio del fattore “cultura”, con il risultato di ricavarne la certezza di una più che sicura “tenuta” dell’egemonia italiana nella Venezia Giulia.125 Se erano ormai altre le cose che contavano, in un’Europa sull'orlo dell'abisso, il fatto di misconoscere il livello di civiltà e la tensione risorgimentale degli Slavi del sud sembra predestinare Stuparich a rifluire, cosa che effettivamente avvenne nel prosieguo degli anni, sulle posizioni di una Trieste costituzionalmente anti-slava.

124 Cfr. E. Ivetic, spec. il capitolo Pragmatismo politico e nazione jugoslava del suo Jugoslavia sognata: lo jugoslavismo delle origini, Franco Angeli, Milano, 2002. 125 Stuparich sottovaluta nettamente il fenomeno epocale di «erosione delle posizioni delle nazioni storiche, soprattutto della tedesca, da parte delle circostanti masse contadine - assimilazione delle isole al mare come è stato detto» (cfr. Ara, Introduzione a A. J. May, La monarchia asburgica 1867-1914, il Mulino, Bologna, 1991 - I ed, americana 1968 -, p. XX), processo soprattutto Otto-Novecentesco che deriva dalla crescente importanza delle masse sulla scena storica. Studiosi più avvertiti, ed anche il geniale Slataper fra essi, fanno invece entrare questo elemento nelle loro ipotesi controfattuali. Se l’osservazione di Scipio è impregnata di emotività, quando scrive a Maria, il 19 giugno del 1909, all’indomani delle elezioni che avevano visto i socialisti alleati degli sloveni, avendone inserito due candidati nelle proprie liste per le amministrative: «Però ho pianto, ho pianto io, per l’elezioni di Trieste. In 4 secoli Trieste è slava» (Slataper, Le lettere a Maria, Volpe editore, Roma, 1981, p. 125), più fredda e oggettiva l’ipotesi di C. Schiffrer: se non fosse intervenuta la I Guerra mondiale una Trieste con mezzo milione di abitanti ben prima della metà del ‘900 di cui solo 200.000 italiani (citato in Apih, Trieste, Laterza, Bari 1988, p. 87), e di A. J. P. Taylor che avanza, nel suo Monarchia asburgica, cit., un parallelismo tra Praga e Trieste che avrebbe potuto sollecitare (sottolineo il condizionale) l’intelligenza di Stuparich: «con il passare del tempo e l’attenuarsi della distinzione fra popoli storici e non storici, Trieste sarebbe indubbiamente diventata slovena, così come Praga era diventata ceca e Budapest magiara; la sfortuna degli sloveni fu di essere arrivati troppo tardi a rendersi conto della situazione» (273-4).

A Firenze nell’orbita della «Voce»

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Capitolo IV Gli anni difficili: il ritorno del reduce

Il colpo di pistola di Princip contro l’arciduca Ferdinando a Serajevo, con quel che ne seguì, fu il disincatamento, il crollo di quelle aspirazioni, da noi condivise coi più illuminati spiriti dell’Austria. Ebbimo subito la sensazione che la futura unità europea veniva buttata indietro chissà per quanto tempo […]. Non restava se non la guerra per strappare all’impero asburgico, anzi al dominio prussiano, queste nostre terre che appartenevano per diritto naturale e per affermazione secolare di civiltà, all’Italia.1

È il duro risveglio dal sogno di una palingenesi europea che Stuparich aveva coltivato nel nome di Mazzini, sull’orizzonte del progetto politico dell’austromarxismo. Lo scrittore non ci ha lasciato dei “ricordi di interventismo”, ma spigolando fra i suoi scritti e quelli dei sodali, non è difficile cogliere la natura di un impegno per la guerra che dovette essere convinto, totalizzante, e a momenti perfino rabbioso. In un altro passo di Trieste nei miei ricordi il discorso che cade su Ottone Rosai, ci consegna un’istantanea dei giorni del “maggio radioso”, una stagione che entrò nel dopoguerra a far subito parte della leggenda patriottica di un’Italia che, intervenendo nel conflitto, aveva ritrovato se stessa. Ci eravamo conosciuti - così la pagina - nei giorni di lotta accanita fra neutralisti e interventisti, e una sera, già ricordata da me nel diario della Guerra del ’15, eravamo usciti dalle “Giubbe

1 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 61.

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Rosse”, un gruppo accaldato con in testa Agnoletti ammulinando i bastoni e cantando quella sua canzonetta “Faremo la battuta delle lepri…” che doveva diventar poi tanto popolare.2

Cosa possa significare quell’essere “accaldati” al seguito di Fernando Agnoletti, 3 “ammulinando i bastoni”, risulta fin troppo chiaro. Concionava D’Annunzio in quei giorni fatali, invitando alla giustizia sommaria (quel D’Annunzio cui Stuparich attribuirà, nel secondo dopoguerra, la responsabilità di aver suscitato, nel 1919 dell’impresa di Fiume, l’«atmosfera fosca ed elettrizzata da cui doveva nascere la nostra ventenne schiavitù interna»4): col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell’ex-cancelliere tedesco che sopra un colle quirite fa il grosso Giove. […] Codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve lo raccomando. Vorrei poter dire: io ve lo consegno. I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica benemerentissimi. Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli. Non una folla urlante, ma siate una milizia vigilante.5 2 Ivi, p. 123. 3 F. Agnoletti, fu «sul fronte interventista […] uno dei nessi tra il gruppo della “Voce” e quello di “Lacerba”» (M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra (1970), Il Mulino, Bologna 2007, p. 108) e lascia, fra le numeroso opere, un diario del conflitto, Dal giardino all’Isonzo, spumeggiante di spiriti sovversivi di radice lacerbiana. Stuparich ne parla sempre con calda simpatia, eppure Agnoletti fu uno di quegli scrittori che contribuirono negli anni del fascismo ad avvelenare la mente dei giovani (vedi L’A.B.C del giovane fascista, 1931) e che, ossequiosi alle direttive ufficiali, non andarono esenti da livori antisemiti (così sul «Bargello» a proposito degli Indifferenti: «ignobile romanzaccio tutto giudeo, la cui indecenza interiore trasuda fino alla copertina postribolare» - cit. in Benussi, Il punto su: Moravia, cit., 1987, p. 10). 4 Per citare più ampiamente: «il dannunzianesimo politico e l’esasperazione nazionalistica da una parte, l’incapacità del socialismo dall’altra di guidare le masse verso la realizzazione di una giustizia sociale che fosse insieme affermazione di civiltà, il profilarsi della reazione fascista sostenuta dalla violenza organizzata, formavano anche a Trieste quella atmosfera fosca ed elettrizzata da cui doveva nascere la nostra ventenne schiavitù interna» (Trieste nei miei ricordi, op. cit., p. 61). Un giudizio, certo, “da letterato”, ma nondimeno condivisibile nella sintetica panoramica delle forze in gioco sul terreno etico-politico. Quanto al “dannunzianesimo”, in questo contesto e con tanto deciso accento politico, è un evidente imprestito crociano, e rimanda a quella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (I edizione 1928) dove al Vate viene fatto addebito della paternità spirituale e della diffusione delle forme italiane dell’«“imperialismo” o “nazionalismo”» da lui «preparato sin da giovane con tutta la sua psicologia, culminante nel sogno della sanguinante e lussuriosa rinascenza borgiana, ma più determinatamente dopo il 1892, letto che ebbe qualcosa del Nietzsche, in romanzo, drammi e laudi» (B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Laterza, Bari, 1984, p. 234). L’ipotesi di un rapporto con le pagine crociane è del resto ulteriormente accreditata dall’accenno a Nietzsche che si trova in un passo successivo di Trieste nei miei ricordi, nella forma di una netta antitesi che vede contrapposto all’insegnamento di Cristo il messaggio del filosofo tedesco, nel quadro di un’interpretazione nietzschiana che nulla spartisce con quella più tipicamente “triestina” (e penso a Svevo e a Saba): «al verbo dell’epoca spavaldamente in marcia volevo contrapporre il verbo d’un’epoca in dolorosa sosta, ma che poteva riprendere il suo cammino; all’odio, l’amore; all’insegnamento di Nietzsche, l’insegnamento di Cristo» (Trieste nei miei ricordi, cit., p. 168). 5 G. D’Annunzio, Arringa al popolo di Roma in tumulto, la sera del XIII maggio MCMXV, ora in Id., Scritti politici di Gabriele D’Annunzio, introduzione e cura di P. Alatri, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 144-5.

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Altre indicazioni sulla condizione spirituale dei giovani intellettuali “irredenti” dell’ambiente vociano nel corso di quei mesi febbrili ci giungono da Elody Oblath: «rivivo Roma nella visione di D’Annunzio. E insieme – insieme un opuscolo su Guglielmo Oberdan che mi fa rabbrividire di rispetto e gratitudine», scriveva da Trieste il 29.I.1915 a Giani; aggiungendo «credere, credere, ammirare!». 6 E più tardi, in una riflessione degli ultimi anni Venti, ripensando allo stato d’animo con cui si era voluta la guerra e che poi l’aveva accompagnata nei primi mesi di entusiasmo ancora intatto: la nostra cospirazione di guerra fu veramente quarantottesca. Ripensando oggi a quella compattezza inviolabile e a tutto quello che con tanta temerarietà e fatica tentammo e facemmo, provo un senso d’ammirazione e insieme di pietà per quel nostro entusiasmo senza limiti e veramente eroico […]. Giorni d’illusioni folli, fede in un’umanità migliore, che ci faceva esultare e chiedere la morte di milioni di uomini.7

Se Giani, nelle pagine memorialistiche di Trieste nei miei ricordi, è reticente sul ruolo avuto nella campagna interventista, sulle speranze e sui pensieri che dovettero essere segnati, nei mesi della neutralità italiana, da attesa impaziente e maturante febbre del fare (si ricordi il già citato: «la guerra […] come la voglio io, come la devo volere io»), una lettera a Prezzolini dell’ottobre 1914 sciorina un ampio diapason di riflessioni, che toccano il tema del significato da dare alla guerra che divampava in Europa («il conflitto è solo di potenze interessate egoisticamente o è conflitto più vasto, di idee, di civiltà?»), e mostrano un giovane che si accinge, malgrado tutto, a iniziare un’esistenza normale («per vivere ho accettato un posto di professore a Trieste e qui aspetto e che mi si sciolga il dissidio interiore o che qualche fatto mi costringa a rifarmi da capo idee e vita: sento d’essere messo alla prova»). Ormai la consapevolezza di Giani è piena e frustrante. Trieste costretta a vivere una guerra non sua, potenzialmente pericolosa per l’italianità giuliana, deve attendere impotente. È solo dall’Italia che potrebbe giungere quel sì patriottico e virile essenziale per il futuro della città, perché capace di spingere, con una mobilitazione collettiva, il Paese nel conflitto: è questo il momento in cui si avvera ciò ch’io mai volevo ammettere: il nostro centro di gravità è spostato, è tutto fuori di noi, noi vogliamo lasciar fare e voi deciderete nello stesso tempo di tutti. […] Io, caro Prezzolini, sto per dire che hanno ragione quel pugno di volontari che (raccontano qui) hanno l’intenzione di forzare la mano al governo, sacrificandosi magari (e anche se invano).8

Poche frasi e non “ufficiali”. Che guadagnano spessore laddove Giani si esprime, in modo ben più esplicito, a proposito del compagno più caro: in quella partecipata 6 E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, cit., pp. 32. 7 Ead., Confessioni e lettere a Scipio, Fògola editore, Torino, 1979, pp. 32-33. 8 Cfr. lettera del 6 ottobre 1914 conservata nel Fondo Prezzolini nell’Archivio della Biblioteca cantonale di Lugano.

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storia di un’anima (Scipio Slataper, 1922) che lascia scorgere in falsariga una vicenda di devota amicizia spinta, nell’intensa comunione morale e intellettuale, fino quasi all’identificazione, Stuparich racconta che Slataper fu ben presto nella schiera degli scrittori interventisti fra i più chiari e più decisi, di quelli, non molti, che avevano ragioni per convincere, preparazione per convalidare di fatti le loro ragioni e fede per far sentire che le loro parole erano avanguardia d’azione. […] Non rifuggì lui, così poco parlatore, dal portare la sua fede immediatamente in mezzo alla folla.9

Ma Slataper era solo uno dei tanti. Come ha spiegato Renato Monteleone in un libro imprescindibile per la storia dell’interventismo degli “irredenti” affluiti nel Regno durante la lunga stagione della neutralità (e di come si organizzarono in Italia, in gruppi presto discordi, per influenzare la battaglia politico-diplomatica): «il travaso di irredenti si fece sempre più massiccio. […] Alla vigilia dell’entrata in guerra, già tutti i più noti e attivi esponenti della lotta irredentista nel Trentino, a Trieste, nella Giulia e in Dalmazia erano presenti in Italia».10 Si trattava del resto di far accettare la guerra a un Paese nella sua grande maggioranza di irremovibile pacifismo e dal Parlamento «ultra anti-interventista»11 (come lo aveva definito Turati ancora un paio di settimane dopo la firma del Patto di Londra), gettando sulla bilancia delle decisioni politiche il peso della propria influenza, dei propri valori “risorgimentali”, della propria sofferenza (e insofferenza) di italiani esclusi dalla “casa comune” (e che il Paese fosse, nel suo complesso, profondamente incline alla pace lo aveva mostrato, alla fine del settembre del 1914, un referendum informale bandito dall’«Avanti»12 e ribadito, qualche tempo dopo, le relazioni13 inviate dai prefetti al ministro degli Interni, Salandra). Ora, posto che possiamo facilmente intuire con quanto slancio Giani avesse preso parte alla campagna interventista (tanto da accettare l’ipotesi di una forzatura istituzionale: la “nazione” contro l’Italia ufficiale, la parte “sana” del popolo contro un Parlamento neutralista), è difficile dire se nel suo caso avvenisse (e se sì quanto radicalmente) il fenomeno messo in luce da Monteleone: il fatto cioè che, nei mesi di preparazione all’intervento, «gli irredenti, nelle manifestazioni più significative e risonanti della loro propaganda, 9 Stuparich, Scipio Slataper, cit., 1950, p. 284. 10 R. Monteleone, La politica dei fuorusciti irredenti nella Guerra Mondiale, Del Bianco, Udine, 1972, p. 19. Su questi problemi si dovrà vedere anche S. F. Romano, Liberalnazionali e democratici di fronte al problema delle nazionalità a Trieste nel 1918, in AAVV., Il movimento nazionale a Trieste nella I guerra mondiale, a cura di G. Cervani, Del Bianco, Udine 1968. 11 Lettera di F. Turati del 9 maggio 1915, in F. Turati e A. Kuliscioff, Carteggio, IV, Einaudi, Torino, 1977, p. 98. 12 Cfr. P. Milza, Mussolini (2000), Edizioni de «La Repubblica», Roma 2005, p. 197. 13 Vedi N. Tranfaglia, La grande guerra, in AA.VV., La storia d’Italia, XIX, Edizioni de «La Repubblica», Roma 2005, p. 675 e segg., e E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, Vol. IV, tomo 3, Einaudi, Torino, 1976, p. 1986.

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stavano validamente sintonizzandosi sul programma massimo nazionalista».14 Per ciò che riguarda Slataper, tale svolta, per quanto sui generis, pare assodata, come dimostrano i suoi articoli sul «Resto del Carlino»15: in essi il sogno di un’Italia più grande, capace di contare finalmente sullo scacchiere europeo, si lega con uno stretto nodo alla preoccupazione di sbarrare il cammino adriatico e balcanico alla Germania del Kaiser; sullo sfondo, ma molto meno di quanto vorrebbe Biagio Marin l’adorante seguace di Scipio, di residue motivazioni mazziniane. «S’era a Roma nel febbraio di quel mitico 1915 in attesa della guerra di redenzione della Venezia Giulia», racconta idealizzando il poeta di Grado, Scipio […] attendeva la guerra […]. La guerra! Vedeva l’Austria rovinare e i suoi popoli svegliarsi alla libertà. Riserve secolari di energia intatta si sarebbero messe in moto, e l’Europa futura avrebbe realizzato il sogno mazziniano della federazione delle nazioni. E ci sarebbe stato tanto da fare, e la vita degli uomini di buona volontà sarebbe stata tutta un canto, tutta una creazione.16

Nonostante le belle parole un mazzinianesimo, lo sappiamo bene, molto ritoccato, orientandolo verso le ragioni di una politica di potenza e con un’attenzione al problema dei confini strategici che, ancorché non assente in Mazzini (ma dove rimane nei limiti di una rivendicazione di “confini naturali” interpretati come un segno della Provvidenza17), acquista connotazioni del tutto nuove, implicitamente “espansionistiche”. E la posizione di Giani? Domanda, si badi, per nulla oziosa, perché è qui che vanno ovviamente individuate le radici del suo impegno saggistico degli 14 R. Monteleone, La politica dei fuorusciti irredenti nella Guerra Mondiale, cit., p. 45. «E pesa su di loro», aggiunge Monteleone con evidente sottovalutazione della carica endogena di nazionalismo degli Slavi del Sud soggetti alla Doppia Monarchia (in special modo dei croati) «la responsabilità sul crescente sospetto degli slavi e sul logoramento dei loro rapporti con l’Italia». 15 Cfr. Slataper, Scritti politici 1914-15, a cura di G. Baroni, con un saggio introduttivo di R. Damiani, Lafanicola, Trieste, Edizioni “Italo Svevo” 1977, e in particolare, a titolo di esempio, Italiani e slavi sull’altra sponda (10 aprile 1915, qui pp. 187-196). Qui, pur su un orizzonte ideologico da considerare fluido, meglio dire un contesto di ricerca che di stabilizzate certezze, e nel quadro di un discorso attento a temi di politica estera, piuttosto che di analisi dei principi primi, Slataper è piuttosto esplicito, quando stigmatizza, per rifiutare ipotesi “rinunciatarie” sulla Dalmazia, «il tenace persistere di alcune astratte ideologie astoriche (si chiamino esse internazionalismo, o mazzinianesimo, o magari – e perché no? – nazionalismo)», p. 191. Sul tema specifico vedi, nell’immensa bibliografia slataperiana, R. Monteleone, La politica, ecc., cit., pp. 42-43 e Senardi, Slataper 1914-15: l’Italia, l’Austria, i Balcani, in AA. VV. I turchi, gli Asburgo e l’Adriatico, a cura di G. Nemeth e A. Papo, “Civiltà della Mitteleuropa”, Associazione culturale “Pier Paolo Vergerio”, Duino Aurisina (TS), 2008. Per approfondire la fisionomia del movimento nazionale liberale di A. Caroncini, G. Amendola, G. Volpe, ecc., sul cui sfondo politico-ideologico si situa l’interventismo di Slataper, cfr. G. Belardelli, «L’Azione» e il movimento nazionale liberale, in G. Quagliariello, a cura di, Il partito politico della Belle Epoque. Il dibattito sulla forma partito in Italia tra ‘800 e ‘900, Giuffré, Milano, 1990, e C. Papa, Intellettuali in guerra. «L’Azione» 1914-1916, Franco Angeli, Milano, 2006. 16 Marin, Le violette della ciociara, in Id. I delfini di Slataper, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1965, pp. 21, 23. 17 Si veda per esempio: Mazzini, La pace, in Id., Scritti politici, a cura di T. Grandi e A. Comba, Torino, UTET, 1987. I ed. 1972.

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anni Venti. E domanda che ci obbliga, come spesso nel caso degli snodi etico-politici e delle motivazioni psicologiche di Stuparich, a spostarci sul terreno delle ipotesi. Ragioniamo: considerando la linea retta, di ferma e sostanziale continuità che unisce La nazione czeca del 1915 alla Nazione ceca del 1922, e il filo di rosso altrettanto evidente che collega i saggi vociani alla saggistica degli anni Venti, è lecito concludere, mi pare, che l’ancoraggio di Giani a valori democratico-risorgimentali sia stato maggiore, per consapevolezza e tenuta, che in Slataper. Ipotesi supportata anche dal fatto che, preso prigioniero sul monte Cengio il 31 maggio 1916 (il giorno precedente, in una postazione non distante, si era ucciso Carlo Stuparich, per non cadere nelle mani degli austriaci), manca a Giani, destinato a trascorrere quasi due anni e mezzo in prigionia in quattro diversi campi di detenzione, l’intera esperienza di ciò che accadeva in Italia e nell’Europa dell’Intesa (ma non un’informazione di massima sugli eventi bellici e la politica interna austriaca, a quanto mostra il taccuino di prigionia,18 un’agenda con date prestampate del 1917 ma dove entrano anche appunti e pensieri del 1918, e in cui una particolare attenzione è rivolta alle vicende politico-istituzionali boeme, resa possibile dalla frequente lettura del «Lavoratore» di Trieste, il foglio socialista che uscì durante l’intero periodo di guerra). Dunque, fermandosi per lui, con brusca battuta d’arresto, l’orologio dell’impegno civile e della riflessione politico-intellettuale, gli ideali che fanno spicco nella scrittura etico-civile del dopoguerra non possono che risalire in massima parte a stratificazioni valoriali precedenti al 1916. Nel lungo tuffo nel nulla dietro il filo spinato, Stuparich resta ovviamente estraneo allo spumeggiante clima wilsoniano che si era creato in Italia dagli inizi del 1918 concretizzandosi in riviste (per esempio, di accento interventista-democratico, «La Volontà» e «L’Astico») e animando dibattiti pubblici e giornalistici; e rimane per lui un libro chiuso la battaglia politico-ideologica condotta dalla Democrazia Sociale Irredenta,19 il 18 Conservato presso il Fondo Stuparich, AD-TS. 19 Gli irredenti “democratici” si collocheranno subito a fianco del partito social-riformista, per battersi, con le armi della propaganda e dell’impegno politico (anche sul piano internazionale) a favore di prospettive di pace di stampo “wilsoniano”: ricerca di accordi concordati per l’assetto adriatico con il futuro stato jugoslavo sulla base della rinuncia – secondo diritto e giustizia – alle pretese sulla Dalmazia, con l’eccezione di Zara; rispetto delle aspirazioni nazionali dei paesi destinati a nascere dalla disgregazione dell’Impero asburgico; stretto collegamento ideale ed operativo, sull’orizzonte di valori democratico-risorgimentali, con le nazioni oppresse dell’Austria-Ungheria, incoraggiandone le aspirazioni e lo spirito di resistenza per una più rapida conclusione della guerra. Mettendo in opera strategie finalizzate al dialogo con gli slavi dell’Adriatico orientale e acquistando, anche internazionalmente, una notevole visibilità. Tutto ciò in esplicita contrapposizione agli strenui fautori dell’attuazione integrale e incondizionata del Patto di Londra (più Fiume) raccolti nella Associazione Politica fra gli Italiani Irredenti (APII), cha inaugura la sua azione con il Congresso di fondazione nell’aprile del 1918, e il cui scopo era quello di mantenere “a destra” l’egemonia ideologico-politica negli ambienti del fuoruscitismo. Una associazione in cui si ritrovano, sintomaticamente, gran parte dei politici e degli intellettuali della Trieste liberal-nazionale d’anteguerra, da Giorgio Pitacco a Salomone Morpurgo, da Attilio Tamaro a Mario Alberti (utili informazioni sul conflitto interno al mondo degli “irredenti” espatriati in Italia e su alcuni dei protagonisti di questo braccio di ferro fratricida, in A. Riosa, Adriatico irredento, cit., pp. 250 e segg.).

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raggruppamento degli irredentisti di inclinazione democratica, istituito nel dicembre 1917 per contrastare il prevalente orientamento liberal-nazionale dei fuorusciti e cui si deve il grande slancio dato, dopo Caporetto, alla politica delle nazionalità. Un impegno dove avrebbe potuto pienamente riconoscersi, e con cui comincia a fare i conti, possiamo intuire quanto faticosamente, solo dalla fine del 1918, al ritorno dalla prigionia. Se ora volessimo completare il discorso, indicando gli anticorpi intellettuali che, come si è detto, mantengono Stuparich, nonostante tutto, sul terreno di una visione sostanzialmente democratico-risorgimentale del rapporto tra le nazioni e del diritto dei popoli, non potremmo che pensare, e a maggior ragione nel suo caso, al mazzinianesimo. Grosso modo dunque Stuparich e Slataper sotto uno stesso cielo di principi e di valori. Salvo la differenza sostanziale di un indelebile imprinting austro-marxista per il primo e, ciò che più conta, di un nesso mantenuto attivo e vitale da parte di Stuparich con il magistero di Salvemini da un lato e la riflessione di Prezzolini dall’altro, rapporti che lo orientano verso contenuti progressisti in politica internazionale (si pensi, per dire, alle considerazioni di Slataper nel citato in Italiani e slavi sull’altra sponda, dell’aprile 1915, paragonate alla visione di Prezzolini nel pamphlet La Dalmazia uscito nel giugno dello stesso anno). Da qui un’altra logica implicazione: la possibilità di collegare, ancorché in termini generali, l’impegno interventista di Stuparich a un ben precisabile orizzonte di prospettive politiche e di valori etico-ideologici: quello del cosiddetto “interventismo democratico”20 (con tutte le oscillazioni e 20 Per i principali testi “fondanti” dell’interventismo democratico si vedano i contributi raccolti in Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900-1915, cit., con gli articoli interventisti apparsi sull’«Unità», prospettanti mazzinianamente il senso e le finalità della guerra (oltre naturalmente alle principali antologie della rivista, con le acute prefazioni e gli utili commenti: B. Finocchiaro, Neri Pozza, Vicenza, 1958; F. Golzio e A. Guerra, Einaudi, Torino, 1962); in effetti proprio l’«Unità», insieme, per certi aspetti, alla «Voce» prezzoliniana, fu il terreno di maturazione e di coagulo di quella tendenza interventista «che si è appunto convenuto di chiamare genericamente democratica, intendendo il termine nella sua duplice validità, di presupposto e di fine, di salvaguardia ed irrobustimento delle strutture statali esistenti, e di edificazione di una nuova e più giusta società; orizzonte che, dal chiuso ambito patriottico, non tarda ad estendersi ed a compiersi in quello universale di una fratellanza operosa di popoli, di schietta ispirazione mazziniana» (R. Colapietra, Leonida Bissolati, cit., p. 308). Se veniamo poi ad una bibliografia dell’interventismo democratico, l’elenco è ampio ma i contributi frammentari, salvo il rapido P. Finelli, Per un profilo ideologico dell’interventismo democratico, «Bollettino della Domus mazziniana», 1998 e il più diffuso A. Frangioni, Salvemini e la grande guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica delle nazionalità, Soveria Mannelli, Rubettino, 2012. Mettendo a fuoco, con occhio analitico, un fronte interventista quanto mai sfaccettato, hanno scritto belle pagine sull’interventismo di sinistra (e per l’analisi critica di questa definizione si veda P. Alatri, La prima guerra mondiale nella storiografia italiana dell’ultimo venticinquennio, II, in «Belfagor», 1973, pp. 53 e segg.) R. De Felice, nel suo Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, p. 290 e segg., e N. Bobbio, nel Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, p. 98 e segg. ( «la guerra non era un fine, ma uno “strumento”, non aveva valore in se stessa ma per gli obiettivi che permetteva di raggiungere, e questi obiettivi non erano la grandezza della nazione ma l’indipendenza della patria, non la potenza di pochi, cioè dei vincitori, ma la libertà di tutti, dei vincitori e dei vinti», p. 104). Per le propaggini giuliane imprescindibile F. Todero, Morire

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incertezze spiegabilissime in un momento tanto franoso del contesto politicoideologico e con tutto il comprensibile disorientamento di “irredenti” catapultati in un mondo che non era il loro: l’Italia e la sua complessa e non sempre facilmente leggibile tradizione e prassi politica). Come a dire Salvemini, Bissolati, Bonomi e tanti altri ancora. Protagonisti, alcuni, affacciati sul proscenio della grande storia nella piena luce delle vicende nazionali, altri invece rimasti parzialmente nell’ombra. Eppure destinati, molti di loro, dopo aver indossato il grigio-verde e sacrificato la vita in guerra, a comparire nella rievocazione di Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti 1915-1918 (I ed. 1935), «rivendicazione […] degli ideali di libertà [con] chiaro significato polemico e politico». 21 Una galleria, soprattutto di ufficiali, trascelti prevalentemente fra coloro che meglio potevano documentare – e si stenterebbe, ripeto, a collocarli al di fuori di uno schieramento ideale etichettabile, lato sensu, come interventista democratico – il «lievito risorgimentale della nostra guerra». 22

per la patria - I volontari del litorale austriaco nella Grande guerra, Udine, Gaspari, 2005, p. 85 e segg., analisi di particolare acutezza e dalla ricca documentazione, traguardata sul contesto triestino. Particolarmente severo a proposito degli «interventisti democratici», un fronte di cui emerge, a suo parere, «l’indifendibilità politica […] e la modesta portata teorica» è invece A. D’Orsi (Gli interventismi democratici, in Id. I chierici alla guerra – La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Bagdad, Bollati Boringhieri, Milano 2005. Il passo citato si trova a p. 146), quasi a riprendere certe malinconiche conclusioni di Monteleone «sul dramma dell’interventismo democratico, di quelle forze che, sia pur con i loro ideali di giustizia e libertà, si unirono al coro di quanti – in posizione di potere reale – vollero una guerra che era imperialista, e ora si dibattevano per dare a questa guerra, non da loro diretta né controllata, un impossibile sbocco democratico» (La politica dei fuorusciti irredenti nella Guerra Mondiale, cit., p. 215). Piace tuttavia ricordare il sempre stimolante Isnenghi: «sia pure che gli ex-interventisti democratici arrivino per il momento ad essere come sospesi nel vuoto storico e che li caratterizzino afasia e silenzio», ammette relativamente alla situazione del Dopoguerra, ma «i più significativi tra gli ex interventisti democratici li ritroviamo più avanti attivi nel movimento antifascista, specie in Giustizia e Libertà» (M. Isnenghi, Prefazione a A. Cortellessa, Le notti chiare erano tutte un’alba, Bruno Mondadori, Milano 1998., p. 6). Del resto Isnenghi aveva già costeggiato questo raggruppamento, sia pure con minore disponibilità ideologica e storiografica a riconoscerne gli aspetti di validità, in molte pagine del suo Mito della Grande Guerra (I ed. 1970, poi costantemente ripubblicato). Ma il plaidoyer più documentato e storiograficamente ineccepibile a favore dell’interventismo democratico si deve a M. Tesoro, L’interventismo democratico e la tradizione repubblicana, in A. Bocchi e D. Menozzi, a cura di, Mazzini e il Novecento, edizioni della Normale, Pisa, 2010, che ne accompagna tutta la parabola. Assai acute per concludere le pagine sull’interventismo democratico di B. Vigezzi, che ne considera tanto gli ideali che il concreto impegno politico nel corso del 1914 (L’Italia di fronte alla Prima guerra mondiale – l’Italia neutrale, Ricciardi, Napoli, 1966, pp. 402415) e utili, di nuovo a proposito dell’interventismo di sinistra («l’interventismo nobile», p. 30) e di Bissolati, leader del Partito socialista riformista, le osservazioni di L. Ambrosoli, nei primi capitoli di Né aderire né sabotare (Edizioni Avanti, Milano, 1961), per quanto svolte nella prospettiva della tradizione neutralista del socialismo e quindi marcate dalla tendenza a enfatizzare le contraddizioni di questo settore dell’interventismo. 21 A. Galante Garrone, Omodeo politico, in «Belfagor», 1961, p. 650 (riproduce l’Introduzione di Galante Garrone agli Scritti politici di Omodeo). 22 Id., Introduzione a A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, Torino, Einaudi, 1968, p. XXXVII.

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Affinché questa guerra – dal momento che avviene – produca i maggiori vantaggi possibili, occorre che essa liquidi il maggior numero possibile delle vecchie questioni internazionali, dando luogo ad un equilibrio più stabile dell’antico, in cui le forze della pace possano riprendere in migliori condizioni di efficacia quel lavoro di consociazione dei popoli che oggi sembra dissipato per sempre, ma di cui ben presto si ripresenterà a tutti gli spiriti la fatale necessità. Bisogna che questa guerra uccida la guerra.23

Sono parole di Salvemini e risalgono all’agosto del 1914. Che spiegano la sua decisione di impegnarsi per l’intervento, inteso però, su spinta ideale squisitamente mazziniana, come tramite per la realizzazione di un’Europa dei popoli senza più ostacoli sul cammino dell’utopia del pacifico associazionismo. Guerra “risorgimentale” insomma, combattuta in nome della libertà, sull’orizzonte – vale per Salvemini, ma potrebbe valere, con qualche attenuazione, anche per Stuparich – di una granitica «onestà morale» e di una «intransigenza vissuta come vocazione religiosa». 24 Ammettiamo pure, come si è spesso suggerito per sminuire il valore dell’interventismo dei “salveminiani”, tutto di “anime belle” o di “donchisciotte” della Grande guerra, 25 che le loro motivazioni patriottico-democratiche sfiorassero solo obliquamente il complesso nodo di interessi imperialistici che aveva fatto precipitare gli eventi; eppure, i timori di “snazionalizzazione” corsi da Trieste qualora la Germania del Kaiser avesse messo lo zampino nell’Adriatico coltivati tanto dagli austroitaliani che dai settori dell’intelligenza più sensibili al destino dei compatrioti in territorio asburgico, 26 finivano per avvicinarli (forse anche senza ben capire, questo venne dopo, diffusione e caratteri della malattia imperialista) al senso profondo di quel conflitto: «la vittoria della Germania sull’Inghilterra», aveva scritto Salvemini molti anni prima, cogliendo i riflessi del gigantesco dramma che cominciava a stagliarsi sull’orizzonte europeo, «significherebbe un passo gigantesco degli Hohenzollern verso Trento e Trieste». 27 E si trattava allora 23 Salvemini, La guerra per la pace, in «L’Unità», 26 agosto 1914. 24 Così E. Garin su Salvemini, in Id. Gaetano Salvemini nella società italiana del suo tempo, in AA. VV., Gaetano Salvemini, Bari, Laterza, 1959, p. 200. 25 Cfr. M. Tesoro, L’interventismo democratico e la tradizione repubblicana, cit. 26 Cosa avrebbe potuto significare in concreto per Trieste la vittoria degli Imperi Centrali, probabilmente anche a prescindere dall’entrata in guerra dell’Italia nel campo dell’Intesa, lo rivela un aspro e intelligente intervento polemico del 1917, ora del tutto dimenticato, ma di cui ancora si parlava nel primo Dopoguerra: si tratta di Triest – Der Irredentismus und die Zukunft Triests di Alberto Mitocchi (ovvero Alberto Tomicich), Leykam Verlag, Graz, dove, sottolineando il pericolo costante che avrebbe continuato a rappresentare per l’Impero, anche dopo la “vittoria” (la grande illusione austro-tedesca del ’17), l’irredentismo triestino, si auspicava, in una prospettiva di lealtà dinastica e di pan-germanesimo, «la crescita dell’espansione slovena in città» (p. 117), la riduzione della presenza italiana in Dalmazia alla sola Zara e «la crescita d’importanza e l’egemonia» dei Croati in Istria (p. 154). 27 Salvemini, La Triplice Alleanza e gli interessi politici dell’Italia, in «Critica Sociale», 1900, ora Id., Come siamo andati in Libia, cit., p. 18.

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non soltanto di rintuzzare la protervia tedesca che voleva porre la Germania über alles, 28 ma, abbattendo i dispotismi, e il militarismo che ne era il logico portato, realizzare le premesse della nuova Europa. Intorno a queste istanze democratico-interventiste si organizza presto un ampio fronte di opinione che conta, fra gli esponenti di maggior spicco il social-riformista Bissolati (che, come Salvemini, volle scendere personalmente in trincea da sergente degli alpini, ed era nato nel 1857!). E con lui Antonio De Viti De Marco29 che, già direttore, in assenza di Prezzolini, della «Voce edizione politica», rilancerà nel dicembre 1916 insieme a Salvemini «L’Unità» per farne l’organo militante di un’idea democratica di guerra che nulla voleva togliere agli altri, ma dare a ciascuno il suo, sulla base di procedure di autodecisione che avrebbero portato alla creazione, si sognava, di Stati fondati sul principio di nazionalità. E Ivanoe Bonomi, politico di grande rilievo nelle schiere del Partito socialista riformista, che contrastò in ogni modo il neutralismo del Partito socialista30 e partecipò volontario alla guerra con i gradi di sottotenente degli alpini. E tanti altri personaggi di fama meno luminosa, molti dei quali intrecciati alla biografia di Stuparich: Umberto Zanotti Bianco, 31 per dire un nome, l’intellettuale di vocazione meridionalistica e di ideali mazziniani, studioso della questione polacca e, nel Dopoguerra, meridionalista accanito, colui che aveva voluto accogliere nella sua collana catanese La Nazione czeca, convinto anch’egli che la 28 Sulle ambizioni di potere mondiale della Germania va tenuta presente l’intera linea interpretativa che discende dal pionieristico Assalto al potere mondiale - La Germania nella guerra 1914-1918, di Fritz Fischer, I ed. tedesca 1961, Einaudi, Torino, 1965. Stimolante Jost Düllfer e Karl Holl, a cura di, Bereit zum Krieg – Kriegsmentalität im wilhelminischen Deutschland 1890-1914, Göttingen, Vandenhoeck u. Ruprecht, 1986. Per l’opinione diffusa, nella intellighenzia latina, di un pangermanesimo avido di conquista, vedi George Blondel, La guerre européenne et la doctrine pangermaniste, Libraire Chapelot, Parigi, 1915. 29 Su A. De Viti De Marco da vedere il profilo biografico di A. Papa in «Belfagor», 1965, p. 188 e segg., il volume di A. Cardini, Antonio De Viti De Marco. La democrazia incompiuta, Laterza, Roma-Bari, 1985 e ad vocem, in Dizionario biografico degli italiani. Di De Viti Zanotti Bianco ed E. Rossi hanno curato, nel 1930, Un trentennio di lotte politiche 1894-1922 (ora Giannini ed., Napoli, 1994), una raccolta degli interventi politici che riguarda anche gli anni che ci interessano. Allontanatosi dalla politica dopo l’ascesa di Mussolini De Viti fu uno dei docenti che, rifiutando di giurare fedeltà al fascismo, dovettero lasciare nel 1931 l’insegnamento. 30 Per una sintesi storica di portata generale si veda L. Ambrosoli, Né aderire né sabotare, cit., e L. Valiani, Il partito socialista italiano nel periodo della neutralità - 1914-1915, Feltrinelli, Milano, 1963. 31 Per un rapido ritratto di questo grande intellettuale, amico di Salvemini e attento non solo ai temi del meridionalismo (il suo interesse prevalente) ma anche ai problemi della convivenza adriatica, si veda, oltre al recente S. Zoppi, Umberto Zanotti Bianco. Patriota, educatore, meridionalista : il suo progetto e il nostro tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, l’introduzione di V. Carinci a Zanotti Bianco, Carteggio, 1906-1918, Roma-Bari, Laterza, 1987. Epistolario interessante anche perché copre gli anni della guerra, approfondendo stati d’animo e motivazioni di un intellettuale interventista ma democratico e perché presenta una lettera giovanile da Zara, del 1908, che forse contribuisce a far capire qualcosa del suo “risorgimentalismo”. Importante per questo tema anche L. Valiani, Umberto Zanotti Bianco e la politica delle nazionalità, in «Nuova Antologia», luglio-settembre 1979.

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vittoria degli Imperi centrali – da ostacolare con tutte le forze, anche a prezzo del sacrificio personale: e fu infatti gravemente ferito in combattimento nel 1916 – avrebbe portato l’Europa alla barbarie. O il repubblicano Cipriano Facchinetti32 che, facendo tesoro del magistero antico di Cattaneo e di quello moderno di Arcangelo Ghisleri, aveva dato all’interventismo repubblicano, o a parte di esso almeno, una netta impronta democratica, e che poi, volontario in trincea con i gradi di sottotenente di fanteria, era stato gravemente ferito nel 1917, continuando però in seguito a impegnarsi per dare alla guerra obiettivi di giustizia e libertà. Dopo la conclusione del conflitto cofondatore, a fianco di Bissolati, del foglio “wilsoniano” «Italia del popolo», si oppose, dall’interno del PRI, all’impresa fiumana e al fascismo, ed espatriò alla fine del 1926 scegliendo la libertà. Stimato da Stuparich che votò per lui alle elezioni del 1924, fu eletto al Parlamento nel collegio di Trieste e, essendosi schierato con gli aventiniani, fu dichiarato decaduto alla fine del 1926. Se la guerra di Giani Stuparich è argomento che esula, sotto il profilo militare, dall’analisi che stiamo svolgendo, 33 qualche accenno giungerà tuttavia utile: subito dopo la Laurea in lettere e filosofia, nell’aprile 1915, all’Istituto superiore di Firenze con una tesi su Machiavelli in Germania recentemente pubblicata, 34 Stuparich entra volontario nel Reggimento dei granatieri di Sardegna e viene schierato sul fronte dell’Isonzo (un’esperienza che riverserà nelle pagine del diario di guerra, Guerra del ’15). Quindi, dopo un periodo nelle retrovie per poter frequentare uno degli improvvisati corsi ufficiali organizzati per rispondere alle esigenze di un esercito, per la prima volta, di massa, ritorna in prima linea, nella primavera del 1916, su quel fronte trentino che stava subendo i duri attacchi della Strafexpedition. Ed è qui che, come si è anticipato, cade prigioniero: rivedrà l’Italia solo dopo 2 anni e mezzo. Ora se è vero che tutto ciò non ci riguarda direttamente, è altresi innegabile che l’esperienza di guerra – con le perdite strazianti nell’ambito familiare: il fratello, e amicale: molti sodali degli anni triestini e fiorentini – rappresenti, soprattutto in sede biografica ed umana, un’esperienza fondamentale e di cui si deve tener conto. Tracce della sensibilità (e degli acquisti in termini di crescita psicologica e morale) maturata nella lunga coabitazione con la morte si ritroverà non solo nella narrativa dedicata a tematiche militari (ne abbiamo fatto accenno nel primo capitolo), ma anche nella saggistica, ogniqualvolta Giani si sentirà 32 Cfr. Dizionario biografico degli italiani, ad vocem. Si riprenderà brevemente il discorso su Facchinetti nel capitolo seguente. 33 Ne scrive con competenza, sul crinale tra analisi storica e critica letteraria F. Todero, La guerra di Giani, in Id., Pagine della Grande Guerra – Scrittori in grigio verde, Milano, Mursia, 1999 e G. Capecchi, cit. Ma su Guerra del ’15, il diario dei primi mesi al fronte di Giani Stuparich, mi permetto di rimandare ancora al mio Giovane Stuparich - Trieste, Firenze, Praga, le trincee del Carso, cit. e a Giani Stuparich: “Guerra del ‘15”, in Senardi, a cura di, AA.VV., Scrittori in trincea. La letteratura e la Grande Guerra (atti del Convegno internazionale, Trieste, aprile 2008), Carocci, Roma, 2008. 34 Stuparich, Machiavelli in Germania, Editori Riuniti, Roma 1985.

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chiamato a esprimere la sua concezione della guerra, soprattutto nel corso degli anni Trenta, quando l’opinione pubblica europea, dopo anni di volontaria (e forse necessaria) “amnesia”, vorrà ritornare, con pacata riflessione, sul primo massacro europeo di proporzioni continentali. 35 Va detto, per capire meglio, che la guerra di Giani e Carlo, iniziata, al pari di tanti dei loro camerati, come una festosa avventura, in analogia con quegli stati d’animo di entusiasmo collettivo che Eric E. Leed36 ha definito la «comunità d’agosto», per mettere in rilievo il legame generazionale che univa, a prescindere dalle bandiere, i giovani europei nell’agosto 1914, perde presto lo smalto romantico. Se il versante ideologico-politico delle motivazioni rimane ben saldo, un filo rosso che caratterizzerà Stuparich fino alla morte e che ben si estrinseca nella Nazione ceca (1922), molto cambia invece sul piano emozionale. Già Elody Oblath aveva scritto: «era spezzato per sempre il nostro fanatismo», 37 ricordando la prima licenza invernale di Giani, dopo i mesi del tremendo battesimo del fuoco. E Giani, nella monografia dedicata a Slataper: noi tutti allora avevamo il torto di credere ai superamenti […] e torto anche maggiore quello di credere che spettasse proprio a noi di mettere in riga l’umanità. […] Oggi siamo più calmi. Abbiamo visto e partecipato a una bufera da cui credevamo fosse stato rimesso su nuovi cardini l’universo. Ci ritrovavamo invece al posto di prima. Solo siamo più nudi. Le cose ci paiono snebbiate. Né più né meno che dopo un temporale di natura.38

Aggiungendo poi, nei Colloqui con mio fratello, come ad indicare una lenta elaborazione del lutto nutrita di angosciati ripensamenti e ansiose interrogazioni: Eravamo sinceri. […] Non questo importa né deve crucciartene il dubbio, ché assai tenue pregio è la sincerità della passione; ma eravamo come accecati dalle proporzioni. Un’altra invece diversa sicurezza alla memoria richiama, ché forse da quella piuttosto sarà per venirti una tregua ai tuoi dubbi! La sicurezza con cui più tardi, riassaggiata la vita, pacatamente noi decidemmo d’andare ancora una volta incontro alla morte. Dopo che intense giornate avevamo vissute, tali che seppelliscon di colpo la spensierata giovinezza e con lei l’entusiasmo, più non potevamo illuderci. Ritornavamo solo perché godere come avremmo potuto la pace ricca di gioia, quando gli uomini morivano

35 La guerra era diventata in effetti un tema da rimuovere in un continente sazio di morte e sofferenza; alla fine degli anni ’20 però, per ragioni di storia e di cultura che sarebbe lungo specificare, si verifica un energico ritorno di interesse. Ritorna la guerra, intitolerà Bonaventura Tecchi nel 1929 un suo ampio contributo critico (saggio poi raccolto in B. Tecchi, Scrittori tedeschi del Novecento, Parenti, Firenze 1941), in cui registra la comparsa di un grappolo di romanzi di qualità sulla Prima guerra mondiale: Le avventure del bravo soldato Švejk di Jaroslav Hašek, La contesa per il sergente Grischa di A. Zweig, Guerra di L. Renn, Niente di nuovo sul fronte occidentale, di E. M. Remarque. 36 Cfr. Eric Leed, Terra di nessuno: esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna, 1985. 37 Oblath Stuparich, Confessioni e lettere a Scipio, cit., p. 33. 38 Stuparich, Scipio Slataper, cit., pp. 166-8 passim.

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nella bufera, gli amici nostri ancora morivano? Così, senza eroismo, semplicemente per umana solidarietà ritornammo, con grande nostalgia della vita bella, con molto rammarico di lasciarla.39

Si ha quasi l’impressione che la guerra, quand’anche testardamente voluta per la rifondazione democratica d’Europa (la guerra “salveminiana”, sognata come mezzo per “uccidere la guerra”) fossa stata vissuta, nella sua fase più lunga, come un sofferto dovere; senza esaltazione guerriera, senza abbandoni alla hybris della morte e del sangue, senza frivoli vagheggiamenti d’avventura e di gloria. Ma come un doloroso sacrificio, un’offerta di sé che obbliga a rinunciare, a beneficio di una più alta moralità, a tanta parte della «spensierata giovinezza»; e specialmente a ciò che essa ha di spontaneo, ingenuo, primaverile. Chi ha visto la morte con gli occhi della guerra, ne deve ricavare una pedagogia d’umiltà, una «buona tristezza»40 che educa ad accettare i colpi di frusta del destino, e a vivere con senso più modesto la propria funzione storica, sfrondata da trionfalistiche velleità demiurgiche. Subentra un disgusto quasi “fisico” del sangue e della morte e, nell'animo di Stuparich, sembra quasi echeggiare in forma di interrogativo tacito ma assillante, come un dubbio che chiede conferme, l’assioma dello scrittore tedesco Wilhelm Heinse con cui egli si era misurato nella tesi di laurea: «il male che serve al bene del tutto di cui è una piccola parte, diventa perciò solo qualcosa di bene». 41 Stato d’animo che non è di lui solo: pensiamo per esempio a Salvemini che, con la parola e con l’esempio, aveva guidato nella guerra i migliori della giovane generazione. «Vi sono momenti», confessa a se stesso rivolgendosi a Titina Benzoni nel luglio 1915, ancor prima dell’esperienza vissuta al fronte, «in cui mi sento preso dal dubbio dinanzi a tanto dolore umano, se non era preferibile accettare il dolore della tirannia tedesca a quello che nasce da tanta strage». 42 La guerra di Giani termina però molto presto. Dopo il ’16 dell’accanita difesa sui margini dell’altipiano d’Asiago, la prigionia. «Era stabilito dalla Provvidenza che io dovessi piombare dall’acme della vita intesa come azione, dalla guerra, alla stasi della prigionia, cioè dal furore della vita attiva alla passività costretta, al ristagno, dov’è preclusa ogni azione»43, scrive in Trieste nei miei ricordi, riferendosi al periodo oscuro della reclusione. E continua: In quel lungo, lento, tormentoso periodo, io ebbi campo d’assuefarmi a due cose opposte: al pensiero quotidiano d’una morte che non era più la libera morte affrontata in guerra, ma la morte subita sul patibolo (per due anni io ho sentito ogni notte risuonare, nel silenzio degli improvvisi risvegli, il passo cadenzato del picchetto austriaco che veniva 39 Stuparich, Colloqui con mio fratello, cit., pp. 149-150, 153-154-155, passim. 40 Id., Trieste nei miei ricordi, cit., p. 15. La «buona tristezza» è quella dei superstiti della guerra in una Trieste finalmente italiana: «c’è chi non sa sentire la patria. Disgraziato» (ivi). 41 Id., Machiavelli in Germania, cit., p. 73. 42 Salvemini, Carteggio 1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 171. 43 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 100.

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a prendermi per condurmi alla forca), e alla contemplazione d’una vita che non era più vita vissuta, ma desiderio e memoria, non più fluente sostanza, ma sentimento riflesso, immagine essenziale. Fu in quel deserto che ritornando nudo a me stesso, io intesi come non mai che, nelle mie capacità, il meglio di me l’avrei potuto dare soltanto nell’arte.44

Poco sappiamo e poco ci resta di quegli anni: qualche ricordo sparso, qualche rara testimonianza degli amici, una poesia scovata fra le carte di Giani e resa pubblica dalla figlia, 45 il taccuino inedito che abbiamo già menzionato. Comunque Stuparich, alla conclusione della guerra, ributtato a Trieste dalla risacca della Storia, l’ombra del ragazzo di un tempo, non era probabilmente molto diverso da quei rappresentanti di una «borghesia sperduta e diffidente che esitava ancora fra l’uniforme abbandonata nelle trincee di ieri e i compiti insostenibili di una nuova vita civile», 46 secondo la bella precisazione di Giame Pintor. Ma l’immagine che più colpisce di un uomo che ritorna a pezzi da un’esperienza ai limiti del sopportabile è quella consegnataci dalla futura moglie. «E il giorno del ritorno venne», scrive più attonito che felice. Le nostre anime erano intirizzite dal lungo aspettare, consunti i nervi, i corpi invecchiati. Giani aveva scordato il nostro dialetto; era una cosa pietosa dover cambiare linguaggio per intenderci! I nostri occhi non sapevano più guardarsi; la lunga barba dava al suo volto un aspetto estraneo, le nostre mani avevano perduto la consuetudine della stretta.47

La guerra era finita. La pace, forse, sarebbe stata altrettanto difficile da vivere. «Al mio ritorno nel mondo», ha raccontato Stuparich cercai, sì, con qualche speranza di mettermi a posto, di aiutare me negli altri e gli altri in me a trar profitto dalla dolorosa esperienza della guerra e a vivere socialmente meglio, con superamento almeno dei più bassi egoismi e con reciproca tolleranza: ragionevole risultato di tanti sacrifici e di tanto dolore. Ma il mondo, la società correva verso la china opposta, delle passioni sfrenate, dei rancori, dell’egoistica volontà di potenza, e mi ricacciava nella mia solitudine.48

È una crisi. Che lo pone di nuovo in dissonanza con la città natale. Faccenda antica. Ma “prima” c’era stata Firenze, c’era stato quel gruppo straordinario e solidale formatosi intorno alla redazione della «Voce» a supportare l’ansia di ricerca e la temerarietà eretica di una febbre intellettuale che non temeva maldicenza ed ostracismo, c’era stata la giovinezza. Ora invece Giani è solo, con una famiglia di 44 Ibidem. 45 Testimonianze sintetizzate da Damiani, Giani Stuparich, cit., pp. 58-60. 46 Pintor, Il sangue d’Europa, cit., p. 134. 47 Oblath Stuparich, Confessioni e lettere a Scipio, cit., p. 35. 48 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 101.

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cui porta la responsabilità piena, con incertezze che riguardano la professione, la collocazione politico-ideologica, i valori; solo e isolato, al di fuori di ogni rete di consonanze e di sostegno, in una città dove, inizialmente, il “combattentismo” (e soprattutto quello intonato a ispirazioni di interventismo democratico) costituiva, per ovvie ragioni, un tessuto quasi inesistente, e di conseguenza, senza alcuna capacità di quella «autonoma iniziativa politica»49 che si dimostrò capace di esprimere nel resto d’Italia. Cosa fin troppo ovvia: a Trieste i reduci erano i vinti della Grande guerra. Felici o affranti per il cambiamento radicale (“el ribalton”, come si usò poi dire in dialetto triestino), guardavano al futuro senza parametri per interpretarlo, con passività e rassegnazione (un tema che la storia militare ha cominciato ad affrontare, 50 ma di cui ancora sfuggono i risvolti umani e psicologici). Del resto, anche in Italia (alla quale Trieste viene annessa ufficialmente solo nel 1920) gli ex-combattenti stentavano ad organizzarsi in coerente fronte politico, anche se, a solo pochi chilometri da Trieste, diedero vita a Fiume a dei pittoreschi e tragici saturnali adriatici, 51 insieme a gruppuscoli di militari sediziosi e sotto la guida carismatica dell’Immaginifico. Un’impennata anarchica del culto dell’azione con un alibi di devozione nazionale che, come si è detto, a Stuparich non piacque («quanti amici […] stimarono la mia franchezza assenza di sentimento patriottico»52). Nelle elezioni del 1919 trionfarono gli eredi del neutralismo, ma i gruppi di ex-combattenti che crearono, per dire, la “Lega 49 Vedi G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Laterza, Bari, 1974, p. V. Per una sintesi del problema del reducismo, vedi F. Masina, Reducismo, in Dizionario del liberalismo italiano, tomo I, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011 e, più in esteso, G. Quagliariello, Percorsi e strategie del combattentismo democratico, in F. Grassi Orsini e G. Quagliariello, Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa, il Mulino, Bologna, 1996. Ma per qualche scampolo di combattentismo organizzato, nel segno della reversibilità sovversiva, cfr. A. Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare delle Venezia Giulia (1918-19), LEG, Gorizia, 2000, in special modo il capitolo V, La convergenza politica di associazioni, gruppi patriottici e uffici militari. Interessante la testimonianza in presa diretta di A. Oberdorfer del deprecabile ruolo che in chiave anti-socialista ed anti-slava andavano svolgendo a Trieste reduci e frange della forza pubblica, pubblicata sull’«L’Unità» (11. IX. 1919) di quel Salvemini, che, vi sono evidenze che lo dimostrano, seguiva con interesse l’attività saggistica di Stuparich. Così descrive il socialista triestino le composite squadracce che si scatenarono il 3 e il 4 agosto 1919 in un pogrom anti-socialiasta ed anti-slavo: «giovanissimi nazionalisti – promettenti soci del Sursum corda – accompagnati da arditi […], da ufficiali e soldati d’altre armi con tanto di tricolore, da carabinieri […]» (I fatti di Trieste). 50 R. Todero, Dalla Galizia all’Isonzo. Storia e storie dei soldati triestini nella grande guerra: italiani, sloveni e croati del k.u.k I.R. Freiherr von Waldstätten nr. 97 dal 1883 al 1918, Gaspari, Udine, 2006 e Id., I fanti del litorale austriaco al fronte orientale, 1914-1918, Gaspari, Udine, 2014. 51 Questo il commento su Fiume di F. Perri sull’ «Italia del popolo - giornale del fascio wilsoniano d’azione» del 1919, bisettimanale diretto da M. Gibelli e C. Facchinetti: «l’episodio di Fiume non è solamente un gesto di passione nazionale, di temeraria audacia, diciamolo pure di sedizione militare circoscritta, ma è un segno dei tempi, il segno tangibile e probante della disgregazione sociale in cui lo stato borghese trascina la sua moribonda esistenza», cit. in G. Tartaglia, Francesco Perri dall’antifascismo alla repubblica, Gangemi, Roma, 2013, pp. 42-43. 52 G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 41.

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democratica per il rinnovamento della politica nazionale”, dove confluì l’élite dell’interventismo democratico, e il posteriore “Partito del rinnovamento”, con le loro riviste di fiancheggiamento («Volontà», il mensile «La voce dei popoli» di Zanotti Bianco, ecc.), non seppero, salvo rare eccezione (Camillo Bellieni, che fonda il nucleo del futuro Partito sardo d’azione), adeguare strategie e mezzi al nuovo scenario politico caratterizzato dai partiti di massa. Per merito di Salvemini - scriveva sulla «Volontà» E. Lolini, già collaboratore dell’«Unità» - si sono formate alcune centurie di uomini che sono pienamente concordi sulla soluzione di alcuni problemi concreti. […] A questi uomini però mancava quello che è assolutamente necessario specialmente nelle moderne democrazie per rinnovare e risanare la vita politica del paese: cioè la forza e l’influenza politica.53

Delle due strade che si aprivano davanti a Stuparich, cercare contatti, cementare alleanze, schierarsi54 oppure ritirarsi in una solitudine vigile, «per guardare e giudicare»,55 come scriveva nel 1922 un Prezzolini particolarmente amaro e ripiegato su se stesso, è questa seconda che è obbligato a prendere. Sbocco remoto della crisi – lo abbiamo spesso evidenziato, ma non è superfluo ripetere – sarà quello di individuare nell’attività creativa la soluzione alla propria esigenza di essere e alla propria urgenza di fare: «il meglio di me l’avrei potuto dare soltanto nell’arte»56 per ridire la frase che pare offrire la sintesi più esplicita di un lunghissimo travaglio interiore; il cammino è però ancora lungo, e cercheremo, passo passo, di tenergli dietro. Nel frattempo a Trieste era giunta l’Italia, l’Italia agoniata ed invocata. In una città agitata dalle scosse sismiche dell’«anarchia post-asburgica»57 ritorna anche un’élite politica ormai privata della prima ragion d’essere, dopo la realizzazione del suo programma massimo, l’annessione al Regno, ma tesa a riguadagnare le posizioni abbandonate negli anni del fuoruscitismo, e nel tempo stesso inquieta sull’ubi consistam di un grande emporio commerciale improvvisamente mutilato 53 In Grassi Orsini, La “Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale” - Dalla rivista di cultura al “superpartito della democrazia”, in Grassi Orsini e Quagliariello, Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo, ecc., cit., p. 632. 54 «Tutta una generazione, tutto un popolo si concentravano intorno a un’esperienza grandiosa e comune. Dopo tale esperienza la massa degli ex-combattenti si sentiva dappertutto alle soglie di una vita nuova. Ognuno agitava nel suo spirito formule generali, appena abbozzate, che lo spingevano a cercare contatti con gli altri uomini, a intravedere la necessità di uno sforzo e di una salvezza collettivi», cfr. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, cit., p. 541. 55 Prezzolini, Per una società degli Apoti, in «Rivoluzione liberale», I, 1922, n° 28 (28.IX. 1922): «Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente ed anche, nota bene, per le contese stesse che ora dividono ed operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi, e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale. […] Vi è già tanta gente che parteggia. Non è niente di male per la società se un piccolo gruppo si apparta, per guardare e giudicare». 56 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 100. Vedi qui p. 134. 57 A. Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini – Venezia Giulia 1918-1922, Gorizia, LEG, 2001, p. 21.

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del suo immenso bacino di traffici. Si era ormai alla prova del nove: la città avrebbe mantenuto con l’annessione all’Italia la sua prosperità, come avevano pronosticato alcuni irredentisti – Mario Alberti, per esempio che vagheggiava una ripresa dello sviluppo industriale – o, secondo le previsioni di Angelo Vivante, era condannata al declino per asfissia, ovvero per mancanza degli ampi spazi del suo antico Hinterland, come sembra temere anche Stuparich?58 Dietro le spalle dei commissari governativi – carica militare in un primo tempo (fino all’agosto 191959), ed assegnata, all’indomani dell’armistizio, al generale Petitti di Roreto, uomo energico ma equilibrato60 – riprendevano quell’influenza che non avrebbero più perduta, se non nel soffocante abbraccio col fascismo, i leader del partito liberal-nazionale d’anteguerra. Pronti a travasare in città la loro carica di livore contro ogni forma di opposizione.61 Al Comune, osserva Stuparich, «gli uomini sono i nostri soliti uomini di prima della guerra, con la grave aggiunta d’essere appoggiati dal nostro governo»;62 e di fatti sarebbe diventato sindaco nelle prime elezioni amministrative del gennaio 1922 Giorgio Pitacco, uomo di spicco della destra irredentista. Quello stesso che, negli anni della guerra, aveva denunciato, con non poca tendenziosità, lo snaturamento della città (scrivendo di una «Trieste, ormai in gran parte slavizzata»63) e che nel 1926 sarebbe stato invece obbligato alle dimissioni, come a indicare l’impossibilità della «ricostituzione delle forze irredentiste sotto l’egida del PNF».64 Sintetizza così Carlo Schiffrer: gli avvenimenti del 1914-18 privarono, si può dire, i dirigenti liberali del loro piccolo mondo, tanto di quello ideale, quanto di quello della loro azione quotidiana: li 58 «A Trieste le cose vanno male, molto male. Vorrei essere falso profeta, ma temo per l’avvenire della mia città. Forse è vicino il tempo in cui bisognerà avere il coraggio di rinunciare alla grandezza commerciale, di rifarsi piccini per cominciare un nuovo lavoro». Lettera a Elsa Dallolio, in data 21 dicembre 1919, pubblicata da Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 153. 59 Per questa fase indispensabile Visintin, L’Italia a Trieste, ecc., cit. 60 Di «moderazione e cautela» scrive, in una positiva valutazione di Petitti di Roreto, Vinci: «la scelta moderata di Petitti di Roreto, non escludendo affatto la condivisione di alcuni principi generali e di molte scelte di cui l’esercito occupante è portatore, si appella tuttavia con forza al quadro di riferimento dell’Italia liberale e anzi, più in generale, alla contrapposizione tra l’autoritarismo conservatore degli imperi centrali e gli ideali di libertà, propagandati dalle potenze vincitrici» (Il fascismo al confine orientale, in Storia d’Italia - Le regioni dall’Unità ad oggi, Il Friuli-Venezia Giulia, a cura di Finzi, Magris, Miccoli, cit., p. 391). 61 Del sentire comune maturato a Trieste sul fronte irredentista dà emblematica testimonianza S. Benco in quel Trieste negli anni di guerra, Casa ed. “Risorgimento”, Milano, 1919, da cui Stuparich avrebbe attinto con dovizia per raccontare in Ritorneranno la città del 1914-18. 62 Lettera a Prezzolini, 19.III.1919, conservata nell’Archivio Prezzolini della Biblioteca cantonale di Lugano. 63 Citato in Monteleone, cit. p. 196, che riporta il testo di un memoriale dell’APII firmato Pitacco risalente all’agosto 1918. Interessante, per approfondire la figura e le idee dell’uomo (e della sua parte politica), G. Pitacco, La passione adriatica nei ricordi di un irredento, Ed. Apollo, Bologna, 1928. 64 A. Apollonio, Venezia Giulia e Fascismo - Una società post-asburgica negli anni di consolidamento della dittatura mussoliniana 1922-1935, LEG-Irci, Trieste 2004, p. 88.

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privarono cioè della “citta irredenta”, chiusa nel suo disagio sentimentale e tesa nella sua aspettazione messianica, e per la quale il problema dominante su tutti era quello della conservazione nazionale.65

Vuoto di idee e vuoto di progetti, che in qualche modo avrebbe dovuto essere colmato. Nonostante la riaffermata disponibilità di Petitti di Roreto nei confronti dei nuovi sudditi di lingua slava e le buone intenzioni di non pochi uomini politici nei lontani circoli della capitale, si stavano ponendo – per una sorta di diffidenza “storica” cronicizzatasi nel corso della lotta irredentistica e acutizzata negli anni di guerra – le premesse per forme, in un primo momento, di incomprensione e insofferenza, in seguito di intolleranza e oppressione. Venne presto meno, per dirla con Ernesto Sestan, la «lealtà»66 d’ambo le parti. Ed è ancora all’equanime intelligenza di storico del Sestan che è opportuno fare appello per uno sguardo complessivo sull’intero problema, con il di più di un giudizio storico che ci tornerà utile, a proposito della saggistica stupariciana: Convien dire che l’Italia si presentava assolutamente impreparata al nuovo compito di amministrare un paese mistilingue. Inadeguata l’esperienza con le insignificanti minoranza allogene […], una qualche esperienza avrebbero dovuto portare i molti profughi giuliani, specialmente triestini, stabilitisi in Italia durante la guerra; ma i più erano giovanissimi e, perciò, appunto privi di quella esperienza e avevano preferito, com’era sacrosanto e giusto, imbracciare le armi e attestare col loro sangue generoso il più imprescrittibile diritto italiano su quelle terre. Gli anziani, capi e veterani del movimento irredentista, incalliti nella lotta nazionale, erano, in genere, i meno adatti a portare la luce dell’esperienza, perché la limpida visione dei fatti era, in loro, generalmente, ottenebrata dalle prevenzioni, dai risentimenti, dalle passioni, anche nobili passioni, che avevano intessuto tutta la loro vita; conseguita quella meta radiosa, la redenzione della Patria, cui avevano mirato come a un sogno per tanti anni, non avevano più una parola da dire. È pur significativo che il partito liberale giuliano, ossia la quasi totalità del movimento irredentista, a redenzione conseguita, si svuota, si affloscia, si esaurisce per mancanza di un programma, di aderenza ai nuovi problemi. […] Veramente su questo punto l’Italia prefascista e fascista, ha fatto fallimento, in quelle terre; nell’aver ritenuto il tipo di governo accentratore, burocratico, prefettizio, di imitazione francese, buono per una regione mistilingue, la cui popolazione, anche allogena, si voleva guadagnare all’Italia. Centralismo, uniformità amministrativa hanno significato, necessariamente, anche se non volutamente, oppressione.67

Anche il Partito socialista triestino, una delle “palestre” ideologiche del giovane Stuparich, stava allora attraversando una fase particolarmente difficile. In Trieste nei miei ricordi Giani racconta come, nell’immediato dopoguerra, «la maschera

65 C. Schiffrer, Prefazione a C. Silvestri, Dalla redenzione al fascismo - Trieste 1918-1922, Del Bianco, Udine 1966, p. 8. 66 E. Sestan, Le argomentazioni e le pretese del dottor Smodlaka (1944), in Id., Venezia Giulia - Lineamenti di una storia etnica e culturale (I ed. 1947), cit., p. 177. 67 Ivi, pp. 177, 197.

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contraffatta della violenza s’aggirava minacciosa tra [i] volti pensosi e sereni»68 di quei socialisti che avevano difeso, nel segno dell’austro-marxismo, tanto i diritti dei lavoratori che, lo abbiamo visto in precedenza, l’italianità di Trieste: uomini d’estrema sinistra contando sugli istinti scatenati dalla guerra, spingevano al sangue e alla rivoluzione. Chi più di tutti là, nella fucina del giornale socialista, soffriva di tale momento era Aldo Oberdorfer. Alla redazione del Lavoratore ci andavo soprattutto per lui […]. Uomo di lettere, sensibilissimo all’arte […] Aldo Oberdorfer veniva al socialismo da quella visione della vita che supera tutte le amarezza della realtà per una profonda, ostinata, innocentissima fede nel miglioramento umano.69

Si apre dunque nel dopoguerra un periodo di aspro travaglio identitario e di affannosa ricerca di realizzabili strategie politiche da parte di un partito che, indebolito a livello nazionale da lotte intestine, gelosie e scissioni, si troverà disastrosamente coinvolto nella breve fiammata della insurrezione triestina del proletariato di San Giacomo del settembre 1920, soffrendo una snaturante transizione verso forme di massimalismo inconcludente. Episodio emblematico a livello locale – e dobbiamo fermarci a questo, impossibilitati a seguire le vicende con maggior ricchezza di dettagli – di un atteggiamento assai diffuso nell’arco del “biennio rosso”, definito da Salvatorelli «nullismo massimalista» (il partito socialista «reclama il potere ed invoca la rivoluzione; ma teme in realtà l’uno e l’altra, e si guarda quindi dal compiere alcuna azione positiva per raggiungere l’effettuazione del suo programma ufficiale»70) e da Pietro Nenni, su un altro fronte politico, «diciannovismo» («il Partito si balocca in un gioco di frasi, si inebria di parole e di formule, vaneggia dietro il mito russo, senza quel tanto di senso politico e di spirito di azione che gli consenta di dare alla crisi della Società e dello Stato italiano una soluzione che abbia l’impronta sua»71). Sarà proprio Oberdorfer – un dirigente socialista di grande statura umana e intellettuale cui non mancò mai la stima di Stuparich, il «confinato triestino fierissimo» nella definizione di Leo Valiani,72 che l’ascesa del fascismo prima e le leggi razziali poi condannarono a un gramo sopravvivere – a stilare l’accorato De profundis di un partito più che benemerito della Trieste asburgica, in cui aveva insufflato, con tenace pedagogia, valori di cultura e civiltà. Egli si era accorto, uno fra i pochi, e andava denunciandolo dalle pagine del «Lavoratore» quando ormai «San Lenin [aveva] vinto con spada e 68 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 49. 69 Ibidem. 70 L. Salvatorelli, Nullismo massimalista (marzo 1920), in Idem, Nazionalfascismo, Einaudi, Torino 1977, p. 112. 71 P. Nenni, Prefazione (1926) a Il Diciannovismo (1919-1922), Edizioni Avanti, Milano 1962, p. 10. Sulla crisi del 1919, la più acuta del dopoguerra, vedi R. Bianchi, Pace, pane, terra - Il 1919 in Italia, Obdradek, Roma, 2006. 72 Lettera di L. Valiani ad A. Garosci, 8. XI. 1951, in F. Fantoni, a cura di, L’impegno e la ragione – Carteggio Garosci-Valiani (1947-1983), Franco Angeli, Milano, 2009, p. 136.

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lancia il dragone del riformismo», 73 quanto fossero sterili e improduttive parole d’ordine rivoluzionarie che, senza riuscire a tradursi in un serio progetto politico, servivano solo a esasperare il conflitto sociale. Alibi per un’ulteriore spinta a destra per una borghesia cittadina sempre più massicciamente schierata su posizioni conservatrici e occasione di risposte violente da parte del movimento fascista, in via di rapida formazione a Trieste tra il 1919 e il 1920 (ancorché, in un primissimo momento, in un «quadro culturale di riferimento» che era «ancora quello di un interventismo di sinistra»,74 collocazione che spiega le simpatie che riscosse anche presso ambienti di ispirazione repubblicana, considerata la irrevocabile «scelta di sinistra» compiuta dal partito negli anni del crepuscolo del giolittismo75): Ottobre 1920 – Il partito ha continuato ad armeggiare fra le pazzie dei neo-comunisti e gli stiracchiamenti dei socialisti di sinistra; lotte a coltello dove più nulla quasi rimane del programma e si perpetua soltanto il vergognoso sistema delle ostilità personali. […] Il centro costituito d’uomini pavidi, e di fronte ai pericoli esterni e, più, di fronte alle difficoltà e alle odiosità interne […]. Grande sfoggio di grandi parole: comunismo, anticollaborazionismo, azione diretta, violenza! […] Un tempo indicibilmente prezioso è stato sciupato dal nostro partito […] il periodo del dopoguerra ch’era nostro per la quantità di masse affluite a noi, per coscienza del proprio diritto che questa massa cresciuta esorbitantemente aveva altissima, per diritti reali da essa acquisita […] questo dopoguerra ch’era nostro, perché i socialisti furono i primi e a tutt’oggi sono rimasti gli unici […] a dimenticare le ostilità di razza e di nazione e di Stato per tornare al concetto d’un’Internazionale che non è più il vecchio concetto negativo d’anteguerra […] ma una nuova concezione politica ed economica; questo dopoguerra che era nostro, perché nostra era la forza nella società disorientata dalla tensione sovrumana e dall’inversione dei valori che la guerra aveva causato, noi l’abbiamo miserevolmente sciupato, in cerca d’un orientamento, d’un programma positivo, d’un terreno concreto dove iniziare l’opera nostra definitiva, costruttrice.76

La crisi interna ai socialisti triestini «servì a rafforzare il gruppo dei giovani estremisti […]. Vennero allora alla ribalta i capi novelli del socialismo triestino, Tuntar e Juraga, venuti su nel corso della guerra con le nuove leve del socialismo, e perciò quanto mai lontani dalla mentalità dei vecchi capi socialisti formatisi nel clima d’una Europa civile e liberale, e inclini più ad un socialismo educatore e umanitario che rivoluzionario».77 La mozione massimalista votata nell’aprile del 1919 portò alle dimissioni di Valentino Pittoni, il capo storico del socialismo triestino, amato dai compagni e rispettato dagli avversari, mentre la messa sotto accusa, per il suo patriottismo italiano, di un importante dirigente del partito, Edmondo Puecher, valeva a indicare la nuova direzione imboccata dal socialismo triestino. Era in effetti 73 A. Oberdorfer, Il socialismo del dopoguerra a Trieste, Vallecchi, Firenze 1922, p. 95. 74 D. Mattiussi, Il Partito Nazionale Fascista a Trieste - Uomini e organizzazione del potere 1919-1932, Quaderni dell’IRSML, n° 12, Trieste 2002, p. 6. 75 Cfr. Tesoro, I repubblicani nell’età giolittiana, Le Monnier, Firenze, 1978. Cap. VI. 76 Oberdorfer, Il socialismo del dopoguerra a Trieste, cit., pp. 121-122. 77 Silvestri, Dalla redenzione al fascismo - Trieste 1918-1922, cit., p. 26, 27 passim.

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il momento di Tuntar e della «corrente antiitaliana e bolscevica», come scriveva nel 1919 Gabriele Foschiatti in una relazione commissionatagli dal Governatore Petitti di Roreto.78 Una riflessione importante perché nasce dalla penna di un volontario giuliano, ufficiale dell’esercito di spiccato orientamento mazziniano (come dire un uomo assai vicino a Giani Stuparich per scelte di vita e principi ideali). La colpa della confusione e della contraddittorietà del clima politico-civile in città era ovviamente tutta da ascrivere, per gli intellettuali di parte liberalnazionale (destinati, sulla distanza, a venir fagocitati dal fascismo, interprete ben più aggressivo delle istanze “nazionali” e di classe) ai sogni utopistici coltivati dalle sinistre, ed era naturalmente lì che bisognava agire con energia, per riportare ordine nel Paese. Così Attilio Tamaro, in una riflessione molto più tarda, ma che restituisce la sensibilità allora prevalente negli ambienti conservatori triestini: in breve tempo l’Italia si trovò in gran disordine. Una causa era anche nel mito apocalittico predicato durante la guerra propinandosi agli italiani (come agli altri popoli) che si combatteva non per ragioni storiche nazionali, non per la sua unità, per la sua sicurezza, per la sua grandezza, bensì per una democrazia assoluta e universale, contro l’imperialismo, contro la guerra, o per altre vuote ideologie.79

A contrassegnare il clima politico contribuisce in modo determinante la costituzione dei primi fasci. Raggruppano ex-ufficiali con programma che si potrebbe definire “sansepolcrista”, per il suo confuso anelito rivoluzionario e per l’eterogeneo contenuto ideale: «la guerra è il punto centrale di riferimento, ma c’è anche la difesa del protagonismo d’Italia che il conflitto ha esaltato, ben al di là della sua immagine perennemente sbiadita di piccola nazione», 80 come scrive Anna Vinci, dipanando i fili di un groviglio politico-ideologico che, pur sembrando aperto ad ogni soluzione, va presto incanalandosi nella direzione di una «controrivoluzione preventiva», per dire con il titolo dell’aureo libretto di Luigi Fabbri. E che «all’inizio», aggiunge Vinci, il movimento fascista agisse sostanzialmente al seguito delle forze nazionaliste, fiancheggiate o guidate da gruppi di arditi o di ufficiali dell’esercito (spesso in congedo) è un fatto evidente agli occhi della stampa di diverso orientamento politico che, quasi con stupore, si trovava a commentare i primi gravi incidenti che 78 Si legge in Silvestri, Dalla redenzione al fascismo - Trieste 1918-1922, cit., p. 148, che riporta in appendice tutta la relazione. 79 Tamaro, Venti anni di storia (1953-4), Giovanni Volpe ed., Roma, 1971. Vol. I, p. 41. 80 Vinci, Il fascismo al confine orientale, cit., p. 399. Anna Vinci riprenderà l’analisi con nuove o più approfondite focalizzazioni in Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza, Roma-bari, 2011. Con più evidenza che nei contributi precedenti la Venezia Giulia viene vista come una periferia-laboratorio e il «confine orientale [come] prezioso incunabolo e nello stesso tempo semplice strumento di un processo che investe la storia nazionale» (p. 59), il luogo dove «la parabola ascendente del fascismo italiano trova […] punti di forza e di esaltazione intrecciandosi alla sacra rappresentazione della nazione» (p. 103).

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si scatenano nell’estate del 1919 intorno alla principale sede dei sindacati socialisti della città.81

Da qui allo squadrismo fascista propriamente detto, il passo non è né fluido né lineare. Molti di coloro che, nell’esaltazione patriottica del momento, erano pronti ad azioni di violenta intransigenza contro chi – socialisti, sloveni – pareva incline a mettere in dubbio, nella nuova Italia di Vittorio Veneto, la religione della patria come valore assoluto ed esclusivo, o a contestare l’esigenza di completare, riabbracciando le armi se fosse necessario, la vittoria “mutilata”, scelsero poi altre strade, quasi che antiche fedi politiche – repubblicana e mazziniana soprattutto – prendessero in loro il sopravvento, con un apprezzabile ritorno di fiamma democratico. E il pensiero va a Ercole Miani, per esempio, tra i primi membri del Fascio di combattimento triestino e poi antifascista, o a Gabriele Foschiatti, legionario fiumano e quindi intransigente oppositore del fascismo, morto a Dachau nel 1944. Anche se è indiscutibile che lo squadrismo, nella sua sostanza prima, sia scaturito dal combattentismo e dal nazionalismo (che si incontravano nel mito degli Arditi, eroica minoranza guerriera), e abbia trovato nell’impresa di D’Annunzio (e forse, prima ancora, in certi brutali eccessi del “maggio radioso”) un fungibile modello di “colpo di stato”. Come ha ben fatto capire del resto Emilio Gentile: «il ribollente micro-cosmo del combattentismo rivoluzionario arditofuturista […] fra la fine del 1919 e la fine del 1920 ebbe in D’Annunzio e non in Mussolini il suo interprete più efficace e il suo duce ideale». 82 Questi, a farla breve, alcuni tratti del contesto. Stuparich intanto ha sposato con rito civile il 26 febbraio 1919 Elody Oblath (di religione ebraica), coronando un impegno sentimentale assunto nei primi anni di guerra con un gesto che esprime anche il forte valore simbolico di ritorno alla normalità; frequenta, da osservatore ben disposto ma neutrale, la redazione del «Lavoratore», da cui segue, con la preoccupazione del testimone partecipe, la travagliata deriva socialista; conferma vecchi e crea nuovi legami d’amicizia, con la cautela di chi teme i passi falsi: con Foschiatti, Giotti, Benco83, Camber, Devescovi (insieme al quale firma, il 28 dicembre 1918, su un giornale che fiancheggia la DSI, «Il grido degli oppressi», un ricordo di Slataper di cui riparleremo, il suo primo scritto sui protagonisti della “generazione carsica”); inizia la carriera di insegnante (“assaggiata” brevemente nel mesi dell’anteguerra) varcando nel settembre 1919, vincitore del concorso comunale, le porte del Liceo-ginnasio dove aveva studiato. Qualche tempo prima della smobilitazione aveva collaborato con alcuni brevi articoli anonimi al «Notiziario della Terza Armata», «scritti su 81 Ivi, p. 400. 82 E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna, 1996, p. 225. Una ricerca che riprende la I edizione del 1975, con l’aggiunta di un’aggiornata Introduzione: la modernità totalitaria - pp. 3-52. 83 In questo caso l’accostamento è più lento, se ancora gli dà del Lei in una lettera del 1925, che segue l’invio dei Colloqui con mio fratello, cfr. Fondo Stuparich, AD-TS.

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tema obbligato e sempre rivisti, talora corretti, dal colonnello che comandava l’ufficio, per cui la loro attribuzione a Stuparich è relativa». 84 Esperienza certo non esaltante, non quanto almeno dovettero essere le relazioni amicali nel breve periodo in cui rivestì la divisa: «quante volte ci isolammo noi due in quell’ambiente rumoroso», ricorda nell’autobiografia a proposito dell’incontro, nella redazione del «Notiziario della III Armata», con Raffaele Mattioli, che così tanto avrebbe contato per la letteratura triestina, «per discorrere con lealtà di ciò che più ci premeva: del problema morale e politico, dell’avvenire della nostra Italia, e del nostro stesso mondo interiore di reduci che ansiosamente cercavano di chiarirsi la lo posizione umana nella vita». 85 Eppure, malgrado il carattere minimo di quell’esperienza di scrittura sintetica e veloce (e spesso sotto dettatura), l’attività di giornalista in grigioverde dovette averlo incuriosito, tanto da fargli accarezzare l’ipotesi più ambiziosa di curare una pagina triestina per «Energie Nuove» di Gobetti (non se ne fece niente), come rivela una lettera a Elsa Dallolio, in data 21 dicembre 1919, pubblicata da Apih. 86 Con Gobetti, aggiungiamo, Stuparich finirà anche per incontrarsi, quasi a sondare il terreno di una più stretta collaborazione: ne resta una traccia in Trieste nei miei ricordi, dove traspare anche ciò che dovette dividere i due uomini rendendo impossibile che il nodo si stringesse: «la visione più rigida e cristallina delle cose» di Gobetti, «le sue aspirazioni immediate, per cui tutto era da riformare o, dopo il crollo necessario, da ricostruire ex-novo». 87 Chi avrebbe invocato la «ghigliottina»88 come atto di necessaria chiarezza per far scorgere sotto la maschera di un fascismo ancora indecifrabile la dura anima liberticida, difficilmente poteva trovare sintonia con un uomo dal temperamento pacato come Stuparich. Subito dopo, negli ultimi mesi del 1919, Giani si lancia in una nuova avventura giornalistica, diventando, per un esiguo compenso, corrispondente del quotidiano genovese «L’azione», col cui direttore lo aveva messo in contatto Prezzolini. Sul foglio ligure appariranno, firmati con la sigla G.S., ora brevissime corrispondenze di carattere esclusivamente informativo, ora interventi più ampi e studiati. Fra temi di natura economica sviluppati con grande sforzo 84 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 63. Ma a proposito si veda anche U. Bernes, Stuparich e il notiziario della Terza armata, in «Umana», Trieste genn-aprile 1973, pp. 17-19. 85 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 41. Opportuna, in questa sede, l’empatica precisazione di Tesoro: «gli interventisti democratici, cambiato lo status da combattenti a reduci, stentarono più di altri a trovare una propria collocazione nel panorama politico italiano del dopoguerra: ritorno o adesione a un partito tradizionale? O piuttosto a una Lega, a un Fascio?» (L’interventismo democratico ecc., cit., p. 160). 86 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 153. 87 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 67. 88 Mi riferisco ovviamente al notissimo articolo di P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, 23. XI, 1922, ora in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1960.

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di ottimismo nei confronti del futuro della città (nel tentativo di cogliere gli incoraggiante barlumi di un possibile rilancio), e qualche segnalazione della vicenda fiumana (il “caso” politico-diplomatico del momento, esposto con sobria attinenza ai fatti, ma registrando l’entusiasmo collettivo), spiccano un’ampia disamina dell’atteggiamento degli italiani di fronte al problema slavo, con speciale riguardo al dovere di mantenere o meno le scuole slovene e croate della Venezia Giulia (Italiani e slavi - I primi assaggi elettorali), e una diffusa analisi delle vicende interne al Partito socialista (Nel campo socialista - Il principio di una Università), con un sopra titolo «Lettere triestine» che chiarisce, non si potrebbe meglio, il riferimento ideale (e le ambizioni) di queste corrispondenze. 89 Particolarmente interessante l’articolo del 25 settembre 1919 (Italiani e slavi), dove Stuparich conferma le antiche inclinazioni e manifesta qualche rinnovata speranza: Nell’ultimo recente Congresso regionale del Partito socialista sono state prese deliberazioni di non poca importanza. […] L’esclusione dal comitato esecutivo del famigerato Tuntar. Tuntar è a capo della fazione più radicale, bolscevica, del partito: è un teorico pericoloso, perché semplicista e assurdo, ma appunto perciò facile influenzatore delle menti giovani ed esaltate. […] L’orientamento anarcoide che per qualche tempo dopo di allora sembrò pigliare il partito, lo si dovette certamente alla sua influenza. […] Nello stesso Congresso regionale è apparso come persona di molta importanza un homo novus del partito: il prof. Aldo Oberdorfer. Non solo egli è a capo del Consiglio superiore di cultura, ma è stato pure nominato capo redattore del «Lavoratore» ed è uno dei futuri delegati del Congresso di Bologna. Ora, se una persona come Aldo Oberdorfer, conosciuto quale interventista, quale collaboratore dell’«Unità» di Salvemini e in genere quale persona di coltura superiore e di coltura specialmente storica, può occupare uno dei posti più influenti nel Partito socialista triestino, è segno che in seno al partito qualche cosa è profondamente mutata o sta per mutarsi. Ad ogni modo lo si vedrà alla prova. Intanto va segnalato il fatto importantissimo dell’adesione dei socialisti sloveni al Partito socialista ufficiale italiano. Nel Convegno di domenica 21 corrente i socialisti della Venezia Giulia hanno approvato un ordine del giorno in cui «si riconosce la necessità dell’unità dell’organizzazione politica del proletariato sloveno della Venezia Giulia con quella del proletariato italiano e si incarica il comitato direttivo di comunicare al Comitato direttivo della federazione socialista italiana a Trieste l’adesione delle organizzazioni politiche del proletariato socialista sloveno alla organizzazione politica del Partito socialista in Italia». Per quanto lo stesso ordine del giorno rechi in fondo la riserva che l’adesione dei socialisti sloveni all’organizzazione politica del proletariato italiano non ha alcun nesso con le questioni politiche d’indole nazionale, pure il fatto dell’unione è avvenuto ed è importante: da oggi, per lo meno quella parte di sloveni che è socialista, comparirà nella nostra vita politica come socialista e non come nuovo partito nazionale. È sperabile che anche il partito cattolico riesca ad assimilarsi la parte cattolica degli sloveni, che è più forte di quella socialista.

Ai suoi occhi di idealista deluso è come se potessero rinascere gli spiriti di un socialismo gradualista e democratico, riaccendersi una scintilla di austro-marxismo nella Trieste del dopoguerra, resa attiva dall’estromissione del «famigerato

89 Ne dà l’elenco completo Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 83-84.

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Tuntar», espressione delle inclinazioni rivoluzionarie di matrice bolscevica;90 e che tale “scintilla” avesse la capacità miracolosa di rilanciare costruttive tendenze di collaborazione inter-classista, valorizzando, come aveva scritto Angelo Vivante, quella «cointeressenza d’ogni proletariato all’espansione capitalistica della sua borghesia sulla quale indubbiamente si impernia la concezione riformistica, cioè positivista, del socialismo». 91 Ipotesi che rispondeva alle più profonde convinzioni politiche di Stuparich, di netta impronta legalitario-moderata e convinto che forme di socialismo democratico dovessero scaturire, e non altrimenti, dai progressi tanto economici che sociali della società borghese. Poi le cose non andarono nel senso previsto, e perfino la confluenza dei socialisti triestini di lingua italiana con i compagni sloveni favorì una svolta massimalistica. Per ora, come ha colto Apih, ciò che maggiormente importava a Stuparich erano «due punti fondamentali: democrazia e pacificazione nazionale»;92 ancora, si direbbe, nel solco austromarxista e mazziniano. Successivamente a questa breve collaborazione balenerà all’orizzonte, ma solo per un attimo, la prospettiva di un impegno ben più prestigioso con il «Resto del Carlino», che, fosse andata in porto, avrebbe forse indirizzato verso occasioni di maggior rilievo ideologico-intellettuale di quanto non potesse la scuola l’operosità di Stuparich in questo primissimo dopoguerra. Egli profonde intanto le sue migliori energie per tener vivo il ricordo del fratello, curandone le riflessioni, le poesie, le pagine di diario (Cose e ombre di uno, Quaderni delle Voce, 1919), e ne scaturisce un documento commovente di vicinanza umana e di crescita culturale vissuta in fraterna armonia, sull’orizzonte di uno scambio strettissimo di opinioni, giudizi, sollecitazioni, letture. Ibsenianamente in lotta con i propri demoni, Carlo93 rivela, nella scelta curata da Giani, un groviglio di tumultuosi stati d'animo che sa incanalare verso traguardi di solida crescita morale e intellettuale, mentre sonda curioso dentro e intorno a

90 A proposito del “bolscevismo” da evidenziare un posteriore intervento sul Bolscevismo giudicato da T.G. Masaryk, apparso sul «Piccolo della sera» del 26 settembre 1921, dove Stuparich espone, con appassionata partecipazione, le critiche ad una “rivoluzione contro il Capitale” (ma il discorso va in senso opposto rispetto al famoso articolo gramsciano) che ha consegnato un paese economicamente e culturalmente arretrato ad una esigua minoranza estremista giunta al potere con la violenza, finendo così per trasferire nel nuovo stato tutti i difetti del vecchio dispotismo zarista; mentre «Marx durante il periodo della sua più intensa lucidità politica considerò che per lo meno in paesi quali l’Inghilterra, l’America e l’Olanda si poteva realizzare la rivoluzione sociale senza ricorrere a colpi di violenza. Tutto al più egli considerava la violenza come un mezzo ausiliario col quale completare la dissoluzione del regime capitalista». 91 Vivante, Balcani ed internazionalismo proletario, in «Critica sociale», 1.III.1909. Citato in Cattaruzza, Il socialismo di lingua italiana in Austria, in AA.VV., Regioni di frontiera nell’epoca dei nazionalismi, a cura di Ara e E. Kolb, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 90. 92 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 87. 93 Su Carlo Stuparich vedi, a partire dall’edizione del 1933, la Prefazione di Giani a Cose e ombre di uno, cit., e Senardi, La breve guerra di Carlo Stuparich, in «Studi e problemi di critica testuale», 2015, n° 2.

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sé per conquistarsi quella serenità che pare poter raggiungere solo nel momento dell’impegno in armi per la patria: si confronta con Gentile, Croce, Bergson, mentre apprezza Rimbaud e Palazzeschi sul crinale della poesia, per trovare infine un approdo più quieto, nei mesi di guerra, in Mazzini e De Sanctis. Intellettuale di alto profilo, ma senza pose di spavalderia, già all’altezza di quei 22 anni quando la guerra lo strappò al mondo dei vivi. Ma accanto al debito verso il fratello, Giani si dispone a pagare quello verso l’amico. Eccolo dunque raccogliere e pubblicare i documenti della vita e del pensiero di Scipio Slataper, con qualche concessione al topos romantico dell’eroe che illumina e guida, ma deciso a liberarlo da una interpretazione tanto comoda quanto falsante che leggeva nel suo sacrificio una forma di “espiazione”: il segno del pentimento dell’enfant terrible che tanto severamente si era espresso su Trieste nelle «Lettere triestine» della «Voce». Usciranno così gli Scritti letterari e critici (Roma, Quaderni della Voce, 1920), la monografia Scipio Slataper (Firenze, Quaderni della Voce, 1922), gli Scritti politici (Roma, Stock, 1922), mentre, a partire dal 1931, Stuparich curerà e farà pubblicare l’epistolario dell’amico (come a dire una dedizione lunga quanto una vita, visto che ancora nel 1953 vedranno la luce, di nuovo per sua cura, gli Appunti e note di diario di Slataper). Particolarmente significativa, ovviamente, la monografia, insieme ritratto e auto-ritratto, analisi di un uomo e studio d’un ambiente. Slataper vi figura come un intellettuale irrequieto, che scava senza mai trovar pace, sempre intento a scrutarsi dentro, incline a riconoscersi ora nello specchio di Hebbel (dal cui lato torbido, commenta Stuparich, si lascia affascinare), poi in quello, ben altrimenti severo, di Ibsen, per il quale, frase che era piaciuta al triestino, «scrivere è tenere severo giudizio sovra se stessi»; intuitivo e appassionato, teso a conquistarsi una quadratura etica e un’identità umana e politica iscritta nella categoria del fare e inserita, nel segno di contenuti morali e valori nazionali, in una particolare condizione collettiva, il microcosmo unico e speciale della sua città. Una Trieste dove in un primo momento si sente a disagio, per la ristrettezza d’orizzonti e la penuria di stimoli, ma che resta il punto focale della sua elaborazione intellettuale. Emigra quindi a Firenze per ossigenarsi e crescere, dove si unisce al gruppo della «Voce» (ma «nel 1909 far parte del movimento vociano era indice di lesa italianità per Trieste e d’inferiorità per certi professori universitari»94), il laboratorio intellettuale e morale in cui opera attivamente per l’Italia e per la propria città, con l’obiettivo di far diventare «l’irredentismo giuliano, da stato d’animo pieno di contraddizioni, oscillante tra fatalismo e calcolo, coscienza ricca e dibattuta» (S, 255). Lo stesso punto d’avvio, esagera Stuparich, da cui partono Vivante e Fauro, e che contribuisce a porlo, già nel 1912, in una prospettiva interventista («Lo Slataper era interventista già nel 1912» - S, 269). Sul terreno della critica si mette alla prova nel saggio su Ibsen («Tre sono gli elementi che concorrono a formare questo libro così denso e così intricato […] critica, umanità, arte» - S, 21894 G. Stuparich, Scipio Slataper, cit., p. 78. Per comodità le successive citazioni dallo Slataper verranno siglate nel testo con la lettera S.

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219), artisticamente, dopo la grande rinuncia vociana («in più d’uno dei vociani sentivi una rassegnazione di sacrificarsi a un compito inferiore ma necessario, avendo o rimandato di dedicarsi o addirittura rinunciato all’arte» - S, p.55), ne Il mio Carso, l’apoteosi letteraria, esplosione irrefrenabile eppure esteticamente dominata di traboccanti energie vitali. Di crisi in crisi, anche grazie a un contatto con la natura di volta in volta più intenso, profondo, consapevole, il protagonista autobiografico del diario lirico95 va conquistandosi una soglia di più alta e attiva moralità: «egli si salva e ritorna, non più Pennadoro sfolgorante, bramoso di rinsanguare il mondo con la sua poesia, non più l’apostolo che insegnerà il dovere morale, ma uomo semplice fra gli uomini, uomo che sa che la vita è pena ed amore, sacrifizio e lavoro» (S, 127). I contrasti allora si risolvono, le contraddizioni si sciolgono, anche quella costitutiva dell’anima e della città: «sempre il contrasto tra il Carso e la città, fra lo slavo e l’italiano; ma questa volta la conciliazione drammatica è trovata: nell’anima triestina, nel poeta della giovane Italia» (S, 122). «Le novità e la freschezza del Mio Carso», conclude Stuparich, «sono in questa vergine e barbara italianità che si esprime artisticamente per la prima volta» (S, 146), senza zavorra di tradizione e senza remore di pregiudizio. Analisi serrata, questa di Stuparich, che svela qualche retroscena, e fortifica il mito. Sempre lucidamente argomentata, ora sciolta, ora, in più luoghi, farraginosa. Un ciclopico tentativo, ad ogni modo – per come Stuparich si sforza di essere ciò che non è, un critico letterario – di far capire Slataper ai triestini, senza provocazioni, senza impuntature di orgoglio, senza compiacimenti o narcisismo, ma con qualche licenza interpretativa per farlo meglio digerire («Lo Slataper era interventista già nel 1912»). Monumento eretto alla memoria dell’amico? Senza dubbio. Intendiamoci però: non è all’opera solo il senso di colpa del sopravvissuto, colui che ha smarrito nella tempesta della guerra prima l’amico poi il fratello più giovane, uscendone invece lui stesso illeso;96 ma anche, parliamo di Stuparich, l’esigenza di riposizionarsi nei confronti del piccolo mondo triestino che ha ritrovato, dopo la lunga assenza, prigioniero delle sue eterne nevrosi. L’universo intellettuale e sentimentale del reduce ricomincia a girare intorno al vecchio asse di San Giusto, con gravi conseguenze, alla lunga, che è forse bene chiarire: a Trieste, pur di garantirsi, per sopravvivere, un facile consenso, una decrepita classe di potere 95 «La nostra arte è autobiografica», aveva suggerito Jahier il 25 luglio 1912 (La salute, «La Voce», 1912, ora in La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, III, “La Voce”, a cura di A. Romanò, cit. p. 469) e, «siccome ogni periodo concretizza in uno speciale, predominante genere d’arte la sua visione interiore, il nostro genere sarà probabilmente il diario» aveva affermato con spirito concorde Slataper (Epistolario, a cura di Giani Stuparich, Milano, Mondadori, 1950. Lettera ad Ardengo Soffici, 11.IV.1911, pp. 268-9). 96 Tormento squisitamente privato, ad ogni modo, perché nulla fa pensare che Giani si sentisse sfiorato da quell’ombra di disonore che negli anni della guerra lo Stato Maggiore aveva fatto gravare su chi era caduto prigioniero invece che sacrificarsi sul campo. Per queste tematiche resta insuperato G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993, ora Bollati Boringhieri.

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continuava a riproporre stantie parole d’ordine, spianando in questo modo la strada al fascismo, cui sarà facile presentarsi come «l’interprete della tradizione della città» in «continuazione della vecchia linea di difesa nazionale», legittimo «erede del partito liberalnazionale» ed espressione di «autentica italianità, coscienza nazionale, sentimento della patria». 97 Chi volesse rimettersi in gioco, ricavarsi una nicchia in quell’humus borghese nel suo distillato di intransigenza, spirito retrivo, volontà di rivincita doveva, pena l’esclusione, misurarsi dialetticamente con tale contesto e, quand’anche educatosi altrove a un senso più sano di vita democratica e a più generose idee di tolleranza, elaborare, più o meno consapevolmente, forme di compromesso con il sentire comune. Ma abbiamo lasciato Stuparich intento al compito di paladino di chi, della generazione vociana, i triestini avevano considerato guida e maestro. E qui andiamo a ritrovarlo: subito al suo ritorno a Trieste, ben prima della monografia di cui abbiamo velocemente trattato, Giani (insieme a Guido Devescovi) si era sentito in dovere di prendere la parola a favore di Slataper firmando un articolo su un foglio effimero, il «Grido di libertà» del 28 dicembre 1918, addirittura in polemica con uno scrittore che egli dichiarava di ammirare incondizionatamente, Silvio Benco, «il miglior scrittore contemporaneo di Trieste». Seguiranno a breve distanza, nel 1919, due altri interventi sullo stesso tema, sull’«Azione» di Pola e, più ampiamente, sull’«Alabarda» di Trieste, quindi un lungo articolo – non pubblicato – destinato al «Resto del Carlino», e nel 1920 un contributo, Scipio Slataper scrittore, apparso sul «Piccolo della sera». Sul numero di settembre dell’«Alabarda», una rivista di varia umanità che durò un anno soltanto, la riflessione di Stuparich ha il respiro di un saggio, con panorama della critica e analisi delle opere, sottolineatura della natura «profondamente morale» di Slataper e rammarico per la «congiura del silenzio e [la] campagna denigratrice» che dovette subire nella sua città: se «prima ancora di essere redenti avevamo un poeta», questo il nucleo del discorso, «oggi che siamo redenti questo poeta è la nostra gloria». Comunque, tralasciando tutto ciò, insisteremo sull’articolo apparso sul «Grido di libertà» perché fa meglio capire come, per Stuparich, rimettere sui giusti cardini l’interpretazione di Slataper rappresentasse anche un’occasione per chiarire a se stesso e alla città la portata e il significato dell’attività intellettuale, politica, artistica di un pugno di giovani che avevano pagato il prezzo del sangue perché l’Italia giungesse a Trieste, una piccola élite in cui anch’egli si sente compreso, e del cui impegno, nell’illusione di una continuità senza fratture con l’esperienza risorgimentale, era giunto il momento di rivendicare il valore. Le istanze che lo muovono, nel breve articolo che citeremo, sono quindi piuttosto affettive e identitarie, che critico-interpretative, anche se certe conclusioni anticipano i punti fondamentali della monografia. Va premesso che la città guardava ancora quel suo scomodo eroe con spirito di aperta diffidenza. Dentro il

97 Ara e Magris, Trieste - Un’identità di frontiera (1982), cit., p. 121.

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micro-cosmo provinciale i vociani, e Slataper in particolare, così duri con l’élite politico-culturale della città giuliana, continuavano a portare lo stigma di «masochismo filoslavo»98 che aveva loro impresso Ruggero Timeus. E non era servito che più voci si alzassero in Italia e all’estero a celebrare la statura artistica e umana di Slataper: la commossa commemorazione di Prezzolini, sulla «Voce» del 29 febbraio 1916, la nota lusinghiera di Papini sul «Mercure de France» nell’ottobre del 1916, il fascicolo monografico di «Venezia Giulia» (Scipio Slataper, l’eroe del Carso, 9 aprile 1916) a firma di Vittorio Cuttin, letterato assolutamente fuori schema, ed altri ancora; anzi, è lecito pensare che fossero contributi più adatti a riacutizzare il fastidio piuttosto che a spegnerlo presso una classe dirigente incline a ritorsioni e a vendette, pronta a chiedere conto di ogni presunto tradimento. «Silvio Benco ci aveva promesso», scrive dunque Stuparich, «di dire degnamente d’uno dei più grandi figlioli che Trieste abbia avuto, appena fossero note le circostanze circa la sua morte. Meglio sarebbe stato forse accontentarsi d’una cronaca pura e semplice, senza ricordi e spunti polemici d’oltre tomba»99: C’è tempo ancora; c’è ancora tanto tempo; verrà il giorno in cui la luce sfolgorerà anche negli occhi più miopi e la tomba del Podgora brillerà come un faro. Ma che il critico ufficiale, l’uomo di maggior tempra artistica, insistesse ancor oggi, ad adagiarsi nel giudizio comune, dopo il vaglio di tante coscienze e la prova del fuoco di tante volontà e intelligenze [...] ci sembra enorme. Silvio Benco scrive che la pagine de “Il mio Carso” dove Slataper si immedesima (come ogni poeta con la sua creatura) nello sloveno incitato all’invasione della nostra città, fece “rizzare i capelli”. Ma, santo Dio, seguitate a leggere! E capirete che quella immedesimazione è un “incubo”, e invece di sentirvi rizzare i capelli sentirete disgropparvi il cuore a quel grido d’amore che segue, a quella fede che erompe dalle parole: “oh Italia, no, no”, allorché in un’estasi di poesia rampollante dal tormento, si afferma la bella chiara civiltà italiana (“perché io sono più di Alboino”) contro la barbara e giovane forza dello sloveno, la speranza, la sicurezza che con tutta la mollezza presente (di allora) la solarità dell’anima e della 98 La definizione si leggeva nel velenoso articolo dell’«Idea nazionale» (30.I.1913) citato nel capitolo III. 99 Per capire di che cosa si parla, sarà bene citare qualche passo del lungo articolo di Benco, nella rubrica I nostri morti della «Nazione» di domenica 22 dicembre 1918: «Con Scipio Slataper fummo noi, e furono parecchi amici nostri, quasi sempre in polemica. […] Egli non aveva ragione quasi mai e molti insorgevano amareggiati e inaspriti dalla sua violenza. […] Il processo che Scipio Slataper faceva della storia triestina nella “Voce” di Firenze mostrava, per quanto riguardava il passato e il presente, un errore originario che era nel temperamento. […] Nell’aspro soggettivismo lirico di un suo libro “Il mio Carso” egli giunse a tanto da mettersi nell’animo del contadino slavo incitato alla conquista di questa terra molle; e fece rizzare i capelli e il libro che era, nonostante tutto, geniale fu condannato […]. Quel partito nazionale di Trieste ch’egli spregiava come terra molle, provò d’essere stato di tempra tutt’altro che molle; bensì vigile, avveduto e prudente fra difficoltà di situazione quasi sovrumane». Slataper dunque, benché scrittore geniale, un illuso, un impulsivo, forse un rinnegato. Che si sarebbe poi alla fine riscattato sacrificando la vita per l’Italia. Andrà aggiunto che Benco, conservatore intelligente e capace di prestare ascolto alle ragioni degli altri, non si dimostrerà insensibile alla “maieutica” stupariciana: a partire dal volumetto Trieste, che pubblica da Nemi, a Firenze, nel 1932, anche Slataper viene accolto nel canone dei grandi triestini, nel segno di una letteratura di impegno, che coniuga arte e vita.

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storia latina sarebbe prevalsa nel mondo come è sempre prevalsa. E poi no, no. Scipio Slataper non era un’anima febbrile e tumultuosa, torbida e burrascosa, sì da essere messo accanto a qualche figura dello “Sturm und Drang” – era freddo nella sua febbre, era sereno nel suo tormento – era profondamente umano e generoso nella sua severità ed era umile nel suo individualismo. Egli non “doveva” trovare quiete nella morte, egli che anelava al lavoro umile, quotidiano, fecondo nella sua città natale; a cui serbava un amore puro e ardente per l’anima in tormento che gli aveva dato: un amore così grande, così vero che le piccole menti e i piccoli cuori nella loro campanilistica nullità mai hanno compreso e sospettato. Scipio Slataper è stato, oltre che un grande poeta, un grande maestro di verità e di coerenza, insieme con Ruggero Fauro, l’unico che sotto un altro aspetto gli può stare accanto, è stato e dev’essere il simbolo luminoso della nostra terra riconquistata col sangue. Noi – suoi amici e suoi compagni di fede – che gli combattemmo al fianco nella santa guerra d’Italia – gli chiediamo scusa di rompere il silenzio della sua tomba in quest’ora – ma era nostro dovere, nostro sacrosanto dovere, gridare alto e forte, una volta per sempre: O anima nostra – verrà la tua ora. E la cecità sarà allora malvolere.

Come si vede, le polemiche contingenti (e le interpretazione di comodo, anche se quel “comodo”, l’accostamento Slataper - Timeus, risponde all’alto ideale della concordia civile) fanno cattivo servizio per l’esegesi della grande arte. D’altra parte risulta più che comprensibile lo sforzo di costruire una tradizione combattentistica triestina che, a prescindere dalle non proprio irrilevanti sfumature ideologiche, potesse diventare un valorizzante denominatore comune e un protettivo domicilio etico-civile per quei sopravvissuti – ovvi i risvolti autobiografici – che si ritrovavano in una città fin troppo simile, fra catastrofi morali ed euforie patriottiche, alla Trieste d’anteguerra, un urticante vespaio di gelosie, pregiudizi, faziosità, chiusure: paglia secca per le vampe dello scontro politico. Uomini soli e isolati di fronte ad una “società stretta” cementata da granitiche idées reçues e resa poco permeabile da ammuffite convenzioni sociali e rigide gerarchie di censo. In conclusione: Slataper eretico forse della causa nazionale, ma mai traditore; paladino invece, fino al sacrificio di sé, della «bella chiara civiltà italiana» contro lo straniero. Si rendeva conto Stuparich, leggendo l’articolo di Benco, da che parte avrebbe presto tirato il vento in città (salvo l’incognita dei socialisti, in cronica crisi identitaria)? Io credo di sì: la lettera che sua madre, qualche anno dopo, gli scrive da Trieste (Stuparich è a Praga), mostra a mio avviso la traccia di discorsi condotti in famiglia con sofferta schiettezza: «domando nel mio pensiero al nostro Carlo come possono essere possibili tante cose brutte e tutto il ritorno di quella vecchia camorra che aveva per scusa di difendere dall’Austria i cittadini di Trieste».100 Tempi duri insomma per chi ancora coltivasse ambizioni politiche o di impegno civile; meno, forse, per chi volesse scegliere la strada appartata della cultura e dell’arte.

100 Citata in Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 121.

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Capitolo V Prima del silenzio: giornalista politico e paladino della Cecoslovacchia di Masaryk

Mentre inizia a mettere mano alle intime riflessioni dei Colloqui con mio fratello, cruciale giro di boa del suo percorso intellettuale e umano, Stuparich si impegna nel cimento più ampio e interessante della breve esperienza giornalistica: i dieci articoli apparsi sulla «Rivista di Milano» tra il novembre 1919 e l’ottobre 1921, con massima concentrazione nel 1920, l’anno in cui, a partire dalla tarda primavera, infuriò con particolare violenza, dopo un periodo di stasi, lo squadrismo triestino. In questo caso non si tratta della scoperta e dello sfruttamento delle notizie, in special modo di quelle più scottanti ed attuali, con la rapidità di reazione e la sveltezza di penna richiesti dal moderno giornalismo, quanto di approfondite considerazioni intorno a episodi emblematici della situazione triestina e giuliana, individuati sul terreno della vita politica, civile, culturale e messi in rilievo con uno spregiudicato piglio polemico nutrito di fermenti etici che fa pensare alle Lettere triestine di Scipio Slataper1. Un saggismo militante che guarda a un possibile ordine 1 Richiama l’attenzione su questi saggi, rivendicandone, con acute osservazioni e distesa trattazione, l’importanza cruciale nel quadro della complessiva attività letteraria e culturale di Stuparich, R. Lunzer, Redenti irredenti, LINT, Trieste, 2009, p. 188 e segg. Anche C. De Michelis ha proposto, nel suo saggio sui Colloqui con mio fratello, qualche interessante precisazione: di essi lo colpisce «la sostanziale sottovalutazione dello scontro sociale e del conflitto economico» ma «lucido e incisivo è il proposito di riproporre al centro del dibattito ideologico […] le grandi e fondamentali scelte ideali e morali, al di là delle quali si è già dissolta ogni possibilità di tenuta della democrazia» (De Michelis, Amor fraterno, cit., p. 167).

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di ideali e di valori (e quindi manifesta non poche ragioni di scontentezza per le forme e i contenuti del conflitto politico a Trieste), e per il quale Stuparich presenta un’invidiabile carta d’identità italiana (volontario giuliano e fratello di una medaglia d’oro), tale da consentirgli qualche pungente “stoccata” verso la patria, di cui ormai anche la Venezia Giulia faceva parte. Analizzeremo questi contributi mai ripubblicati con una certa ricchezza di dettaglio e ampiezza di citazioni, perché si tratta di un episodio fondamentale e insieme poco noto del percorso stupariciano. Prima però qualche parola sulla «Rivista di Milano» e su come vi fosse approdato Stuparich. Una curiosità, che si soddisfa in due parole: è Prezzolini a raccomandarlo presso Aristide Raimondi, il direttore, che contatterà poi di persona per rendere possibile la collaborazione dell’amico. 2 A proposito della «Rivista di Milano», dove discorso potrebbe invece essere lungo, basterà spiegare che il mensile nasce, prima che la guerra finisca, «nella primavera del 1918, ad opera di due giornalisti milanesi, Paolo Nobile e Aristide Raimondi», 3 «tipico esponente», il Raimondi, «del sottobosco del giornalismo italiano»;4 antisemita dal 1922, la Rivista fiancheggerà il fascismo già prima della marcia su Roma, per sposare poi addirittura l’estremismo farinacciano. Cessa le pubblicazioni nell’estate del 1926, per rinascere brevemente nel 1928. Essa si collocava ad ogni modo, ai primi inizi, su posizioni di «liberalismo moderato, vicino, ma non espressione diretta di quegli ambienti del liberalismo italiano, da Salandra a Sonnino, che, negli anni precedenti, avevano guardato con diffidenza alle aperture del giolittismo». 5 Alla Rivista collaborarono, nei suoi primi tre anni di vita, «quasi tutti gli esponenti del liberismo e del pensiero economico italiano», 6 da Luigi Einaudi, ad Antonio De Viti De Marco, a Gaetano Salvemini, come pure una schiera da intellettuali, «da Gobetti a Prezzolini, 7 che avevano appoggiato oppure guardavano con simpatia alle battaglie del liberismo

2 Cfr. Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 67. 3 Sulla «Rivista di Milano» ricco di informazioni il saggio di Germinario (da cui citiamo, p. 165), Liberismo e antisemitismo. Aristide Raimondi e la «Rivista di Milano» (1918-1926), in «Il presente e la storia», n° 63, 2003. 4 F. Germinario, cit., p. 167 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 169. 7 «Quanto a Prezzolini», commenta Germinario, «la sua collaborazione non mancò, fin dal primo numero, con un articolo molto lucido e non privo di preveggenza nel disegnare gli scenari politici dell’Italia del dopoguerra. Quello prezzoliniano era infatti una chiamata dell’interventismo a non disarmare politicamente, una volta terminata la guerra: visto che ora tornavano alla ribalta, dopo anni di silenzio, le voci di “preti”, “germanofili” e “austriacanti”, era necessario che il composito fronte interventista, che fino ad ora aveva diretto il paese in guerra, fosse consapevole che, nel dopoguerra, “ci sarà sempre da difendere la guerra” (G. Prezzolini, L’interventismo e il dopoguerra, 20 maggio 1918)» (pp.169-170).

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italiano». 8 Insomma, una squadra invidiabile e a cui certo Stuparich poteva sentirsi onorato di appartenere. «Non meno prestigiose le collaborazioni degli scrittori. […] Fra esse spiccavano i nomi di Borgese, Pirandello, Jahier, Tozzi, Rosso di San Secondo, Ada Negri, Marino Moretti, Guido da Verona, Adriano Tilgher, Carlo Carrà e infine D’Annunzio. […] Anche se nel caso di alcuni nomi si tratterà di una collaborazione più vantata che effettiva». 9 Una compagnia, anche in questo caso, di alta qualità. «Nel complesso», conclude Germinario, «la “Rivista di Milano”, considerato il prestigio intellettuale di numerosi collaboratori, si presentava come una rivista di ottimo livello culturale, libera da pregiudizi politici, ferma restando, naturalmente l’opposizione durissima e scontata al bolscevismo russo».10 E su di essa Stuparich esordisce il 20 novembre 1919, passando al vaglio dell’indagine, così il titolo del contributo, La crisi di Trieste11: crisi che, spiegherà nel cuore del breve saggio, è sostanzialmente «crisi morale». Una superficie inquieta, tutta frastagliata di avvii e di incertezze, intorbidata da entusiasmi e da disgusti appare la vita di Trieste. […] Nello stato di fosforescenza che ne segue, le considerazioni risultano imperfette e contraddittorie. Trieste la si vede allo stesso modo rifiorire come la si vede avvizzire, allo stesso modo si calcola la possibilità ch’essa riprenda la sua funzione di grande emporio, come quella ch’essa deperisca sino a diventare un piccolo borgo di pescatori. […] E allora, come si fa a risolvere la crisi? “Il rimedio è evidente”, - rispondono tutti […] si aumenti il tonnellaggio, si regolino i servizi ferroviari e postali, si aprano le frontiere. […] La verità è che le difficoltà sono inerenti alla sostanza del rimedio. […] Il governo di fronte a queste difficoltà, fa di tutto perché si mantengano e si complichino, non facendo niente secondo una direttiva netta e decisa. […] Nitti […] che per eccellenza nasconde sotto programmi solidi e frasi oggettive la vuotezza delle sue idee, la fannullona caparbietà, le proprie mire interessate e ambiziose, ha trovato nell’ambiente triestino il terreno più adatto per sgovernare, dove nessuna sincerità sa contrapporsi alla sua falsità, ma con essa si amalgamano l’incertezza e le confusione dei cittadini. Così la crisi che è veramente materiale, centrata cioè nel problema commerciale-economico, si rivela fondamentalmente spirituale, morale. […] Di

8 Ivi, p. 169. 9 Ivi, p. 171. 10 Ivi, p. 174. 11 Impossibile non ricordare, per l’analogia tematica (ma il taglio in Stuparich è di psicologia collettiva e lo stile piuttosto letterario), il contributo di Oberdorfer, I problemi della Venezia Giulia, comparso sull’«Unità» il 14 giugno 1919, forse, nelle sue quattro sezioni (dedicate ai problemi politici, scolastici, amministrativi, economici), l’approfondimento più centrato delle criticità giuliane che sia stato prodotto nell’immediato dopoguerra. Stuparich non lo cita ma probabilmente lo tiene presente, mantenendosi però per coraggio propositivo (ma senza risparmiare d’altra parte qualche frecciata alla diffusa tentazione, nell’Italia vincitrice, di considerare Trieste “città conquistata”) ben al di qua delle soluzioni che dettava all’abile dirigente politico del partito socialista l’intelligente pragmatismo, lo spirito di concretezza, e soprattutto il rifiuto di ogni pregiudizio e dogmatismo (si ricorda, a solo titolo di esempio, il suggerimento che la lingua della minoranza venisse studiata anche nelle scuole della maggioranza).

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fatti è il governo che può e dovrebbe, per il primo, schiarire il turbamento che regna nei rapporti dei nuovi cittadini con lui, dando loro pieno affidamento di trattarli ugualmente parificati in tutto e per tutto ai vecchi, senza reticenze e soprattutto senza riserve. […] Il duplice stato d’animo è collettivo anche in riguardo al governo, in quanto questo rappresenta ed è in parte il pubblico, “regnicolo”, contrapposto al redento. L’origine va ricercata nell’ignoranza reciproca, nell’anteguerra e mantenuta durante tutto il tempo della guerra, la quale ha creato da una parte e dall’altra le illusioni che ora, al contatto con la realtà, si trasformano in disillusioni. Gli irredenti non si curarono di conoscere l’Italia, perché erano ciecamente innamorati dell’Italia, perché nelle menti loro tutto ciò che portava etichetta italiana, era bello e buono. […] E invece i triestini innamorati della grande Italia, hanno sentito, dopo il suo arrivo, giorno per giorno sempre più disagevole il contatto con la vera Italia; che è ancora piccola, che ufficialmente è tutt’altro che geniale, coi congegni difficili e inerti della sua burocrazia, con la faciloneria e rettorica del suo carattere e coi mille difetti che accompagnano i suoi pregi, i quali sono tutti diversi da quelli imaginati dalla grande maggioranza dei triestini. Lo squilibrio che ne nacque, è facile considerarlo; difficile per i triestini rimettersene di colpo. […] D’altro canto non minore fu la disillusione dei regnicoli che sia in veste di funzionari sia come liberi commercianti, arrivarono nella città redenta. Essi s’erano figurati i triestini come dei sentimentali che vivono solo di passione, Trieste come l’innamorata che si dà senza chieder nulla, per non parlare di quelli che avevano imaginato Trieste una città tedesca la quale per un capriccio qualsiasi s’era messa tutto a un tratto ad adorare l’Italia, pronta a sacrificarle ogni cosa pur di ricevere da lei la cresima e la benedizione nazionale. […] Quando pero, dopo un po’ di tempo, cominciarono a urtare contro certi spigoli che non hanno niente della passione cedevole ma tutto invece dell‘interesse solido e invecchiato […] la maggior parte reagì passando dalla confidenza non ragionata di prima a una diffidenza ancor più irragionevole: per essa i triestini divennero dei cittadini infidi, degli ipocriti che solo a parole amano l’Italia ma che ai fatti s’adoprerebbero per risuscitare l’Austria, cittadini dunque che bisogna trattare con tutte le cautele. Da tutto ciò segue che incomprensione e malinteso reciproco provocano la crisi morale triestina. Grave e difficile a risolversi, dati gli elementi solo gradatamente guaribili. È necessario però cominciare subito un’azione energica per metterla se non altro in via di miglioramento; ne va di mezzo l’avvenire di Trieste, che è l’avvenire dell’Adriatico italiano. […] A questa azione è chiamata da una parte la più sana e vigile opinione pubblica italiana che deve inculcare in tutti il convincimento che Trieste non è una colonia dove si accorra per sfruttare un terreno vergine, che non è giusto né patriottico né d’interesse generale abusare delle condizioni di palese inferiorità di Trieste per farle una protetta concorrenza (per non dire assassinarla) commercialmente, portandole via i mercati su cui essa più conta per il suo avvenire, e che infine i triestini sono né più né meno che degli italiani come tutti gli altri. Vi è chiamata d’altra parte la più colta e più energica élite triestina, che deve inculcare nei propri concittadini l’idea che l’Italia non va cercata e continuata nella rettorica ma nella paziente e tenace volontà di migliorarsi.

Discorso chiarissimo: è in atto, spiega Stuparich, una crisi di transizione tra un vecchio ed un nuovo ordine, che si risolverà inserendo prima possibile Trieste nel corpo vivo della nazione, come attivo tassello del suo organismo economico (l’annessione al Regno fu decretata invece solo posteriormente al Trattato di Rapallo e, sul piano riorganizzativo, al di là del mero atto formale, si svolse anche successivamente con grande lentezza). A partire da allora sarà l’Italia a doversi

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far carico del suo futuro economico, non considerandola colonia da sfruttare o emporio da penalizzare a beneficio di altri contesti produttivi e commerciali (la Venezia-Marghera di Piero Foscari e di Giuseppe Volpi, per dire un luogo). Duro l’atto di accusa nei confronti di Nitti, il cui governo, in effetti suscitò un malcontento generalizzato, 12 anche per l’evidente difficoltà a muoversi (ma chi non l’avrebbe avuta?) «tra il sovversivismo dei ceti medi e l’atteggiamento rivoluzionario, o per essere più precisi, parainsurrezionale delle masse popolari, mentre sullo sfondo molti dei centri più importanti del potere militare ed economico infittivano la trama della reazione»,13 con il risultato che, incapace di appoggiarsi ad una maggioranza stabile, egli dovette governare utilizzando con dovizia lo strumento dei decreti legge;14 per non parlare poi delle apparenti incertezze riguardo alla politica adriatica,15 che colpivano sfavorevolmente, in special modo a Trieste (e, in maniera particolare, chi si fermasse alla superficie delle cose). Interessante inoltre l’analisi “demo-piscologica” con cui Stuparich giustifica l’incomprensione tra Trieste e l’Italia, tra i regnicoli e i vecchi sudditi imperial-regi di una città che – garantisce lo scrittore nella chiusa ad effetto – «anche sotto l’Austria ha vissuto e fatto le sue esperienze di città italiana». 12 D. Mack Smith, Storia d’Italia (1959), Laterza, Bari 1979, vol. II, p. 519. 13 E. Galli della Loggia, Nitti, in I protagonisti della storia d’Italia. Lo stato unitario: Il Novecento, a cura di E. Ragionieri, CEI, Milano 1974, p. 232. 14 Sull’attività di Nitti, in relazione ai problemi del Dopoguerra che alimentarono il fenomeno fascista, si veda in particolare N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, UTET, Torino, 1985. 15 Per questo aspetto particolare rimane fondamentale P. Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli Milano, 1959. Di Alatri si dovrà vedere anche la sintesi esposta in Dalla marcia su Ronchi alla marcia su Roma, in «Belfagor», 1975, dove lo storico mira a sfatare la leggenda di un Nitti “rinunciatario” riguardo alla questione adriatica, valorizzandone anzi la capacità di riconquistare all’Italia un certo consenso internazionale, dopo i clamorosi passi falsi di Orlando e Sonnino. A rendere così severo il giudizio di Stuparich contribuisce anche il fatto, ipotizziamo, che molto probabilmente egli ignorasse il ruolo positivo avuto da Nitti nello spingere la politica italiana, negli anni della guerra, oltre gli schemi del “sacro egoismo”: come documenta Monticone, «in uno dei momenti maggiormente critici del conflitto, alcuni dei più autorevoli esponenti del mondo politico e parlamentare italiano, quelli più liberi da spirito nazionalista ed espansionista, pur attraverso atteggiamenti personali diversi, rispo[sero] ad una aspirazione univoca, ad una Italia combattente per ideali di libertà ed autonomia delle nazioni. Albertini, Bissolati, Orlando, Nitti, Amendola, Salvemini ed altri minori si trovano ad avere a metà del 1917 idee assai vicine sugli scopi da perseguire» (A. Monticone, Nitti e la grande guerra (1914-1918), Giuffré ed., Milano, 1961, p. 102). Da qui il conclusivo appprezzamento di Monticone delle «qualità di realismo e di competenza» di Nitti, particolarmente preziose in un momento in cui (gli anni 1915-1918) «la nostra classe dirigente non abbondava di persone altrettanto preparate» (p. 348). La cautela con la quale Nitti si muove nei confronti degli Stati Uniti, che parevano rappresentare il maggior ostacolo alla politica adriatica dell’Italia anche nei limiti delle rivendicazioni avanzate dall’interventismo democratico (contribuendo certo a provocare, in Stuparich, quella più o meno consapevole reazione di fastidio che emerge evidente nella formula sarcastica: «amici americani di tutte le specie» contenuta nel saggio Gli slavi della Venezia Giulia che vedremo tra poco) nasceva del resto anche dalla realistica considerazioni delle gravi condizioni economiche del Paese uscito dalla guerra, che doveva poter contare sugli aiuti americani: «L’Italia non può risorgere senza una leale cooperazione degli Stati Uniti», scriveva Nitti a Orlando il 2 maggio 1919 (lettera riportata in Monticone, Nitti e la grande guerra (1914-1918), cit., p. 430).

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Il 5 febbraio 1920, in Irredentismo superato?, Stuparich rincara ancora la dose. Per il Trentino e per la Venezia Giulia, i fatti storici dovrebbero far sperare di sì. Ma, se l’irredentismo è logicamente finito come aspirazione, molti altri fatti che non sono ancora storici, fanno supporre che l’irredentismo non sia finito come atteggiamento degli spiriti. Guardate un po’ la convivenza degli italiani con gli slavi nella regione Giulia! Il problema che oggi con l’Italia padrona, dovrebbe esser centralmente spostato, è invece se non nelle apparenze, nella realtà piantato come prima, la stessa intransigenza, lo stesso distacco e lo stesso timore. Non si sono deposte le armi, gli slavi rappresentano il pericolo che rappresentavano prima, né d’altra forma né altrove diretto per minaccia. Si negano scuole, si rifugge da qualsiasi contatto che non sia quello puramente commerciale e necessario. “Slavofilo” conserva ancora il suo bollo di disprezzo, come dire cattivo italiano […]. Guardate la lotta politica (se lotta politica si possa chiamare quel confuso cercarsi e pestarsi nel buio che sono la formazione e il cozzo iniziale dei partiti nella Giulia!). Non c’è mezzo più valido di offesa che rinfacciare colpe vecchie, fare il processo alle intenzioni di cinque anni fa, spolpare delle nuove forme il nocciolo antico. Non c’è più immediata difesa che rivolgere contro il petto dell’avversario le sue stesse armi. Guardate infine nel campo degli interessi! Chi accusa e chi si scusa, ma siamo sempre sul medesimo terreno: le ragioni degl’interessi che dappertutto sono proprie degli interessi, qui si mescolano ancora con elementi che si dicono morali, con preoccupazioni laterali che complicano il giuoco delle forze economiche. L’impianto d’una banca slava turba le coscienze, sono combattute con ragioni di diffidenza le concessioni commerciali che si intendono fare nel porto ai czecoslovacchi; le ditte che hanno qualche piccolo peccato (non rimorso) di austriacantismo sulla coscienza, mettono le mani avanti cariche d’oblazioni per “le onoranze ai volontari ex irredenti” […]. Tutto ciò fa pensare, all’osservatore che viene di fuori, che sia sopravvissuta nei redenti, per quanto vi si ribellino, una certa mentalità austriaca, la quale, s’egli è benevolo, affiderà al tempo che tutto cancella […]. Sotto quello che si può chiamare mentalità austriaca (non so con quale risonanza di significato, perché intendiamoci una volta tanto: l’Austria era ciò che di più odioso e di marcio si potesse immaginare, ma i popoli dell’Austria avevano pure in sé delle eccellenti qualità che erano potute originare e crescere soltanto nell’atmosfera compressiva dello stato austriaco, e quindi erano in un certo senso qualità austriache) perdura il carattere o varie forme di un carattere che è stato cementato da molta esperienza e da molta vita passata. Difatti coloro che oggi diffidano degli slavi e non si lasciano persuadere ad andar loro amichevolmente incontro, sono quegli stessi e i figli di quegli stessi che combatterono ai ferri corti e senza rifiutare occorrendo il sacrifizio, nella convinzione di salvare l’italianità della Venezia Giulia, quando questa era seriamente minacciata dagli slavi. Quelli che ancora tendono gli orecchi e scrutano e levano voce in cui freme lo sdegno di una offesa personale: “tu non sei un buon italiano! codesto non è atto da buon italiano!” un tempo, contro la loro vigilanza e intransigenza si arrestò l’inerzia dei dubitosi e si sostenne la debolezza dei vili. Ma quelli che ai primi e ai secondi sinceramente si opposero perché partendo da diversi presupposti fermamente credettero di agire per il bene della città italiana, pure essi non lasciano le loro posizioni spirituali d’un tempo, anzi ci tengono a non lasciarle, ritenendole ora più che mai solide e utili. Ma, e questi e quelli e tutti non possono fondamentalmente mutare le loro posizioni spirituali. Non si comincia ex novo, da un giorno a l’altro, la vita […]. Ecco perché l’irredentismo il quale oggi non può essere se non esaurito per quello che di pratico conteneva, per il suo contenuto ideale continua a esistere; chiamatelo come volete: posizione spirituale, carattere, forma mentale dei redenti […]. Molte forme in cui si esplica, sono morte realmente, molte altre è bene che muoiano presto perché sono parassitarie: ve ne ho indicate alcune sul principio

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dell’articolo, che sono più vistose e quasi aberrazioni laterali di un corso che si trovi improvvisamente otturato lo sbocco principale. Ma lasciatelo libero questo corso, non mettetegli davanti ostacoli sentimentali che sono ancora purtroppo il suo spauracchio maggiore, e vedrete risorgere pieno di vita l’irredentismo che pareva morto! Irredentismo rivolto contro l’Italia - sì, pronunciamola la terribile frase! Ieri contro l’Austria, oggi contro l’Italia. L’Italia podagrosa della burocrazia, l’Italia malfida del commercio pitocco, l’Italia stronfia della rettorica di piazza e di palazzo. Molte energie e molte volontà nei paesi redenti, sono deluse e soffocate da queste varie Italie e non desiderano che di liberarsene; e non stimano finito il compito del loro irredentismo, come da qualche parte si pretende, nell’adagiarsi alla burocrazia italiana dopo aver combattuto contro quella austriaca, nell’uniformarsi al confusionismo delle idee dopo aver vinto il confusionismo delle coscienze. E come primo passo pretendono che le si lasci fare. Decentramento, autonomia, sono i postulati del loro irredentismo, che si trova appena in una fase nuova e che potrà dirsi veramente superato solo allora quando, con l’aiuto anche di esso, l’Italia sarà rigenerata.

Il discorso è in questo caso piuttosto arzigolato, come spesso in Stuparich che, quando non vuole o non sa prendere il toro per le corna, si addentra in un labirinto di reticenze e allusioni. Posto che non è possibile cambiare forma mentis con la semplicità con cui si muta d’abito, e che quindi nel passaggio istituzionale certi atteggiamenti aggressivamente polemici non possono subito decantare, si viva con spontanea adesione un nuovo “irredentismo” – esorta lo scrittore – dando ad esso, con libero corso, un paradossale ma non irragionevole obiettivo: «contro l’Italia […] podagrosa della burocrazia, l’Italia malfida del commercio pitocco, l’Italia stronfia della rettorica di piazza e di palazzo». L’evidente presupposto è che anche le nazionalità «compresse» nella imperial-regia “prigione dei popoli” hanno potuto sviluppare delle «qualità eccellenti» (che «quindi erano in un certo senso qualità austriache»: soprattutto, sembra di capire, efficienza ed onestà, attributi opposti a quel levantinismo italiano di cui gli “austriaci” del Litorale cominciavano a fare conoscenza), e devono impiegarle – gli ex-italiani d’Austria in primo luogo – per migliorare ammodernandolo lo Stato di cui ora sono parte, per scelta libera e convinta. Accanto a questa dichiarazioni di intenti, tuttavia, un curioso “onore delle armi” concesso alle varie forme di irredentismo storico, anche a quello manicheo che negava all’oppositore ogni virtù e dignità, e di cui Giani avrebbe potuto facilmente dolersi, solo a tastare le mal rimarginate ferite che gli aveva provocato l’insulto lanciato contro di lui da Ruggero Timeus. Ma probabilmente l’ “embrassons-nous” rispondeva al sentito bisogno di chiamare a raccolta tutte le energie vive della città, per superare quegli anacronistici steccati che rischiavano di trasferire nel dopoguerra, con effetti devastanti sul piano economico, sociale e culturale, inimicizie ormai prive di ragioni concrete. Confermano l’ipotesi le due sezioni del saggio successivo, Trieste diviene (I. Valori spirituali del passato, 5 maggio 1920; II. Attraverso gli aspetti del presente, 20 luglio 1920). In queste pagine Stuparich passa in rassegna tre tradizioni politicoculturali della Trieste irredentista, e gli uomini che ne sono stati i promotori più lucidi (smussandone però le differenze, come è stato finemente osservato, quasi

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a renderli tutti delle controfigure di Scipio16): Scipio Slataper, Ruggero Timeus, Angelo Vivante (e senza dimenticare gli illustri comprimari, viventi o scomparsi: Guglielmo Oberdank, il glorioso “protomartire”, e quindi Felice Venezian, Ferdinando Pasini e Silvio Benco). Paladini di tesi contrapposte, che, se appaiono in prospettiva storica risposte complementari a un solo problema, aprono invece la strada a soluzioni differenti e divaricate. Di fronte alle quali Stuparich assume una posizione di assoluta neutralità. Spiega lo scrittore: «Furono tre individualità eterogenee, avversari in vita; morti, stanno degnamente a fianco: si scandalizzino pure uomini di parte e intelligenze limitate. Rappresentano tre conclusioni e tre vie maestre aperte, nella vita triestina. Prima di loro l’irredentismo giuliano era uno stato d’animo, povero di storia e pieno di contraddizioni sentimentali». «Gli storici apprenderanno», continua che Angelo Vivante combattè la tesi separatista, spiegò la lotta nazionale come lotta sociale e vide la fortuna economica di Trieste saldamente legata al sistema doganale danubiano […]. Apprenderanno che Ruggero Fauro aguzzò invece tutto il suo pensiero a formare una spada scintillante di guerra, puntata contro l’Austria per strapparle Trieste, Trieste necessaria all’Italia, pietra fondamentale del suo avvenire di grande potenza mediterranea; potranno anche dire che Fauro intuì il momento, previde il conflitto che doveva scoppiare pochi anni dopo. E di Slataper infine rileveranno come egli fosse cauto nell’accettare premesse sentimentali, quanto egli comprendesse dipendente la questione adriatica da tutto l’assetto europeo e quindi, evitando di entrare nel campo delle possibilità catastrofiche, egli sentisse e prospettasse il problema dell’irredentismo soprattutto quale problema di coltura: potranno dire ch’egli si ingannò sulla durata e consistenza dell’equilibrio europeo, ma che una volta scoppiato il conflitto, com’egli fu praticamente pronto, così il suo pensiero non retrocesse né cambiò rotta, turbato, ma filò conseguentemente dalle premesse di fatto ch’egli accettava, come sempre, dalla storia.

Scomparsi con la guerra lasciano ai posteri le sintesi del loro pensiero: «Irredentismo Adriatico di Angelo Vivante, Trieste di Ruggero Fauro e gli articolo politici, comparsi su “La Voce” fiorentina e “Il Resto del Carlino”, di Scipio Slataper». Dovunque si pensi o si voglia che Trieste sia funzione imperialistica d’Italia, che da Trieste muovano le conquiste commerciali preparatorie delle conquiste politiche, che l’Adriatico sia ponte di dominio verso i Balcani e l’Oriente, che la stirpe italiana restauri dalle province-baluardi la potenza romana e imponga col diritto del migliore la civiltà della sua storia - c’è il pensiero e la volontà di Fauro. Chiunque tenda a fare della Venezia Giulia un campo d’esperimento internazionale dove l’Italia dimostri di saper creare le basi per la convivenza pacifica e fruttuosa di due stirpi, e di Trieste una piazza di benessere economico in cui queste due stirpi si dividano il lavoro - è sulle orme di Angelo Vivante. Nessuno che concepisca Trieste come nodo vitale dell’Europa in cui lo spirito italiano continua la migliore funzione della sua storia che è quella di propulsore e integratore della coltura, Trieste crogiolo di civiltà dove i contenuti torbidi della civiltà slavo-orientale e della civiltà tedesca si amalgamano con la civiltà latina e si chiarificano attraverso la sua forma, e nello stesso tempo fonte di nuove 16 Cfr. Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 91.

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energie e di freschezza a questa stanca civiltà latina - può negare d’esser fuori della concezione di Scipio Slataper.

L’analisi, fin qui più da storico che da giornalista militante, discende quindi (in Trieste diviene, II - Attraverso gli aspetti del presente) dai principi ideali alle pratiche della politica, e tocca in primo luogo il partito socialista,17 l’unico raggruppamento a meritarsi tal nome – sostiene Stuparich – nell’attuale marasma della Venezia Giulia. Messo però da parte Pittoni, escluso Oberdorfer (che, aggiunge lo scrittore in nota, proprio al momento della correzione delle bozze è stato estromesso dal “Consiglio superiore di cultura”) esso rischia di interpretare, nel suo estremismo, solo una beffarda caricatura dell’internazionalismo, perché, alla prova dei fatti, risulta solo ed esclusivamente anti-italiano. Questo autobendamento impedisce al socialismo giuliano di vedere con chiarezza i due problemi fondamentali inerenti alla sua azione regionale: avvincere gli slavi sulla base dell’eguaglianza sociale e nazionale (base che può offrire soltanto il socialismo,18 al quale gli slavi della regione sono per vari motivi storici molto restii – sarebbe quindi anche un’opera di civilizzazione) e creare così quell’armonia di vita tra le due stirpi che era nella mente del Vivante; secondo, sfruttare le organizzazioni esistenti per consolidare e preparare con serietà di intenti e di mezzi una massa inquadrata, capace di reggere e subire quel nuovo ordine di cose che si avvicina e in cui il popolo è chiamato dalla storia a governare lui gli stati. Ma la parola rivoluzione non ha questo senso realistico – quanto vicino invece a tutta la chiara e ponderata ideologia del Vivante! – né in mente né in bocca della maggior parte dei capi del socialismo triestino. Distruggono piuttosto che creare. Le menti sono piccine. Niente fa maggior meraviglia che leggere giorno per giorno l’organo dei socialisti. Ma come, il giornale di un partito così potente può essere tanto misero nelle sue polemiche, nelle osservazioni che zampillano dalla vita regionale? Meschinerie, grettezze, che rendono ancor più vuoto il vuoto delle idee.

Tralignano anche gli eredi di Timeus, nell’alveo di una tradizione che sembrerebbe la più viva della Trieste attuale. Si possono raggruppare nelle due categorie: di coloro che hanno sempre conosciuto ed amato un’Italia farsaiola e tale continuano a crederla e a volerla, e persino se vedessero tutta una nuova Italia insorgere contro quella, urlerebbero ed imprecherebbero che non è vero patriottismo, perché il patriottismo per loro consiste nell’affermare che l’Italia deve far vendetta di slavi e socialisti, salire il Lovcen e magari occupare Lubiana, senza chiedersi come né perché; e di coloro, che in nome di non so che meriti 17 Così aveva scritto del partito socialista Oberdorfer (cfr. I problemi della Venezia Giulia, cit.): «solo il partito socialista ha resistito alla dissoluzione generale portata dalla guerra, dalla quale esce più compatto e più forte, con un giornale fondato su basi solidissime, con un esercito di 30.000 organizzati, con cooperative di consumo […], con una cooperativa edile […], con un’istituzione di cultura […]». 18 In data 11 novembre 1920, un trafiletto redazionale dell’«Unità» riportava, con evidente approvazione, un ragionamento del «Lavoratore» relativo al fatto che solo il partito socialista e le sue organizzazioni sindacali potessero favorire la collaborazione culturale e professionale fra italiani e slavi, premessa di intese più ampie capaci di smussare l’antagonismo etnico.

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si sono intrufolati negli uffici maggiori e di qua si affannano a dimostrarsi gli unici competenti a governare le nuove provincie.

Non mancano però, anche in questo campo, gli onesti. Li anima la speranza di un’Italia signora dell’Adriatico grazie all’«espansione commerciale» e se il confine orientale, Fiume e la Dalmazia diventano per loro i più importanti problemi dell’Italia, non perché in questi vedano salvaguardati i loro interessi particolaristici, ma perché tutto l’organismo del loro pensiero politico li avverte che ad essi è legato l’avvenire dello Stato italiano. Vedono da una parte che la premessa di Fauro non che diminuita, è stata valorizzata dal fatto che Trieste, ad onta degli indugi della trascuranza e dell’insipienza del governo italiano, benchè staccata politicamente dal suo retroterra, per forza di cose, per la posizione geografica, per le pressioni esterne, accenna a riprendere ciò che aveva perduto e a diventar più importante di quello che era in passato (immensi piroscafi entrano nel suo porto; vi passano czecoslovacchi; gli stati danubiani si abbaruffano per accaparrarvisi zone franche per i loro commerci). Dall’altra parte osservano gli intrighi, sentono la pressione, prevedono i pericoli del giovane Stato jugoslavo. Trieste s’incardina nella questione dell’Adriatico. E tutto il problema si imposta come problema di respiro o di soffocazione. Ed essi non possono ammettere che dopo i sacrifizi di una guerra saputa sopportare e, comunque, vincere, si mozzi una possibilità conquistata d’avvenire. Maggiore giustizia – ed in ciò il loro ragionamento deriva direttamente dal pensiero fauriano – è lottare per un proprio avvenire di ampio respiro che in omaggio a un’equità astratta rassegnarsi a intisichire nell’aria divisa a mezzo col vicino. Forse però, anche per costoro è più vicino il futuro che il presente.

C’è però a Trieste «chi ricostruisce sulle basi che trova, senza darsi troppo pensiero di far tabula rasa del passato o di ipotecarsi l’avvenire. E vi è molto da fare anche così, perché c’è bisogno di un senso sicuro che diriga e di una visione abbastanza chiara dello scopo lontano, raggiungibile o irraggiungibile non importa». Intanto il commercio. Improba fatica coi tempi che sono corsi e che corrono purtroppo ancora, rimettere al posto dell’azzardo e dell’ “acchiappo più che posso” un piano regolato di scambi e di interessi. Ma Trieste ha da essere una grande città commerciale o il suo avvenire è fittizio. E il grande commercio non è alieno dalla coltura, anzi da questa attinge larghezza di vedute e consolidamento della base. Conoscenza dei mercati, dei bisogni e dei gusti dei compratori lontani e della consistenza dei fornitori. Coordinamento di storia e di geografia. Interessamento alla vita delle nazioni. Linguaggi e storia dei linguaggi. E coi linguaggi l’arte e ogni forma d’espressione. Il programma è vasto che spaura. Era nella mente lavoratrice e universale di Scipio Slataper. E solo lentamente oggi, se ne attua qualche parte. Ma se noi osserviamo ciò che si agita e si fa nel campo scolastico (l’ultimo articolo di Slataper prima della guerra trattava la questione dell’Accademia superiore di commercio “Revoltella”: oggi l’Accademia s’avvia a diventare Università di studi commerciali, quella che Slataper voleva e prospettava), se consideriamo come il moto della vita, ad onta di tutti gli ostacoli, si accelera, è di qua che attingiamo forza per non disperare dell’avvenire di Trieste.

Cultura e commercio, conoscenza e mezzi economici: un binomio intrinsecamente slataperiano, quasi un tentativo di sintesi tra l’irredentismo culturale dei saggi vociani e il messaggio di operosità che chiude Il mio Carso. Stuparich scopre qui l’altare della

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sua fede, ma l’impossibilità di legare questa prospettiva a un soggetto politico che non sia del tutto astratto e indeterminato («c’è a Trieste chi ricostruisce sulle basi che trova»), mentre, con tutti i limiti di strategie confuse e di programmi elaborati alla giornata, ciò è concretamente possibile per le altre due culture politiche analizzate (i socialisti e i liberal-nazionali), indica il velleitarismo di un’ipotesi generosa ma tutta cerebrale, una scommessa sul futuro che viaggia piuttosto nel cielo dei buoni propositi che sul fermo terreno della storia. Mancando un ceto di riferimento, una classe dirigente degna di questo nome, un partito con un solido programma, a quali forze fare mai appello per esplicare quella funzione importante ma generica cui Stuparich pare attribuire un valore insieme politico, economico e morale? Non ci troviamo forse di fronte al sogno attardato di un “umanista” che coglie i termini del grande conflitto in atto (prima di tutto politico-sociale), ma che per placarlo non sa offrire nient’altro che un’ipotesi di cultura, quasi a rinverdire il sogno vociano di un’«attività del pensiero che […] segue e penetra il movimento [della realtà] fino a incorporarsi in essa, come sua coscienza storica»,19 anzi, come sua guida? Anche l’ipotesi di un «grande commercio» dal profilo ancora sfuggente quanto alla sostanza, ai mezzi, ai luoghi, ma che Stuparich spera foriero di equità sociale e progresso civile, volano per sua stessa natura di prosperità generale, sembra sorgere come un castello in aria, senza credibili basi concrete. Considerando tutto ciò non pare ingiusto l’aggettivo di «ingenua»20 con cui Damiani qualifica nel suo complesso questa produzione saggistica. «Il sogno del primato degli intellettuali», osserva, «è tramontato da un pezzo», 21 e si avverte la necessità di ben diverse terapie politiche in un momento i cui si erano irreversibilmente affacciati sulla scena nazionale i grandi partiti di massa. Né suona azzardato il rilievo di Apih a proposito di «radici» – si riferisce alla visione di Stuparich all’altezza degli anni Venti – «affondate in uno strato di storia già antico». 22 Comunque, a prescindere dalle critiche non deve sfuggire lo sforzo di conciliazione tentato dallo scrittore: delle diverse anime dell’irredentismo, dei regnicoli e degli irredenti, di una Trieste del “prima” e del “dopo”, del pregio della borsa e del pensiero, dell’italiano e dello slavo, che egli vorrebbe protagonisti della concordia cittadina ben al di là di quel tavolo da biliardo dove Saba li vede affratellati per una breve parentesi di gioco. Tanto da avere il coraggio di rivendicare alla Trieste imperial-regia (ancorché già italiana per spirito e pratiche di vita, come ribadisce ossessivamente per non parere nostalgico dei tempi antichi) qualche eccellente virtù, nel contesto di un’Austria di cui non nega l’autoritarismo con cui reggeva i suoi popoli. 23 19 Langella, Cronache letterarie italiane, cit., p. 60. 20 Damiani, Giani Stuparich, cit., p. 66. 21 Ivi, p. 67. 22 Apih, Il ritorno ecc., cit., p. 78. 23 Di parere diverso Apih che scrive, a proposito dei saggi della «Rivista di Milano», di «critica morale a quanto tenacemente sopravviveva della vecchia Austria-Ungheria» (Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 94-95).

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Prima di continuare l’analisi della saggistica, uno sguardo però alla società triestina, il suo referente fondamentale e prioritario, dove si produce una svolta gravida di conseguenze. Nell’aprile del 1920, giunge in città da Firenze, con un preciso mandato, l’avvocato Francesco Giunta, ex-combattente distintosi nello stato maggiore del fascismo del capoluogo toscano, dove aveva organizzato efficienti squadre d’azione e subito cooptato nel direttivo del fascio triestino. Nasce con lui, che “affina” e rilancia strategie e metodi, il «vero fascismo», 24 come ha scritto Almerigo Apollonio, prendendo posizione su uno dei più spinosi problemi storiografici relativi alle vicende giuliane. 25 È sotto il suo comando 24 Cfr. Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini - Venezia Giulia 1918-1922, cit., p. 279 e segg. 25 Il tema della nascita del fascismo a Trieste è uno di quelli che storiograficamente fanno tremare le vene e i polsi. Per semplificare e sintetizzare al massimo, come richiede lo spazio a disposizione, potremmo dire che, nei vari studiosi, pur su un condiviso orizzonte interpretativo, l’accento cade in maniera differente, ed è qui che è interessante specificare. Una letttura discende dalle riflessioni di Sestan (Venezia Giulia - Lineamenti di una storia etnico culturale, op. cit.) e ha trovato il suo più vivace continuatore in Apollonio. Per essi il fascismo è, in ultima analisi, fenomeno importato, che inasprisce e snatura un «irredentismo italiano […] tra tutti uno dei più pacifici, legalitari» (Sestan, p. 100), trovando i suoi condottieri, e molti gregari, nell’emigrazione regnicola nella Giulia: «non è semplicemente fortuito che tanto il fascismo trentino quanto quello triestino siano stati fondati da due individui estranei al paese, rimasti lì dopo la smobilitazione senza una precisa professione, Achille Starace e Francesco Giunta» (Sestan, 117). Con l’arrivo di Giunta, sorge, secondo Apollonio, il «vero fascismo», con il salto di qualità nell’attività delle squadre a partire dalla seconda parte del 1920 (Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini, cap. XVI). Mattiussi, nella sua ricerca capillarmente documentata, Il Partito Nazionale Fascista a Trieste - Uomini e organizzazione del potere 1919-1932, cit., scrive addirittura di una «questione regnicola» (p. 10 e segg.), intendendo con ciò una massa di manovra di immigrati, ex-ufficiali, avventurieri, sottoproletariato sradicato che il fascismo “militarizzerà”, trasformandola nelle “truppe” di Giunta. Gli dà ragione S. Lupo (Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma, 2000) mettendo in rilievo, a proposito dell’«incipit dello squadrismo» triestino, la natura «del nucleo militante, largamente composto da regnicoli, cioè da italiani recentemente immigrati» (p. 321). Diversa la sfumatura della “linea” Apih (Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Laterza, Bari 1966), che parla di fascismo tout-court fin dall’appello di Pietro Jacchia sulla «Nazione» del 3 aprile 1919, Fiamme nere a raccolta e ne definisce poi validamente la natura anti-slava (varando l’utile formula di “fascismo di confine”). Movimento dunque che, senza grosse discontinuità nel suo svolgimento (ma, si badi, nei primi anni Sessanta non erano stati ancora ben definiti la natura, i contenuti, gli scopi del “sansepolcrismo” e non si era ancora elaborata la formula della «reversibilità sovversiva» dei ceti medi) continua e approfondisce la “slavofobia” irredentista, risultando un fenomeno sostanzialmente endogeno. Riprende nella sostanza questa interpretazione Vinci (Il fascismo al confine orientale, cit. e quindi, Eadem, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Roma-Bari, Laterza, 2011) accentuando il valore esplicativo del concetto di “fascismo di confine” come caso emblematico ed estremo, per nulla avulso da uno specifico e ben radicato retroterra ideologico. In realtà Apollonio capisce perfettamente che l’oratoria trascinante di Francesco Giunta, che anche per Vinci è figura assolutamente decisiva (cfr. Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941), non basta a spiegare gli eventi del 1920, e che bisogna guardare indietro (al nazionalismo e all’antisocialismo precedenti il luglio 1920, ancorché, ribadisce, «di toni corrispondenti alla tradizione irredentista regionale», p. 282), almeno quanto Vinci coglie l’importanza di masse di manovra (piccolissime, in verità), di sradicati pronti a tutto, e che la guerra ha educato alla violenza («A Trieste, l’ondata degli immigrati (ex-regnicoli e non), guardati con disprezzo dai nazionalisti della vecchia politica, viene invece percepita molto presto come un’ottima “occasione”, da parte del nascente movimento fascista» - Vinci, Il fascismo al confine orientale, cit., p. 417; «Lo squadrismo organizzato che nasce con Giunta a Trieste nel maggio del

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che il fascismo triestino compie quella truce impresa che inaugura la fase più dura dell’anti-slavismo nella Venezia Giulia e che da allora è rimasta a simbolo dell’intolleranza etnica nella sua forma criminale. L’attacco e l’incendio, il 13 luglio del 1920, dell’edificio del Narodni dom di Trieste, segno tangibile della presenza slava in città per il fatto di ospitare, oltre ad un albergo, l’Hotel Balkan, associazioni culturali e commerciali slovene e croate. Solo un episodio, ma quello che continua ad avere la più ampia risonanza, 26 di una «campagna militare»27 condotta con grande abilità tattica (la città viene divisa in distretti affidati alle diverse squadre, mobilissime sul territorio urbano grazie agli autocarri forniti dall’esercito e dagli industriali, e attaccano con manovra convergente, con l’appoggio dei corpi militari e di polizia28) e che consentì di trasformare «in guerra aperta uno stato di tensione sociale, politica e nazionale». 29 È da allora che vanno a saldarsi le linee ideologiche e a maturare quelle strategie politiche e di piazza (organizzate, nello squadrismo, sui modelli d’azione e di disciplina militare dell’arditismo30) che stringono nel nodo di un nazionalismo urlato e brutale antibolscevismo e slavofobia, spiriti anti-popolari e difesa del privilegio di classe, coltivando un’«accezione mistico-combattentistica […] dell’idea di patria»31 (destinata presto ad allargarsi e a sfociare in un «programma di civiltà 1920 trova proprio negli ex-regnicoli o nuovi immigrati la sua base di massa e i suoi mazzieri da lanciare non solo nelle piazze cittadine […] Il fascio del capoluogo triestino si mobilita con grande dinamismo ad ampio raggio» - Vinci, ivi 420). Con sintesi equilibrata aveva scritto, da par suo, Angelo Ara: «a Trieste il fascismo è, per quanto riguarda il suo gruppo dirigente, prevalentemente un fenomeno di importazione, introdotto in città da italiani delle ‘vecchie province’, alcuni fra i tanti che si precipitano nella Venezia Giulia dopo il novembre 1918, e da giovani reduci triestini; è però un fenomeno che si innesta in un ambiente maturo e ben disposto ad assorbirlo e ad assimilarlo» (Ara e Magris, Trieste - Un’identità di frontiera, cit., p. 120). 26 Interessante riportare il commento all’episodio di un intellettuale di mai rinnegata fede fascista, A. Signoretti (Come diventai fascista, Volpe, Roma, 1967), a dimostrazione che il suo valore simbolico ed esemplare travalicò i confini della periferica Trieste: «Francesco Giunta sarà il capo del fascismo di Trieste dove con l’incendio del “Balkan”, il quartiere della propaganda slovena, si avrà il primo importante episodio di piazza nella lotta che doveva portare il fascismo al potere» (p. 62). 27 Mattiussi, Il Partito Nazionale Fascista a Trieste - Uomini e organizzazione del potere 1919-1932, cit., p. 17. 28 Ivi, p. 16. 29 Ivi, p. 18. 30 Altra conferma che è la guerra a provocare la grande svolta, «madre del fascismo, come ideologia e come movimento» (E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), cit., p. 249): la guerra come pratica di (dis)educazione al civile dibattito, fenomeno che modifica le mentalità, cancella antiche abitudini al confronto rispettoso, abitua alla violenza, e alla violenta risoluzione degli antagonismi, facendo apparire l’avversario come un nemico da annientare; essa la “malattia” che va a colpire un corpo già infetto, provocando mutazioni irreversibili nelle “nuove province”. A proposito del rapporto di continuità fra arditismo e fascismo vedi anche A. Gibelli, La grande guerra degli italiani. 1915-1918 (Firenze, Sansoni, 1998), pp. 325-329. 31 Apih, Italia fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), cit., p. 129.

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imperialista»32). Un modo di fare politica, basato sull’annientamento fisico dell’avversario, che troverà fin quasi da subito, per complesse ragioni politicosociali e di forma mentis, il deciso appoggio dei centri di potere militari (lo si vide già nell’episodio del Balkan, nel non-intervento della forza pubblica e dell’esercito33), civili (furono sostanzialmente filo-fascisti i Commissari Civili per la Venezia Giulia) ed economici, e che nell’humus triestino – nelle antiche nevrosi della città divisa, nella nuova “grande paura” dei ceti borghesi traumatizzati dal “biennio rosso” – potrà acclimatarsi assai facilmente. A questo episodio e al periodo in cui si inquadra Giani Stuparich ha dedicato molto spazio in Trieste nei miei ricordi, ed è il caso di cedergli la parola: il primo fascismo, cercando di rinfocolare nella popolazione il vecchio sentimento antagonistico nazionale col risollevare lo spettro della minaccia slava, mirò a dare una giustificazione di carattere patriottico alla sua politica aggressiva e incendiaria. […] Non dimenticherò quel pomeriggio estivo del 1920 quando fu incendiato il Balkan, albergo e luogo di ritrovo degli slavi, la loro così detta «Casa nazionale». Stavo meditando e abbozzando uno di quei Colloqui con mio fratello che si formarono con tanta lentezza dentro di me […]. Nel tragico spettacolo di quel pomeriggio io avvertii qualche cosa d’immane: i limiti di quella piazza mi si allargarono in una visione funesta di crolli e di rovine […]. La violenza come metodo brutale stava nell’anima e nelle intenzioni di un gruppo di uomini, che dalla piazza confusa tendevano a impadronirsi del potere dello Stato. So che in quegli anni io non potevo capacitarmi come molte persone, pur ragionevoli, non s’accorgessero, o non volessero accorgersi o, accorgendosene, non dessero importanza a certi gesti che non sono più variazioni di una mentalità civile ma prove palesi d’un’anormalità spirituale, carica di conseguenze sinistre, per quanto mascherata dietro ideali elevati, come quello di salvar la Patria, di voler la grandezza e il prestigio della nazione, d’instaurare un governo forte. L’olio di ricino e il manganello avrebbero dovuto aprire gli occhi agli italiani sulla catastrofe a cui si andava incontro, se il partito che se ne serviva fosse andato al potere.34

Analisi giustissime; che scaturiscono però da un senno di poi severamente educato dalla storia e temprato dalla dura logica della sconfitta, e di cui si comprende il significato più profondo solo se intese non come semplice atto d’accusa alla stoltezza dei più, ma nel senso di un vero e proprio mea culpa (o, se preferiamo, di quel nostra culpa rivolto alla classe dei colti e ai reduci più sinceramente democratici che inizia a risuonare nei Colloqui con mio fratello e dal quale, sottotraccia negli anni del fascismo, si prolunga qualche flebile eco fin nel libro di memorie del 1948). 32 Ivi, p. 142. 33 Sull’episodio del Balkan hanno scritto tutti coloro che si sono occupati della storia contemporanea di Trieste. Una svolta interpretativa è stata resa possibile grazie ai documenti messi in luce da Schiffrer, in Fascisti e militari nell’incendio del Balkan, in «Trieste», n° 55, maggiogiugno 1963 e ultimamente dalla messa in evidenza dei disordini di Spalato, uno dei suoi prodromi, da parte di Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 141 e segg. Da vedere anche M. Kacin-Wohinz, L’incendio del «Narodni Dom» a Trieste, in «Qualestoria» n. 1, 2000. 34 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 64, 65, 66 passim.

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Intorno a questa strategia di odio e di violenza che ha, nella Venezia Giulia, obiettivi precisi di ordine nazionale e sociale lo scrittore conduce sulla «Rivista di Milano» una riflessione in due tempi la cui prima parte Gli slavi della Venezia Giulia vede la luce, tre mesi dopo le fiamme del Narodni Dom, il 5 ottobre 1920. Un’analisi di intelligente pragmatismo: gli slavi ci sono, eccome, e né la storia né le statistiche (false o accomodate) possono alterare il dato di fatto. Si tratta di capire come farne dei sudditi leali del Regno d’Italia, rinunciando tanto alle lusinghe che al bastone, ma fermi, comunque nella consapevolezza che è «un diritto ben ragionevole che l’Italia non rinunci al suo avvenire di Stato, consistente in precisi confini di difesa militare e in libertà economica, per far valere a sue spese dei principii molto chiari di giustizia eterea. Se dentro i suoi confini necessari ci sono degli slavi, ci stiano! È inutile che noi ci accapigliamo per pretendere che ce ne siano di più o per dimostrare che ce ne dovrebbero essere di meno». Detto questo sarebbe altrettanto assurdo – aggiunge Stuparich – lasciare che il problema si risolva da sé: errore pensare «sono in casa nostra e s’arrangino!», quanto «illuderci di averlo risolto col “siamo padroni noi”». Domandiamoci una buona volta serenamente, prima di metterci da un punto di vista di opportunità politica, chi sono questa gente che ci chiudiamo in casa con noi? Vi sono degli uomini che hanno formato parte d’una nazione oscura e battuta, piegata alla gleba e al servire dal calcagno di signori più forti e più civili; a un dato momento anche a questa nazione la storia apre un varco di libertà; vi si precipitano tutti con un’ebbrezza di altezze tanto maggiore quanto era stata più bassa la posizione di oppressi; ma non tutti riescono a passare, perché il varco a un certo punto si chiude: alcuni restano al di qua. Immaginate lo stato d’animo di costoro? […] Sono, da un punto di considerazione spirituale, dei sacrificati. Non possono internamente non reagire a questa ingiustizia storica che li condanna a una posizione di inferiorità in confronto dei loro fratelli di stirpe. Sono dunque degli irredentisti. Tutti gli slavi della Venezia Giulia sono e resteranno degli irredentisti […]. L’antico regime austriaco aveva formato, non soltanto in piccola parte, il carattere dei popoli che governava. Questi reagivano ognuno come poteva, alla lenta e inflessibile azione che li deformava; i più deboli con la difesa dei deboli, la falsità. E la simulazione penetrava in ogni loro atto, veniva formando la base del loro carattere. Cosi lo slavo meridionale era un suddito fedele, uno striscione, incline a baciare la mano che lo bastonava; ma nel suo cuore non rispondeva nessun amor di patria, nei suoi occhi umiliati passava qualche lampo di freddo odio e le sue labbra bacianti erano più dure che se avessero pronunciato una bestemmia […]. La psicologia dello slavo presentemente si regge ancora molto sull’antica base tradizionale, ma vi è scossa da nuove spinte di interessi e di idealità. Di più s’aggiunge un motivo interno tutto rivolto contro di noi. Esso è derivato dal fatto seguente. L’Austria aveva negli ultimi tempi, per sue ragioni speciali (evidentissime) di governo, messo davanti agli occhi degli slavi un miraggio di conquista nella Venezia Giulia. Aveva non solo agevolato l’inclinazione naturale di scendere verso il mare e verso il grande porto di Trieste, ma tratto l’intento degli slavi a impadronirsi di questi. Per l’Austria era questione di mutar braccio, ma per gli slavi diventò un servizio serio e vitale. Ora quando l’Austria fu buttata all’aria, il servizio che si rendeva al padrone si trasformò in compito per la propria causa e grandezza. Ma ahimè, proprio in questo punto i competitori di prima che si combattevano a faccia mascherata sotto la protezione del padrone, divennero rivali in campo aperto. E i rivali vinsero. (Lo meritavano

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poveri italiani; era da tanto tempo che tenevano duro! Non vi pare, amici americani di tutte le specie che siete lontani e oggettivi?35). Ora gli slavi di fronte a noi si sentono dei vinti. Ed hanno la psicologia dei vinti risentiti, non ancora persuasi che la sia finita cosi. […] Sono, riassumendo, dei cittadini spostati, naturalmente tendenti fuori dell’orbita che circoscrive il nostro stato; per lunga tradizione però abituati a obbedire, se pure non toto corde, e a sentirsi sorretti da una mano forte; in particolare poco favorevolmente disposti verso gli italiani da cui la storia ha voluto che fossero umiliati, appena erano per dar fiato alle novissime trombe di libertà e grandezza. […]. Lo slavo ha bisogno in realtà d’esser sostenuto da una mano forte. La sua storia è umile, la sua civiltà monca, la visione del suo mondo è barcollante nella sua fantasia ancora primitiva. Qualora voi gli facciate sentire che la vostra forza non è nelle parole, ma nell’occhio che scorge con rapidità e precisione e nella mano che guida con fermezza e audacia, egli vi seguirà per naturale inclinazione. A malincuore e con diffidenza dapprincipio; ma quando s’accorgerà che voi procedete per una strada sola diritta ed avete tutta la seria intenzione di farvi seguire, egli finirà con l’ascoltare anche i vostri ragionamenti sobri e adatti al caso, e comincerà a capire anche la vostra libertà. Quando si persuaderà, per vostro merito, che l’esser vinto nella storia è una disgrazia, ma non un disonore, finirà collo smettere anche il suo sentimento ostile verso di voi. Resterà slavo, cioè irredentista; ma voi, consci della vostra forza, gli avrete dato le sue scuole, gli avrete permesso i suoi circoli e le sue società, non solo, ma lo avrete chiamato a reggere i suoi comuni e a portare la sua voce libera in Parlamento. Ecco che allora quell’irredentismo si sarà illimpidito nelle coscienze, innalzato al suo valore massimo, cioè di contatto spirituale, per cui non ci sarà bisogno di formare un tutto politico coi fratelli d’oltre confine per vivere spiritualmente con loro. Ma se i fatti non ingannano, ci saranno ancora molte incertezze e molti guai nel governo degli slavi della Venezia Giulia, prima d’arrivare alla soglia di ciò che ho prospettato come conclusione del nostro ragionamento.

Non ne esce un’immagine lusinghiera dei vicini di casa, né, tanto meno, della capacità di Stuparich di capire veramente, con slancio empatico e generoso, i popoli con cui gli italiani convivevano da sempre nella Venezia Giulia («lo slavo ha bisogno in realtà d’esser sostenuto da una mano forte. La sua storia è umile, la sua civiltà monca, la visione del suo mondo è barcollante nella sua fantasia ancora primitiva», eec. ecc.). Paradossalmente lo studioso triestino mostra di conoscere meglio, con più felice sintonia intellettuale e più aperta disponibilità umana, i lontani cechi che i coinquilini sloveni e croati: miseria di una condizione storica e di civiltà – di cui ancora oggi soffriamo le conseguenze – che ha portato

35 L’allusione è un chiaro segnale della delusione che provarono gli ambienti dell’interventismo democratico, nelle varie forme organizzative assunte nel Dopoguerra, di fronte alla sordità alle rivendicazioni italiane da parte di Wilson (che, peraltro, dall’autunno del 1919, è praticamente fuori gioco come soggetto politico) . Il messaggio che il presidente degli USA aveva indirizzato all’Italia nell’aprile del 1919 spegne la fiammata di entusiasmo wilsoniano vissuta dal Paese (cfr. D. Rossi, Profeta per un anno: Woodrow Wilson e l’Italia nella Grande Guerra, in D. Fiorentino e M. Sanfilippo, a cura di, Stati Uniti e Italia nel nuovo scenario internazionale 1898-1918, Gangemi, Roma 2012), sollevando perplessità perfino tra i “wilsoniani” d’Italia (cfr. A. Frangioni, Salvemini e la Grande guerra, cit.), e accentuando l’amarezza, anche presso la sinistra democratica, per come si svolgevano le trattative di pace: vedi La pace di Versailles – Note e documenti, Edizioni de «La Voce», Roma, 1919, di A. Caffi e U. Zanotti Bianco «portavoce del valoroso gruppo che rimane fedele anche contro Wilson ai principi wilsoniani» (ivi p.34).

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alla convinzione che ignorare fosse utile per dominare (e qui certo il discorso dovrebbe tanto allargarsi, nella semantica e nella cronologia, da toccare i giorni nostri). Un gravissimo errore, che i vincitori di allora hanno duramente scontato. Convinto che gli slavi della Venezia Giulia sono e resteranno nella sostanza delle loro ambizioni politiche, degli irredentisti, Stuparich propone delle misure per farli sentire a casa propria nella Giulia diventata italiana (anche se le premesse per una convivenza reciprocamente leale sembrano mancare, laddove prevalga una visione così negativa degli “allogeni”: popolo semi-barbari e servili che è necessario guidare con mano padronale). E sono un paio di righe preziose che avremmo voluto prendessero lo spazio e il rilievo di quelle, di impasto un po’ grossolano, dedicate alla psicologia collettiva degli slavi (osservazioni che del resto non piacquero nemmeno a Salvemini, che le giudicò «troppo triestine», pur decidendo di riprodurre l’articolo sull’«Unità» del 4 novembre36) e, ma qui il discorso si fa più criptico e allusivo, al «miraggio di conquista» che il potere imperiale avrebbe fatto strumentalmente balenare davanti agli occhi degli slavi per spingerli a scendere a Trieste con l’obiettivo di soffocare il fastidioso irredentismo giuliano (che è lettura tipicamente liberal-nazionale, sul crinale Benco-Tamaro). Ma forse Stuparich non poteva esprimersi diversamente, se voleva sperare di trovare ascolto presso l’opinione pubblica italiana della sua città, sclerotizzatasi nel superbo disprezzo per gli “s’ciavi”. Agli slavi dunque, libertà di sviluppare pienamente la loro civiltà: istruzione nella loro lingua, autonomia amministrativa, rappresentanza politica («ma voi […] gli avrete dato le sue scuole, gli avrete permesso i suoi circoli e le sue società, non solo, ma lo avrete chiamato a reggere i suoi comuni e a portare la sua voce libera in Parlamento»), seguendo una traccia già ben sognata da Oberdorfer un anno prima. A distanza di 8 mesi – il quadro triestino della convivenza inter-etnica era intanto andato ancora deteriorandosi, come denunciava il giornale «Edinost» e documenta in giugno il j’accuse in Parlamento di Josip Vilfan37 – un nuovo contributo sullo stesso argomento: Italien über Alles? (5 maggio 1921), pubblicato alla vigilia di una scadenza cruciale, le elezioni politiche del 15 maggio, le prime tenutesi nella Venezia Giulia ormai parte integrante del Regno d’Italia. È una pagina energica, vigorosamente sorretta dalla fiducia nella verità. E tanto fluidamente compatta nel contenuto e nella scrittura da rendere difficile sintetizzarla. Stuparich inizia con una lode alquanto sorniona delle ambizioni di concordia che sembrano emergere dalla costituzione, in vista delle elezioni, di un “Blocco” nazionale italiano, 36 «Nel riprodurre dalla Rivista di Milano questo articolo di uno fra i pochi che a Trieste sappiano conciliare il sentimento nazionale con una visione spassionata del problema slavo, facciamo qualche riserva su alcune osservazioni – troppo triestine – di psicologia collettiva ma ci dichiariamo concordi nelle conclusioni» («L’Unità», 4. XI. 1920). 37 Cfr. Vinci, Le sentinelle, cit., pp. 118-119. Per la problematica della difesa delle minoranze nel periodo tra le due guerre di cui si fece carico il Congresso delle nazionalità europee, di cui Josip Vilfan (che nasce Wilfan) divenne presidente, vedi A. P. Peratoner, Le minoranze nazionali. 19191939: la mobilitazione della società civile internazionale, prefazione di Salimbeni, Edizioni Studium, Roma, 2008.

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comprendente i fascisti, i nazionalisti, i liberal-nazionali, gli esangui socialriformisti, e con l’appoggio a Trieste, del Partito popolare. Salvo osservare subito – egli voterà per i repubblicani, fermi nei loro principi di libertà – che la concordia va bene, in special modo in un Paese di individualismo litigioso come l’Italia, fintanto che non significhi abdicazione di ideali. L’agguerrito polemista mette in rilievo, con una denuncia nutrita di sarcasmo, l’irrisorietà di certe reazioni slave alle violenze fasciste, che l’opinione pubblica conservatrice vorrebbe invece far apparire come pericolosi tentativi di sovversione (riferendosi in particolare ai fatti di Carnizza del 5 aprile, quando un’incursione condotta in Istria dagli squadristi fu respinta da contadini armati di nazionalità croata guidati da quell’Ante Ciliga che, splendida tempra di combattente per la libertà, avrebbe scritto in anni più tardi, conquistandosi una grande risonanza internazionale, uno dei libri più duri di denuncia dello stalinismo38). Ma l’indignazione di Stuparich raggiunge il colmo quando misura i comportamenti e le convinzioni prevalenti in troppi ambienti italiani della Venezia Giulia (dove, spiega in nota, «l’intimidamento verso gli slavi è esercitato su larga scala») sul metro dei valori che avevano guidato i soldati della Grande guerra (non tutti per la verità, come Stuparich ammette alludendo ai «migliori combattenti»), condannando la slavofobia militante come un’offesa ai principi più sacri della guerra italiana. 39 Richiamo l’attenzione sulla Venezia Giulia. Non c’è regione in cui siamo, e abbiamo il diritto d’essere tanto in casa nostra, come in questa. Ma non perciò dobbiamo trascurare il fatto che vi coabitano elementi allogeni compatti e in forte proporzione. Non voglio far questione di numero, mezzo milione può contare e può anche non contare a seconda delle circostanze; ma ciò che importa è questo: ci sono o no, nella Venezia Giulia, degli slavi che vivono in case costruite dai loro padri slavi? che coltivino campi dissodati dai loro padri slavi? che per lunga tradizione amino, pensino e preghino in slavo? Nessuno lo può negare. È lecito invadere le case, i campi, le chiese di questi slavi e imporre loro con le rivoltelle in pugno, di non amare, di non pensare e di non pregare in slavo? Tutto può farsi lecito l’uomo; ma allora è superbamente ridicolo o malinconicamente triste, fare le meraviglie, irritarsi, imprecare se questa gente afferra un fucile o una bomba a mano e reagisca, così perché il sangue le monta alla testa, con un puro atto di disperazione. Non si venga poi a dire che preparavano la rivolta, che cospiravano ai danni dell’Italia, che un gruppetto di miserabili montanari croati attentava alla vita di una nazione di quaranta milioni! […]. Nelle trincee i migliori combattenti ebbero la sensazione sicura che l’umanità soffriva cosi orribilmente, solo perché stava cercando la sua strada ideale e la guerra fu vinta solo perché delle due tendenze che si combattevano, vinse la più forte, quindi la più spirituale, la nostra. 38 Di Ante Ciliga (1898-1992) è recentemente apparsa in Italia la traduzione completa di Au pays du grand mensonge, pubblicato originariamente da Gallimard nel 1938: Nel paese della grande menzogna. URSS 1926-1935, Jaca Book/Fondazione Micheletti, Milano 2007. Utilissima, per la vita e l’esperienza umana e politica di Ciliga, la nota introduttiva di Paolo Sensini. 39s Che la Grande guerra fosse ormai diventata per tutti i partiti e le correnti d’opinione del crepuscolo della democrazia liberale un tema politico-ideologico con cui prioritariamente misurarsi (vuoi per rivendicarne l’eredità, vuoi per demonizzarla) lo illustra molto bene A. Baravelli, La vittoria smarrita - Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale, Carocci, Roma, 2006.

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Uomini di governo inferiori al loro compito, poterono poi, a guerra finita, trascurare il valore di questa tendenza spirituale; ma un combattente che la rinnegasse, rinnegherebbe con ciò stesso la sua azione e la vittoria. “Deutschland über alles” fu la tendenza che dovette soccombere; “l’umanità sopra tutto” era la nostra tendenza che vinse. È possibile ora tornare indietro? È possibile ora mettersi dal punto di vista della Germania sconfitta? La Germania, si badi bene, quella meravigliosa e rispettabile potenza che era cresciuta, s’era disciplinata come nessuna altra potenza del mondo, aveva fatto un blocco solo delle sue forze per realizzare la sua missione! Le mancava però l’umiltà spirituale, il suo Dio era germanico, non era umano; e la Germania dovette fare i conti col mondo e piegare la testa. Non è supremamente comico e tragico nello stesso tempo che nel pensiero di certi italiani, dopo quella esperienza, si stia formando un piccolo, burattinesco Dio italiano?! Dopo tutte le insipienze, gli ondeggiamenti, pare finalmente che l’Italia voglia seguire una via diritta nella sua politica estera. Non si può osservare senza compiacimento, come sempre più i piccoli stati sorti dalla guerra mettano da parte le diffidenze e si sentano attratti verso l’Italia come verso la loro naturale protettrice ed arbitra. È la sua funzione anticamente tradizionale che l’Italia sta timidamente riassumendo, la funzione ideale vista dagli spiriti suoi più grandi in contrapposto all’ignoranza delle masse e ai governanti di queste. Ma come, ci si chiede, diventa possibile a questo punto la contraddizione che un’Italia capace di sentire un compito il quale trascende i suoi confini politici, si dimostri incapace di governare i pochi elementi allogeni che si trovano dentro questi suoi confini? Perché infatti quello che avviene nella Venezia Giulia, è prova lampante che il governo non s’è reso conto d’un problema slavo dentro i suoi confini. Il fascismo giuliano può, in ultima analisi, pensare ciò che crede e tentare quell’azione politica che gli sembra più opportuna; la maggioranza della popolazione italiana della Venezia Giulia può nutrire quel rancore che le pare, può sentire quell’antipatia che vuole, verso gli slavi (e sia pure con ragione e per fondati motivi psicologici e storici); ma la Venezia Giulia non è tutta l’Italia, è appena una delle sue diciotto regioni, e il governo degli slavi è questione che tocca l’Italia tutta e coinvolge i suoi interessi globali; è proprio il caso di dire, anche per quelli che desiderano l’autonomia della Venezia Giulia, che qui si tratta di competenza di Roma (proprio di Roma e non di Uffici Centrali!). Ma Roma purtroppo, quando è seriamente questione di competenza sua, si squaglia! E il Paese corre rischio, con tutta la sua raddrizzata politica estera, di ripetere una seconda alleanza con l’Austria, scambiate le parti. Non fa quindi meraviglia che gli slavi della Venezia Giulia, nel loro programma elettorale, ci vengano a ricordare le promesse solennemente fatte in nome dell’Italia e al cospetto di tutto il mondo civile. Non è questione di politica sentimentale! Noi possiamo anche fare a meno di mantenere quelle promesse, infischiarci del fatto che al di là degli slavi d’Italia c’è una Jugoslavia, farci forti della nostra forza e imporre con lo spauracchio d’una guerra sempre vigile e pronta, il rispetto alle nostre minoranze della Dalmazia; ma allora bisogna esser franchi, bisogna volerlo e credere di poterlo fare. E bisogna anche credere che l’Europa non esista, che la Germania ha avuto ragione e che l’Italia è più forte della Germania del 1914, perché saprà far valere l’idea politica che questa non ha saputo sostenere sufficientemente.

L’articolo, su cui è opportuno dilungarsi un poco, riecheggia, nel suo limpido filo concettuale, la parte conclusiva della Postilla di Salvemini alla discussione con il prof. Hartmann di Vienna, sull’«Unità» del 14 maggio 1915. 40 Il punto non è però 40 «In questo sforzo di liberazione [degli italiani d’Austria dalle catene dell’amministrazione austriaca NdA]», scriveva Salvemini, «l’Italia può seguire due vie: tentare un nuovo

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se Stuparich se ne fosse o meno ricordato. Quello che conta è mettere ancora una volta in rilievo la consonanza dello scrittore triestino con le posizioni salveminiane e interventistico-democratiche. Ed è in questo senso cha va interpretata la disorientante conclusione del saggio (di cui, incidentalmente, noteremo quanto sia dritto il pensiero e robusta la parola quando in Stuparich vibra la corda etica) che colpisce in un sostenitore delle autonomie. È come se Stuparich dicesse – impossibile non cogliere la sfumatura di desolata amarezza – salvaci Italia dall’intolleranza e dagli odi dei giuliani, dall’immaturità politica e dallo squallore morale dei triestini, salvaci da noi stessi! Una petizione, mormorata a fior di labbra, che è molto più politica e contiene più addentellati nazionali di quanto non sembri, nonostante il punto di partenza strettamemente locale (aggiungiamo: non è per chiusura provinciale che Stuparich scriva sempre di Trieste sulla «Rivista di Milano» ma, oltre a probabili sollecitazioni del direttore, soprattutto per far conoscere all’Italia le condizioni e i problemi della città). A Roma sedeva Giolitti (Presidente del Consiglio dal giugno 1920 al luglio 1921, e titolare anche del portafoglio degli Interni), avendo a fianco due uomini vicini alle posizioni dell’interventismo democratico, il socialista Ivanoe Bonomi alla Guerra e agli Esteri il diplomatico Carlo Sforza, 41 reduce dal successo del Trattato di Rapallo (novembre 1920), di cui ancora dovremo parlare, e per il quale aveva avuto il pieno appoggio del Presidente del Consiglio. Pareva inaugurata una nuova strategia adriatica, che aveva i suoi testi teorici nella Dalmazia di Prezzolini, 1915, e nella Questione dell’Adriatico di C. Maranelli e Salvemini (volume che non poté uscire nel 1916 per colpa della censura, e fu pubblicato con differente impianto nel 1918, presso la Libreria della Voce, Roma) e in Carlo Sforza appunto il maggior interprete ai massimi livelli del potere. A Trieste invece la violenza anti-socialista ed anti-slava continuava a imperversare, 42 sotto l’occhio benevolo di Antonio Mosconi, 43 Commissario straordinario per il Comune di Trieste dal 1919 al 1922,

compromesso con gli slavi, oppure sostituire alla burocrazia austriaca la burocrazia propria per opprimere austriaco more non più gli italiani ma gli slavi. È questo il maggior pericolo che minacci la pace e l’amore dell’Italia in caso di vittoria. Se prevarranno in Italia, per quanto riguarda la futura amministrazione della Venezia Giulia, i livori ed i rancori locali degli italiani di Trieste e dell’Istria contro gli slavi, tristi giorni si prepareranno al nostro paese […]», in Salvemini, Come siamo andati in Libia, cit., p. 520. 41 Un’utile sintesi sulla vita e l’opera di Carlo Sforza si legge in E. Di Nolfo, Carlo Sforza diplomatico ed oratore, in Carlo Sforza - Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica - il Mulino, Roma-Bologna 2006. 42 «Trieste è un ambientaccio che non hai idea», scrive Stuparich a Prezzolini il 4 luglio 1921, «Dopo che c’è venuta l’Italia ufficiale è ancora peggio», lettera custodita presso l’«Archivio Prezzolini» della Biblioteca Cantonale di Lugano. 43 Così G. Sluga: «Mosconi riteneva che le identità nazionali e culturali degli allogeni fossero state un tempo incrementate dall’Austria come un’arma contro le rivendicazioni italiane sulla regione di confine [e] equiparava la cultura da lui definita ‘slava’ al ‘bolscevismo’», in Identità italiana e fascismo, in Cattaruzza, a cura di, Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale 1850-1950, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 175. Ma per Mosconi utile anche il Diz. Biografico degli italiani, ad vocem.

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e destinato poi ad una fortunata carriera di commis d’état. Chiaro dunque l’appello (inascoltato) al “centro” per calmare i bollori in “periferia” Ed eccessiva la fiducia nella capacità e nella volontà di fermezza del Governo. Ma c’è una parte del saggio che ho tralasciato, perché merita un’analisi a parte. Vi si tocca il tema del fascismo, cui Stuparich riconosce alcuni meriti, proprio come ne vede disincantato le colpe. E gli fa specie che un movimento che si richiama così perentoriamente alla Grande guerra, intesa come palestra di valori etici e sano amor di patria, finisca poi per disattenderne l’insegnamento. La nuda verità dello scopo a cui si tende […] qualche fascista triestino ha avuto il coraggio di esprimerla pubblicamente: “Noi vogliamo distruggere gli slavi della Venezia Giulia, spedirli in Jugoslavia, e colonizzare le loro terre; in Italia non c’è posto che per gli italiani! Nessuno slavo al Parlamento italiano! Quindi gli slavi o votino per gli italiani o non devono votare!” Questa tendenza sebbene in pochi onestamente esplicita, è diffusamente implicita nella mentalità di moltissimi, e specie nei giovani, che ingenuamente credono di pensare così al bene della Venezia Giulia e dell’Italia; e l’azione, la propaganda elettorale, vengono determinate da questa tendenza. Non è il caso di determinare i valori dell’azione politica del fascismo giuliano. Resta fuori di dubbio che anche qui, come in altre regioni d’Italia, il fascismo ha scosso la supina inerzia e la viltà della piccola borghesia, la quale aveva rinunciato a ogni dignità umana nello spavento in cui l’aveva messa la possibilità d’una rivoluzione comunista; che anche qui il fascismo ha discoperto le immoralissime e pusillanimi coscienze di certi capi del movimento socialista; che qui dove c’era più bisogno d’altrove, essendo i combattenti piccola minoranza, esso ha fatto valere la determinante della guerra, il concetto che un paese come l’Italia non può fare un passo innanzi se non tien conto e non si rende conto della guerra che ha combattuto. Ma proprio quest’ultimo merito, che a me sembra il maggiore del fascismo giuliano – in mezzo alle sue colpe, di cui io non so non vedere come la più grave quella di aver corrotto, altrettanto quanto certa propaganda bolscevica, la fantasia giovanile e avvelenato quella generosità, di fronte a tutto e a tutti, che è la più bella prerogativa dello spirito dei giovani – è più che dimezzato dalla sua odierna politica verso gli slavi. Un movimento che parte da combattenti, non dovrebbe mai trascurare il significato ideale della guerra combattuta in Europa, che è poi il suo più vero significato reale.

Complimenti dunque alla capacità del fascismo di risvegliare l’orgoglio borghese, scuoterne l’animo intimorito dallo spettro della sovversione sociale (sia pure spingendo la «piccola borghesia» verso forme di contro-rivoluzione preventiva che Stuparich, mentre pare avallarle, ancora non immagina): un tema, quello dell’energia vivificatrice del fascismo, della “giovinezza” impetuosa e sicura di sé, che, era stato intonato in un primo momento anche da Silvio Benco, tra le voci più autorevoli e ascoltate della cultura triestina. 44 E aperto apprezzamento per come i fascisti si facevano carico della valorizzazione della guerra italiana, contro ogni tentativo di screditarne l’intima moralità, svilirne il valore civile, ridurne il significato storico. Sua massima colpa 44 Cfr. Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini, cit., p. 287, nota 10. Sulla «Nazione» Benco, recensendo, in data 20 luglio 1921, L’alcova d’acciaio di Marinetti, parlerà di «interventismo, fascismo, arditismo […] forme dinamiche dell’azione nazionale»

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invece – oltre alla slavofobia portata fino alla brutalità del gesto infame – «di aver corrotto, altrettanto quanto certa propaganda bolscevica, la fantasia giovanile e avvelenato quella generosità, di fronte a tutto e a tutti, che è la più bella prerogativa dello spirito dei giovani». Una critica non peregrina, e che Stuparich continuerà a ribadire in tutte le occasioni – sempre più rare del resto a mano a mano che il regime si rafforza – in cui avrà occasione di esprimersi sul fascismo. E già a poche settimane di distanza, nell’articolo apparso sul «Piccolo della sera» di Trieste del 15 giugno 1921, Generazione disancorata, dove scriverà di giovani sui quali «hanno presa le ideologie più sempliciste e più disastrose, solo per il fatto che imitano speciosamente, ma non certo veridicamente, quella realtà che fu la guerra», con parole cioè in cui risuona più che evidente la critica allo squadrismo, alle sue grottesche forme esteriori che caricaturizzavano quelle militari – le divise, i labari, i rituali – e alla violenza diventata valore in sé. «La guerra non fu violenza», continua, «se non nel suo aspetto più esteriore e nei suoi momenti più particolari: interiormente essa fu uno sforzo morale che coordinò tutte le energie delle singole nazioni». Parole chiare anzi chiarissime, e a questo forse si deve – è la condivisibile ipotesi di Apih45 – che Stuparich non poté più scrivere sul «Piccolo». Nuova ripresa del tema dell’umanesimo patriottico, per spingerci brevemente in avanti, nel giugno del 1923, quando Stuparich tiene ai docenti ed agli alunni del ginnasio-liceo Dante uno squillante discorso di contenuto, anch’esso, come altri precedentemente, «anticombattentistico per eccellenza (quasi avessi presentito lo sfruttamento immorale che si stava per fare della guerra)»46: La patria è un faro che guida sicuro attraverso tutte le tempeste – ammonisce Stuparich – ma a condizione che il suo volto sia luminoso, non ottenebrato e minaccioso, a condizione che lo regga un cuore pulsante col ritmo d’una legge superiore che tutte l’altre governa: la legge d’amore. Ce lo insegnano questi Volontari della morte: la prova ch’essi superarono fu una prova d’amore, e vi misero serenamente la vita. […] Tremenda è la guerra e la si subisce solamente come una durissima prova per l’elevazione dello spirito. Noi non siamo più pagani: dacché nei solchi tormentati della storia umana fu gettata la semente dell’amore, ogni vita è sacra e nessun popolo della civiltà può proporsi più come fine d’educarsi a popolo guerriero, e nessun uomo può più desiderare la guerra, se non con malvagio cuore.47

Infine – ma potremmo ancora a lungo esplorare saggistica e narrativa per trovare numerose conferme che si tratta di una nota tenuta, autentica e sincera – la trasformazione del motivo polemico nei Colloqui con mio fratello in una riflessione pacata e sofferta sull’appannarsi degli ideali e sull’intorbidirsi di un amore di patria che era stato assoluto ma generoso per la “generazione carsica”, ed ora, invece, 45 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 101. 46 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 73. 47 Id., Davanti alle salme dei caduti triestini (1923), ora in «Quaderni giuliani di storia», Anno X, 1989, pp. 254, 255.

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nell’entusiasmo fanatico, foriero di intolleranza e di violenza, dei manipoli che sfilano, non è che «luce che abbaglia e fumo che accieca»: Passa la giovinezza per le strade, l’annunciano fanfare e il canto, e il suo ritmo è come d’assalto all’aria e all’avvenire. Se tu potessi travolgere anche me, giovinezza! Essere tra le tue schiere, avanzare con la gola aperta e con gli occhi bendati! Sono i vostri occhi, giovani ch’oltrepassate, accesi, ma una benda fatale è tra l’ardor che gl’illumina e la vista […]. La patria è oggi una luce che abbaglia e un fumo che accieca […]. Tu non sei più giovane: questo è ciò che dai giovani ti divide che sfolgorano per le strade o da quelli cui un tenace ideale esalta in silenzio. La gioventù è fatta per prender partito ed ogni sua schiera segue con franco rigore la sua affermazione: tu, più non sai né potresti confonder la parte col tutto.48

La scadenza elettorale del maggio 1921, cui guarda Italien über alles, lascia una traccia consistente anche in Trieste nei miei ricordi, dove l’accento cade, coerentemente con l’ispirazione del libro, sia sulla personalità di Cipriano Facchinetti che sui risvolti politico-ideologici dell’importante appuntamento, 49 ed è bene citare: Giungemmo così alle elezioni del 1921 e poi a quelle, che furono le ultime elezioni politiche, del 1924. Nel socialismo era prevalsa la corrente estremista con uomini ch’io non conoscevo e che per la violenza dei loro atteggiamenti mi davano poco affidamento, mentre i miei amici erano esautorati e messi nell’ombra. Tanto nelle prime che nelle seconde elezioni appoggiai l’antico gruppo repubblicano dove c’erano ancora degli idealisti e dei semplici. Collaborai alla campagna elettorale dell’Emancipazione [il giornale dei repubblicani triestini, NdA] e votai per la scheda di Facchinetti. Nella campagna elettorale del 1921 la lista repubblicana soccombette, ma fu una sconfitta gloriosa e un’affermazione politica di intrepida indipendenza. Il blocco nazionale aveva fatto di tutto per accaparrarsi il gruppo repubblicano, assegnando il quarto posto nella lista a Cipriano Facchinetti, uomo che «incontrava le generali simpatie per la nobiltà del passato, la vivacità dell’ingegno e la serenità dell’atteggiamento politico», com’ebbe a scriverne il maggiore quotidiano triestino. Facchinetti e i repubblicani preferirono la lotta da soli, appoggiandosi alla dirittura e all’onestà del programma, programma democratico, di pacificazione e non d’aizzamento dei dissensi nazionali (Facchinetti fu eletto nelle successive elezioni del 1924, a circoscrizione allargata a tutta la Venezia Giulia). Ricordo Cipriano

48 Id., Colloqui con mio fratello, cit., pp. 77, 80, 82 passim. 49 Fin dal Congresso del 1922, tenutosi proprio a Trieste, nel Partito Repubblicano (22-25 aprile), segretario Schiavetti, prevalsero, così Aga Rossi (Il Movimento Repubblicano Giustizia e Libertà e il Partito d’Azione, Cappelli, Bologna, 1969) «i fautori una posizione più attivamente “politica”», ovvero Schiavetti, Bergamo, Facchinetti, «che concepivano la costituzione della repubblica come il risultato di una lotta politica alla quale il partito doveva partecipare con un’azione aderente alla realtà attuale» (p.11). Ma sul Congresso triestino, vedi anche G. Tartaglia, Francesco Perri ecc., cit., p. 102 e segg. Dopo la marcia su Roma il Partito repubblicano «passò decisamente all’opposizione ma ponendo l’accento non tanto sul carattere antidemocratico e sul regime di violenza instaurato dal fascismo quanto sulla deviazione che la sua alleanza con la monarchia rappresentava verso l’attuazione degli ideali repubblicani» (p. 10). Utile, per un quadro più generale sul movimento repubblicano negli anni aurorali del fascismo, L. Cecchini, I repubblicani italiani di fronte al fascismo: dal dopoguerra alla marcia su Roma, «Rivista trimestrale», 1977.

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Facchinetti venuto a Trieste per la campagna elettorale del 1921. La benda sull’occhio, che faceva spiccare ancor più il pallore del volto un po’ grasso, quella sua testa tranquillamente eretta, quei suoi modi dolcissimi e la voce calda, persuasiva, lo vedo con la solita mano nella tasca della giacca, con l’altro braccio sollevato, parlare al popolo di San Giacomo. La pacatezza del tono, la semplicità degli argomenti e soprattutto quel rivolgersi all’anima e non agli istinti più bassi e facilmente infiammabili, lo facevano ben diverso dai demagoghi a cui il popolo è abituato […]. La lombarda calma dorata di Facchinetti era un po’ in contrasto con l’inquieto riflesso azzurro-marino ch’è nell’anima triestina, e forse non a lungo gli sarebbe stato agevole di rappresentare questa nostra città al parlamento di Roma. Tuttavia giova, per giustizia storica, ricordare che Trieste con la Venezia Giulia mandò a Roma, eletto per volontà di popolo, un suo deputato che ebbe vera e profonda fede nella democrazia, che si schierò con i pochi deputati fermamente contrari al fascismo e fu tra i primi a prendere la via dell’esilio piuttosto che cedere o trasformarsi.50

A Parigi Facchinetti fu di fatti tra i fondatori, nel 1927, della “Concentrazione antifascista”, che coltivò l’ambizione di coordinare l’azione dei partiti in esilio, quindi segretario politico del PRI e rappresentante della “Lega italiana dei diritti dell’uomo”, partecipando nel 1929 alla nascita di “Giustizia e libertà” e dando vita, nei primi anni Trenta, ad una organizzazione antifascista autonoma, “La giovane Italia”. Tappe iniziali di un percorso di rigoroso antifascismo che non conobbe soste, che lo portò – dopo l’arresto da parte delle autorità di Vichy – in una prigione fascista a scontare una condanna del Tribunale speciale a 30 anni di reclusione, e lo vide riprendere la via dell’esilio attivo e combattivo dopo l’8 settembre. Per rientrare in Italia già alla fine del 1944 e risultare eletto nelle liste del Partito repubblicano nelle elezioni del 2 giugno 1946. Una scelta di espatrio e cospirazione, di impegnato e rigoroso anti-fascismo sulla quale Stuparich non poteva seguirlo. E non solo per le pesanti responsabilità di famiglia, per la perdita di rilievo degli interessi politici nella sua visione del mondo, per l’innato moderatismo e per il giudizio oscillante nei confronto del regime (a comporre una linea di pensiero e d’azione non sempre perfettamente decifrabile), ma – come ha scritto Rino Alessi a proposito di Silvio Benco – probabilmente anche per un’altra ragione. In fondo, con tutta l’amarezza di una svolta politica non voluta e ormai stabilizzatasi in regime, «per [Benco] anche con il fascismo l’Italia non aveva cessato di essere l’Italia, cioè una vivente realtà da doversi amorosamente accompagnare nelle sue realizzazioni, nelle sue manifestazioni artistiche, nella difesa dei suoi diritti fondamentali. Perciò non si estraniava dalla vita operante del Paese per dedicarsi a una critica sterile e vilipendiosa». 51 E Biagio Marin, ben più inserito nel fascismo di quanto mai lo sarà Stuparich: «Gli italiani si sono mostrati inadeguati a continuare la dolorosa ma necessaria marcia della libertà, quel processo di continuo assorbimento delle plebi incivili, o di diversa civiltà, nel connettivo della società nazionale moderna. Mussolini ha creduto di poter 50 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 64, 65. 51 R. Alessi, Trieste viva. Fatti - uomini - pensieri, Casini ed., Firenze, 1954, pp. 37-38.

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ottenere questo risultato con il metodo autoritario. […] Anche io, pur riluttando nel mio intimo, ho fatto quella esperienza. E la ho fatta con serietà e devozione, non a Mussolini, né al Partito, ma all’Italia»52. Valutazioni che, magari ritoccando qualche aggettivo, sfrondando qualche giudizio, tenendo presenti le differenti appartenenze politico-ideologiche possono valere, a mio giudizio, anche per Giani, sempre leale nei confronti dello Stato. Se ritorniamo ai saggi della «Rivista di Milano» è possibile cogliere un nuovo, interessante fronte d’analisi: quello relativo al problema della politica estera. In Il trattato di Rapallo visto da Trieste (5 dicembre 1920), articolo che precede gli ultimi citati, raccolti in gruppo per contiguità tematica, la presa di posizione è netta e costruttiva. Anche se Stuparich evita di entrare nello specifico del problema fiumano, un terreno particolarmente sdrucciolevole, perché avrebbe obbligato a prendere posizione su D’Annunzio, su cui, come sui santi del proverbio, era pericoloso “scherzare”. Invece, modulando un motivo che sa caro ai ceti produttivi triestini, egli fa cadere l’accento sulle implicazioni economiche dell’accordo: «commercio stabile per il futuro col retroterra è possibile soltanto a condizione che i confini siano definiti e che previdenti convenzioni commerciali siano concluse con gli stati di questo retroterra. Ecco il trattato di Rapallo realizzare improvvisamente la prima condizione e porre la premessa della seconda. Trieste che vive anzitutto di interessi, non può non sentirsene soddisfatta». Del resto non mancano i sintomi di una rinascita economica (e qui si avverte un ottimismo vero, e non di facciata): La Trieste commerciale in questi due anni di regime d’armistizio, attraverso confusioni d’ogni genere e insipienze da parte del governo che tuttavia, è giusto riconoscere, è stato ben disposto e ha fatto ingenti spese per sovvenire alle tristissime condizioni lasciate dalla guerra nella Venezia Giulia, si è rimessa di molto. Il movimento complessivo dei traffici nel 1920 raggiungerà, da calcoli fatti dalla Camera di Commercio triestina, il 60% del movimento dell’anteguerra. Ma c’è di più; l’ascensione commerciale è continua, vince tutti gli ostacoli, tutte le depressioni. Non la si deve a preveggenza di governo, che anzi con tutte le sue lentezze, con la sua burocrazia e con la poca intelligenza è riuscito in buona parte a intralciarla; né forse è dovuta tanto come si vuol far credere, all’intraprendenza e alla costanza dei triestini stessi, che anzi si sono dimostrati perplessi e poveri d’iniziative sino a questi ultimissimi tempi. La ascensione è più che altro il risultato di pressioni esterne; quasi un fatto naturale. L’hinterland triestino, gli stati che si sono formati dallo sfacelo dell’impero danubiano, hanno bisogno d’uno sfogo sul mare. Barriere, confini, ostacoli di vario genere possono ritardare, ma non arrestare del tutto né far deviare il movimento del loro commercio verso un porto pronto, attrezzato, capace come è Trieste. Oggi specialmente, che il ritmo accelerato della ripresa della vita economica dopo la guerra non può attendere in questi stati che hanno soprattutto bisogno di far presto, che si aprano nuove vie alle sue correnti. Esempio tipico è la Czecoslovacchia. Primo degli stati sorti dall’Impero austro-ungarico che ha saputo con grande disciplina e solerzia

52 Marin, “Caro Dottore 1955” (forse una lettera al direttore del «Messaggero Veneto»), in Idem, Autoritratti e impegno civile - Scritti rari e inediti dell’archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di E. Serra, Serra ed., Pisa-Roma, 2007, p. 168.

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far ordine in casa e mettersi a un lavoro di ricostruzione, la Czecoslovacchia manda a Trieste un console energico, di grande intelligenza commerciale, il quale in poco tempo vincendo ostacoli d’ogni parte, organizza una rete di comunicazioni e interessi così salda e perfetta da superare le ultime riluttanze del governo, che gli concede una zona franca nel porto triestino per il transito di merci da e per la Czecoslovacchia. Non solo, ma i czecoslovacchi portano le prime navi dalla loro giovane repubblica nei cantieri triestini e considerano Trieste come porto ospite della loro flotta avvenire. Persino la Baviera ha interesse a riprendere intensamente anche più di prima della guerra le relazioni commerciali con Trieste per il traffico col Levante. L’Austria occupa il primo posto nel movimento commerciale di Trieste col retroterra nei primi sei mesi del 1920. E importantissimo ad onta delle difficoltà di passaggio e delle condizioni incerte, è stato il commercio con la Jugoslavia.

Ma, oltre a ciò, un importantissimo aspetto del trattato è costituito dalla sua dimensione politica. Sotto questo profilo specifico Stuparich si impegna a sintetizzare le reazioni delle diverse forze e dei vari movimenti d’opinione che agitano le acque triestine: i socialisti lo hanno accolto con favore, vedendovi le premesse di un più fluido rapporto coi socialisti slavi della regione e «indubbiamente così agendo saranno un prezioso elemento nella pacificazione degli italiani e degli slavi della Venezia Giulia, per lo meno fra il popolo». I «non socialisti […] non credono opportuna la collaborazione ma immaginano un modus vivendi non troppo urtante, tuttavia rigorosamente rivolto ad accelerare l’assimilazione che essi considerano ineluttabile». Ci sono poi «fortunatamente pochi, i triestini dallo spirito germanico che, non l’hanno inventato ancora, ma domani inventeranno certamente “il bastone italiano”, e il lato politico della pace con i jugoslavi considerano una umiliazione per l’Italia» (strano che, successivamente all’assalto al Balkan, non si sottolinei con ben altra energia la deriva violenta della dialettica politica: che il cauto Stuparich preferisca non parlare del diavolo, sperando così di esorcizzarlo?). Pochissimi, infine – e qui si avverte il rammarico dello scrittore – «sono ancora coloro che nel trattato di Rapallo vedono il primo passo al realizzamento delle previsioni di Giuseppe Mazzini. In vista di ciò essi considerano il problema della convivenza degli italiani e degli slavi della Venezia Giulia non per sé stesso, ma dipendente da tutta quella più vasta azione a cui è chiamata l’Italia nei paesi danubiani e nella Balcania». È il passo più squisitamente politico del discorso e, come spesso avviene in questi saggi, concentra il suo messaggio nel giro di pochi periodi: a loro non sfugge la grande importanza che potrà assumere Trieste e la sua regione, qualora invece di sfinirsi in una assimilazione locale, molto problematica del resto, dell’elemento slavo, raduna tutta la sua esperienza di civiltà e di lingue, attraverso un contatto sincero e proficuo con popolazioni allogene, e la mette a servizio della nazione. Essi non credono che sia da dare soverchio peso agli intrighi e alle tendenze subdole degli slavi giuliani, le quali non che sventate, sarebbero rassodate da ogni restrizione di libertà; essi sono piuttosto d’avviso che sia di molto preferibile un pronunciamento chiaro e sincero d’irredentismo, il quale non potrà non smorzarsi col tempo in un’atmosfera di ideale libertà. E però non sono d’accordo coi non socialisti i quali restringono l’opera di pacificazione a una sola classe e non s’accorgono che

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proprio in questo momento politico dell’Europa mediana l’Italia deve e può agire come intera nazione.

Due dunque le chiavi di lettura: la prima è volta a interpretare il Trattato di Rapallo, con ottica squisitamente locale, nella prospettiva dei problemi triestini, approfondendone le implicazioni sull’orizzonte dell’irrisolto antagonismo nazionale. La seconda, di maggior respiro, registra le possibilità “mazziniane” aperte dall’accordo con la Jugoslavia, esplicitando cioè la speranza di una ritrovata funzione riequilibratrice dell’Italia nel contesto dell’Europa centro-orientale - ancora, e per lungo tempo, «punto critico di uno spazio di odi e risentimenti»53 - come garante di politiche interessate a promuovere la collaborazione fra i popoli. In questa prospettiva, come già si è anticipato, Stuparich si muove all’unisono con antichi compagni di battaglia: la «Rivista di Milano», garantendogli un palcoscenico di larga visibilità, gli consente di ricostituire, dentro un coro di ex “interventisti democratici”, un reticolo di relazioni e di amicizie che la guerra e la prigionia avevano probabilmente allentato. Sarà importante per il prosieguo della sua vicenda intellettuale e, azzardo senza pezze d’appoggio documentarie, anche per la prossima attribuzione della massima onorificenza di guerra. Ojetti, che di lì a qualche anno gli aprirà le porte di importanti riviste, scrive in quegli stessi giorni sull’«Illustrazione italiana» (12. XII. 1920), alludendo a Zanotti Bianco: «Adesso che si è firmato a Rapallo, come dicono, la pace giusta, la pace preconizzata da lui, nessuno si è ricordato di lui, me ne ricordo io per il bene che gli voglio, pel bene che la sua fede mi ha fatto e mi fa». E Salvemini sull’«Unità»: Il compromesso italo-jugoslavo per l’Adriatico si deve salutare con piena soddisfazione non solamente perché concilia i diritti e i bisogni vitali dei due Stati interessati, ma soprattutto perché è il risultato di accordi diretti liberamente discussi e conclusi. […] Le difficoltà non sono certo finite con la firma del trattato. Anche quando siano superati gli ostacoli sollevati da D’Annunzio e dai Thaon de Revel, nuovi ostacoli sorgeranno giorno per giorno, per opera di tutte le forze nazionaliste che in Italia a in Jugoslavia si sono data la missione di mantenere in perpetuo stato di inquietudine i due paesi. I rapporti tra gli italiani e gli slavi nella Venezia Giulia, nello Stato di Fiume, in Dalmazia saranno il terreno di manovra dei mettimale.54

È come un salutarsi tra amici sparsi in differenti angoli d’Italia, a ricostituire una virtuale comunità di intenti in un lungo gioco di echi, di comprese allusioni e condivisi ideali, un chiamarsi per nome con il senso vigile di una missione da compiere, amministrando con intelligente pragmatismo l’eredità politicoideologica dell’interventismo democratico, sul terreno allora più scottante, la

53 B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Guida, Napoli, 2002, p. 52. 54 Salvemini, Il primo passo, «Unità», 18. XI. 1920.

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questione adriatica.55 Sull’orizzonte di uno spirito positivo e propositivo che la seconda redazione della Nazione ceca, di prossima pubblicazione (1922) farà, sia pure in maniera indiretta, nuovamente percepire, e che il regime si affretterà invece a smentire, varando, sulla lunga distanza, una politica sostanzialmente destabilizzatrice verso la Jugoslavia e interessatamente collaborativa nei confronti di quei paesi che avevano da dolersi dei trattati di pace: «elemento di sovversione», come è stato bene spiegato, «in una regione che la guerra mondiale aveva profondamente modificato».56 Stuparich non potrà non vedere, ma la scelta di tacere era ormai irreversibile. Di qualche mese successiva una lettera che Giani invia a Elsa Dallolio che lo spingeva a riprendere in mano il libro sui cechi, per farne cosa nuova e aggiornata. Vi si leggono alcune frasi che rivelano cosa maturasse nell’interiorità dell’uomo, sotto la superficie di un’attività pubblicistica che nulla lascia trasparire dei problemi più intimi e assillanti. «Vede», scrive all’interlocutrice in data 17 febbraio 1921, il mio interesse per ciò che non sia problema interiore, vita religiosa se vuole, non s’è risvegliato ancora. Ma mi sono abituato a fare tuttavia qualche cosa, per amore degli amici. Se mi occupo di politica è per quel senso di dovere che mi è rimasto dall’ultimo periodo d’amicizia con Scipio Slataper; se qualche volta studio qualche problema scolastico, è per l’affetto che porto al mio amico Biagio Marin, un vero sacerdote dell’idealismo educativo, misconosciuto da tutti; se farò il libro sugli czechi sarà dunque perché la mia amica Dallolio crede bene che io lo faccia. In fondo mi pare che questo argomento dell’amicizia sia per me il più persuasivo. Quanto a ciò che mi preoccupa centralmente o soggettivamente, lo faccio maturare dentro senza scalmane, e un giorno forse potrebbe uscire come opera di poesia, ma un giorno molto lontano.57

Ancora sui problemi locali la riflessione del 5 marzo 1921: Autonomia e liberismo nella Venezia Giulia, nella quale, come già in conclusione della prima parte di Trieste diviene, Stuparich incrocia il tema del commercio con quello scolastico, sullo sfondo di una appassionata petizione per forme di autonomia locale.58 55 Ancora e di nuovo il «reale discrimine tra nazionalisti, irredenti e liberali di destra da una parte e interventisti democratici, socialisti nazionali e sindacalisti dall’altra». Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 81. 56 Cfr. G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, 1925-28, Laterza, Bari 1969, p. 13. 57 La lettera si legge, per esteso, in appendice a Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 154-155. 58 Come conferma dell’importanza assegnata a questo motivo nei più diversi ambienti politico-culturali della città che cambiava collocazione statuale, si dovrà ricordare che anche intellettuali di provenienza nazional-liberale coglievano la necessità di conservare alla Trieste italiana quegli ordinamenti che ne avevano garantito, già in epoca austro-ungarica, un certo margine di autonomia nell’ambito della compagine asburgica. E il pensiero corre in primo luogo, per il valore del personaggio e l’importanza delle proposte, a Francesco Salata, irredentista di origine dalmata, a capo dell’Ufficio Centrale per le Nuove Province creato nel 1919, quindi tra gli artefici del successo diplomatico del Trattato di Rapallo, fondatore del periodico «Le Nuove Province», dalla breve vita (luglio 1922-giugno 1923) ma ricco di proposte sul piano politico e amministrativo. Parlamentare e diplomatico, si batté negli anni

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Una rivendicazione sulla quale gli esponenti più lungimiranti del mondo economico si muovevano in sostanziale accordo con le sinistre cittadine, e con i repubblicani in particolare (e sul quale invece era freddo, se non ostile, il Fascio triestino) e dove si avvertono nuovamente echi salveminiani, se consideriamo il fatto che i motivi dell’autonomia e del liberismo rappresentavano la bandiera che nel dopoguerra era stata costantemente agitata dall’«Unità» come soluzione ideale per i problemi del Sud.59 Se prima dell’annessione, concede Stuparich, ci si era mossi cautamente su tale terreno, per non dar adito al sospetto di nostalgie asburgiche, ora si può finalmente parlar chiaro. Lo «sgoverno» italiano del porto e del commercio ha portato al risultato che «l’emporio triestino si è visto accorciare, se non addirittura togliere, le condizioni indispensabili del suo commercio. Barriere doganali rigidissime e sostituzione del burocratismo statale all’attività dei privati. Il regime assolutamente protezionistico dello stato italiano, aggravato dal permanere di tutte le abitudini accentratrici della guerra, si è abbattuto come un peso formidabile sul commercio triestino a soffocarlo nel suo rinascere. Non bastarono le barriere doganali, la tignosa politica tariffaria, il controllo burocratico inceppatore: vennero anche i monopoli». Un accenno che Stuparich non si limita a porre nel vuoto, ma articola in un ragionamento approfondito e competente, invocando quindi «le libertà dei commerci» e «una sana politica di tariffe e di noli». Segue l’esposizione del problema della scuola: La scuola, come il commercio, essendo uno degli organi più sensibili della vita giuliana, risente prima il danno dell’accentramento e contro questo reagisce. La scuola italiana della Venezia Giulia, pur soffrendo immensamente sotto il regime clericale e poliziesco dell’Austria, aveva saputo conquistarsi una posizione tutta sua. Alla volontà del governo austriaco che la voleva senz’anima, essa ha opposto sempre la sua volontà d’avere un’anima italiana. Si è giovata di tutto, dello stesso sistema che le era stato imposto, per essere in grado di dare ai suoi allievi un’educazione tale da servire di base poi alla difficile lotta che avrebbero dovuto sostenere giorno per giorno per salvare alla loro regione il suo carattere italiano. In queste condizioni una scuola che voglia raggiungere un simile scopo, deve diventare una scuola buona. E difatti la scuola giuliana, a detta di tutti gli uomini più benemeriti nel campo educativo d’Italia che l’hanno conosciuta, era una buona scuola. Ora non c’è del fascismo anche in funzione anti-tedesca per la conservazione di un’Austria indipendente (vedi: F. Salimbeni, Da «Le nuove province» alla «Porta orientale»: la Venezia Giulia degli anni venti tra utopie amministrative e nazionalismo culturale, in Quirino Principe, a cura di, La Mitteleuropa negli anni Venti, ICM, Udine, 1992; E. Capuzzo, Francesco Salata e il problema dell’autonomia nelle nuove province, in M. Garbari e D. Zaffi, a cura di, Autonomia e federalismo, ecc., cit.; e L. Riccardi, Francesco Salata tra storia, politica e diplomazia, Del Bianco, Udine, 2001). È ovvio del resto che tutti gli studiosi che si sono occupati del periodo e delle forme del trapasso Austria-Italia nelle province orientali abbiano dedicato un certo spazio al tema dell’autonomia. Particolarmente stimolante, per le precisazioni di ordine politico che consentono di collocare in un preciso contesto la posizione di Stuparich è, però, a mio avviso, Silvestri, Dalla redenzione al fascismo Trieste 1918-1922, cit., in special modo p. 113 e segg. 59 Si veda a proposito G. De Caro, Salvemini, UTET, Torino 1970, dove la ricchezza di informazione è negativamente bilanciata dall’atteggiamento polemico, più che equilibratamente critico, nei confronti della figura storica del protagonista.

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nessuno che non veda quanto assurdo sarebbe, per raggiungere un livellamento con la vecchia scuola, togliere a questa nuova della V. G. la sua fisionomia e le sue prerogative. Tanto più che la scuola italiana ha bisogno di molto progresso e che non potrebbe se non giovarsi della mantenuta posizione d’avanguardia della sua sorella giuliana. La burocrazia però ha dimostrato sufficientemente che questo che sembra un assurdo, sta per diventare, in grazia sua, realtà. Gli insegnanti della V. G. consci del pericolo, hanno capito che l’unico modo di salvare la loro scuola era mantenere l’autonomia regionale. Per merito degli insegnanti medi si è iniziato un movimento, rivolto a chiedere al governo che quell’autonomia platonicamente promessa alle nuove province, cominci a concedere effettivamente alla scuola, dove il pericolo di pretesi separatismi non c’è, anzi se mai ci sarebbe il vantaggio di non dover concedere l’autonomia alle scuole slave.

Richiamerà poi l’attenzione, e non certo per spirito corporativo, su uno degli ordini del giorno approvati dalla «Lega degli Insegnanti medi della Venezia Giulia», di cui mette in evidenza, nella richiesta di una scuola liberale e laica, il voluto, vitale collegamento con la «nobile tradizione del nostro risorgimento». Ma cosa chiedono gli insegnanti? Laicismo, autonomia («la scuola deve essere sottratta ad ogni autorità oltre da quella che emani da essa stessa, cioè dalla universitas studiorum»), collegamento stretto con la realtà regionale, nello spirito di un disegno complessivo di decentramento («quindi i consigli scolastici regionali appaiono la soluzione migliore, evitando i danni dell’accentramento e del decentramento eccessivi»). «È chiaro dai punti suaccennati», conclude Stuparich, che gli insegnanti, domandando l’autonomia della scuola regionale, non hanno nessun desiderio, come qualche maligno burocrata potrebbe far credere, di perpetuare la scuola austriaca; anzi con l’autonomia essi pensano non solo di salvare i lati vitali della scuola giuliana, ma di sopprimere più facilmente gli inceppamenti, che essi ben conoscono per esperienza, al suo sviluppo ulteriore. Solo dentro la cornice regionale, più consentanea ai mutamenti concreti e necessari che la rigida periferia dello Stato, può avvenire un utile integramento della base seria raggiunta dalla scuola della Venezia Giulia con le migliori conquiste nel campo spirituale fatte dalla scuola del vecchio regno. L’autonomia scolastica chiesta dagli insegnanti della Venezia Giulia mira più in là. Mira a creare le premesse reali per quel decentramento che solo può mettere sulla buona strada l’Italia e far rispettare agli italiani lo Stato. La Venezia Giulia avrebbe risolto il suo compito se insieme con il Trentino potesse segnare nella storia d’Italia il primo passo verso uno stato di bene equilibrate autonomie, quale fu sempre nella mente dei più grandi uomini politici italiani.

Un contributo che non ha bisogno di commenti. In Trieste nei miei ricordi Stuparich racconta la sua partecipazione alla stesura di una petizione al Ministro dell’Istruzione, Benedetto Croce – documento che si legge ora in appendice ad un ampio, fondamentale saggio di Marino Raicich60 – quando ancora si pensava che il Regno avrebbe voluto far tesoro della lunga e positiva esperienza pedagogica 60 M. Raicich, La scuola triestina tra «La Voce» e Gentile 1910-1925, in R. Pertici, a cura di, Intellettuali di frontiera – Triestini a Firenze (1900-1959), Atti del convegno, 1983. Firenze Olschki, 1985. Vol I, p. 298 e segg.

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maturata nelle nuove province orientali, negli anni della loro appartenenza imperial-regia, valorizzando, nelle forme più opportune ma con disponibilità e lungimiranza, la specialità regionale. Poi, come si sa, la “riforma Gentile”, chiuse definitivamente la porta ad ogni discussione. E la scuola giuliana cominciò il percorso «dalla gioia alla noia» (la gioia per la nuova patria italiana, la noia rassegnata di una grigia normalizzazione), come titola Renate Lunzer il capitolo dedicato a «Die Schule der Venezia Giulia im Übergang» – ciò che di meglio è stato scritto fino ad oggi in prospettiva generale sul tema – nel suo Triest - Eine italienisch-österreichische Dialektik.61 Ancora politica invece nelle dense pagine di Le tre circoscrizioni giuliane (giugno 1921), un saggio stilato all’indomani delle prime elezioni nella Venezia Giulia da pochissimo annessa all’Italia. Come spesso in questi contributi l’attacco è ironico e frizzante: qui i complimenti di Stuparich alla commissione che aveva deciso la distrettuazione elettorale62 della Venezia Giulia, favorendo una clamorosa affermazione dei candidati slavi, 5 mandati, e dei comunisti 2 mandati, contro 8 eletti invece per le forze del “Blocco nazionale”. Segue poi un’attenta e competente disamina dei caratteri e delle strategie dei maggiori partiti giuliani. Con osservazioni così pertinenti e analisi così ben condotte (sul filo, perfino, di un evidente piacere della disquisizione approfondita) da suscitare stupore per quanto radicalmente Stuparich abbia voluto in seguito espungere dal suo campo d’osservazione temi su cui, a quanto è dato da vedere, sapeva muoversi, ponderando i pro e i contro, le ideologie e le strategie, da vero padrone di casa. Lo spiega, certo, la svolta verso la narrativa, ma anche quando successivamente lo scrittore ritornerà ad allargare lo sguardo verso storia e società – e lo farà esclusivamente, fino al crollo del fascismo, toccando motivi relativi alla guerra, alla memoria di essa e alla sua celebrazione – vorrà invariabilmente collocarsi sul piano, elevato e astratto, dei più alti principi, come se la politica, nella sua specificità e concretezza, avesse per lui cessato totalmente di esistere (in un contesto per altro, marcato dal deciso affievolirsi, se non in termini servili e apologetici, della volontà di dibattito). Conclusione del saggio, per tornare a tema, è che «vinti furono i socialisti unitari, vincitori i fascisti». I socialisti, appunto, uno dei terreni d’analisi preferiti da questo Stuparich saggista, come se avesse riposto in essi grandi speranze per la città e per il Paese, e se le vedesse invece sfumare sotto gli occhi occhi (per altro, il fatto che il PSI nell’immediato dopoguerra, avesse «sciupato l’occasione storica per una svolta democratica in Italia», 63 è opinione ormai ampiamente condivisa dagli storici): Se si fossero fatte le elezioni un anno fa, i tre collegi della Venezia Giulia avrebbero eletto nove deputati socialisti o per lo meno altrettanti quanti ne ha eletti ora il blocco. 61 Wieser Verlag, Klagenfurt 2002, p. 223 e segg. Dispiace che, nella traduzione italiana del libro di R. Lunzer, Irredenti redenti, cit., proprio questo capitolo sia stato tralasciato. 62 Su questo tema particolarmente istruttivi dati e osservazioni in Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini, cit., pp. 375-412. 63 Cfr. E. Giovannini, L’Italia massimalista. Socialismo e lotta sociale e politica nel primo dopoguerra italiano, pref. di G. Arfé, Ediesse, Roma, 2002, p. 225.

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L’esercito socialista non era una frase, era una realtà. Ma questo esercito, come hanno dimostrato i fatti, non era un esercito di combattimento, era un esercito di parata.

Nulla fa pensare che di quell’«esercito di combattimento» Stuparich sentisse qualche nostalgia. Scomparse dietro lo spartiacque della Grande guerra le schiere disciplinate e pazienti della Seconda Internazionale, la cui «sede privilegiata» di estrinsecazione politica erano stati i Parlamenti, 64 si erano fatte avanti sul proscenio della Storia masse accese di cupo fervore, interpreti di uno stile politico violento e aggressivo, pronte a lanciarsi, all’apparenza almeno, nella tragica avventura della rivoluzione. Ma l’enfasi si era sgonfiata, 65 lo slancio caduto, restava solo l’«esercito di parata». E a renderlo tale, secondo Stuparich, principalmente due fattori: la tendenza «idropica» ad accogliere nel partito intere categorie di lavoratori senza educazione e senza disciplina socialista, e quella «isterica» di convogliarvi schiere di malcontenti, alimentando forme di estremismo infantile perfino in seno alle organizzazioni sindacali, «là dov’era la parte più sana e più robusta del partito del socialismo giuliano». Qui c’erano condizioni speciali, si poteva maledire alla guerra in genere finché si voleva, per rimaner coerenti alle proprie idee, ma non si doveva svalorizzare la guerra d’Italia che anche per i socialisti giuliani fu una guerra di liberazione. Si creò invece l’equivoco, per calcolo politico; e l’equivoco permise il rafforzarsi del russismo e impedì l’educazione socialista di quella parte molto numerosa di neofiti, “lavoratori di penna”, che non potevano cancellare il loro passato di sentimento irredentista. Costoro, al primo sbandarsi, si buttarono in parte e seguirono poi il manipolo dei fascisti; quelli altri, i comunisti, si strinsero più insieme per reazione e finirono con l’affermarsi con 20.500 voti e due mandati. Cosicché, fatto strano ma prevedibile, mentre il rivoluzionarissimo partito socialista del resto d’Italia superava la crisi del comunismo, il disciplinatissimo partito socialdemocratico della Venezia Giulia ne soccombeva.

La penna batte, si direbbe, dove il dente duole. E in questo caso vola dritta a stigmatizzare quell’ «antibellicismo postumo e vendicativo», 66 come è stato scritto, che Stuparich considerava in primo luogo un’offesa ai valori della Patria e, in modo particolare, allo spirito risorgimentale di cui, come volontario giuliano, si sentiva portatore; e in secondo luogo, una tattica suicida per un partito che voleva trovare spazi nella società italiana uscita dalla guerra (in realtà egli sottovalutava il fatto che continuava a persistere nella sensibilità dei ceti popolari del Paese quella frattura tra esercito e nazione che Melograni ha definito l’«insuccesso

64 M. Degl’Innocenti, Premessa a Id., a cura di, Filippo Turati e il socialismo europeo, Guida, Napoli, 1985, p. 12. 65 Così il De Profundis del biennio rosso sul «Corriere della Sera» del 29 settembre 1920: «l’Italia ha corso il rischio di crepare. La rivoluzione non si è fatta non perché ci fosse chi le contrastava il passo, ma perché la Confederazione del lavoro non l’ha voluta», cit. in E. Sereni, Le origini del fascismo (I ed. italiana 1998), Ed. Trabant, Brindisi, 2015, p. 67. 66 Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, cit., p. 82.

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“civile” della guerra»67, una rabbia a posteriori delle masse per una guerra che era stata loro imposta e che le aveva assai poco “nazionalizzate”). Quindi, nella rassegna delle forze politiche, è il turno del fascismo: più uno stato d’animo che un partito (e che questo non-partito riuscisse, nel giro di poco più di un anno, a conquistare il potere, non dev’essere ascritto ad un difetto d’analisi di Stuparich, se tutta un’élite politico-culturale subì lo stesso abbaglio68), ma di fronte al quale perfino «il vecchio liberalismo triestino che vantava pur qualche merito nella lotta per l’italianità di queste terre abdic[ò] con mansuetudine ai propri diritti, dopo una breve resistenza per farli valere». I fascisti riuscirono vittoriosi su tutta la linea in Istria e a Trieste: 5 deputati fascisti su 8 del blocco, con l’aggiunta d’aver portato alla vittoria tutto il blocco dei 59.000 votanti. Magnifica sorte, se il fascismo fosse un partito! Ma il fascismo è un potente suggestionatore, altrettanto quanto la canzone che ha fatto sua: “Giovinezza...”! Il fascino del fascismo somiglia molto a quello del futurismo ed è più che naturale che in una regione come la Venezia Giulia dove l’Italia è amata con poesia, direi quasi con passione estetica, trovasse un terreno molto adatto. Non si spiega se non per l’azione di questo fascino, come moltissimi elettori, amanti del quieto vivere, timorosi della tattica troppo spontanea del fascismo, si recassero tuttavia a imbustare le schede col fascio e la scure, dimentichi dei propri interessi, senza pretender nulla, paghi di compiere un loro dovere sentimentale.

Infine il partito repubblicano, quello maggiormente capace, secondo Stuparich, di guardare al futuro: Meno sentimentali invero questa volta furono i repubblicani; perché avevano un’idea e un programma da far valere; anzi se guardiamo bene erano i soli che avessero un programma concretamente nazionale. I repubblicani scesero perciò in lizza con proprie liste bloccate. Ciò produsse in chi conosceva il partitino repubblicano dell’anteguerra, non so se più sdegno o meraviglia. Sdegno perché non si accodavano alla maggioranza, meraviglia perché avevano il coraggio di sostenere un programma, sfidando l’impopolarità. Come mai questi fascisti italiani in regime austriaco, giovani scapigliati che non conoscevano paura di galere, non andavano ora d’accordo coi fascisti in regime italiano? La meraviglia e lo sdegno crebbero quando nel periodo elettorale i repubblicani fecero impressione d’esser più forti di quel che generalmente si credeva. In nessun collegio raggiunsero il quoziente, ma a Trieste ebbero più voti dei socialisti: 4.500 di fronte a 4.150, e complessivamente nei 3 collegi s’avvicinarono ai 9.000 voti. Che cosa rappresenta questa minoranza? Un fatto nuovo forse nella storia della Venezia Giulia: un rovesciamento dell’antica mentalità, un tentativo di essere e di agire italianamente senza più bisogno di tastarsi da ogni parte e di chiedersi: ma sono veramente italiano? Senza bisogno di battere il muso agli slavi per sentirsi a posto, senza più riguardo né 67 P. Melograni, Storia politica della grande guerra (1915-1918), Laterza, Bari, 1969, p. 105. 68 Il tema è molto frequentato dalla storiografia. Non si dimentichi che anche l’acuto Gramsci – per dire di uno dei più attenti osservatori della realtà politico-sociale del proprio tempo – in un intervento molto noto sull’«Ordine Nuovo» del 2 gennaio 1921, Il popolo delle scimmie, negando al movimento fascista una concreta sostanza politica, era giunto alla conclusione che mai sarebbe stato in grado di conquistare lo Stato, sovvertendo il quadro istituzionale della pur traballante e squalificata Italia liberale.

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paura di un’Austria che non esiste più né può resuscitare. Ed è perciò che i repubblicani sono una minoranza che, se saprà mantenersi nella posizione in cui è, e rendersi sempre più ricca d’attualità, potrà divenire una grande forza politica della regione.

Straordinariamente interessante, a mio avviso, la definizione dei repubblicani come «fascisti italiani in regime austriaco»:69 una formula che dimostra la capacità dei fascisti – forse per il loro stesso confusionismo ideologico, tanto strumentale quanto oggettivo – di accreditare anche presso settori non ingenui dell’opinione pubblica un’immagine di sé come forza giovane e dinamica, intemperante e intransigente, ma per accessi di febbre tricolore, come lo erano stati gli irredentisti storici di marca repubblicana. Legati ad essi, per di più, da un prestigioso “idioma” comune: quello vantaggiosissimo, per garantirsi il successo presso l’opinione pubblica triestina, della religione della patria. Non un movimento teso all’eversione dello Stato liberale dunque, ma, al massimo, teppistelli indisciplinati e maneschi, ragazzacci infoiati di passione patriottica, fautori certo di una «tattica troppo spontanea», ma che presto si sarebbero acclimatati alle regole e alle procedure del sistema democratico e, smesso l’orbace, avrebbero, con giacca e cravatta, trovato il loro posto fra la gente per bene. Le conclusioni di Stuparich? Se consideriamo la campagna elettorale e i risultati delle elezioni nella Venezia Giulia, lasciando da parte gli slavi che, tutto merito della circoscrizione “assennata”, si sono concentrati disciplinatamente verso una politica non di rivendicazioni nazionali, ma di garanzie, come dicono loro; proviamo l’impressione che nella maggioranza gli italiani della Venezia Giulia si sono dimostrati dei gran «buoni italiani», ma politicamente assai inferiori agli altri italiani, da cui dovranno imparare ancora molte cose, delle quali una principalmente: che la politica in Italia non si fa a base di «nazionalità», come nell’Austria defunta; e che a voler conservare certe forme di lotta le quali non hanno nessuna giustificazione neppur nelle condizioni speciali della Venezia Giulia, si corre rischio di toglier a sé e agli altri ogni chiara visione di ciò che si rappresenta regionalmente e quindi fattivamente per la nazione.

Chiude la collaborazione di Stuparich alla «Rivista di Milano» un saggio sul Problema della cultura a Trieste (5 ottobre 1921), che prende spunto dalla constatazione degli scarsi echi avuti in città dall’XI congresso della Società delle Scienze. L’episodio obbliga a rilanciare, sottolinea lo scrittore, il tema della cultura a Trieste, riprendendo il discorso là dove lo avevano lasciato due grandi protagonisti del recente passato, Ferdinando Pasini che, per i Quaderni della Voce aveva condotto, nell’immediato anteguerra, un’equilibrata riflessione sul tema dell’Università italiana e Scipio Slataper, «quel giovane che sulla Voce di Firenze scriveva con coraggio le lettere triestine, a rabbia e scandalo grande dei suoi concittadini; […] quello stesso che pure serbò sempre, sino all’ultimo momento, 69 Va aggiunto, per amore di verità, che la formula non manca di una sua sostanziale ambiguità, perché potrebbe essere impiegata, nel discorso di Stuparich, per rappresentare l’opinione dei fascisti stessi, e non dello scrittore, a proposito dei repubblicani della Trieste austriaca. Rimane il fatto che non sono assenti, negli articoli scritti per la «Rivista di Milano», giudizi positivi sul movimento fascista.

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una grande fiducia nella sua città, nel valore a cui sarebbe potuta assurgere, per il bene comune e il prestigio d’Italia, qualora avesse saputo interiorizzare e sfruttare la sua ricca posizione d’incrocio di tre civiltà». In effetti, la richiesta di un’Università a Trieste, ripresentata sommessamente dopo l’arrivo dell’Italia copriva invece dei seri problemi culturali che non avevano perduto per nulla la loro attualità e importanza nel momento della liberazione. Di mutato non c’era che il fatto che nessuno dei triestini intelligenti poteva desiderarsi a Trieste una copia delle tante inutili università del Regno; ma che a Trieste, dopo come prima della redenzione, ci fosse bisogno di coordinare gli organi di coltura, dare incremento alle istituzioni povere, migliorare e aumentare il poco che c’era in questo campo, nessuno che avesse considerato la realtà come realtà, poteva mettere in dubbio.

Allargando lo sguardo su un più ampio orizzonte si capisce però che «il problema della cultura a Trieste è sempre ancora incardinato sul doppio fatto contraddittorio che da una parte mancano i mezzi e le iniziative per crearvi una vita culturale salda ed organica, mentre dall’altra le premesse spirituali e il campo d’esperimento per una cultura originale ci sono e quanto mai fonde e attraenti». Non si tratta ad ogni modo di «chiedere un protezionismo culturale» ma di rendersi conto che «la povertà delle istituzioni indici di cultura è una povertà più di forma che di materia». Problema che riguarda non soltanto le istituzioni, ma pure le iniziative: le quali sono state molte e in vari tempi, ma quasi sempre sono fallite; non perché il terreno non vi fosse propizio ma perché l’atmosfera avvelenava le piante appena cresciute. Il problema è qui: è un problema di ventilazione e di coordinamento. È un problema che si complica perché i triestini non ne sono ben consci e perché gli italiani delle vecchie provincie non hanno nessuna seria intenzione di studiarlo né di contribuire a risolverlo.

Stuparich mette il dito sulla piaga, anzi sulle piaghe di una città che, forse troppo recentemente digrezzata e nonostante le ricche potenzialità non ha mai saputo dare importanza al valore civile della cultura e se lo ha fatto, ciò è avvenuto nell’ambito di logiche partigiane e clientelari. Qualche scrittorello di provincia, espressione di un tronfio ma semicolto notabilato, ha finito così per figurare come un genio in assoluto, e le ottuse strategie di difesa nazionale sono state gabellate per una missione di civiltà; in una città i cui celebrati intellettuali – un Attilio Hortis, per esempio, che Giani nemmeno menziona (ma, seguendo Slataper, c’è una bella frecciata alla Biblioteca Civica, «quasi inutilizzabile benché fornita di parecchie raccolte non disprezzabili») – si sono preoccupati del proprio prestigio personale e delle piccola fama cittadina piuttosto che di far funzionare le istituzioni loro affidate. Uno sviluppo distorto a prospettive zero: visione realistica che Stuparich stesso cerca di attenuare intonando il solito mantra – commercio più cultura – e orientando in tal senso, anche in questo saggio, la sua proposta di soluzione: Non importa tanto, in primo luogo, stabilire quale forma d’Istituto Superiore più convenga [a Trieste], quanto invece rendersi conto, pur attraverso la falsa apparenza

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dei fatti, che [essa] può e deve avere anche una funzione culturale nella nuova Italia. Invece pare che si diffonda sempre più nelle vecchie provincie il preconcetto che Trieste debba ancora essere italianizzata. Come se non avesse sofferto abbastanza, abbandonata da tutti, per farsi un’italianità sua propria! Lasciarla vivere e progredire in questa sua italianità, è già da parte degli altri italiani un risolvere a metà il problema della sua cultura. Ché gli italiani della Venezia Giulia, riavuta fiducia in sé stessi e scossa l’inerzia, finirebbero col risolverlo del tutto.

Una nota di speranza ed un auspicio, mentre già la vita indirizzava l’improvvisato giornalista verso altre mete. Se il tema dell’autonomia giuliana non troverà però alcuna risposta nel senso postulato da Stuparich nel complesso dei saggi milanesi, diverso invece il caso di una rinascita culturale strettamente collegata con le esigenze del rilancio commerciale, a partire dall’istituzione, nel 1920, dell’Istituto superiore di scienze economiche commerciali. Quasi che lo scrittore avesse visto giusto, sognando una nuova prosperità triestina. Nel corso degli anni Venti i poteri emergenti, anche in camicia nera, le vecchie élite cittadine e i gruppi industriali, finanziari e assicurativi seppero infatti attuare, anche con buoni risultati, varie forme di sinergia sfruttando le consolidate ramificazioni centro-europee delle compagnie assicurative, tanto che «il capoluogo giuliano divenne il perno della politica negoziale con gli Stati vicini, in particolare con l’Austria, ricevendo in cambio il sostegno statale ai gruppi economici locali, alcuni dei quali occupavano posizioni dominanti nel mercato italiano». 70 Operazioni dove si distinse, fra gli altri, un esponente del vecchio partito liberal-nazionale, Iginio Brocchi, prima a fianco di Giuseppe Volpi, ministro delle Finanze, quindi Presidente della Confindustria: sembravano così coincidere nello spirito grazie ad arditi grands commis e ad abili capitani d’industria vicini al nuovo regime quei due programmi «irredentista e mediterraneo» che Gioacchino Volpe, cantore delle splendide sorti e progressive dell’Italia in cammino71sotto la guida di Mussolini, aveva visto iscritti nelle ambizioni e nei progetti dell’interventismo, all’alba della Grande Italia. Che poi, con la crisi del 1929 le attese più rosee si dovessero molto sgonfiare è un discorso che non ci appartiene. Il 1921 apre per lo scrittore possibilità del tutto inattese: si profila per Stuparich l’eventualità di un incarico di lettorato all’Università di Praga. Ragioni soprattutto culturali lo spingerebbero ad accettare, come pure l’affettuosa insistenza degli amici, in primo luogo Elsa Dallolio e Prezzolini, che non si rassegnava a vedere ammuffire il brillante intellettuale in una scuoletta di provincia. Come poi si giunse alla nomina ed alla partenza di Giani per la Boemia, alla fine del 1921, lo spiega benissimo Apih in un capitolo del suo libro: e si tratta di una di quelle tragicomiche sceneggiate cui ci ha abituati la burocrazia italiana. Probabilmente, 70 P. Cuomo, Le relazioni politico-finanziarie con l’Austria tra le due guerra, in AA. VV., P. Barucci, S. Misiani, M. Mosca a cura di, La cultura economica tra le due guerre. Franco Angeli, Milano, 2015, p. 50. Da vedere anche Id., Il miraggio danubiano. Austria e Italia politica ed economia 1918-1936, Franco Angeli, Milano, 2012. 71 G. Volpe, L’Italia in cammino (1927), Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 188.

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a rendere più difficilmente risolvibile la questione della nomina, ci fu qualche sotterranea opposizione negli ambienti dell’amministrazione comunale triestina, che avrebbe dovuto concedere il nulla osta al suo insegnante. e a cui certo sfuggiva ciò che invece a Roma si capiva bene, ovvero che iniziative di “apostolato” culturale nella giovane repubblica cecoslovacca avrebbero potuto controbilanciare la «propaganda antitaliana della Jugoslavia, molto diffusa dagli organi di stampa cecoslovacchi». 72 Dei cechi, bisogna aggiungere, Giani non aveva mai cessato di occuparsi, approfondendo riflessioni che, come ha ben chiarito Angelo Ara, 73 andavano a collocarsi nell’orbita del suo mazzinianesimo. E proprio a proposito della giovanissima repubblica, Stuparich, nella tarda primavera del 1922, poco prima di rientrare in Italia, entrò in polemica con Attilio Tamaro, che nel 1921 aveva espresso sullo Stato cecoslovacco giudizi severi e non del tutto infondati, reagendovi con un articolo apparso sul «Popolo romano» dell’8 giugno 192274 (una difesa d’ufficio, se consideriamo le preoccupazioni sul clima politico del nuovo stato espresse in una lettera alla Dallolio del 30 gennaio 1922?75), proprio quando ha finalmente occasione di conoscere personalmente Zanotti Bianco presente a Praga insieme a Facchinetti per un congresso della Società per la Lega delle Nazioni. Al periodo praghese risale un’interessante lettera a Gaetano Salvemini, scritta da Trieste, nei giorni di un rapido ritorno a casa, in data 30 marzo 1922. Vi si ragguaglia lo studioso sul lavoro svolto in Boemia, vi si prospettano intenzioni di ricerca relative allo svolgimento del pensiero di Mazzini (Salvemini lo sconsiglierà di mettersi su una strada tanto difficile), si confessa infine una certa impreparazione riguardo alla bibliografia mazziniana. Ma vediamo più da vicino il passo di maggior interesse: Le mie lezioni hanno avuto un carattere modesto: mi sono limitato a esporre il contenuto degli scritti mazziniani sistematicamente, per ordine cronologico, soprattutto degli scritti letterari e filosofici. La bibliografia su Mazzini, eccezion fatta delle pagine desanctisiane, della biografia del Bolton King, del Suo libro pubblicato dalla Voce e dei due articoli del Gentile, non la conosco, non ho avuto il tempo di leggermela: nella scelta, imposta dal breve respiro di preparazione concessomi per le mie lezioni, fra la bibliografia sulla base d’una conoscenza frammentaria e superficiale delle opere di Mazzini e la conoscenza pura e semplice, ma più solida di esse, mi sono deciso naturalmente per quest’ultima.76 72 Cfr. S. Santoro, L’Italia e l’Europa Orientale. Diplomazia culturale e propaganda 1918-1943, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 86. 73 Ara, Giani Stuparich osservatore del suo tempo, in Giani Stuparich fra Trieste e Firenze, Atti della giornata di studi, 31 Marzo 2000, ANVGD, Roma, 2001, p. 25. 74 Per questo episodio vedi Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 106-107. 75 In Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 118. 76 Si legge in M. Marchi et alii, Catalogo della mostra Intellettuali di frontiera - Triestini a Firenze (1900-1950). cit.

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Ci sarebbe ovviamente molto da dire: iscrivere intanto Stuparich (ribadendo conclusioni già proposte) nel contesto di un mazzinianesimo “sentimentale”, più che “scientifico”, se il termine è in questo caso appropriato, sottolineare quindi la stretta relazione della sua interpretazione di Mazzini con quella di Salvemini,77 chiedersi infine se avesse colto (e avallato) la particolare torsione del Mazzini gentiliano, pienamente esplicitata nel volume del 1923 I profeti del Risorgimento italiano78 (ma riedizione, con aggiunte e ritocchi, di un saggio apparso già nel 1919), in cui Gentile pone una decisa ipoteca attualistica sulle massime espressioni del Risorgimento. Sicuro è che questa nuova impennata di interessi mazziniani, con gli approfondimenti che comporta, non potrà avere riflessi sulla seconda redazione del libro sui cechi, la Nazione ceca, ultimato, come indica la data in prefazione, già nel dicembre 1921. Una redazione che, se «non ha la freschezza di scoperte e di impressioni della precedente»,79 risultando anzi affaticata da una preoccupazione documentaria che ne rende meno godibile la lettura, è pure libro di tutto rispetto. Canto del cigno si direbbe di quell’interventismo democratico, maturato intorno agli ambienti redazionali e ideologico-culturali dell’«Unità» salveminiana e della «Voce» prezzoliniana, cui era sfuggita la presa sull’Italia post-bellica che presto avrebbe relegato i suoi protagonisti maggiori nell’icona stigmatizzante di “rinunciatari”, ma che pure, con il Trattato di Rapallo pareva aver segnato un punto contro miopi visioni di “sacro egoismo” e di “missione imperiale”. La Nazione ceca dunque, tappa che non si può trascurare in un discorso che intenda seguire, storicizzandola, la parabola del saggista politico-civile. Un libro conclusivo, del resto – con una ricca varietà di motivi e di umori, a venarne l’indiscutibile omogeneità tematica – perché continua e completa, con ambizioni di bilancio, il racconto che la prima Nazione czeca aveva lasciato in sospeso, aggiornandolo ai nuovi dati di fatto della storia, e seguendo la rinascita ceca fino alla raggiunta indipendenza. Trovava così compimento, anche nel resoconto storiografico, quella straordinaria epica di un “popolo senza storia”, capace di ridiventare nazione, ricostruendo, ma su basi solide e moderne, la sua 77 Si vedano, per un primo orientamento Salvemini, Il pensiero religioso politico sociale di Giuseppe Mazzini, Trimarchi, Messina, 1905; Idem, Giuseppe Mazzini, La Voce, Roma, 1920. E, per ulteriori approfondimenti interpretativi, Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, cit., e Vivarelli, Salvemini e Mazzini, cit. 78 Da vedere: R. Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile, in «Giornale storico della filosofia italiana», 1999. Così l’autore: «più che ad una analisi storica rinnovata, siamo ormai di fronte a uno studioso che piega i concetti e i problemi storici ai suoi intenti mitopoietici e ne fa la base di un’oratoria politica in cui tali miti storiografici giocano un ruolo essenziale» (p. 130). Da notare che Gentile chiamava alla sbarra, come massimi imputati di un processo senza appello, due nomi fra i più significativi dell’interpretazione democratica di Mazzini (Gaetano Salvemini e Alessandro Levi), proprio quella assimilata e celebrata da Stuparich, con inconcussa fedeltà, fino alla morte. Per l’appropriazione del mito risorgimentale da parte del fascismo, sul piano dell’organizzazione della cultura e dei contenuti ideologici, imprescindibile M. Baioni, cit.; interessante per la inusuale prospettiva storiografica Myra E. Moss, Il filosofo fascista di Mussolini. Giovanni Gentile rivisitato, Armando editore, Roma, 2007, spec, p. 95 e segg. 79 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 114.

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compagine statuale. Vicenda che, per i sottintesi “risorgimentali”, conquista il cuore e l’intelligenza di questo Stuparich del dopoguerra, perché ne conferma il sacrificio e ne lenisce le preoccupazioni, di fronte ad un continente, un Paese e una città risucchiati nella spirale dell’odio. Con la stessa velocità di quella italiana, era andata infatti deteriorandosi la situazione internazionale e non poteva non esserne profondamente disorientato chi aveva creduto nella formula di una guerra non solo di redenzione nazionale, ma di risorgimento democratico d’Europa: dopo scossoni rivoluzionari presto soffocati nel sangue, le nazioni più piccole e di più recente indipendenza, «altrettanto multinazionali dei vecchi imperi», 80 copiandone i difetti e l’arroganza, si erano gettate sulle spoglie dei vinti come sciacalli affamati. L’oppressione subìta veniva ripagata con gli interessi: gli jugoslavi si erano spinti nel cuore della Carinzia e della Baranya, i rumeni nell’Ungheria magiara, i polacchi spadroneggiavano nell’Alta Slesia nonostante un plebiscito favorevole alla Germania e i cecoslovacchi si trovavano di fronte al difficile compito di amministrare con senso di giustizia una forte e orgogliosa minoranza di lingua tedesca cui negavano l’autodeterminazione. Polonia e Unione Sovietica continuavano intanto a guerreggiare, e il microcosmo baltico stentava a trovare uno stabile equilibrio ai margini di uno spazio tedesco tragicamente inquieto. D’altra parte – nonostante il buonsenso e l’autorevolezza di Wilson, il vero arbitro in campo, colui che si considerava, com’è stato scritto, «un mediatore al disopra della mischia»81 destinato comunque a uscire, per ragioni di salute, prestissimo di scena – anche fra le maggiori potenze vincitrici crescevano rancori e gelosie in misura almeno pari alla miopia delle politiche: avevano inaugurato il dopoguerra imponendo agli stati eredi degli Imperi centrali trattati di pace dall’evidente «intenzione punitiva»82 e seminando in tal modo un’acredine che, in un futuro non troppo lontano, avrebbe dato i suoi frutti avvelenati. La firma del trattato di Rapallo (12. XI.1920), mettendo fine al contenzioso dalmata (quella pietra d’inciampo che tanti problemi aveva creato a Parigi83 e giustificato, di conseguenza, in un’Italia in preda all’isteria nazionalista, lo slogan della “vittoria mutilata”), 80 E. J. Hobsbawm, Nazione e nazionalismi dal 1780, Einaudi, Torino, 1991, p. 157. 81 A. J. P. Taylor, Storia dell’Inghilterra contemporanea, Laterza, Bari, 1969 (I ed. inglese 1965), p. 167. 82 Isnenghi e G. Rochat, La Grande Guerra – 1914-1918, Sansoni, Milano, 2004, p. 485. 83 Per una panoramica della Conferenza di pace si può vedere, partendo dal grande “classico” di storia diplomatica di R. Albrecht-Carrié (Storia diplomatica d’Europa 1815-1968, Laterza, Bari, 1978), il recente Parigi 1919 – Sei mesi che cambiano il mondo, di M. MacMillan, Mondadori, Milano, 2006 (I ed. inglese 2001). Ricerca utile sul piano documentario per quanto approssimativa e aneddotica nella parte, assai stringata, dedicata all’Italia (soprattutto in relazione al contenzioso con la Jugoslavia di cui si manca di rilevare l’antico retroterra di rivalità che la guerra aveva per più aspetti accentuato), alla cui strategia diplomatica vengono impresse movenze operettistiche. Per il tema dei trattati invece equilibrato e riccamente informativo, anche nel poco spazio dedicato all’Italia, E. Goldstein, Gli accordi di pace dopo la Grande Guerra (1919-1925), Il Mulino, Bologna 2005.

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e definendo il destino di Fiume come città libera, aveva scontentato i settori più nazionalistici tanto in Italia che in Jugoslavia, ma aperto con un raggio di speranza le cupe nubi addensate all’orizzonte. Impossibile non cogliere, traguardandola su questo sfondo precario, la complessa fisionomia e le evidenti finalità del nuovo libro “ceco”. Già a partire dalla Prefazione, datata dicembre 1921 (dove tuttavia gli accenni alla contemporaneità prendono una via piuttosto obliqua, come spesso del resto nello Stuparich degli “anni difficili”). Riassumendo e giustificando l’azione dei cechi, prima all’interno della Doppia Monarchia nel perseguire l’obiettivo di un’ampia autonomia se non della federalizzazione, poi contro di essa, quando l’impero era apparso ormai irriformabile, Stuparich, aggiornando i dati della questione («un esame oggettivo del problema dal punto di vista del passato, e più dell’avvenire, porta a concludere all’inevitabilità d’una completa fusione dei cechi e degli slovacchi. Non passerà molto tempo che si potrà parlare storicamente d’una nazione cecoslovacca e non si farà più distinzione fra cechi e slovacchi»84), notava infatti e censurava la «megalomania nazionalista che è un poco latente nel carattere [cecoslovacco]» confidando, per un avvenire secondo giustizia, nella «guida meravigliosa» (NaC, 27) di Masaryk. Un’osservazione che, con la sua scommessa ottimistica (sarebbe bastata la virtù di un uomo per frenare le pessime inclinazioni di un popolo?), è il logico asse portante dei frequentissimi rimandi mazziniani del nuovo libro e della vigorosa messa in rilievo del problema delle minoranze che ne caratterizza alcune pagine cruciali; quasi che Stuparich, per quanto lo consentiva la sua serietà di storico risoluto ad affrontare l’argomento con «spirito oggettivo» (così nella prima Nazione czeca85), intendesse fare opera di alta pedagogia rivolgendosi tanto all’Italia che all’Europa. Come dimostra del resto, in modo lampante, l’impennata di pathos morale con cui lo scrittore celebra, il “Congresso delle nazionalità oppresse” svoltosi a Roma dall’8 al 10 aprile 1918, 86 mentre erano ancora in bilico le sorti della guerra. Un 84 Stuparich, La nazione ceca (1922), Longanesi & C., Milano, 1969, p. 24. Sigla NaC nelle citazioni. 85 Stuparich, La nazione czeca, cit., p. 57. 86 Cfr. l’ampia disamina dell’evento, delle sue premesse e delle sue conseguenze, in Monteleone, La politica dei fuorusciti irredenti nella Guerra Mondiale, cit. Cap. V. Una trattazione da cui emerge anche l’atteggiamento ambiguo del governo, che non volle essere rappresentato ufficialmente dai delegati italiani, e delle associazioni degli irredenti. Che poi, anche in futuro, per certi ambienti conservatori, al Patto di Roma venisse attribuito il significato di una grave, ancorché implicita rinuncia a quanto concesso all’Italia sull’Adriatico dal Patto di Londra, lo chiarisce benissimo la “scomunica” di Attilio Tamaro. Così infatti lo storico nazionalista, in polemica con quell’Amendola a cui si era invece ispirato Stuparich: «per la parte che rifletteva la conclusione d’un concordato preliminare italo-slavo [il Patto di Roma] fu la causa principalissima di tutti i drammi sofferti dall’Italia durante il lungo conflitto adriatico», significando «senz’altro la più semplice abolizione del Trattato di Londra» (Tamaro, Il Patto di Roma, «Quaderni di politica», 6, Roma, 1922, pp. 5, 6). Da vedere ovviamente Salvemini, Dal patto di Londra alla pace di Roma. Documenti della politica che non fu fatta, Gobetti, Torino, 1925, e i recenti Frangioni, Salvemini e la grande guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica delle nazionalità, cit., e F. Leoncini, a cura di, Tra Grande Guerra e Nuova Europa. Il Patto di Roma e la Legione cecoslovacca, Kellerman, Vittorio Veneto, 2014.

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appuntamento salutato come «la base più solida d’una nuova civiltà europea»87 da quel Leonida Bissolati che, fin dallo scoppio del conflitto, aveva coltivato, su posizioni interventiste, la speranza di un «ruolo di guida e di illuminazione da assumersi dall’Italia, attraverso una politica duttilissima, nei confronti delle popolazioni balcaniche». 88 Propositi che non trovarono ascolto presso Sidney Sonnino, fautore invece di una politica estera di corte vedute e intransigente custode del Patto di Londra, 89 considerato come il dogma indiscutibile del futuro assetto adriatico, e contro il quale appunto fu voluto, superando freddezza e diffidenze ai massimi livelli del potere, il Patto di Roma. Un accordo, per dire in breve, extra-governativo, stretto fra delegati italiani, cechi, serbi, croati, rumeni e polacchi, alla presenza di osservatori dei Paesi dell’Intesa, nell’intento di riaffermare i principi di un’azione comune, che si traduce in un documento, citato da Stuparich, che impegna a lottare per la riaffermazione dei diritti nazionali, smembrando lungo linee etniche la monarchia austro-ungarica affinché «ciascun popolo consegua la totale liberazione e la completa unità nazionale nella libera unità statale» (NaC, 220). Piccola epopea raccontata in pagine che, fra le più partecipate del libro, esplicitano con la massima evidenza il mazzinianesimo europeistico di Stuparich: convinzioni e stato d’animo che, improntato all’ottimismo della volontà, lascia tuttavia scorgere un retroterra nutrito di preoccupazioni ed inquietudini, tanto incombenti anzi da far quasi pensare che le sorti della battaglia per un pacifico assetto europeo venissero ormai considerate, se non perdute, ancora molto incerte: L’importanza del patto di Roma […] è storica. Nessun momentaneo disorientamento dell’opinione pubblica italiana ed europea dopo la guerra può far sì che questa importanza venga diminuita. Esso rimane come tutte le pietre miliari che sono state poste dagli uomini nel loro cammino storico. (NaC, 219)

Ma a scavare in questa direzione («Nessun momentaneo disorientamento […]» ecc.) la nuova Nazione ceca acquista una fisionomia ancora più sfaccettata di quanto farebbe pensare il semplice assunto storiografico, e certe parti di essa – perfettamente fuse, a onor del vero, nel corpo dell’analisi – finiscono per spiccare come messaggi in codice che basta assai poco sforzo a decrittare. Le lunghe pagine dedicate a uomini politici, a studiosi e a riviste che «s’era[no] occupati già avantiguerra, con serietà, del problema austriaco e che, nella tradizione mazziniana, avevano sempre considerati con simpatia e giustizia le aspirazioni e i diritti delle nazionalità», NaC, 207 (e qui cadono i nomi della «Voce», dell’«Unità» e di Salvemini in particolare, il cui impegno appariva riconducibile 87 Stuparich, La nazione ceca, cit., p. 220. 88 Colapietra, Leonida Bissolati, cit., p. 209. 89 Nei dispacci agli ambasciatori Sonnino chiarì che il Patto di Roma non era niente di più che un espediente propagandistico, cfr. A. Cardini, Sonnino, la questione adriatica e la “vittoria mutilata”, in Studi in onore di R. Martini, I, Giuffré, Roma, 2008.

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a quella «corrente mazziniana d’Italia che, sotto altre manifestazioni, non più quarantottesche, era pur sempre la corrente di ringiovanimento della [sua] vita morale e politica» - NaC, 206), lungi dal rimanere nei limiti di un’oggettiva disamina storica veicolano un retrogusto complesso dove si mescolano delusioni e speranze, ansie di palingenesi e rassegnata preparazione al peggio. La sottolineatura della presenza in Italia di una «maggiore sensibilità per i destini di tutti i popoli doloranti», tale da farla apparire fin da subito la più pronta ad «affermare la libertà dei popoli contro l’interesse dei governi» (quell’«Italia del risorgimento [e] di Mazzini» che a Roma, nella primavera del 1918 in occasione del Patto di Roma pareva aver «compi[uto] la sua missione» - NaC, 218), non suona come un semplice giudizio storico, ma vale da energico richiamo – una profezia che si vorrebbe auto-avverante – volto a un presente incline a tralignare. Stuparich la offriva con uno slancio di eticità vissuta, oltre che ai nuovi Stati e alle potenze vincitrici, a quei politici ed intellettuali italiani su cui ricadeva la responsabilità di consolidare la pace e per i quali, per alcuni di essi almeno, la politica delle nazionalità non era stata altro che una maniera strumentale, in un momento cruciale per le nostre armi, per portare la guerra in casa del nemico: «si era dunque scoperto un metodo», aveva scritto Giovanni Amendola nel 1919, ricapitolando le vicende che avevano portato al Patto di Roma, «per provocare precise reazioni disgregatrici nell’interno della Monarchia», una strada che l’Italia decise di percorrere, soggiunge, per «colpire il [nemico] alle spalle, di insidiarlo ai fianchi, di minare il terreno ch’egli calpestava».90 Atteggiamento che forse non era il più appropriato per affrontare un problema tanto cruciale, ma che, nel caso di Amendola almeno, sarà opportuno considerare, per senso di equità, come un semplice residuo di superate incertezze (piuttosto che una sterzata a destra per effetto di quel Manifesto al popolo italiano di Wilson dell’aprile 1919 che, come si è detto, aveva provocato nell’opinione pubblica un’impennata di orgoglio nazionale91): già all’indomani di Caporetto il politico napoletano, dalle colonne del più illustre giornale italiano di cui era collaboratore, aveva infatti iniziato a caldeggiare con convinta energia una politica estera diversa da quella ufficiale, aprendo «la campagna a favore della nazionalità oppresse [e] scontrandosi ripetutamente con Sonnino e con i suoi sostenitori»92 (e giungendo anzi ad affermare pubblicamente il 12.V.1918 – nel momento cioè dell’apogeo del “wilsonismo” – che «il patto del Campidoglio val[eva] più di una battaglia vinta per i popoli oppressi della 90 G. Amendola, Il patto di Roma e la “polemica”, in AA.VV., Il patto di Roma, Roma, Quaderni della «Voce», 1919, pp. 25, 8. Partecipano alla miscellanea, importante non solo per il chi ma anche per il dove della pubblicazione, i Quaderni della «Voce», Amendola, Borgese, Ojetti, Andrea Torre che fonderà insieme ad Amendola «Il Mondo» e Francesco Ruffini, giurista e politico, uno dei pochi che avrebbero lasciato la cattedra per non giurare fedeltà al fascismo. 91 Al Manifesto di Wilson dedica pagine molto acute dal punto di vista della psicologia collettiva C. Seton-Watson, Storia d’Italia dal 1870 al 1925, Bari, Laterza, 1967, pp. 607 e segg. 92 E. D’Auria, Introduzione a Amendola, La crisi dello stato liberale, Newton Compton, Roma, 1974, p. XCIII.

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Monarchia», per poi richiamare l’attenzione sul «problema dei problemi di questa guerra […]: l’Europa centrale […] ricostituita secondo giustizia»93). Stuparich faceva così capire, con le sue usuali maniere discrete, che la questione delle nazionalità, intesa nel senso non negoziabile di un imperativo categorico, andava considerata come il nodo fondamentale del nuovo contesto europeo, e che solo cercando di scioglierlo con assoluta onestà intellettuale e lungimiranza politica si poteva ripartire per realizzare un’era di pace e di progresso. Ritornano sul tappeto, insomma, con l’urgenza delle questioni non risolte, problemi e ipotesi di soluzione che già l’austro-marxismo aveva instancabilmente vagliato. Quell’austro-marxismo che, pur finito nel magazzino delle ideologie superate, continua probabilmente a sollecitare l’intelligenza e lo spirito critico dello studioso triestino sul piano di teoria politica sul quale egli lo aveva esclusivamente affrontato. Con questi presupposti, più che ovvia dunque, come si è detto, l’attenzione alla sorte delle minoranze, il cui tema rappresenta uno degli acuti ideologici del libro. Stuparich lo affronta dapprima a proposito della “Costituente di Praga” – la riunione, nel gennaio 1918, di tutti i deputati cechi («Il nostro popolo reclama l’indipendenza [e] ammette in questo Stato pieni ed uguali diritti nazionali per le minoranze nazionali» - NaC, 301) – per farlo quindi trionfalmente riecheggiare trascrivendo gli articoli della Costituzione cecoslovacca dove vengono ufficialmente sancite ampie salvaguardie; lo confortava il fatto che anche Masaryk, in quel libro che cita in francese in bibliografia (L’Europe nouvelle, ma la cui prima edizione era stata in inglese, adottando il titolo della rivista, «The new Europe», che Seton Watson e Masaryk avevano fondato a Londra nel 1916 per diffondere ideali democratici di libertà nazionale), si era impegnato a garantire l’assoluto rispetto delle minoranze, contestuale alla trasformazione della carta d’Europa sulla base del principio di nazionalità. 94 Sotto diplomatico silenzio rimangono invece non pochi episodi della recentissima storia della giovane Repubblica che avrebbero potuto offuscare la visione irenica del suo destino95 dando ragione 93 Amendola, L’alleanza fra i popoli pel riassetto civile del mondo, in «Corriere della Sera», 12.IV.1918. Ora in Idem, La crisi dello stato liberale, cit., pp. 220, 221. Ma si vedano, per comprendere meglio le posizioni di Amendola, tutto i suoi articoli di quell’anno cruciale. 94 «Sebbene difendiamo il principio di nazionalità, vogliamo pure tutelare le nostre minoranze, soprattutto la tedesca. Ciò sembra essere un paradosso, ma le vogliamo tutelare proprio in base al principio di nazionalità. […] I diritti delle minoranze dovranno essere garantiti . Così sarà anche in Boemia. I cechi esigono da sempre uguaglianza di diritti e non diritti superiori», cfr. Masaryk, La nuova Europa - Il punto di vista slavo, Studio Tesi ed., Pordenone - Padova, 1997, introduzione e cura di Leoncini, pp. 127, 128. 95 Si rimanda alle equilibratissime pagine di F. Prinz, Auf dem Weg in die Moderne, in Id., a cura di, Deutsche Geschichte im Osten Europas - Böhmen und Mähren, Siedler Verlag, Berlino, 1993, che approfondisce alcuni episodi destinati a rappresentare un trauma di lunga durata nei rapporti fra cechi e tedeschi in Boemia, Moravia e Slesia: l’eccidio del 4 marzo 1919, quando truppe ceche spararono sulla folla tedesca (54 morti), la promulgazione di leggi sui diritti linguistici più arretrate di quelle imperiali, la sostituzione d’autorità di impiegati statali di lingua tedesca con personale ceco, ecc.

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al tendenzioso Tamaro, e in fondo la stessa ragione profonda dell’istituzione di uno stato ceco-slovacco, che tradisce l’intenzione di tenere al guinzaglio quei tre milioni di tedeschi che le potenze vincitrici, in spregio ai punti wilsoniani e alla espressa volontà degli interessati, avevano deciso di far ancora coabitare con una risicata maggioranza ceca. È evidente peraltro che insistere così tanto su diritti delle minoranze era, si potrebbe dire, un modo garbato per tirare Trieste per la giacca, dove la faccenda, come si è visto, andava prendendo una pessima piega. E di Trieste, della sua condizione e delle sue speranze, non manca poi, così nell’esplicito dei temi come nelle più che palesi allusioni, un vibrante, luminoso riflesso, soprattutto in quelle pagine dalle quali emerge un ideale parallelismo fra i volontari giuliani e i volontari cechi negli eserciti dell’Intesa. Ma interessante al pari, o forse di più, delle parti che abbiamo evidenziate è la seconda sezione del libro, del tutto nuova della riflessione di Stuparich: vi si illustra, in primo luogo, l’azione diplomatica dei cecoslovacchi all’estero allo scoppio della guerra, attività da cui emerge la volontà irriducibile dei loro capi più lungimiranti di farla finita con l’impero, senza accettare alcuna forma di compromesso (anche qui un raccordo ideale tra la Boemia e l’Italia, visto che è impossibile non pensare, a proposito del pamphlet di Beneš, Détruisez l’AutricheHongrie!, su cui si richiama l’attenzione, al Delenda Austria di Cesare Battisti, che Salvemini andava ripetendo in varie conferenze a Milano, Padova, Firenze, Venezia, negli ultimi anni di guerra). Una proposta che trova, nei settori politicointellettuali più avvertiti dell’Intesa – per esempio fra i mazziniani d’Italia – risposte all’altezza del momento. Si tocca quindi il tema dell’intervento militare anti-asburgico, diritto finalmente concesso da parte delle potenze dell’Intesa ai prigionieri, disertori, espatriati dei “popoli oppressi”, ma dopo troppo e ambiguo tergiversare (soprattutto per colpa dell’Italia e in particolare del rigido conservatorismo di Sonnino): erano così giunti sul fronte francese e italiano nell’ultimo anno di guerra truppe cecoslovacche reclutate fra i prigionieri austro-ungarici («la divisione cecoslovacca dei begli alpini bianco rossi» - NaC, 228) ansiose di battersi sotto la guida di Milan Štefánik, «figura d’epopea» (NaC, 225), «l’uomo più profondamente legato al cuore della sua patria e nello stesso tempo lo spirito più universale» (Nac, 226), deciso a tutto pur di «esser utile alla patria senza offendere alcun diritto altrui» (ivi). Tempra autentica di soldato, egli è l’uomo concreto a fianco di Masaryk, quasi a riproporre quel binomio risorgimentale che Stuparich vedeva impersonato in Mazzini e Garibaldi: l’acutezza del pensiero e l’energia dell’azione, la mente e la spada. Infine una particolare sottolineatura gode la resistenza interna in una Boemia controllata con mano di ferro dalle autorità imperiali, dove la popolazione «era soggetta al regime più repressivo che si possa immaginare; era vigilata, tormentata, atterrita; la sua volontà sottomessa a mille incubi, la sua persona in balia del primo sbirro cui fosse piaciuto di torturarla, il suo domicilio aperto a tutte le incursioni e manomissioni» (NaC, 257). E pur tuttavia, continua Stuparich, «questa gente

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non rinunciò a vivere, dove poté oppose resistenza aperta, dove non poté subdola: si difese con tutte le armi, congiurò, sabotò» (ivi). Pronta al sacrificio (i capziosi procedimenti giudiziari istruiti dalle autorità austriache, le numerosissime condanne a morte, i battaglioni cechi mandati deliberatamente al macello contro reticolati invalicabili e nidi di mitragliatrici, quasi a punirli delle non infrequenti diserzioni) e sempre più decisa a rivendicare i suoi diritti, fino a compiere quei grandi atti nazionali che erano stati l’appello degli scrittori cechi nel maggio del 1917 a favore di un’Europa democratica di nazioni libere e indipendenti, il rifiuto dei deputati cechi di partecipare a qualsiasi governo imperiale (riscattando il cedimento a Clam Martinic del gennaio dello stesso anno, quando il nuovo ministro era riuscito a strappar loro una dichiarazione di fedeltà alla dinastia), la cosiddetta “Costituente di Praga” del gennaio 1918 e infine, solenne “messa cantata” della causa patriottica, la manifestazione del 16 maggio 1918 al Teatro nazionale di Praga, 96 con delegati di tutte le nazionalità slave, con i rumeni, con gli italiani, a celebrare sulla Moldava una sorta di riconferma del Patto di Roma. Di tutto ciò si ricorderà il narratore: se ciò che Stuparich racconta è, senza ombra di dubbio e perfettamente riconoscibile nelle salienti coordinate storiche, l’epopea della Boemia in guerra, illustrata con un fervore di passione che diventa impeto di stile (e in anticipo sulla linea interpretativa della moderna storiografia, che ha confermato come «nessuno dei gruppi nazionali che si staccarono dall’impero ebbe all’estero una rappresentanza che lavorasse con altrettanta determinazione e abilità per il suo status di nazione»97), i materiali e le riflessioni di questo libro gli torneranno utili quando, da romanziere innamorato della Storia, dovrà scrivere di Trieste negli anni del conflitto. Una città sotto ricatto, come la Boemia nella fase finale del crepuscolo asburgico, ma che attende paziente che il destino si compia, fremendo e sperando: il clima che si respira in Ritorneranno. Ma, per giungere a un giudizio sullo Stuparich della Nazione ceca ciò che soprattutto colpisce nella nuova riflessione sul più vivace dei “popoli senza storia” è il suo accento emozionato, che sfiora a tratti perfino l’entusiasmo: vi si può leggere il senso di sollievo di chi aveva l’impressione che nell’Europa ex asburgica si chiudesse definitivamente il capitolo della litigiosità fra le nazioni, aprendo un futuro di collaborazione pacifica. A Stuparich, va detto, non mancano lucidi criteri di giudizio, ma come sempre egli è incline a investire le sue analisi di una tensione 96 La grande celebrazione praghese ebbe fastidiosi risvolti pan-slavisti che Stuparich evita accuratamente di ricordare (li ignorava? Avrebbero incupito il roseo orizzonte della sua ricostruzione?). Ne scrive Tamaro, com’era da aspettarsi, con una certa durezza (Tamaro, Il patto di Roma, cit. p. 31) e lo sottolinerà, con più equilibrato approccio storiografico, Leo Valiani, che menziona il rifiuto di Pittoni di recarsi a Praga per la «presenza di nazionalisti jugoslavi che rivendicavano Trieste […] al loro futuro stato» (cfr. La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., p. 411). Per la polemica giornalistica Pittoni-Puecher sulla mancata partecipazione della delegazione dei socialisti triestini alle celebrazioni praghesi, utile, ancorché invecchiato ed aneddotico, il libro di G. Gaeta, Trieste durante la guerra mondiale – Opinione pubblica e giornalismo a Trieste, Trieste, Edizioni Delfino, 1938, p. 139 e segg. 97 Kann, cit., p. 614.

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sentimentale declinata in positivo, di un flusso ottimistico di certezze (poche) e di speranze (molte) che promana da quella spiritualità laica che impronta il suo rapporto con gli uomini e la storia, andando poi a riflettersi in un teso impegno pedagogico. Rievocatore appassionato dunque, piuttosto che obiettivo archivista del passato, pronto a scommettere ancora sul futuro d’Europa, nonostante l’oscura coscienza di prossime tempeste. Come ogni apostolo Stuparich vede lontano, più di quanto forse non consentirebbero documentate ricostruzioni; mosso da una fede resa più calda dal costante richiamo a coloro che erano caduti per i suoi stessi ideali. Inattuale lui e loro in un’Europa già prossima a nuove follie. Risvolto niente affatto scontato della disintegrazione della Doppia Monarchia è la confluenza di cechi e di slovacchi in un solo Stato: da qui alcuni ritocchi sul testo della Nazione czeca, il palinsesto della prima sezione del nuovo libro, e un intero capitolo in aggiunta per adeguarlo al punto di fuga, forse inaspettato, del nuovo stato “bicefalo”, di cui era innegabile un certo quoziente di artificialità, e nel contempo, una doppia non innocente finalità: da un lato farne un baluardo slavo, quanto più solido possibile, per arginare i tedeschi di dentro (i sudeti) e quelli di fuori (la Repubblica tedesca nata da Versailles) e, come fece capire la creazione della Piccola Intesa nel 1920-1921, rendere impossibile dall’altro ogni tentativo di revisione dei confini nazionali, soprattutto da parte dell’Ungheria, la grande sacrificata dei trattati di pace. Una parte delle osservazioni che Stuparich dedica al popolo già suddito della corona di Santo Stefano sono certamente dovute ai suggerimenti di Robert Seton Watson (alias Scotus Viator), diplomatico e storico fra i più agguerriti del problema delle nazionalità e sostenitore delle aspirazioni all’indipendenza delle popolazioni slave; uno studioso di cui Stuparich ha presente il Racial Problems in Hungary, pubblicato a Londra nel 1908,98 aspra denuncia del nazionalismo ungherese e dei tentativi magiari di assimilare le minoranze (che superavano poi, prese tutte insieme, il 50 % della popolazione complessiva della Transleithania), e in special modo quella slovacca, negando loro identità culturale e rappresentanza politica. Comunque esiste, sul problema, uno smilzo palinsensto,99 Gli slovacchi, pubblicato 98 In bibliografia Stuparich indica il 1918 come data di pubblicazione, mentre, a quanto mi risulta, l’unica edizione del libro uscì a Londra nel 1908. Nell’introduzione Seton-Watson spiega che «I was gradually forced to the conclusion that the racial question in Austria is far less difficult and less important that the racial question in Hungary» (p. VII), dove, a suo parere, è il problema slovacco a rappresentare il caso più esplosivo, ovvero quello in cui l’offesa al diritto delle genti si manifesta nel modo più scandalosamente evidente (Racial Problems in Hungary, Constable and Co., London, 1908). 99 In realtà Thoraval (cit., seguito da Apih, cit.) segnala un contributo di Stuparich nel volume del giornalista interventista e storico di tendenza nazionalista Giuseppe Stefani (L’Austria degli Asburgo. L’Austria dei popoli, Cappelli ed., Bologna, Rocca San Casciano, Trieste, 1919) che effettivamente porta in sottotitolo la dicitura: un capitolo di Giani Stuparich su la questione czecoslovacca. Che questo saggio debba essere riconosciuto nel capitolo senza firma I czeco-slovacchi pp. 49-66, mi trova però perplesso, sia per ragioni di contenuto (vi si afferma in esordio, diversamente da quanto scriverà Stuparich nel 1921, che i «czechi e i slovacchi formano una sola nazione» - p. 49) che di stile.

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sul settimo fascicolo dell’«Europa Orientale», 1921, rivista edita dall’Istituto per l’Europa Orientale di Roma, destinata a sopravvivere fino al 1943 (sul numero precedente era uscito un contributo di un altro triestino, di diversa tendenza, ma più sensibile di Stuparich alla grandi questioni internazionali, Il Burgenland, di Attilio Tamaro). È interessante, per altro, che il pamphlet inizi con un tono apologetico, quasi a respingere in anticipo le critiche a una soluzione discutibile. Ammette dunque Stuparich, nella pagina d’apertura, che «i Cechi e gli Slovacchi non sono ancora perfettamente “nazione”, – ma quanti gruppi in Europa, a rigidità di termini, meriterebbero il nome di nazione? –; ciò non vuol dire ch’essi non siano nella buona strada per diventarlo». Sfiora quindi, approccio inusuale in lui ma pertinente al tema, il problema della lingua, affrontando poi la storia, la cultura, il passato e il presente dell’idea autonomistica presso il piccolo popolo. Nulla invece sulle ragioni strategiche che avevano determinato la creazione della nuova entità statuale. Detto questo, la Nazione ceca esibisce qualche altro merito ed è giusto sottolinearlo. In primo luogo la maggiore sicurezza espressiva. Ma per lo stile basteranno poche parole: si è fatto più scorrevole e sicuro, ancorché a tratti quasi sermoneggiante (anche per l’inserzione di lunghe citazioni in ossequio a un crisma di oggettività); la materia, perfettamente dominata, fluisce, nell’esposizione, con un movimento più libero e arioso. In secondo luogo – e siamo al tema dello spostamento quasi impercettibile di asse ideologico – certi residui “positivistici”, il lascito della Nazione czeca sono stemperati e sussunti in un insieme dall’impronta nettamente idealistica. Stuparich, convertito alle ragioni dell’ “idea”, non parlerebbe più ora della storia come di un «movimento meccanico, governato dalle inflessibili leggi sociali»100 né della società come determinata dalla legge immanente del suo proprio divenire, con accenti che risentono delle ottocentesche filosofie del progresso; qui invece inclina piuttosto a mettere in valore l’elemento volitivo e morale (molto più di quanto non facesse nella Nazione czeca, dove pure cade il nome di Carlyle, il più famoso interprete del culto degli eroi101), con pieno apprezzamento del farsi attivo della volontà nelle grandi figure dell’indipendenza ceca e nei protagonisti dell’intellighenzia italiana e straniera impegnati a “vincere” la pace. Pronto a sottoscrivere con animo partecipe le parole con cui Vittorio Emanuele Orlando aveva celebrato la statura di Štefánik, l’eroe militare della nuova nazione, «uomo di tanta grandezza morale, da rappresentare la forza più possente che vi era al mondo: la forza dell’idea» (NaC, 229). Quella stessa forza, del resto, che garantisce efficacia al pensiero e all’esempio di Masaryk,102 ancora più 100 Stuparich, La nazione czeca, cit., p. 22. 101 «Se vogliamo afferrare all’apice la vita d’un popolo, dobbiamo tenerci ai suoi eroi. E a questo modo eroe è Masaryk per la Boemia d’oggi. Conoscere ciò che quest’uomo ha fatto e quel ch’egli vale è sapere l’intensità civile raggiunta dalla nazione czeca e ciò che essa può nella cultura europea. Perciò abbiamo fatto della sua persona centro di questo capitolo», cfr. G. Stuparich, La nazione czeca, cit., p. 48. 102 Per un moderno ripensamento storiografico su questo grande protagonista dell’Europa asburgica e post-asburigca, ricco di stimoli, anche in relazione ai temi che stiamo trattando,

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idealizzato in questo libro perché investito di un valore simbolico che lo innalza al di sopra del clima di incertezza di un dopoguerra pieno di contraddizioni. Il solo politico europeo anzi, proclama Stuparich, su cui sia ancora possibile coltivare un’illusione di storicismo teleologico («la storia è giustizia», come aveva scritto Stuparich congedando la Nazione czeca) e l’unico per il quale la parola “missione” mantenga un limpido suono progressista. Figura dunque, per un verso, “vociana”, in virtù della fiducia nel primato etico-politico della cultura («Masaryk [ha] inteso la filosofia come l’incitatrice e l’organizzatrice di tutte le funzioni spirituali e quindi come immanente in ogni singola scienza e comprensiva di tutte, e d’aver intuita la continuità storica del pensiero» - NaC, 229) e, per un altro, romantica, o meglio “gentiliana”, per la capacità di mettere la potente individualità, innervata di «misticismo attivo e razionale»,103 al servizio delle esigenze spirituali e concrete della nazione, della quale è figlio e da cui attinge le energie migliori: «E il suo compito fu allora di scrutare nel fondo di questa sua individualità per poterla rendere alla sua nazione come coscienza. In altre parole, scrutare la storia della sua nazione per trovarne il significato interiore». (NaC, 167). Ammettiamo pure che nella figura del grande intellettuale e politico ceco così come viene tratteggiata vi sia qualcosa che anticipa il problematico concetto di “capo carismatico” formulato da Weber nel 1919, 104 il capo-eroe sempre pronto a ritentare l’impossibile,105 che è una delle direttrici lungo le quali, ribaltandone la prospettiva etica e in un contesto storico-ideologico del tutto nuovo, si prepara il tragico ingresso nella storia europea dell’epoca post-liberale dell’esiziale Führerprinzip. Resta il fatto, Stuparich ne è convinto, che proprio a lui si debba, in quanto guida di un popolo artefice del proprio destino, un rilancio di idealità mazziniane che, così pareva, almeno per una volta non avevano fatto bancarotta nella moderna storia d’Europa.

cfr. E. Hahn, Thomaš G. Masaryk e la questione ceca: un problema secolare, in M. Buttino e G. Rutta, a cura di, Nazionalismi e conflitti etnici nell’Europa orientale, Feltrinelli, Milano, 1997, che si fa interprete di un’opinione che vede prevalere nel Masaryk degli anni della guerra istanze propagandistiche a scapito di messe a fuoco rispettose della pluralità etnica della Boemia, tanto da porre le premesse, ancorché Masaryk non sia in alcun modo definibile come un «nazionalista angusto» (p. 42), delle profonde incomprensioni che hanno reso impossibile la convivenza di cechi e tedeschi nella moderna Cecoslovacchia. 103 «Un misticismo attivo e razionale, chiamerei il suo, per quanto paia contraddizione, misticismo del’atto e del reale, non solo pensiero-azione, ma fede nel concentrarsi del pensiero. Fede, ecco perché misticismo, altrimenti il suo realismo potrebbe risultare semplicemente positivismo», NaC, 172. Evidenti rimasticature gentiliane, con quell’ambigua definizione di «misticismo» che è uno dei termini che ricorrono nel dibattito Croce-Gentile sulla «Voce». 104 Per un primo approccio al problema si possono vedere S. Mastellone, Storia della democrazia in Europa – Dal XVIII al XX secolo, UTET, Torino, 1983, II ed., pp. 253-4; N. De Feo, Introduzione a Weber, Laterza, Roma-Bari, 2001, spec. il cap. V; J.W. Burrow, La crisi della ragione – Il pensiero europeo 1848-1914, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 228-231. 105 Cfr. M. Weber, Politica come professione, in Idem, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1966, II ed., p. 109.

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Capitolo VI Nella notte della ragione: gli anni del regime

Mentre Stuparich si trova a Praga si verifica un evento fondamentale per la sua vita: con decreto dell’11 maggio 1922 (ma in città ne era trapelata notizia ben prima, già a partire da gennaio1) gli viene conferita la medaglia d’oro al valor militare. Gliela appunterà sul petto la madre, in una cerimonia del novembre del 1922, nel piazzale della caserma che aveva visto l’impiccagione di Oberdan. Questa seconda medaglia alla famiglia Stuparich (Carlo ne era stato insignito già nel 1919, con decreto del 23 marzo) fa del sopravvissuto il simbolo vivente della religione nazionale della citta redenta, inserendolo nel libro d’oro del patriottismo triestino. Si chiude il capitolo più difficile della vita del reduce: l’onorificenza lo mette al riparo dai rancori dei liberal-nazionali che certo non avevano dimenticato le vecchie ruggini con i vociani, e lo colloca su un piedestallo di intoccabilità da parte di quel movimento, il fascismo, che aveva eletto la Grande guerra a mito fondante della propria identità. 1 Ben comprensibile l’orgoglio di Elody: «i giornali parlano di “eroismo leggendario dei due fratelli, unico nella storia d’Italia” […]. Che tu sia riconosciuto e chiamato per nome nella storia d’Italia, è per me come una rivendicazione di tutti gli umili» (E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, cit., p. 148, lettera da Trieste, 11. II. 1922). Dava stringatamente la notizia «Il Piccolo» del 12 gennaio 1922: «come si sa le medaglie d’oro conferite a combattenti ancora viventi sono pochissime, per cui questa conferita al valorosissimo concittadino nostro attualmente insegnante di lingua italiana all’Unversità di Praga, onora non soltanto lui e la sua casa, che conta già un grande morto per la redenzione, il compianto Carlo Stuparich, figura altissima di soldato e di pensatore, ma tutta la città».

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Al ritorno a scuola Stuparich raddoppia gli sforzi per ultimare I colloqui con mio fratello e mette a punto la sua visione della guerra, quel tema che il fascismo iniziava a interpretare con accento enfatico. Abbiamo già citato il Discorso agli alunni del Liceoginnasio Dante, Davanti alle salme dei caduti, del 1923. Gli estratti stampati, ricorderà Stuparich, non verranno mai messi in circolazione, in ossequio al nuovo clima («Ventidue anni di attesa, durante i quali quelle mie povere idee sembrarono andar calpestate sotto il ‘passo romano’ e il lampeggiar di ‘otto milioni di baionette’»2). Dall’anno seguente Giani sarà esclusivamente narratore. Raggiungendo un primo straordinario vertice in quel libro, Guerra del ’15, dove la visione morale di un impegno necessario ma mai vissuto come lussuria della morte si eleva nei cieli più alti dell’espressione letteraria. Se Stuparich era infatti prontissimo ad accettare una totalizzante idea di patria spinta fino al sacrificio di sé, ciò che lo turba invece del fascismo – lo abbiamo in parte chiarito – è il fanatismo della guerra per la guerra, sia pure sotto l’alibi della “più grande Italia”; dove patria significa in fondo imperialistica volontà di predominio e rabbiosa febbre di conquista, e guerra ebbrezza agonistica fine a se stessa: quasi che da nebbie nibelungiche si rinverdisse, e proprio in vesti italiane, quel «militarismo barbarico»3 (così Bissolati commemorando Cesare Battisti), che l’interventismo democratico aveva sognato di abbattere. C’è già qui l’intuizione che partendo da tali premesse il destino del regime si sarebbe compiuto, nel bene e nel male, sul terreno militare? Difficile a dirsi. Era evidente comunque che, educando i giovani – come coronamento dell’essere italiani – al mestiere delle armi agli ordini di un Duce “che ha sempre ragione”, andavano ponendosi le premesse di un tragico futuro. Stuparich ne coglieva la nota desolante sul piano etico e umano, la storia si sarebbe impegnata a mostrarne le conseguenze a livello politico e militare. Questo, ovviamente, l’«antifascismo senza ideologia»4 di cui parla autorevolmente Apih. Se già addirittura prima della Marcia su Roma Mussolini aveva dichiarato sul «Popolo d’Italia» del 17 settembre 1922 che la concezione che il fascismo ha della vita è «prevalentemente guerriera»,5 nel corso degli anni, maturandosi ambizioni imperiali, la torsione bellicistica sarebbe stata ancora più marcata e più netto, credo, il fastidio di Stuparich. L’utopia “rivoluzionaria” e lo spirito totalitario del regime richiedeva che l’”uomo nuovo” del “primato” italiano marciasse in divisa e armato. Adunate e sfilate, esercizi pre-militari, esasperato agonismo sportivo marcheranno l’atmosfera quotidiana in cui è immersa la nazione: atmosfera contagiosa per tutti, ma per i giovani in particolar modo. Il Duce lo aveva chiaramente annunciato nella pagina firmata per l’Enciclopedia italiana alla voce «fascismo»: «solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai 2 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 75. 3 Cfr. Colapietra, Leonida Bissolati, cit., p. 235 (il discorso fu pronunciato a Cremona il 29 ottobre 1916). 4 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 131. 5 E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), cit., p. 306.

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popoli che hanno la virtù di affrontarla». 6 Germe esplicito di peggiori mali, che maturerà negli anni Trenta quando, sullo sfondo di una situazione internazionale sempre più critica, il fascismo avrebbe scelto la strada dell’emulazione del progetto nazista di una “Neue Ordnung” europea inflessibilmente articolata su una rigorosa gerarchia di popoli7 dove l’”arianesimo” avrebbe dovuto sposarsi all’inclinazione guerriera (a proposito della quale metterà in guardia Giame Pintor, con parole che Stuparich avrebbe incondizionatamente condiviso, denunciando il crudele orizzonte dell’ethos nazista, ovvero l’«adozione della guerra come modo di vita»8). Un argomento sul quale tanto si insiste, come si sarà ben capito, perché qui si trova la “contraddizion che nol consente”, l’invalicabile spartiacque (almeno fino a che non entri in gioco la lealtà nazionale e l’identificazione con la patria combattente) tra l’umanesimo risorgimentale di Stuparich e il bellicismo fascista. Grazie all’epistolario messoci a disposizione da Apih possiamo meglio capire il percorso dell’intellettuale convertitosi alla letteratura. È bene ricordare la citata lettera ad Elsa Dallolio del gennaio 19239 dove Giani, annunciando la svolta radicale nella sua vita di uomo e di intellettuale («sono contento di aver rinunciato a Praga e di essermi risolto alla vita che faccio: grigia e minuta all’esterno, ma abbastanza ricca interiormente»), sminuiva l’importanza della vita esteriore, nel campo della politica e della battaglia delle idee, e pur ammettendo che la presa del potere da parte di Mussolini potesse risultare benefica per l’Italia, giustificava la lunga apnea nell’interiorità: le rivoluzioni politiche mi paiono manifestazioni effimere: siamo invece a una vera rivoluzione della civiltà, ad uno di quei momenti in cui l’uomo ha bisogno di ritrovare dentro di sé la più semplice via, perché tutte quelle esterne e interne egli ha smarrito; ad una di quelle svolte in cui si ripresentano all’uomo i problemi più semplici e originari della sua natura: e risolverli non è più un lusso intellettualistico, ma è una necessità totale.10 6 Fascismo, in «Enciclopedia italiana», Vol. XIV, 1931/ 1951, p. 849. 7 «Vi è una politica imperiale dell’Italia che si innesta nella crisi dei vecchi imperialismi, e vi è un’idea-forza rivoluzionaria che agisce come elemento eversore di un sistema, come volontà costruttrice di un ordine nuovo. Naturalmente per ciò che si riferisce al nostro Paese, tutto ciò ha come presupposto necessario e non lontano il Risorgimento [che] fu il più alto modello europeo della lotta per la liberazione delle nazionalità, questa guerra segna invece, tra l’altro, la crisi delle nazionalità minori, il bisogno di superiori gerarchie e di unità organizzate», C. Morandi, Questa guerra e il Risorgimento, in «Primato», II, 1 aprile 1941. Morandi sembra qui ampiamente giustificare l’opinione di G. Belardelli, (Il fascismo e l’organizzazione della cultura, in G. Sabbatucci e V. Vidotto, Storia d’Italia, IV, Guerra e fascismo 1914-1943, Laterza, Roma -Bari, 1997): «‘Primato’ […] lungi dall’essere un periodico di fronda come ha sostenuto qualche studioso, doveva rappresentare nelle intenzioni del suo fondatore uno strumento per l’inserimento della cultura italiana nella ‘Nuova Europa’ che sarebbe scaturita dalla guerra dell’Asse» (p. 487). 8 Pintor, Commento a un soldato tedesco (su «Primato», I febbraio 1941), ora in Id. Il sangue d’Europa, Einaudi, Torino, 1950, p. 135. 9 Cfr. cap. I, nota 81. 10 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 172-173.

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È evidente che Mussolini non poteva ambire a interpretare quel ruolo di «guida meravigliosa» universalmente riconosciuto a Masaryk (del resto Carlo, nei Colloqui, aveva messo in guardia sugli inganni della demagogia: «l’epoca vostra è dei falsi salvatori»11). Ma certo, inzialmente, per un paese di individualismo anarchico, indecisionismo eretto a sistema, meline, trasformismi, singulti antipatriottici e “sgoverno”, la mano forte di un uomo energico pareva giungere utile se non necessaria12 («io posso anche ammettere, per ragioni storiche contingenti, che sia caduta per suo bene nelle mani di lui»). Del resto, è stato spiegato, «gli uomini e i gruppi che si opposero al nuovo stato di cose, pur giudicando in modo discordante la realtà del paese e dividendosi circa il senso profondo di ciò che stava accadendo, in quei primi tempi si ritrovarono spesso concordi nel non riconoscere nel governo fascista un evento che segnasse uno scarto netto e davvero radicale rispetto al passato». 13 Tanto più che, lo ha rilevato Emilio Gentile, ai giovani impazienti dell’anteguerra (in un arco che va dai futuristi ai vociani) anche il giolittismo era apparso «una forma di corruttrice dittatura parlamentare»14 (argomento poi spesso ripreso dalla pubblicistica fascista del periodo “pluralista”, 1919-192515). Mentre Mussolini, che navigava a vista, continuava a dimostrare, non senza un certo fiuto politico, una «apparente disponibilità verso soluzioni costituzionali».16 Il malinteso poté durare finché il regime, chiudendosi granitico come una morsa, non fece emergere come le due facce di una medaglia, da un parte un potere assoluto con risvolti demagogici risoluto nell’opera di indottrinamento di masse artatamente “infantilizzate”, dall’altra quei tratti di servilismo innati negli italiani, disponibili a vivere da sudditi all’ombra di un “trono” («Il Duce è divenuto un despota di cattivo gusto», ha scritto Biagio Marin in anni in cui iniziava la sua lenta, fruttuosa opera di revisione politica, «la vita della Nazione invece di concentrarsi si è dissipata, corrotta e la guerra ha rivelato tutta la falsità dell’opera mussoliniana. Insisto: la responsabilità più vera è nostra, non sua. Egli 11 Stuparich, Colloqui con mio fratello, cit., p. 67. 12 E. Gentile ha evidenziato come il “mito” di Mussolini cominciasse a mettere radici prestissimo – già nei mesi dell’interventismo – e che «la sua personalità fece impressione anche sugli intellettuali della “Voce” e dell’ “Unità”». Difficile a dirsi se, magari nell’ “inconscio politico” di Stuparich, vi sia traccia di quel sentimento. Cfr. E. Gentile, Fascismo - Storia e interpretazione (2002), Laterza, Bari, 2008, pp. 121-125. 13 P. G. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo - Gli anni del regime, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 3. Sulle interpretazioni del fascismo imprescindibile R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Bari, 1969, poi sempre ristampato. 14 E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), cit., p. 37. 15 Così Bottai, su «Critica fascista» nel 1925: «Antidemocratico il fascismo è perché sorto ad abbattere un regime in sostanza oligarchico e tirannico, ma sedicente democratico» (cit. in S. Lupo, Il fascismo, cit., p. 22). 16 Aga Rossi, Il Movimento Repubblicano Giustizia e Libertà e il Partito d’Azione, cit., p. 7.

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stesso è vittima della nostra insufficenza [sic], della nostra abdicazione. Alla sua forza erano necessari limiti saldi. Noi dovevamo, per il bene di tutti, essere quei limiti. Ma eravamo senza coscienza, senza preparazione politica […]»17). Nel 1923 della lettera ad Elsa Dallolio il «Piccolo» di Trieste del 25 maggio – siamo al culmine delle celebrazioni per l’anniversario dell’entrata in guerra – pubblica una lettera aperta di Stuparich a Carlo Delcroix,18 nel direttivo dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra (ANMIG), di cui sarebbe diventato presidente dal 1924. Delcroix aveva pronunciato nel dicembre 1922 al Teatro Verdi di Trieste una grande orazione di acceso timbro retorico in ricordo di Scipio Slataper, in cui avallava in sostanza l’interpretazione di Stuparich: Slataper erede di Oberdan, martire della patria italiana.19 Insomma, il destinatario ideale per le considerazioni che Stuparich voleva rendere note: Giani Stuparich ha diretto a Carlo Delcroix, per tutti i mutilati, la seguente lettera: «Carlo Delcroix! Se questi giorni non mi vedete partecipare alle vostre cerimonie, non crediate sia per asprezza d’animo o per vano spirito di distinzione. Io sono chiuso dall’inesorabile precisione d’un sentimento: il consenso spontaneo che Voi trovate in quest’occasione sulla faccia e nelle parole d’una grande moltitudine, io vorrei fosse ponderato consenso d’ogni ora nel cuore puro di tutti. Allora le Vostre file luminose potrebbero passare, anche senza bandiere, attraverso un religioso silenzio; e parlerebbero i morti del Carso e dell’Alpi, parlerebbero le Vostre ferite, parlerebbero gli occhi riconoscenti di tutti gli italiani, consapevoli di quell’unico, comune dovere che essi hanno da compiere, per essere degni dei Morti e di Voi: il rispetto al Sacrificio e alla Patria con la fede e con le opere. - Giani Stuparich, medaglia d’oro».

Parole sibilline, come si vede. Discorso altisonante ma involuto, studiatamente collocato sulla parte più alta dello spartito retorico. Chiarissimo soltanto nel messaggio conclusivo: il rifiuto di partecipare a dei pubblici festeggiamenti che privilegiano il trionfalismo gridato laddove sarebbe appropriato un intimo raccoglimento; coreografie magari bene intenzionate, ma che rischiavano di 17 Marin, La pace lontana - Diari 1941-1950, a cura di I. Marin, LEG, Gorizia 2005, p. 77 (annotazione del 30 agosto 1941). 18 Per la vita e la carriera politica di Carlo Delcroix, non esente da qualche ombra di “gattopardismo”, vedi Dizionario biografico degli italiani, ad vocem. Impossibile non riconoscere un riflesso del grande mutilato, attivissimo nella propaganda bellica fra i soldati dopo l’incidente che lo rese cieco e lo mutilò delle braccia, nel personaggio di Sandro, in Ritorneranno. 19 Già per le sue origini, Slataper testimonierebbe, a parere di Delcroix, «la potenza d’innesto dell’idea latina su tutte le razze» (p. 37). Esemplare il suo percorso umano e intellettuale: se, studente a Firenze, «prende posizione contro l’irredentismo considerato nella sua degenerazione magniloquente, nell’idea concorda» (p. 45). Come un gentiluomo d’altri tempi «attacca partiti e uomini della sua città non per astio né per diffamazione, ma per contrasto di idee, per differenza di metodo, e se l’avversario è degno assale, ma ammira, combatte ma rispetta» (p. 46). E se il capolavoro dell’artista è Il mio Carso, se quello del pensatore l’Ibsen, il capolavoro dell’uomo intero, il coronamento della vita «doveva scriverlo col sangue sulla pietra dura d’un monte perché nessuna immagine è più viva di una ferita, nessuna cantica più splendente di un rogo» (p. 52). Cfr. C. Delcroix, Scipio Slataper, Giorgio Berlutti editore, “I discorsi del giorno”, Roma, s.d.

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sfociare in un baccanale di tronfia esaltazione, se non di istinti aggressivi mentre invece si avvertiva il bisogno di pacatezza e «religioso silenzio» per porgere deferenti l’orecchio al monito dei morti. Un diplomatico e lungimirante diniego, quindi, quello della lettera a Delcroix, che scaturisce dal rispetto per quella “generazione carsica” di cui Stuparich parlerà ancora nel 1934, commentando il consentaneo Momenti della vita di guerra di Adolfo Omodeo. «Di fronte alla morte», scrive, «gli uomini si ritrovavano in un essenziale bisogno di semplicità e di umiltà [in cui] lo stesso nemico, l’ “odiato avversario”, era sentito come prossimo». 20 E continua precisando: guai a incoraggiare le menti giovanili nella loro facile inclinazione a figurarsi la guerra come un gioco o un’avventura. […] Quando si è avvolti dall’atmosfera della morte, nessuna abitudine al rischio, nessuna disciplina, nessuna preparazione tecnica possono servire, se non ci sia, nell’individuo, un saldo organismo morale, un incrollabile senso del dovere interiore.21

Le guerre che scoppieranno di lì a qualche anno, e dove il fascismo, specie in Spagna, si getterà con bramosia come per la prova generale di una tragedia da mettere presto in scena, gli darà interamente ragione. Scriverà Alessandro Galante Garrone a proposito del libro di Omodeo, in anni assai meno difficili, ma aiutandoci tuttavia a cogliere le implicazioni del discorso di Stuparich: rivendicazione – contro la falsa retorica patriottica e il culto sfrenato della forza che in quegli anni sommergevano il paese – degli ideali di libertà. Era il chiaro significato polemico, politico dell’opera. […] In moltissime pagine è l’aperto biasimo d’ogni sistema politico basato sul soffocamento delle libere anime, sul culto della forza, sull’esaltazione guerriera. […] Dalle trincee insanguinate si levava, per bocca di Omodeo, la più severa condanna del regime fascista.22

Ad ogni modo, ritornando agli anni Venti, è evidente che siamo entrati, con la lettera a Delcroix, in quella fase del percorso stupariciano che Fulvio Salimbeni ha opportunamente definito «“latomica”, ma non per questo meno significativa dell’opera educativa e di difesa del Risorgimento»23 (o meglio, in questo caso specifico, di una universale dimensione di moralità umana). Negata la libertà, ridiventa attuale e necessaria la “dissimulazione onesta”, un tema su cui Carlo Muscetta, che aveva preso la tessera nel 1937, disquisì su «Primato» (15 maggio 1943) in un emblematico contributo a commento dell’opera di Torquato Accetto. 20 Stuparich, La guerra vissuta, cit. p. 261. 21 Ivi, p. 263. 22 A. Galante Garrone, Omodeo politico, in «Belfagor», 1961, p. 650. 23 Salimbeni, Giani Stuparich e la Grande guerra - Introduzione, in «Quaderni giuliani di storia», Anno X, n°2, dicembre 1989, p. 249.

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Se poi apriamo Trieste nei miei ricordi, l’esigenza di «religioso silenzioso» acquista un limpido significato metaforico, assolutamente esplicito finanche nel non detto, e capace di gettare qualche luce sulle criptiche espressioni indirizzate a Delcroix. Perché nel libro di ricordi l’effusione di una volontà di potenza collettiva, spavaldamente sicura di sé e ansiosa di mettersi alla prova, trova il suo simbolo più congeniale – un simbolo del “male” che andava inquinando la società – nei canti delle milizie, con valore antitetico rispetto alla ricerca di solitudine e di silenzio di un uomo che, trovato esempio in un fratello ormai al di là delle cose del mondo, 24 aveva scelto di esprimersi solo con il linguaggio dell’arte: ecco dunque Stuparich mettere in evidenza, con un gioco di echi e di riprese tanto più efficace quanto meno studiato, i «canti spavaldi delle prime squadre fasciste», 25 su cui richiama la sua attenzione Oberdorfer, «le canzoni aggressive delle squadre fasciste»26 che lo raggiungevano fin nella quiete della sua casetta di Scorcola, «i canti spavaldi, ritmati col passo»27 dell’occupatore tedesco che ferivano l’anima di Bianca, la sorella, moribonda in un letto d’ospedale. Un reticolo cui si contrappone quello altrettanto fitto delle allusioni alla propria solitudine, che trova eccezione soltanto nella frequentazione di pochi amici, i sodali della religione delle lettere: è l’«isolamento dalla società»28 reso più facile dal trasloco in una villetta di mezza collina ed è la fuga dalla città quando in essa scoppiava la stridula esultanza delle celebrazioni del regime («Era un lunedì, il 9 maggio», racconta Stuparich a proposito del suo grave incidente di roccia, «in città i fascisti celebravano la conquista dell’Impero. Quasi sempre noi prendevamo il largo in simili giornate […]»29). In effetti, «le adunate di popolo, lo sport di massa, la folla vivente nello stadio, il canto corale, i campeggi e le colonie sono tutte espressioni di una vita collettiva, dirette a dare alla nazione un senso di esistenza unitaria […]. Onde si possa costruire un arco di gente italiana, plasmata entro i confini come una sola 24 Così si era rivolto Giani a Carlo, per restare nel campo metaforico che stiamo sondando, quasi invidiandogli quella pace suprema che lo sottrae agli odî della terra: «voi più non passate con canti e con bandiere: la vostra giovinezza è già passata […]. Anch’io sarei dovuto passare con voi, con te fratello, poiché codeste erano le mie schiere; ma a un tratto mi sono guardato intorno: voi non eravate ed io fui solo; e più non posso mescolarmi e marciare con quell’altra giovinezza laggiù». Stuparich, Colloqui con mio fratello, cit., p. 79. 25 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 50. 26 Ivi, p. 89. 27 Ivi, p. 14. 28 Ivi, p. 88. 29 Ivi, p. 129 L’esempio non sembra scelto a caso: la proclamazione dell’impero nel maggio 1936 offre il destro alla folla dei cortigiani di prodursi sulle pagine dei giornali in arditi collegamenti tra il maggio radioso dell’interventismo e il maggio imperiale di Mussolini (cfr. Isnenghi, Il radioso maggio africano del «Corriere», in Id., Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino, 1979), accostamento che doveva certo suonare sacrilego alle orecchie di Stuparich.

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anima e pronta ad una azione di universalità, ad un’azione d’impero»30, come spiegava un ideologo del regime. Ed era proprio a queste cerimonie di massa di un nuovo culto pagano che invocava il cimento guerriero che Stuparich voleva sottrarsi, trovando sollievo tanto nel colloquio con i giovani delle sue classi, dietro le porte chiuse di un’aula scolastica dove poteva liberamente esprimere il suo diverso senso della vita, che nella pratica dell’arte, intesa, ma senza compiacimenti aristocratici, come la maniera più nobile per parlare all’Uomo di lui stesso («La fede dell’arte», scrive a proposito di Anita Pittoni, ma vale anche per sé: «come nella conoscenza più vera, più profonda, più illuminatrice della vita umana»31). Speculare al garbato rifiuto opposto a Delcroix c’è il no, che delude i compagni di un tempo, a manifestazioni di segno opposto, che, per quanto probabilmente più prossime al suo intimo nucleo morale, avrebbero obbligato Stuparich a tradire l’ormai assoluta consegna del silenzio in campo politicoideologico. Fra i documenti d’archivio rimane la minuta di una lettera scritta fra l’ottobre e il novembre del 1924 e indirizzata a Salvemini («il maestro da cui avevo imparato che la verità, anche quando duole a noi e duole a dirla, anzi forse proprio allora è necessario che sia detta»32), da cui gli era giunta la richiesta, cofirmata da Jahier e Zanotti Bianco, di sottoscrivere una protesta contro la “profanatoria” presenza di Mussolini a Cremona, nei primi giorni di novembre, per scoprire un monumento a Bissolati: Caro Professore – scrive Stuparich – [...] io mi sento decisamente fuori dalla pratica politica dei nostri giorni: come non capisco le manovre le parate così non capisco le proteste. Saranno utili e necessarie per chi è nell’azione, per me solamente superflue. Il confusionismo d’oggi non si vincerà, a mio modo di vedere, se non lasciandogli pieno sfogo, trascurandolo del tutto, rinunciando insomma a parlare a quel numero di gente che oggi s’appassiona alla politica. È da qualche tempo che io mi sono rigidamente convinto di non dover contrapporre nulla a ciò che penso che avvenga di male e di falso giorno per giorno in Italia, e questo onde poter lavorare con animo tranquillo, in un’atmosfera ingenua […]. Perciò non aderisco alla protesta […]. 33

Fedele all’impegno che si è dato, a partire dagli anni della lettera a Delcroix, del Discorso agli studenti del Liceo Dante e della lettera a Salvemini, oltre che esprimersi nelle grandi opere citate nel primo capitolo, Stuparich collabora indefessamente a giornali e riviste, ma solo ed esclusivamente en artiste. «Il Convegno», «Solaria», «L’Italia letteraria», «Pegaso», «Nuova Antologia», ecc., sono i differenti approdi verso i quali lo conduce, mi pare, più che una precisa 30 U. Bernasconi, Vita di masse, in «Gioventù Fascista», 1 maggio 1934, ora in E. Gentile, Il culto del littorio (1993), Laterza, Bari 2001, p. 172. 31 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 187. 32 Ivi, p. 103. 33 Documento conservato in Fondo Stuparich AD-TS.

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messa a fuoco dell’indirizzo estetico della singola testata, la casualità di positivi rapporti personali (sarà per esempio la stima, contraccambiata, per Giovanni Gentile e Antonio Baldini ad orientare verso la «Nuova Antologia» la prima pubblicazione di Guerra del ’15). Poi, dal 1932, la collaborazione con la «Stampa» di Torino, che fino a tutto il 1943 (e poi saltuariamente, anche nel dopoguerra), rappresenterà il “palcoscenico” preferito dello scrittore, sul quale egli farà sfilare i personaggi e gli episodi della sua narrativa “minore”, i suoi ricordi, le riflessioni di uomo morale. Più di 160 elzeviri, in 12 anni:34 ipoteca per una non effimera fama italiana, e sostanzioso aiuto alle finanze di una famiglia mono-reddito con tre figli e una anziana madre a carico. Dà motivo di riflettere ciò che scrive Stuparich a proposito di questa collaborazione, consentendoci di giungere al punto più spinoso di questo capitolo. Devo dire subito che trovai in Alfredo Signoretti, direttore del giornale, una insperata comprensione e un raro rispetto per la libertà dello scrittore. Signoretti conosceva le mie idee, aveva in archivio la mia cartella personale di collaboratore, quelle mie prose trattavano argomenti delicati e, se le rileggo, ancor oggi, mi sembra strano come siano passate tre di seguito coi titoli «ragionare», «sentire», «amare», che non ci voleva molto a capire in quale relazione fossero con le direttive dei tempi proclamate dall’alto: «credere», «obbedire», «combattere». Non un taglio, non un cambiamento in quei miei articoli. A Torino, un giorno che andai alla Stampa, nel congedarmi mi sentii dire da Signoretti le testuali parole: «Mi mandi pure liberamente i suoi scritti, farò tutto quanto dipenderà da me perché passino», (che poi lo stesso Signoretti si sentisse costretto a scrivere nella prima pagina dello stesso giornale certi articoli di fondo, è uno di quei «misteri della coscienza italica», anche troppo noti agli studiosi del nostro costume politico).35

Tutto risolto, dunque? Non credo: qualcuno potrebbe considerare un «mistero della coscienza italica» altrettanto grande il fatto che Stuparich si stupisse dell’intonazione degli articoli di Alfredo Signoretti, che agli esordi del fascismo aveva collaborato al «Popolo d’Italia», che dal 1922 al 1935 dirige, su preciso incarico di Mussolini, la rubrica di politica estera di «Gerarchia», e che in seguito diventa capo redattore de «La Stirpe» e docente di Politica Internazionale alla Scuola Fascista di Giornalismo (e che poi, lasciato l’incarico alla «Stampa» all’indomani del 25 luglio, fu, nel dopoguerra, direttore del monarchico «Voce dell’isola» di Catania, e del napoletano «Roma» di Achille Lauro, pubblicando, da scrittore, per le edizioni del «Borghese»: come a dire 34 Li ha pazientemente raccolti S. Arosio, a cura di, Stuparich, Garofani alpestri e altri scritti dispersi, Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione, Trieste 2001, dove trovano posto gran parte degli elzeviri scritti dal 1934 al 1949; Id., Il guardiano del vecchio faro e altri scritti dispersi, cit., che accoglie un numero considerevole dei restanti. Da vedere, sul fronte della critica, oltre alle introduzioni della Arosio, Storti Abate, Stuparich elzevirista, in «Metodi e ricerche», luglio-dicembre 2003 e Arosio, Scrittori di frontiera - Scipio Slataper, Giani e Carlo Stuparich, Guerini scientifica, Milano 1996. «La Stampa», il giornale con cui Stuparich collaborerà per più decenni, assume tale nome dal 1908. Poi dal 21 luglio 1945 diventa «La Nuova Stampa», fino al 5 maggio 1949. Ma a tutto dicembre 1958 appaiono sulla testata tanto «La Stampa» che «La Nuova Stampa». 35 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 165.

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una granitica coerenza di ideali36); e che non capisse che collocando i suoi evasivi elzeviri in un giornale così ideologicamente connotato poteva creare macroscopici malintesi intorno alle sue convinzioni (in un contesto storico in cui «la stampa fu il canale principale attraverso il quale il regime trasmetteva alle masse le linee della sua politica interna»37 tanto da acquisire evidenti, per chi volesse vedere, «funzioni manipolatorie»38). Non pare per altro casuale, quanto al contrario perfettamente calibrata, la scelta della formula «si sentisse costretto» del passo citato, quasi che, a difesa di Signoretti, del proprio agire e, con implicita estensione, della folta schiera di intellettuali compromessi, Stuparich considerasse opportuno introdurre la categoria della “costrizione” per spiegare ogni forma di collaborazione. Si potrà per inciso notare che Togliatti – il fautore, da Guardasigilli, di quella amnistia del 1946 che, come in certi giochi di bimbi, mandò tutti liberi – gli diede ragione, considerando egli pure «l’iscrizione degli adulti al partito […] una forma di costrizione indiretta».39 E siamo già entrati in medias res, come si vede, di un discorso che eviterei volentieri, ma che serietà d’indagine impedisce venga tralasciato. Ciò che me lo rende discaro è il rischio di esagerare nel senso dello spirito conciliativo, oppure della severità intransigente. E tutto ciò nella piena consapevolezza che per chi appartiene a una generazione che non ha conosciuto, per sua fortuna, né il dispotismo né la guerra, salire sullo scranno del giudice è quantomeno segno di arroganza. Prima di aprire bocca è opportuno quindi riflettere su ciò che ha scritto Gaetano Salvemini: «Si possono condannare a cuor leggero questi uomini, che non furono eroi, ma che sarebbero rimasti degni del rispetto di se stessi sotto un regime libero?», commenta a proposito di quegli intellettuali – professori universitari nella fattispecie – che giurarono fedeltà al fascismo per conservarsi la cattedra, sulla base del decreto dell’8 ottobre 1931, con parole però che possono essere intese in senso più generale. Sotto un regime libero – continua – nessuno è obbligato ad azioni che ripugnano alla sua coscienza: chi è opportunista è tale, perché così è fatto da madre natura. Sotto un regime dispotico anche chi non commetterebbe viltà per temperamento innato,

36 Interessante per cogliere la complessità di una figura di fascista integrale, per quanto non fanatico, il volume di memorie, Come diventai fascista, Volpe, Roma, 1967, che si arresta però purtroppo al 1925, quando, apertasi la fase del regime «l’impegno», afferma Signoretti, diventò ormai «totale» (p. 179). 37 Cannistraro, cit., p. 174. Libro utile anche per capire il fitto reticolo dei controlli sulla stampa, tanto centralizzati che periferici (con incaricati presso le Prefetture). Da aggiungere che, più che alle masse, come scrive Cannistraro, è verso i ceti medi urbani che, in un’Italia ancora ampiamente analfabeta nelle campagne, i giornali diffondevano la propaganda di regime. 38 Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, cit., p. 50. 39 A. Agosti, Togliatti, UTET, Torino, 1996, p. 188. Da notare il diverso atteggiamento scelto dall’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, dove Benedetto Croce sedeva a fianco di Carlo Sforza (durò poco, naturalmente verrebbe da aggiungere, dal settembre 1944 all’ottobre 1945), e che decise di riconoscere la qualifica di “antifascista” solo a chi non avesse preso la tessera. Cfr. D. Musiedlak, Lo stato fascista e la sua classe politica 1922-1943, il Mulino, Bologna, 2003, pp. 555-556.

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deve commetterle per compulsione esterna, contro la propria coscienza. Solo chi ha provato le angosce di certe scelte imposte dalla necessità può comprendere il dovere di essere indulgenti verso certe abdicazioni.40

E quindi il quesito: si può parlare, a proposito di Stuparich, di una vera e rigorosa presa di distanze dal fascismo? Una condizione ampiamente vantata dallo scrittore, in special mondo nelle pagine di Trieste nei miei ricordi, e pienamente riconosciutogli da parte della critica, in particolare da Renato Bertacchini41che vede in lui l’espressione di un «autentico, contemporaneo risorgimentalismo antifascista», 42 e in anni più recenti e con piglio più perentorio, da A. Galante Garrone, ai cui occhi l’antifascismo di Stuparich appare un granitico ed indiscutibile dato di fatto. 43 Bisogna aggiungere che il problema della posizione dello scrittore nei confronti del regime resta, nonostante ciò che diremo, ancora aperto; per capire meglio non si può ad ogni modo prescindere dalla comprensione del particolare carattere del totalitarismo fascista: regime radicato, che riscuote ampio consenso e che governa la vita politica, civile e culturale del Paese in tutti i suoi risvolti. Un circuito capillare di controllo, reso anche possibile grazie al proliferante «bacillo della burocratizzazione totalitaria», 44 impone agli intellettuali una certa lealtà di fondo, pur manifestandosi elastico quanto alle sfumature. La spirito è quello del «contenimento e irregimentazione». 45 Stuparich non solo lo sa, ma lo ha sperimentato a proprio spese. La pubblicazione inizialmente “a singhiozzo” di Guerra del ’15 sulla «Nuova Antologia» procede speditamente superando censure e incertezze redazionali solo quando lo scrittore decide di premettere alla seconda puntata, così la sensata opinione di Francesca Bottero, 46 l’avvertenza 40 Salvemini, Dai ricordi di un fuoruscito 1922-1923, a cura di M. Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 132-133. 41 Più sfumata A. Vinci: «silenzio, studio, lavoro e povertà, ma spesso anche il rimorso di non riuscire ad accettare il rischio di un impegno più aperto contro il regime: è questo l’atteggiamento che contraddistingueva molti di quegli “uomini liberi”. Così è per Giani Stuparich, così per il poeta Biagio Marin, disilluso dagli esiti di quella che gli era parsa una vera rivoluzione». Vinci, Il fascismo al confine orientale, cit., p. 513. 42 Bertacchini, cit., p. 109. 43 Galante Garrone, Giani Stuparich fra le due guerre, in «Nuova Antologia», ott.-dic. 1997. Rileggendo un mannello di lettere stupariciane a Maria Garrone, Galante Garrone mette in rilievo l’atteggiamento di stizza e amarezza manifestato da Stuparich nei confronti del presente, a suo parere segno di «antifascismo appartato e sdegnoso», «precoce e coerente» (pp. 7, 8). 44 E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, La Nuova Italia scientifica, 1995, p. 184. 45 V. Zagarrio, Arte, cultura, cinema del fascismo attraverso una rivista esemplare, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, p. 48. Zagarrio si riferisce ai giovani, irrequieti per definizione, ma la formula potrebbe valere per tutta l’ “infida” categoria degli intellettuali. 46 Bottero, Sul laboratorio di Giani Stuparich, ecc., cit.

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che ancor oggi leggiamo. 47 In questo modo le critiche alla conduzione della guerra del soldato Sartori-Stuparich, sempre inquadrate per altro in un discorso complessivo che non conosce acidi polemici e neppure insofferenza, risultavano nascere da una soggettività incapace di cogliere il disegno complessivo della strategia militare, frutto, e niente di più, delle comprensibili ansie di trincea. A prestar fede ad Elio Apih, ad ogni modo, negli anni della presa del potere di Mussolini, fase di disorientamento e di travagliata ricerca di sé da parte di Stuparich, ad «una certa qual accettazione della “controrivoluzione preventiva” asserita a propria giustificazione dai fascisti» – disponibilità forse anche venata da un’ombra di “conservatorismo di classe” – si intreccia, nello scrittore, una specie di «accettazione fatalistica del destino del paese» supportata «da uno sconfortato giudizio sul paese stesso». 48 Una messa a fuoco psico-ideologica che, assolutamente plausibile, consiglia lo storico di accreditare a Stuparich, come abbiamo anticipato, un «antifascismo, ma senza ideologia», 49 giudizio che sarà ripreso, ma rendendolo più secco e perentorio, da Roberto Damiani, che propone la formula di «prudente “afascismo”».50 Scrive Damiani: «il cosiddetto antifascismo di Stuparich sembrerebbe emergere dall’inconciliabilità tra la sua visione dichiarata della vita e i miti predicati dal regime: inconciliabilità tutt’altro che plateale».51 D’altra parte, ripercorrendo il famoso episodio della stroncatura di Ritorneranno da parte di Federico Pagnacco, il critico ha buon gioco a sostenere che il dito sul grilletto è di Pagnacco, ma a caricare e a puntare hanno provveduto anni di nazionalismo efferato e di progressivo appiattimento sulla linea dell’aggressione alle minoranze, prima l’etnica e ora la razziale. E senza che mai Stuparich usasse della sua pubblica autorevolezza per condannare apertamente ciò da cui pure difendeva, con le sue “entrature” personali,52 i suoi cari.53

Tuttavia, di qualche atteggiamento dello scrittore definibile come nonconformista, nel grigiore servile di un Paese prono, danno notizia, appoggiandosi

47 «Annotazioni fatte […] da un semplice gregario […] senza controllo, senza possibilità di appurare la verità storica di certi fatti o la giustezza di certi apprezzamenti […]», in Stuparich, Guerra del’ 15, cit., p. 7. 48 Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., pp. 128, 129. 49 Ivi, p. 130. 50 Damiani, Giani Stuparich, op. cit., p. 95. 51 Ivi, p. 94. 52 Si riferisce ovviamente, in primo luogo, ai passi compiuti di Stuparich presso Giovanni Gentile per mettere al riparo la famiglia dalle leggi razziali. Cfr. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 136-139. 53 Damiani, Giani Stuparich, cit. p. 94.

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anche a testimonianze di Giovanna Stuparich Criscione, L. Zeno,54 A. Thoraval,55 A. Apollonio, 56 quest’ultimo in particolare a proposito del (supposto) rifiuto di Giani di prendere la tessera del partito e di partecipare alle manifestazioni del regime, accettando cioè di incarnare quel ruolo simbolico e propagandistico che si pretendeva da una medaglia d’oro al valor militare.57 È evidente per altro che questi studiosi semplicemente raccolgono là dove Stuparich ha seminato. Riprendendo il rapporto con i lettori della «Stampa» con un articolo del 27 settembre 1946, lo scrittore comincia a intonare il tema della sua “fronda” personale al regime: «il clima innaturale» che minacciava «i nostri più sacri valori spirituali», scrive, è passato; ora, nel parlare franco della libertà, era venuto il momento di vagliare – con rispettoso pudore, per carità – i meriti di ciascuno. E quelli che lo scrittore avocava erano legati a un articolo del 1935, Sotto la maschera, che descriveva «la faccia ombrosa del pusillanime sotto la maschera imperturbabile di questo falso dominatore» e i tre articoli del 1935-36, Sentire, Ragionare, Amare. Spacciati anche in Trieste nei miei ricordi – dove l’argomentazione, considerata evidentemente decisiva, viene ripresa alla lettera58 – per messaggi cifrati rivolti alla coscienza collettiva, ma di cui, nella loro genericità e nella distanza di tempo che ne separa la pubblicazione (Sentire, novembre 1935; Ragionare, febbraio 1936; Amare, dicembre 1936), solo gli ingegni più sottili, è lecito ritenere, avevano saputo cogliere la riposta intenzionalità. Qualcosa di più, ad ogni modo, delle «strategie antifasciste» vantate da Vittorini, che decise di non salutare romanamente gli inni59 al grande Convegno di Weimar dell’Unione europea degli scrittori cui partecipò nell’ottobre 1942, insieme a Pintor e a 250 intellettuali di varie nazionalità, alla presenza del ministro della propaganda Goebbels (intanto a una decina di chilometri, a Buchenwald, il grande crematorio era già in piena funzione). Tutte mossettine di quello che Velio Spano, lui sì tempra autentica di anti-fascista, uomo, per dire con Bobbio, «senza macchia», 60 avrebbe definito «frondismo da caffé». 61

54 L. Zeno, Stuparich antifascista, in «Nuova Antologia», Gennaio-Marzo 1990. 55 Thoraval, Giani Stuparich et le fascisme, in AA.VV., Aspects de la culture italienne sous le fascisme, Ed. litt. e linguistiques de l’Université de Grenoble, Grenoble 1983. 56 Apollonio, Venezia Giulia e Fascismo 1922-35, Gorizia, LEG 2004. 57 Ivi, p. 99. 58 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 165. Vedi supra p. 211. 59 Serri, I redenti, cit., p. 264. 60 Il «Corriere della sera» del 10 gennaio 2004 riportava una lettera inedita di Norberto Bobbio risalente al 23 aprile 1984, dove il filosofo motivava il rifiuto di un premio che lo avrebbe posto a fianco degli integerrimi Leo Valiani e Riccardo Bauer, sottolineando che era rimasta una macchia nel suo passato, «la tessera che mi era indispensabile per presentarmi ai concorsi universitari». 61 Serri, I redenti, cit., p. 293.

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Del resto l’intero libro di memorie, nella parte che abbraccia il periodo del regime, è intessuto di allusioni al fatto che Stuparich avesse il fascismo a gran dispitto. Assolutamente esplicito anche sul caso di Ritorneranno, al quale Stuparich rivendica, in una suggestiva pagina di auto-esegesi62 dell’autobiografia del 1948, e con un piglio apologetico non privo di buone ragioni (tali da aver sicuramente contribuito ad avallare le generose aperture di credito di molta critica), un senso ed una finalità controcorrente rispetto alle parole d’ordine ufficiali. In realtà lo spirito “trasgressivo” del romanzo, era ben celato in una luce di (studiata?) indeterminatezza ideologica che poteva farlo anche sembrare sostanzialmente consono alla visione del fascismo – coltivata soprattutto, ma non solo, in ambito gentiliano – come erede legittimo della grande tradizione risorgimentale. Tuttavia, la conclusione del romanzo, pur volutamente circoscritta al suo contesto storico, non poteva in effetti che suonare stonata di fronte all’entusiasmo feroce di chi voleva che il fascismo riprendesse la sua marcia rivoluzionaria anti-borghese (e ormai anti-semita). E si dimostrava inoltre capace di registrare la segreta stanchezza di un Paese ormai provato, con crepe crescenti nel tessuto del consenso (in fondo Pagnacco, nell’atmosfera accesa, intransigente, rabbiosamente razzista di una guerra dall’esito assai incerto, non aveva visto sbagliato: se non antifascismo, certo un sentire assai poco “littorio”). D’altra parte, per quanto è dato di sapere di sapere – ma non è improbabile che future ricerche possano dirci qualcosa di nuovo – Stuparich non cercò alcun contatto, nel Ventennio, con ambienti antifascisti, né all’estero, dove pure erano espatriati uomini che egli aveva molto stimato (Salvemini63 e Facchinetti, per esempio), né a Trieste, dove non mancavano figure impegnate nell’attività d’opposizione. E penso, per toccare ambienti a lui vicini (escludendo cioè i nuclei cospirativi della sinistra operaia o slovena), a Bruno Pincherle, 64 nell’area di «Giustizia e libertà», e a Eugenio Colorni, 65 anch’egli insegnante, presente a Trieste dal 1934 al 1938. Amici, entrambi, di Umberto Saba che Stuparich frequentava. Né mai echi di quell’attività o giudizi su di essa, oppure prese di posizione sulle misure 62 Cfr. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 166, 167, 168 passim. 63 Utile per definire la portata e i contenuti del fenomeno del fuoruscitismo intellettuale italiano negli Stati Uniti, giunge, fresco di stampa, R. Camurri, Idee in movimento: l’esilio degli intellettuali italiani negli Stati Uniti (1930-1945), nel fascicolo monografico L’Europa in esilio - La migrazione degli intellettuali verso le Americhe tra le due guerre, in “Memoria e ricerca”, n° 31, 2009, Franco Angeli, Milano. Indicazioni su un certo fermento di spiriti anti-fascisti in ambienti giuliani di ispirazione repubblicana – quelli più consentanei alle posizioni politiche di Stuparich – giungono, in relazione alla vicenda di Gabriele Foschiatti, da G. Fogar, Gabriele Foschiatti, cit., pp.88-90. 64 Su Pincherle si vedano M. Rebeschini, La Trieste di Pincherle, Comunicarte, Trieste, 2008 e M. Coen, Bruno Pincherle, Comunicarte, Trieste 2009. Per un discorso più generale su «Giustizia e libertà», vedi M. Giovana, Giustizia e Libertà in Italia - Storia di una cospirazione antifascista (19291937), Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 65 Di Colorni si vedano Scritti, con introduzione di N. Bobbio, La Nuova Italia, Firenze, 1975, con le famose pagine, Un poeta, dove racconta del suo incontro con Saba e di ciò che ne derivò, sul piano umano e intellettuale.

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con cui le autorità fasciste cercavano di contrastarla appaiono nei suoi scritti: cosa logica, se pensiamo al pubblicato, meno se consideriamo le lettere a corrispondenti e amici (ma qui, forse, il futuro ha ancora qualcosa da rivelare). Insomma una scelta di radicale estraneità: assolutamente comprensibile, ma certo poco conciliabile con l’immagine di specchiato oppositore ai dogmi ufficiali ch’egli volle accreditare. Le cose cambiano, nella società fascistizzata e, dobbiamo credere, nella consapevolezza di Stuparich del suo “libero” spazio di manovra dentro di essa dietro l’usbergo delle due medaglie d’oro, a mano a mano che – a partire dal 1938 l’anno delle leggi razziali da cui Stuparich, figlio di un’ebrea e coniuge dell’ebrea Elody Oblath, si sentiva sicuramente coinvolto in prima persona – con «l’approssimarsi della guerra si moltiplicavano le avvisaglie che facevano prevedere un inasprimento della pressione persecutoria contro gli ebrei». 66 Non era un tema su cui Stuparich avesse mai operato una riflessione, né prima, né durante, né (diversamente da Saba) dopo il fascismo, del tutto estraneo ai suoi interessi com’era estraneo alla sua volontà di impegno spezzare una lancia a favore di connazionali ingiustamente colpiti (nemmeno quando i provvedimenti cadevano su persone per le quali provava stima e amicizia, come nel caso di Aldo Oberdorfer67). Ma ormai gli eventi minacciavano di travolgere lui e i suoi cari: urgevano contromisure di emergenza. 68 In data I febbraio 1940, come risulta da un’informativa del Partito nazionale fascista a firma Vidussoni, Giani Stuparich prende la tessera. 69 Il totale silenzio dello scrittore su questo episodio non 66 E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia (2003), Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 102. 67 Qualche notizia sulla persecuzione che Oberdorfer, ebreo e socialista, dovette subire prima della morte nel 1941, in G. Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell’Italia fascista, Lanciano 1940-1943, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2006. 68 Non rientra in questa rubrica, ne sono convinto, la conversione al cattolicesimo di Elody Oblath Stuparich, risalente al 1938, e il successivo matrimonio religioso con Giani, che anche G. Ziani – nel saggio sulla Oblath premesso a Elody Oblath Stuparich, L’ultima amica. Lettere a Carmen Bernt (1965-1970), Il Poligrafo, Padova, 1991 – non giudica frutto di «mero opportunismo» (p. 19). Se, in questo caso, le leggi razziali hanno giocato un ruolo è stato probabilmente quello di accelerare un travaglio spirituale già in atto, imponendo, ben oltre i temi della razza, una complessiva riflessione di natura religiosa. 69 Qui di seguito l’informativa, inviata in data 4. XII.1942 a Luigi Federzoni, presidente della Reale Accademia d’Italia dal 1938 alla caduta del fascismo, a firma del segretario del PNF Aldo Vidussoni, come richiesto dalle procedure nel caso di una candidatura al prestigiosissimo consesso. Rif. Archivio della Reale Accademia d’Italia presso l’Accademia dei Lincei, Roma, Sezione: candidature di accademici: Stuparich Giani, busta 7, fascicolo 27, p. 19. «Partito Nazionale Fascista, Direttorio nazionale, […] Sede littoria – Roma. // Segreteria politica, n. 1/1575 // Risposta al n. 33905 del 16. 10. XX. Informativa riguardante: Prof Grani (sic) Stuparich / […] / Prof. Pasquali Giorgio / Salvatore Gotta - letterato». (testo) «Il prof. Giovanni Stuparich di fu Marco e di Gisella Gentilli, nato a Trieste il 4 aprile 1891, insegnante di lettere e filosofia presso il R. Liceo “Dante Alighieri” di questa città; discende da matrimonio misto, in quanto è figlio di padre non appartenente alla razza ebraica. È iscritto al P.N.F. con anzianità 3 marzo 1925, avendo chiesto di appartenervi in data 1° febbraio 1940, ex combattente, decorato di Medaglia d’Oro al V. M. Fino al 1940 è stato notoriamente un assente politico. Ha suscitato molte discussioni la sua ultima pubblicazione “Ritorneranno” a sfondo autobiografico e ch’è ritenuta dai più non del

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permette però di ricostruirne ragioni e contesto se non indiziariamente. Difficile pensare, tuttavia, che questa decisione non abbia a che fare con la persecuzione anti-semita, anche alla luce delle lettere che Stuparich scrive, nel corso del 1943, a Giovanni Gentile70 chiedendo prima un colloquio, quindi un intervento diretto. Non sbagliava Giani a rivolgersi al filosofo, con cui era entrato in rapporto negli anni Trenta, in relazione alla pubblicazione di Guerra del ’15. E non perché Gentile avesse mai dimostrato un particolare fastidio nei confronti della legislazione razziale, 71 per quanto l’idea biologica della razza contrastasse con i fondamenti volontaristici della sua filosofia, ma per la disponibilità del gerarca ad attivarsi in favore di amici e conoscenti quando li stimasse sul piano culturale. A beneficio dei quali, pur «attento a che i suoi passi pubblici non si trasformassero in gesti sconvenienti, non esitava a sfruttare la sua ampia rete di contatti». 72 Comunque, nel carteggio le ragioni dell’ansia che aduggia Stuparich non vengono mai nominate, ma a credere a Trieste nei miei ricordi dovettero riguardare la posizioni razziale di membri della sua famiglia, contro la quale, così rivela lo scrittore nelle lettere a Gentile, si ordiscono manovre oscure e si istruiscono, con l’intenzione di nuocere, subdole pratiche di polizia. Rende per altro ancora più intricata la situazione personale di Stuparich un documento rinvenuto da Giorgio Fabre presso la Direzione Generale per la Demografia e la Razza,73 secondo il quale lo scrittore veniva riconosciuto, il 2 ottobre 1942, come «appartenente alla razza ebraica», in tutto consona al tempo fascista». Il documento si presenta con un marcato segno rosso verticale al margine sinistro probabilmente dell’autorità stessa cui l’informativa è indirizzata, e tale da evidenziare la parte relativa alla asserita non conformità di Ritorneranno col «tempo fascista». 70 Sono conservate nel Fondo Gentile, archivio della Fondazione Giovanni Gentile, Roma, e sono consultabili anche on line (www.archivionline.senato.it). 71 Mi sembrano in proposito inoppugnabili le conclusioni di G. Rota, Il filosofo Gentile e le leggi razziali, in Id., Intellettuali, dittatura, razzismo di stato, Franco Angeli, Milano, 2008, che prende posizione, a fianco di G. Turi, contro la visione troppo bendisposta di G. Sasso, P. Simoncelli, R. Faraone. 72 Rota, cit., p. 33. Gentile era al corrente che ormai anche Stuparich portava la ‘camicia nera’? Per quanto le ragioni opportunistiche dell’iscrizione di Stuparich siano, come si è visto, ben evidenti, riporto qui una precisazione di Belardelli (in Storia d’Italia, IV, cit.), relativa alla distinzione, chiara agli occhi di Gentile, fra giuramento di fedeltà al regime e iscrizione al partito, che forse, sottolineo forse, potrebbe aver ulteriormente motivato il filosofo a intervenire a favore dello scrittore: «agli occhi di Gentile il giuramento di fedeltà al regime non rappresentava che un atto di fedeltà allo Stato, mentre l’iscrizione al partito implicava invece una diretta condivisione degli ideali e indirizzi politici fascisti» (p. 462). 73 G. Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino, 1998, p. 367, nota 3 e p. 422 nota 4. Il documento in questione è un appunto dei primi mesi del 1944 a Buffarini Guidi, ma riferito al 1943, vergato dal prefetto Lorenzo La Via di Sant’Agrippina, Direttore generale per la Demografia e la Razza dal 1942 al 1944, membro già dal 1938 di una delle commissioni deputate all’accertamento di razza e alle discriminazioni (cfr. S. Gentile, La legalità del male L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico-giuridica (1938-1945), Giappichelli, Torino, 2013), con il quale il funzionario chiedeva a favore di Stuparich, riconosciuto come ebreo, appunto, nell’ottobre del 1942, un trattamento di riguardo per meriti patriottici e «in considerazione dell’attuale situazione politica triestina» (p. 422): «Stuparich era un “misto” battezzato prima del 1938, ma avrebbe fatto “manifestazione di ebraismo” sposando un’ebrea e avendo figli al 75 per cento ebrei».

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conseguenza dei nuovi controlli sui “misti” classificati come ariani richiesti nel corso di quello stesso anno dagli ambienti del fascismo razzista. Difficile comprendere come la posteriore informativa a firma Vidussoni non vi faccia accenno, mentre, alla luce di questo fatto acquista un senso più compiuto la visita a Roma raccontata in Trieste nei miei ricordi,74 avendo al proprio fianco Gentile ma con esito tuttavia sfavorevole, e diventa più comprensibile il tono disperato di certe lettere al filosofo. Si potrebbe pensare a un certo scollamento, se non forse antagonismo tra i diversi apparati dello Stato fascistizzato, in relazione a una normativa complessa, in evoluzione e non da tutti e del tutto condivisa, tale da far prevalere reti di protezione amicale capaci di contrastare strategie ostili. Reticenza e insabbiamento sono del resto da sempre gli utili anticorpi in strutture burocratiche oppressive e invasive. Resta il fatto che in seguito i libri di Stuparich non vennero mai sequestrati, né posti dalle autorità di Salò nell’elenco degli autori non graditi stilato nel 1944. Ad ogni modo, se prestiamo orecchio alla voce dello scrittore, in quei toni angosciati e risentiti che spiccano nella lettera del 7 luglio XXI a Gentile (nel gruppo di missive del 1943, lo scrittore, contrariamente alle poche lettere precedenti indirizzate al filosofo dal 1930 al 1942, adotta la datazione dell’era fascista), la condizione psicologica del perseguitato che si sente con le spalle al muro e non vede vie d’uscita traspare con assoluta evidenza: Ci deve essere qualche malvagio che tanto qui che a Roma cerca di farmi del male, oramai non ne dubito più. Vorrebbero demolirmi e mettermi “fuori dal dolce seno” della Patria, come scrittore e come uomo. Gente bassa, senza scrupoli e forse influente, che cercherà ancora tutti i mezzi per ostacolare o addirittura impedire un atto di giustizia.

L’atto di giustizia doveva probabilmente riguardare oltre che lui stesso la madre Gisella, come si evince dalla lettera che precede, del 1 luglio. Forse era in ballo quella “arianizzazione” che avrebbe messo entrambi al riparo dalle misure estreme che gli ambienti del fascismo più sfegatato, numi tutelari in campo razziale Farinacci e Preziosi (per il quale Trieste era e restava la «Terra promessa degli ebrei» - così su «La vita italiana», luglio 1941), non cessavano di chiedere (forme di lavoro obbligatorio e addirittura l’internamento75). D’altra parte Stuparich poteva 74 «Molto più tardi, dopo le leggi razziali, con mio profondo avvilimento – ma si trattava delle mie figliole – dovetti ricorrere al Senatore Gentile perché mi assistesse. […] Ho nel ricordo, con un senso di disgusto, la scena che si svolse nella sala lussuosa del Capo, o Ministro che fosse, per la “Difesa della Razza” da cui fummo ricevuti […]. Non appena si venne a parlare della “questione”, l’untuosità di quell’uomo si combinò con la sua innata volpineria e ben presto mi accorsi che la mia causa non era per nulla facile, come m’avevano fatto sperare l’ottimismo e la generosità di Gentile. […] Mi fu penosissimo assistere a quel colloquio, penosissimo l’ambiente in cui avevo messo piede; e soltanto quando uscimmo di là, nello stringere la mano a Gentile per ringraziarlo, ebbi il sollievo di vedere nei suoi occhi buoni un’ombra di profonda, solidale tristezza per la sconfitta subita», G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 138-9. 75 Misura che in realtà venne pochissimo applicata nel caso di ebrei italiani, ma che fu prevista da circolari del Ministero degli Interni alle Prefetture già a partire dal giugno del 1940. Cfr. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 105.

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motivatamente avere l’impressione che un nodo stesse stringendosi intorno alla sua famiglia: le gelosie dell’ambiente triestino, di cui il “caso Pagnacco” è solo una spia, trovano nella legislazione razziale uno splendido arsenale di strumenti d’offesa, 76 mentre, attizzata dal fascismo squadrista e dai circoli universitari dei GUF, 77 la campagna anti-semita, per quanto poco sentita dalla popolazione, tocca estremi di violenza verbale e perfino fisica (attacchi ai luoghi di culto, violenze personali). Sono vicenda di ogni giorno gli affondi che, invitando a forme di rigorosa intolleranza, 78 vanno a colpire anche il «mezzo-ebreo», l’«ebreo mimetizzato», come scriveva con disprezzo Preziosi, quelli che i nazisti presto padroni a Trieste avrebbero chiamato Halbjuden. La stampa locale faceva la sua parte: qui «la parabola dell’antisemitismo tocca il suo acme nel 1942 e manifesta ulteriori frange di violenza nei primi mesi del 1943». 79 A fianco del «Piccolo» e del «Popolo di Trieste/Piccolo della sera», si colloca la «Porta Orientale» di Pagnacco e Coceani che però di solito manteneva un profilo più basso mentre superandoli tutti in tema di accesa polemica anti-semita, spiccava il quindicinale «Decima Regio» del Gruppo dei Fascisti Universitari «Mario Granbassi», salutato da Preziosi, alla fondazione, nel 1941, con esplicito entusiasmo: «voce di fede e di 76 Così De Felice: quelli «che premevano ed eccitavano l’antisemitismo a Trieste erano ovviamente soprattutto coloro che, esclusi dalla direzione della vita pubblica e sociale della città, volevano eliminare gli ebrei per prendere i loro posti. Parte notevole vi avevano anche i maneggi di Farinacci e di Preziosi e soprattutto la lotta fra le due fazioni più importanti del fascismo locale: quella di Giunta e quella di Cobolli-Gigli, per il controllo della città, sicché la campagna contro gli ebrei era una campagna soprattutto di fascisti contro altri fascisti, nella quale gli ebrei diventavano solo un pretesto», cfr. Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pp. 305-306. 77 Sui GUF, facendo piazza pulita di molti comodi malintesi (ovvero che fossero ambienti di incubazione di frondismo e dissidenza), imprescindibile L. La Rovere, Storia dei GUF. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Bollati Boringhieri, Milano, 2003 e S. Duranti, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica propaganda, Donzelli, 2008, Roma. Sui Vittoriali, che a Trieste, nell’aprile del 1939, videro tra i temi trattati quello «razziale» e «demografico», cfr. U. Alfassio Grimaldi e M. Addis Saba, Cultura a passo romano. Storia e strategia dei Littoriali della cultura e dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1983. Per una testimonianza a proposito del sentire delle giovani generazioni cresciute nel regime, interessante la testimonianza di uno di essi, personalità di spicco negli ambienti del sindacalismo fascista: «riprendo ora il discorso su noi giovani, o ex giovani, in quello stesso clima. Sempre a parere mio, quei nostri atteggiamenti, quei nostri comportamenti [di fronda apparente NdA] non furono dunque né antifascismo né fronda al fascismo, ma, lo ripeto, furono opposizione interna nel fascismo e per il fascismo: per tentare di salvarlo attraverso la riaffermazione di un fascismo insieme vecchi e nuovo, cioè veramente rivoluzionario, quale da tanti anni, ormai, esso più non era stato e più non era», in V. Panunzio, Il “secondo fascismo” 1936-1943. La reazione della nuova generazione alla crisi del movimento e del regime, Mursia, Milano, 1988, p. 179. 78 «Il cittadino che non ha coraggio di romperla con l’ebreo […] non può essere fascista, nemmeno se ha in tasca la tessera e all’occhiello il distintivo del Partito», ne «Il Popolo di Trieste», 15. 6. 1942, cit. in Silva Bon, La persecuzione antiebraica a Trieste (1938-1945), Del Bianco editore, Udine, p. 166. La ricerca della Bon, arricchita da ulteriori analisi e riflessioni nel corso degli anni, rappresenta l’opera di riferimento sulla questione. Ancora più approfondito, ma sulla stessa linea interpretativa, Bon, Gli ebrei a Trieste. Identità, persecuzione, risposte, LEC-IRSML, Gorizia, 2000. 79 Bon, La persecuzione antiebraica a Trieste cit., p. 131.

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esasperazione contro il trionfante borghesismo e giudaismo triestino». 80 Ma il GUF, oltre che parlare con voce propria, curava anche una pagina del «Popolo di Trieste», perfettamente allineata con il razzismo più rigoroso, anche prima dei «due popoli - una guerra». 81 Altro che fascismo rozzo e incolto! Qui era la crema della società che ne diventava la feccia, il privilegio sociale e intellettuale e la giovinezza che premevano affinché la storia accelerasse il passo, che è in questo caso il passo romano del più esasperato totalitarismo fascista. Su un confine sempre più caldo, il Limes della civiltà latina, e nella città dove il grande processo del 1941 avrebbe fatto emergere l’attività del TIGR, gli antifascisti sloveni e croati, si reagiva creando un clima di caccia alle streghe e chiedendo che finalmente si “ripulissero gli angolini”, dove gli ebrei (e l’ebraismo era il padre spirituale del bolscevismo, aveva spiegato «Roma fascista» nel 194182), i borghesi, i “tiepidi” di ogni inclinazione e natura, tramavano contro il regime, trovando in un ceto di funzionari locali pronta e attenta disponibilità a misure di inflessibile severità. 83 Seminando paura fra la popolazione e suscitando perfino il fastidio di autorità di polizia sostanzialmente impotenti, aveva ripreso a imperversare anche un rinato squadrismo, orgoglioso erede di quello degli anni Venti. 84 Per quanto riguarda gli Stuparich sembra, ad ogni modo che il problema venisse risolto definitivamente (le figlie si sposano nel giugno del 1943 in due buone famiglie ariane e lasciano Trieste e la sua atmosfera avvelenata) solo con la caduta del fascismo, per riaprirsi all’improvviso il 25 agosto del 1944, con l’internamento degli Stuparich, Giani, Elody, Gisella, alla Risiera. Ma questa è storia troppo nota per doverla ripercorrere. Dunque, timore compromesso e silenzio da parte di Stuparich. Che rendono meno fulgida l’immagine di uomo dalla schiena dritta che si è visto in lui, senza per questo farci meno amare lo scrittore che è stato. Fragile virgulto anch’egli, come 80 Ivi, cit., p. 168. 81 A mo’ di esempio ricordiamo l’articolo del I novembre 1938, Smantellare le fortezze, in una pagina del GUF sul «Popolo di Trieste» tutta dedicata, all’indomani delle leggi razziali, ad esaltare l’impegno fascista contro gli ebrei, e posta nel segno di qualche aspra frase del Gog di Papini. Battaglia contro la «massoneria giudaica» che il giovane letterato autore del pezzo, il futurista triestino Vladimiro Miletti approva in pieno perché promette di spazzar via, lasciando aperta la strada a giovani italiani di ingegno, quelle «persone prive di ogni sensibilità politica verso la vita fascista, cioè vita costruttiva e collettivista, avente per obbiettivo l’elevazione del popolo». 82 Cfr. Serri, I redenti, cit., p. 78. 83 «Il carattere attivamente persecutorio accertato nelle più diverse realtà territoriali (Torino, Firenze, Livorno, Ancona come Trieste ) ribalta il luogo comune dell’indifferenza e dell’indolenza dei funzionari nella messa in atto della legislazione [antiebraica, NdA] e apre molte domande inquietanti su esemplari fenomeni di denuncia, di opportunismo, di violenza da parte di fanatici fascisti, ma anche di frange della popolazione comune», Bon, Gli ebrei a Trieste. Identità, persecuzione, risposte, cit., p. 17. 84 G. Oliva (Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano, 2002) ricorda la grottesca commemorazione dell’incendio del Narodni Dom, «come legame con il momento più aggressivo del primo fascismo», che ebbe luogo a Trieste il 19 luglio 1942 (p. 58).

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tutti, del legno storto dell’umanità. Resta tuttavia il fatto che ciò che adesso sappiamo appanna la limpidezza del suo messaggio morale. Il ritrovato rapporto con il pubblico, che egli volle di pedagogia patriottica sull’orizzonte di valori democratici, risulta viziato alla radice da una voluta, totale “amnesia”. Il cattivo servizio fatto alla verità conferisce peraltro un carattere ambiguo alla comprensione che espresse verso chi non seppe opporsi e collaborò, e alla visione sostanzialmente assolutoria di uomini e Paese, tratti caratterizzanti della sua saggistica e dei contributi civili del Dopoguerra, mentre suonano contraddittori e ipocriti certi duri accenti nei confronti di chi piegò il capo e baciò la mano che colpiva.85 A rendere ancora più complicato il discorso e difficile un equilibrato giudizio storico sono i contributi di Stuparich sulla rivista «Primato». Vi compariranno, dopo una paginetta “d’assaggio” (in occasione del dibattito sul tema dell’Università, sul numero del 1 aprile 1941), tre racconti: Paura della notte (15 agosto 1942), L’addio (15 gennaio 1943), Ragazze romantiche (15 luglio 1943). Oltre all’importante prima pubblicazione, con puntate a partire dall’ottobre 1941, di uno dei capolavori stupariciani, L’isola. Che cosa può aver spinto Stuparich nell’orbita di Giuseppe Bottai, che non era, per la verità, quel moderato “fascista critico” che si è voluto vedere in lui86 ma un ideologo impegnato al servizio del regime perfino sul terreno dell’antisemitismo,87 mentre «Primato», nonostante la diffusa vulgata critica, non risulta, a ben vedere, né un generalizzato incubatoio di frondisti, né una rivista neutra sul piano della politica razziale88? Considerando nella giusta luce il grave passo dell’iscrizione al PNF, si potrebbe pensare ad una strategia stupariciana per rendere più solida la propria posizione a Trieste nei confronti del fascismo intransigente, e in effetti Bottai dovette giungergli utile per quel comando alla Soprintendenza triestina ai Monumenti e alle Gallerie, del 1942, che lo collocava in posizione più defilata rispetto alla cattedra al Liceo Dante, sottraendolo ad una pericolosa visibilità in un ambiente fascistizzato,89 e che non poteva aver

85 «Ma non la soperchieria, né gli eccessi dei nuovo “satrapi”, fra i quali si potevano anche ammirare figure decise e pittoresche, ci recavano sconforto e avvilimento, bensì la mancanza di dignità e di spina dorsale in uomini che fino ad allora avevano operato nella nostra stima e ora invece non si vergognavano a chinarsi a baciar le mani che li avevano schiaffeggiato e di leccare i piedi che li avevano presi a calci nel sedere». Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 152. 86 G. B. Guerri, Giuseppe Bottai, un fascista critico, Feltrinelli, Milano 1975. 87 Cfr. A. De Grand, Bottai e la cultura fascista, Laterza, Bari 1978. 88 Cfr. Serri, I redenti, cit. Ma vedi anche L. Mangoni, «Primato» 1940-43 - Antologia a cura di Luisa Mangoni, De Donato, Bari, 1977 e Luti, Il coraggio della concordia, in La letteratura nel ventennio fascista, cit. Interessante il dibattito che apre sul libro della Serri, e quindi implicitamente su «Primato», Zagarrio, Arte, cultura, cinema del fascismo attraverso una rivista esemplare, cit., vedi Introduzione. 89 G. Turi, Lo stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 2002, ricorda «l’importanza, se non la centralità della scuola, degli intellettuali e della cultura nella campagna antiebraica», p.124.

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luogo senza il beneplacito del Ministro dell’Educazione Nazionale.90 Ma insieme a ciò, intervengono senza dubbio anche motivazioni squisitamente culturali. Stuparich era stato forse convinto dal foscoliano invito di Bottai al «coraggio della concordia» (così il titolo del primo fascicolo di «Primato», il 1 marzo 1940), che, promettendo rispetto per l’autonomia dell’attività intellettuale, chiamava a raccolta gli scrittori in un foglio dal nome giobertiano (nella speranza di aggregare anche quelli più appartati), e faceva balenare il miraggio di una rinascita della tradizione patriottica risorgimentale e interventista, proprio nel momento in cui gli intellettuali subivano il sottile ricatto della patria in armi, al cui fianco schierarsi nonostante tutto? Forse lo avevano colpito gli accenni alla «Voce» (di Giame Pintor, per esempio, nella risposta all’inchiesta sull’Università), e in special modo alla «Ronda», come grandi e legittimanti esperienze del passato? O forse ancora, come ha spiegato Luisa Mangoni, era stato influenzato dal fatto che «Primato» «andava ricollegandosi […] alla difesa di una tradizione liberale europea, in nome della “difesa dell’Occidente”»91? Oppure condivideva la consapevolezza che alla «potenziale supremazia della cultura tedesca in un’Europa dominata dai nazisti»92 si doveva contrapporre la grande tradizione italiana? Difficile a dirsi, né i racconti di Stuparich sembrerebbero in grado di aiutarci a capire meglio. In realtà il problema presenta pieghe inaspettate: come è stato mostrato nella più articolata e argomentata delle antologie di «Primato», proprio nella seconda metà del 1941, quando Stuparich inizia a collaborare alla rivista si accentua il suo «carattere letterario»93 e comincia a risuonare nei suoi confronti, da parte di gruppi fascisti antagonisti, l’«accusa di antifascismo».94 Se consideriamo poi tanto l’interesse di «Primato» per la letteratura americana – valorizzata in virtù del suo modo nuovo, fresco e perfino ruvido di descrivere la realtà (in palese contraddizione, va da sé, con le esplicite nostalgie rondiste) –, che le rubriche cinematografiche della rivista, che sembravano rivendicare al cinema la posizione di più promettente fra le arti del presente e dell’avvenire, non sarebbe azzardato ipotizzare che Stuparich volesse scendere in campo mostrando in modo diretto e autorevole percorsi di stile e di fantasia più congrui ai valori tradizionali dell’arte

90 In una lettera del maggio 1953 a Cino Macrelli, la cui minuta è conservata nel Fondo Stuparich, AD-TS, in cui Stuparich chiede all’ex-internato di Mauthausen, dove lo aveva probabilmente conosciuto nel periodo della prigionia, di intervenire presso il ministro A. Segni (alla Pubblica Istruzione dal 1951 al ‘54) per poter conservare il comando alla Sopraintendenza ai Monumenti che deteneva dal 1942, lo scrittore accenna a un esplicito interessamento a suo favore da parte del ministro d’allora, ovvero Bottai, che lo voleva piuttosto al lavoro, da scrittore, con la penna, che come insegnante in una classe. Nel curriculum che allega Stuparich si definisce «collaboratore di ‘Giustizia e Libertà’con la tessera n° 770». 91 Mangoni, L’interventismo della cultura - Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Bari, 1974, p. 344. 92 De Grand, Bottai e la cultura fascista, cit., p. 273. 93 Mangoni, cit., p. 37. 94 Ivi, p. 232.

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italiana. Era così del resto che lo avrebbe interpretato, proprio su «Primato», Mario Alicata, sviluppando uno spunto di Pancrazi: in Motivi di Stuparich, datato 15 ottobre 1942, lo scrittore gli sarebbe apparso «scrittore vero, anche se è rimasto a modi di scoperta e a motivi tradizionali»,95 tanto nella sua capacità di sottrarsi alle strettoie e ai conformismi di una «educazione»96 letteraria sempre a rischio di isterilirsi in esercizio retorico, quanto nella positiva reattività alle sollecitazioni di un «assillo morale»97 diventato, secondo consuetudini mitteleuropee, spregiudicata capacità di scrutarsi. Nessuna relazione dunque, in ultima analisi, con l’orizzonte ufficiale di una rivista che ancora, a poche settimane dalla crisi del regime, era pronta a giurare sull’«inesauribile genialità del temperamento critico di Mussolini»98 e che si spendeva, nei corsivi e negli articoli del direttore (ma non solo, e penso a E. Paci), a esaltare la guerra come «prova suprema dell’autenticità morale di un popolo», di contro alle «arti mortifere della pace»99? Non ne sarei così sicuro: L’addio, una delle novelle accolte su «Primato», ha un contenuto per più aspetti imbarazzante, e bisogna tenerne conto. Ne è protagonista Costanza che ha visto partire Renzo per la guerra e non gli ha confessato ciò che essa stessa proprio in quel giorno, aveva saputo di sé, di loro: il concepimento di un figlio. E ne porta nell’anima un incancellabile rimorso. Ora, 27 anni dopo, è chiamato alla guerra anche Giulio, ormai uomo: «sotto l’ala del cappello d’alpino spariva tutta quella sua fronte alta e rugata d’uomo maturo, e restava soltanto l’espressione fanciullesca e timida del volto».100 E nel dolore per quell’addio, l’antica sofferenza si stempera e si sublima, i due uomini fanno tutt’uno, e nel sorriso di Giulio ella ritrova, finalmente rasserenata, quello perduto di Renzo. Costanza guardò il tavolo da lavoro di Giulio e chiuse gli occhi. Rivide il treno che si allontanava e ai finestrini tutte quelle facce sorridenti dei giovani, in mezzo ai quali era il suo Giulio. Il sorriso di Giulio formava come una aureola che si rifletteva anche sugli altri, è così li riavvicinava di più al suo cuore di madre: tutti, come se fossero stati suoi figli, nati dalle sue viscere.101

Forse si osa troppo a voler desumere implicazioni di natura ideologica da un racconto che vale soprattutto come studio di psicologia femminile. Ma quel mettere

95 Ivi, p. 155. 96 M. Alicata, Scritti letterari, Mondadori, Milano, 1968., p. 152. 97 Ivi, p. 151. 98 G. Bottai, Vent’anni di «Critica fascista» (15 maggio 1943), ora in Mangoni, «Primato» 1940-43 - Antologia, cit., p. 438. 99 Bottai, La guerra, scienza morale, in «Primato», 1. XII. 1942. 100 Stuparich, L’addio, ora in Id., Il giudizio di Paride, Garzanti, Milano, 1950 (ma già in volume nel 1944), p. 136. 101 Ivi, p. 146.

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insieme due guerre, così totalmente diverse, implicando la figura di un uomo che resta, nel percorso di Stuparich, un punto fermo di vita e di pensiero (non ci vuole molto a capire, a Trieste almeno, quale vicenda Giani racconti: è il tragico destino degli Slataper, due padri, Scipio e Scipio Secondo destinati a morire in guerra senza poter abbracciare i figli, nati mentre essi sono già al fronte), e senza che una sola parola specifichi e distingua, e pubblicare su una rivista di regime che proprio su quell’accostamento esercitava le sue lusinghe, impone qualche riflessione. Stuparich non poteva ovviamente sapere che in quello stesso gennaio 1943 si sarebbe compiuto, nel corso di una tremenda ritirata, il quasi totale annientamento della divisione Julia (possiamo ipotizzare che il racconto fosse stato scritto e consegnato nei mesi precedenti), e quindi sarebbe ingiusto accusarlo di mancanza di pietas o di cinismo. Resta il fatto che cade vittima di un senso malinteso dell’onor militare che prescinde totalmente dall’analisi del significato e delle ragioni di una guerra d’aggressione condotta, fino al disastro, con la latta ed il cartone (se vogliamo escludere in partenza, e credo sia il caso, ogni forma di sincera adesione ideologica da parte di Stuparich alla crociata fascista e cristiana contro il bolscevismo102). Sfogliando «Il Piccolo» di Trieste è facile rendersi conto di come veniva presentata la campagna di Russia. Da un lato l’offensiva pubblicistica veniva portata sul piano ideologico. Nei russi si voleva vedere un popolo schiacciato da una cricca di crudeli politicanti che avevano edificato un sistema dispotico e oppressivo che annullava l’individuo e la coscienza, agli antipodi dei valori politici, sociali, economici e religiosi del fascismo, concezione elaborata su un orizzonte discorsivo le cui allusioni andavano a toccare luoghi comuni ben incistati: civiltà contro barbarie, Europa contro Asia, cristianesimo contro ateismo comunista (toccavano questa corda Missiroli e Guido Manacorda). La costruzione della “nuova Europa”, il grande impegno delle forze dell’Asse, non poteva quindi prescindere dall’annientamento del bolscevismo. Dall’altro, sotto un profilo più specificamente militare, si evocava l’epos del soldato italiano, l’alpino della Julia in particolare (in prima pagina il 19 dicembre 1942: Alpini sul Don, articolo ripreso dal «Völkischer Beobachter»; 30 dicembre: Gli alpini della Julia citati agli ordini del giorno del comando tedesco; ecc.). Grazie alla penna di abili giornalisti (Raffaello Guzman, Cesare Rivelli, Carlo Tigoli) i quotidiani reportages della campagna di Russia acquistavano un coinvolgente andamento narrativo, e

102 Si veda, per i presupposti ideologici dell’aggressione alla Russia e per l’ampio consenso che la campagna riscosse in Italia, «segnato da un carattere fortemente ideologico» (p. 91) in un contesto di «adesione alla guerra fascista ancora su livelli alti dopo più di due anni» (p. 102), M. Avagliano e M. Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943, il Mulino, Bologna, 2014, da cui abbiamo tratto le citazioni precedenti. Non mancano peraltro conferme in tal senso di ambienti triestini non lontani da Stuparich, per es. le lettere al padre dei due figli del poeta Giotti (cfr. Lettere al padre: dialogo di Virgilio Giotti e i figli durante la campagna di Russia, a cura di A. De Simone, introduzione di C. Segre, postfazione di C. Magris, Il ramo d’oro, Trieste, 2005). Per capire il clima che accompagnava la campagna di Russia, esemplare il film di Roberto Rossellini L’uomo dalla croce, che fu proiettato nelle sale agli inizi del febbraio 1943, quasi contemporaneamente quindi all’uscita dell’Addio.

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gli italiani vi apparivano come degli eroici liberatori. 103 Un tema ribattuto giorno per giorno, fino al marzo del 1943, quando le notizie che annunciano il ritiro di reparti dell’ARMIR «per un periodo di riposo» (3 marzo 1943) fanno capire che l’avventura sarmatica si era conclusa. Con il drammatico disimpegno italiano, della Russia si scrive sempre meno e spesso solo in seconda pagina. La trappola ideologica per la conquista del consenso era comunque scattata e in essa un uomo leale alla patria e partecipe, da ex ufficiale, delle sorti dell’esercito, poteva facilmente cadere. Parecchi anni dopo ricordando una medaglia d’oro della Resistenza, Biagio Marin avrebbe scritto: oggi si fanno molte e vane distinzioni anche a proposito del supremo sacrificio dei nostri figlioli. Che la storia di un popolo non è quella delle sue fazioni non lo si vuole intendere; che la realtà di un popolo è complessa, non lo si vuol capire, ed alla vita comune si ama astrarre qualche filone, che non sarebbe mai potuto esistere senza la compresenza di tutto il resto. Drammatica è la vita unitaria dei popoli e le idee diverse e le diverse fedi sono ugualmente necessarie. Ma, sia chiaro, tutte le vite confluiscono in un’unica storia: quella di Sergio Forti, medaglia d’oro della Resistenza, come quella dei due Slataper caduti in Russia, medaglie d’oro della continuità nazionale.104

Stuparich – che pure, a riottenuta libertà, si sforzerà di distinguere, come vedremo, tra guerre di giustizia e di imperialismo – sarebbe stato sicuramente d’accordo. Per altro, e qui riprendiamo il percorso sul versante più malizioso delle ipotesi, era evidente che sotto l’ombrello di Bottai, nel clima esasperatamente endoconflittuale delle fazioni fasciste, si poteva sperare in un porto sicuro, tanto come uomo che come scrittore. Ma certi rospi andavano ingoiati. Come già Federzoni, di cui «Il Piccolo» di Trieste (17. I. 1941) riporta i lusinghieri giudizi su Ritorneranno, nel momento dell’uscita del libro sulla «Nuova Antologia», si schierano a favore dello scrittore e del romanzo (con fini deduzioni interpretative) i più valenti campioni della squadra di «Primato»: Alfonso Gatto, uno degli «intellettuali di Mussolini»,105 nel settembre 1941 (“Ritorneranno” di Giani Stuparich) e Mario Alicata (Motivi di Stuparich, già citato, il 15 ottobre 1942106). Interventi nutriti di ammirativo consenso ma che, come abbiamo visto, non garantivano l’immunità in periferia.

103 Con un effetto, si direbbe, che dura fino ad oggi, e che, nel sentire comune, ha cancellato il carattere di aggressione della campagna di Russia: cfr. T. Schlemmer, Invasori non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009. 104 Marin, A ricordo di Sergio Forti (1964), in Id., Autoritratti e impegno civile, cit., p. 213. 105 Cfr. G. Sedita, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Le lettere, Firenze, 2010. 106 Andrà incidentalmente notato che in un saggio tutto a lode di Stuparich Alicata forniva involontariamente nuovo materiale incendiario per gli auto da fé del fondamentalismo fascista della Venezia Giulia. Come valorizzante pietra di paragone Alicata cita spesso Svevo (il cui busto era stata intanto tolto dal piccolo pantheon en plein air del Giardino Pubblico di Trieste) e individua l’ubi consistam dei mondi narrativi di Stuparich nell’«operosa borghesia commerciale» della città.

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Domenica 23 agosto 1943, sulla III pagina del «Piccolo», un importante contributo di Stuparich: A Firenze nel 1911. Dopo una lunga assenza, un grande ritorno sul maggior giornale triestino. Il fatto è che ne reggeva le sorti, dal 28 luglio di quell’anno, Silvio Benco. Inneggiando alla libertà, il giorno seguente, Benco aveva scritto un corsivo che impegnava il giornale ad una linea di assoluta lealtà nazionale: Noi siamo dunque impegnati in una guerra che non si estingue e non si sospende da un momento all’altro per rispetto alla nostra libertà di disputare e di manifestare ma che nell’interesse della Nazione e di noi tutti dobbiamo condurre fino ad una soluzione onorevole per l’Italia quali hanno meritato gli eroismi dei nostri soldati, i sacrifici del nostro popolo e i sepolcri dei nostri Caduti. In chi dobbiamo aver fede, nell’attuale momento, se non nel grande Soldato che è stato voluto dal Sovrano al governo delle cose italiane?

Nei giorni seguenti (fino al nuovo cambio di direzione, il 9 settembre, dopoché il “grande Soldato” ebbe annunciato, con il tatto che sappiamo, il ribaltamento di alleanze) Benco avrebbe plaudito al divieto di ricostituzione dei partiti, avrebbe salutato come un generoso «Andare al popolo» l’interesse “sentimentale” di certi politici del governo Badoglio per la difficile quotidianità dei ceti operai, avrebbe sostenuto il dovere di essere degni degli ideali di libertà e di giustizia caratteristici della nazione italiana continuando a fianco di Hitler una guerra che, sbarcati gli Alleati in Sicilia, doveva apparire perduta anche ai più inguaribili ottimisti (e senza esprimere una sola parola di biasimo nemmeno nei confronti delle peggiori nefandezze del passato regime, le leggi razziali per esempio, o dei suoi più tragici azzardi politico-militari, come la costituzione della provincia di Lubiana, che il governo dell’Italia “libera” si guardò bene dallo sciogliere107). Svolta, insomma, nella continuità: e avrebbe infatti ancora operato nella Venezia Giulia perfino il famigerato Ispettorato speciale di polizia, struttura investigativa contraddistintasi per la brutalità, se non per l’efferatezza dei metodi. Giungeva pertanto molto utile la riflessione-ricordo del più prestigioso intellettuale triestino, ormai assurto a notorietà nazionale, che così chiudeva il suo contributo: «quella era l’Italia per cui, alcuni anni dopo, insieme a mio fratello Carlo, che per quell’Italia s’immolò, io sentii senza alcuna titubanza che sarebbe stato bello morire». Indubbiamente un bell’ “assist”, come si direbbe oggi, per la linea Benco. Perfettamente allineato dunque con l’opinione pubblica di convinzioni moderate della Trieste italiana, Stuparich attende, con la sua città, l’evolversi degli eventi. «Quando si arrivò all’8 settembre», spiega Teodoro Sala: nelle comunità prevalentemente italiane della Venezia Giulia, e segnatamente a Trieste, erano già sufficientemente delineate le rigidità di due schieramenti certamente non 107 Lo chiese invece E. Miani, di area repubblicana, rivolgendosi direttamente a Badoglio, «sollecitando l’abrogazione del decreto di annessione della cosiddetta “provincia di Lubiana”», cfr. Apih, Italia fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), cit., p. 462.

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omogenei, ma contrassegnati da caratteri nazionali e sociali prevalenti. Con occhi diversi si guardava fuori delle mura urbane: da una parte una forte componente operaia solidale con un blocco sloveno (o croato) cittadino economicamente differenziato (anche sul piano politico) che mira all’altopiano carsico e alle campagne dominate dai partigiani (che hanno costituito ormai proprie zone libere autogovernate ma a ferrea direzione comunista) e lo fa con redentrici idealità internazionaliste (aventi al centro la fiducia o la fede nell’Unione Sovietica, in Stalin, in Tito) o con speranze di riscatto nazionale o di rivalsa. Dall’altra un composito strato di alta, media e piccola borghesia, a cui non manca l’apporto di lavoratori autonomi e dipendenti, che da quello stesso altopiano teme di veder calare chi avrebbe aggredito identità, tradizioni, culture e interessi materiali che il fascismo aveva enfatizzato e stravolto, usato nel suo dominio, ma che nel fascismo non erano semplicisticamente circoscrivibili.108

108 T. Sala, La seconda guerra mondiale, in Storia d’Italia - Le regioni dall’Unità ad oggi, Il Friuli-Venezia Giulia, cit., vol. I, p. 562.


Capitolo VII Verso la libertà, nella speranza di una pace giusta

Fu subito ben chiaro che l’armistizio con gli Alleati avrebbe fatto precipitare una situazione già compromessa.1 Nello sbandamento totale dell’esercito, fra infiniti cedimenti e connivenze sul confine giuliano (il generale Alberto Ferrero si rese irreperibile, il generale Giovanni Esposito si mise a disposizione dei nazisti), Trieste dovette aprire le porte alle truppe tedesche. Stuparich, il patriota, ne fu annichilito, lo scrittore sentì esaurirsi la vena (salvo un racconto, del novembre, nato dal dolore per la morte della sorella Bianca: «vidi morire mia sorella e fu una delle esperienze che più mi sconvolsero in quello sconvolgente periodo»2). Chi trovò, in seguito, gli accenti più appropriati per descrivere i sentimenti dei triestini fu Biagio Marin, in risposta a uno splendido elzeviro di sapore allegorico che Buzzati aveva pubblicato

1 Per uno sguardo d’insieme sui problemi militari (e di conseguenza politici e civili, in senso lato) scaturiti da un armistizio così mal condotto si veda E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, il Mulino, Bologna, 2003 (III ed.). Da sottolineare, per la pertinenza al tema che stiamo trattando, il fatto che la studiosa, nell’introduzione (2002) alla terza edizione del libro, richiami velocemente l’attenzione proprio sul caso di Trieste, per la quale gli italiani si sono mobilitati, lottando per la conservazione dell’«integrità del proprio paese» (p. 17), messo in rilievo per smentire la tesi della “morte della patria” (senza cadere però nel trionfalismo della visione opposta, ovvero di una «improvvisa rinascita nazionale animata dagli ideali dell’antifascismo e della democrazia» - p. 16). 2 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 189.

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sul «Corriere della sera» del 9 maggio 1950 (Trieste, in III pagina, mentre in Prima ci si chiedeva: Imminente l’annessione della zona B alla Jugoslavia?). Che i nostri fratelli non stiano in pena per noi lo sappiamo per lo meno dall’8 settembre ’43, quando abbiamo visto fuggire più di 100.000 uomini, che bene o male erano armati, per lasciarci allo sbaraglio, soli, preda contesa tra tedeschi e slavi. E non c’è stato un gesto. Fuggivano folli, senza pensare che noi, i loro fratelli, restavamo, e appena varcato l’Isonzo respiravano e cominciavano a sentirsi in Italia, perché per la loro incoscienza la Venezia Giulia non era Italia. Italia era per loro la loro città, il loro villaggio e là tentavano di correre, come se là nessuno più avesse potuto raggiungerli e la mamma avesse potuto nasconderli sotto le sue sottane. Sotto gli occhi degli slavi e dei tedeschi che pure sono qui a Trieste, essi si strappavano galloni e mostrine e gettavano nelle fogne le stellette, avendo perduto ogni dignità di uomini, ogni pudore. A casa, a casa! Era questo il grido. E noi li abbiamo aiutati anche a scappare, a liberarsi della divisa. A combattere, a difendere il proprio onore, o a difendere noi, nessuno pensò. Che questa gente poi si sia dimenticata di noi, della nostra tragedia, che non abbia pensato neanche un momento che noi stavamo pagando per tutti gli italiani, che non era una faccenda nostra particolare, quella per la quale migliaia dei nostri venivano o infoibati o deportati, e che ci minacciava il pericolo di diventare schiavi di popoli primitivi e duri, e pertanto di dover perdere la Patria e con essa l’anima, che questa gente si sia dimenticata di noi non ci fa, in fin dei conti gran meraviglia ora.3

All'ombra della croce uncinata bisognava vivere con gli occhi chiusi per non vederne l'orrore, ostaggi inermi di un’aggressiva potenza straniera, servaggio ben più duro, per chi si sentiva italiano, di quello austro-ungarico. Ma come l’aquila giallo-nera, e nonostante il credo razzista e la spietatezza dei modi, il nuovo occupatore si mostrava capace di conquistarsi in città consenso e simpatie. Tanto da giustificare l’umorismo “nero” di Cusin, che ha definito la Trieste di allora «la città più tranquilla […] della Germania». 4 Nel 1944, proprio mentre usciva nelle librerie la settima edizione di Ritorneranno, Giani e la sua famiglia (la moglie Elody, la madre Gisella) provarono la più orribile esperienza della “loro” guerra: la deportazione nel campo di smistamento e di sterminio della “Risiera” di Trieste, l’unico di tal genere in territorio italiano (che poi più italiano non era, essendo stata annessa la Venezia Giulia, insieme al Friuli e alla “provincia di Lubiana”, al Reich nazista, a formare il contesto amministrativo e militare dell’Adriatisches Küstenland5). A salvarli intervennero le massime autorità civili della città, e con 3 Marin, Commento all’elegia su Trieste di Dino Buzzati (pubblicato sul «Messaggero Veneto», Udine, 23.V. 1950, ora in Idem, Autoritratti e impegno civile (Scritti rari e inediti dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di risparmio di Gorizia), a cura di E. Serra, con la collaborazione di P. Camuffo e I. Valentinuzzi, supplemento al n° 11 di “Studi mariniani”, Serra Editore, Pisa-Roma 2007, pp. 140, 141 passim. 4 F. Cusin, La liberazione di Trieste, in Id., a cura di G. Cervani, Gli scritti politici di Fabio Cusin nel «Corriere di Trieste»: Gli anni della polemica dura (1946-48), Del Bianco ed., Udine, 1994, p. 32. 5 Spiega E. Collotti: «L’Adriatisches Küstenland negli istituti concreti attraverso i quali si realizzò fornì un’anticipazione della sorte che il Terzo Reich riservava a queste terre, non della sua struttura definitiva. Non sappiamo esattamente quale quest’ultima sarebbe stata. […] L’annessione totale avrebbe comportato infatti la totale parità di diritti dei cittadini del territorio

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effetto risolutivo, l’arcivescovo Antonio Santin. Solo una settimana di passione, ma indimenticabile. 6 Con la città occupata, caduta ogni auto-censura di natura patriottica o di senso dello Stato, si dava la legittima occasione per un nuovo irredentismo e Stuparich, intrecciando cauti legami con il CLN Alta Italia stilò, insieme ad Ercole Miani, due proclami clandestini, che invitavano a tener viva la scintilla del Risorgimento. 7 Lo aveva esortato Miani: «“Bisogna ricordare Garibaldi”, “i tedeschi stanno smontando il monumento a Nazario Sauro a Capodistria. Scrivine tu qualcosa”». 8 E Stuparich riprese la penna per celebrare il più grande eroe italiano della libertà e, successivamente per un secondo manifesto clandestino, dedicato all’emblematico episodio dello smantellamento da parte dei tedeschi del monumento capodistriano a Sauro, un tassello, minore ma di notevole valore simbolico, della strategia di “snazionalizzazione” perseguita dagli occupanti. Si tratta di un testo risalente al giugno 1944, conservato presso l’Istituto regionale per la storia del Movimento di Liberazione di Trieste e riportato da Carlo Schiffrer, nel contributo Nella Resistenza, pubblicato su «Umana», la rivista di Aurelia Gruber Benco, nel numero di aprile-giugno 19619: annesso rispetto ai Reichsdeutsche, una soluzione difficilmente ipotizzabile se non altro in base a considerazioni di carattere razziale, in quanto sarebbe stata contraria al principio della superiorità dell’elemento germanico che fu invece uno dei cardini del sistema di dominazione nazista in Europa» (Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine Europeo - 1943-1945, Milano, Vangelista, 1974, p. 13). Così Apih, qualche anno più tardi, in Trieste, Laterza, Bari 1988, p. 146: «l’occupazione tedesca della Venezia Giulia ebbe caratteristiche sue proprie, politiche, ben distinte da quelle che ebbe nelle altre regioni italiane (eccezion fatta per le province di Trento, Bolzano e Belluno, dove ebbe aspetti simili). Fu cioè gestita anche l’amministrazione civile e, di fatto, si sostituì il potere statale italiano. Fu ripristinata per la regione la denominazione di “Litorale Adriatico”, fu dichiarata zona d’operazioni militari e vi si insediò, quale supremo commissario con pieni poteri, F. Rainer, accompagnato da un corpo di funzionari, vari dei quali erano nati o vissuti qui ai tempi dell’Austria. Una lunga serie di disposizioni esautorò la sovranità italiana anche nella sua nuova forma di alleata “Repubblica Sociale” […]». Inutile aggiungere che quei notabili della Trieste fascista e imprenditoriale che decisero di collaborare con l’occupante nazista, negarono poi sempre di essere stati consapevoli del progetto annessionista perseguito dal Reich, rivendicando anzi alla loro scelta un valore patriottico, nello spirito di una difesa nazionale anti-slava di matrice irredentista (su questo cfr. Fogar, Gabriele Foschiatti, cit., p. 122 e segg.). 6 Si vedano G. Stuparich Criscione, Stuparich alla Risiera. Otto testimonianze, in «Lettera ai compagni», marzo 1987; V. Frosini, Un amore epistolare di Elody, in Id., La famiglia Stuparich, Udine, Del Bianco, 1991. 7 Un particolare, drammatico “allineamento dei pianeti” accende una fiamma resistenziale che sfiora anche Stuparich. A quanto registra C. Pavone, prestando orecchio alle parole di una partigiana: con i tedeschi in casa, avevo sentito «il fascino del ribelle legato al Risorgimento in funzione anti-austriaca». Ma ancora Pavone nel capitolo Il nemico ritrovato del suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, Torino, 1991), da cui abbiamo citato (p. 173): «i richiami al Risorgimento, alla guerra del ’15-18, ai tradizionali alleati convergevano nella figura del tedesco come nemico e invasore […]» (p. 206). 8 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., pp. 191-2. 9 I due manifestini di Stuparich si possono anche anche leggere, in questo caso con un commento del giornalista e storico Mario Pacor, sull’«Unità» del 27 febbraio 1963 (I manifestini antifascisti di Giani Stuparich).

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GARIBALDI – 2 giugno 1882 – 2 giugno 1944 Mai forse come oggi, nella più spaventosa crisi che la storia italiana ricordi, lo spirito di Giuseppe Garibaldi ritorna vigile ed ammonitore fra il suo popolo. Dopo un ventennio di bassezze ammantate di falsa gloria, di menzogne sostenute da violenze e da ricatti, in cui l’anima del popolo italiano fu avvelenata, incatenata, avvilita, oggi nella riscossa ideale, nella lotta impari per la conquista della propria libertà, il popolo italiano ritrova in Garibaldi la sua guida. Popolo povero, onesto, di sentimenti generosi, che non può far causa comune coi prepotenti e coi sopraffatori. Il Cavaliere del genere umano, come fu salutato nel parlamento, il cavaliere della giustizia e della libertà, semplice, diritto, pronto sempre a piegare ogni propensione personale all’ideale al quale si era legato fin dalla prima giovinezza, Garibaldi sta a dimostrare contro tutti i falsi condottieri che la salvezza del popolo italiano è nella tradizione della libertà, lontana da ogni egoismo nazionalista, da ogni isterismo imperialistico. Non sulle baionette rivolte di fuori e di dentro, non sui soprusi polizieschi può basarsi un popolo che ha espresso dal suo seno un Garibaldi. Equanime, amante della verità, sempre pronto a pagare di persona, difeso soltanto dalla propria coscienza. Italiano che non ha vantato la sua origine dal popolo per rinchiudersi poi in un fasto da tiranno, ma che – dopo essere sceso sui campi di battaglia a guidare ed a combattere, esempio a tutti di fede, di modestia e di coraggio – escluso dalla lotta è tornato a navigare, si è fatto umile operaio per poter vivere lontano dalla sua patria e finalmente, quando avrebbe potuto mietere gloria e ricchezza, si è ritirato con poche lire ed un sacco di sementi su una piccola isola sassosa. Romanticismo? Ma è di questo romanticismo che diventa veramente grande un popolo e marcia verso quella fratellanza universale che fu l’aspirazione mai abbandonata di Garibaldi ed il conforto spirituale dei suoi ultimi giorni. GIULIANI! In questi momenti decisivi per la nostra regione, sia con noi quale guida per le prove supreme la luminosa anima di Giuseppe Garibaldi, difensore di tutti i popoli oppressi e paladino della democrazia […].

In una regione funestata delle violenze degli occupanti, sottoposta a duri bombardamenti alleati, e ormai direttamente coinvolta nell’orrore della guerra, «i diversi segmenti della popolazione giuliana», ha scritto Raoul Pupo, «attendevano ciascuno i propri liberatori».10 Di quanto il conflitto fosse atroce ci si era accorti, forse per la prima volta, quando avevano raggiunto Trieste gli echi, propagandisticamente amplificati dai nazi-fascisti, delle foibe istriane dell’autunno 1943. Poi fu solo un susseguirsi di crudeltà. Ora, al crepuscolo della potenza nazista, si temeva qualcosa di peggio, la cancellazione dell’identità italiana di Trieste per opera di un “nemico ereditario” che andava dimostrandosi tanto forte quanto spietato. Poco prima che i soldati del IX Corpus dell’esercito di Tito entrassero in città, Trieste aveva tentato, raccogliendo tutte le energie di un patriottismo sfilacciatosi nell’abbraccio indegno del fascismo, di liberarsi da sola, con un’insurrezione del Corpo Volontari

10 R. Pupo, Gli esodi e la realtà politica dal dopoguerra a oggi, in Storia d’Italia – Le regioni dall’Unità ad oggi, Il Friuli-Venezia Giulia, vol. I., cit., p. 686.

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della Libertà, organizzata per il 30 aprile dal CLN.11 Poi vi furono i quaranta giorni di occupazione jugoslava, in una città che, come la descrive Pier Antonio Quarantotti Gambini, fu glaciale con gli invasori (ma non senza numerose eccezioni, e non solo di sloveni del Carso, come lo scrittore affetta di credere), e nella quale i partigiani di sentimenti italiani dovettero nuovamente nascondersi, come nei due anni del Küstenland. Una città dove sventolare un tricolore era un delitto spesso pagato con la morte: come si vide in occasione di una pacifica manifestazione per l’Italia, il 5 maggio 1945, che, soffocata nel sangue, lasciò sul terreno tre vittime. «Mi sono oggi ritrovato con Apollonio e con Stuparich», racconta Quarantotti Gambini, in data 15 maggio. Con loro alcuni amici, e un capitano italiano, cobelligerante. Dopo il primo disordinato scambio di impressioni, Giani con la sua intelligente pacatezza, schiarendosi ogni tanto la voce, cominciò a parlare e a presiedere, quasi fossimo in una piccola seduta; e mi stupì per la naturale facilità, e lievità vorrei quasi dire, con cui seppe farlo, toccando in ognuno e da ognuno facendo scaturire una nota viva.12

Stuparich è ormai un mito cittadino: gli è stata offerta, alla vigilia dell’insurrezione del 30 aprile, la carica di Sindaco di Trieste. Ha rifiutato. Ma quando, successivamente all’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945, gli anglo-americani subentrano in città agli jugoslavi (12 giugno), nel clima di libera espressione, di diritti garantiti e di partecipazione democratica che essi rendono possibile, Stuparich ricomincia a esprimersi con gli strumenti di sempre: penna e calamaio. C’è aria finalmente pulita dopo tanti miasmi velenosi, e si può respirare a pieni polmoni. Si inaugura, in effetti, un contesto del tutto nuovo per la storia cittadina: una fase di “libertà vigilata”, dopo decenni di vita politico-civile strozzata. Periodo particolarmente complesso però; e, anche dal punto di vista storiografico, non ancora del tutto chiarito (salvo temi specifici, e particolarmente roventi, come quello delle violenze anti-italiane nell’Istria occupata e dell’esodo, o degli intricati aspetti politicodiplomatici della “questione di Trieste”, su cui ha scritto pagine significative Diego De Castro13). Manca per esempio un quadro dettagliato delle forze politico-culturali nella Trieste sotto amministrazione alleata, mancano antologie delle pagine più interessanti della pubblicistica dell’epoca, poco si sa delle correnti d’opinione che animavano il dibattito nella comunità slovena, manca un discorso complessivo e approfondito sulle prese di posizione dei diversi partiti, dei movimenti d’opinione e degli organi di stampa italiani a proposito del problema di Trieste, ecc. Mentre, terribile e impegnativo è il compito che attende chi voglia raccontare nel dettaglio 11 Si veda a questo proposito R. Spazzali, L’Italia chiamò: resistenza politica e militare italiana a Trieste – 1943-47, LEG, Gorizia 2003. 12 P. A. Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste (1951), Edizioni Italo Svevo/Dedo libri, Trieste, 1985, pp. 207-208. 13 Vedi D. De Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica dell’Italia dal 1943 al 1945, Lint, Trieste, 1981.

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quegli anni convulsi: «il passaggio da un regime dittatoriale e tendenzialmente totalitario a una democrazia», ha commentato una studiosa, «è un processo sempre complesso, delicato, ambiguo».14 Ma ritorniamo a Stuparich: egli capisce benissimo che non è il momento adatto per assumere il ruolo dello scrittore solitario ma che serve invece, dopo il lungo assenteismo, un impegno esplicito rivolto alla polis: si deve infatti al suo prestigio intellettuale, catalizzatore delle migliori energie culturali cittadine, e alla sua operosità di mazziniano mai domo la fondazione di un’associazione culturale di cui si coltivava il progetto, negli ambienti cittadini, già dall’estate 1945.15 In quel particolare momento Trieste si sentiva accerchiata: vedeva, ante portas, un esercito ostile che avrebbe potuto facilmente soffocare la sua anima italiana. Ombre in agguato che parevano riflettere gli incubi del recente passato: «a partire dall’autunno 1945, più volte verranno effettuati lungo il confine fra le due zone [la zona A della Venezia Giulia amministrata dagli Alleati e la zona B sostanzialmente inglobata nel nuovo stato jugoslavo, NdA] spostamenti di truppe [jugoslave, NdA] allo scopo di creare “guerre dei nervi”, cioè situazioni di insicurezza»,16 mentre i “poteri popolari” della vicina repubblica cominciavano la loro opera di trasformazione socio-economica in senso collettivista dei territori istriani e di “semplificazione etnica” delle terre già italiane (le prime avvisaglie di quei fenomeni che provocarono il cosiddetto “esodo”). Si trattava dunque di confermare e di rinsaldare l’italianità incrinata di una città che si sentiva sotto scacco, minacciata dal di fuori ma anche insidiata dal di dentro, considerando che «nel corso degli ultimi anni di guerra la maggior parte della classe operaia di lingua italiana si era orientata in favore dell’annessione della regione alla Jugoslavia di Tito».17 Ecco dunque la fondazione, a Trieste, del “Circolo della Cultura e delle Arti”, 18 di cui Giani divenne il primo Presidente. La 14 Aga Rossi, Una nazione allo sbando, cit., p. 18. 15 Cfr. Schiffrer, Il circolo della Cultura e delle Arti, in «Umana», gennaio-agosto 1958. 16 G. Valdevit, Dalla crisi del dopoguerra alla stabilizzazione politica e istituzionale, in Storia d’Italia – Le regioni dall’Unità ad oggi, Il Friuli-Venezia Giulia, vol. I., cit., p. 615. Ma per le complicatissime vicende del “confine orientale” di particolare utilità, N. Biondi, F, Cecotti et alii, Il confine mobile. Atlante storico dell’Alto Adriatico, 1866-1992: Austria, Croazia, Italia, Slovenia, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1995. 17 Pupo, Gli esodi e la realtà politica dal dopoguerra a oggi, in Storia d’Italia – Le regioni dall’Unità ad oggi, Il Friuli-Venezia Giulia, vol. I., cit., p. 686. Così spiega Pupo questo fenomeno: «non per motivazioni d’ordine nazionale ma, al contrario, di tipo internazionalista, in quanto il nuovo stato creato da Tito, appariva come portatore di quella soluzione socialista che invece in Italia appariva assai improbabile da realizzare, vista la presenza nella penisola di due armate angloamericane» (p. 686). 18 In quel medesimo 1946, rispondendo alle stesse esigenze che avevano mosso Stuparich a fondare il CCA, viene anche ricostituita, con l’autorizzazione del Governo Militare Alleato, la Lega nazionale, gloriosa associazione che aveva intrecciato il suo nome alle vicende dell’italianità triestina del primo Novecento. Rinasce con rinnovato spirito ma senza alcuna pregiudiziale anti-fascista, tanto che finirà per collocarsi in posizione ambigua negli anni della “questione di

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posta in gioco era chiara: risvegliare, nel segno dell’italianità, «la vita spirituale [che] languisce dispersa o fermenta disordinata»: Oggi ci avvediamo – così il discorso di inaugurazione tenuto presso la Camera di Commercio il 17 aprile 1946 – che i vent’anni del funesto e presuntuoso regime ci hanno privato delle nostre antiche e gloriose istituzioni di cultura. A una a una il fascismo ce le ha distrutte o peggio, trasfigurate, piegandole ai nostri piedi: la Minerva, la Filarmonica, il Circolo artistico, l’Università popolare, il Circolo di studi sociali. Sulla soglia del nostro Circolo vogliamo che siano abbandonate le dissenzioni e le discordanze, utili magari in altri campi: non la lotta è adatta a noi ma la gara dell’intelligenza e delle opere. Questo soltanto chiediamo: che gli intendimenti siano onesti e che l’intelligenza sia messa al servizio della verità. Sono di moda oggi i luoghi comuni della democrazia come ieri erano quelli dell’autoritarismo. Noi eviteremo i luoghi comuni che sono fatti per confondere le idee. La cultura non è né autoritaria né democratica, la cultura è cultura, è un livello. Gli alti fini dell’arte e della cultura sono fini a se stessi. Perciò noi non vogliamo mettere l’arte e la cultura al servizio di niente e di nessuno. Come non facciamo della politica, così tanto meno faremo della propaganda. Sappiamo per convinzione profonda che se c’è un nemico della cultura questo è proprio la propaganda, la quale svia deforma corrode la cultura, le toglie il nerbo, avvelena i suoi tessuti, offusca le sue linee. Chi è per la propaganda non è per la cultura. L’esperienza di questi tragici anni avrebbe dovuto insegnarci abbastanza a questo proposito. Finché la cultura non sarà sbarazzata dalla mala erba della propaganda, non potrà divenire un terreno di intesa e d’amore intelligente, ma continuerà a fomentare contrasti e odii. Se poi qualcuno volesse accusarci che tuttavia noi, con la nostra cultura e con la nostra arte, facciamo della propaganda, e intendesse per propaganda l’espressione della nostra coscienza nazionale, allora noi risponderemo che se questa venisse considerata propaganda, è, sì l’unica propaganda che noi non possiamo evitare: la lingua, cioè la forma concreta e indivisibile della sostanza della nostra cultura, della nostra civiltà, del nostro pensiero. La lingua in cui si sono espressi Dante, Leonardo, Galilei, Leopardi, Foscolo, Manzoni. Ed è la lingua di Giuseppe Mazzini, la mente precorritrice che più torna oggi di attualità nell’Europa dilaniata e che ci addita la via da seguire. Questa fedeltà al grande pensatore del nostro Risorgimento credo sia garanzia sufficiente che noi ci mostriamo aperti alle correnti spirituali di tutti i popoli, così dei più lontani come dei più vicini: noi rispetteremo non solo, ma accoglieremo con fraterno

Trieste”, pronta a guardare anche a destra per svolgere il suo impegno tradizionale: la difesa della civiltà italiana. Stuparich non compare nel lungo elenco di membri del comitato promotore, che comprende i più noti uomini di cultura, politici e professionisti di Trieste, né vi rivestirà mai cariche ufficiali. Firma però, nel numero unico del maggio 1946 della pubblicazione Lega nazionale una prosa di memoria, Un ricordo, come a significare la sua vicinanza all’associazione che stava rinascendo. L’editoriale in prima pagina, Dichiarazioni programmatiche, di cui riportiamo la parte finale, indica con chiarezza le finalità della nuova Lega: «Come si è difesa in passato la città, divenuta centro ed agglomerato di razze, dal pericolo della sua snazionalizzazione? Con la potenza della tradizione e della civiltà latina, e con la forza della cultura e della lingua italiana. I molteplici gruppi etnici si sono amalgamati in questo capace crogiuolo. Ne derivò una razza più sana perché mista ed unita nella più fervida italianità: Xidias e Grammaticopulo, gli Stuparich, gli Slataper, i Brunner ed i Liebman, per ricordare solo alcuni tra i nomi gloriosi, sono le prove tangibili della forza di una stirpe che bene ha saputo operare. Quest’opera di assimilazione e di difesa è, in buona parte, opera della Lega. Il fenomeno dell’afflusso straniero sta per ripetersi in condizioni più difficili. Stringiamoci ancora una volta secondo gli insegnamenti tramandatici e con la saggezza che viene dall’esperienza. Ciascuno al proprio posto, con serenità e con fede».

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intendimento l’arte e il pensiero da qualunque Nazione essi ci vengano, consci che l’Europa nuova, prima che nell’unione politica dovrà trovare la sua consistenza nella comunione elevata degli spiriti.19

Posizioni, parrebbe, di assoluto buon senso, ma che nascondono uno spinoso rovescio di medaglia. Per una ventina d’anni almeno, e quasi senza eccezioni, il “Circolo della Cultura e delle Arti”, presto assurto al ruolo di massima e più prestigiosa istituzione di cultura della città, non ospiterà alcun oratore né affronterà alcun argomento che ricolleghi il ventricolo italiano del cuore di Trieste al suo certo minoritario, ma presente e operante – anche sul piano dell’alta cultura – ventricolo slavo. 20 La conclamata politica “non-propagandistica” del “Circolo” diventa così espressione di un mistificante e assai pericoloso luogo comune: Trieste città esclusivamente e totalmente italiana mentre l’arte, che crocianamente viene proclamata autonoma e neutrale, disinteressata e al di sopra delle parti, finisce, senza parere, per diventare un’arma impropria nell’antico ed irrisolto conflitto etnico che il fascismo aveva esasperato. 21 Non poteva andare diversamente, forse, in un momento di così radicale polarizzazione. I triestini di lingua italiana dovranno comunque ancora attendere il maturarsi di una nuova generazione di scrittori, di intellettuali e di politici (penso a Fulvio Tomizza, a Arnaldo Bressan, a Giorgio Depangher, a Stelio Spadaro, Patrizia Vascotto, ecc.) per sentir parlare nella propria lingua della civiltà e della cultura dei vicini di casa, e perfino di quegli scrittori che pure con la città avevano interagito, o in cui erano nati, un Ivan Cankar, uno Srečko Kosovel, un Vladimir Bartol (i cui Tržaške humoreske e Mladost pri Svetem Ivanu nessun italiano di Trieste può a tutt’oggi leggere nella

19 Così il discorso con cui Giani Stuparich annunciava, il 23 febbraio 1946, la costituzione del “Circolo”, presso la Sala minore della Camera di commercio e industria. Discorso riportato nei giorni seguenti dalla «La Voce Libera» e ripubblicato successivamente dal «Piccolo» di Trieste del 20 novembre 1980 (con il titolo La Trieste che amiamo). Seguirà, il 17 aprile 1946, un secondo intervento di Stuparich nella Sala del Ridotto del Teatro Verdi – Funzione della cultura e messaggio dell’arte – per celebrare l’apertura ufficiale del C.C.A. 20 Le schede dell’attività annuale del Circolo sono state raccolte da P. Quazzolo, Il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste – 1946-1996. Cinquant’anni di storia culturale, ed. Lint, Trieste 1997 21 Diversi invece gli intendimenti tanto dell’amministrazione militare che del mondo accademico: per quanto riguarda quest’ultimo va ricordato che nel testo di un progetto per l’attivazione di corsi di slavistica veniva sottolineata l’esigenza di conoscere la culture dei popoli vicini, con i quali era necessario collaborare (cfr. Vinci, Inventare il futuro. La Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste, EUT, Trieste, 2000. Spec. P. 27 e segg.). Relativamente al Governo militare alleato (GMA) invece bisogna menzionare i suoi interventi a favore delle scuole slave in una prospettiva di piena parificazione giuridica di quella minoranza che il fascismo aveva perseguitato. A giudizio dello storico anti-comunista Bogdan Novak, tuttavia, negli anni 1948-49 il GMA e il generale Airey, in particolare, la massima autorità militare del TLT, furono marcatamente filo-italiani: «Airey […] come soldato e come anticomunista, vedeva soltanto due parti: quella comunista, slava e filoslava e quella italiana, democratica e filoccidentale. Quando dovette scegliere fra le due, egli scelse quest’ultima» (cfr. B. Novak, Trieste 1941-1954 La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano, 1996, p. 331).

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propria lingua). 22 Mentre gli sloveni della città e del suburbio, che, nonostante i rancori anti-italiani, sarebbe ingiusto e schematico definire semplicemente una quinta colonna di Tito (anche se in un primo momento furono compattamente filo-jugoslavi), si troveranno, alla lunga, doppiamente ghettizzati (dai concittadini “di qua” e dai connazionali “di là” della linea di demarcazione), approfondendosi così ancora maggiormente quei solchi di separazione che hanno fatto (e in parte fanno) di Trieste un mondo di vasi non comunicanti. Non è del resto senza significato il fatto che l’iniziale proposito di rivendicare le radici della nuova istituzione nel rossettiano Gabinetto di Minerva, nel socialista Circolo di Studi Sociali e nell’irredentistico Circolo Artistico (18841938) – così come emerge da una nota autografa del Lascito Stuparich presso il C.C.A. messa in evidenza da Paolo Quazzolo23 – lasci in seguito sopravvivere, nei documenti successivi, soltanto l’ultimo riferimento. L’intenzionalità è chiarissima: la funzione del Circolo dovrà essere in primo luogo “irredentistica”, nella rivendicazione appassionata della natura italiana di Trieste, sua identità unica ed esclusiva, e senza rimandi, fonte di possibili malintesi, all’eredità municipalistica o socialista. Difesa nazionale, dunque, e nella prospettiva di accelerare il ritorno a quella madre patria divenuta nuovamente, dopo appena venticinque anni dalla “redenzione”, un miraggio da sognare e un obiettivo per cui lottare. Il fatto poi che, dopo due settimane, Stuparich dia le dimissioni dalla carica presidenziale, non nasce da nessun conflitto sulle finalità o sui progetti del Circolo: lo scrittore sente la necessità di dedicarsi totalmente all’impegno letterario come dimostra la collaborazione, intensissima nel decennio 19451955, con la «Nuova Stampa», e con il «Ponte», dove iniziano ad apparire i capitoli di Trieste nei miei ricordi. Riprende a vibrare però anche la corda civile, ritrovata vocazione di un intellettuale impegnato nella riflessione sul presente di una città (e di una regione) dai destini ridiventati incerti. Lo aveva annunciato per altro la stessa parte conclusiva del citato discorso alla Camera di commercio: l’esaltazione di Mazzini – «la mente precorritrice che più torna oggi di attualità nell’Europa dilaniata», la «garanzia che noi ci mostriamo aperti alle correnti spirituali di tutti i popoli» – intende offrire credenziali etiche e culturali per un nuovo e differente impegno patriottico, dopo le mistificazioni del fascismo. Quasi a voler raccogliere il messaggio consegnato da Carlo Morandi24 proprio su 22 Su questi temi è da sempre impegnato Miran Košuta, anch’egli, senza pregiudizi, un uomo del dialogo: cfr. Scritture parallele: dialoghi di frontiera tra letteratura slovena e italiana, pref. di E. Guagnini, LINT, Trieste, 1997; Slovenica: peripli letterari italo-sloveni, intr. di C. Magris, DiabasisZTT EST, Reggio Emilia-Trieste, 2005. 23 Quazzolo, Il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste – 1946-1996, cit., p. 16. 24 Su Morandi e «Primato», qualcosa di più da parte dello storico che una semplice collaborazione, sarebbe giusto aprire una lunga parentesi che ci porterebbe però lontani dal nostro argomento, non essendo possibile dimostrare una qualche influenza delle sue riflessioni sull’evoluzione del pensiero di Stuparich. Importanti considerazioni relative alla maturazione della visione storica di Morandi dall’ “imperialismo” dei primi contributi (per es. Lezioni della

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«Primato» (L’unità dell’Europa, 15.IX.1942; Mazzini e l’unità dell’Europa, 15.I.1943), nel nome di un’esigenza etica alla quale individui, popoli, e nazioni avrebbero dovuto ispirarsi. Ed è un vecchio astro che ritorna a brillare, per mostrare il giusto cammino, sulla vita e sull’attività intellettuale di Stuparich. Perfettamente consapevole che il compito che spettava agli intellettuali triestini, oltre a quello più particolarmente locale, era anche e forse soprattutto di operare un vitale raccordo di cultura e moralità fra Trieste «divisa materialmente dalla patria» e l’Italia, Stuparich fa apparire un vibrante Saluto alla vita (lettera agli amici) sul «Ponte»25 (anno I, numero 6, settembre 1945), la rivista fiorentina che Piero Calamandrei, suo grande estimatore, aveva da poco fondata. Un periodico, che si presentava al pubblico come «rivista-cerniera fra i tempi […], confessione o cronistoria mentale collettiva», 26 e la cui voce prestigiosa ma flebile, andrà sempre più rinforzandosi nel corso degli anni (400 abbonati nel 1946, 3500 nel 1954). 27 E sono pagine stupariciane in cui la gioia del ritorno alla vita, nell’aria frizzante della libertà, dopo anni in cui, ora lo sappiamo, lo scrittore si era sentito sotto ricatto e, durante, durante l’occupazione tedesca, in precario equilibrio sul filo di una lama (senza che ancora nulla si intuisse delle rinunce cui costringerà il trattato di pace), si sposa a nostalgie del “mondo di ieri” e ad aperti apprezzamenti del messaggio di Cristo. Un esito inatteso: le allusioni al credo cristiano, del tutto inusuali per il nostro scrittore, appaiono improvvisamente moltiplicate negli anni che vanno dalla stesura di Ritorneranno alla conferenza del 1948-49 guerra attuale, e Questa guerra e il Risorgimento, entrambi del 1941) all’afflato di europeismo “mazziniano” di quelli più tardi, hanno proposto L. Mangoni, nei cappelli introduttivi della sua antologia, «Primato» 1940-43, cit., R. De Felice, Gli storici italiani nel periodo fascista, in Id., Intellettuali di fronte al fascismo, Bonacci, Roma, 1985 e Serri, I redenti, cit.. Purtroppo l’attento profilo di Morandi stilato da E. Ragionieri (Ritratti critici di contemporanei: Carlo Morandi, Belfagor, 1975) e rimasto incompiuto per la morte dello storico, è manchevole proprio della sezione relativa alla collaborazione di Morandi a «Primato». 25 Opportuno mettere brevemente in risalto la sintonia del «Ponte» con le posizioni di Stuparich, tanto in senso ideologico (nell’ambito di un terzaforzismo di spiriti laici e venature socialisteggianti) quanto sul piano tematico. Dal lungo articolo Trieste e Trst che Salvemini vi pubblica per contestare le posizioni di A. J. P. Taylor rivendicando il diritto dell’Italia a Trieste e proponendo di rifarsi alla Linea Wilson per un’equa delimitazione dei confini tra Italia e Jugoslavia (altrimenti «quale uomo di senso comune di buona fede può pretendere che gli slavi riuscirebbero a controllare la città di Trieste e quelle dell’Istria occidentale, salvo che non distruggano le popolazioni italiane?» - cfr. Isnenghi, Dalla Resistenza alla desistenza. L’Italia del «Ponte» - 1945-1947, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 106-117, qui p. 112), al corsivo del 1947, I vincitori defraudati, che ha toni stupariciani nella condanna della «sanguinante mutilazione delle terre italiane che furono riscattate col prezzo di seicentomila morti» (ivi, p. 298), al numero unico dedicato a Trieste (aprile 1948, con interventi di Apih, Benco, Cecovini, Saba e Stuparich), e siamo solo ai primi anni di vita della rivista, la sua fase “azionista”, le terre giuliane e Trieste in particolare sono al centro del discorso politico e morale del «Ponte», insieme doloroso simbolo di una sconfitta da accettare e di una rinascita, prima di tutto etica, da propiziare. 26 Cfr. Isnenghi, La vita della patria, in Id., Dalla Resistenza alla desistenza. L’Italia del «Ponte» (19451947), cit., p. 68. 27 Cfr. M. Franzinelli, Il cantiere di Calamandrei, in Id., Oltre la guerra fredda. L’Italia del «Ponte» (1948-1953), Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 7.

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Valori cristiani, su cui richiama l’attenzione Pietro Zovatto, 28 come se Stuparich, a prescindere dall’ipotesi di una difficilmente dimostrabile conversione, 29 avesse voluto indicare che sul piano etico il cristianesimo poteva rappresentare una base più solida e costruttiva delle ideologie che, manipolate e strumentalizzate, mostravano con la spaventosa evidenza delle macerie d’Europa, nell’anno zero della sua storia novecentesca, la loro tragica bancarotta. Così il contributo, pensoso e coinvolgente, di Stuparich: eravamo talmente mortificati, che, in mezzo alle grandi parete, ai fasti dell’Impero e alle varie fiere, al passo e alle buccine “romane”, minacciavamo di addormentarci per sempre sulle rive dei nostri stagni personali, lucidi e fermentosi come la pazzia. […] Ma […] questo aspettavamo […] questo che è avvenuto […] che il mondo si sarebbe salvato, il nostro mondo, degli uomini che ancora credevano nel bene e nella verità; non importa quanti di noi fossero periti, ma questa terra, quest’Europa civile sarebbe sopravvissuta. […] È la vita che ritorna […]. Per fortuna, all’occidente e dall’oriente sono venuti in nostro soccorso quei popoli che l’Europa aveva nutrito, in epoche felici, del proprio spirito, della propria interiore grandezza. […] Ritorna la vita, e con la vita la luce di Cristo. Che dalla Croce ci ha illuminato tutti: la vita per il bene che ci trascende e ci eleva, non per la potenza terrena che ci acceca e ci umilia […]; ritorna l’amore, la poesia, che rivela a noi stessi e ci pone di tanto più in alto, di quanto con la ragione utilitaria ci abbassiamo […]. A questa vita rivolgiamo il sorriso del nostro volto invecchiato dai patimenti, risentendo l’ultimo brivido del male, della schiavitù, della morte a cui siamo scampati. Tutto è da rifare, ma per l’antica, onesta strada della libertà. […] Non ritorneremo più quelli di prima. Pure questo sarà un bene. Quelli di noi ch’ebbero la loro giovinezza negli anni precedenti all’altra guerra, avvolgono quel tempo d’un’atmosfera favolosa nella memoria; in realtà erano tempi d’oro […]. Ma quella libertà l’avevamo avuta a troppo buon mercato, non sapevamo ancora quanto fosse preziosa. Oggi si tratta di non dimenticare, e non dimenticheremo. E spero che neanche la mia Trieste dimenticherà. […] Trieste ha vissuto dopo la liberazione quarantadue giorni drammatici, che sta tutti scontando, sospesa com’è nell’incertezza del proprio avvenire, e divisa materialmente dalla patria. Ma forse ci voleva anche quest’ultimo dramma, perché Trieste sentisse nel fondo delle sue viscere d’esser un pezzo vivo, palpitante d’Italia. […] Oggi invece, nonostante l’ansia per il futuro, anche qui a Trieste, l’uomo interiormente libero può respirare e, proprio qui, non sa rinunciare a quello che potrebbe essere nell’Europa di domani un vero affratellamento di popoli. L’emblema del vostro ponte, caro Calamandrei, va bene anche per la nostra situazione particolare di quassù ed io nutro fiducia che l’Italia, che i migliori Italiani sapranno gettare per primi, da questo loro pilastro terminale dell’Adriatico, uno dei più sicuri archi di pace tra le libere nazioni europee di domani.

Uno stesso impegno di complessiva e costruttiva riflessione, mentre riprende l’attività di appendicista sulla «Nuova Stampa», Stuparich lo esplica nella circoscritta partecipazione all’impresa effimera ma importante della «Nuova Europa». Era la rivista sulla quale Guido De Ruggiero, che ne era condirettore 28 P. Zovatto, La religiosità di Stuparich fra istituzione e coscienza etica, in Baroni e Benussi, Stuparich, fra ritorno e ricordo, cit. 29 Opportuna la cautela di Zovatto che colloca lo spiritualismo di Stuparich tra «agnosticismo pensoso» e «credo rivelato» (in La religiosità di Stuparich, cit., p. 65).

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insieme a Salvatorelli (in redazione Pancrazi, grande ammiratore del triestino), passava temi contemporanei di filosofia, storia, politica al vaglio di un rinnovato storicismo liberale che non intendeva essere meramente retrospettivo (ovvio lo spirito anti- o post-crociano) e dove Saba, che vi collaborava insieme a numerosi scrittori (Moravia, Alvaro, Bassani, ecc.) faceva comparire le sue più recenti «Scorciatoie»: un tentativo, nel complesso, di «realizzare una terza via, in parallelo con le finalità del Partito d’Azione». 30 Anche De Ruggiero, come Stuparich, sebbene più solidamente radicato in uno specifico terreno disciplinare, si era mosso fra Gentile e Croce, lasciandosi il primo dietro il spalle, dopo la sua conversione al fascismo, per avvicinarsi al secondo, che avrebbe poi politicamente superato, per aderire, dopo il 1946, al Partito repubblicano. E, fin dagli anni della Grande Guerra, lo aveva animato nella sua evoluzione spirituale la consapevolezza di un Risorgimento “tradito”, e che andava invece recuperato nelle sue fertili istanze morali. 31 Per certi aspetti dunque, salvo il vigoroso ed esplicito antifascismo, un percorso parallelo a quello dello scrittore triestino. Nei Responsabili della crisi che Stuparich pubblica il 7 ottobre 1945, confutando in anticipo il Lukács della cui Distruzione della ragione si farà un gran parlare nei circoli colti d’Europa agli inizi degli anni Sessanta, lo scrittore condanna l’inclinazione a tracciare collegamenti troppo lineari tra indirizzi di pensiero, filosofi, letterati e vita pratica, alla ricerca di qualche capro espiatorio per la disumanità della guerra da poco conclusa: «l’aberrazione comincia dalle interpretazioni e dal livello a cui l’opinione comune abbassa le opere degli spiriti audaci e solitari, e soltanto a questo punto è lecito parlare di responsabilità». Ciò non significa naturalmente negare che l’Europa sia attraversata dai brividi di una insidiosa malattia etica e intellettuale, ma se le cose stanno così «è necessario […] cercar di portare alla luce […] le oscure tendenze della stessa civiltà […] con quanto più coraggio possibile e con la più spregiudicata intelligenza». Un’analisi dove non è difficile scorgere un riflesso di quelle convinzioni che portavano Saba a formulare, nelle Scorciatoie, una teoria illuministica di liberazione dalle repressioni di sapore già “francofortese”32: solo che dove Saba pensa a Freud come al profeta di una nuova età dell’uomo, Stuparich, a questa altezza, ha in mente piuttosto il messaggio di bontà e di pace del Vangelo e, sul piano politico, la visione di Mazzini. Il motivo viene di nuovo sfiorato nel secondo e ultimo articolo sulla «Nuova Europa», Le due guerre (30 dicembre 1945, poi ripubblicato sul «Mondo» nell’anno seguente), con una più diretta implicazione dei propri trascorsi di soldato e scrittore. Ed è in relazione a ciò che Stuparich vanta, non impropriamente, il merito di aver fatto balenare con Ritorneranno «un mondo 30 C. Genna, Guido De Ruggiero e la “Nuova Europa”. Tra idealismo e storicismo, Franco Angeli, Milano, 2010, p. 15. 31 Si veda a questo proposito De Felice, Guido de Ruggiero e la vita politica italiana fra il 1914 e il 1926 (1963) in Id., Intellettuali di fronte al fascismo, Bonacci, Roma, 1985. 32 Cfr. Senardi, Saba, il Mulino, Bologna, p. 136 e segg.

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equilibrato e ancor saldo nei suoi valori cristiani che sembrava già perduto o per lo meno offuscato, a un mondo convulso e trascinato verso un avvenire precipitoso e oscuro». In questa prospettiva, proprio chi è stato partecipe del vecchio mondo e vive nel nuovo, chi ha conosciuto un passato di saldi principi e soffre ora l’anomia del presente può meglio contribuire a «mettere le basi del futuro», offrendosi come tramite per un’opera di «chiarificazione» in funzione della futura, necessaria «armonia». Parole sagge ed equilibrate, come sempre in Stuparich, che si guarda bene però dal porsi domande o avanzare dubbi sul valore del mandato ideologico e morale affidato a un ceto intellettuale di cui i decenni passati avevano messo in luce con assoluta evidenza l’ultimo “tradimento”, nel segno della rinuncia, del compromesso, della complicità con il “male”. Affiancano queste uscite di intonazione ed ambizione “filosofica”, una serie di articoli, tesi concettualmente quanto di breve estensione su «L’Italia libera» di Roma, «La Voce Libera» di Trieste (giornale su posizioni di sinistra moderata, poi organo dei repubblicani33), «L’Illustrazione italiana», che iniziano a mettere a fuoco, fin dall’estate del 1945, i problemi della situazione triestina. In essi vengono seguite soprattutto due direttrici: l’approfondimento della fisionomia e della storia recente di Trieste e della Venezia Giulia, come garanzie di italianità schietta da giocare sul terreno di quella prossima, inevitabile riconfigurazione confinaria che molto faceva temere i giuliani di lingua italiana (soprattutto di fronte alla radicale politica rivendicazionista jugoslava, che esigeva la cessione dell’intera Venezia Giulia, Trieste, Gorizia e Monfalcone comprese), e l’interpretazione da dare alla lunga parentesi fascista. Per quanto riguarda la situazione di Trieste, Stuparich attinge a un solido retroterra di convinzioni lungamente maturate che si esplicita da un lato nelle pagine contemporanee di Trieste nei miei ricordi, e che trova espressione dall’altro nel costante impegno di rivendicazione delle finalità “democratiche” della Grande guerra così come fu combattuta dall’Italia. «La guerra che ha dato Trieste all’Italia non è stata guerra imperialistica, ma è stata guerra di giustizia», dichiara in Esiste un problema di Trieste? («L’Illustrazione italiana», 22 luglio 1945, poi su «La Voce Libera», 20. IX.1945 con il titolo La nostra causa); e, aggiunge, coloro che in quella guerra sono caduti per la Patria – triestini, istriani, friulani –, hanno testimoniato, con il sangue del loro sacrificio e la sincera passione delle loro parole, non soltanto la solidità indiscutibile di un legame ma il pieno diritto di un’appartenenza che non può essere negata: «noi triestini sentiamo che nelle parole dei nostri morti […] c’è la nostra verità, l’incancellabile diritto ad essere quello che siamo» (Realtà della patria, in «La Voce Libera», 3. XI.1945). Restringendo lo sguardo ai volontari giuliani, l’attenzione di Stuparich, che aveva splendidamente commentato i Momenti della vita di guerra di Adolfo Omodeo, va ora al volume di G. Gall Uberti, 33 Per il “discorso nazionale” svolto dalla «Voce Libera», e le consistenti ambiguità tanto del giornale che della sua area politica di riferimento, si vedano le osservazioni di Biecker, De Rosa, Benvenuti, in Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale 1945-1975, Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste s.d., specialmente p. 59.

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Pagine di volontà e di passione (Biblioteca di cultura italiana de «La Vedetta italiana», Trieste, 1927). Lo scrittore non può ignorare, tuttavia, che era stato il «fascismo di frontiera a impadronirsi della memoria del volontariato, pietra miliare dell’edificazione del mito dell’identità italiana»34 della Venezia Giulia, e che l’associazione che di quella esperienza si proclamava erede, la “Compagnia dei volontari giuliani e dalmati” si era massicciamente fascistizzata nel corso del Ventennio. Come a dire che quelle schegge di memorialistica, eticamente “adamantine” nella loro essenza autentica, portavano tuttavia con sé un deposito di incrostazioni interpretative, di corollari ideologici, di implicazioni politiche (ampiamente e spregiudicatamente sfruttate) di cui era assai difficile liberarle. Tentarne ora, in extremis un’ “utilizzazione” democratica, dopoché si era assistito alla loro degradazione militaristica e imperialistica senza nulla poter (o voler) fare, era impresa assai ardua, e non scevra di una certa carica di ambiguità. Qui è facile riconoscere, del resto, il dramma di un patriottismo che senza rinunciare in alcun modo a rivendicare l’italianità delle terre contese della Venezia Giulia, voleva tuttavia marcare le distanze, nel modo più chiaro e più netto, dal nazionalismo estremo (che riprenderà presto lena a Trieste, come dimostra la percentuale di voti che raccoglie la destra nostalgica fin dalle elezioni amministrative del 1949). Quel nazionalismo che continuerà, per altro, ad avanzare appelli ad una union sacrée degli italiani di Trieste, richiamando al dovere di sostenere compatti, dimenticando le diversità politiche, l’incombente minaccia da est (fa emergere le contraddizioni intrinseche a questo modo di vedere il famoso caso del luglio 1948 quando, avendo proposto Guido Slataper all’assemblea della Compagnia dei volontari giuliani e dalmati, «un ordine del giorno che si richiamava all’ “unità spirituale del 1915 per uscire dal dilemma fascismo-antifascismo” […] votato dalla maggioranza degli aderenti», Antonio Fonda Savio decise di dare le dimissioni dal Direttivo35). Particolarmente arduo dunque il compito del patriottismo democratico che sarà così costretto da un lato a definirsi quasi ossessivamente, per evidenziare in ogni possibile occasione, marcando la differenza, i propri presupposti etico-politici, dall’altro a un difficile cabotaggio sul piano delle proposte politiche e, non di rado, a scomode coabitazioni sul piano concreto della vita politico-civile, sull’orizzonte di un discorso e, ciò che più conta, di una prassi dove il fascismo aveva impresso un segno difficilmente cancellabile (tanto più che, a fronte di un’epurazione assai poco coraggiosa, 36 stavano rientrando in gioco, sulla scena pubblica almeno se non proprio in politica, anche personaggi piuttosto compromessi). A coloro che, dall’altra parte del confine, avanzavano l’equazione discutibile ma utile (a fini ideologici, rivendicativi e di dominio): italiani uguale fascisti (instancabilmente 34 F. Todero, Morire per la patria - I volontari del “Litorale austriaco” nella Grande Guerra, cit., p. 20. 35 Damiani, Giani Stuparich, cit., p. 119. 36 Per questi aspetti fondamentale Spazzali, Epurazione di frontiera - 1945-48 Le ambigue sanzioni contro il fascismo nella Venezia-Giulia, LEG, Gorizia, 2000.

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ribadita, del resto, dallo stesso fascismo, tanto a parole che nei simboli e nelle ritualità partitiche e statuali), questo patriottismo democratico non aveva, a ben vedere, molto da opporre (troppo lunghi gli anni del consenso, troppo clamorosa l’acquiescenza della cultura e la complicità delle classi dirigenti con il fascismo liberticida e imperialista, e poi la squallida vicenda del regime caduto per una congiura di palazzo, e la Resistenza, pagina gloriosa, ma fenomeno nettamente minoritario nel Paese). Per Stuparich, va detto, le cose stavano diversamente. Per lui, infatti, un’ “altra Italia” c’era stata, eccome: Sotto l’Italia fascista – così in Esiste un problema di Trieste – c’era un’altra Italia, sofferente, oppressa, che si preparava alla riscossa, un’Italia nuova che da prima (25 luglio 1943) costrinse la classe dirigente a un disperato salvataggio di se stessa col buttare a mare il fascismo e il suo capo, e più tardi, decisamente, con l’aiuto degli Alleati, liberò l’Italia da fascisti e tedeschi.

Ammesso e non concesso, le si poteva facilmente rimproverare il silenzio tombale mantenuto, negli anni del fascio, su tutto ciò che il regime aveva attuato sul confine orientale per snazionalizzare i concittadini sloveni e croati. Per non parlare del periodo della guerra e dell’occupazione nazista, che, sullo sfondo di un esteso collaborazionismo da parte italiana, aveva visto perpetrare dai nazi-fascisti veri e propri atti criminali a spese delle popolazioni civili slave nel tentativo di soffocare, nella maniera più atroce, una ormai incontrollabile guerriglia partigiana. 37 Ne derivava allora l’esigenza di offrire garanzie che il futuro del Paese non sarebbe stato uguale al passato; e nel tempo stesso, la difficoltà a trovarle, visto che tali garanzie si riducevano in pratica, nelle prese di posizione di Stuparich, ad appassionate esternazioni di fede mazziniana, o in anacronistici rimandi ai valori di un’epoca remota (l’interventismo democratico) rimasti lettera morta nei vent’anni del dispotismo. Quanto poi al fascismo, affinché il discorso filasse, si doveva dimostrare che era stata un’improvvisa parentesi oscura che aveva annebbiato il sereno volto dell’Italia liberale, concezione che si basava sulla discutibile interpretazione crociana (modo di vedere, ha scritto Nino Valeri – e si capirà presto perché facciamo il suo nome – che «lascia perplessi», anche se «al termine della guerra, nel momento della resa dei conti, essa ebbe indubbiamente il suo positivo significato come strema generosa difesa dei popoli vinti contro l’ebrietà dei vincitori»38). Così Stuparich: il ventennio della fatale esperienza fascista va acquistando le sue giuste proporzioni: di incrinatura temporanea nella continuità storica d’Italia. L’Italia riprende la sua via, sulle orme di Garibaldi e di Mazzini, sulla linea di serietà e di maturità di Cavour […]. A questa Italia Trieste è degna e orgogliosa di appartenere […]. Italia che 37 Sui crimini di guerra dell’esercito italiano nel corso dell’aggressione contro la Jugoslavia e negli anni dell’occupazione e della guerra anti-partigiana, cfr. C. Di Sante, a cura di, Italiani senza onore. I crimini di guerra in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre Corte, Verona, 2005. 38 N. Valeri, Pagine recuperate, Del Bianco, Udine, 1998, p. 80.

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si prepara a quella fratellanza fra i popoli che fu il genio lungimirante di Mazzini ad auspicare e a progettare per il primo in Europa. (Coscienza nazionale, «La Voce Libera», 13 agosto 1945)

Impossibile non notare che, in questi interventi del 1945, più per fedeltà ad antiche certezze che per una rimozione dovuta alla strettissima vicinanza temporale con i quaranta giorni dell’occupazione titina, manca ogni menzione degli “altri”, dei concittadini di lingua slovena, come a ribadire senza alcuna correzione di tiro l’intramontabile tesi irredentista di una Trieste compatta e monocromatica, per lingua e per etnia. Concezione, inutile dire, assai prossima alle mistificazioni del recente passato e troppo impregnata di preoccupazioni “nazionali” (ma che, come abbiamo visto, risuona con rintocchi forti e risentiti anche nel capolavoro di quegli anni, Trieste nei miei ricordi). Per dimostrare la piena disponibilità democratica della nuova Trieste, le intelligenze migliori e più aperte avrebbero dovuto invece finalmente rispondere a quegli appelli che da decenni, in modo più o meno esplicito, provenivano dalle comunità slave, chiarendo di voler riprendere, senza ritardi e timidezze, il discorso interrotto nel 1922 sul piano istituzionale e, prima ancora, brutalmente tacitato dallo squadrismo. E rispondervi come se Tito e la sua minaccia non ci fossero, perché mai il problema dell’appartenenza statuale o del cosiddetto “interesse nazionale”, avrebbe dovuto far dimenticare quello più profondo e più antico della convivenza, secondo equità e giustizia, delle diverse genti della Venezia Giulia In tal caso però – e anche qui Stuparich appare tiepido ed esitante – l’italianità giuliana avrebbe dovuto ammettere e dichiarare senza esitazioni per bocca dei suoi più prestigiosi rappresentanti la correità, diretta o per semplice acquiescenza, con il fascismo totalitario e genocidario che aveva liberamente spadroneggiato nella Venezia Giulia perché «tutti eravamo infetti di nazionalismo», 39 come avrebbe confessato, qualche anno dopo, Biagio Marin. Lasciando ferite che stentavano a chiudersi, come fa capire assai bene, con lo spirito schietto che lo contraddistingue, Boris Pahor, in una pagina di Necropoli, dove racconta del suo incontro nel Lager con un internato triestino, Gabriele: mi sembrava fuori luogo che, dopo tanti anni di permanenza nelle medesime vie sulla medesima marina, un concittadino appartenente all’élite italiana parlasse per la prima volta con umanità di espressione proprio qui dove tutto ciò che è umano veniva messo in forse.40

Nello sguardo dell’Altro, respinto e discriminato, un muto rimprovero dove la bruciante sofferenza dell’esclusione prende la veste di una rassegnata amarezza. 39 Marin, Echi del nostro dramma (1963), in Id., Autoritratti e impegno civile, cit., p. 207. 40 B. Pahor, Necropoli (1967), Edizioni del consorzio culturale del Monfalconese, Monfalcone, 1997, p. 26. In nota, qui a p. 180, Pahor esprime il suo rispetto per Gabriele Foschiatti, il Gabriele di Dachau appunto, meglio conosciuto grazie alla monografia di Fogar.

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Invece, assai poco di ciò: visto che il regime era stato una «incrinatura», e «l’altra Italia» aveva fatto tutto da sé (spodestando il duce e liberando il Paese), anche la colpa si riduceva a minime proporzioni. Nessun vero processo al passato ma il solito vittimismo auto-assolutorio. Dopo la vittoria mutilata di venticinque anni prima, un armistizio, quindi, ingiustamente punitivo. Spiega lo scrittore: L’Italia nuova ha troppa coscienza di sé per non sapere di dover scontare il delittuoso governo del fascismo [ma] risollevare un problema di Trieste e come rimettere in questione il diritto dell’Italia a Venezia, al Lombardo-Veneto, alla Sicilia (Esiste un problema di Trieste?).

Chiariva bene invece lo sfondo ideologico, se non antropologico, della questione Aurelia Gruber Benco, una delle poche voci controcorrente, in una rivista, «Umana», fondata a Trieste nel 1951 con finalità umanistico-progressiste: Si sono visti nel dopoguerra processi di epurazione assurdi e inutili, ma non abbiamo avvertito fra coloro che dovrebbero essere consapevoli, e sono milioni di cittadini, la sofferenza morale per la responsabilità per quanto è accaduto nell’ultimo trentennio, sofferta, dibattuta nella coscienza del singolo, proiettata su piani che solo il dolore rinnova ed eleva.41

Comunque non pochi capivano, scrutando le sorti del mondo, che il destino di Trieste dipendeva dagli accordi fra le grandi potenze, di fronte ai quali la volontà delle popolazioni coinvolte era come sabbia gettata al vento. L’Europa, sfuggita d’un soffio alle truci prospettive della Neue Ordnung, avrebbe presto conosciuto le poco invidiabili gioie di una lunga “guerra fredda”. Proprio come dopo il primo conflitto mondiale i diritti dei popoli finivano per contare poco: era la legge della forza a fare la musica. Scriveva Adolfo Omodeo: «è finita l’Europa focolare di vita libera, che nei suoi diversi centri è stata maestra di varia civiltà e di grandi esperienze al mondo». 42 Stando così le cose Stuparich non poteva illudersi di ottenere gran che con la sua flebile voce di uomo solo e le sue opinabili prospettive di storico dilettante (ben diversamente equi e profondi, sul terreno storiografico, certi interventi di “professionisti”, scesi anch’essi in campo con memoriali e riflessioni; e penso ancora alle equilibrate pagine di Ernesto Sestan, stilate in risposta alle argomentazioni alquanto faziose di Josip Smodlaka: Le argomentazioni e le pretese del dottor Smodlaka43). Tuttavia, sebbene destinate prevalentemente ad “uso interno”, le sue riflessioni in pubblico, nella misura in cui potevano servire come collante per un fronte filo-italiano che si sarebbe presentato, in ordine sparso ma 41 Questo passo dell’Editoriale del n° 1 di «Umana», si legge in M. Silvestri, Aurelia Gruber Benco - Trieste, l’identità europea e la politica della cultura, Ibiskos editrice Risolo, Firenze, 2009, p. 97. 42 Cit. in Bertacchini, Stuparich, cit., p. 137. 43 Il memoriale, che risale al 1944, si legge in Sestan, Venezia Giulia - Lineamenti di una storia etnica e culturale, cit., p. 171 e segg.

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per calcolo elettorale, alle elezioni amministrative di Trieste del 1949 (riportando una netta vittoria), avevano il merito, nonostante tutto, di esercitare – in ispecie nel loro richiamo a valori risorgimentali di ampia latitudine, enunciati, ma scarsamente tradotti in pratica dall’Italia nata dalle guerre di indipendenza – forme di pedagogia, rivolte in particolare ma non esclusivamente ai concittadini, nel tentativo di abituarli, dopo decenni di imposto analfabetismo politico, a commisurare le loro scelte e propensioni politico-civili sui più grandi modelli della tradizione italiana, Mazzini e Garibaldi, in primo luogo. Un importante motivo conduttore delle uscite pubbliche del dopoguerra, come mostrò subito nel 1947 il lungo scritto Con Garibaldi oggi («La rassegna d’Italia», maggio 1947) che sarebbe confluito nella prefazione, datata giugno 1946, all’antologia Scrittori Garibaldini, pubblicata presso Garzanti nel 1948. 44 In questo caso non è però ozioso chiedersi se era veramente possibile ritrovare l’antica innocenza della “grande narrazione” risorgimentale, dopo che il fascismo l’aveva così intimamente contaminata45: il richiamo alla patria che Stuparich faceva risuonare, portava ancora in sé come un retrogusto difficile da eliminare, gli echi del mito littorio, e quel Risorgimento che, incompiuto, il fascismo pretendeva di aver completato, non era forse il mito fondativo più adatto, mentre andava lentamente sbiadendo anche nella memoria dei colti, per rifondare una civitas cui andava insegnato l’alfabeto della democrazia. D’altra parte, il fatto che al Risorgimento avessero fatto appello, negli anni atroci della “guerra civile” sia le forze partigiane (dal cui ambiente scaturisce la formula del “secondo Risorgimento”), che i militi della RSI, 46 sembrerebbe indicare che nonostante tutto non era completamente declinato «il capitale di legittimazione che l’orizzonte risorgimentale portava con sé», 47 ancora dunque, ma difficile valutare quanto, portatore di idee-forza capaci di suggestionare, convincere, mobilitare. È importante aggiungere, e non significa certo andare fuori tema, che proprio a Trieste, alla fine degli anni Quaranta, venne creato un Centro di Studi per la Storia del Risorgimento, promosso e animato da uno storico di grandi energie intellettuali e di squisita sensibilità morale, il Nino Valeri48 di cui già

44 Cfr. Senardi, La memorialistica garibaldina nella scelta di Giani Stuparich, in G. M. Anselmi e G. Ruozzi, a cura di, Letteratura di guerra - Testi, eventi, protagonisti dell’arte della guerra dall’Umanesimo al Risorgimento, Archetipo Libri, Bologna, 2010. 45 Cfr. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze valori nella stabilizzazione del regime, il Mulino, Bologna, 1985 e Baioni, Risorgimento in camicia nera, cit. 46 Vedi C. Pavone, Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento, in Id., Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, e Id., Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, cit., in particolare il cap. Alla riconquista dell’identità nazionale. 47 Baioni, Risorgimento in camicia nera, cit., p. 253. 48 Sulla figura e sul metodo storiografico di Valeri, si veda Cervani, Nino Valeri storico, in Id., a cura di, Nino Valeri, Pagine recuperate, Del Bianco, Udine, 1998.

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si è fatto il nome, chiamato dal 1947 a ricoprire la Cattedra di Storia moderna presso l’Università della città giuliana (vi resterà fino al 1954). Nonostante un passato di storico del medioevo, del rinascimento e dell’illuminismo (il suo libro su Verri risaliva al 1937) aveva con sé in valigia, fresco di stampa, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925 (Le Monnier, Firenze, 1945), dove, alla luce di ideali di «patriottismo umanitario» (p. 389), si faceva la storia del travagliato percorso nazionale dall’Unità al fascismo, assegnando a Benedetto Croce un compito giudicante e conclusivo (l’ultimo testo antologizzato è la risposta di Croce al «Manifesto degli intellettuali fascisti» e il penultimo il discorso che Bissolati non poté pronunciare l’11 gennaio 1919 alla «Scala» di Milano perché zittito dalla gazzarra di futuristi e proto-fascisti) e, in bozze, l’Antologia della “Rivoluzione Liberale” (De Silva, Torino, 1948), ricco di apprezzamenti nei confronti del «rivoluzionarismo libertario» (p. XXII) nutrito di succhi morali di chi aveva affermato: «il nostro antifascismo non è un’adesione a un’ideologia, ma qualcosa di più ampio, così connaturale con noi che potremmo dirlo fisiologicamente innato» (p. XXI). «La città era in quegli anni», spiega in rapida sintesi Giulio Cervani (facendoci ancor meglio capire quale fosse allora il clima giuliano, e il perché della disponibilità di Valeri ad accettare una cattedra alquanto “periferica”), la più esposta “politicamente” nella repubblica italiana appena proclamata: sul tavolo c’erano i problemi del trattato di pace, c’era un gran parlare del territorio libero di Trieste, c’era la rottura di Tito con il Cominform, c’era la guerra fredda, c’erano le grandi manovre diplomatiche per le quali si sarebbe arrivati nel 1953 al “memorandum” […]. E a Trieste [Valeri] si impegnò, e molto: sia dalla cattedra che come promotore di cultura, come instancabile sostenitore di dibattiti rimasti famosi, come protagonista civile.49

A Trieste insomma la storia sembrava “farsi” (o, forse, poter “essere fatta”) a ritmi accelerati: occasione ghiotta per lo storico che andava a collocarsi in un attivo laboratorio di ricerche sul campo e ancora più ghiotta per l’uomo che aveva a cuore le sorti della patria, perché era qui che con maggior effetto poteva intervenire nel dibattito pubblico, sperando in un’ampia risonanza del suo pensiero. Opera per cui ebbe il partecipe e affettuoso appoggio esterno di Stuparich. Come a dire due grandi intellettuali, cui si sarebbe presto accodato un folto gruppo di giovani studiosi (o meglio, di fervorosi discepoli), concordi nell’avvertire l’urgenza di riprendere il grande discorso della libertà e la necessità di irradiarlo da Trieste; vuoi per le sue tradizioni di città del “risorgimento”, ancorché in ritardo e con modalità tutte proprie, vuoi per la sua condizione di brandello di Italia staccato dalla patria e che sembrava così riproporre, in pieno ventesimo secolo, un’esigenza di incondizionato impegno patriottico. 49 Cervani, Premessa a Valeri, Pagine recuperate, cit. Oltre a saggi dove Valeri approfondisce una delle sue tematiche più care (l’età giolittiana e l’alba del fascismo), il volume contiene una interessante seconda parte di elzeviri di storia e cultura (1956-1968), illuminati da una fervida luce morale, che ricordano da vicino le riflessioni di maggior respiro dello Stuparich di quegli anni.

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Ovviamente diverso nell’uno e nell’altro, in Valeri e in Stuparich, l’approccio alla materia risorgimentale: nello storico prevalevano istanze critico-interpretive, senza sfuggire al tema, lo diremo con Montale, delle «premesse rivoluzionarie del nostro Risorgimento»50 costantemente inevase o tradite; in Stuparich invece la torsione agiografica, secondo schemi ampiamente collaudati (la schiera degli eroi, ovvero i martiri, l’incondizionato amor di patria, ovvero la fede), restando all’interno di un canone ristrettissimo (figura perno: Mazzini), compatto e monocorde, e sempre riproposto con martellante foga pedagogica. Due approcci entrambi legittimi, se consideriamo le differenti finalità, tanto che sarebbe improprio trarre da un eventuale confronto giudizi di valore (che andrebbero semmai cercati per Stuparich nel paragone con campioni di contemporanea oratoria pubblica51). Si deve forse a questa vicinanza a Nino Valeri, e alle esigenze di approfondimento e chiarificazione di cui si faceva portatore, il fatto che, nella parabola degli anni, diventino sempre più rari gli interventi dello scrittore sull’attualità, a beneficio invece di ampie riflessioni, spesso lette in pubblico in occasione di ricorrenze commemorative (e da qui una netta subordinazione agli imperativi della retorica), che intrecciano il piano dell’etica, della politica e della storia? E sono pagine nelle quali – con netta preminenza della categoria morale – un bisogno di ripensamento generale delle vicende dell’Italia unita e di Trieste (e in particolare su quelle figure che meglio qualificano il Paese e la città alla luce di idee di libertà) prevale sull’urgenza polemica, spesso foriera di conclusioni azzardate (ed ecco allora Con Garibaldi oggi, del 1947, i discorsi Lo spirito del Risorgimento, per l’inaugurazione delle celebrazioni del centenario del 1848, Guglielmo Oberdan e I caduti per la patria del Liceo-ginnasio Dante Alighieri del 1958). Avremo presto occasione di vederli. Ma prima è necessario rivolgere l’attenzione ad alcuni contributi del 1946, fondamentali per capire meglio l’orientamento di Stuparich. In primo luogo un articolo risalente al marzo di quell’anno (La Venezia Giulia. Quale giustizia?, «L’Illustrazione italiana», 31.III.1946), che lascia intravedere il volto migliore dello scrittore, quella mente aperta che ci siamo abituati ad apprezzare leggendo le pagine della saggistica 50 Montale, L’Italia rinunzia (19 maggio 1945), in Id., Auto da fé, cit., p. 40. 51 Si vedano per esempio i discorsi di Gianni Bartoli (1900-1973) l’ingegnere rovignese che fu segretario della Democrazia Cristiana di Trieste (1945-1949) e sindaco della città dal 1949 al 1957. Anche nella sua oratoria (cfr. G. Bartoli, Italia ritorna. Dieci anni di storia triestina nei documenti, scritti e discorsi del Sindaco Gianni Bartoli, a cura di P. Berti, Cappelli, Rocca San Casciano, 1959) il Risorgimento rappresenta l’onnipresente orizzonte nostalgico e asseverativo, la vetta più alta dei valori nazionali, ma l’Italia invocata non è solo la patria «di Dante, di Manzoni, di Garibaldi e Mazzini», ma anche quella «dei Santi e dei Pontefici» (discorso del 13 novembre 1953 in Consiglio Comunale), un’Italia che sembrò morire l’8 settembre 1943 (ivi), con echi di quell’ideologia della “morte della patria” cari a una visione destrorsa per cui Stato e nazione coincidono, eppure gloriosa per le sue medaglie d’oro (apostrofe del 1954 «Alle Medaglie d’Oro»), una rubrica in cui, senza distinzione, Mario Granbassi e Gabriele Foschiatti finiscono per trovarsi affiancati.

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vociana e certi passi sulla «Rivista di Milano». Egli si chiede innanzitutto cosa sia diventata la Venezia Giulia, a meno di un anno dalla conclusione della guerra: La Venezia Giulia è una regione avulsa artificiosamente dal suo corpo naturale: in un mondo che soffre di barriere d’ogni genere, le sono state create intorno barriere speciali e inutili e gravose; è stata arbitrariamente divisa in una zona A e una zona B, incisa da solchi che dolorano come profonde ferite, governata nei modi più contrastanti, palleggiata di qua, soffocata di là: immobilizzata e ostacolata nelle sue iniziative. E con tutto ciò la Venezia Giulia vuole e intende vivere, s’aggrappa con fiducia al suo diritto di vivere secondo giustizia, fuori d’ogni teatralità politica. La zona A s’amministra civicamente come può, in mezzo agli imbarazzi e alla bardature, cerca e, bisogna dirlo, trova molto spesso comprensione e aiuto da parte del governo alleato.

Eppure, continua, nonostante le difficili condizioni la tensione in città si è andata stemperando, le manifestazioni propagandistiche hanno raramente portato allo scontro diretto, sta lentamente subentrando, rispetto all’abbattimento del ’45, un atteggiamento più fiducioso nel futuro. Certo, si teme ancora che qualche decisione improvvida di chi tutto può nelle cancellerie dei vincitori conduca a risultati disastrosi, «dimenticando o implicitamente rinnegando i principi di giustizia per cui s’era combattuto e vinto nell’altra guerra mondiale, sulla base dei quali il problema della Venezia Giulia era stato già risolto», mentre si guarda con preoccupazione all’avvenire del porto, da cui dipende la prosperità della città; tuttavia, tra tante incertezze, «commuove […] il fervore nel campo spirituale»: la rinascita del teatro, delle manifestazioni di cultura, dell’arte. Se una «Venezia Giulia teatrale, balcanizzata» non perde occasione per chiedere la soluzione jugoslava (e Stuparich si riferisce alle scenografiche manifestazioni di piazza sotto regia titoista), esiste – e anche Trieste ha cominciato a farlo trapelare, scuotendosi da una rassegnata apatia – «un’altra Venezia Giulia che vive nell’ombra intenta a salvare i valori spirituali della propria civiltà» (ma che uscirà all’aperto con le grandi dimostrazioni patriottiche del 25 e del 27 marzo che Stuparich racconta all’Italia – non è esagerato dire, con le lacrime agli occhi – in un articolo, Giornate triestine, sul numero di novembre-dicembre 1946 della rivista romana «Mercurio»). Rinasce inoltre la vita politica, in quelle forme di partecipazione partitica che sono il sale della democrazia. E già qualche partito ha ideato piani particolareggiati per la futura autonomia della regione dentro lo Stato italiano, colla precipua mira a una convivenza libera ed armonica con la minoranza slava. Basta infati uscire dai pregiudizi, dalle deformazioini dei politicanti, dall’atmosfera febbrile rinfocolata ad arte, per vedere che italiani e slavi possono convivere naturalmente in questa regione, dove da tanto sono vissuti insieme, e che non è per niente difficile togliere tra di loro i motivi di dissenso, quando le loro relazioni siano poste su un livello d’umanità semplice, d’onestà e di vera libertà. Le complicazioni nascono perché c’è chi le vuole far nascere, chi sfrutta la nazionalità per le mire del proprio nazionalismo. Tutto un lungo passato di sobillamenti all’odio pesa sulle due popolazioni, dall’Austria al fascismo, al panslavismo d’oggi: ora gli italiani aizzati contro gli slavi, ora gli slavi aizzati contro gli italiani. Lasciati vivere,

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i due popoli sanno umanamente intendersi fra di loro e in un domani in cui l’Europa realizzasse gli ideali per cui si è vinta l’altra e questa guerra, sarebbero i primi a dar l’esempio d’un felice accordo (sono stati due grandi italiani del Risorgimento a precorrerlo con la loro mente: Niccolò Tommaseo e Giuseppe Mazzini).

In fondo, conclude Stuparich – ed è la prima e l’ultima volta che lo sentiamo così esplicito – è ovvio che i confini debbano essere rivisti52 (ma certo lo scrittore non si aspettava quel crescendo di soluzioni drastiche che porteranno alla “nota bipartita” dell’ottobre 195353 e soprattutto, nelle sue dimensioni catastrofiche, il dramma dell’esodo istriano). Poiché è giusto che una correzione di confini, col criterio di lasciare il minimo numero possibile di slavi di qua e di italiani di là, ponga una base sicura di collaborazione fra due stati vicini, fra l’Italia e la Jugoslavia, per niente difficile, qualora siano tolti i motivi di risentimento nazionale da una parte e dall’altra.

Straordinariamente interessante il contributo che Stuparich pubblica il 27 maggio 1946 (Trent’anni sono passati) su «L’Emancipazione»; e per diversi ordini di ragioni. Innanzitutto perché dà inizio alla collaborazione dello scrittore – saltuaria, va detto, ma appassionata – al foglio della “federazione giuliana del partito d’Azione”, che si ricollegava esplicitamente a «L’Emancipazione» della Trieste asburgica, organo della D.S.I., e a «L’Emancipazione» del primo dopoguerra, voce dei repubblicani triestini. Da quei suoi non lontani antenati la nuova «Emancipazione», che aveva come capo redattore un ben noto volontario giuliano, Ercole Miani, ereditava l’entusiasmo patriottico, la fede mazziniana e risorgimentale sentita come assolutamente attuale (tanto che Mazzini risulta essere, su queste colonne, un onnipresente e venerato garante di valori di libertà), la venerazione per i missionari e i martiri della patria (una rubrica dove Oberdan e Slataper andavano a collocarsi accanto ai protagonisti dell’antifascismo e della Resistenza). Discendeva da qui il culto della Prima guerra mondiale (con la valorizzazione del volontarismo), considerata come l’episodio conclusivo del Risorgimento, perché aveva conquistato all’Italia quei confini “naturali” dai quali era inaccettabile arretrare («è necessario ristabilire in tutta la Venezia Giulia le condizioni di fatto e di diritto esistenti prima del settembre 1943», scriveva «L’Emancipazione» in data 21 gennaio 1946, titolando: «la Linea 52 Il tema è ovviamente delicato e Stuparich vorrà riprenderlo a ridosso della restituzione di Trieste all’Italia, nell’ottobre del 1954. Per ragioni di economia testuale e di coerenza tematica, anticipo qui: «se proprio non si voleva ridare all’Italia i confini che ad oriente le aveva dato la natura, se per motivi etnici si stimava di dover correggere questo confine – salve Fiume e Zara – c’era la linea Wilson a cui attenersi, quella linea che un Presidente degli Stati Uniti già nel 1918 aveva tracciato» (La funzione di Trieste, in «Trieste», I, 1, maggio-giugno 1954). 53 In una prospettiva più ampia, che considera l’intero travaglio diplomatico e i suoi definitivi risultati, lo storico Rusinow, citato da Cattaruzza (L’Italia e il confine orientale, cit.), giudica che «l’Italia mantenne più di quel che era giusto alla frontiera con l’Austria e perdette territori che le sarebbero dovuti spettare dal punto di vista etnico alla frontiera orientale» (p. 305).

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Morgan è il veleno»). Mentre al centro della piattaforma politica spiccava il vecchio sogno dell’autonomia giuliana intesa come «primo pilastro dell’unità europea» («L’Emancipazione», 1.IV.1946). Tutto ciò alimentava un amor di patria non disgiunto da senso di giustizia, passione dell’anima e non ossequio formale, arricchito dalla consapevolezza che una democrazia deve saper difendere con tutte le forze la libertà (con il corollario di un testardo impegno affinché l’epurazione – voluta, in primo luogo in sede giudiziaria, nei confronti degli ufficiali traditori che non avevano difeso la Venezia Giulia dopo l’8 settembre – «si estend[esse] in profondità», anche in senso morale, «fino a toccare il fondo delle nostre coscienze dove c’è tanto marcio da epurare» - «L’Emancipazione», 28.I.1946). Accanto a tutto questo però un velenoso correttivo. Duri accenti nei confronti della nuova Jugoslavia, quasi un ritorno di fiamma dell’incancellabile slavofobia giuliana (reazione in fondo comprensibile, se proprio vogliamo, ai frequenti scoppi di violenza titoista verso tutto ciò che in Istria c’era ancora di italiano54), controbilanciati però dai periodici trafiletti che il giornale pubblicava sui maggiori scrittori della tradizione slovena, come a far capire che la polemica era rivolta contro un regime e non contro un popolo, su basi politiche e non etniche. Inutile dire che su un giornale del genere, attivo per un’esigua manciata d’anni, Stuparich doveva trovarsi come a casa. Ma questo contributo del maggio 1946 mette in luce un altro dato significativo: la rigidità dello scrittore, se così possiamo dire, rispetto alle esigenze di compromesso che il momento imponeva; tale anzi da farlo aderire, nel calore della polemica, alle posizioni del nazionalismo del primo dopoguerra e perfino proporre un’interpretazione del recente passato assolutamente indifendibile sul piano storiografico, perché tutta giocata sul tema di un’Italia ingiustamente penalizzata già nel 1919. Ma veniamo al testo: Mai il 24 maggio ha assunto un significato così pregnante e ammonitore come in quest’anno. Allora, nel 1915, noi entrammo in guerra a fianco dell’Inghilterra, della Francia e della Russia contro l’Austria e la Germania, con la piena coscienza di quello che facevamo, non per mercato né per lusinghe, ma per difendere la giustizia e la libertà di tutti e con quella di tutti la nostra. Eravamo dalla parte della ragione che vince e vincemmo, ma già nelle trattative di quella pace noi dovemmo subìre qualche umiliazione: non tutte le promesse fatteci furono mantenute. Tuttavia una cosa fu lampante in quei giorni in cui si cercava affannosamente, ma non da tutti onestamente e generosamente, una sistemazione pacifica e duratura dell’Europa: che la Venezia 54 Un altro anello in quella infinita serie di azioni e reazioni in cui da sempre consiste il conflitto etnico nella Venezia Giulia. Un dare ed un avere di cui fa equilibratamente la storia quella Relazione di storici italiani e sloveni (14, per l’esattezza) che, resa timidamente pubblica nel 2001, ha tanto imbarazzato le autorità politiche dei due Paesi da venir quasi passata sotto silenzio, mentre è un documento importante ed esemplare di storia “condivisa”. Cfr. Relazione della commissione mista storico-culturale italo slovena (Relazioni italo-slovene 1880-1956), variamente edita, per esempio in appendice a Algostino, Bertuzzi et alii, Dall’impero austo-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati-Boringhieri, Torino, 2009, ma rinvenibile anche in rete. Di un dimenticato precedente, Le tesi italo-jugoslave per i testi di storia, che ha visto la luce in rivista nel 1971, dà notizia Spazzali, che lo ripubblica nel 2010, nei quaderni del Circolo di cultura istro-veneta «Istria».

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Giulia, tutta la Venezia Giulia apparteneva, non per diritto di conquista, ma per diritto naturale e storico, all’Italia. Tale diritto era stato conculcato dall’Impero austroungarico che, costretto via via a restituire all’Italia le regioni e le province rubatele, aveva usurpato fino in ultimo, cioè fino al suo crollo definitivo, il Trentino e la Venezia Giulia. Questa nostra regione apparteneva dunque di diritto all’Italia e l’Italia, con il sacrificio del suo sangue, se la riprese. Non poteva non esserle riconosciuta, nessuna giustizia che sia veramente giustizia, può non riconoscergliela: la natura stessa ha fatto che essa appartenga all’Italia. Col 24 maggio 1915 l’Italia entrava nell’ultima guerra del suo risorgimento e la Venezia Giulia, non ancora redenta, rispondeva coi suoi volontari, col sacrificio dei suoi impiccati e dei suoi caduti, all’appello della Patria. Oggi, dopo trent’anni, si contesta all’Italia il diritto a questa terra. Quelle stesse nazioni che già glielo avevano solennemente riconosciuto, discutono e mercanteggiano, a un altro tavolo della pace dove noi non ci siamo, sull’integrità del suo territorio nazionale. Per quale colpa? Perché si torna a voler smembrare questo disgraziato Paese, che per secoli ha patito del proprio smembramento? Perché – si risponde – c’è stato il fascismo, perché il fascismo ci ha trascinato a una guerra imperialista. Ma si dimentica una cosa essenziale: nel maggio del 1915 era un’Italia libera, un’Italia democratica che scendeva in campo per completare se stessa, un’Italia, che dopo essersi divisa in una libera discussione tra interventisti e neutralisti, ritrovava nel sentimento del proprio dovere l’unanimità, appassionata unanimità, che dopo la titubanza e la scontata sciagura di Caporetto si confermava eroicamente sul Piave e a Vittorio Veneto. Mentre invece l’Italia costretta alla guerra del 1940 era un’Italia incatenata, che dimostrò il suo vero sentimento boicottando questa guerra, considerandola appunto guerra matricida, invocando la sconfitta come minor male, abbattendo infine il fascismo e insorgendo in quella lotta di resistenza e di partigiani, che ci costò immensi sacrifici, tanto più ammirevoli, quanto più oscuri per martirio e per abnegazione; sacrifizi, che gli “altri” riconobbero e lodarono finché servirono a loro. Gli “altri” dimenticano il nostro 24 maggio, ce lo vogliono seppellire sotto una vergogna che non fu della Nazione, ma dei suoi tiranni e dei loro servi, di cui la Nazione stessa ha fatto giustizia. Noi invece sentiamo con tutta la nostra più viva coscienza che quel 24 maggio non si può cancellare, che è una nostra gloria inoscurabile e che segna per noi il compimento della nostra libertà e della nostra integrità nazionale, senza le quali noi non possiamo più garantire il nostro apporto alla pacificazione dell’Europa già abbastanza tormentata.

Argomentazioni che conosciamo (la guerra fu fatta «per difendere la giustizia e la libertà di tutti e con quella di tutti la nostra») preparano un’eco inaspettata della mitologia della “vittoria mutilata” («non tutte le promesse fatteci furono mantenute») che stupisce in chi aveva positivamente salutato il Trattato di Rapallo. La rivendicazione del diritto italiano («naturale e storico») all’intera Venezia Giulia trascura di chiarire le gravissime colpe del fascismo nei confronti di quegli slavi che l’Italia si vide affidati con il trattato di pace, e che, vinta la guerra contro l’aggressione italo-tedesca, hanno ben diritto di voler dire la propria. L’ipotesi di «un’Italia incatenata che dimostrò il suo vero sentimento boicottando [la] guerra», quasi una sorta di sciopero militare scaturito dalla consapevolezza della «sconfitta come minor male», è assolutamente fantasiosa (semmai vi fu imperizia di generali, faciloneria e opportunismo di gruppi dirigenti, squallido boicottaggio a spese dei combattenti da parte di chi su quella

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guerra voleva guadagnare55), mentre suona esageratamente generosa la visione di una nazione che seppe abbattere il fascismo e volle poi insorgere nella «lotta di resistenza e di partigiani». Qui prevale insomma, nella parzialità dell’approccio e nella tendenziosità delle conclusioni, il falsetto dell’apologeta. Comprensibile finzione consolatrice di chi vuol esser cieco per amor di patria, e che, in un teso clima di battaglia, esita ad aprire gli occhi sull’arido vero, dando peraltro eco, nel piccolo mondo giuliano, alle posizioni che lo stesso De Gasperi aveva sostenuto alla Conferenza di Londra del settembre 1945. Nella scia del progetto, attuato da «L’Emancipazione», di evocare le figure degli eroi della patria Stuparich stilerà di lì a poco due medaglioni celebrativi che esaltano Gabriele Foschiatti (Un mazziniano di fede, «L’Emancipazione», 18 novembre) e Guglielmo Oberdan (Guglielmo Oberdan, «La Voce Libera», 20. XII). Seguiranno, nel corso degli anni, e su diversi giornali, altri contributi: su Benco, su Slataper, sui fratelli Garrone, su Nazario Sauro, di nuovo su Oberdan, su Giorgio Reiss Romoli. Nel ricordo di Foschiatti, che Stuparich conobbe e frequentò già nell’ambito dell’associazionismo studentesco repubblicano, prevale l’andamento elegiaco. Foschiatti, non dimentichiamolo, aveva scritto un’affettuosa lettera a Giani in occasione dell’attacco subito dallo scrittore a proposito di Ritorneranno («Non credo che le mie fedeltà giovanili vacillino anche se metto la giustizia al di sopra della nazione e la libertà come condizione di una patria verace. Che se di questo temessi, so che potrei ripuntellarle ritornando alle pagine più belle del tuo romanzo, dove proprio nel dolore risplendono le ragioni della nostra fede»56). Morto a Dachau nel novembre 1944, dopo undici mesi di detenzione, aveva mostrato che al di là dell’antifascismo silente o velleitario esistevano forme di militanza attiva per la libertà, condotte, con sprezzo del pericolo, fino alla morte. Stuparich recupera con tenerezza i momenti di vita di un amico che «fu un cavaliere dell’onestà e della giustizia» e che «aveva la generosità, la fede e la modestia dei primi garibaldini». Un amico che seppe interpretare, sotto il profilo umano e politico, l’esigenza di un legame attualizzante con le tradizioni di libertà del mazzinianesimo, fino ad accettare un «fulgido martirio» per non chinare il capo alla tirannide. La parola dello scrittore prende invece il volo quasi epicamente nell’epicedio di Oberdan, che vibra di quella stessa religione della patria che, fattasi fede assoluta anelante al martirio, aveva indirizzato l’esistenza dell’eroe: si dispiega così una enfatica intonazione di misticismo patriottico del tutto inconsueta anche nel “romantico” Stuparich. Un italiano di Trieste doveva morire, perché Trieste italiana vivesse, perché fosse tolto l’equivoco che ostacolava il fatale compiersi del Risorgimento, tolto un confine assurdo che divideva gente della stessa lingua, costumi, civiltà e che false ragioni di stato e 55 Imposta correttamente il problema Rochat, Il fascismo e la preparazione militare al conflitto mondiale, in A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi, Il regime fascista, Laterza, Roma-Bari, 1995. 56 Fogar, Gabriele Foschiatti, ecc., cit., pp. 109-110.

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politiche acquiescenti cercavano di perpetuare. L’anima di Trieste doveva esprimersi per mezzo della volontà di sacrificio di un figlio del suo popolo […]. Oberdan non fu un terrorista, un esaltato, un morboso. Oggi che un insano odio di parte o di razza può armare la mano di fanatici contro degli innocenti, oggi che il terrore può essere un freddo metodo di sopraffazione perpetrato nell’ombra o nell’omertà, le bombe trovate nella stanza di Ronchi non sono se non gli innocui strumenti d’una sfida, nella luce del sole, alla forca del martirio […]. Tutta l’azione di Oberdan è antiteatrale, ricorda la dignità, la compostezza, la sovrumana fermezza dei martiri cristiani: la sua religione era la Patria. Veramente egli agì e parlò come se fosse stato davanti soltanto al giudizio della propria coscienza. Per questo nessun panegirico, nessuna lirica commossa potrebbe esaltare la sua figura come lo esaltano e lo scolpiscono, fino al brivido che provocano la verità nuda e la potenza dello spirito, le rozze e goffe relazioni dei suoi interrogatori […]. Per più di trent’anni il nome di Oberdan non si poteva pronunciare apertamente, poi con la guerra di redenzione venne la sua ora. Oggi, egli è più vivo che mai nell’anima dei triestini. Oberdan è la nostra coscienza, ci ammonisce a non lasciarsi corrompere da nessuna teoria materialistica, da nessuno spirito mercantile, da nessuna morbidezza falsamente umanitaria. Trieste, dopo Oberdan, non può adagiarsi sotto nessuna specie di tirannia. La sua libertà è libertà italiana. Europei sì, ma italiani, come Mazzini, come tutti gli italiani del Risorgimento che fecero risorgere l’Italia per la giustizia o l’equilibrio d’Europa.

Troppa responsabilità per un uomo solo, ancorché assurto nel cielo del mito. Ma dietro questo panegirico di Oberdan non ci vuol molto a scorgere il dramma delle popolazioni istriane che si andava consumando e, insieme al totale silenzio sulle responsabilità del fascismo, la ribellione morale dello scrittore nei confronti della violenza snazionalizzante, dell’agnosticismo delle diplomazie, della durezza della ragion di stato. Ma, prima di proseguire, è necessario considerare il contesto storico: in data 3 luglio 1946, nell’ambito degli accordi preparatori del Trattato di pace (i cui lavori si sarebbero aperti il 29 luglio a Parigi), viene decisa dagli stati vincitori la creazione del Territorio libero di Trieste che, ad ovest della frontiera jugoslava (tracciata seguendo la proposta francese, la più sfavorevole all’Italia), avrebbe riunito sotto l’amministrazione dell’ONU, rappresentato da un Governatore e coadiuvato, nella sua opera di governo, da un’Assemblea elettiva, la zona A e la zona B, dai confini ridisegnati, ben più piccoli rispetto agli accordi dell’estate 1945. Il TLT avrebbe usufruito di aiuti economici italiani e americani (nel quadro del “piano Marshall”), e cercato di rilanciare tanto il ruolo commerciale del porto triestino che la cantieristica giuliana. La decisione, com’era da aspettarsi, scatena un putiferio diplomatico57 e non è priva di conseguenze psicologiche e politiche in una città che non solo si vede ridotta, in prospettiva (col minuscolo territorio costiero assegnatole, dal Timavo al Quieto), al ruolo di un “vaso di coccio” a fianco del “vaso di ferro” della Jugoslavia, ma rimane “congelata” nell’indesiderata condizione di territorio amministrato, «tra di colonia da favorire e di città ribelle da castigare»58 57 Cfr. Valdevit, Dalla crisi del dopoguerra alla stabilizzazione politica e istituzionale, cit., pp. 607 e segg., e Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 299 e segg. 58 Stuparich, La quarta crisi di Trieste, cit.

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(come del resto la zona B, sotto la ben più dura amministrazione titoista). Si accentua pertanto a Trieste, in campo comunista, la pressione per la soluzione jugoslava (fonte di notevoli tensioni, per altro, con l’amministrazione angloamericana), mentre si riaccende, nei partiti filo-italiani, la fiamma irredentista. In realtà il TLT resterà nel regno delle ipotesi geo-politiche, non essendosi mai insediato il Governatore (tanto da giustificare la cosiddetta “tesi Cammarata”, dal nome del rettore dell’Università di Trieste che sosteneva che, in termini rigorosamente giuridici, la sovranità italiana su Trieste non era mai venuta meno59), ma ciò non contribuirà a calmare le acque. Da questo fatto prenderà spunto Saba per un intervento di amaro umorismo che lo renderà bersaglio di molte critiche e perfino, da parte dell’estrema destra, di intimidazioni. Il poeta, avanzando ironicamente sul «Corriere della Sera» del 19 gennaio 1948 la sua candidatura alla carica ancora vacante di Governatore di Trieste, sottolineava infatti la persistenza, in città, di incancreniti atteggiamenti di «odio di razza», 60 reato che proponeva di punire con la fucilazione. Le antenne sensibili del perseguitato avevano colto quello che era in fondo sotto gli occhi di tutti. E ne aveva tratto una riflessione semiseria, destinata a sollevare un putiferio. La cattiva pianta dell’intolleranza etnica sembrava infatti a Trieste ancora capace di rinverdire, non ultimo per gli interventi dell’Ufficio per le zone di confine, istituito da De Gasperi nel 1946, affidato alla supervisione del sottosegretario alla Presidenza del consiglio Giulio Andreotti e a capo del quale fu nominato il prefetto Silvio Innocenti, burocrate dal non limpido passato. Un ufficio che operò, anche in forma semi-clandestina, da spregiudicato apprendista stregone, risoluto a mettere i bastoni tra le ruote al Governo militare alleato che reggeva la zona A facendo del suo meglio, così un illustre testimone, per «dare alla città una certa misura di serenità», in uscita da un’epoca di «isteronazionalismi». 61 L’opera dell’UZF, la portata dei cui interventi è stato da poco pienamente chiarita, 62 contribuiva ad avvelenare l’atmosfera cittadina, fomentando e finanziando una strategia della tensione di contenuti ultranazionalisti, con un duplice scopo politico e propagandistico (far trionfare a Trieste la “causa” italiana, e mostrare al mondo l’italianità schietta della città e la sua volontà di riunirsi alla madre patria), 59 Ne nacque un “caso”: il Governo Militare cercò di farlo decadere, mentre l’élite della Trieste italiana si schierava al suo fianco. Stuparich intervenne a suo favore il 23 aprile sulla «Voce Libera» e il 24 sul «Giornale di Trieste». La questione non è di lana caprina, come sembrerebbe a guardarla da lontano: «gli indipendentisti», spiega B. Novak, Trieste 1941-1954, cit., «avevano chiesto che il GMA applicasse lo statuto permanente anche senza un governatore» (p. 327), richiesta ovviamente irricevibile nel caso di persistente sovranità italiana. 60 Saba Tutte le prose, cit., p. 1020. 61 Così Tullio Kezich, nell’Introduzione a P. Spirito, Trieste a stelle e strisce. Vita quotidiana ai tempi del Governo militare Alleato, MGS Press, Trieste, 1994, p. 12. Volume pregevole nel complesso per la mole di materiale documentario che contiene. 62 Grazie soprattutto a Millo, La difficile intesa. Roma e Trieste nella Questione Giuliana 1945-1954, Edizioni “Italo Svevo”, Trieste, 2011.

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non peritandosi di alimentare un aggressivo neo-squadrismo, cui si dovettero le peggiori violenze del periodo di amministrazione alleata. Nell’imperversare della polemica intorno al contributo appropriato ma urticante di Saba, Stuparich prenderà le sue difese con un articolo Rassereniamo gli spiriti, su «La Voce Libera» del 20 gennaio 1948. Andrà aggiunto che lo stesso Stuparich aveva affrontato questo tema sulla «Nuova Stampa» del 5 aprile del 1947, con un intervento: Aspettando il governatore, che alterna toni scapricciati e considerazioni amare, prova smagliante di uno scrittore che non è mai stato incline all’umorismo (ma il passo leggero chiude ogni finestra sull’allarmante inasprirsi, anche in termini di ordine pubblico, del clima triestino). Se ne erano visti di governatori, racconta Stuparich con un accento scherzoso che non vale a nascondere lo scherno, in una città niente affatto aggressiva, gelosa soltanto della propria libertà […] inclinata, anche col suo sviluppo alla fine del Settecento […] a quella mentalità civile che fa dell’uomo un essere aspirante al benvivere, consapevole che se nel mondo tutti facessero pulitamente i propri affari, senza fanatismi né desideri spropositati di potenza, le cose andrebbero molto meglio (forse per questa mentalità non dissimile dalla loro, gli anglo-americani dimostrano oggi d’avere un certo interesse per Trieste).

Governatori austriaci, un governatore italiano, che pareva concludere la fase più travagliata della storia cittadina («quale migliore e più sicura protezione che quella della propria gente e d’un governo di cui si parla la stessa lingua?»), un Gauleiter, nel suo periodo più buio, quindi un fiduciario del Governo militare alleato. Si erano illusi, i triestini, sempre basando i loro calcoli sul fondamento di quella giustizia che, dato tempo al tempo e al districamento delle imbrogliate questioni internazionali, essi sarebbero tornati a lavorare pacificamente, con tutte le risorse del loro ingegno commerciale e navigatore, nell’ambito del loro Stato rinnovato, cioè della Repubblica Italiana. Ma avevano fatto i conti senza l’oste. E l’oste questa volta era sempre, cambiato nome e spostata un po’ la latitudine, la vecchia ambizione del vicino a impadronirsi di Trieste.

Urgeva trovare dunque un protettore. E così, «non richiesto, anzi deprecato» veniva a occuparsi di Trieste l’UNO (oggi diremmo ONU), «un protettore lontanissimo, quasi invisibile, instabile, venuto alla luce molto recentemente, senza mezzi, con un’autorità basata più su un prestigio teorico che su un’esperienza concreta, macchinoso, lento». E intanto i triestini aspettano, «con giustificata diffidenza la nomina di questo, non vorremmo dire, infausto governatore. Sarà svedese, sarà svizzero, sarà sudafricano, sarà spagnolo?». Nell’attesa gli uomini di pensiero vorrebbero allontanare il dubbio che all’ombra dell’innocente governatore mandato dall’UNO, nella nuova Danzica o Tangeri che sia, non abbiano a prosperare soltanto alcuni grossi avventurieri e gl’intriganti della politica internazionale; mentre i troppo numerosi uomini di partito e della piccola politica locale già sudano escogitano mestano per la brillante conquista dei seggi nell’assemblea costituente del triestinissimo Stato.

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D’altra parte la costituzione, ancorché teorica, di un Territorio libero comprendente, con Trieste, un fazzoletto di terra fra Italia e Jugoslavia, offriva una propizia occasione di intervento politico-culturale a quegli ambienti che guardavano con aperta simpatia a soluzioni indipendentiste, nell’ambizione di dare a un antico, e mai sopito orgoglio municipalistico, un concreto sbocco istituzionale. Politicamente il movimento indipendentista si articolava su alcuni partiti (tre, per la precisione, nelle elezioni amministrative del 1952) che, dopo un inizio in sordina in occasione della prova elettorale del 1949 (vinta, con poco più del 60% dei voti, dai partiti di ispirazione “nazionale”), si ritagliarono un discreto risultato in quelle del 1952. La convinzione che l’indipendenza fosse un’ottima soluzione, tanto per la prosperità della città (posta l’eterna, irrisolta esigenza di una politica economica veramente coerente con i bisogni di Trieste, terreno sul quale solo l’Austria aveva saputo dare risposte adeguate, in virtù del «legame politico con lo hinterland danubianobalcanico […] che aveva determinato la sua dimensione di città europea»63), quanto nell’ottica della pacificazione inter-etnica, veniva sostenuta da un ottimo giornale, il «Corriere di Trieste», 64 che poteva contare su un drappello di “firme” di alto livello culturale (Carolus Cergoly e Fabio Cusin, per fare due nomi). Costantemente attaccato con l’accusa di “titoismo” dai giornali “nazionali” il «Corriere di Trieste» aveva tuttavia ragioni da vendere nel sostenere che «la pacifica convivenza di italiani e slavi è il presupposto essenziale di una vita proficua ed intensa della nostra regione»,65 aggiungendo che, aspetto troppo trascurato dalla propaganda filo-italiana, era stata responsabilità del fascismo portare lo scontro etnico oltre il punto di non ritorno.66 Stuparich, evitando come sempre la polemica personale o troppo diretta, è tuttavia chiaro sull’argomento. «Quando si dice “Trieste ai triestini”», spiega in Trieste ai triestini («L’Emancipazione», 2.XI.1947): è legittimo intendere che Trieste è legata alle tradizioni gloriose del suo municipio e all’intraprendenza dei suoi cittadini, né più né meno che dire “Venezia ai veneziani”; ma non né legittimo né onesto sottintendere che Trieste è fondamentalmente staccata da ogni complesso nazionale-politico più vasto e che, appartenendo a se stessa, può darsi a chi vuole. No, nell’Europa rovinata, stremata, impoverita, nell’Europa che avrà una ben lunga, faticosa opera da compiere, prima di rimettersi a “vivere” (altro che a prosperare!), Trieste non può se non riattaccarsi saldamente alla sua continuità storica. E se fu disgraziata, nel senso che la sua recente unione politica all’Italia coincise con un periodo rovinoso della storia d’Italia, non per questo essa deve rinnegare la propria funzione o il proprio passato, che sono idealmente e concretamente italiani.

63 Ara e Magris, Trieste - Un’identità di frontiera, cit., p. 110. 64 Sul «Corriere di Trieste» esiste ora l’ottimo studio di A. Grassi, Il Corriere di Trieste tra propaganda e realtà - Un’interpretazione dell’indipendentismo nel Territorio libero, Hammerle ed., Trieste 2009. 65 Cfr. Grassi, Il Corriere di Trieste tra propaganda e realtà, cit., p. 20. 66 Ivi, pp. 20-21.

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Ma, prescindendo dalle riflessioni tragicomiche su un Governatore che, come Godot, si sarebbe atteso invano, o su come tradurre, in termini istituzionali, l’inusitata (e ampiamente indesiderata) condizione di città-stato, ciò che rappresentò un vero shock per gli ambienti politico-culturali della Trieste filo-italiana fu la cessione di Pola alla Jugoslavia, decisa dal Trattato di pace. 67 Ben prima della sua entrata in vigore, stabilita per il 15 settembre del 1947, la città già exclave della Zona A si svuotò quasi completamente degli abitanti italiani, anche di quella classe operaia che in un primo momento aveva guardato a Tito senza pregiudizi, 68 come a offrire una tragica anticipazione di un destino possibile e temuto per l’intera Venezia Giulia. Stando così le cose facile prevedere che Stuparich avrebbe dedicato a questo tremendo capitolo dell’ “esodo” una dura esternazione (dava il là il consentaneo «Emancipazione», con un titolo, in data 3 febbraio 1947, assolutamente esplicito: «Attila alle porte - Se la Jugoslavia fosse, poniamo, la Svizzera, non ci sarebbero esuli da Pola e da tutta l’Istria»). «L’esodo di Pola», dichiara infatti lo scrittore nella pubblicazione L’esodo di Pola (La storia ricorda, Udine, 1947 – il contributo è stato ristampato su «La Porta orientale», genn.-giugno 1968): è un’infamia che non si cancella col cercare di parlarne poco, un grido umano che risuonerà per secoli a vergogna di chi l’ha strappato dalle viscere di una popolazione innocente, anche se si tenta di attutirlo o di soffocarlo. Ma non si procede sulla via della civiltà, ammettendo o rassegnandosi che l’ingiustizia possa continuare a perpetuarsi, come ai tempi della barbarie. […] Si farà il rimprovero ai polesani d’aver avuto troppa coscienza nazionale e troppo vivo lo spirito d’indipendenza? L’amor della libertà e l’amor di patria sono due sentimenti basilari dell’uomo civile, e chi non li ha non sarà mai buon cittadino, né dell’Europa né del mondo; ma semplicemente uno sbandato, che non metterà radici in nessun posto e si lascerà imbrancare dal primo venuto che lo assoggetti con la sferza. […] L’esodo di Pola è un chiaro ammonimento. I profughi istriani con la chiarezza del loro esempio ci insegnano che non si può impunemente calpestare la dignità nazionale e che la fratellanza non può sorgere da fondamenta su cui si è abbattuta devastatrice la tempesta dell’odio.

È ovvio che quanto stava avvenendo in Istria avrebbe provocato negli italiani di Trieste, e in Stuparich in particolare, forme di chiusura ancora più ermetica relativamente al dialogo inter-etnico. L’impegno per l’italianità ne ricava, d’altra parte, ulteriore incentivo, assumendo ormai il significato di una lotta per la vita: è allora lo scrittore comincia a chiedersi, proponendo le sue perplessità al pubblico italiano (Il dilemma di noi triestini, «La Nuova Stampa», 17 febbraio 67 Per il caso di Pola in riferimento all’esodo cfr. Pupo, Gli esodi e la realtà politica dal dopoguerra a oggi, cit., p. 708-712. 68 L’ostilità al «manifestarsi di un nazionalismo comunista croato» da parte del proletariato polesano di lingua italiana si era chiaramente espressa nella dimostrazione filo-italiana tenuta a Pola (22.III.1946) nei giorni della visita della Commissione alleata per la definizione dei confini che aveva visto gli operai schierati in testa al corteo sventolando la bandiera rossa. Cfr. Nascita e sviluppo del Gruppo nazionale italiano nel contesto jugoslavo e nei nuovi Stati di Croazia e di Slovenia (1945-2008), in N. Milani e R. Dobran, Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quaenero del secondo Novecento, vol . I, EDIT, Fiume-Rjeka, 2010, p. 54.

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1947, articolo riprodotto su «L’Emancipazione», in due puntate, Responsabilità, 3 marzo, Il dilemma di noi Triestini, 10 marzo, la prima delle quali è riportata qui di seguito), se gli sforzi di comprensione, amicizia, fratellanza (impegno, per altro, di freschissima data) non rappresentino un segno di debolezza, un passo nella direzione sbagliata della remissività e dell’acquiescenza. Un rovello non solo coscienziale, ma dai pressanti risvolti pratici: dovrà prevalere la politica della mano tesa, o quella di un intransigente muro contro muro? La responsabilità che incombe su di noi Italiani di questo reciso lembo d’Italia, che è divenuto terra di tutti e di nessuno è tremenda. Ben preciso e fertile sarebbe stato il nostro compito, se un artificioso, assurdo problema di Trieste non fosse stato mai posto né discusso, se la Venezia Giulia fosse rimasta all’Italia a compimento del suo Risorgimento, diritto questo, moralmente e storicamente, avvallato dagli Alleati dopo l’altra guerra, nel nome di quella stessa giustizia per cui si creava una Jugoslavia, una Cecoslovacchia, una Polonia indipendenti. Il nostro compito sarebbe stato di cancellare persino il ricordo dei soprusi commessi dal fascismo a danno degli allogeni di questa regione, di dimostrare al mondo che sotto il giusto crollo dell’Italia fascista, anzi di quel fascismo che lo stesso popolo italiano aveva abbattuto, era sempre viva l’Italia madre di una civiltà universale, l’Italia del Risorgimento, della Giovine Europa. Questa sua provincia di confine avrebbe steso anima e braccia ai fratelli delle altre nazioni, non sotto una falsa maschera di democrazia, ma per uno spirito di vera libertà e di schiettamente intesa collaborazione dei popoli verso un’organica unità europea. Ora invece il nostro compito non è più così chiaro, né così prevedibilmente fertile. Un grave dilemma si presenta a noi triestini, pensierosi della nostra futura condotta. Dobbiamo ancora credere e sperare che i nostri sforzi di comprensione, di fratellanza, d’aperta intesa siano accolti e ricambiati con la stessa lealtà dell’altra parte, perché si formi qui veramente un’atmosfera nuova, perché da questi tormentati confini giunga finalmente all’Europa l’agognato messaggio che la pace è possibile tra i popoli europei? Meraviglioso assunto, per il quale meriterebbe davvero che gli Italiani di queste terre dessero tutte le loro energie migliori, attingessero dalla loro civiltà tutta la fede e il coraggio necessari a questo scopo. Ma quale affidamento ci dà l’esperienza dei quaranta giorni sotto i liberatori jugoslavi? Quale la prassi politica imperante nella Zona B? Quale l’esodo di Pola? Quale l’ostinata proclamazione imperialistica da parte del Governo ufficiale di Belgrado, di presunti diritti su questa terra che non gli appartennero mai? Non sarebbe la nostra, dati questi procedimenti, invece che una generosa azione lungimirante, una illusione fatale, una debolezza che ci porterebbe fino a scavare da noi stessi la fossa in cui gli altri ci seppellirebbero con derisione? Non dobbiamo dimenticare che le nostre condizioni sono ben peggiori in cui eravamo sotto l’Austria, che ci hanno strappato l’Istria da cui attingevamo l’ossigeno della nostra italianità, che la pressione espansionistica degli Slavi è diventata imponente e ci si è serrata addosso. E allora ecco presentarcisi l’altro corno del dilemma. Dobbiamo noi difendere con intransigenza, senza compromessi né fatali debolezze, il patrimonio della nostra civiltà italiana, difendere la nostra stessa esistenza nazionale e con questa l’esistenza dell’Italia minacciata in un suo ganglio vitale, senza ingenui umanitarismi, consci del pericolo che ci sovrasta, dei tempi che stringono, perché quello che è avvenuta della Dalmazia in lento procedere di secoli, può avvenire dell’Istria in pochi anni, forse in pochi mesi, addirittura in pochi giorni? E non rinunceremmo allora alle aspirazioni più alte (a cui da tanto tempo il nostro animo tendeva e che alla sconfitta del nazismo ci parvero tanto vicine ad essere realizzate) d’una distensione degli esasperati nazionalismi, d’un equilibrio e d’un’armonia tra i popoli? A uscire da questo tragico dilemma non può aiutarci se non la speranza d’una giusta revisione del trattato di pace, anche per

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quel che riguarda Trieste; come a darci il coraggio per non smarrirci nella tremenda situazione in cui ci troviamo, non può esserci altro se non la sicurezza che la Patria non ci dimentichi e non ci abbandoni (corsivi nel testo, NdA).

Ma sull’ “altro tavolo”, quello che potremmo chiamare, con tutti i suoi limiti di metodologia, il tavolo della storia, Stuparich va intanto elaborando un intervento particolarmente significativo: Con Garibaldi oggi («La Rassegna d’Italia», Milano, II, n° 5, maggio 1947). Pagine, lo si è già accennato, successivamente confluite nella Prefazione, datata giugno 1946, dell’antologia Scrittori garibaldini pubblicata presso Garzanti nel 1948. È importante citare: esiste infatti uno stretto rapporto dialettico fra le riflessioni sull’attualità e il “misticismo” patriottico che Stuparich sta sviluppando. Vasi comunicanti che si alimentano a vicenda. Mi rivedo in quella mattina del 1 giugno 1944, quando per la prima volta a casaccio Trieste fu bombardata dal cielo. Stavo leggendo Le impressioni d’un volontario all’esercito dei Vosgi di Achille Bizzoni […] quasi immediatamente caddero vicine le prime bombe […]. La bomba era scoppiata sulla strada e aveva fatto crollare la casa dirimpetto alla nostra. Dopo, tra le cose potute ricuperare in quel disastro, ci furono anche i testi garibaldini e le mie carte […]. Non ricorderei questo fatto personale, se non fosse per far sentire quale compagnia mi facessero negli anni della guerra sciagurata questi scrittori garibaldini, e per rendere loro testimonianza patita di quell’attualità ch’io credo essi abbiano conservata per tutti coloro che, avendo ancor vivo nel cuore il sentimento di Patria, cercano conforto, in questi tempi tanto disgraziati per l’Italia, nella storia del suo Risorgimento […]. Oggi […] siamo veramente maturi per capire i tempi e l’anima dei nostri Garibaldini. Tra l’ “orazione per la sagra dei Mille”, tenuta allo Scoglio di Quarto il 5 maggio 1915 da Gabriele D’Annunzio, con la quale si chiude l’era delle amplificazioni letterarie e delle visioni profetiche sulle gesta di Garibaldi, e il discorso tenuto a Palazzo Venezia il 24 giugno 1943 da Mussolini, che segna il vergognoso crollo, il collasso tragico-grottesco delle teorie imperialistiche e delle gonfiature d’una falsa romanità, gli Italiani hanno potuto, in uno stringente e fatale giro di prove dolorose, toccare il fondo della propria natura. Ora sappiamo che con tutte le nostre qualità, buone o cattive che siano, ma qualità essenziali, dateci dal destino di esser nati italiani, e che dobbiamo riconoscere in noi per non perdere la misura di noi stessi, noi siamo capaci di progredire, di far la nostra storia, anche di compiere dei miracoli, se vogliamo, come quello dei Garibaldini in Sicilia nel 1860, o quello delle classi giovani sul Piave nel 1918, o quello recente dei partigiani. […] La bellezza dei fatti garibaldini, che sono il fiore del nostro Risorgimento, consiste proprio nella felice, spontanea fusione delle nostre virtù e dei nostri difetti, fusione avvenuta nel vero calore d’una fede, d’una idea, d’una onestà d’intenti, in cui bruciavano tutte le scorie e la lega risultava compatta, salda; è stata la lega della nostra unità di nazione. […] Era anacronistico e pericoloso continuare a portare la camicia rossa, quando, progrediti i tempi, lo spirito garibaldino poteva restar vivo soltanto negli animi, come prontezza generosa a sacrificarsi per un’idea, non più nei vecchi gesti e nelle vecchie forme; ma fu vera perversione credere di poter ammodernare il garibaldinismo e piegarlo a fini opposti al suo spirito, trasformando la fiammeggiante camicia rossa nella ferale camicia nera. Di quell’anacronismo ne sapemmo qualcosa noi volontari della guerra del ‘15, che ci facemmo cucire la camicia rossa dalle nostre ragazze (ultimi innocui pavoneggiamenti d’un romanticismo che si commoveva ancora ai ricordi); ma, arrivati al fronte e disciplinati nei reggimenti regolari, prima la indossammo nascosta sotto la giubba grigioverde e poi ben presto la chiudemmo, un poco vergognosi, nelle nostre cassette militari; infine, sorridendo

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della nostra ingenuità, dopo la prova dell’esperienza, la dimenticammo. […] Ma quando s’andava con le pinze a tagliare il reticolato sotto la vigilanza delle sentinelle nemiche, quando un gruppo di volontari giuliani tentò di conquistare in un’epica vicenda sanguinosa il fortino del Podgora, quando lo slancio temerario che ci faceva uscire dalle trincee sotto la gragnola delle mitragliatrici e della fucileria nemica, non era fermato se non dalla morte o dalle ferite, allora riviveva anche di più che il gesto garibaldino, riviveva lo stesso animo, la stessa volontà di sacrificio dei combattenti di Calatafimi e di Bezzecca. Ed oggi io sento che la mano che fra un’azione e l’altra, nelle brevi pause, annotava in fretta sul mio taccuino l’esperienza di un volontario nella guerra del ‘15, s’ispirava istintivamente alla tradizione garibaldina. Penso invece con pietà al conflitto interiore in cui dovettero straziarsi i giovani migliori in Africa, in Spagna, in Grecia, in Russia, e forse non furono pochissimi quelli che, ingannati, si trovarono nell’ora discriminante il cuore vuoto sotto la camicia nera e davanti agli occhi veggenti la maschera contraffatta d’un falso condottiero, che aveva usurpato nei loro animi generosi il posto che l’Eroe onesto e buono aveva tenuto negli animi dei loro antenati in camicia rossa. […] Noi Italiani siamo per natura o per inclinazione indisciplinati, ogni freno, ogni schema ci par diminuire un poco la nostra libertà; un difetto, anzi un grosso difetto […]. Il contrappeso alla nostra disgraziata indisciplina l’abbiamo in noi, pur che sappiamo trovarlo, e consiste nella prontezza ad accettare una disciplina che chiamerei dell’estrema salute, una disciplina spontanea, persuasiva, per cui ogni sacrificio è fatto con animo sereno. Che cosa fu Garibaldi se non il compositore più felice, più armoniosamente semplice e illuminato, dei dissidi e dei contrasti della natura italiana? […]. Avveniva al tempo dei Garibaldini l’opposto di quanto noi abbiamo visto accadere al tempo dei fascisti, che il male e il marcio prosperavano e intaccavano ogni cosa, appunto perché nascosti e mascherati, fecondati dall’omertà, covati da un’atmosfera piena di sospetti che al posto dell’amore favoriva l’odio. Ed anche i migliori finivano col corrompersi […]. Individualisti, scettici, dialettici, faziosi, settari gl’Italiani per inclinazioni e per contrasti di tradizioni secolari, si lasciarono, in quella primavera del Risorgimento, veramente ispirare dall’idea di patria, che può corrompersi, esser tradita, falsata nella sua spirituale essenza, ma che non muore mai e che ancor oggi, se intesa nella sua freschezza di vena ristoratrice, può riunire e risollevare gl’Italiani vilipesi, depressi, sconvolti dopo le tragiche vicende di quest’ultimo quarto di secolo.69

Citazione lunghissima ma forse non superflua; dove si legge solo in minima parte (quella, diremo, più legata al nostro tema e all’attualità del momento) l’estesa Prefazione di Giani Stuparich ai diari garibaldini di Costa, Bandi, Checchi, Adamoli, Bizzoni, Barrili. Stelle minori di una tradizione da sempre riassunta nel nome e nell’opera di Cesare Abba. Pagine comunque importanti, per ciò che rivendicano e per ciò che sognano dell’Italia di domani, in luce fortemente idealizzata come spesso succede quando l’analisi storica è retta da un etico dover essere; importanza che non scema anche a considerare superate, alla luce dell’oggi, certe sfumature dell’interpretazione di Stuparich, che si muove su un terreno filologico e critico-letterario dove, a ben vedere, poteva trovare supporto solamente in certe riflessioni di Croce (nel volume VI della Letteratura della Nuova Italia) e di Russo (che già nel 1925 aveva curato, con la dedizione di un sacerdote della causa risorgimentale, un’edizione di Da Quarto 69 Stuparich, Prefazione a Scrittori Garibaldini, Garzanti, Milano 1948, pp. IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV, XXIII, XXV, passim.

Voce della «città esclusa»

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al Volturno, affrontando poi spesso di nuovo, ma con ben differente angolatura ideologica, il tema garibaldino70). Per tornare alla visione di Stuparich è evidente quanto sia netto il discrimine che egli traccia tra il momento eroico del Risorgimento che grazie a uomini come Garibaldi seppe trarre dagli italiani, «scettici [e] faziosi» ciò che di meglio essi possedevano nel loro carattere di popolo (e sono osservazioni brillanti che la nostra esperienza di vita nazionale conferma in pieno), e l’età di falsi ardori guerreschi e di tragiche catastrofi militari e morali da cui il Paese era appena uscito, in quel 1946, anno della prima stesura delle note “garibaldine”: sotto l’aquila imperiale di una Roma adulterata l’eroismo era divenuto falsità e parodia, e molti giovani – così Stuparich – avevano dovuto soffrire lo strazio di un conflitto interiore nato dalla consapevolezza di combattere per una causa sbagliata, servendo una patria protesa verso false mete. Vigorosa e ricca di spunti l’implicita rivendicazione del valore di “quarta guerra di indipendenza” del grande conflitto mondiale così come venne vissuto dai giovani che vi si dettero volontari, pronti alla morte con vera anima garibaldina: un tema, lo sappiamo, abituale nella penna di Stuparich. Andava da sé che il volontarismo giuliano della Grande Guerra dovesse differenziarsi dal garibaldinismo, nel senso che gli irredenti votatisi al tricolore vestirono il grigio-verde per servire la patria nella disciplina e nel prestigio di un esercito regolare, senza concessioni all’improvvisazione e senza alcuna velleità sovversiva: «nell’ordine dell’esercito che opera, non più senza scopo né numero, ma ognuno col suo compito fissato», 71 come scrive Giani nel suo splendido diario di guerra, posto anch’esso, in queste pagine, in prospettiva garibaldina («sul mio taccuino l’esperienza di volontario nella guerra del ‘15, s’ispirava istintivamente alla tradizione garibaldina»); e purtuttavia, come aveva scritto Croce con un rapido accenno, conquistandosi definitivamente, credo, l’intelletto ed il cuore di Stuparich, furono quei volontari «fiori gentilissimi del Risorgimento italiano, educati […] nell’amore della libertà e della giustizia e dell’umanità». 72 Non avanguardia critica del Paese dunque, ma partecipi in pieno, nell’anima e nelle forme del loro impegno, di quell’Italia cantata dall’ultimo Carducci, e che si voleva condurre, sulle ali della propria passione, fino dentro le strade di Trieste. E sicuramente non si sbaglierà a sentire una sommessa intonazione auto-critica in quell’accenno alla fretta con cui venne dimenticata la giubba color rosso che le ragazze triestine – qui entriamo nel mito e nella poesia ma, non dimentichiamolo, siamo in casa di uno scrittore – cucirono per i fidanzati che avevano scelto l’Italia. Abdicazione di valori o meglio, allentamento dell’autocontrollo etico e politico (raggiunto l’obiettivo agognato della “più grande Italia”), che avrebbe reso incapace chi usciva dalla guerra, ancorché nutrito del risorgimentalismo mazziniano, di farsi guida per un mondo che andava intanto 70 Cfr. Papadia, Di padre in figlio, cit., pp. 141-142. 71 Stuparich., Guerra del ’15, cit., p. 22. 72 Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), Laterza, Bari, 1965, p. 305.

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trovando la sua nuova ragion d’essere nella violenza sopraffatoria: «e il torbido intanto montava, per via della nostra perplessità», 73 come aveva schiettamente confessato Giani in quel dialogo con il fratello che vede la luce a ridosso del colpo di stato mussoliniano. Solo marginale, ma comunque fortemente rivelatore, l’accenno ai partigiani, che rilanciarono la tradizione garibaldina, una delle poche solide basi che restavano all’Italia moderna per riscattare, in un ritrovato spirito risorgimentale, la vergogna dei recenti trascorsi. È profondamente vero ciò che ha scritto, più o meno in quello stesso torno d’anni e con uno stato d’animo non dissimile, un grande studioso della nostra letteratura: «mai come all’indomani di una disfatta militare», ha spiegato Carlo Dionisotti, «e nel decorso di una crisi politica che hanno insidiato l’unità e l’esistenza stessa, come nazione e come stato, dell’Italia, si è sentito forte il bisogno di vedere con chiarezza in che modo e fino a che punto l’Italia sia stata a tutt’oggi fatta». 74 È la stessa preoccupazione che anima, credo, la riflessione di Stuparich, ramificandola in due direzioni. Da un lato verso il passato, dove lo scrittore riconosce nell’ampio spettro sociale dei Mille («erano nobili e popolani, letterati, artisti, studenti, operai della città e lavoratori del contado»75) lo specchio di un Risorgimento interclassista, di un Risorgimento di popolo, cui attribuisce una dimensione di eroismo, di compattezza di opinioni e di coerenza d’azione che già Mazzini (per non dire della storiografia contemporanea) aveva saputo vedere con occhio più sobrio e smagato. E mi riferisco in primis a quel “testamento politico-morale”, la lettera a Giuseppe Ferretti del luglio 1871, ben nota in tutti gli ambienti repubblicani (Nino Valeri l’aveva scelta per aprire il suo libro del 1945), dove il grande patriota, agitando il sogno di un’Italia «sorta per sacrificio e virtù del suo popolo dal sepolcro […] forte della coscienza delle battaglie combattute e di vittorie conquistate col proprio sangue», 76 si dichiarava vergognoso di un’unità che era stata fatta, a suo dire, fra compromessi, patteggiamenti, arbitri dinastici e battaglie perdute per incapacità dei generali. Dall’altro, e con proiezione validamente progettuale, verso il futuro: resosi ben conto della voragine in cui era precipitata l’Italia, tanto profonda e buia da inquinare la Nazione e togliere legittimità allo Stato (perché il fascismo aveva rappresentato, nella sua brutale usurpazione, una «dittatura tirannica», 77 ancorché capace di guadagnarsi consenso popolare, e non, come vuole uno storico dei nostri giorni, il «legittimo governo dell’Italia del tempo»78) Stuparich capisce perfettamente 73 Id, Colloqui con mio fratello, cit., p. 91. 74 Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967, p. 24. 75 Stuparich, Prefazione a Scrittori Garibaldini cit., p. XIX 76 Mazzini, A Giuseppe Ferretti, Livorno, 25.VII.1871, ora in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925, Le Monnier, Firenze, 1945, p. 4. 77 L. Basso, Il Principe senza scettro (1958), pref. di S. Rodotà, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 100. 78 E. Galli della Loggia, La morte della patria (1996), Laterza, Bari, 2003, p. 34. Il titolo proviene da

Verso la libertà

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che la ricostruzione etico-politica non può che partire dalla Resistenza. Ne deriva, lungo una linea di pensiero tanto politica che storica, il riconoscimento dell’epopea partigiana come patente di legittimità e mito di fondazione, l’unico allora possibile per l’Italia repubblicana, proprio perché portatore, in senso tanto includente quanto escludente, di una premessa etico-politica su cui Stuparich non è disposto a transigere. Comunque, su questo tema lo scrittore non insisterà mai troppo, rendendosi forse anche conto della freddezza dell’opinione pubblica giuliana nei confronti della Resistenza né, ma è superfluo aggiungerlo, dimostrerà alcuna simpatie per forme di «Resistenza rivoluzionaria», 79 contrarie alla sua ideologia e al suo carattere (non dimentichiamoci che lo era, in fondo, il titoismo). Ma oltre alla produzione narrativa, all’impegno giornalistico e saggistico su temi civili e patriottici non cessa nemmeno l’attività dell’organizzatore di cultura. Proprio al 1947 risale il progetto per una rivista, «Porto», nella quale la città tutta (l’italiana, va da sé) avrebbe potuto e dovuto riconoscersi, con il compito di: coordinare e valorizzare quanto nel passato è stato raggiunto e nel presente s’affatica a raggiungere di particolare valore per una visione rinnovata e attuale della convivenza europea, e altresì intende chiamare intorno a sé gl’intelletti più cospicui d’Italia e d’Europa, che nel travaglio dell’arte e del pensiero mirano a una più intima e reciproca comprensione umana. Per la sua posizione drammatica fra oriente e occidente, fra civiltà mediterranea e nordica, per il confluire in sé di vari sangui e di mentalità diverse, Trieste, costretta a rivolgere oggi, nell’epoca moderna, la sua posizione geografica a posizione storica, è in procinto di darsi una fisionomia spirituale che, come poche altre città, potrebbe anticipare e esemplare i tratti d’un’Europa promessa.80

La richiesta di finanziamento, rivolta al Governo italiano, fu, per ragioni mai chiarite, respinta. Ma Stuparich, lo vedremo, avrebbe presto trovato un altro veicolo per amplificare e diffondere il proprio messaggio.

De Profundis, libro di testimonianza di Salvatore Satta, già docente a Padova di Storia e dottrina del fascismo, nitido nella forma quanto ambiguo nei contenuti etico-politici. 79 Su questo mito, destinato del resto ad affermarsi molto più tardi, vedi S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e resistenza, Einaudi, Torino, 2014, per es. p. 7. 80 Stuparich, Due inediti (1947), in A. Pittoni, L’anima di Trieste, Vallecchi, Firenze, 1969, pp. 165-6.

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Capitolo VIII Stuparich voce della «città esclusa»*

Il 1948 che stabilizzerà la situazione europea nel segno della contrapposizione dei blocchi è, più per l’Italia che per Trieste, un anno fondamentale. Si è ormai spento il “vento del nord” lasciando invece soffiare la brezzolina della restaurazione; «restaurazione clandestina», in un primo momento, per adottare una immaginosa metafora di Calamandrei,1 ma presto amplificata da un impetuoso e irresistibile “vento del sud” come allora si usava dire. 2 In un turbine di accuse fra comunisti e democristiani «l’eredità unitaria della Resistenza sembra definitivamente pregiudicata», come ha suggerito Gian Enrico Rusconi. 3 La plateale sanzione politica di una situazione così tesa si avrà nelle elezioni d’aprile, con la vittoria schiacciante della Democrazia cristiana che raggiunge quasi il 50% dei voti4 e ottiene la maggioranza assoluta in Parlamento. Dal I * La «città esclusa» è Trieste, come viene raccontata da Stuparich nell’articolo La quarta crisi di Trieste, pubblicato sul settimanale torinese «Tutti», il 16 maggio 1954. 1 P. Calamandrei, Restaurazione clandestina, «il Ponte», anno III, nov-dic,1947. 2 Vedi per es. A. Galante Garrone, Il mite giacobino, Donzelli, Roma, 1994, p. 21. 3 G. E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, il Mulino, Bologna, 1995, p. 164. 4 Interessante, visto che parliamo di triestini, accennare alla reazione rabbiosa di Umberto Saba. Al cui proposito resta emblematica la poesia di Sereni, «Porca – Vociferando – porca /[…]/

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gennaio entra in vigore la Costituzione: una costituzione “resistenziale” per un Paese che vira a destra e dove, con spirito conservativo, «i soli contraenti del patto memoriale»5 sono ormai i partiti, che lo interpretano, nel blocco di potere formatosi intorno al partito che ha stravinto, in senso anti-resistenziale. Si radicalizza la scena politico-sindacale tanto da sfiorare quasi una nuova guerra civile in conseguenza dell’attentato a Togliatti. Ma nel 1948 cadono insieme l’anniversario dei cent’anni della Prima guerra di indipendenza e il trentennale della fine della Grande guerra, e sono queste scadenze che, fatalmente potremmo dire, stimolano l’estro di Stuparich. A Trieste e nel Paese egli ormai godeva di un altissimo prestigio che gli consentiva, perseguendo la duplice vocazione culturale e civile, di prendere la parola come ospite di riguardo su testate nazionali e giuliane, restando per così dire nell’anticamera della politica in un momento in cui si affermava sempre più, nei diversi schieramenti, la figura dell’intellettuale organico o, per lo meno, di dichiarata appartenenza; rara posizione di autonomia che esaltava maggiormente la sua autorevolezza, ben oltre gli steccati delle ideologie. L’ampiezza d’ascolto è facilitata anche dal fatto che, sia per ragione ideologiche che generazionali, Stuparich, con gli occhi fissi al suo microcosmo adriatico (in un momento in cui Trieste è agli onori della cronaca e al centro delle malinconie di un Paese che va riprendendosi dalla grande umiliazione della guerra: «vola, colomba bianca vola») evita di affrontare i temi più epocalmente rilevanti (e non per quieto vivere, ma seguendo interessi e competenze): i modelli di sviluppo, la politica delle alleanze, la decolonizzazione, il comunismo e la democrazia, la capacità della borghesia di guidare la rinascita dell’Italia, ecc. (basterebbe un rapido confronto con la saggistica degli anni Cinquanta, mettiamo, di un Moravia, per cogliere la differenza6). È lui dunque che nel “ridotto” del teatro Verdi è chiamato a pronunciare il discorso ufficiale d’apertura delle celebrazioni commemorative del 1848 (verrà pubblicato qualche giorno dopo dall’«Idea Liberale» di Trieste, con una nota che chiarisce che ciò non significava l’adesione dell’autore all’«indirizzo politico del giornale»). E che, a fianco di Michele Miani, presidente del Comune di Trieste su nomina del GMA, declama il 3 novembre sul colle di san Giusto, nel ruolo, ampiamente meritato, di portavoce “ufficiale” della città, il discorso commemorativo per il trentesimo anniversario della “redenzione” (verrà anch’esso pubblicato, il 6 novembre, dall’«Idea Liberale»). Ma il 1948 è un anno che si presenta difficile anche sul crinale della politica Lo diceva all’Italia […]», scritta dopo il 18 aprile, che registra l’indignazione del poeta dettata non tanto, così Sereni nel 1962, da un acceso filo-comunismo quanto dalla constatazione che si era esaurito il “vento del nord”, con il ritorno alle vecchie pratiche del compromesso e dell’accomodamento (cfr. Sereni, Saba, in «Paragone - letteratura», 1960, n° 11). 5 G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa (2005), 2015, Milano, Feltrinelli, p. 43. 6 Cfr. R. Paris, a cura di, Moravia, Impegno contro voglia. Saggi, articoli, interventi: trentacinque anni di scritti politici, Bompiani, Milano, 1980.

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internazionale, ed è di queste crisi che si scontano gli effetti più diretti nella città giuliana, diventata, con la ridefinizione confinaria, l’ultima Thule del mondo capitalistico e democratico. Mentre continuava l’esodo dall’Istria, con qualche rallentamento provocato dalle autorità jugoslave, avveniva, in giugno, il fatto clamoroso della rottura fra Tito e Stalin, che, nel nuovo clima che andava creandosi, avrebbe potuto avere effetti negativi, si pensava, sulle rivendicazioni italiane. Aprendo degli spiragli per una nuova collocazione della Jugoslavia in politica estera, la svolta spingeva gli americani a una maggior disponibilità nei confronti delle richieste di Tito: per le potenze occidentali «la Jugoslavia era divenuta un interlocutore degno di ogni riguardo, sotto certi aspetti anche più interessante della stessa Italia». 7 Da parte sua il dittatore jugoslavo, ormai ai ferri corti con il grande fratello sovietico, «guarda con perplessità a un territorio libero in cui la maggioranza dei comunisti sarebbe stata di osservanza stalinista». 8 Una situazione insomma di particolare e allarmante complessità. Apriva però uno spiraglio alle speranze italiane la nota tripartita con la quale, con il secondo fine di influenzare le elezioni di aprile, USA, Inghiltera e Francia avevano espresso la volontà di restituire all’Italia l’intero TLT, compresa la zona B già dal 1945 in saldo possesso jugoslavo. Chiarisce lo stato d’animo di Stuparich tanto la Licenza a Trieste nei miei ricordi, l’autobiografia che vedeva la luce proprio allora («infelice generazione la nostra, che vedemmo prima salire la realtà verso il sogno più bello e poi ripiombare giù, più giù d’ogni temuto incubo»9) che la disponibilità a presentare, firmandone la prefazione, il volume collettivo Istria e Quarnaro italiani, edito dal CLN dell’Istria e curato da Baccio Ziliotto e Mario Mirabella Roberti. Miscellanea veramente “battagliera”, se questo aggettivo ha un senso: Biagio Marin vi commentava l’esodo chiarendo che «avremmo forse potuto salvare la vita rinnegando l’anima nostra e riducendoci schiavi di coloro che per secoli e secoli erano stati gli schiavi per nome e definizione e funzione». 10 Camillo De Franceschi chiudeva il suo contributo scagliandosi contro «l’iniqua pace del 1947» che aveva provocato «il rincrudimento di dissidi e conflitti fra due popoli confinanti in mal segnati termini, d’impossibile stabilità». 11 Antonio Fonda Savio pronosticava una rivincita dell’italianità «che tornerà a splendere domani, quando il monumento di Sauro sarà riedificato sulla riva di Capodistria, e le sue ossa, avvolte nel

7 Negrelli, Introduzione a Schiffrer, Dopo il ritorno dell’Italia a Trieste (1954-1969). Scritti e interventi polemici presentati da G. Negrelli, Del Bianco, Udine, 1992, pp. 5-6. 8 Ara e Magris, Trieste - Un’identità di frontiera, cit., p. 158. 9 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 291. 10 Baccio Ziliotto e M. Mirabella Roberti, a cura di, Istria e Quarnaro italiani, Editoriale San Giusto, Trieste-Perugia, 1948, p. 109. 11 Ivi, p. 52.

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tricolore, torneranno, ribenedette, nell’orbata fossa di Pola». 12 Pacato per carattere e perfettamente consapevole dell’esigenza etica e dell’opportunità politica della moderazione Stuparich si sente in dovere di attenuare: Tanti sono i modi di esprimere l’amore alla propria terra, e quando questo amore è contrastato e vilipeso, molte reazioni del sentimento sono scusabili. La terra in cui siamo nati è come la nostra anima concreta e ogni offesa, ogni ingiustizia recata ad essa è un’offesa profonda e personale a noi stessi. Ma c’è modo di testimoniare con serena coscienza l’amore alla propria terra ed è quando, al di fuori e al di sopra d’ogni passione, noi ci sprofondiamo nella conoscenza della sua storia, studiamo la sua fisonomia e il suo carattere. E infine, sublimando questo nostro amore, elevandolo sullo stesso piano d’amore per la verità, tentiamo con le nostre migliori energie spirituali di farne un quadro solido, vivo, completo […]. Tutto questo ha promosso con lodevole iniziativa e con nobile intenzione il C.L.N. istriano. I compilatori, affidando a studiosi competenti la trattazione delle singole parti, sono riusciti a comporre un quadro dell’Istria veramente organico ed efficace. L’Istria nostra balza da quelle pagine nella realtà della sua storia, della sua natura, della sua vita. Alla propaganda fittizia e falsificatrice degli avversari noi possiamo rispondere con la serena concretezza dei nostri studi e delle nostre memorie.

Sarebbe azzardato sostenere che, effettivamente, in tutte le pagine di Istria e Quarnaro italiani sia stato assolto l’impegno di un amor di patria che sposa ed esalta il dovere della verità, «al di fuori e al di sopra d’ogni passione». È certo invece che, sul piano intenzionale, questo è stato l’ideale del prefatore. Ma il 1948 è, come si diceva, l’anno di due grandi commemorazioni pubbliche di Giani Stuparich: eventi nei quali egli appare consacrato al ruolo di “nocchiero spirituale” della città, per adottare la formula con cui aveva celebrato Silvio Benco nel 1947 al Circolo della Cultura e delle Arti (il discorso si legge su «La Voce Libera» del 21 luglio 1947), colui al cui carisma si fa appello per risollevare gli spiriti abbattuti e indicare nuove mete da raggiungere. Non stupisce che lo scrittore metta l’elegante fluidità del suo stile al servizio della causa della patria, e di una città che si trovava da tempo «in uno stato di mobilitazione nazionale permanente», toccando però in questa occasione, così Cattaruzza, «corde schmittiane», per i toni accesi che si concede, smentendo per una volta la sua immagine di uomo «mite e democratico».13 Negli ampi spazi neoclassici del ridotto del teatro Verdi tocca dunque a lui aprire, il 4 aprile, le celebrazioni del 1848, in sintonia con gli amici del «Ponte» che dedicavano al Risorgimento il primo fascicolo di quell’anno (con contributi di Salvatorelli, V. Branca, R. Ciampini). «Il ’48 fu un’esplosione», 14 esordisce Stuparich, il cui primo obiettivo è di mettere in rilievo il percorso di progressiva maturazione dell’idea della libertà italiana, albeggiata con Alfieri e incarnatasi

12 Ivi, p. 56. 13 Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 309. 14 Stuparich, Lo spirito del Risorgimento (1948), ora in Frosini, La famiglia Stuparich, cit., p. 161. Nel prosieguo con sigla SP nel testo.

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vigorosamente per la prima volta in Foscolo. Lo ispira, nei contenuti, il lontano astro di De Sanctis (lo studioso prediletto da Carlo Stuparich, il fratello), e le stelle più vicine di Walter Maturi (il futuro autore delle Interpretazioni del Risorgimento) che aveva firmato la sostanziosa voce Risorgimento sull’Enciclopedia italiana e di Nino Valeri. L’idea di libertà, continua Stuparich, diventerà però pienamente consapevole e attiva, pensiero e azione, nei Grandi del Risorgimento: Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, Cavour (si noti che l’oratore, da coerente repubblicano, espunge Vittorio Emanuele II dal libro d’oro dei “padri della patria”). Nel momento attuale, lontani dall’infatuazione nazionalistica quanto dalla «amarezza megalomaniaca» (SP, 163) che spinge l’italiano ad autodenigrarsi, è giunto per noi, assicura l’oratore, il momento di guardare serenamente al Risorgimento: una stagione in cui gli italiani seppero esprimere, consapevoli dei loro difetti, le proprie migliori virtù, realizzando un «movimento di popolo» (SP, 165) che rappresentò un collettivo «risveglio e movimento morale» (SP, 166): Non si accentuerà mai abbastanza che il Risorgimento fu sopra tutto un movimento e un risveglio morale. I suoi intenti furono nazionali sì, ma il suo spirito, la sua anima furono etici e religiosi […]. Eticità: antitesi di mania di potenza, che è immoralità e guida alla catastrofe […] volontà del bene, cioè d’un bene universale che ci comprenda tutti e armonizzi i nostri egoismi. (SP, 166, 167)

«Positività e grandezza del nostro Risorgimento» (SP, 167) fu infatti d’aver suscitato la fede nel «concetto di libertà […] che fu il regolatore non solo della storia d’Italia ma di tutta la storia moderna europea» (SP, 167). E, con essa, la «religione dell’umanità» (SP, 169), «fonte di quella coscienza civile che purifica anche la politica, la quale non può limitarsi ad essere semplicemente cozzo di interessi, se non voglia immiserirsi nel più gretto materialismo» (SP, 169). Ispirazioni ideali che si tradussero in concreta azione politica nella creazione e nel consolidamento dell’Italia unita che ebbe il suo ultimo martire in Oberdan, la sua ultima guerra d’indipendenza nella Grande guerra, i suoi «ultimi garibaldini [nei] volontari giuliani» (SP, 173). A contrastare questa volontà di bene morale e pratico, l’«Antieuropa» di Bismarck, scatenamento di volontà di potenza, «teoria della forza contro la teoria del diritto, della Nazione eletta […] contro la mazziniana associazione delle patrie, contro l’uguaglianza dei popoli» (SP, 172). Antieuropa capace tuttavia di inoculare anche negli italiani «il germe d’una malattia e d’una possibile rovina: la teoria nietzschiana del superuomo, la teoria della forza e delle baionette, del governo assoluto e poliziesco […]. Di qui il nazionalismo, l’estetismo della violenza, l’imperialismo, il fascismo» (SP, 174). Dopo il Risorgimento, infatti, in Italia, c’è stata una frattura e fu il fascismo. Ed è nostro dovere e nostro compito di colmare tale fattura, di ricongiungerci alla nostra storia e d’avanzare nello spirito del Risorgimento. Il fascismo fu Antirisorgimento […]. [Ma] questo popolo […] dopo aver prodotto in un momento di traviamento e di stanchezza il fascismo, ha saputo ritrarsi dall’abisso, scontare gli errori commessi e ricongiungersi alle più vere tradizioni della sua storia. (SP, 172, 164).

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Il lascito più alto e più attuale del Risorgimento è, ad ogni modo, il pensiero mazziniano, ed è a quello che bisogna ritornare per alimentare il desiderio di riscatto di una nazione prostrata e umiliata dalla guerra: L’apostolo illuminato e instancabile [del Risorgimento] fu il Mazzini. “Libertà vera – proclama Mazzini – non è semplice dato materiale, ma conquista morale, risultato della coscienza della propria libertà e dei propri diritti. Libertà e patria in termini inscindibili, ma come la libertà è base necessaria alla patria, così pure è base necessaria all’associazione delle patrie, all’intesa fra i popoli”. E nella magnifica lettera a Pietro Giannone del dicembre 1832, lettera che andrebbe meditata dagli italiani in molte occasioni, egli scrive “Ben vi dico fin d’ora che da me potrete sempre temere errori, e vizio di poco intelletto, servilità non mai; e servilità infamissima io ritengo quella che aspetta la libertà dalle armi straniere. Amo la libertà, l’amo fors’anche più che non amo la patria; ma la patria io l’amo prima della libertà” (forse nessuno ha espresso meglio questo sentimento complesso, che in certi momenti – e l’abbiamo inteso noi – può diventare addirittura drammatico, di patria e di libertà, di patria libera). E continua “Poi, credo anche teoricamente che l’albero della libertà non frutti se non impiantato da mani cittadine e fecondato da sangue cittadino, e tutelato da spade cittadine. Però anche intravvedendo nel futuro un’armonia nell’edificio europeo, conseguenza per me irrevocabile della libertà, alla quale tutti i popoli hanno diritto, e che un dì o l’altro sarà alla base alle istituzioni di tutti i popoli, m’udrete sempre gridare, fino al giorno della vittoria, che non abbiamo a ripor fede altro che in noi…”. “Senza libertà non esistono interessi che spingono i popoli al sacrificio” (anche questa verità; quanto avrebbero dovuto meditarla i tiranni dei nostri giorni!); “A nessuno è dato di migliorare se non la vita; e la vita dei popoli è la libertà. Date a un popolo libero le idee di associazione, d’emancipazione del lavoro, d’un giusto riparto della produzione; frutteranno eguaglianza, incremento di pace interna e d’amore; le stesse idee cacciate a popoli schiavi, frutteranno odio, vendetta, corruttela d’interessi materiali contemplati esclusivamente, nuovo servaggio e feroce licenza…”. L’ “utopista”, il “nebuloso” Mazzini (come lo chiamano certi critici della storia dall’anima piccola, dell’acume puntualizzato nella malignità, che non sanno sceverare la vera grandezza dalle scorie di cui la grandezza qualche volta fatalmente si riveste), il “fantastico” Mazzini vedeva molto concretamente e molto addentro nella verità della storia. E anche nel problema sociale! “Un giorno – egli dice – saremo tutti operai, cioè vivremo dell’opera nostra”. E “ogni uomo partecipi in ragione del suo lavoro, al godimento dei prodotti, risultato di tutte le forze sociali poste in attività”, leggiamo nello statuto della “Giovine Europa” da lui dettato. Ma gli scettici, gli storici sedicenti “spregiudicati”, disprezzano Mazzini e disprezzano anche quella religione dell’umanità che fu un altro caposaldo del Risorgimento. Ma soltanto dalla religione dell’umanità veniva ai nostri padri quella fermezza e quella modestia insieme che ce li fa tanto stimare, oggi, in un’epoca in cui vediamo gli egoismi delle classi sociali, delle élites autoritarie diventare essi religioni e dogmi. Magnifica ingenuità quella che costruisce sulla virtù, che affronta le avversità e ne esce con serena coscienza per andare incontro ad altre avversità. (SP, 168 -169)

È un’orazione degna del momento e del tema: e che, come vuole il genere in cui si inserisce e l’occasione in cui fu pronunciata, alleggerisce i contenuti di erudizione storiografica nella misura in cui accentua l’aspetto etico e politico, con lo scopo di contribuire alla crescita di quella “religione civile”

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che fa notoriamente difetto agli italiani. 15 Come Stuparich non ha difficoltà ad ammettere, l’analisi si muove concettualmente e metodologicamente su un reticolo indiscutibilmente crociano, ripercorso quasi alla lettera nei riferimenti ad una malattia “nicciana” capace di contagiare, come aveva scritto il filosofo, perfino la « semplice e sennata Italia, aliena da fanatismi d’ogni sorta». 16 Ma approccio interessante anche per il duplice valore attribuito alla libertà, tanto in senso etico e squisitamente interiore di realizzazione dei più alti contenuti umani, che in quello di elaborazione di valori universali (con l’implicito corollario – motivo che appartiene, sempre più nettamente, all’ultimo Croce – di concrete forme istituzionali17). L’ideale della libertà, aveva scritto Croce nelle pagine conclusive della Storia d’Europa nel secolo decimonono, chiarendone insieme la portata universale e, potremmo dire, la natura “speculativa”, «è l’unico ideale che affronti sempre l’avvenire e non pretenda di concluderlo in una forma particolare e contingente» (aggiungendo: «quando si ode domandare se alla libertà sia per toccare quel che si chiama l’avvenire, bisogna rispondere che essa ha di meglio: ha l’eterno)». 18 L’analisi storica, anche nel breve segmento temporale trascelto da Stuparich, assume così, in definitiva, il valore di una sintetica ma partecipata «storia della libertà»19: «approfondimento e potenziamento della vita religiosa

15 Si veda per es. M. Viroli, Per amore della patria, Laterza, Bari 1995. 16 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 cit., p. 228. 17 Sarebbe fuori luogo seguire l’evoluzione dell’idea di libertà in Croce dalla genericità e astrattezza delle formulazioni iniziali alle prospettive sempre più ricche di concreti contenuti storici e istituzionali della tarda maturità e vecchiaia (si veda, per un introduzione all’argomento, G. Cotroneo, Una teoria filosofica della libertà in B. Croce, La religione della libertà - Antologia degli scritti politici, SugarCo, Milano, 1986). Non si può mancare però di chiarire almeno un punto, utile per collocare Stuparich su un più specifico orizzonte politico-filosofico. Ha osservato H. Stuart Hughes (Coscienza e società: Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930, Einaudi, Torino, 1967), che Croce, nel corso degli anni Trenta, era diventato, di fatto, «un difensore della democrazia»: «la tradizione liberale e quella democratica erano ormai così intimamente legate che difendere l’una significava difendere anche l’altra» (p. 218). Lo stesso Croce, nel 1949, dimostrando di aver superato, o mitigato, la convinzione che l’ideale della libertà non possa concludersi «in una forma particolare e contingente», osserverà essere stato il socialismo o laburismo, un «vero passaggio dall’utopia alla storia», reso possibile dalla sua accettazione (nutrita di liberalismo: «perché il liberalismo» chiariva in quella circostanza, «non è poi altro che un metodo») «delle elezioni, dei parlamenti, delle discussioni e delle votazioni, nonché della garanzia che offrono gli ordinamenti statali» (B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, in Nuove pagine sparse, Laterza, Bari, 1966. Vol. I, p. 197). Rimane costante, ad ogni modo, in tutta la parabola del pensiero crociano la preoccupazione di «non legare il liberalismo a nessuna struttura istituzionale – la quale per la sua natura storica, per essere un prodotto politico, ispirato a esigenze pratiche immediate, è inevitabilmente destinata a morire – per evitare di dover ammettere che il liberalismo potrebbe morire con essa» (Cotroneo, cit., p. 87). 18 Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), Laterza, Bari, 1965, p. 313. 19 Ivi, p. 13.

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dell’umanità», 20 come Croce aveva iniziato spiegare proprio dal 1932, col suo «necessario completamento pratico la libertà stessa come ideale morale». 21 Nasce inoltre dall’incontro della tendenza di Stuparich a mitizzare il Risorgimento (sia pure come necessario accorgimento di alta oratoria civile) con le suggestioni della filosofia crociana (che aveva visto nella storia, nella fase iniziale della sua riflessione, non «l’opera impotente e ad ogni istante interrotta, dell’empirico e irreale individuo, ma opera di quell’individuo veramente reale che è lo spirito eternamente individuantesi»22) la visione fluida e pacificata di un’epoca senza conflitti interni, senza scontro di uomini e contrapposizione di progetti, scevra di lacerazioni fra opposte esigenze e antagonistiche concezioni storico-politiche, spinta insomma, al di sopra della contingenza, verso i cieli purissimi dei valori universali («storia come svolgimento di valori ideali», aveva spiegato infatti Croce, «i soli che si svolgano»23). Tendenza in parte positivamente corretta dall’inclinazione di Stuparich a risolvere la storia risorgimentale nelle biografie dei suoi eroi (così Maturi, in una prospettiva più generale: «il Risorgimento è storia di individui e quindi la biografia è il genere storiografico dominante nei suoi studi»24), facendola dunque rifluire, in apparenza almeno, verso la terra degli uomini vivi, il travaglio delle psicologie e degli interessi, la soda concretezza dell’empirico. Solo in apparenza si è detto, perché la mancanza di ogni analisi critica e di ogni chiarificazione di natura politico-istituzionale, socio-economica o “evenemenziale” finisce per farci apparire il quadro prospettato da Stuparich privo di profondità e prospettiva, e il Risorgimento ridotto a quel fatto di «indole essenzialmente morale»25 che, secondo Maturi, rappresentava proprio l’interpretazione da superare. In questo senso si potrebbe dire, forzando un po’ i termini, che lo Stuparich aedo del Risorgimento assomiglia molto all’Alfieri descritto da De Sanctis: «la patria era la sua legge, la nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed erano idee povere di contenuto, forme libere e illimitate, colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro 20 Ivi, p. 21. 21 Ivi, p. 13. 22 Croce, Teoria e storia della storiografia (1916), Laterza, Bari, 1954, VII ed., p. 91. L’intero passo suona così: «L’alto valore di questo concetto sta nel cangiare l’umanismo da astratto in concreto, da monadistico o atomistico in idealistico, da grettamente umano in cosmico, da umanismo disumano, com’è quello dell’uomo chiuso e contrapposto verso l’uomo, in umanismo veramente umano, che è l’umanità comune agli uomini, anzi all’universo tutto, che tutto, nelle sue più riposte fibre, è umanità, cioè spiritualità. E la storia, in questa concezione, come non è più l’opera della natura o del Dio estramondano, così non è nemmeno l’opera impotente e ad ogni istante interrotta, dell’empirico e irreale individuo, ma opera di quell’individuo veramente reale che è lo spirito eternamente individuantesi». 23 Ivi, p. 259. 24 W. Maturi, Risorgimento, in Enciclopedia italiana. 25 Ivi.

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urto con la vita pratica». 26 Nettamente crociane inoltre tanto la valorizzazione del Risorgimento italiano come esemplare capitolo della religione della libertà («inizio del Risorgimento delle nazioni europee»27, spiegava Maturi) in contrapposizione alla genesi e ai caratteri dell’Impero tedesco (a proposito del quale Stuparich mi pare si ispiri piuttosto al drastico giudizio espresso da Croce nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, che a quello meno severo, perché più attento ai dati concreti, e deludenti, della storia e della politica, contenuto nella Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932), quanto il rilievo dato all’isterilirsi dell’essenza autentica dello spirito di libertà risorgimentale a mano a mano che ci si avvicina alla svolta di secolo. Ancora crociana infine, come si è già anticipato, la messa in evidenza di una ventata di «attivismo» (così nella Storia d’Europa, mentre nella Storia d’Italia il discorso sulla crisi spirituale italiana è più dettagliato e analitico), che finisce per orientare molte coscienze, e con esse l’orizzonte politico, nel periodo che va dagli anni della Fin-de-siècle allo scoppio della guerra, e di cui sono emblematici la personalità e il percorso di D’Annunzio. L’interpretazione dell’intervento e della guerra, con le sue pressanti implicazioni autobiografiche, sembra invece piuttosto ricalcare le riflessioni di uno studioso crociano, anch’esso citato da Stuparich, che lo conosceva ed apprezzava, Adolfo Omodeo, convinto assertore dei contenuti risorgimentali e democratici della guerra italiana e la cui Età del Risorgimento apparsa, in forma compiuta, dopo una primissima edizione scolastica, nel 1931, riconosceva al fenomeno risorgimentale un’estensione cronologica che andava dal trattato d’Aquisgrana alla conclusione della Grande guerra (concezione che ha fatto scuola, se solo pensiamo al Risorgimento italiano28 di Stuart Woolf). Ed era stata in effetti in quella tragica ora che avvia il continente al primo grande massacro del ‘900 che, spiega Amodeo, allorquando «nuove formazioni storiche che negavano i principi che avevano costituito l’Italia, scatenarono la guerra mondiale, la risorta nazione fu condotta dalla coscienza della propria origine a schierarsi contro gl’imperi centrali, non ostante l’alleanza, che per lunghi anni aveva mantenuto con essi, per attuare la pace europea». 29 Perché, aggiunge, «serbar la pace […] significava lasciarsi sfuggire per sempre la possibilità di liberare l’Italia irredenta. Solo in una lotta contro l’Austria l’Italia poteva ritrovarsi compatta: ricollegare le tradizioni del Risorgimento con le ambizioni del futuro». 30 Sul giudizio del fascismo come momento di smarrimento, una vertigine passeggera di cui il popolo italiano si era riabilitato sapendo «ritrarsi dall’abisso», si è già 26 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Rizzoli, Milano, 2006, p. 933. 27 Maturi, Risorgimento, in Enciclopedia italiana. 28 Einaudi, Torino, 1981, Ma prima in Storia d’Italia, Einaudi. 29 Omodeo, L’età del Risorgimento italiano, ESI, Napoli, 1965. IX edizione con introduzione di B. Croce. P. XIX. 30 Ivi, p. 516-517.

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detto fin troppo, mentre l’appassionata parentesi su Mazzini – il medaglione più ricco e articolato che in questo discorso si dedichi ad uno dei protagonisti del Risorgimento – risente di una stratificazione di approfondimenti intellettuali, convinzioni morali e scelte di vita anch’essi ampiamente discussi. Del resto pure nella Storia d’Europa di Croce, dalla quale, come si è detto, Stuparich trae ispirazione e spunti, si respira un afflato mazziniano che consente – sono le famose pagine conclusive – di sognare un’Europa del futuro superatrice degli egoismi nazionali (nonostante la profetica consapevolezza che qualcosa di grave, una tragica cesura nella storia, sarebbe dovuto ancora intervenire prima che il Continente potesse tanto maturare); un Mazzini ridotto però ai soli aspetti del «sentimento religioso e ardore di apostolato», 31 quasi ad escluderlo dai capitoli più ricchi della storia del pensiero. Ma l’orazione di Stuparich non si chiude nel regno delle prospettive ideali, bensì – ricollegando le tradizioni del Risorgimento con le ambizioni del futuro, come aveva scritto Omodeo dell’intervento in guerra del maggio 1915 – vuole guardare nella sua parte conclusiva al presente dell’Italia, consapevole dei compiti civili e sociali che attendono il Paese: [Non] bisogna dimenticare che per saldare la frattura del ventennio sciagurato e mantener fede allo spirito del Risorgimento, noi italiani d’oggi dobbiamo estirpare da noi anche le radici più risposte e inconsce d’una mentalità velenosa che per vent’anni aduggiò le nostre coscienze e che potrebbe diventar esca a nuove dittature, vengano esse da destra o da sinistra. Dobbiamo colmare molte ingiustizia sociali, richiamarci a quell’idea sociale che intuì la grande mente di Mazzini, quando disse, ripeto: “un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo dell’opera nostra”; finirla con le camorre e i parassitismi, i camuffamenti d’ogni specie, superare i nostri meschini egoismi, armonizzare il nostro bene con il bene di tutti, ritornare a quella coscienza civile che fece grande l’Italia. Soltanto così l’Italia potrà risollevarsi e progredire in un’Europa libera. E queste sono le nostre speranze. (SP, 174)

Sembra di sentire gli echi dei più severi contributi sulla «Rivista di Milano» (Irredentismo superato?), per come si riattualizza «un collaudato impianto concettuale», senza «grosse alterazioni nel programma politico […] rispetto a quello del primo dopoguerra», 32 salvo il tema del decentramento e dell’autonomia che viene del tutto tralasciato per non portare acqua al mulino degli indipendentisti. Ammirabile comunque il retroterra di erudizione che emerge dallo Spirito del Risorgimento, nonostante certi presupposti un po’ invecchiati, di cui la storiografia dei nostri anni ha fatto giustizia (in specialmodo sottolineando il carattere minoritario del Risorgimento che non è stato, in senso stretto, un vero movimento di massa). Eppure, anche ammessi i limiti dell’aggiornamento (Stuparich non è uno storico di professione), l’officina storiografica non è né banale né volgare, con una prevalenza, come cifra caratterizzante, dell’impronta di Croce. A differenza di un compagno di strada da lui tanto ammirato, il più anziano Benco che nell’impegno 31 Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), cit., p. 106. 32 P. Karlsen, Introduzione a Un porto tra mille mille, cit., p. 17.

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politico e rivendicativo33 non si perita di attingere da Giuseppe Caprin e Attilio Tamaro, facendo risuonare la solita litania della “civiltà millenaria” e, con alterigia, il tema dell’indole buona e tollerante degli italiani, di «latin sangue gentile». Il 3 novembre, come si è anticipato, Giani Stuparich è nuovamente sul palco, a San Giusto, a parlare della città e per la città. 34 Oratore ufficiale di una Trieste amministrata con buon senso e spirito di libertà dagli anglo-americani, e che tuttavia attende fiduciosa di ricongiungersi alla patria. Il discorso fu riportato, per stralci, tanto dal destrorso «Giornale di Trieste» in data 4. IX. 1948 che dalla «Voce libera», ma è stato poi pubblicato in edizione integrale, nel 1950, a cura del Comune di Trieste. A quanto segnala Damiani35 non mancarono contestazioni, anche dure, tanto nel corso della manifestazione, che successivamente, su organi di stampa vicini alla destra estrema (in particolare da parte della «Rivolta Ideale»). Passate sotto silenzio tanto dal «Giornale di Trieste» che dalla «Voce Libera», tali contestazioni vengono invece messe in rilievo dal «Corriere di Trieste», il giornale dell’indipendentismo, in un corsivo del 6 novembre, Difesa?, che richiama l’attenzione sui rigurgiti neo-fascisti «nascosti sotto il verde prato della famosa “difesa”» (e si intende, ovviamente, la parola d’ordine e le strategie della “difesa nazionale”). Riproposto di recente, 36 ne riportiamo solo qualche passo di più emblematico valore politico-ideologico, ancorché contenga assai poco di nuovo rispetto ai contenuti noti e sperimentati. E quel poco, oltre alla cocente delusione per il contegno ondivago e opportunistico tenuto dalle grandi potenze, 37 è un’inusitata acredine antislava che si traduce in un duro attacco a Tito ed alla Jugoslavia, che, al solito, mette in ombra ciò che il regime, anche prima della collusione con il nazismo, aveva perpetrato sui confini orientali, esaltando invece la ribellione morale e quindi militare degli italiani contro il fascismo («se l’Italia fu salvata sull’orlo della rovina, lo si deve agli italiani stessi, che insorsero prima spiritualmente nella loro coscienza, nei loro sentimenti, e poi fisicamente nelle capanne e nelle officine, per i monti e per le città, da per tutto, in una lotta 33 Cfr. Benco, Trieste e il suo diritto all’Italia, Cappelli, Trieste, 1952, un libro che esce postumo, con un’esaltata prefazione di Satta, e a cui Benco aveva posto mano nel periodo dell’occupazione tedesca. 34 Andrà notato che Stuparich, nella lunga stagione del sindaco democristiano Gianni Bartoli, non fu più chiamato a celebrare l’anniversario della vittoria. Lo fece invece, nel 1951, a Venezia, dove vivevano, con buoni agganci nel mondo politico-culturale, gli amici Diego Valeri e Quarantotti Gambini, trovandosi a fianco Ferruccio Parri sulla loggia di Palazzo Ducale. 35 Damiani, Stuparich, cit., pp. 118-119. 36 Cfr. Karlsen, Un porto tra mille e mille, cit. 37 Interpretano bene un sentire diffuso in Italia negli anni del trattato di pace le osservazioni di C. Alvaro: «il popolo italiano è indignato contro le condizioni di pace non perché sia punito il suo fascismo, ma perché questa punizione è oggetto di scambi e di transazioni. Protesta perché vede che le punizioni gli vengono a freddo, mercanteggiando. E poi, non vengono tutte in una volta ma a spizzico, secondo i pruriti di risentimento inglesi o francesi o americani» (Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, cit., p. 482).

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oscura, difficile, doppiamente ingrata e dolorosa, ricca di sacrifizi e di sangue»). La sicurezza con cui ci si domanda, con mossa retorica che sfocia nel grottesco, «se siamo stati noi i primi a rompere il patto civile della fratellanza dei popoli» e la fermezza con cui si garantisce che «noi con l’esperienza d’una civiltà millenaria, da questo angolo d’Italia dove confluiscono popoli diversi, possiamo contribuire alla ricostruzione, alla pace, al bene d’Europa» ha certo un suo valido senso in relazione all’idea di Risorgimento coltivata da Stuparich, ma sembra quasi una beffa considerando invece le concrete vicende della Venezia Giulia italiana. In conclusione se è fuori dubbio che il discorso contenga succhi di sincera ispirazione democratica, il livore anti-jugoslavo è tuttavia tanto traboccante e rinnova così tanti pregiudizi della vecchia Trieste irredentista (pregiudizi che lo sciovinisno nazionalistico sloveno-croato e le persecuzioni anti-italiane nell’Istria sottoposta al regime dittatoriale di Tito parevano pienamente confermare) da prospettare, in fondo, nella sua visione semplificata, modelli interpretativi e piattaforme politiche facilmente sfruttabili a destra. Come ha sintetizzato Cattaruzza, in una valutazione complessiva dell’ideologia e delle strategie della “difesa nazionale” nelle nuove forme apologetiche e auto-assolutorie che andavano assumendo a Trieste negli anni cruciali del II dopo guerra (sullo spunto, probabilmente, di una preziosa indicazione di Apih38): un precoce sdoganamento dei fascisti, un’ambigua unanimità delle forze italiane ed uno stile di spregiudicatezza in cui, in nome del supremo ideale della nazione, si confondeva il confine tra il lecito e l’illecito, rappresentò un frutto avvelenato per la cultura politica triestina del dopoguerra destinato ad esercitare un influsso malefico sulle vicende della città anche dopo la restituzione all’Italia.39

Ma veniamo al testo: Triestini, fratelli dalmati e istriani! Trent’anni si compiono dal giorno in cui Trieste poté finalmente, liberamente innalzare su S. Giusto la bandiera del suo cuore, la bandiera della Patria. Qui, oggi, su questo colle in cui freme tutta la nostra storia, siamo in molti ancora a ricordare quelle giornate. Noi che le abbiamo viste, che le abbiamo vissute, rammentiamo ai più giovani, ed anche agli immemori, se ce ne fossero, la grandezza e la commozione di quel momento. […] Era il coronamento di cent’anni di fede e d’azione italiane, perché, ricordiamoci, il Risorgimento d’Italia fu anche il nostro Risorgimento. […] La guerra del ’15-’18 fu una guerra di rivendicazione e di giustizia, che la meritata Vittoria suggellava. Tutta la popolazione triestina era esultante, l’intero popolo triestino era per l’Italia. […] Noi non siamo né dei fanatici, né dei misconoscenti. Noi riconosciamo che senza l’Esercito degli Alleati saremmo stati travolti, inermi e indifesi come 38 Apih, Prefazione a Schiffrer, Antifascista a Trieste. Scritti editi e inediti (1944-45), Del Bianco, Udine, 1996. Scrive Apih, riferendosi all’immediato dopoguerra: «era assai debole allora a Trieste, nell’ambito della maggioranza politica, la spinta a rinnovare uomini, costumi, valori. C’era, rispetto al fascismo, più distinzione che discriminazione» (p. 14). 39 Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 310.

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eravamo. Ma noi chiediamo al popolo inglese e al popolo americano e soprattutto ai loro governi: “perché avete atteso ben tre anni, dolorosi e tragici per noi, prima di darci atto apertamente d’una realtà, che sin dai primissimi giorni dell’occupazione si presentò lampante anche agli occhi di chi ignorava la nostra storia? Perché tutto questo tempo, e dopo aver permesso lo strazio di Zara, di Fiume, il suicidio di Pola e la tragedia di tutte le nostre belle città istriane, italianissime fin nelle pietre, perché? Prima di riconoscerci il diritto palese, naturale, riconsacrato col nostro sangue nella guerra del ’15-’18, che fu anche la vostra guerra, il diritto di appartenere all’Italia?”. […] Il popolo italiano non è un popolo militarista, non ha gli istinti barbarici del “guerriero” (la parola stessa non è latina), troppa civiltà è passata per il suo sangue. All’oscuro “onore militare” di marca straniera, in nome del quale si possono commettere tante scelleratezze (e tante sono state commesse sotto i nostri occhi), egli preferisce la coscienza di battersi con coraggio per un principio universalmente umano. Perché il popolo italiano è un popolo che si batte, e si batte eroicamente, se sono in gioco la libertà e il diritto, se è l’amore alla propria terra che lo spinge a difenderla anche a rischio dei più gravi sacrifici. E lo ha dimostrato al Piave quanto risollevatosi dalla sciagurata ritirata di Caporetto, ha saputo fermare con il coraggio della disperazione il nemico imbaldanzito e potente, lo ha dimostrato a Vittorio Veneto, quando ha saputo ricacciare dal suolo della Patria l’occupatore. Ma a noi, che quell’epoca eroica abbiamo vissuto […] a noi era purtroppo riservato dal destino d’assistere, nello svolgersi d’una sola generazione, alla più dolorosa tragedia della nostra Patria: invasa da settentrione a mezzogiorno, da occidente ad oriente, la vedemmo ripiombare nella rovina dei secoli, ridiventare campo di battaglia e di distruzione per eserciti non nostri, ludibrio di tutti gli stranieri. […] E la colpa, sì, fu anche nostra. Ma se noi ci volgiamo indietro a considerare i trent’anni di storia penosa che ci dividono dai giorni fulgidi della nostra Redenzione, non è per coltivare in noi inutili rammarichi e rancori, ma è per piegare l’animo riverente dinanzi ad altri morti, ai caduti di altre guerre, che meritano la nostra pietà e la nostra devozione e che questo nostro colle onora nel ricordo insieme con tutti gli altri. […] Noi ci volgiamo indietro al recente passato, non per rammaricarci, ma per trarre ammaestramento dai nostri errori, per rinsaldare la nostra coscienza nei principi e nello spirito che hanno sempre animato la vita del nostro popolo, che l’hanno sorretto nella difficile ascesa della sua storia, e che sono principi e spiriti cristiani, di libertà, di civiltà, di Cristo, che ha dato all’Europa e al mondo l’arte e il pensiero moderni, che ha suonato la diana all’emancipazione e alla fratellanza di tutti i popoli, che può essere traviato momentaneamente, ma non può non ricongiungersi definitivamente alla sua luminosa tradizione, non può non continuarla. E, in realtà, se l’Italia fu salvata sull’orlo della rovina, lo si deve agli italiani stessi, che insorsero prima spiritualmente nella loro coscienza, nei loro sentimenti, e poi fisicamente nelle capanne e nelle officine, per i monti e per le città, da per tutto, in una lotta oscura, difficile, doppiamente ingrata e dolorosa, ricca di sacrifizi e di sangue. Ma in questa lotta e con questa lotta essi dimostrarono al mondo che l’Italia amava la Libertà, combatteva per la Libertà, sapeva morire per la Libertà e la Giustizia. Il filo era ripreso, gli ideali per cui gli italiani avevano combattuto e vinto nel 1918, tornavano a illuminare, pur tra le rovine, la giusta via. E un’altra volta, come in tutti i momenti più gravi e gloriosi del Risorgimento, la Venezia Giulia fu degna della Patria. […] E un altro ostacolo per noi rappresentava la vicinanza degli slavi. Ogni nostra generosa offerta di solidarietà nella lotta era accolta con diffidenza: sospettavamo noi, perché nascondevano in loro stessi un piano prestabilito, quello di sopraffarci al momento opportuno, il piano che non avevano potuto effettuare nell’ottobre del 1918. Tedeschi e slavi si contendevano una terra che era nostra.[…] La nostra amarezza oggi è confortata dal riconoscimento che ci viene dal libero Governo

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della Repubblica italiana. Noi siamo grati e orgogliosi per la Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita a Trieste, perché attesta che sulle trincee assegnateci dalla Nazione noi non abbiamo dormito, ma abbiamo vigilato, agito, resistito fino allo stremo delle nostre forze. Ma vorremmo che anche tutti i fratelli italiani ci capissero e ci approvassero. Qualche volta ci sanguina il cuore, quando da lontano ci rimproverano d’essere nazionalisti, fomentatori d’odio e di discordie. Ma se siamo qui, aggrappati disperatamente all’ultima difesa rimastaci, dopo lo scempio che han fatto dei nostri sacrosanti confini! Che cosa vorrebbero da noi? Che ci scavassimo da soli la fossa, da soli ci buttassimo dentro, per far da tappeto all’espansione di un popolo straniero che non attende se non questo? Ma sappiano i fratelli italiani che con la nostra debolezza, col nostro cedimento, con la nostra rovina, tutta la pianura veneta, tutta la nostra bella terra italiana sarebbe aperta all’invasione. Come affermò un intelligente giornalista delle vecchie provincie nel giorno dell’Annessione: “senza Trieste, l’Italia non potrebbe essere mai veramente libera, indipendente, sicura”. Ditelo voi, istriani e dalmati, raminghi e sventurati, se siamo stati noi i primi a rompere il patto civile della fratellanza dei popoli. La propaganda è la propaganda, ma i fatti sono i fatti e sono essi che parlano con la loro crudezza. Ci siano restituite le nostre città, i nostri campi, i monumenti dell’arte nostra, i nostri cimiteri, e noi non solo non nutriremo rancori, ma dimenticheremo generosamente il male che ci è stato fatto e tenderemo la mano ai nostri vicini per scambiarci pane, lavoro e civiltà. E ai potenti che hanno in mano le sorti del mondo noi diciamo: “Lasciateci essere italiani, concretamente, fattivamente italiani, perché in quest’ora grave, piena d’immani pericoli, noi con l’esperienza d’una civiltà millenaria, da questo angolo d’Italia dove confluiscono popoli diversi, possiamo contribuire alla ricostruzione, alla pace, al bene d’Europa”.

Nel 194940 Stuparich, nella sua costante oscillazione tra un ruolo di artista solitario, che cerca nell’arte la sua verità, e le ambizioni – il Super Io eticopolitico – di contribuire al progresso morale e civile della società italiana, ha finalmente la possibilità di realizzare un’operazione culturale di ampia portata. A fianco della vivace e intraprendente Anita Pittoni, la nuova compagna, titolare del più famoso salotto artistico-letterario di quegli anni, 41 ma mantenendo 40 Premettendo che non si fa storia di ciò che non è stato scritto e non è stato detto, incuriosisce il fatto che il 1948 dello Stuparich saggista si chiuda senza un solo accenno al volume Jugoslavia – Storia e ricordi (Rizzoli, Milano-Roma, 1948) di quel Carlo Sforza che era stato il massimo artefice del Trattato di Rapallo, approvato senza riserve sulla «Rivista di Milano». Che non lo avesse notato (ma possibile in uno scrittore così ben inserito in una rete di contatti ad alto livello nel campo della cultura e della pubblicistica)? O non sarà forse che era imbarazzante esprimersi, in quel preciso momento, sul libro di un ex interventista-democratico che continuava a declinare il messaggio di Mazzini nel senso più eticamente ricco e più politicamente lungimirante della comprensione dei popoli e della mano tesa verso est? Così infatti Sforza in conclusione: «i nostri due popoli [italiano e jugoslavo, NdA] devono scegliere: o mostrare al mondo una volontà di intesa superatrice di ogni risentimento, e forzare così l’ammirazione dell’Europa, o divenire passivi strumenti di sospetti e appetiti altrui […]. Ogni intesa sarà impossibile se nei due paesi si guarderà indietro invece che avanti, se si continuerà a credere ai compartimenti stagni che hanno avvelenato la vecchia Europa» (p. 205). 41 Sito in via Cassa di Risparmio si apriva nei celebri martedì letterari alla crema del mondo artistico triestino, diventando – sotto gli occhi comprensivi dello stato maggiore della cultura cittadina, gli assidui Stuparich e Giotti, il più saltuario Saba –, ambita palestra per novizi talentuosi dall’estro frizzante, ansiosi di autorevole avallo. Ne consegna un affettuoso ricordo

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una posizione che si potrebbe definire defilata, sovrintende alla nascita delle Edizioni dello Zibaldone, 42 cui spetta il merito di opportune riedizioni e di una sensibile disponibilità nei confronti delle voci nuove della cultura cittadina. E le inaugurerà, in effetti, con la cura di un libro che raccoglie una scelta delle Memorie di Giovanni Sartorio, uno di quei grandi protagonisti della scena commerciale che avevano fatto la prosperità di Trieste, membro della prima direzione delle Assicurazioni generali e presidente, agli inizi dell’Ottocento, della Borsa triestina. Uomo che sembrava realizzare quella simbiosi di commercio e cultura che, fin dai tempi della «Rivista di Milano», rappresenta la prospettiva nella quale Stuparich immagina una Trieste capace di riappropriarsi tanto del suo ruolo economico che della sua funzione civilizzatrice. Seguiranno altri volumi, anche dopo la scomparsa dello scrittore, che nel 1950 contribuirà nuovamente alla collana, curando un libro dell’illuminista Antonio de’ Giuliani, Riflessioni sul porto di Trieste, in una scelta che ripropone il tema spesso rivisitato dell’economia come moltiplicatore di energie intellettuali. Il 15 maggio, con un’uscita insolita per Stuparich, – alieno a prendere “partito”, in senso letterale, in maniera pubblica ed esplicita –, lo scrittore indirizza una lettera aperta ai dirigenti del Partito Repubblicano di Trieste (cfr. «La Voce Libera», 7. VI. 1949 e «L’Emancipazione» 9. VI. 1949) dove già dal 1947 era in gran parte confluita la frazione giuliana del partito d’Azione, per manifestare la volontà di schierarsi a fianco di quelle forze che aveva sentito vicine già nel primo Dopoguerra. Il Partito Repubblicano triestino, rispecchiando il quadro nazionale dove i repubblicani, inizialmente all’opposizione, avevano partecipato al governo di solidarietà nazionale e, dopo la sua crisi, al nuovo governo di De Gasperi, destinato a conservarsi, nei suoi equilibri di fondo, anche dopo il giro di boa delle elezioni del 18 aprile 1948 («mutamento d’indirizzo», è stato detto, «non senza lacerazioni e contrasti»43), aveva una spiccata collocazione “occidentalista” e filo-italiana. Le elezioni amministrative del giugno del 1949 erano alle porte (si voterà di nuovo nel 1952 e nel 1956, ma solamente nel 1958 per le elezioni politiche nazionali44) e Stuparich voleva sicuramente contribuire a rinforzare la componente più legata a valori Roberto Pagan, Sulla sofferta diversità della cultura triestina: divagazioni e ricordi di un transfuga, in Id., Un mare di inchiostro. Pagine su ‘pagine’ e altri cabotaggi, Edizioni Cofine, Roma, 2015. 42 Sulla Pittoni e i suoi libri da vedere S. Parmegiani, Far libri. Anita Pittoni e lo Zibaldone, Ed. Parnaso, Trieste, 1995, e W. Chiereghin, a cura di, Ricordando Anita Pittoni, Istituto giuliano di storia cultura e documentazione, Trieste, 2013. 43 Aga Rossi, Il Movimento Repubblicano Giustizia e Libertà e il Partito d’Azione, cit., p. 45. Per una prospettiva generale storiograficamente aggiornata vedi R. Chiarini, Le origini dell’Italia repubblicana e P. Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in G. Sabbatucci e V. Vidotto, Storia d’Italia, 5. La Repubblica 1943-1963, Roma-Bari, Laterza, 1997. 44 Per una panoramica svelta, ma ricca di istruttivi dettagli, sui primi appuntamenti elettorali triestini, cfr. Spazzali, 1955-2004 Trieste di fine secolo, IRCI-Italo Svevo, Trieste 2006. In particolare le pp. 26-31, che fanno perno sulle elezioni del 1956, ma per spaziare sul prima e sul dopo, e pp. 31-38 per le politiche del 1958.

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“risorgimentali” dello schieramento “nazionale” (DC, PRI, PLI, Partito socialista, MSI, Blocco italiano) che si accingeva ad affrontare il giudizio degli elettori. Trieste 15 maggio 1949 Cari amici, Se alle cordiali insistenze che m’avete fatto, per iscrivermi nella vostra lista, non ho ceduto, vi debbo una spiegazione. Sono inadatto alla vita pubblica e insofferente d’ogni altra disciplina che non sia la disciplina interiore della coscienza e della fantasia. Non sento d’essere un uomo politico, ma per questo non m’impedisco d’avere delle idee e di prendere delle posizioni politiche. Non sono un uomo di partito, ma parteggerò sempre per chi ama la libertà e la considera unico sano fondamento della vita civile. Nelle imminenti elezioni (amministrative di fatto ma per noi che non abbiamo potuto votare finora con l’Italia, squisitamente politiche nell’essenza) le prime elezioni “libere” dopo un venticinquennio di servitù e di drammatiche vicende, il mio voto è per voi. Come l’ultima volta, in quelle lontane giornate in cui si profilava già la sopraffazione, io votai per la lista dell’Edera, così il 12 giugno prossimo io voterò per la lista dell’Edera. Continuità ideale e pratica che va tutta a merito vostro. Per me, le ragioni della scelta, fondate sulla simpatia per il Vostro partito e non sul disprezzo degli altri partiti, che, purché abbiano un programma ben definito e chiaro e confessato (e non siano delle mascherate accozzaglie di clientele), sono tutti apprezzabili ed utili ai fini della complessa vita politica italiana, sono queste: Voi non siete un partito di “masse” ma di “popolo”, cosciente ed articolato, come lo voleva Mazzini, la cui ideologia politica mi sembra oggi più attuale che mai, se l’Europa vorrà essere libera ed unita. E siete per una mazziniana giustizia sociale. Voi non siete dei cinici della “Realpolitik”, che si servono d’una bandiera per gli interessi inconfessati di un piccolo gruppo. Preferisco stare dalla parte degli ingenui, che hanno una fede, che non stare dalla parte dei furbi, che in cuor loro disprezzano ogni fede e credono soltanto nella propria capacità di giocare con la buonafede degli altri. Voi non siete attaccati al potere per prestigio o interesse personali; avete dimostrato che i vostri uomini sanno ritirarsi nell’ombra, dopo aver coperto delle cariche pubbliche e aver servito onestamente al pubblico bene. E la modestia è una di quelle doti antiche, oggi quasi dimenticate, ma a me molto care che erano una prerogativa degli uomini del nostro “vituperato” Risorgimento. Siete dei poveri e, come spesso i poveri, inclini a credere che anche in politica sia da fare più assegnamento sulla potenza delle idee che sulla strapotenza del denaro. Tra voi ci sono molti “combattenti” che non fanno del “combattentismo”, che non speculano sul giustificato cameratismo degli excombattenti. E in questo mi ricordate le sacrosante parole di Pinotto Garrone (e di quale combattente!): “Con un po’ più di serietà ci sarebbero meno eroi, ma forse l’Italia nostra sarebbe più grande”. Non credo che fra di voi ci sia qualcuno che, dopo aver fatto il proprio interesse all’ombra del fascio littorio, si è trasformato oggi in paladino della democrazia per fare il proprio interesse all’ombra della libertà. Fra di voi non c’è nessuno che per disprezzo del popolo italiano, considerato straccione e anarchico, ha leccato i piedi ai prussiani e ai nazisti e tenuto per loro e ancor oggi invoca in cuor suo il ritorno di una Germania potente e padrona, anche se questo desiderio lo deve per ora nascondere dietro ad altra maschera. E neppure c’è tra di voi chi, per lo stesso disprezzo, sarebbe contento di vedere il popolo italiano sotto il tallone della Russia, con la scusa che la nuova dittatura andrebbe a beneficio del popolo, in realtà con l’aspirazione segreta ad essere il “primo servo” dei nuovi padroni. Voi tenete fede all’insegnamento di Mazzini, alla cavalleria di Garibaldi, al sacrificio di

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Oberdan, di Nazario Sauro e di Gabriele Foschiatti. Per me la compagnia è buona. Ed io, pur geloso della mia indipendenza, per tutte queste ragioni sento oggi il dovere di schierarmi con voi. Cordialmente vostro – Giani Stuparich

Come si vede, la discesa in campo di Stuparich, a quanto risulta dalla più che esplicita dichiarazione d’intenti, si mantiene in sostanza coerente con quella dimensione di genericità che ne ha caratterizzato l’interventismo civile del secondo dopoguerra. Ricca di succhi morali e di pregiudiziali etiche, ma sfuggente per ciò che riguarda concrete linee programmatiche. In nome del mazzinianesimo, lo scrittore rifiuta tanto il comunismo filo-sovietico che il fascismo nostalgico di coloro che avevano prostituito l’Italia all’occupatore tedesco, ma senza chiudersi in alcuna formula più netta, fedele ad un ruolo di difensore dell’italianità della Venezia Giulia secondo equità e giustizia e di guida morale dell’opinione pubblica di spiriti moderati e di orientamento patriottico: da vero portavoce insomma di quell’idea-forza di umanesimo risorgimentale che lo caratterizza. Ad ogni modo l’adesione ad una partito, propugnatore, da posizioni di sinistra moderata di valori di laicismo, giustizia sociale e autonomia, permette di dare sul piano ideologico e con tutte le cautele del caso (e il caso è quello di uno spirito libero e indipendente, per il quale la concordia civile vale molto di più delle paganti litigiosità del cafarnao della politica) un “punto di fuga”, ancorché di ampio spettro, alle prese di posizione e alla saggistica politico-civile di questo torno d’anni. Non va dimenticato d’altra parte che la posta in gioco era allora altissima: l’«inserimento del patriottismo in un contesto democratico», come è stato detto, nella prospettiva di contribuire alla «rifondazione della democrazia a Trieste». 45 E a correre questa sfida, collaterali a quei piccoli partiti alleati alla DC che negli anni seguenti furono soggetti a un’inesausta dinamica di frazionamento e ricomposizione, 46 andavano a schierarsi «eccellenti intellettuali poco inclini alla disciplina di partito»47 come Stuparich appunto (ma si pensi, per qualche altro esempio, anche a Biagio Marin, che abbandona nel 1956 il Partito Liberale diventato troppo destrorso per i suoi gusti, per co-fondare il Partito Radicale di Trieste che affronterà le elezioni del 1958 insieme ai Repubblicani, o al tagliente Fabio Cusin, 48 che appoggiò con indefessa militanza la causa dell’indipendentismo, o ad Elio Apih, su posizioni di socialismo democratico). Modo di vivere la politica da appassionati dilettanti, innamorati più delle idee che delle prebende e quindi pronti a rientrare nelle vita attiva una volta

45 Spazzali, 1955-2004 Trieste di fine secolo, cit., p. 21. 46 Ivi, pp. 26-31. 47 Ivi, p. 22. 48 Gli scritti politici di Cusin sono stati curati, in due volumi, da Cervani: Gli scritti politici di Fabio Cusin nel «Corriere di Trieste»: Gli anni della polemica dura (1946-48), e Gli scritti politici di Fabio Cusin nel «Corriere di Trieste»: Gli anni della polemica ragionata (1949-51), Del Bianco, Udine, 1991 e 1994.

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superata l’emergenza civile (in controtendenza dunque rispetto a quelle figure di professionisti della politica che tendevano sempre più ad affermarsi49), che Stuparich aveva lumeggiato proprio nel 1948, il fondamentale “spartiacque” della vita politica italiana, offrendo, nell’autobiografia, importanti precisazioni: Io non sono né sarò mai un uomo della politica - aveva confessato - anzi le cose umane le sento muoversi in dipendenza di tutt’altri fattori e tendo a vederle o con la fantasia o con un senso religioso; ma per guidarmi nella vita ho anch’io il bisogno di farmi un giudizio sugli scopi terreni più vicini che gli uomini si propongono e sui mezzi più o meno ragionevoli che adottano per raggiungerli: e questa è posizione politica».50

Chi poi s’aspettasse qualcosa di più, o di più esplicito, resterebbe sicuramente deluso: dopo la professione di fede repubblicana del 1949, nulla che chiarisca ulteriormente le posizioni dello scrittore di fronte alla vita politica di un’Italia democristiana e di una città che, politicamente, ne rispecchiava in sostanza i rapporti di forza, salvo una maggior incidenza della destra nostalgica e la presenza, non proprio marginale di gruppi di orientamento indipendentista. Un’egemonia, non sempre esercitata con i guanti, e che, forse, sul piano squisitamente ideale, poteva anche non soddisfare pienamente un “terzaforzista” di ispirazione laica come Stuparich. Che però sicuramente apprezzava la funzione della Democrazia Cristiana – rappresentata a Trieste dal sindaco Gianni Bartoli, che avrebbe retto il comune, guidando coalizioni centriste, dal 1949 al 1957 –, riconoscendo in essa il più solido baluardo dell’italianità di Trieste e della collocazione occidentale dell’Italia. Con Bartoli si assiste all’inaspettata svolta verso il «guelfismo» della «città italiana forse più laica per tradizioni di cultura e per mentalità e costume di vita»,51 favorita per un verso dall’afflusso a Trieste di migliaia di profughi istriani cui fu subito data la possibilità di votare alle amministrative, per un altro dall’indefesso e spregiudicato impegno per l’italianità del nuovo sindaco (che presiede, dal 1952, il Comitato per la difesa dell’italianità di Trieste e dell’Istria, di cui fa parte, «ufficialmente»52 puntualizza Cattaruzza, anche il MSI). Del resto Stuparich avrebbe sempre rivendicato in modo implicito il “privilegio” della libertà di coscienza, pronto a vagliare caso per caso le 49 Una «classe», spiegano di Trieste Ara e Magris, cit., p. 185, «formatasi negli apparati burocratici dei partiti e saldamente annidatasi nelle varie istituzioni del sottogoverno cittadino, l’unica classe dirigente nuova che Trieste abbia espresso nel dopoguerra, a testimonianza della sua stasi produttiva». 50 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 52. 51 Ara e Magris, Trieste Un’identità di frontiera, cit., pp. 162-3. Di qualche anno fa un ottimo contributo sulla cultura politica del cattolicesimo triestino negli anni cruciali del primo dopoguerra, del trattato di pace, e della maturazione di una nuova generazione di politici cattolici post-bartoliani, aperta ai temi sociali e all’esigenza di guardare a sinistra, superando la logica dello scontro frontale: A. Dessardo, Giornalismo e politica: cattolici democratici, Chiesa e Democrazia Cristiana attraverso le pagine di «Vita Nuova» (1945-1965), in «Qualestoria», IRSMLI, Trieste, dic. 2009. 52 Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 309.

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contingenze della vita pubblica, anche a rischio di trovarsi coinvolti in pesanti polemiche. Nella complessa partita politica che si giocava a Trieste, incline dunque a seguire piuttosto i suggerimenti del cuore – ed era il cuore di un uomo generoso, capace di gratitudine e di slanci di passione – piuttosto che rigide logiche di schieramento (emblematico l’episodio della sua nomina, subito rifiutata, a membro della Commissione Territoriale d’Appello per l’epurazione, nel settembre 1945, che dimostra l’indisponibilità di Stuparich a ergersi a giudice dei concittadini, soprattutto avendo potuto scorgere «il più meschino volto della società giuliana, attraverso lo specchio dell’epurazione»53 e forse, aggiugiamo, per l'amara coscienza del suo proprio cedimento). Salva naturalmente, sempre e comunque, la pregiudiziale patriottica, e spesso senza troppo sottilizzare sulle diverse tradizioni di pensiero (non aveva messo in un solo mazzo, scrivendo per la «Rivista di Milano», Slataper, Vivante e Timeus, e, raccontando il Risorgimento, Mazzini, Garibaldi e Cavour?). Stupirà gli anticomunisti la sua disponibilità a sottoscrivere il Manifesto per la Pace scaturito dal Congresso per la pace che si svolse a Parigi nel 1949 e per il quale Picasso disegnò il celebre logo della colomba.54 Una decisione, ipotizza Damiani, 55 dovuta all’influenza di Vittorio Vidali,56 il leader del comunismo triestino cui Stuparich si era avvicinato anche in ragione del comune anti-titoismo. Mentre disturberà gli antifascisti (e avrebbe certo turbato il venerato Foschiatti) l’accenno a Bruno Coceani e a Cesare Pagnini, che si erano spesi per la liberazione degli Stuparich dalla Risiera, contenuto in Trieste nei miei ricordi: «e fu pure un bene che il Municipio e la Prefettura venissero nelle mani di due cittadini galantuomini, che dalle loro posizioni difficili di intermediari fecero l’umano possibile per mitigare la bestialità nazista»57 (uno di quelle valutazioni spregiudicate di ex-fascisti, in questo caso anche collaboratori dell’occupatore nazista, che gli attirarono, a quanto documenta Damiani, 58 le critiche di uno dei suoi primi maestri, Salvemini). Si attenua, ad ogni modo, nel crepuscolo degli anni ’50, l’impegno saggistico. «La Nuova Stampa» accoglie ancora i frutti della sua copiosa vena elzeviristica (e lo farà fino a metà degli anni Cinquanta, quando Stuparich inizierà a collaborare, 53 Cfr. Spazzali, Epurazione di frontiera, cit., p. 93. 54 Meno fuori schema invece la dichiarazione che rilascia al «Lavoratore» di Trieste in data 14 marzo 1955 per stigmatizzare, su richiesta del giornale, l’attacco neo-fascista alla libreria Rinascita di Roma, dove impartisce una piccola lezione di democrazia e di pacifico rispetto della diversità di opinioni, rivolta, credo, non tanto al PCI la cui lealtà costituzionale è stata, fin dall’inizio, indiscutibile, quanto al grande referente internazionale dei partiti comunisti europei, l’Unione Sovietica in fase di solo apparente destalinizzazione. 55 Damiani, Stuparich, cit., p. 119-120. 56 Da vedere sulla vita e l’opera di Vidali, M. Passi, Vittorio Vidali, Edizioni Studio tesi, Pordenone 1991. 57 Cfr. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 181. 58 Damiani, Stuparich, cit., p. 120.

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per un totale complessivo di quasi 150 articoli con il «Tempo» di Renato Angiolillo, sulle cui pagine culturali firmavano, fra i tanti, Falqui e Prezzolini). Ed è ancora vivace la creatività dello scrittore (Simone, Piccolo cabotaggio, Poesie, I ricordi istriani che iniziano ad apparire sulla «Nuova Stampa» a partire dal 1953 ma saranno raccolti e pubblicati solo nel 1961). Con un marcato ritorno di fiamma degli antichi interessi però, nel 1954, l’anno che vede il ricongiungimento di Trieste all’Italia, in virtù degli accordi del Memorandum di Londra. In effetti il 1954 è per Trieste l’anno meraviglioso dell’Italia ritrovata (velato solo da un’ombra di tristezza per il ricordo freschissimo delle tristi giornate del 4, 5, 6 novembre 1953, quando le strade della città si coprirono nuovamente di sangue59): in una grande festa cittadina i triestini sciamarono in piazza per salutare il ritorno del tricolore, che sventola di nuovo in faccia al mare dal 26 ottobre di quell’anno. Gioia che si intreccia all’amarezza: proprio allora, decisa ormai irreversibilmente la sorte dell’Istria, «assistiamo a un esodo intensificato di quanto resta della popolazione italiana», 60 come ha scritto su «Il Ponte» Carlo Schiffrer luminosa figura di intellettuale (e di politico) della sinistra non comunista. Stuparich ritrova allora la voglia della scrittura civile, con interventi sul «Ponte», sulla rivista «Trieste», fondata proprio allora ed auspice di più avanzati equilibri politici, sulla «Nuova Stampa». In Storia sotto gli occhi («La Nuova Stampa», 17 novembre 1954) presenta ancora agli italiani il dilemma di una città che vive di spontaneo amor di patria, incomprensibile per chi non si sforzi di capirla abbandonando le tesi precostituite e le formule semplificanti della teoria politica. «La sola città d’Italia che sappia cosa sia amor di patria», oppure «città esaltata dalla retorica nazionalista», 61 commenta Stuparich, sintetizzando i due estremi delle opinioni più diffuse. Ma la storia viva sfugge a quegli schemi e contraddice alle tesi preconcette, e chi non è pronto a capirla anche nei suoi aspetti apparentemente assurdi, corre dietro a ombre immaginarie e smarrisce la realtà. Sotto alla bandiere, sotto alla sfogo prorompente e a certi episodi di esaltazione, c’era infatti una realtà che non poteva sfuggire a una

59 I retroscena degli scontri che diedero nuovamente a Trieste dei “martiri” per l’italianità sono ben chiariti da Millo, che indica nei missini e nei servizi segreti gli occulti registi di disordini la cui dinamica resta per più aspetti oscura, e dai quali si voleva, come infinite volte nella recente storia italiana, che “uscisse” il morto (Millo, Ladifficile intesa, cit., p. 158 e segg.). Stuparich prende posizione solo indirettamente sulla vicenda, in una lettera, La giusta via che «Il Ponte» pubblica nel numero di dicembre 1953. Qui, rivendicando ancora un futuro italiano per Trieste (uno dei collaboratori della rivista aveva ipotizzato una possibile “internazionalizzazione” della città), lo scrittore interpreta le vicende secondo una lectio facilior di cui forse non aveva elementi per dubitare: «Bauer è stato male o tendenziosamente informato sugli ultimi avvenimenti triestini: se egli fosse stato testimone oculare dei vari episodi delle giornate del 4, 5, 6 novembre, la sua onestà avrebbe riconosciuto senza molti sforzi che i disordini furono in origine proprio innocenti e che i primi fatti luttuosi occorsero proprio fra un gruppo di ragazzi esasperati e un nucleo di poliziotti agguerriti che, nell’ipotesi più benevola, avevano perduto la calma già prima di entrare in azione». 60 Schiffrer, Il dialogo a Trieste e nell’Istria, in Id., Dopo il ritorno dell’Italia a Trieste (1954-1969). Scritti e interventi polemici presentati da G. Negrelli, cit., p. 197. 61 Arosio, a cura di, Stuparich, Il guardiano del vecchio faro, cit., p. 108.

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considerazione più attenta. Che cosa muoveva il popolo triestino a un incontro così aperto e appassionato coi soldati italiani? In fondo all’animo di questo popolo s’era accumulato per nove anni un senso d’avvilimento. Con la venuta dei soldati italiani cessava di colpo […]. Chi farà la storia di questo momento triestino, considererà forse trascurabile tutto ciò che noi mettiamo qui in rilievo. Ma altro è fare la storia, altro è viverla. Né io so fino a che punto abbiano ragione gli storici di trascurare certi fatti e certi episodi. Essi guardano di solito alla regìa dall’alto, ai “motivi essenziali”, ai manovratori e alle direttrici. Ma certe volte ciò che si muove spontaneamente nel fondo, l’occasionale e il patito, anche uno solo di quegli episodi trascurabili, può illuminare un avvenimento molto meglio e più efficacemente di cento pagine di storia.

Petizione di una narratore che, rivendicando apertamente pro domo sua, il valore euristico della testimonianza, anticipa senza saperlo l’attenzione della storiografia contemporanea per mentalità, sensibilità, psicologia. In fondo sono i piccoli indizi della vita quotidiana che consentano di decifrare il clima di un’epoca, le sue sotterrane correnti spirituali. Come aveva affermato in un’altra pagina di quell’anno fatale, con un inconsueto per lui gioco di parole, «esorcizzare la passione e il sentimento» finisce per condurre, seguendo l’ambizione della «razionale comprensione degli avvenimenti politici», a «una irrazionale comprensione dei fatti storici e umani» (La realtà di Trieste, in «Il Ponte», anno X, n° 4, aprile 1954, poi in «Il giornale di Trieste», 23 e 24 aprile 1954). Ed è questa in effetti la chiave di lettura per capire l’ottica di Stuparich nel momento della breve ma intensa ripresa dell’impegno pubblicistico sul fronte etico-politico: uno strumentario materiato di passione e sentimento, l’attenzione ai fatti concreti della storia per quanto inverano o negano i valori ideali, ma, nel tempo stesso ambizione di scrivere, sul suo spartito di umanesimo risorgimentale, für ewig, come avrebbe detto Gramsci. Inaugura la nuova fase, ma prima che nell’autunno di quell’anno lo sventolio del tricolore nella Piazza dell’Unità dissipasse ansie e timori, il saggio testé citato, che si apre con espressioni polemiche nei confronti delle posizioni degli indipendentisti triestini, criticati sia per gli assiomi economici (che Trieste potrebbe essere autosufficiente, mentre, sostiene Stuparich, «vive da nove anni soltanto di iniezioni») sia per la loro noncuranza verso ciò che esprime l’anima più schietta della città, da sempre, con totale dedizione, italiana. L’intero saggio è posto però sotto il segno della rivendicazione dell’attualità di Slataper, di cui Stuparich sta curando, per Mondadori, la nuova edizione degli Scritti politici e che viene chiamato a garante di una missione triestina che si riassume nel compito impervio di «armonizzare la propria vocazione nazionale con la propria prosperità economica». Preso nel vortice di ricordi e nostalgie è facile per Stuparich scivolare di nuovo indietro alla stagione dell’interventismo e del volontarismo, quando pareva che la Germania del Kaiser avrebbe messo le mani su Trieste cancellandone l’italianità; il pensiero corre dunque a Slataper e a un suo «mirabile articolo» L’avvenire nazionale e politico di Trieste («La Voce», 1912); e ad Angelo Vivante, di cui lo scrittore garantisce, su testimonianza di Slataper (nella fattispecie il commento al suicidio del socialista triestino apparso sulla «Tribuna» del 19 luglio 1915), la gioia per l’eventualità che Trieste venisse annessa

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al Regno. Ma ciò che più conta di questo saggio è, nella seconda parte (che «Il giornale di Trieste» titola, sintetizzandone bene il contenuto, La prima necessità di Trieste - Essere messa al riparo dentro i confini dello Stato cui appartiene: l’Italia), la rivendicazione della «necessità vitale» che Trieste rappresenta per l’Italia e, di converso, per Trieste l’Italia. La realtà è che l’Italia non ha più i suoi puntelli al confine orientale e che sotto la spinta di una pressione slava, può trovarsi da un momento all’altro sfiancata da una frana. Questo pericolo ancora non lo avvertono gli italiani lontani, ma lo avvertiamo noi triestini. Noi non siamo ciecamente nemici degli slavi, anzi […], ma dobbiamo essere pronti a difenderci, accordarci con quelli che intendono convivere con noi civilmente, ma decisamente smascherare gli altri, che vorrebbero con la violenza e la perfidia dei barbari, soppiantarci e sopprimerci, e opporci decisamente a essi. La realtà è che all’Italia è stata strappata con la forza una sua regione e per tre quarti consegnata alla Jugoslavia che ne ha fatto scempio.

Se Trieste venisse internazionalizzata, aggiunge Stuparich, così come chiedono gli indipendentisti, invocando la piena realizzazione delle clausole del TLT: non sarebbe preda, in tempo assai breve, dell’imperialismo Jugoslavo? (Ce lo grida a voce chiara l’Istria e in modo speciale la Zona B a cui sono state date tutte le garanzie internazionali). E anche quando a Tito si legassero le mani (cosa assai difficile) Trieste internazionalizzata nel quadro dell’Europa attuale, scadrebbe a un porto d’avventurieri.

«La prima necessità di Trieste», dunque, avvertita non solo da una minoranza intellettuale, ma dalla stragrande maggioranza dei suoi cittadini, è di essere messa al riparo dentro i confini dello Stato cui appartiene, di tornare all’Italia […]. Sarà la porta orientale dell’Italia, aperta a tutti quando da questa porte passeranno soltanto i bene intenzionati e gli uomini civili di qualsiasi nazione, ma non gli usurpatori […]. Certe volte noi, adombrati dalla paura di non essere abbastanza razionalisti, antisentimentali, antiretorici, cadiamo nell’errore di opporci alle vitali esigenze del nostro paese, alle legittime aspirazioni del nostro popolo, assecondando, senza volere, i piani degli stranieri contro di noi e ottenendo, in patria, l’effetto contrario a quello che ci eravamo proposti: nel caso nostro l’effetto di mettere in posizioni giustificabili e quasi vantaggiose proprio quei nazionalisti e quei retori che combattiamo.

Stuparich riprende il discorso in quella stessa primavera sulle colonne di «Trieste», «rivista politica giuliana» appena inaugurata (La funzione di Trieste, maggio-giugno 1954). «Questa regione», ribadisce, «oltre ad essere la porta orientale d’Italia, porta aperta tanto alle correnti pacifiche quanto alle incursioni ostili […] è un punto sensibile d’incontro, che può essere scontro o accordo a seconda del momento e della temperatura storica, fra tre mondi: il mondo latino, il mondo tedesco e il mondo slavo […]. Oggi, dopo la disfatta del nazismo, l’espansionismo slavo da oriente è in marcia»: Come nel passato l’italianità della regione poté ristabilire l’equilibrio e impedire ai tedeschi di allungare le mani sul Mediterraneo, così nel presente soltanto l’italianità

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della Venezia Giulia può arrestare nel Sud d’Europa la marcia dello slavismo che minaccia di sommergere le civiltà occidentali.

Insomma, Trieste in quanto polo irradiante di civiltà italiana baluardo contro il dilagare delle orde cosacche? (come a far capire, involontariamente, che spesso la retorica porta lontano dalla logica). Alla fine dell’anno interverrà di nuovo sullo stesso tema e nella stessa sede, il n° 4 della rivista (L’accordo per Trieste nell’opinione di personalità giuliane, nov.-dic. 1954). La città è stata restituita all’Italia, ma non mancano amarezza e recriminazioni. «Trieste», con un ampio giro di orizzonti, si propone di registrarle. Così Stuparich: Se devo esprimere liberamente il mio pensiero, io considero il memorandum d’intesa fra Italia e Jugoslavia un grandissimo successo per la Jugoslavia e un grave insuccesso per noi. Gabellarlo per un nostro successo è ridicolo e pericoloso, affermare che è il massimo di quanto si poteva ottenere è una furberia superficiale, consolarci col pensare che ci mette su un piano di parità con i nostri vicini è come dare una interpretazione controsenso alla favola del lupo e dell’agnello. In verità il solo a poter essere soddisfatto dell’accordo è il Maresciallo Tito (e dietro alle sue spalle la Russia), che si è impadronito dell’intera Istria prima con la nostra acquiescenza ed oggi, dopo l’accordo, col nostro consenso, e che mette le mani avanti su Trieste, dove potrà a suo agio, in una provincia governata a democrazia, manovrare “una minoranza che è più numerosa dall’intera popolazione della Zona B” (l’hanno già detto gli organi ufficiali della Jugoslavia, scoprendo le carte). Il memorandum è, dunque, quello che è: il risultato di debolezze, di impostazioni sbagliate, di senso di colpa e di inferiorità, che ci ha paralizzato fin dal principio; è insomma il risultato di una mancante visione delle necessità vitali d’Italia […]. Il memorandum è un bene solo nel senso che, sollevando le bende sulle mutilazioni e sulle piaghe che abbiamo subite, le ha definitivamente scoperte agli occhi di chi vuole vedere. Ma se domani, per nostra insipienza e incapacità, per un nostro incorreggibile e umiliante senso di inferiorità, dovesse facilitare l’ondata slava sull’ultima diga dei nostri confini orientali, meglio sarebbe stato fare subito il sacrificio di Trieste con un taglio netto d’accetta, che non lasciarla morire a poco a poco sotto i subdoli colpi di chi mira a sopraffarla.

Un compito difficile attende quindi, in egual misura, tanto gli italiani quanto i triestini: «gl’Italiani tutti si convincano che qui siamo stati messi in una difficilissima condizione di difesa e soltanto di difesa. […] I triestini sappiano essere all’altezza della grave ora e siano sempre disposti a preporre ai propri affari personali o agli interessi di categorie, non a parole ma a fatti, gli interessi della Nazione, al prestigio dei partiti le necessità della Patria». Aveva toccato il tema della concordia nazionale, che considerava evidentemente cruciale per una città che vedeva stretta d’assedio, in un precedente contributo di rilevanza politicoideologica di un anno che, in termini di periodizzazione, potrebbe essere visto come una fase a sé della saggistica per il suo particolare crescendo di tensione e di timori (destinati a lasciare nello scrittore strascichi indelebili): Come abbiamo atteso questo giorno (su «Epoca», 10 ottobre 1954). Vi si parla dell’anima di Trieste («l’anima di Trieste è italiana»), dell’abbraccio che ricongiunge «Madre e Figlia»,

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gioioso e insieme triste, (perché è un’Italia umiliata che ritrova, con Trieste, una Venezia Giulia mutilata), del tutt’uno che la città forma con l’Istria («non si dimentichi che Trieste è un corpo solo con l’Istria»). Ma, si ribadisce soprattutto, come avevamo anticipato, l'esigenza dell’unità e della concordia nella forma quasi di un appello rivolto alla cittadinanza per contribuire tutti alla «ricostruzione morale e politica [con] serietà e onestà»: Orbene, per l’anima che la muove e che la ispira, Trieste ha sempre tenuto e tiene tutt’ora fede all’Italia; non all’uno o all’altro Governo d’Italia, non a questo o a quel Partito italiano, non a questa o a quella classe sociale italiana, ma allo spirito unitario, essenziale, perenne d’Italia, a quello spirito che, prima ancora di riunire gli Italiani in uno Stato politico, ha creato e formato l’arte, il pensiero, la civiltà italiana. Non è lecito dunque confondere o equivocare. Nell’ora solenne in cui Trieste si ricongiunge alla Patria, cessano tutte le divisioni, le recriminazioni, le petizioni parziali, bruciano tutte le critiche che si potrebbero fare agli uomini del passato e del presente che hanno avuto ed hanno nelle mani il Governo e nella coscienza la responsabilità del destino d’Italia. Domani ognuno riprenderà il suo posto, dovrà rispondere di quello che ha fatto e non ha fatto. Oggi nell’incontro e nell’abbraccio di Trieste con l’Italia c’è qualche cosa di commovente: sotto tutte le manifestazioni rumorose e spiegate c’è qualcosa di taciuto che tocca il cuore. […] L’Italia d’oggi è venuta a cimentare a Trieste la propria capacità di risollevarsi, dopo aver scontato fino in fondo i propri errori e le proprie debolezze. E Trieste, i triestini sanno che mai, come oggi, essere uniti, solidali con la propria nazione, vuol dire impegno severo a collaborare con i propri fratelli a un’opera consapevole di ricostruzione morale e politica, di rigenerazione dei quadri dirigenti, di serietà e onestà in tutti i campi, dall’umile fatica giornaliera all’attività più altamente creatrice.

Completato il quadro degli interventi dell’anno, diviso dall’importante crinale del memorandum d’intesa, bisognerà chiarirne ancora qualche punto, tenendo presente, sullo sfondo, l’ossimorica e travagliata condizione interiore dello scrittore. Il senso di accerchiamento e di minaccia che dolorosamente incupisce il lunghissimo dopoguerra dei triestini e specialmente di coloro che più si erano adoperati in passato per il trionfo dell’italianità, spinge Stuparich a prese di posizione astiose, dove riemergono, sotto il diniego politico e morale per un sistema liberticida, antiche diffidenze («l’espansionismo slavo da oriente è in marcia», «la marcia dello slavismo che minaccia di sommergere le civiltà occidentali»). Del tutto nuovo il motivo della «necessità vitale» di Trieste per l’Italia, nella sua torsione piuttosto “strategica” che etico-civile. Si ha l’impressione che Stuparich reduce, come ha spesso ribadito nei saggi del 1954, da un’attenta rilettura di Slataper, avesse acquisito, come lente per leggere (e raccontare) il presente, certe formule dell’ultimo Slataper, l’interventista impegnato per la guerra sulle colonne del «Resto del Carlino» e il panflettista che si era speso per la causa nazionale invitando alla conquista dei «confini necessari» per l’Italia, dopo aver chiarito, con la schiettezza sua propria, che «confini naturali» significava in effetti «militari»:62 un’esigenza di sicurezza e di espansione, asseriva, di fronte alla quale anche il principio di nazionalità diventava, in ultima analisi, un 62 Slataper, Scritti politici, cit., 1954, p. 286.

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fattore trascurabile.63 Discorso comprensibile forse nel 1915, ma ingenuo nell’Europa degli anni Cinquanta, nella quale si contrapponevano due poderose alleanze munite di tutti i più moderni strumenti di guerra. Del resto, nell’eventualità di un conflitto, ma era un particolare che forse Stuparich ignorava, il primo fronte di difesa contro un eventuale attacco dall’Est era stato previsto sul Tagliamento e Trieste reputata indifendibile, per la sua posizione geografica, sarebbe stata abbandonata a se stessa, ovvero consegnata al “nemico”. Men che meno dunque “città baluardo” («ultima diga dei nostri confini orientali» da contrapporre a una «ondata slava»), se non nel senso, ancora slataperiano, di segnacolo di cultura e civiltà. In effetti – vista la palese ovvietà di questa fragile posizione strategica – è lecito pensare che il lessico duro, le espressioni violente, le formule militari di questo 1954, valgano come rinforzi metaforici per asserire la volontà risoluta di non cedere mai, sul piano diplomatico, politico, ma soprattutto culturale, a pressioni snazionalizzanti.64 Per quanto riguarda l’esortazione all’unità di intenti e di opere, non si dovrebbe, credo, assegnarle troppa importanza: era, è vero, la parola d’ordine degli ex-fascisti (e presto del vigoroso movimento neo-fascista triestino) che non si stancavano di rivendicare il loro ruolo di perno di un movimento di difesa nazionale per il quale facevano appello a tutti i partiti italiani, invitandoli a una santa alleanza tricolore che avrebbe dovuto stingere le appartenenze ideologiche e cancellare le contrapposizioni del passato; ma sulla sincera fede democratica dello scrittore non ci possono essere, mi pare, dubbi di sorta. Rivolgendosi agli «amici» della rivista «Trieste», Stuparich aggiungeva inoltre in data ottobre 1954 (nel citato L’accordo per Trieste, ecc., nov.-dicembre), un'importante precisazione che ci dà la preziosa conferma della sua volontà di abbandonare il primo piano della ribalta politica (e di sottrarsi ai triboli dell’agone polemico), per riprendere il suo posto nelle fertili coulisses dove coltivava il suo impegno d’artista. Voi mi chiedete cosa io pensi del memorandum d’intesa tra Italia e Jugoslavia. In quest’ora grave, da cui si inizia un nuovo periodo nella faticosa storia della nostra Trieste, sento tutta la responsabilità della mia risposta. Perciò, dopo averne dolorosamente dibattuto i termini dentro di me, ho l’obbligo di darvi una riposta franca e decisa. Tanto più che desidero ch’essa sia considerata come un mio testamento politico. D’ora in poi non chiedetemi più di parlare o scrivere d’argomenti che toccano la nostra situazione politica. Dal 1945 ad oggi io sono intervenuto varie volte, in questo campo, con discorsi e con scritti in cui ho espresso tutto il mio pensiero e ho cercato di tracciare quella linea di condotta che a me è sembrata più dignitosa e più degna della Patria della quale facciamo parte. Tocca ora a voi, alle generazioni più giovani, di trarne le conseguenze, o di battere altra strada, dimostrando che ho sbagliato. 63 Cfr. Slataper, L’insufficienza del principio nazionale, in Id., Scritti politici, cit., pp. 288 e segg. 64 Accenti simili, ma in questo caso da prendere alla lettera, si leggono nei Diari di Biagio Marin, intellettuale e poeta dall’etimo ideologico ormai non troppo distante da quello di Giani, che, negli anni dell’immediato dopoguerra, prevede la possibilità di un nuovo conflitto per strappare l’Istria agli Jugoslavi. Annota nel 1946: «al prossimo traguardo storico dovremo rifare i conti e risalire ai confini naturali dell’Italia» (p. 270). E nel 1947: «a riscattare l’Istria ci vorrà forse una guerra, a riavere Trieste forse meno, ma sempre gravi sacrifici» (p. 305).

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Un addio, dunque? Sì, se non vogliamo intendere la parole in senso troppo angusto. Del resto la morte della madre, nel 1953, ha avuto sullo scrittore un «effetto tragico»65 come ha rivelato la figlia, signora Giovanna, a Renato Bertacchini. Che va ad accentuare la sua amara consapevolezza del momento presente: da lui vissuto come spettatore attonito del declino irreversibile della città che amava, partecipata con quella sensibilità ai fatti della vita civile, politica ed economica che è un lato ineliminabile della sua articolata personalità intellettuale. Nel 1952, in un intervento sui generis a proposito di Trieste (Trieste, città allegra e drammatica66), particolare anche per la sede in cui viene collocato («Quaderni A.C.I.», Torino, marzo 1952), Stuparich aveva cercato nuovamente di definire la natura della sua città (ma leggiamo bene: è quasi un autoritratto!), collocandola, slataperianamente, nel segno della contraddizione («due tendenze in contrasto»): «L’istinto di conservazione, di difesa propria e della civiltà cui appartiene, la chiuderebbe in sé, la farebbe gelosa, ostinata, diffidente, conservatrice; ma la sua vitalità la fa traboccare, la rende sensibile e aperta al progresso e agli scambi, fiduciosa nell’avvenire». Il suo compito? «Ingrato e difficile». La sua missione? «Grave e delicata». Come sempre dove vibra «l’inquietudine dei posti avanzati». Lo scrittore cominciava a rendersi conto, che, in prospettiva epocale, la scommessa era stata perduta, e che Trieste, chiusa verso l’est, chiusa verso il nord, ostile a una parte non insignificante di se stessa, aveva ormai imboccato una strada di ripiegamento provinciale? Italiana, nelle forme di vita e nelle prospettive, come ogni altra città della penisola, ma del tutto priva ormai di una missione di civiltà, di quella capacità di “irradiamento” che ne aveva caratterizzato il passato asburgico? Era ciò che stava in effetti avvenendo: una resa incondizionata all’identità piccolo borghese del commercio minuto e del ceto impiegatizio, con le domeniche passate al caffè o al cinema, i piccoli giochi di potere del notabilato, all’ombra del Palazzo Comunale, per una prebenda, una consulenza, una presidenza, l’ossessionante fobia nei confronti degli “s’ciavi”. Un’implosione di sogni e di energie dentro il cartiglio di un destino di provincia cui anche Stuparich, in fondo, con i suoi accomodamenti e le sue chiusure, non aveva saputo reagire. Quella Trieste «carica di destino» che aveva voluto descrivere nell’autobiografia («nei tempi che seguirono immediati all’altra guerra, credo che pochi altri centri in Europa fossero così carichi di destino come Trieste. E non è senza correlazione e significato profondo che Trieste torna ad essere anche in questo dopoguerra carica di destino, non solo rispetto a sé ma all’Italia e all’Europa»67) si era dimostrata incapace di guardare oltre i reticolati di filo spinato di un confine soffocante e minaccioso che la stringeva da presso e che, in questo caso non per 65 Bertacchini, Stuparich, cit., p. 150. 66 A questo contributo stupariciano dedica una fine lettura E. Pellegrini, Le città interiori, Moretti e Vitali, Bergamo, 1995, pp. 90-93. 67 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 38.

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colpa sua, era ben lungi dal diventare «quasi invisibile» secondo l’auspicio di Carlo Sforza nel 1948. Compito forse impossibile dove erano stati avvertiti, con contraccolpi psicologici, etici e politici assai più gravi che in ogni altra parte del Paese, i traumi del disfacimento dello Stato fascista, dell’occupazione straniera, della separazione dall’Italia, dell’esodo, e dove ancora si doveva guardare al futuro con occhio titubante e timoroso. E ancora più difficile – bisogna sottolinearlo con forza – se, allungando con fatica lo sguardo sull’Europa e sul mondo, si finiva per ritrovare lo stesso panorama desolato, le stesse identiche perplessità, gli stessi drammi che si potevano scorgere affacciandosi alle finestre di casa. Scrivendo vent’anni dopo di una città amata, odiata e rinnegata Ferruccio Fölkel, scrittore e poeta in dialetto, avrebbe sollevato un quesito assai simile – ancorché svolto sul terreno dei valori civili piuttosto che della prosperità economica – al nodo di problemi che attanaglia Stuparich: Settant’anni per sorgere. Cento per fiorire, altri settanta per decadere. Non oggi risorgerà. Non domani. Trieste riprenderà la sua funzione di amalgama quando il suo volto non avrà più bisogno d’esser rifatto. Quando avrà certificato funzione e identità. Finite le nazionalità e i nazionalismi, non le Nazioni.68

Ad ogni modo, per chi ormai viveva la propria vita come parte indissolubile di quella dei concittadini (così Stuparich del proprio stato d’animo negli anni dell’occupazione tedesca: «io mi sentivo aderire alla mia città come non mai, la sentivo fremere dentro di me […] mi ritrovavo nell’essenza stessa, anonima e calda, del mio popolo»69) significava precipitare indietro, acquisendo l’habitus del “giuliano tipico”. Quella figura su cui tanti anni prima aveva ironizzato, lo abbiamo scritto, l’intelligente Prezzolini: tutti, diceva, i Trentini, i Triestini e i Dalmati (salvo Slataper), incapaci di parlare se non «provincialmente», “schiacciati”, senza rendersene conto, dal peso opprimente del campanile di casa. 70 Come ha giustamente evidenziato Damiani gli ultimi, più brevi contributi di intonazione civile sono querimoniosi cahiers de doléance che sposano incondizionatamente l’amarezza diffusa in città: volersi differenti, ma non sapere come, ambire a qualcosa di più, ma senza muovere un dito per ottenerlo, sognare in grande ma con lo sguardo rivolto al passato. Astiosi contro tutto e tutti: contro i “barbari“ dell’est, in primo luogo, che aggiungevano al loro peccato originale (non essere italiani) e alle loro colpe storiche (fresche o invecchiate) quella, destinata ad acquisire proporzioni colossali negli anni Settanta, di comprare cianfrusaglie sulle bancarelle del Ponterosso piuttosto che copie della Divina Commedia in libreria; e perfino contro l’Italia matrigna, patria odiosamata e insensibile (a poca distanza di tempo, nel corso degli anni Sessanta, Manlio Cecovini, scrittore e politico, capofila di 68 F. Fölkel - C. L. Cergoly, Trieste provincia imperiale - Splendore e tramonto del porto degli Asburgo, Milano, Bompiani, 1983, p. 223. 69 Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 190. 70 Prezzolini, Diario, 1900-1941, Rusconi, Milano, 1978, p. 143. La nota risale al 13 dic. 1914.

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un movimento che chiedeva con forza ampi spazi di autonomia, avrebbe osservato, celando un rimprovero ai connazionali nella formulazione accomodante: «Non vi facciamo nessuna colpa di non conoscerci abbastanza»71). Da Trieste si emigra, scrive accorato Stuparich sul «Tempo» nel 1955, Hanno ridotto Trieste un porto di pescatori, lamenta su «Italia domani» nel 1959 (un intervento polemico che «Il Lavoratore» di Trieste ripubblicò qualche mese dopo). Intanto però non ha cessato di essere il fedele custode di fuochi ormai spenti: ha voluto celebrare per l’ultima volta, nel 1957 al Circolo della Cultura e delle Arti, l’amico caduto sul Podgora, dopo averne curato, nel corso di quel decennio l’Epistolario (1950) e gli Appunti e note di diario (1953). Il mondo va per la sua dura strada, e le parole di Stuparich conservano un tono teneramente inattuale, sebbene non privo di una limpida nota che accenna alle tragedie del presente e lascia balenare per il domani qualche fiammella di speranza. Il 16 marzo 1958 pronuncia, al teatro Verdi di Trieste, un lungo discorso per il centenario della nascita di Guglielmo Oberdan. In esso l’accento cade, in primo luogo, sulla figura storica e morale di Oberdan, in un’analisi obbediente al «dovere d’allontanare da Lui ogni alone di rettorica per porlo in quella luce che è la sola degna della Sua grandezza: la luce della nuda verità».72 In realtà, l’andamento del discorso è quello esaltato e commosso di una predica dal pulpito, e in essa Stuparich assume il solito ruolo di profeta della religione della patria, intento a tessere l’agiografico racconto di colui che ha scelto il sacrificio «con la tranquillità e la sicurezza dei primi martiri cristiani».73 Per tanto, lo stile ribalta l’assunto antilirico del volume di Francesco Salata cui Stuparich dichiaratamente attinge per la ricostruzione dello sfondo storico e della vicenda esistenziale di Oberdan («In nessuna di questa pagine ha parte anche minima il lirismo», 74 aveva chiarito Salata) tendendo invece a una mozione degli affetti che deve, prima che convincere, commuovere e trascinare. Su uno sfondo di costanti rimandi al primo profeta del Risorgimento, Mazzini,75 e con qualche minimo spunto identificativo: «molte e complesse circostanze storiche e maturate vicende concorsero, nel 1915, a portare l’Italia in guerra contro l’impero austro-ungarico e a far affluire schiere di volontari giuliani nell’esercito italiano, ma l’essenza delle ragioni per quell’intervento e per quell’avvenimento storico era già tutta nel martirio di Guglielmo Oberdan».76 71 M. Cecovini, Discorso di un triestino agli italiani e altri scritti politici, LINT, Trieste, 1968, p. 20. 72 Stuparich, Commemorazione di G. Oberdan, in Frosini, La famiglia Stuparich, cit., p. 175. 73 Ivi, p. 193 74 F. Salata, Guglielmo Oberdan. Secondo gli atti segreti del processo. Carteggi diplomatici e altri documenti inediti, Zanichelli, Bologna, 1924, p. V. 75 Che continuerà a rappresentare una delle figure più praticate dal saggista, come indicano per esempio le conferenze tenute nel 1957 al Liceo Dante di Trieste sul tema dell’Insegnamento letterario di Mazzini, inedite (e introvabili), salvo l’ultima pubblicata nel 1973 dal «Bollettino della Domus Mazziniana». 76 Stuparich, Commemorazione di G. Oberdan, p. 178.

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Ciò che più importa notare, tuttavia, a ulteriore conferma di un ruolo che Stuparich aveva assunto già nei grandi discorsi del 1948, è la finalità di questa oratoria, non auto-referenziale, sterile occasione di voli pindarici, ma da intendere invece, secondo le espresse intenzioni, come un solenne e transitivo atto di fede patriottica: le nostre generazioni stanno uscendo appena da un periodo storico di tali sconvolgimenti e sofferenze, di tali prove e strazi per tante creature, che la nostra misura di fronte all’azione umana s’è fatta molto più esigente che non fosse alla fine dell’altro secolo e al principio di questo. La nostra esperienza ci ha resi scettici e guardinghi, direi quasi indifferenti. Ora, è a questa coscienza, esperta e delusa, stanca e diffidente dell’epoca nostra che noi dobbiamo accostare la figura di Guglielmo Oberdan […]. Avviene nella storia che gli uomini impigriscano nelle comodità e nel corso delle vicende cotidiane, ma di tanto in tanto sorge qualcuno ad ammonirli che c’è qualche cosa di diverso, e questo qualche cosa è imposto, non dalle circostanze materiali, ma da esigenze spirituali più profonde, che determinano il destino dei singoli e dei popoli.77

E sono esigenze, commenta Stuparich, che chiamano all’appello col «fulgore del martirio»78 del primo eroe della città, eroe attualissimo nel particolare momento vissuto dall’Italia e da Trieste in particolare, tale da spiegare tanto l’impegno militante dell’oratore, quanto l’idealizzazione della città per la quale scende in campo: Oggi Trieste che non può dimenticare le sue piaghe recenti, la mutilazione dell’Istria, le sofferenze degli esuli, si stringe intorno al Suo Martire e rinnova il patto con lui di conservarsi quella ch’è stata nei secoli da sempre: incrollabilmente italiana. Nel nome di Guglielmo Oberdan, Trieste si ribellerebbe con risolutezza a chiunque, adducendo ragioni d’opportunità, volesse obbligarla a snaturarsi; respingerebbe con sdegno qualunque imposizione, da qualunque parte le venisse, oggi o domani, di lasciar inquinare la propria italianità. Trieste ha dato prove bastanti ed efficienti d’esser civile, altamente civile e aperta a tutte le correnti più avanzate: alla fraternità dei popoli, all’Europa unita, alla pace duratura fra le nazioni, ma intende mantenersi quale è sempre stata, serbar fede ai suoi padri, tener alta la fronte, esser degna del sacrificio di Oberdan […]. Guglielmo Oberdan non tramonta perché i sentimenti generosi non possono tramontare nell’umanità […]. Guglielmo Oberdan […] è come la fresca vena che ripullula su dall’amarezza e dallo scetticismo e che ci conforta a non disperare dell’umanità. Per noi triestini egli è ancora e sempre l’esempio umano e civile che ci incoraggia a sostenerci nella nostra difficile posizione storica, con coerenza e con abnegazione, anche quando non siamo compresi o compresi male. Perché qui a Trieste non possiamo concederci riposo, qui è l’eterna vigilia, qui ogni nostra franamento è frana per l’intera nazione. È Oberdan che ci aiuta in questa preveggente coscienza, in questa difficile missione.79

77 Ivi, pp. 175, 178. 78 Ivi, p. 178. 79 Ivi, pp. 179, 196

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A qualche mesi di distanza un nuovo, impegnativo cimento pubblico: il discorso commemorativo del 1958 I caduti per la Patria del Liceo-ginnasio Dante Alighieri, occasione oratoria dove, dopo l’usuale rassegna di volontari giuliani caduti contro l’Austria, emerge un riflesso, ma tradotto esclusivamente sul piano psicologico e morale, del momento difficilissimo attraversato dall’Europa e dal mondo (solo due anni erano passati dalla sanguinosa repressione della rivoluzione per la libertà in terra ungherese, che aveva amaramente chiarito cosa si dovesse intendere per “coesistenza pacifica” tra i due blocchi e proprio nei giorni di questo discorso Berlino80 era nuovamente nell’occhio del ciclone della diplomazia internazionale). Aspetto questo, particolare e significativo, che non si può mancare di mettere in rilievo: Può avvenire in certi momenti della storia che il concetto di Patria sia come sospeso in un dubbio, in una incertezza. E noi oggi stiamo attraversando uno di questi momenti. Siamo in cerca d’una più vasta comunità. Bello certamente sarebbe che l’umanità, superato il tremendo problema, che l’assilla, dell’equilibrio e della pacificazione, giungesse a una civile gara di popoli per il benessere universale; allora potrebbe avverarsi quell’aspirazione che fu di alcuni spiriti eletti di tutti i tempi: una sola famiglia articolata nell’armonia di tutti i suoi membri, una Patria sola. Ma siamo ancora nel campo dei sogni, dei tentativi. Con tutti progressi della scienza e della tecnica, che hanno bruciato le distanze e resa efficace la simultaneità degli avvenimenti, con tutti gli anelli che uniscono oggi gli uomini tra loro, con la coscienza che si va formando della complementarità delle regioni, dei paesi, dei continenti, con i validi impulsi a creare dovunque “cittadini del mondo”: con tutto questo ed altro, le discordanze che ancora sussistono, i solchi che dividono la nostra umanità sono così molteplici e profondi da obbligarci a riconoscere che il cammino per arrivare a quella mèta ideale è immensurabile. E che i passi da fare per giungervi sono ancora molti e più difficili

80 Cogliendo qui l’occasione, sarà interessante ricordare almeno in nota, a indicare la generosità umana e intellettuale di Stuparich (e, direi, una certa sua lungimiranza relativamente ai movimenti di opinione), il fatto che nel 1955, rendendosi forse conto della sopravvivenza di atteggiamenti di sospetto, se non di ostilità, nei confronti della Germania (e si intende naturalmente la Repubblica Federale Tedesca) che nel 1954 era entrata a far parte, con l’Italia, della Comunità Economica Europea, egli scrisse due articoli sulla «Nuova Stampa», Resistenza in Germania - La Rosa Bianca, 13 ottobre, Combattenti tedeschi - Ultime lettere da Stalingrado, 18 novembre, per mostrare come anche nella Germania nazista, il “male assoluto” politicamente parlando, non fosse mancata un’opposizione al regime, di uomini, in questo caso ispirati da valori religiosi (il gruppo, appunto della “Rosa Bianca”) pronti a pagare con la vita il loro amore per la libertà, e che, anche il soldato tedesco, nonostante Hitler, la follia dei capi e l’ideologia razzista del regime, coltivasse valori di umanità che gli facevano amare la famiglia e la patria. «Ancor oggi, dopo tanti anni», scrive nel secondo intervento, spiegando implicitamente anche le ragioni della sua operazione, «noi propendiamo a credere che tutti i tedeschi della Germania fossero, ai tempi di Hitler, degli assassini e i soldati delle belve […] fanno bene perciò i tedeschi a recuperare dalle rovine morali tutti quei documenti che servono a ristabilire la loro dignità umana» (Combattenti tedeschi - Ultime lettere da Stalingrado, in Arosio, a cura di, Stuparich, Il guardiano del vecchio faro e altri scritti dispersi, cit., p. 141). Una preoccupazione “europeista” di cui si fa carico specialmente in relazione al rapporto tra tedeschi e latini, e che trova espressione anche in certuni dei discorsi radiofonici degli anni Cinquanta raccolti in Piccolo cabotaggio, dove indica come unica salvezza per il continente, ancora nel segno di Mazzini e dell’associazione delle Patrie, una «nuova e più solida unificazione d’Europa» (ERI, Roma, 1955, p. 141). Resta il fatto però che nel suo europeismo pesa maggiormente la forza inerziale del passato (ma dove se non lì poteva trovare radice un nuovo senso civico europeo?) che un ben fondato anelito di futuro ed è comunque un europeismo che guarda ad Ovest e mai ad Est.

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di quelli che finora si sono fatti per avvicinarsi ad essa. Allora noi che, per cercare una più vasta comunità, eravamo pronti ad oltrepassare fiduciosi i limiti della nostra Patria, ritorniamo a questa con un senso di commossa partecipazione e raccoglimento, come chi avventuratosi fuori di casa propria nella speranza di sistemarsi in una casa più ampia e più moderna, trovandosi invece nella realtà davanti a un cantiere appena agli inizi, pieno di confusione e di inquietudine nel suo farsi e disfarsi, torna ai propri vecchi muri e con riconoscenza li risente ancora come il riparo migliore che gli sia dato nella vita trambustata. Per questa ragione profonda, pur non perdendo le speranze nell’avvenire, noi torniamo riverenti a coloro che ci insegnano che la Patria non muore, che vive per il sacrifizio e oltre il sacrifizio delle loro vite, torniamo a coloro che al culto dell’umane lettere, della nostra civiltà mediterranea hanno attinto la persuasione dell’idea e la fermezza delle azioni nei momenti più gravi e decisivi in cui la Patria chiama.81

Momenti gravi e decisivi. Cui Stuparich reagisce, sul terreno della cultura, accentuando la consapevolezza di appartenere a una schiera eletta che ha manifestato e difeso, per fare eco a Thomas Mann, i valori della nobiltà dello spirito. 82 Commuovono, negli ultimi anni della sua vita, alcune prose in memoria di amici scomparsi, Umberto Saba e Virgilio Giotti (sul «Tempo» del 6 ottobre e del 17 dicembre 1957, Solitudine di Saba e L’addio del poeta): non retoriche commemorazioni, ma accorati addii a compagni di vita che lo avevano preceduto là dove anch’egli stava avviandosi. Se di tanto in tanto qualche timido raggio di sole intiepidisce l’autunno di un uomo segnato dagli anni, e che si affretta allora a mettere mano alla penna (La nostra Europa, sul «Tempo», 4. III. 1959, con l’auspicio di un nuovo protagonismo europeo nella vicenda della civiltà, Speranze di giusta pace, ancora sul «Tempo», 6. I. 1960 che saluta la politica di “coesistenza pacifica” tra Est e Ovest e le proposte di disarmo avanzate da Kruscev, e tanti tanti assolati e accorati “ricordi istriani”, di cui farà un volume la Pittoni nel 1961), Stuparich è tuttavia incline a chiudersi difensivamente in un piccolo pomerio di inveterate abitudini e di scelte frequentazioni, circondato dalla stima della città, dall’affetto dei figli e con la vicinanza affettuosa della compagna. Conserva però l’amarezza di una lotta impari e forse perduta di cui i suoi occhi ipersensibili credono di scoprire, intorno a sé, esagerandoli, infiniti segni rivelatori. Una lotta che rode, esaspera, esaurisce. Aprendo il cuore all’amico Frosini, che ne raccoglierà, dopo la morte, ricordi e pagine sparse, così si lamenta della subdola invadenza degli slavi: inquinano a poco a poco la città, hanno un piano lento e ostinato, organico per conquistarla del tutto col tempo e fare dell’Adriatico un mare loro. Con l’Istria ci sono 81 Stuparich, I caduti per la Patria del Liceo-ginnasio Dante Alighieri (1958), discorso tenutosi il 21 novembre nell’Aula Magna del Liceo triestino, ora in F. Salimbeni, a cura di, «Quaderni giuliani di storia», Anno X, n°2, cit., pp. 267-268. 82 Come si è detto, vanno in questa direzione anche le radioconversazioni pubblicate nel 1955 con il titolo di Piccolo Cabotaggio e nelle quali – con non poche assonanze con la Contemplazione del disordine (1946) di Silvio Benco, un libro che irradia un sentore di apocalisse – lo scrittore, è stato osservato, «prende posizione, in termini di severo giudizio, di recisa condanna o di polemica, nei confronti del mondo attuale» (Maier, Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, cit., p. 257).

Voce della «città esclusa»

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già riusciti. Avvilisce il fatto che di questo pericolo gli italiani non sanno e non vogliono accorgersi. E anche parecchi triestini fanno come gli struzzi o seguono piuttosto la via più facile degli accordi-trappola, nascondendo sotto la loro acquiescenza vergognasi patti in vista di interessi personali. Ma non voglio rattristarti.83

La nevrosi dell’uomo anziano – quello stesso che, tanti anni prima, la Trieste liberal-nazionale aveva tacciato di “slavofilo” – rispecchia ora fedelmente la sindrome di una città tutta intera, incapace di pensarsi, prima ancora che di essere, culturalmente e moralmente all’avanguardia in Europa. Una città, ha scritto Apih agli inizi degli anni Novanta, che «le vicende della storia hanno improvvisamente impoverita di contemporaneità e ancorata al passato», arenata dentro il travaglio di «un rinnovamento culturale non ancora concluso». 84 Nel corso degli anni Trieste dovrà ancora sperimentare un periodo di duro arroccamento municipalistico, la fase della “Lista della Trieste” come forza politica egemone, e quindi, siamo al presente, l’alterna egemonia politica di un centro-destra così povero di idee da dover coltivare nostalgie “littorie” per fingere di averle e di un centro-sinistra post-ideologico, a disagio tanto con i grandi principi che con la normale amministrazione. L’erma di Giani Stuparich, nel Giardino Pubblico di Trieste in buona compagnia con tante piccole e grandi glorie cittadine, assiste intanto impassibile al lento, inarrestabile declino (prima morale che economico) della città e del Paese tanto amati.

83 La lettera di Giani Stuparich, del 15 gennaio 1959, si legge in Frosini, La famiglia Stuparich, cit., p. 223. 84 Apih, Carlo Schiffrer, Studio Tesi, Pordenone, 1993, p. 24.

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Indice

A Abba 261 Abruzzese 86, 91 Accetto 208 Adamoli 261 Addis Saba 220 Adler 66 Aga Rossi 177, 206, 229,234, 279 Agnelli 61 Agnoletti 126 Agosti 212 Agostini 118 Airey 236 Alatri 127, 131, 159 Alberti 12, 13, 131, 141 Albertini 159 Albrecht 106 Albrecht-Carrié 193 Alboino 153 Alessi 178 Alfassio Grimaldi 220 Alfieri 268, 272 Indice dei nomi

Algostino 251 Alicata 30, 224, 226 Alvaro 240, 275 Ambrosini 87 Ambrosoli 132, 134 d’Amelia 50, 51 Amendola 80, 84, 86, 129, 159, 194, 196, 197 Andreotti 255 Angiolillo 284 Anselmi 246 Antignani 51 Apih 8, 23, 24, 26, 28, 54, 57, 62, 71, 104, 105, 118, 123, 141, 147, 148, 149, 154, 156, 162, 165, 166, 168, 176, 182, 190, 191, 192, 200, 204, 205, 214, 227, 231, 238, 276, 281, 296 Apollonio A. 140, 141, 166, 175, 185, 215 Apollonio U. 233 Ara 40, 45, 106, 123, 149, 152, 167, 191, 257, 267, 282 Are 106 297


Arfé 185 Arosio 45, 211, 284, 294 Asor Rosa 25, 80, 83 Attila 258 Avagliano 225

B Bach 100 Badoglio 227 Baernriether 71, 94 Baioni 17, 192, 246 Bakunin 113 Baldini 35, 211 Balduino 78 Bandi 261 Banti 49, 57 Baranelli 30 Baravelli 172 Barbusse 43 Baroni 8, 22, 47, 56, 57, 88, 106, 129, 239 Barrili 261 Bartol 236 Bartoli 248, 275, 282 Barucci 190 Barzini 93, 107 Bassani 240 Basso 263 Bastianelli 25 Battisti 73, 198, 204 Bauer O. 59, 60, 61, 66, 70, 71, 100, 108 Bauer R. 215, 284 Belardelli 14, 16, 129, 205, 218 Bellieni 140 Benco D. 21 Benco S. 10, 33, 40, 89, 141, 146, 152, 153, 154, 162, 171, 175, 178, 227, 238, 253, 268, 274, 275, 295 Benedikt 105 Beneš 198 Benevento 26, 38 Ben-Ghiat 29, 30 Benussi 8, 22, 34, 47, 126, 239 Benvenuti 241 Benzoni 137 Bergamo 177 Bergson 79, 85, 150

Bernasconi 210 Bernes 147 Bernstein 66, 72, 73 Bernt 217 Bertacchini 8, 36, 78, 91, 117, 213, 245, 290 Berti 248 Bertuzzi 251 Bianchi 143 Biecker 241 Biegel 50 Bilenchi 28, 30 Biondi M. 78, 81, 82, 83, 85 Biondi N. 234 Bismarck 269 Bissolati 63, 132, 134, 159, 195, 204, 210, 247 Bizzoni 260, 261 Bled 67 Blondel 134 Bo 28 Bobbio 131, 215, 216 Bocchi 132 Boine 80, 86, 114, 115 Bolton King 191 Bon 220, 221 Bonomi 132, 134, 174 Bonsaver 30 Borgese 25, 157, 196 Bottai 206, 222, 223, 224, 226 Bottero 41, 213 Bovio 56 Brahms 69 Brambilla 13, 15, 17, 47 Branca 268 Brancaccio 72 Bressan 50, 236 Brezina 98 Brocchi 190 Brunner 235 Buchignani 42 Buffaria 42 Buffarini Guidi 218 Burrow 202 Buttino 202 Buzzati 229, 230

298


C Cafagna 16 Caffi 170 Cairoli 50 Calamandrei 20, 34, 238, 239, 265 Calvino 30 Camber Barni 52, 146 Cammarata 255 Camon 49 Campailla 89 Campi 49, 59 Camuffo 81, 230 Camurri 216 Candeloro 42 Cankar 236 Cannistraro 31, 212 Cantoni 7 Capecchi 40, 135 Caporella 53 Caprin Giulio 119 Caprin Giuseppe 275 Capuzzo 13, 183 Cardini 134, 195 Carducci 53, 88, 262 Carinci 117 Carlo d’Asburgo 61 Carli 30, 31 Carlyle 120, 201 Carocci 38, 39, 182 Caroncini 129 Carpi 79, 87 Carrà 157 Casini 34 Catalan 49 Cattaneo 135, 269 Cattaruzza 13, 15, 17, 54, 60, 61, 70, 149, 168, 175, 182, 250, 254, 268, 276, 282 Cavour 243, 269, 283 Cecchini 177 Čechov 36 Ceconi 50 Cecotti 234 Cecovini 238, 291, 292 Cergoly 257, 291 Cervani 13, 17, 53, 128, 230, 246, 247, 281 Četinja 62

Indice dei nomi

Charmatz 109 Checchi 261 Chersi 17 Chiarini 279 Chiereghin 279 Ciampini 268 Ciano 32 Cicognani 41 Ciliga 172 Clam Martinic 199 Claudel 79 Cobolli-Gigli 220 Coceani 220, 283 Coen 216 Cohen 106 Colajanni 58 Colapietra 63, 131, 195, 204 Cole 60, 69 Collotti 217, 219, 230 Colorni 216 Colummi 15, 16 Comba 129 Comenius 97, 112, 117, 120 Contarino 31 Contorbia 34 Cornwall 70, 106 Corradini 106 Cortellessa 132 Cosentino 23 Costa 261 Cotroneo 271 Crémieux 41 Criscione 51 Cristo 126, 238, 39, 277 Croce 37, 64, 79, 80, 81, 82, 84, 85, 115, 120, 126, 150, 184, 202, 212, 240, 247, 262, 271, 272, 273, 274 Cuomo 190 Cusin 16, 22, 53, 230, 257, 281 Cuttin 153

D Dallolio 23, 26, 141, 147, 182, 190, 191, 205, 207 Damiani 8, 49, 50, 52, 53, 106, 129, 138, 165, 214, 242, 275, 283, 291

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D’Annunzio 126, 127, 146, 157, 159, 179, 181, 260, 273 Dante 52, 53, 78, 88, 235, 248 D’Auria 196 De Caro 183 De Castro 13, 19, 233 De Donato 31 De Felice 131, 206, 220, 238, 240 De Feo 202 De Franceschi 267 De Gasperi 253, 255, 279 Degl’Innocenti 186 De Grand 222, 223 Del Boca 253 Delcroix 207, 208, 209, 210 Della Peruta 73 Dell’Erba 120 De Luna 266 De Michelis 24, 155 De Nicola 29 Depangher 236 De Robertis 82, 87 De Rosa 240 De Ruggiero 239, 240 De Sanctis 11, 81, 150, 269, 272, 273 De Simone 225 Dessardo 282 Devescovi 90, 146, 152 De Viti De Marco 134, 156 Di Nolfo 174 Dionisotti 263 Di Sante 243 Dobran 258 D’Orsi 132 Dostojevsky 114 Drago 50 Dudan 93 Duranti 220 Düllfer 134

F

E

G

Einaudi 156 Elody 41, 51, 90, 91, 127, 136, 146, 203, 217, 221, 230, 231 Engels 59, 60 Esposito 229

Gadda 40 Gaeta 199 Galante Garrone 73, 74, 132, 192, 208, 213, 265 Galilei 235

Fabbri 145 Fabre 218 Facchinetti 135, 139, 177, 178, 191, 216 Falqui 284 Fanelli 30 Fantoni 143 Faraone 218 Farinacci 219, 220 Federico II 120 Federzoni 217, 226 Ferrata 37 Ferrero 229 Ferretti 263 Feuerbach 113 Filoramo 14, 16 Finelli 131 Finocchi 23 Finocchiaro 131 Finzi 13, 15, 141 Finzi (Haydée) 51 Fiorentino 170 Fischer 134 Fisichella 56 Fogar 216, 231, 244, 253 Fölkel 291 Fonda Savio 242, 267 Forti 226 Foscari 159 Foschiatti 145, 146, 216, 231, 244, 248, 253, 281, 283 Foscolo 235, 269 Francesco Ferdinando 67, 121, 125, 162, 188 Frangioni 131, 170, 194 Franzinelli 213, 238 Freud 240 Friedjung 110 Frosini 9, 231, 268, 292, 295, 296

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Galli della Loggia 16, 159, 264 Galliann 31 Gallisot 59, 60 Gall Uberti 241 Garbari 13, 71, 183 Garibaldi 13, 55, 58, 68, 88, 198, 231, 232, 243, 246, 248, 260, 261, 262, 269, 280, 283 Garin 78, 79, 133 Garosci 143 Garrone 253 Garrone M. 213 Garrone P. 280 Gasparini 10 Gasser 19 Gatto 226 Gazzola Stacchini 31 Gayda 71, 92, 93, 107, 120 Gencarelli 86 Genna 240 Gentile E. 14, 16, 49, 80, 84, 87, 114, 146, 167, 204, 206, 210, 213 Gentile G. 35, 64, 80, 81, 82, 115, 150, 184, 185, 191, 192 202, 211, 214, 218, 219, 240 Gentile S. 218 Gentilli 48, 50, 217, 219, 221, 230 Germinario 156, 157 Ghisalberti 22, 53 Ghisleri 135 Giannone 270 Gibelli A. 167 Gibelli M. 139 Gigli Marchetti 23 Ginsborg 49 Giolitti 87, 174 Giordana 28 Giotti 7, 31, 146, 225, 278, 295 Giovana 216 de Giovanni 181 Giovannini 185 de’ Giuliani 279 Giunta 166, 167, 220 Giuseppe II 98 Gobetti 72, 147, 156 Goebbels 215 Goldstein 193

Indice dei nomi

Golzio 73, 85, 131 Gotta 217 Grammaticopulo 235 Gramsci 84, 108, 187, 285 Grana 37 Granbassi 220, 248 Grandi 129, 269 Grassi A. 257 Grassi Orsini 16, 139, 140 Grégr 101 Gruber Benco 231, 245 Guagnini 237 Guerra 73, 85, 131 Guerri 222 Guglieminetti 38 Gumplowicz 59 Guzman 225

H Hahn 202 Hartmann L. M. 174 Hartmann von K. 69 Hašek 136 Havlìcek 99 Hegel 113, 120 Heinse 137 Herder 97, 98 Hitler 227, 294 Hobsbawm 193 Holl 134 Hortis 189 Huch 50 Hus 97, 112, 117, 120

I Ibsen 69, 150, 207 Innocenti 255 Isnenghi 10, 126, 132, 193, 209, 212, 238 Ivetic 123 Izzi 106

J Jacchia 27, 166 Jahier 83, 151, 157, 210 Jenks 56

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Joyce 36 Jungmann 98 Juraga 144

K Kacin-Wohinz 168 Kann 71, 199 Kant 113 Karlsen 9, 274, 275 Kautsky 57, 59, 72 Keller 36 Kelly 65 Kezich 255 Kleist 23, 92, 93 Klofac 69 Kolb 149 Kollár 98, 99 Komensky 97 Kosovel 236 Košuta 237 Kristan 62, 122 Kruscev 295 Kühn Amendola 86 Kuliscioff 128

L Labriola 66, 93 Langella 77, 80, 83, 165 La Rovere 220 Laudiero 106 Lauro 211 Lavagetto 11 La Via 218 Lazzarini 65 Leed 136 Legnani 253 Leonardo 235 Leoncini 194, 197 Leopardi 235 Lessing 97 Levi A. 192 Levi L. 72 Liebknecht 66 Liebman 235 Liucci 34, 35, 37 Lolini 140

Lukács 240 Lunzer 155, 185 Luperini 34, 64, 82, 86 Lupo 166, 206 Lussu 43 Lutero 97 Luti 27, 28, 37, 78, 86, 222

M Macartney 59 Maccari 27 Macchia 55 Machar 36, 98 Machiavelli 135, 137 Mack Smith 159 MacMillan 193 Macrelli 223 Magris 13, 40, 45, 69, 81, 106, 141, 152, 167, 225, 237, 257, 267, 282 Maier 11, 35, 42, 43, 117, 295 Majakovski 36 Malaparte 34, 36 Malato 38 Manacorda Giuliano 38, 51 Manacorda Guido 225 Mancini 49 Mangoni 37, 59, 77, 83, 222, 223, 224, 238 Mann 295 Mansfield 34 Manzoni 235, 248 Maranelli 174 Marcello (Loewy) 91, 117 Marchi 39, 84, 191 Marin B. 81, 89, 90, 105, 129, 178, 179, 182, 206, 207, 213, 226, 229, 230, 244, 267, 281, 289 Marin I. 207 Marinetti 175 Marino 32, 33 Marshall 254 Martini 195 Martinuzzi 62 Marx 59, 68, 113, 114, 115, 149 Masaryk 74, 99, 102, 112, 113, 114, 115, 117, 123, 149, 155, 194, 197, 198, 201, 202, 206

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Maserati 13, 15, 16, 54, 55, 66 Masina 139 Massa 31 Mastellone 73, 202 Mattarelli 73 Matteotti 27 Mattioli 147 Mattiussi 144, 166, 167 Maturi 269, 272, 273 May 123 Mazzini 11, 14, 21, 26, 54, 55, 56, 57, 58, 68, 71, 72, 73, 74, 97, 105, 115, 117, 120, 123, 125, 129, 132, 150, 180, 191, 192, 196, 198, 235, 237, 238, 240, 243, 244, 246, 248, 250, 254, 263, 269, 270, 274, 278, 280, 283, 292, 294 Melograni 186, 187 Menato 9 Menozzi 132 Meriggi 106 Merker 61 Miani 146, 227, 231, 250, 266 Miccoli 13, 141 Michels 58 Michelstaedter 7, 89 Micocci 86, 91 Milanesi 31 Milani 258 Milanini 30 Milazzi 19 Mileschi 42 Miletti 221 Millo 13, 16, 17, 49, 55, 255, 284 Milza 128 Mirabella Roberti 267 Misiani 190 Missiroli 225 Mitrovich 93, 118 Montale 28, 29, 31, 248 Monteleone 128, 129, 132, 141, 194 Monticone 159 Monzali 54 Morandi 8, 205, 237, 238 Moravia 34, 126, 240, 266 Moretti 157, 290 Morgan 251

Indice dei nomi

Morissey 12 Moritsch 15 Morovich 31 Morpurgo 131 Mosca 190 Moscolin 50 Mosconi 174, 175 Moss 192 Mosse 14 Muscetta 30, 208 Musiedlak 212 Mussolini 26, 32, 33, 34, 128, 131, 134, 140, 146, 166, 175, 179, 185, 190, 192, 204, 205, 206, 210, 211, 214, 224, 226, 260 Mutterle 9

N Nastič 110 Negrelli 55, 267, 284 Negri 157 Nèmec 70 Nemeth 129 Nenni 143 Neruda 36, 116 Nietzsche 126 Nitti 15, 157, 159 Nobile 156 Nolte 106 Novak 236, 255 Nuovo 55

O Oberdan 17, 127, 203, 207, 248, 250, 253, 254, 269, 281, 292, 293 Oberdank 162 Oberdorfer 69, 139, 143, 144, 148, 157, 163, 171, 209, 217 Oblath A. 104 Oblath E. 51, 90, 91, 127, 136, 138, 146, 203, 217 Ojetti 27, 181, 196 Oliva 221 Omodeo 132, 133, 208, 241, 245, 273, 274 Orecchioni 217 Orlando 159, 201

303


P Paci 224 Pacor 231 Pagan 279 Pagnacco 10, 214, 216, 220 Pagnini 283 Pahor 244 Palacky 99, 100 Palazzeschi 150 Palmieri 225 Pancrazi 7, 10, 40, 224, 240 Panjek 15 Panunzio 220 Papa 129, 134 Papadia 10, 262 Papini 79, 80, 81, 82, 84, 92, 93, 153, 221 Papo 129 Paris 266 Parmegiani 279 Parri 275 Pasini 121, 122, 162, 188 Pasquali 217 Passi 283 Pavolini 30 Pavone 231, 246 Pedullà 34 Peli 264 Pellegrini 78, 79, 80, 85, 290 Peratoner 171 Perri 139, 177 Pertici 26, 67, 70, 184, 192 Petitti di Roreto 141, 145 Petrarca 53 Petronio 83 Picasso 283 Piemontese 54 Pincherle 216 Pintor 82, 83, 138, 205, 215, 223 Piovene 29 Pirandello 157 Pitacco 19, 131, 141 Pittoni A. 210, 264, 278, 279, 295 Pittoni V. 8, 43, 47, 62, 66, 69, 70, 144, 163, 199 Platone 81 Pombeni 279

Popovici 67 Pratolini 28 Preziosi 219, 220 Prezzolini 22, 23, 28, 73, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 91, 92, 93, 96, 97, 105, 114, 115, 118, 119, 120, 127, 131, 134, 140, 141, 147, 153, 156, 174, 190, 284, 291 Princip 125 Principe 183 Prinz 197 Procacci 151 Puecher 144, 199 Pupo 232, 234, 258

Q Quagliariello 16, 129, 139, 140 Quarantotti Gambini 39, 45, 233, 275 Quazzolo 236, 237 Quercioli 53, 77

R Ragionieri 128, 159, 238 Raicich 184 Raimondi 156 Rainer 231 Rasera 40 Rebeschini 216 Redivo 13, 19 Reiss Romoli 253 Remarque 136 Renn 136 Renner 60, 66, 71 Riccardi 183 Ricci 37 Rimbaud 150 Rinaldi 121 Rinner 12 Riosa 19, 131 Rivelli 225 Rochat 193, 253 Rodotà 263 Romano 128 Romanò 79, 85, 86, 151 Rosai 125 Roshwald 106

304


Rosselli 34 Rossellini 225 Rossi D. 170 Rossi E. 134 Rossi M. G. 253 Rosso 9 Rosso di San Secondo 157 Rota 218 Ruffini 196 Rumpeln 60 Ruozzi 246 Rusconi 265, 291 Rusi 15 Rusinow 250 Russo 262 Ruta 91 Rutar 54, 70 Rutta 202 Rybar 18, 21

S Saba L. 45 Saba U. 7, 11, 21, 23, 25, 31, 38, 44, 45, 48, 49, 50, 81, 126, 165, 216, 217, 220, 238, 240, 255, 256, 265, 266, 278, 295 Sabbatucci 13, 16, 139, 186, 205, 279 Sala 227, 228, 236 Salandra 128,156 Salata 93, 182, 183, 292 Salek 83 Salimbeni 13, 171, 183, 208, 295 Salvatorelli 13, 143, 240, 268 Salvemini 12, 26, 57, 64, 73, 74, 80, 85, 86, 87, 117, 131, 132, 133, 134, 137, 139, 140, 148, 156, 159, 170, 171, 173, 174, 181, 183, 191, 192, 194, 195, 198, 210, 212, 213, 216, 238, 283 Sandonà 13 Sandrini 8 Sanfilippo 170 Sanson 81 Santin 231 Santomassimo 42 Santoro 191

Indice dei nomi

Sarti 72, 73 Sartorio 279 Sasso 218 Satta 264, 275 Sauro 231, 253, 267, 281 Scalfari 30 Schelling 113 Schiffrer 13, 123, 141, 142, 168, 231, 234, 267, 276, 284, 296 Schlemmer 226 Schmitz 43 Sedita 226 Segni 223 Segre 225 Senardi 9, 13, 24, 33, 38, 40, 42, 43, 49, 67, 81, 89, 115, 129, 135, 149, 240, 246 Sensini 172 Sereni E. 186 Sereni V. 265, 266 Serkowska 49 Serra E. 81, 89, 179, 230 Serra R. 87 Serri 8, 215, 221, 222, 238 Sestan 10, 12, 16, 142, 166, 245 Seton Watson C. 196 Seton-Watson R. W. 109, 110, 111, 114, 118, 197, 200 Sforza 174, 212, 278, 291 Siciliano 38 Signoretti 167, 211, 212 Silvestri C. 142, 144, 145, 183 Silvestri M. 245 Simoncelli 218 Slapnička 71 Slataper G. 242 Slataper S. 7, 11, 12, 13, 15, 17, 20, 21, 22, 24, 25, 31, 40, 48, 49, 53, 56, 63, 69, 80, 84, 86, 87, 88, 90, 91, 93, 94, 99, 105, 106, 117, 119, 121, 122, 123, 128, 129, 130, 131, 136, 146, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 162, 163, 164, 182, 188, 189, 207, 211, 225, 226, 235, 250, 253, 283, 285, 288, 289, 291 Slataper Scipio Secondo 225 Sluga 174

305


Smodlaka 123, 142, 245 Soffici 80, 84, 151 Solmi 41 Sonnino 156, 159, 195, 196, 198 Sorel 56, 72, 79 Sova 98 Spadaro 9, 55, 236 Spadolini 55 Spaini 31, 39, 43, 56, 57, 88 Spano 215 Spazzali 233, 242, 251, 279, 281, 283 Spigolotto (Maria) 123 Spinelli 72 Spirito 255, 274 Spriano 72, 147 Springer 71, 108 Stalin 228, 267 Stara 11, 45 Starace 31, 166 Stefani 200 Štefánik 198, 201 Sticotti 17 Stites 106 Storti Abate 70, 93, 104, 118, 211 Strafner 12 Strappini 86, 91 Stuart Hughes 271 Stuart Woolf 273 Stuparich Bianca Angela 48,209 Stuparich Carlo 7, 11, 18, 20, 23, 24, 25, 26, 32, 40, 48, 51, 53, 70, 75, 81, 82, 86, 87, 93, 104, 130, 136, 149, 154, 203, 206, 209, 211, 227, 269 Stuparich Giancarlo (Giani e Carlo) 23 Stuparich Giancarlo 28 Stuparich Giordana 28 Stuparich Marco 48,217 Stuparich Criscione 28, 52, 215, 231, 290 Suttner von 65 Svevo 7, 15, 24, 31, 36, 38, 39, 41, 49, 106, 126, 226, 233, 255, 279

T Taafe 59, 101 Tagliacozzo 137 Taine 120

Tamaro 13, 22, 53, 54, 131, 145, 171, 191, 194, 198, 199, 201, 275 Tartaglia 139, 177 Tasca 69, 140 Taylor 71, 123, 193, 238 Tecchi 40, 136 Tesoro 132, 133, 144, 147 Thaon de Revel 181 Thoraval 8, 200, 215 Tigoli 225 Tilgher 157 Timeus (Fauro) 96, 106, 150, 153, 154, 161, 162, 163, 164, 283 Tito 52, 228, 232, 234, 237, 244, 247, 258, 267, 275, 276, 286, 287 Tivoli 50 Todero F. 15, 40, 55, 67, 132, 135, 242 Todero R. 139 Togliatti 212, 266 Tomicich 133 Tomizza 236 Tommaseo 250 Tommasini 52 Torre 13, 196 Tozzi 157 Tranfaglia 128, 159 Tuma 21 Tuntar 144, 145, 148, 149 Turati 57, 66, 69, 128, 186 Turi 10, 12, 80, 218, 222

U Urbanitsch 60, 70, 71

V Valdevit 234, 254 Valentinuzzi 230 Valeri D. 275 Valeri N. 243, 246, 247, 248, 263, 269 Valiani 70, 71, 134, 135, 143, 199, 215 Vascotto 236 Venezian 19, 162 Verga 36 Verginella 21 Verri 247 da Verona 157

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Vidali 52, 283 Vidotto 205, 279 Vidussoni 217, 219 Vigezzi 132 Vinci 17, 53, 141, 145, 166, 167, 171, 213, 236 Viroli 271 Visintin 139, 141 Vittorini 28, 30, 38, 215 Vittorio Emanuele II 269 Vivante 13, 21, 22, 64, 66, 67, 69, 96, 97, 105, 119, 120, 141, 149, 150, 162, 163, 283, 285 Vivarelli 57, 72, 73, 192 Volpato 122 Volpe 14, 129, 190, 212 Volpi 159, 190

W Wandruszka 60, 70, 71 Weber 58, 202 Weiss 81 Wilfan 21, 171 Wilson 170, 193, 196, 238, 250 Winkler 56

X Xidias 235

Z Zaffi 71, 183 Zagarrio 213, 222 Zanotti Bianco 117, 134, 135, 140, 170, 181, 191, 210 Zeno 215 Ziani 217 Ziliotto 267 Zizka 97 Zoppi 134 Zovatto 239 Zunino 206, 246 Zweig A. 136 Zweig S. 69

Indice dei nomi

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