Synaxis 20 1 (2002) - quaderni 15

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SYNAXIS XX/1 - 2002 QUADERNI DI SYNAXIS 15

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900 Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania 4-5 aprile 2001

a cura di Salvatore Consoli e Maurizio Aliotta



PRESENTAZIONE

I saggi qui raccolti costituiscono i contributi presentati in occasione del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania su Cultura della vita cultura della morte nella Sicilia del ’900 il 4 e 5 aprile 2001. La “localizzazione” della ricerca è un elemento tradizionale di questi convegni, che lo Studio Teologico S. Paolo di Catania organizza con l’Università degli Studi. Essa acquista però un rilievo particolare per il tema affrontato. Infatti parlare di “cultura” vuol dire riferirsi alle strutture concrete che favoriscono la vita o la morte. Ciò non si può fare che dando uno sguardo concreto alle situazioni locali e storiche determinate. Le relazioni hanno toccato ambiti molto diversi tra di loro, mettendo in luce gli orientamenti che in Sicilia hanno favorito le espressioni di violenza e di oppressione che generano una vera cultura di morte. A livello di relazioni personali o istituzionali civili o ecclesiastiche si manifestano forme di strumentalizzazione dell’uomo che sono nient’altro che l’affermazione della propria vita sulla vita dell’altro. E dunque morte che dovrebbe generare vita o vita che produce morte. Non mancano, comunque, esperienze e figure che aprono un orizzonte di vita e di speranza. Le relazioni introduttive tracciano il quadro teoretico entro il quale i fenomeni presentati trovano le loro radici ideologiche (antropologiche e religiose). La relazione dell’ambito teologico su la «Teologia della vita e teologia della morte», tenuta da M. Aliotta, ha considerato i fondamenti dell’atteggiamento del credente di fronte alla vita e alla morte, sottolineando che nella tradizione cristiana l’atteggiamento di fronte alla morte determina quello di fronte alla vita. Nell’evento centrale della fede cristiana, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo, l’intera esistenza umana, vita e morte, trova senso e compimento. «La croce è mistero di morte assunta e vinta. Nella croce ogni contraddizione si dissolve: la violenza tollerata si trasforma in dedizione, la morte in vita, il peccato in redenzione. Nel giardino dell’Eden l’albero della vita rappresenta l’orizzonte di obbedienza


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Presentazione

a Dio entro il quale vi è vita, oltre il quale vi è morte. L’obbedienza del Figlio al Padre, che genera vita, si realizza nella croce. Essa è così il disvelamento del progetto di amore di Dio: l’assunzione piena del peccato del mondo, e con esso la morte, per rifondare la possibilità di vita». Nell’ambito filosofico S. Amato, con la relazione su «Il sacrificio della vita all’origine dell’esperienza giuridica» ha considerato come la nozione di sacrificio possa offrire una prospettiva ideale per comprendere perché dinanzi alla condizione umana che appare del tutto miserabile possa nascere una cultura della vita. Il relatore ha mostrato pure il passaggio, attraverso un processo di secolarizzazione, da una sua originaria funzione religiosa ad una funzione giuridica penale. Lo sviluppo di questo processo è visto, attraverso il riferimento ai pensatori più significativi, nel rapporto tra diritto e cultura della vita, diritto e cultura della morte nelle figure storiche esemplari della mafia e della democrazia. Il percorso che si delinea a partire da questo quadro teorico è molto variegato, a testimonianza della complessità dell’intreccio tra vita e morte e della sua manifestazione poliforme. La Sicilia, si sa, è terra ricca di storia e carica di contraddizioni. La mafia ha pesantemente condizionato e condiziona il suo sviluppo culturale, sociale ed economico, costituendosi come stato nello stato. Le stesse istituzioni pubbliche si sono sovente caratterizzate per una ideologia violenta e carica di morte nei confronti delle cosiddette emergenze sociali (vedi il caso del manicomio criminale di Pozzo di Gotto, utilizzato come laboratorio di attuazione di una ideologia della “bonifica umana”); la Chiesa istituzionale non sempre ha saputo reagire evangelicamente alla violenza e alle ingiustizie create dalle istituzioni stesse o dalla mafia e tuttavia al suo interno non sono mancate le voci profetiche, che hanno in qualche modo preparato un mutamento di atteggiamento nella stessa Chiesa “ufficiale”. Alcuni percorsi, a torto qualche volta considerati minori, sono particolarmente rivelativi: la famiglia e i minori, le minoranze. Si delinea così un quadro complessivo che mostra l’importanza di progettare e realizzare sistemi vitali e strutture che creino la “cultura della vita” per contrastare quella della morte, in tutte le sue manifestazioni. Salvatore Consoli Maurizio Aliotta


LA MORTE E IL DONO DELLA VITA NELLE SCRITTURE

ATTILIO GANGEMI*

Iniziamo il nostro intervento, sul tema della vita e della morte nella Scrittura, con tre premesse. Anzitutto il valore della vita e il problema della morte nella concezione biblica non si fondano su riflessioni filosofiche o antropologiche ma su una dimensione profondamente religiosa. Inoltre nella Scrittura bisogna distinguere tra la prospettiva più limitata e, in certo senso anche più angusta, dell’AT e quella più ampia ed universale proposta poi dal NT. Non possiamo perciò cercare nell’AT quello che invece sarà poi specifico del NT. Infine il tema della vita e della morte è molto ampio, abbraccia praticamente tutta la Scrittura e può essere considerato da diversi punti di vista. Non possiamo perciò sviluppare tutti gli aspetti; ci limiteremo soltanto a considerare alcuni elementi cercando di delineare un cammino che va dall’esperienza genesiaca del peccato (Gen 2-3), quando la morte entrò nel mondo, fino «ai cieli nuovi e alla terra nuova» (Ap 21,1-5) dove non ci sarà più né morte, né lutto, né pianto. Distinguiamo quindi in questo intervento due parti. Nella prima parte consideriamo qualche aspetto dell’at, nella seconda invece tentiamo di evidenziare la prospettiva del NT.

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Dello Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Attilio Gangemi

PARTE PRIMA: l’Antico Testamento A riguardo dell’AT consideriamo tre aspetti: Il fondamento del valore della vita, l’ampiezza di tale valore, l’anelito dell’uomo verso la vita e la paura della morte.

1. Il fondamento del valore della vita In questo primo punto ci riferiamo al racconto genesiaco della creazione dell’uomo; ci apriremo poi anche alla prospettiva più ampia di tutto il Pentateuco.

1.1. Il racconto della creazione dell’uomo È noto che i cc 1-2 del libro della Genesi ci offrono due racconti della creazione dell’uomo. Il primo, contenuto in Gen 1,26-27, appartiene al cosiddetto codice sacerdotale, il secondo invece, contenuto in Gen 2,7, appartiene alla tradizione Jahvista. In Gen 1,26-27 è descritto soltanto il fatto della creazione, in due aspetti: la deliberazione da parte di Dio di creare l’uomo (v 26) e la descrizione della sua attuazione (v 27). In Gen 2,7 invece il narratore insiste sul modo come Dio creò l’uomo: prese la polvere della terra, plasmò l’uomo e soffiò nelle sue narici un alito di vita. Di tutto ciò il racconto sacerdotale di Gen 1,26-27 non dice nulla. In Gen 1,26 notiamo una differenza tra il testo ebraico e la versione greca, seguita poi anche dalla versione latina. Nel testo ebraico leggiamo: «facciamo l’uomo a nostra immagine secondo nostra somiglianza»; nella versione greca leggiamo invece: «facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza». Nel testo ebraico il termine “somiglianza” sembra delimitare il termine “immagine”, che, senza questa delimitazione, esprimerebbe piena conformità: l’uomo è immagine di Dio, non però in maniera perfetta, ma secondo una somiglianza. Nel testo greco invece la coordinazione determina un reciproco rafforzamento dei due termini i quali finiscono per esprimere la perfetta somiglianza dell’uomo a Dio.


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Prescindiamo da questo problema testuale che, al momento, interessa meno; notiamo solo che esso è dovuto probabilmente ad una originale confusione di una lettera ebraica da parte del traduttore greco. Ciò che interessa al nostro scopo è invece il senso di questa descrizione. Secondo il testo genesiaco l’uomo è creato a immagine di Dio, benché secondo somiglianza, perché «domini sugli uccelli del cielo e i pesci del mare» e tutti gli altri esseri. Nella creazione l’uomo ha un ruolo particolare: rendere visibile il Dio invisibile ed agire in mezzo ad essa a nome suo e, si intende, secondo la sua volontà. Nel v 27 la creazione dell’uomo è presentata come già attuata. In questo verso però, prescindendo da tutti i problemi critici che esso pone, l’immagine di Dio non è più riferita alla relazione dell’uomo con il resto della creazione, ma alla relazione “uomo-donna”: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, uomo e donna li creò». Come aveva già fatto con i pesci e gli uccelli, Dio benedì l’uomo e la donna e diede loro il comando di crescere e di moltiplicarsi. Direttamente questi testi non offrono una concezione esplicita della vita; la loro lettura permette però qualche considerazione. Anzitutto la dignità dell’uomo scaturisce dalla sua originale vocazione di essere immagine di Dio. Inoltre, appunto per questa vocazione, egli è al vertice della piramide della creazione e al di sopra di lui non c’è se non Dio. Infine, appunto perché a immagine di Dio, egli è un essere strettamente relazionato a Dio: in Dio si giustifica la sua esistenza e senza Dio egli non può sussistere. Dal momento che la dignità umana scaturisce da questa sua fondamentale vocazione e che l’uomo non ha altri al di sopra di lui se non Dio, ne consegue logicamente che egli dipende direttamente da Dio e che la sua esistenza è assolutamente inviolabile da parte di qualsiasi altro che non sia Dio. Il testo Jahvista di Gen 2,7 presenta due differenze fondamentali rispetto al precedente racconto sacerdotale di Gen 1,26s: da una parte il narratore non descrive la creazione cosmica, dall’altra invece insiste sul modo come Dio crea l’uomo: «e plasmò il Signore Dio l’uomo, polvere (rp,[,) dalla terra e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». Tutta l’attenzione del narratore Jahvista è orientata sull’uomo e sul modo come egli fu creato.


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Ci chiediamo, alla luce del problema posto dalla scienza moderna se il termine rp,[, (polvere) debba necessariamente riferirsi ad una materia inorganica o non possa essere esteso anche alla materia organica. Ci riferiamo al problema se il racconto genesiaco sia compatibile o meno con la teoria evoluzionista. Riteniamo che da questo punto di vista il testo sia indifferente. Sono più importanti gli altri due aspetti, eminentemente religiosi, il fatto cioè che Dio “plasmò” questa materia, cioè intervenne ed operò su di essa, e il fatto poi che egli soffiò su di essa il suo alito di vita. Probabilmente in questa descrizione il narratore aveva presente l’opera di un vasaio che plasma la sua materia. Dio però fa ancora di più: soffia il suo alito e rende un essere vivente quella materia che lui ha plasmato. Non crediamo che il racconto biblico si opponga alla teoria evoluzionista; desidera soltanto affermare che, se evoluzione si dà, questa è presieduta e guidata dal Dio creatore, il quale, in ogni caso, è il diretto autore della dimensione spirituale dell’uomo. Il NT poi, da Giovanni a Paolo, sottolineerà la causalità di Cristo nell’opera della creazione. Possiamo dire che tutta la Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, escludono qualsiasi evoluzione spontanea e cieca della materia. Come nel testo sacerdotale di Gen 1,26-27, anche nel testo Jahvista di Gen 2,7 l’uomo appare in diretta ed esclusiva relazione a Dio. Più avanti, ancora nel c 2, lo scrittore Jahvista sviluppa più ampiamente la vicenda dell’uomo. Dopo avere narrato che Dio piantò un giardino e ivi pose l’uomo per lavorarlo e custodirlo (v 15), nei versi seguenti informa che egli comandò all’uomo di mangiare del frutto di qualsiasi albero del giardino. Poi Dio aggiunse: «e dell’albero della conoscenza del bene e del male “non mangerai” (lk;aT{ al{), poiché nel giorno che ne mangerai, certo morrai (tWmT' twOm)» (v 17). Queste parole rivelano che la vita che l’uomo possiede non è un bene ormai definitivamente acquisito, ma esso dipende da una condizione posta da Dio, la cui inadempienza conduce alla morte. Riteniamo opportuna nell’espressione su citata del v 17 qualche precisazione letteraria. Anzitutto l’espressione ebraica lk;aT{ al{, tradotta abitualmente con un volitivo di “dovere”: «non devi mangiare», può essere tradotta anche, e forse meglio, con un volitivo di “potere”: «non puoi mangiare»; non si tratta così di un comando che, in maniera arbitraria, Dio


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impone all’uomo dall’esterno, ma di una conseguenza logica che scaturisce da una premessa. Data questa premessa, ne consegue l’impossibilità di compiere una determinata azione. Nel nostro caso la premessa è che Dio ha posto l’uomo nel giardino in Eden, nella “sua” terra: la conseguenza è che l’uomo, posto nella terra di Dio, non può, secondo una tematica ricorrente nell’AT, disattendere il suo comandamento. La seconda precisazione letteraria riguarda la cosiddetta pena della morte che Dio minaccia all’uomo trasgressore. L’espressione ebraica tWmT' twOm tuttavia non necessariamente ha il carattere di una punizione che Dio infligge a suo arbitrio, quasi dall’esterno, ma può avere il carattere di una conseguenza necessaria e intrinseca che si verifica se l’uomo pone quella condizione. Possiamo dire allora che in Genesi Dio né impone un comando né infligge una pena. Il non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male è un fatto intrinsecamente connesso alla condizione stessa dell’uomo. La morte che Dio paventa è poi la conseguenza necessaria che si verifica qualora l’uomo mangia di quell’albero. Emergono qui diversi problemi: qual è la condizione dell’uomo che esige quella limitazione? In che cosa consiste quella limitazione? Che cos’è l’albero della conoscenza del bene e del male? Perché dallo sconfinamento di quel limite scaturisce la morte? Che cos’è la morte? E in che cosa consiste la vita? Non è facile rispondere a tutte queste domande estremamente impegnative. Esse infatti esigono una attenta e completa analisi del testo genesiaco a tutti i livelli: storico, letterario, redazionale, teologico. Non potendo ovviamente condurre adesso simile analisi, dobbiamo contentarsi soltanto di accennare in maniera fugace a qualche conclusione. Alla condizione dell’uomo abbiamo già accennato: egli dimora nella terra che Dio gli ha dato. Il racconto genesiaco rispecchia un tema frequente nella Scrittura dell’AT: l’uomo sperimenta la vita nella terra che Dio gli dà; ma per ottenere quella terra e dimorarvi stabilmente la condizione indispensabile è che egli osservi i comandamenti di Dio. Se li trasgredisce, in essa non può dimorare, ma deve uscire incamminandosi così verso la morte. Questo è il senso che il Deuteronomio e i profeti hanno dato ai due esili subiti da Israele nella sua storia: quello in Assiria del 720 a.C. e quello in Babilonia del 586 a.C.


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Più importante invece è rispondere ad altre due domande: che cos’è l’albero della conoscenza del bene e del male e in che cosa consiste la sua delimitazione? Scartando risposte più banali, quali la mela o limitazioni sessuali e tenendo conto sia del contenuto semantico del verbo semitico “conoscere”, sia anche del linguaggio globale del narratore Jahvista, l’interdizione di mangiare da tale albero simbolicamente indica che l’uomo non ha il potere sul bene e sul male, non è arbitro del bene e del male, non compete a lui stabilire ciò che è bene e ciò che è male. In altre parole, l’uomo non può ergersi al di sopra di Dio, non può emanciparsi da lui trasgredendo il suo comandamento, non può farsi lui Dio. Nel giorno in cui si erge al di sopra di Dio, si fa lui Dio, e si ritiene perciò idoneo a stabilire ciò che è bene e ciò che è male, allora fatalmente l’uomo muore. Al di là della bellezza poetica delle immagini riprese dal narratore e al di là delle matrici letterarie che egli ha accettato nella sua narrazione, il racconto Jahvista, almeno in uno stadio più antico, appare come una rilettura sintetica degli eventi dell’esodo: Dio fece uscire il suo popolo dall’Egitto, creandolo così dalla polvere della terra, e lo introdusse nella terra buona, stillante latte e miele, che egli aveva promesso ai padri. Il senso globale della narrazione genesiaca allora è il seguente. Dio pose l’uomo in una situazione di felicità, gli alberi belli a vedersi e buoni a mangiarsi, e di vita, albero della vita; l’uomo così appare realmente destinato alla felicità e alla vita. Ad una condizione però, che egli non si emancipi da Dio e rimanga sottomesso a lui. Appare chiaro così dal racconto genesiaco che la felicità e la vita dell’uomo dipendono da Dio; se da lui si stacca egli perde tutto ciò. Allora alla felicità subentrerà il dolore e alla vita subentrerà la morte. Il racconto genesiaco risponde così alle domande che già il mito, fin dall’antichità, si era posto senza poter dare alcuna risposta: perché l’uomo soffre? Perché muore? Nei primi versi del capitolo seguente, il c 3, l’autore genesiaco narra come l’uomo, istigato dal serpente, antico simbolo dell’idolatria, rivendicò il suo diritto di essere come Dio e si emancipò da lui trasgredendo il suo comandamento. Anche questa descrizione, proposta con sottile finezza dal narratore Jahvista, pone non pochi problemi di linguaggio. È sufficiente dire che la trasgressione adamitica è quella di sempre: l’uomo che si emancipa da Dio.


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Si tratta di una trasgressione vecchia e sempre attuale, commessa dalle origini fin nella nostra epoca in cui l’uomo ha decretato la morte di Dio, ritrovandosi però ad ogni piè sospinto con le insidie della morte nelle svariate forme che ha assunto nell’epoca moderna. Quale sia poi la morte in cui l’uomo è caduto, è indicato, con dovizia di immagini altamente poetiche, dallo stesso narratore genesiaco. La morte può essere caratterizzata come divisione. Separatosi da Dio, per l’uomo si sono verificate delle divisioni che lo hanno profondamente sgretolato. Già la nudità di cui i primi uomini fecero esperienza è un’immagine assai efficace in tal senso; tra l’uomo e la donna, destinati ad essere una sola carne, è caduto il velo della vergogna. Pure il fatto che l’uomo si nascose è un’immagine che rivela ormai la sua divisione da Dio. Il narratore Jahvista immagina Dio che istruisce un processo ed infligge a ciascuno la sua punizione. Queste punizioni però, più che essere inflitte da Dio, esprimono la situazione di fatto a cui la separazione da Dio ha portato l’uomo e caratterizzano bene la morte globale. La punizione della donna, colpita nel suo ruolo di sposa e di madre, rivela che si è verificata una divisione tra uomo e uomo e questa lo ha raggiunto nei suoi affetti più cari. La punizione dell’uomo, colpito nel suo ruolo di lavoratore della terra, rivela che si è verificata una divisione tra l’uomo e la creazione. Ma la divisione ha raggiunto l’uomo anche nel suo più profondo essere: egli infatti dovrà tornare nella polvere dalla quale fu tratto. Emancipatosi da Dio, l’uomo è incorso così in una triplice divisione: dentro di sé, con gli altri, e con la creazione. Segnato ormai dalla morte, l’uomo non può più stare nel giardino dove c’è l’albero della vita e da lì deve uscire (Gen 3,20). Nel c 4 il narratore riferisce l’episodio di Caino e di Abele. Pure questo è un racconto assai complesso nella storia della sua formazione, nel suo linguaggio e nel suo significato. Dietro il conflitto tra due fratelli si nasconde probabilmente lo scontro tra due epoche, tra due mentalità, tra due civiltà. Esso sembra rispecchiare antiche lotte tra nomadi e sedentari. Ma il racconto, alla luce anche del racconto precedente, contiene una verità di fondo: ormai l’uomo è incapace di pensare all’altro se non in categorie omicide. Nulla inoltre impedisce di cogliere anche un aspetto più personale: la figura di Caino è l’emblema dell’uomo solo, incapace di rela-


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zionarsi a Dio, che non raggiunge con i suoi sacrifici, e incapace anche di relazionarsi pacificamente al fratello. Il dramma dell’uomo peccatore che porta in sé il germe della disgregazione culmina fino al c 11 dove è narrato l’episodio della torre di Babele: costruita per essere centro di unità, essa finisce per essere causa di ulteriore e definitiva dispersione.

1.2. Il seguente racconto biblico Il seguente racconto biblico mostra che Dio non intende lasciare l’uomo nella situazione in cui era caduto in seguito al peccato. Nel c 12, sempre del libro della Genesi, la vocazione di Abramo segna l’inizio di una lunga storia che, passando attraverso tutte le vicende dell’esodo, culmina nella conquista della terra promessa, narrata nel libro di Giosuè. Attraverso un lungo cammino, Dio intende riportare l’uomo al luogo e alla situazione da cui all’origine era stato cacciato. Ad Abramo Dio fece due promesse: la terra e la discendenza. Queste due promesse corrispondono ai due beni che l’uomo perdette all’origine: la promessa della terra richiama il giardino genesiaco perduto; la promessa della discendenza richiama la vita anch’essa perduta. Emerge qui però un diverso aspetto della vita: essa è intesa non più in senso personale, fisico o spirituale, ma in senso collettivo; si tratta della vita di un popolo che si manifesta nella perpetuità della sua discendenza. Trasmesse da padre in figlio, le promesse fatte da Dio ad Abramo sembrano smarrirsi nella schiavitù in Egitto; da lì invece parte la loro piena realizzazione. Scrive il narratore che in Egitto i figli di Israele si erano moltiplicati come le stelle del cielo (Es 1,7): si realizza così la prima promessa ad Abramo, quella della discendenza. Tutti gli avvenimenti seguenti, l’oppressione da parte degli egiziani, l’intervento di Mosè, l’esodo, il passaggio del mare, sono orientati verso la realizzazione della seconda, la terra. La schiavitù in Egitto, descritta nei cc 1-11 del libro dell’Esodo, si ricollega con un filo sottile alla narrazione genesiaca; l’uomo, cacciato dal giardino dell’Eden, va a finire in quella schiavitù che può essere paragonata ad una situazione di morte: in Egitto infatti il popolo si trova esposto alla morte. Da lì però il Signore lo libera.


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I libri dell’Esodo, del Levitico e dei Numeri, narrano il travagliato cammino del popolo di Israele, attraverso il deserto, verso la terra promessa. Giungiamo così al libro del Deuteronomio, che si ambienta proprio alle porte della terra promessa, prima dell’ingresso in essa. L’ingresso sarà poi descritto, come abbiamo detto, nel seguente libro di Giosuè. Tutto il senso del Deuteronomio può essere riassunto nel testo di Dt 4,1: «ascolta, Israele, le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore sta per darvi». Emerge in questa espressione una contrapposizione alla vicenda originale genesiaca: all’origine Adamo non osservò il comandamento di Dio, si imbatté nella morte e fu cacciato dal giardino dell’Eden. Adesso l’istanza è quella di tornare alla legge del Signore per poter vivere ed entrare nella terra che il Signore dà. Il Deuteronomio, ambientato, come dicevamo, alle porte della terra promessa, conclude così una vicenda iniziata nel giardino genesiaco e sviluppata attraverso tutte le tappe storiche narrate nel Pentateuco. Possiamo confrontare il racconto genesiaco e la prospettiva del Deuteronomio sopra indicata; emergono tre aspetti comuni: l’osservanza del comandamento di Dio, la vita e la permanenza nella terra. La vita e la permanenza nella terra appaiono in entrambi i testi strettamente collegati; ciò porta a concludere che, nella prospettiva biblica, non ci può essere vita fuori dalla terra che Dio dà. I vari esili, quello in Assiria e soprattutto quello in Babilonia, in cui il popolo fu deportato lontano dalla sua terra, furono visti come morte; non è casuale il fatto che il profeta Ezechiele parli del ritorno dall’esilio babilonese come una resurrezione e lo descriva con l’immagine dell’apertura delle tombe (Ez 37,12ss). La causa dei vari esili, al di là delle motivazioni politiche, è individuata dai profeti appunto nell’infedeltà alla legge del Signore. Emergono qui due domande: di quale vita si tratta nei testi sopra considerati? Perché quest’ampia visione biblica stabilisce una relazione tra l’osservanza dei comandamenti e la vita? Quanto al tipo di vita troviamo un restringimento di prospettiva nel seguente racconto rispetto ai primi capitoli della Genesi. La morte di cui si parla in questi capitoli, come abbiamo già osservato, consiste in una radicale divisione che porta ad una totale disgregazione dell’uomo: diviso da Dio,


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l’uomo si ritrova diviso dagli altri, dalla creazione e in se stesso. Nel seguente racconto biblico, fino al libro del Deuteronomio, la prospettiva appare invece più ristretta: la vita sembra identificarsi piuttosto come la stessa sopravvivenza di popolo. Quanto poi alla relazione tra l’osservanza dei comandamenti e la vita, abbiamo già notato come nel racconto genesiaco della creazione tutta la vita nella sua globalità, compreso anche l’aspetto fisico, dipende dall’osservanza dei comandamenti. Il senso di questa prospettiva globale emergerà più chiaro nel NT, alla luce degli eventi di Gesù, soprattutto della sua resurrezione. Un ultimo elemento è utile ancora sottolineare. Tornando alla storia di Caino narrata in Gen 4, questi esprime davanti a Dio la sua angoscia di sentirsi cacciato da lui e di trovarsi in balia di chiunque: «chi mi incontrerà mi ucciderà» (Gen 4,14). Dio però rassicura Caino: «chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte». Il senso spirituale di questo passaggio è chiaro: l’uomo peccatore, che ha ucciso, lui stesso da Dio è protetto, non perché Dio condivida il suo crimine ma perché anche l’uomo peccatore rimane sotto la sua protezione.

2. L’ampiezza del valore della vita In questo secondo punto vogliamo rispondere alla domanda: per chi l’AT professa il valore della vita? A chi riconosce il diritto alla vita? Il decalogo, sia nella redazione di Es 20, sia anche in quella di Dt 5,6-21, introduce, al quinto posto, in maniera scarna e lapidaria, il comandamento: «non ucciderai». Questo comandamento, assieme al sesto, settimo e ottavo, a differenza di altri nello stesso decalogo, non è corredato da alcun commento. Un commento di indole halakica invece è introdotto in Es 21,12, dove si prescrive che colui che colpisce un uomo causandone la morte, deve essere messo a morte. Si precisa però subito dopo che, se uno uccide perché Dio gli ha messo quella persona sul suo cammino, probabilmente cioè per omicidio involontario, questi potrà usufruire delle città di rifugio (cfr Nm 35,9ss). Ma se uno uccide tendendo un tranello, con inganno, questi deve essere ucciso a costo di essere strappato anche dall’altare del Signore.


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È difficile, al momento, addentrarsi minutamente in tutta la legislazione sancita nel libro del Levitico. Osserviamo soltanto, in maniera generica, che, mentre il comandamento dice: «non uccidere», in tanti casi invece è prevista la pena di morte (Lv 24,10-23). La concezione che sta alla base è quella di estirpare il male da mezzo il popolo o anche quella della vendetta. Le città di rifugio tuttavia sono istituite per garantire salvezza ad un omicida involontario. Possiamo allora concludere che nell’AT il comandamento di non uccidere non si estende sempre e dovunque. Non si estende per esempio ai nemici del popolo. Possiamo citare anzi alcuni episodi o alcuni testi che celebrano l’intervento distruttivo di Dio contro di essi. Così in Es 4-11 sono narrate le dieci piaghe con cui Dio piegò il faraone per liberare il suo popolo. Queste piaghe sono evocate poi in diversi salmi. Nel Sal 77,42-51 leggiamo:

«egli mutò in sangue i loro fiumi e i loro ruscelli perché non bevessero […] diede sfogo alla sua ira, non li risparmiò dalla morte e diede in preda alla peste la loro vita; colpì ogni primogenito in Egitto, nelle tende di Cam la primizia del loro vigore».

Il salmo allude agli eventi dell’Esodo e agli egiziani che Dio non risparmiò dalla morte. Nella stessa prospettiva è ancora il Sal 104, 28-36, che celebra tutte le opere da Dio compiute da Abramo fino alla conquista della terra di Canaan, quando egli diede ad Israele «le terre dei popoli» (v 44). A riguardo degli egiziani leggiamo: «mandò le tenebre e si fece buio […] cambiò le loro acque in sangue […] colpì nel loro paese ogni primogenito». Ancora il Sal 134,6-12, evocando non solo gli eventi dell’esodo, ma anche quelli della conquista della terra di Canaan, scrive:

«egli percosse i primogeniti di Egitto, dagli uomini fino al bestiame […] colpì numerose nazioni ed uccise re potenti, Seon, re degli Amorrei, Og, re


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Attilio Gangemi di Basan e tutti i regni di Canaan; diede la loro terra in eredità a Israele, in eredità ad Israele suo popolo».

Per questi eventi, il Salmo celebra Dio; continua infatti nel v 13: «Signore, il tuo nome è per sempre, Signore, il tuo ricordo per ogni generazione». Al Sal 134 fa eco ancora il Sal 135, in forma litanica, dove si ripete il ritornello: «in eterno la sua misericordia». Esso evoca un triplice esodo, quello della creazione, quello dall’Egitto e quello da Babilonia. A riguardo dell’Esodo dall’Egitto, nel v 10, il salmo scrive: «percosse l’Egitto nei suoi primogeniti» (v 10); «travolse il faraone e il suo esercito nel Mar Rosso» (v 15); «percosse grandi sovrani […] uccise re potenti […] Seon, re degli Amorrei […] Og, re di Basan» (vv 17-20). Evocando ancora gli eventi dell’Esodo, il libro della Sapienza scrive:

«mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente, dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata, il tuo ordine inesorabile. Fermatasi, riempì tutto di morte» (Sap 18,14ss).

Ma un testo che si rivela abbastanza duro è il Sal 105,34, dove, nel contesto di una elencazione dei peccati del popolo, leggiamo: «non sterminarono i popoli come aveva ordinato il Signore». Il Salmo ci rimanda al c 1 del libro dei Giudici dove abbiamo un resoconto sommario dell’insediamento delle dodici tribù nella terra di Canaan. Non tutte le tribù cacciarono le popolazioni indigene, e ciò fu computato come una colpa, come una infedeltà all’alleanza con il Signore (cfr Gdc 2). Il Sal 105 menziona appunto questo peccato di Israele, dopo avere evocato quello della ribellione alle acque di Meriba. Lo sfondo sia del libro dei Giudici sia del Sal 105 però è religioso. Nel libro dei Giudici il comando di cacciare i popoli fu determinato dalla preoccupazione che, altrimenti, Israele sarebbe stato coinvolto nella loro


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idolatria. Il Sal 105 infatti continua: «servirono i loro idoli e questi furono per loro un tranello» (v 36). I versi seguenti elencano gli usi abominevoli, quali i sacrifici umani, che Israele mutuò dal suo contatto con i popoli vicini. La cacciata dei popoli perciò è giustificata in questi testi dal fatto che Israele deve restare fedele al suo Dio e quindi deve essere preservato da qualsiasi forma di idolatria.

3. L’anelito dell’uomo verso la vita e la paura della morte L’anelito verso la vita e l’intenso desiderio di essa emerge abbondantemente nell’AT. Si tratta però della vita presente, che è considerata come un bene supremo e come il massimo ideale a cui tendere. La longevità infatti è celebrata come un dono di Dio; il Sal 90, per esempio, promette: «lo sazierò di lunghi giorni e gli mostrerò la mia salvezza» (Sal 90,16). Altri salmi poi rivelano anche il segreto della longevità: esso consiste nella ricerca del bene. Così il Sal 33 scrive: «c’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene? Preserva la lingua dal male e le labbra da parole bugiarde» (Sal 33,21). Al contrario il Sal 100 scrive: «chi calunnia in segreto il suo prossimo io lo farà perire, chi ha occhi altezzosi e cuore superbo non lo potrò sopportare» (v 5), e ancora: «sterminerò ogni mattino tutti gli empi del paese, per estirpare dalla città del Signore quanti operano il male» (v 8). A questa prospettiva, cioè all’anelito verso la vita. possono essere ricondotti anche quei salmi dove il salmista, minacciato dalla morte, si rivolge a Dio e chiede di essere liberato. Oppresso dal nemico, egli ritiene di potere sperare la liberazione da Dio. Le testimonianze a riguardo sono pure numerose. Riferiamo soltanto qualche esempio. Scrive il Sal 6,5: «nessuno tra i morti ti ricorda, chi negli inferi canta le tue lodi». Ancora nel Sal 9,14 leggiamo: «vedi la mia miseria, opera dei miei nemici, tu che mi strappi dalla soglia della morte». Inoltre il Sal 12,3: «guarda, rispondimi, Signore mio Dio, conserva la luce dei miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte». Più significativo è il Sal 114,7: «ritorna, anima mia alla tua pace, poiché il Signore ti ha beneficato; egli mi ha sottratto dalla morte, ha liberato i miei occhi dalle lacrime, ha preservato i miei piedi dalla caduta».


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4. Riflessione sintetica I testi che abbiamo sopra citato suscitano non poca perplessità nel lettore moderno. Oggettivamente essi contengono una forte limitazione del diritto alla vita. Suscita perplessità il fatto che, per salvare un solo popolo, Dio non esiti a decretare la rovina di altri popoli; come pure lascia perplessi che il Sal 106 attribuisca a trasgressione del comando di Dio, e perciò a peccato, il fatto che Israele non sterminò gli altri popoli. Si direbbe che, nella prospettiva veterotestamentaria, solo Israele abbia diritto a vivere Tuttavia è importante entrare e leggere i testi non con la mentalità moderna ma nella prospettiva parziale e limitata dell’AT. In quest’ottica essi appaiono meno sorprendenti e carichi anzi di profonda religiosità. La convinzione profonda dell’AT è che tra tanti popoli Dio ne ha scelto uno in particolare, che si è impegnato a salvare e al quale ha giurato di dare una terra. Se Dio interviene anche duramente contro i popoli è perché egli si è impegnato solennemente con Israele. Egli distrugge i popoli che, come gli egiziani, lo tengono prigioniero, che, come i re del cammino dell’Esodo, ne ostacolano il cammino ed occupano la terra che Dio invece ha promesso di dare al suo popolo. Israele, come appare dai salmi sopra citati, celebrerà le stragi da Dio operate, non in quanto stragi, ma in quanto intervento potente del Dio salvatore, fedele al suo patto e alle sue promesse. In questa prospettiva limitata si colloca anche la richiesta a Dio della vendetta sui nemici. A riguardo i testi sono numerosi. in maniera esemplificativa citiamo il Sal 137, dove il salmista chiede a Dio di “ricordarsi”, ma in maniera negativa, dei figli di Edom e conclude chiamando beato chi renderà alla figlia di Babilonia quanto essa ha fatto a Sion, e chiama pure beato «chi prenderà i suoi piccoli e li sfracellerà contro la roccia» (v 9). Più crudo ancora è il Sal 58, dove il salmista chiede a Dio che i suoi nemici possano dissolversi come acqua che si disperde, possano inaridirsi come l’erba calpestata, possano passare come lumaca che si dissolve o come aborto che non vede il sole. Ma è importante una riflessione sull’AT. Esso può essere letto in due modi: in se stesso o alla luce del NT. In se stesso esso descrive semplicemente l’esperienza che un popolo antico, Israele, ha fatto, nella sua storia, del suo Dio. Egli si ritenne il popolo privilegiato di Dio, l’unico popolo con il quale soltanto egli ha stipulato un’alleanza e che soltanto esso è tenuto a


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salvare. In questo sfondo appare naturale il fatto che, per salvare questo popolo, Dio pieghi gli altri popoli, distrugga i suoi nemici, gli conceda vittoria in guerra, tolleri la richiesta di vendetta, gli comandi addirittura di sterminare i popoli. In questa prospettiva, letto cioè soltanto in se stesso, l’AT, come esperienza religiosa di un antico popolo semita, potrebbe non interessare o, addirittura, suonare offensivo per tutti gli altri popoli di ogni epoca, mentalità e razza, che pur provengono dallo stesso Dio ma che non appartengono al popolo di Israele. Alla luce del NT però l’AT assume un altro significato. La primitiva comunità cristiana, che ebbe il compito di penetrare e descrivere anche in forma scritta il mistero di Gesù, comprese che esso affondava le sue radici nell’AT. In questo senso, esso, pur nei limiti della sua concezione e del suo linguaggio, appariva come la prefigurazione e l’annunzio del mistero di Gesù e di quanto Dio avrebbe operato per mezzo di lui e in lui. In Cristo è superata la prospettiva parziale e limitata dell’AT. Ormai la salvezza supera i limiti contingenti della storia e si apre ad una dimensione eterna e i suoi destinatari non sono più un solo popolo ma tutti i popoli. Trasgredendo la legge giudaica che proibiva di entrare in casa di un pagano, nella casa del centurione Cornelio Pietro dichiara: «mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,34). A Pietro fa eco Paolo che, nella lettera ai Galati, dichiara che in Cristo: «non c’è più giudeo o greco, schiavo o libero» (Gal 3,28). L’apocalisse infine parla del nuovo popolo di Dio come proveniente da ogni «tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9).

PARTE SECONDA: il Nuovo Testamento Come abbiamo già ripetutamente sottolineato, il NT supera radicalmente la prospettiva dell’AT. Ad una prospettiva limitata e nazionalista subentra una prospettiva universale; ad una prospettiva storica e terrena subentra una prospettiva eterna che va oltre la storia umana.


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1. La manifestazione della Vita Una novità assoluta del NT è quella di identificare la vita con una persona: la vita stessa è una persona e c’è una persona che, in assoluto, essa stessa è la vita. Ci riferiamo a riguardo soprattutto agli scritti giovannei. In 1Gv 1,3-5 l’autore dichiara: «vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre ed è apparsa a noi». Appena prima l’autore ha parlato della «parola della vita», della parola cioè che è la vita: questa parola si è resa visibile, al punto da essere vista con gli occhi, udita, contemplata, palpata con le mani. Si tratta evidentemente di Gesù di Nazaret, di cui l’autore del quarto vangelo scriverà: «in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini». Gesù stesso davanti a Marta, che piange per la morte del fratello, si definisce come la resurrezione e la vita: «io sono la resurrezione e la vita» e si presenta come fonte di vita: «chi crede in me, anche se è morto, vive» (Gv 11,25). Ai discepoli poi che confessano di non conoscere la via che conduce al Padre Gesù dichiara: «io sono la via, la verità e la vita» e aggiunge: «nessuno viene al Padre se non attraverso di me» (Gv 14,6). A Giovanni fa eco Paolo il quale, dopo averli esortati a cercare «le cose di lassù dove Cristo siede» ricorda ai cristiani di Colossi che «quando Cristo, vostra vita, apparirà, apparirete anche voi con lui nella gloria» (Col 3,4).

2. Il mistero di morte e resurrezione Gesù di Nazaret, eterna Parola di Dio divenuta uomo, si manifesta come Vita e fonte di vita nel suo mistero di morte e resurrezione. La resurrezione di Gesù è il punto centrale della fede cristiana e l’oggetto fondamentale della predicazione apostolica. Dirà Pietro nel giorno della pentecoste: «Dio lo ha resuscitato da morte e noi siamo i testimoni» (At 2,33). Certo nessuno assistette all’evento stesso della resurrezione; ciò spiega perché nei vangeli è assente qualsiasi racconto a riguardo. Nella Chiesa primitiva infatti a nessuno era lecito narrare o tramandare ciò di cui non si era stati testimoni oculari o che non concordava con quanto i primi


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testimoni avevano trasmesso. Nessuno vide Gesù risorgere e a nessuno perciò era lecito trasmettere un racconto. L’esperienza di Gesù fu quella di averlo visto vivo e questa appunto fu narrata. La verità del Risorto nella Chiesa primitiva, contro qualsiasi ipotesi moderna di allucinazione o mito, è assoluta, indiscussa e indiscutibile. Tutti gli autori neotestamentari concordano su questo punto fondamentale, anche se poi si differenziano nelle varie prospettive. Contro il dubbio che serpeggiò nella comunità di Corinto Paolo reagì energicamente nella sua prima lettera. L’evento della resurrezione poi è un fatto talmente irrinunciabile che esso deve essere annunziato anche dove si sa che non è accolto. Pensiamo ai sadducei che negavano la resurrezione. Ma soprattutto pensiamo all’annunzio di Paolo in ambiente neoplatonico all’areopago di Atene. Paolo, che in quasi tutto il suo discorso ha trovato consenso da parte dei greci, resta solo al momento in cui parla di un uomo che Dio ha costituito giudice «avendolo resuscitato da morte» (At 17,31). Il punto critico è esattamente il fatto della resurrezione. Narra infatti Luca subito dopo che, avendo sentito parlare di “resurrezione da morte” alcuni deridevano, altri dissero: «ti ascolteremo di questo in seguito» (v 32). La resurrezione di Gesù è “resurrezione da morte”. Essa segue all’esperienza della morte. Tutti i vangeli, in sintonia con il resto del NT, attestano che Gesù morì di una morte ritenuta da tutti la più dolorosa e la più infamante, la morte in croce. Essa seguì ad una passione altrettanto dolorosa che i vangeli concordemente riferiscono nelle sue varie tappe, senza tacere particolari anche atroci, quali la flagellazione, l’incoronazione di spine, gli scherni. Tuttavia le narrazioni evangeliche appaiono spesso fredde e distaccate. In realtà, narrando quei fatti, gli evangelisti hanno avuto cura di evitare tutto ciò che in qualche modo potesse offuscare il vero senso della passione. Il Gesù che patisce e muore in croce non è né l’eroe stoico da ammirare né la vittima degli avvenimenti da compiangere. Ma qual è il vero senso della passione e morte? Diverse volte nei vangeli, anche in bocca a Gesù (cfr Mt 16,21), leggiamo, in relazione proprio alla passione, il verbo de_ che esprime necessità assoluta. Ai due discepoli di Emmaus Gesù spiega che il Cristo “doveva” prima patire per poi entrare nella sua gloria (Lc 24,26). A Nicodemo poi Gesù dichiara che


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il figlio dell’uomo “deve” essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto (Gv 3,14). Tale affermazione di necessità contrasta con le attese messianiche del tempo. Nessuno aveva pensato, nonostante le varie immagini prefigurative delle Scritture, ad un messia sofferente. Basti pensare alla versione aramaica di Is 52,13-53,12, il quarto canto del servo, che interpreta il testo in senso messianico, ma depenna o trasforma tutti i passaggi che parlano della sofferenza del servo. Al contrario, nella narrazione della passione gli evangelisti, con allusioni esplicite o implicite, hanno cura di mostrare che nulla c’era negli eventi della passione che non fosse stato già previsto dalle Scritture. Dove si fonda allora la necessità della passione e morte del Messia? Certo sulle Scritture. Il NT riconosce che a lui, benché in maniera velata e implicita, si riferivano alcune immagini dell’AT, quali il sacrificio di Isacco, l’Agnello pasquale, il serpente nel deserto, il sacrificio di espiazione, il servo sofferente, e a lui alludevano pure diversi salmi quali i Sall 15.21.39. 41.68.117. Una lettura più attenta del NT rivela però che la necessità della passione e morte di Gesù si radica nella stessa logica della storia della salvezza. La causa della morte era stato il peccato adamitico: si esigeva perciò un atto di obbedienza, antitetico a quella trasgressione. Il messia salvatore deve compiere un atto di obbedienza contrario alla trasgressione adamitica: questa prospettiva soggiace tra le righe nella narrazione evangelica della preghiera di Gesù al Getsemani, in cui egli antepone alla sua la volontà del padre. Che il messia dovesse compiere un atto di obbedienza era già indicato dalle Scritture. Pensiamo al terzo canto del servo di Jahvè. La riflessione primitiva poi attribuì a lui le parole dell’anonimo salmista che parla nel Sal 39: «ecco, vengo a compiere il tuo volere» (Sal 39,8). I vangeli sinottici, come abbiamo detto, presentano Gesù, non senza una tacita contrapposizione all’Adamo genesiaco, come colui che aderisce alla volontà di Dio; Giovanni fa dire a Gesù che proprio questo era lo scopo per cui discese dal cielo (Gv 6,38-40); l’autore della lettera agli Ebrei attribuisce le parole del Salmo su citate a Gesù al momento del suo ingresso nel mondo (Eb 10,5ss). Paolo, in Fil 2,7, scriverà che Gesù «umiliò se stesso divenuto


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obbediente fino a morire», e in Rm 5,19 stabilirà un confronto tra la disobbedienza adamitica e l’obbedienza di Gesù. Si pone allora la domanda: in che cosa consiste concretamente l’obbedienza di Gesù? Benché Gv 6,38 sembri includere anche l’incarnazione, l’obbedienza di Gesù consiste soprattutto nell’accettazione del calice della passione e morte. Proprio per questo motivo i vangeli sinottici premettono alla narrazione della passione la preghiera di Gesù al Getsemani. Si voleva appunto sottolineare che, nel cammino della passione, Gesù non fu né succube né travolto dagli eventi, ma aderì profondamente alla volontà di Dio. Soprattutto la narrazione giovannea ha cura di presentare un Gesù profondamente libero che, in certo senso, guida gli avvenimenti. Non si tratta nemmeno di una obbedienza subita o rassegnata. La stessa parola “obbedienza”, nelle tre lingue: latina, greca, ebraica, implica l’aspetto dell’adesione interiore. Tale adesione in Gesù fu totale. I vangeli sinottici mostrano Gesù proteso verso quell’evento, al punto che scacciò come Satana Pietro che tentava di scongiurare quel momento (Mt 16,23). Scrive la lettera agli Ebrei che Gesù «imparò dalle cose che patì l’obbedienza» (Eb 5,8): si direbbe che la sua adesione interiore progrediva con la passione stessa. Giovanni poi, riprendendo e reinterpretando i vangeli sinottici, fa dire a Gesù: «il calice che il Padre mi ha dato, forse che non lo beva?» (Gv 18,11). Ma perché l’obbedienza di Gesù doveva consistere proprio nella passione e nella morte di croce? Qui ci si imbatte nell’imperscrutabilità del disegno di Dio. Ci sembra però di scorgere una motivazione, almeno parziale, rileggendo il testo di Fil 2,6-11 costruito sulla falsa riga della trasgressione adamitica. A Gesù, uomo senza peccato, era richiesto di operare una profonda trasformazione, trasformare cioè l’epilogo della trasgressione adamitica, la morte, in fonte di vita. Tale trasformazione poteva essere operata solo da un uomo al quale la morte non competeva appunto perché senza peccato, ma che egli accettava in atteggiamento di obbedienza. L’obbedienza, appunto come atto di profonda adesione a Dio, è sempre fonte di vita, la morte allora, accettata per obbedienza, da punizione per il peccato, diventa fonte di vita. Adamo e Gesù coincidono nella stessa realtà: l’esperienza della morte. Ad essa però i due uomini arrivano per vie diverse ed opposte. Il primo vi arriva attraverso la via della trasgressione e per lui la morte diventa


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punto di arrivo definitivo; il secondo invece vi arriva attraverso la via dell’obbedienza e per lui la morte diventa punto di partenza verso una nuova realtà. Il terzo giorno infatti Gesù risorge e diventa anche «causa di salvezza eterna per quanti gli obbediscono» (Eb 5,9). Cristo, con il suo mistero di morte e resurrezione, diventa allora modello paradigmatico di vita, in linea di principio per tutti gli uomini, specificamente per quanti accettano di credere in lui. Questo è il senso delle parole del Padre nel racconto evangelico della trasfigurazione: «questi è il mio figlio diletto: ascoltatelo» (Mt 17,5). Cristo così è la nuova e fondamentale legge che Dio promulga direttamente al cristiano e indirettamente ad ogni uomo. Alla norma subentra una persona. Nel mistero di Gesù Dio indica agli uomini la strada per giungere alla vita eterna: passare attraverso la morte accettata in atteggiamento di obbedienza e di fede. Assistiamo pure ad un radicale cambiamento di senso. Alla luce del mistero di Gesù sofferenza e morte umana non sono più il destino inesorabile e definitivo dell’uomo ma sono come un corridoio che conduce alla vita eterna. La condizione indispensabile per tale cambiamento, come abbiamo detto, è l’atteggiamento di obbedienza e di fede, che esclude qualsiasi forma di autolesionismo e di suicidio.

3. Nuove prospettive Il mistero di Gesù determina nuove prospettive di vita. Nello sfondo di questo mistero si giustifica e si comprende così il discorso della montagna riferito nei cc 5-7 del vangelo di Matteo. Si giustificano le beatitudini che, con l’ideale che propongono della povertà di spirito, della mitezza, della misericordia, della sofferenza, persino della persecuzione, appaiono contrarie a qualsiasi logica umana. Nello sfondo di questo mistero si comprende anche il modo come Gesù porta a perfezione e supera la legge e i profeti (Mt 5,17-20). A riguardo è significativo il testo di Mt 5,21-48, dove Gesù propone sei casi di superamento. Mediante l’espressione: «avete sentito che fu detto» cita la concezione precedente, mediante l’espressione: «ma io vi dico» introduce


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la nuova prospettiva che egli propone. Ci limitiamo adesso a considerare solo qualche esempio. Il superamento del comandamento: «non uccidere» è proposto nei vv 21-25. Essi riguardano sia il fratello sia anche l’avversario. A riguardo del fratello subito dopo in Mt 5,21 leggiamo:

«avete inteso che fu detto: non uccidere […]; io invece vi dico: chiunque si adira con il suo fratello, sarà degno del giudizio; e chiunque dice stupido, sarà degno del Sinedrio; e chiunque dice pazzo, sarà degno della geenna di fuoco» (vv 21-22).

Gesù va oltre il semplice comandamento: «non uccidere», che potrebbe limitarsi soltanto al fatto materiale di togliere la vita; egli esclude qualsiasi forma di ostilità che il qualche modo potrebbe colpire il prossimo nella sua dignità o nel suo onore. Ma Gesù va ancora oltre. Subito dopo, nei vv 23-24, sempre a riguardo del fratello, egli propone l’ideale della riconciliazione. Riconciliarsi con il fratello è talmente importante al punto da essere anteposto anche all’offerta. Chi infatti si accinge a fare una offerta e ricorda che il fratello ha qualcosa contro di lui, deve lasciare la propria offerta e riconciliarsi prima con il fratello. Particolare attenzione merita il sesto caso proposto da Gesù in Mt 5,43-48, quello dell’amore verso il prossimo. Gesù rievoca l’insegnamento udito: «amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico». Egli si riferisce a Lv 19,18 che prescrive appunto di non vendicarsi e di non serbare rancore contro i figli del proprio popolo. Qui il testo del Levitico introduce le famose parole: «amerai il prossimo tuo come te stesso». Il testo di Lv 19,18 si riferisce ai rapporti di un Israelita verso un altro Israelita ma non prescrive certo di odiare il nemico. Le parole citate da Gesù: «odierai il tuo nemico» appaiono così come una deduzione degli scribi dal comandamento di amare il prossimo. Qualche testo dell’AT però sembra contraddire questa deduzione. Si pensi ad Es 23,4ss che prescrive di aiutare il nemico a ritrovare il proprio bue o asino che si sono smarriti o di aiutarlo a sollevare l’asino che si è accasciato sotto il suo carico.


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La deduzione rabbinica sul nemico si rivela però importante. Essa dà occasione a Gesù di proporre una nuova relazione a riguardo. Il nemico non è una persona da odiare bensì da amare e beneficare, per la quale bisogna anche pregare. Gesù propone come modello il modo di agire del Padre che, nel dispensare i suoi doni, non fa distinzione tra buoni e cattivi, tra giusti e ingiusti. In questo diverso modo di agire, nel fatto cioè di amare anche il nemico, Gesù scorge una nota peculiare che differenzia i suoi discepoli dai pubblicani e dai pagani. Anche costoro amano i loro amici e salutano i propri fratelli. I discepoli non farebbero nulla di più se si limitassero soltanto a questo. L’insegnamento sull’amore verso il nemico è proposto anche altrove nel NT. Così Paolo, in Rm 12,20, scrive: «se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete, dagli da bere». Su questa linea si muove anche la parabola lucana del buon samaritano, in Lc 10,30ss: al di là del suo significato storico salvifico la parabola del samaritano presenta un nemico, il samaritano, che si china su un nemico, l’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico e che è un giudeo. A riguardo Gesù stesso ha dato l’esempio quando ha pregato per quelli che lo avevano crocifisso (Lc 24,34). In Rm 5,10 Paolo dirà che, essendo noi nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo.

4. Accettare di essere uccisi Ma la prospettiva neotestamentaria va ancora oltre. L’esempio di Gesù mostra che il cristiano, ben lungi dall’uccidere, deve accettare talora, in nome della sua fede, anche di essere ucciso. Ciò è annunziato chiaramente da Gesù stesso nel suo discorso ai discepoli prima di mandarli a predicare. In Mt 10,16 egli dichiara: «ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi». Nei versi seguenti (vv 17-27) passa poi ad elencare in maniera dettagliata, tutte le ostilità che i discepoli dovranno subire. Conclude infine, nei vv 28-31, esortando a non temere quelli che uccidono il corpo: questi non possono uccidere l’anima. Ciò significa che chi teme quelli che uccidono il corpo rischia di perdere anche l’anima.


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Tutto il discorso del c 10 del vangelo di Matteo suona come una profezia “ex eventu”. La Chiesa primitiva di tutte quelle cose ha fatto già esperienza. Fin dai primissimi tempi essa si trovò di fronte alla persecuzione. Questa fu scatenata prima dai giudei poi dai romani. Paolo stesso, che in seguito subì anche lui il martirio, prima della conversione fu acerrimo persecutore dei cristiani. Gli evangelisti poi, riferendo le parole di Gesù, presentarono in maniera più dettagliata quello che egli aveva preannunziato, forse in maniera più generica. Il cristiano perciò, di fronte a chi lo uccide a causa della sua fede, deve preferire di essere ucciso ma non di rinnegare la sua fede. A riguardo conserviamo nei vangeli la redazione di una serie di detti di Gesù molto significativi. Restando nel vangelo di Matteo, ci riferiamo ai vv 24-28 del c 16. Dopo avere dichiarato che chi vuol seguirlo deve prendere la sua croce, in tono sapienziale Gesù continua spiegando che chi vuol salvare la propria vita, la perde, mentre chi perde la propria vita, la salva. Anche qui ci troviamo di fronte ad un detto di Gesù riformulato dalla Chiesa primitiva alla luce di un’esperienza già vissuta. Le parole seguenti di Gesù: «che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi perde l’anima?» si riferiscono probabilmente alle lusinghe con cui i cristiani venivano esortati a defezionare. Nel suo testo parallelo Marco aggiunge un altro detto di Gesù: «chi si vergogna di me e delle mie parole in questa generazione, anche il figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella sua gloria» (Mc 8,38). La logica che soggiace a tale insegnamento di Gesù è quella del suo mistero di morte e resurrezione. Il cristiano è colui che è chiamato a condividere questo suo duplice mistero. Se oggi accetta di condividere la sua croce un giorno avrà il diritto a condividere la sua glorificazione. Ma se oggi per sfuggire alla croce defeziona da Gesù non può pretendere di partecipare un giorno alla sua gloria. Questa è la logica che soggiace anche ai diversi scritti del NT che esortano a non defezionare nel tempo della persecuzione. Ci riferiamo alla lettera agli Ebrei, alla prima lettera di S. Pietro, ma soprattutto ci riferiamo al libro dell’Apocalisse. Questo libro, scritto al tempo della persecuzione di Domiziano, in ultima analisi si riconduce all’esortazione fondamentale a non defezionare


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da Gesù, anche se la violenza della persecuzione che coinvolse larga parte dell’impero romano, talora poteva costituire una facile tentazione. Al di là del complesso linguaggio simbolico usato, l’autore dell’Apocalisse rivela senza ambiguità il dilemma davanti al quale il cristiano si trova: o accettare Cristo e subire la persecuzione o rinnegare Cristo ed eludere la persecuzione. Ma il dilemma va ancora oltre. Cristo è morto ed è risorto: chi muore per lui condivide la sua croce e condividerà poi la sua resurrezione. Al contrario, chi rinnega Cristo, vede prolungata la sua vita terrena, ma non sfuggirà alla morte escatologica, la “morte seconda” riservata a Satana e a quanti hanno aderito a lui (Ap 20).

5. La vita eterna La grande prospettiva che Cristo ha aperto a tutti gli umanità è quella della vita eterna. A riguardo abbiamo solo la difficoltà di scegliere qualche testo tra i tanti. Possiamo citare qualche passaggio del vangelo di Giovanni. In Gv 3,14 Gesù, parlando di se stesso, dichiara che il figlio dell’uomo deve essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto. Continua che «chi crede in lui non perisce ma ha la vita eterna». Ancora in 6,40 Gesù continua descrivendo la volontà di Dio: questa è che «chiunque vede il figlio e crede in lui ha la vita eterna». Da parte sua Gesù promette che resusciterà nell’ultimo giorno. In Gv 5,25 poi Gesù dichiara che viene l’ora in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio e quelli che avranno udito vivranno. Gesù stesso poi ha offerto un segno profetico: sulla tomba di Lazzaro ha fatto risuonare la sua voce e questi è uscito vivo dal suo sepolcro (Gv 11). Nello sfondo dell’umanità non c’è perciò la morte bensì la resurrezione; come pure nello sfondo della creazione non c’è la distruzione ma l’instaurazione di cieli nuovi e terra nuova. Tutto ciò poggia su una grande certezza: il fatto che Cristo è risorto e la sua resurrezione è garanzia assoluta della resurrezione umana e della redenzione cosmica. La resurrezione umana in parte è già attuata e in parte è dilazionata al futuro. È già attuata dal punto di vista spirituale. Il cristiano che è stato raggiunto e si è lasciato coinvolgere da Cristo già possiede la vita eterna. È


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importante nei testi sopra citati di Gv 3,14 e di Gv 6,40 l’indicativo presente “ha”, ha cioè fin da adesso. Sono pure significative le parole di Gesù a Marta: «chiunque vive e crede in me non muore mai» (Gv 11,25-26). È dilazionata al futuro invece la resurrezione del corpo. L’uomo è anima e corpo e la vita eterna non riguarda perciò soltanto l’anima ma anche il corpo. In Rm 8,23, dopo avere descritto l’anelito della creazione, Paolo passa a descrivere l’anelito dell’uomo: «anche noi gemiamo interiormente aspettando la figliolanza divina, la redenzione del nostro corpo». L’annunzio della resurrezione, prima quella di Cristo e poi anche quella dell’uomo, dovette impressionare, come abbiamo già osservato, le comunità cristiane di origine greca, influenzate da mentalità neoplatonica. Su questo problema Paolo tornerà con insistenza sia nel c 4 della prima lettera ai Tessalonicesi sia anche nel c 15 della prima lettera ai Corinti. La prospettiva cristiana però è diversa da quella neoplatonica. La resurrezione non è il ritorno dell’anima nella prigione del corpo bensì l’elevazione del corpo ad una dimensione spirituale, eterna. Quanto poi alla redenzione cosmica, essa è consequenziale alla redenzione dell’uomo. Questi, per la sua dimensione corporea, è legato inscindibilmente alla creazione, così come la sua dimensione corporea è inscindibilmente legata alla sua dimensione spirituale. Assicurando con la sua resurrezione la redenzione del corpo, Cristo ha garantito anche la redenzione cosmica. Non dobbiamo aspettarci quindi la “cessazione” del cosmo ma la sua trasformazione, anche se nessuno sa come essa avvenga. Certi passaggi neotestamentari a riguardo, che parlano della distruzione come una deflagrazione o un incendio universale, risentono del linguaggio della letteratura apocalittica. Della redenzione cosmica ci parla Paolo in Rm 8,22. Scrive l’Apostolo che «la creazione geme e soffre come le doglie del parto fino adesso». Le doglie del parto sono dolori intensi che si risolvono in una vita nuova. La creazione oggi vive tale intensità di dolori nell’attesa di una vita nuova. Nel v 19 l’apostolo aveva detto che la creazione attende la manifestazione dei figli di Dio. Sarà perciò l’uomo ad incidere nella trasformazione cosmica. Quando questi raggiungerà la sua piena dimensione di figlio di Dio, che include anche la resurrezione del corpo, allora anche la creazione, per dirla ancora con Paolo, sarà liberata dalla servitù della corruzione e sarà chiamata a condividere la gloria dei figli di Dio.


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Attilio Gangemi

Al messaggio paolino fanno eco sia la seconda lettera di S. Pietro sia anche il libro dell’Apocalisse. Scrive Pietro in 2Pt 3,13 che noi, secondo la promessa di Dio (cfr Is 66,17), «attendiamo cieli nuovi e terra nuova dove abita la giustizia». L’autore dell’Apocalisse poi, in Ap 21,1-5, dichiara di avere visto «un cielo nuovo e terra nuova», diversi dal primo cielo e dalla prima terra, destinati a scomparire. In questa nuova creazione, che sarà instaurata al ritorno del Signore, non ci sarà più né lutto, né lamento, né morte.

Conclusione Da Genesi all’Apocalisse la Scrittura delinea tutta una storia di salvezza il cui punto centrale è Cristo. Nella creazione di Dio è entrato il peccato che, come divisione da Dio, ha introdotto profonde lacerazioni. L’uomo peccatore si è ritrovato diviso e in conflitto con se stesso, diviso e in conflitto con gli altri, diviso e in conflitto con la creazione. Cristo, con il suo fondamentale atto di obbedienza che lo ha portato alla croce, ha operato la riconciliazione con Dio, rendendo possibili tutte le altre riconciliazioni. A partire da Cristo, l’uomo può perciò operare tutte le altre riconciliazioni. In particolare egli può riconciliarsi con se stesso grazie al dono dello Spirito Santo, frutto della resurrezione di Gesù, che vive nel suo cuore; può riconciliarsi con gli altri obbedendo al comandamento dell’amore vicendevole da Cristo proposto come “suo” comandamento; può riconciliarsi con la creazione lavorandola e sfruttandola secondo il disegno di Dio. Cristo ha inaugurato così ed ha reso anche possibile un cammino che culmina nella pienezza della vita eterna che implica anche la resurrezione del corpo e la trasformazione cosmica. In questa prospettiva la vera morte è quella di chi non accetta di coinvolgersi in questo cammino di riconciliazione globale. A riguardo è sufficiente citare un solo testo, 1Gv 3,14: «sappiamo che siamo passati da morte a vita perché amiamo i fratelli; chi non ama “rimane” nella morte».


TEOLOGIA DELLA VITA E TEOLOGIA DELLA MORTE

MAURIZIO ALIOTTA*

Premessa Nella teologia cattolica sembra esserci un certo squilibrio tra la riflessione sulla morte e quella sulla vita. Se consideriamo la teologia contemporanea, in effetti, ci accorgiamo che molti e importanti teologi hanno dedicato i loro sforzi a chiarire il senso ultimo della vita a partire dalla morte e non viceversa. Sulla morte in quanto tale da sempre si è riflettuto e la teologia ha tentato di dare una sua interpretazione, a partire ovviamente dall’evento centrale della fede cristiana, vale a dire la risurrezione di Cristo. All’evento conclusivo dell’esistenza umana è riservato uno spazio proprio in un trattato specifico, l’escatologia1. La relazione tra vita e morte, nella teologia cattolica, è data dalla qualità che la vita acquisisce a partire dalla morte: il destino assoluto dell’uomo è indicato con la categoria di “vita eterna”. Là dove la morte è considerata, alla luce della risurrezione di Cristo, la soglia che introduce alla “vera vita”, l’unum necessarium: «trovare e realizzare la propria identità, scoprire e compiere il senso del proprio esistere»2.

* Dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1

Non bisogna dimenticare, tuttavia, anche la riflessione dell’antropologia teologica e della sacramentaria. 2 A. RIZZI, L’Europa e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Cinisello Balsamo 1991, 78.


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Maurizio Aliotta

La Costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II contiene una pagina espressamente dedicata alla morte3 mentre non vi è alcun che di analogo per la “vita”. Uno dei maggiori teologi cattolici del ’900, Karl Rahner, sviluppa un’interessante riflessione sulla morte, suggerendo che tutto il senso della vita si può comprendere, in definitiva, da come comprendiamo quello della morte4. Seguendo M. Heideger, egli salda la riflessione sulla morte a quella sulla libertà, nel senso che la morte è presentata come atto personale e spirituale, come momento decisivo dell’auto-attuazione di sé. Vi è in questa prospettiva un duplice livello di comprensione della morte dell’uomo: quello che appartiene alla “naturalità” dell’uomo, il suo sopraggiungere come parte del vivere umano e quindi indipendente dalla sua volontà; quello che appartiene alla dimensione spirituale dell’uomo, riconducibile quindi allo spazio della sua azione e della sua libertà personale, spazio caratterizzato dalla totale disposizione di sé5. In ogni istante della vita vi è una anticipazione del nostro morire; così egli spiega la prolixitas mortis:

3

Gaudium et Spes 18, in Enchiridion Vaticanum, I, 1371-1372. Lo scritto più importante su questo soggetto è K. RAHNER, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio, trad. it., Brescia 1965; cfr pure ID., La morte cristiana, in ID., Nuovi Saggi, II, Roma 1968, 347-356; ID., Lo scandalo della morte, ibid., 177-182; ID., Morte, in Sacramentum mundi (=SM), V, Brescia 1976, 531-539; ID., Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, in ID., Nuovi Saggi, IV, Roma 1972, 389-404; ID., Su una teologia della morte, in ID., Nuovi Saggi, V, Roma 1975, 241-265; ID., Il morire cristiano, in Mysterium salutis. Il tempo intermedio e il compimento della storia della salvezza, trad. it., X, Brescia 1978, 557-594; ID., Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, trad. it., Cinisello Balsamo 19905, 552-559; per una ricognizione completa sulla teologia della morte di Rahner, cfr S. ZUCAL, La teologia della morte in K. Rahner, Bologna 1982; sul tema della morte nella teologia degli anni ’60/’80, cfr G. COLZANI, L’escatologia nella teologia cattolica degli ultimi 30 anni, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, L’escatologia contemporanea, a cura di G. Canobbio M. Fini, Padova 1995, 111-113; di notevole interesse le opere di H. J. M. NOUWEN, Il dono del compimento: meditazioni su come morire e aiutare a morire, trad. it., Brescia 1995; J.M. TILALRD, La morte: enigma o mistero?, trad. it., Magnano 1998; per un approccio filosofico al tema della morte, cfr V. MELCHIORRE, Sul senso della morte, Milano 1994. 5 Per le difficoltà poste dalla posizione di Rahner e alcune critiche che gli vengono avanzate, cfr G. COLZANI, L’escatologia nella teologia cattolica degli ultimi 30 anni, cit., 113-119. 4


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«Ogni momento della vita è un tratto della via verso la meta finale e già la porta essenzialmente in se stesso, come dalla traiettoria di un colpo possiamo dedurre il suo bersaglio. La vita quindi è una vera morte, e ciò che sogliamo chiamare morte è la fine di quel lento morire che si verifica durante tutta la nostra esistenza e raggiunge il suo termine definitivo all’istante della morte»6.

La vita è vista perciò come l’ambito su cui è sempre presente l’approssimarsi della morte. Il morire abbraccia l’intero corso della vita; in questo senso Rahner supera una concezione impersonale del morire, saldando invece morte e libertà umana perché la stessa dinamica della vita è quella del morire. Il centro del pensiero di Rahner sulla morte è che essa si presenta come un atto personale e spirituale, come momento decisivo dell’auto-attuazione di sé. Le critiche che questa opinione teologica sollevò furono diverse, tra le più significative quella del teologo protestante Jüngel. In Rahner la passività è una categoria negativa perché contraddittoria della libertà dell’uomo. Ora la morte non dipende dalla nostra libertà, dunque l’uomo in qualche misura deve “morire liberamente” per essere soggetto spirituale libero, quindi veramente uomo. Ma, osserva Jüngel, non sempre la passività deve essere considerata una categoria negativa:

«La fine della vita che ci procuriamo è certamente un evento che l’uomo deve soffrire. Ma nel soffrire questa morte l’uomo è passivo in maniera diversa da quando subisce la morte maledetta impostagli come conseguenza del suo agire. Nella morte maledetta l’uomo è il soggetto di una attività che deve poi subire passivamente. La fine della vita liberata dalla morte maledetta, invece, è subita dall’uomo in una passività che è condizionata dall’attività del creatore. Una tale passività non può essere un male. Anche qui dovremmo imparare a non ritenere ogni subire una sofferenza. C’è una passività senza la quale l’uomo non sarebbe umano. Ad essa appartiene il fatto di essere generati, di essere amati, di morire. Faremo bene a non trarre,

6

K. RAHNER, Su una teologia della morte, cit., 253.


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Maurizio Aliotta dal fatto che gli uomini vengono generati a amati da altri uomini, la falsa conseguenza che queste passività fondamentali dell’esistenza umana sarebbero quello che sono senza intervento divino»7.

Di segno diverso a K. Rahner anche il pensiero di un altro protestante, il filosofo P. Ricoeur, che offre delle indicazioni molto interessanti per il nostro tema:

«Ora, io non debbo trattarmi come il morto di domani, per tutto il tempo che sono in vita […]. Proietto così non un dopo - la - morte, ma un morire che sia l’ultima affermazione della vita. Così la mortalità deve essere pensata sub specie vitae e non sub specie mortis. Ciò spiega perché non ami affatto né utilizzi il vocabolario heideggeriano dell’essere - per - la - morte. […] Nello sforzo di esistere c’è sempre un prezzo da pagare. Ma è a vantaggio della vita e dei suoi molteplici cominciamenti e ricominciamenti»8.

Per il teologo cristiano, anche la riflessione sub specie mortis non può essere a sua volta che sub specie resurrectionis. Ciò vuol dire che vita e morte si illuminano reciprocamente come momenti della stessa vicenda umana; morte e vita non solo partecipano della stessa dinamica di libertà dell’uomo, come sosteneva Rahner, ma acquistano senso a partire dall’unico evento in cui morte e vita si compenetrano al punto da essere l’una la soglia dell’altra. Lo stesso Rahner afferma, nel suo Grundkurs, che «è attraverso la morte — non dopo la morte — che viene ad esserci la definitività attuata dell’esistenza dell’uomo maturata liberamente»9. Il concetto di morte qui rimanda a quello di eternità, inteso non come un puro perdurare cronologico del tempo dopo la morte, ma come «un modo della spiritualità e della libertà

7

E. JÜNGEL, Morte, trad. it., Brescia 1972, 131-132. P. RICOEUR, La critica e la convinzione, trad. it., Milano 1995, 219. 9 K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, cit., 555. 8


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maturate nel tempo», quindi l’eternità va concepita «solo partendo dalla retta comprensione di queste ultime»10. È evidente, in ogni caso, che nell’orizzonte della fede cristiana dire “morte” significa rimandare ad una chiave ermeneutica per comprendere la realtà in quanto tale. Sia nella prospettiva di Rahner, sia in quella di Jüngel, è inevitabile la non separazione tra vita e morte, perché questa appartiene a quella. Può cambiare il modo di porle in relazione, di interpretare l’una e l’altra o di censure quest’ultima, ma la morte resta un dato ineluttabile dell’esistenza umana. Tuttavia, nel contesto culturale odierno, ciò non è per nulla un dato scontato. I paradigmi culturali odierni spingono ad una comprensione di vita e morte in cui hanno una particolare rilevanza l’aspetto biologico e, in seconda istanza, etico e politico. È nota, poi, la forte censura che accompagna il morire e la morte. La teologia, nel suo tentativo di dialogo con la cultura contemporanea, corre il rischio di rimanere imprigionata nelle categorie biologiche e/o sociologiche, non esprimendo la sua peculiarità. Se la teologia cristiana è stata tradizionalmente sbilanciata sul versante “morte”, la cultura contemporanea lo è sul versante “vita”11. In sede di premessa, bisogna sottolineare subito che la teologia si deve muovere sul terreno che le è proprio, vale a dire la comprensione della realtà nell’orizzonte credente dell’esperienza di fede, senza appiattirsi sulle posizioni dominanti della bio-sociologia. La storia del dogma ci insegna che l’assunzione di categorie biologiche e sociologiche per elaborare dottrine teologiche ha fuorviato nella generalità dei casi la stessa verità di fede che si voleva trasmettere o approfondire12. Le conoscenze scientifiche sono in continuo progresso e nulla di definitivo è possibile stabilire, in particolare per quanto riguarda la definizione di “vita”, «dal punto di vista delle scienze naturali non può essere ancora data una risposta valida alla domanda su che

10

L. c. Il grande sviluppo della bioetica, probabilmente, è un semplice riflesso di questo sbilanciamento; accompagnato tuttavia da interessi economici e politici a volte inconfessati, ma preponderanti. 12 Come es. vedi, in campo teologico morale, le teorie fondate sulla fisiologia maschile e femminile, oppure il sistema tolemaico, e così via… 11


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cos’è la vita, sono tuttavia possibili approfondite caratterizzazioni di ciò che è tipico di essa»13. È utile, anzi necessario, considerare preliminarmente come le religioni si pongono di fronte alla “vita”, intesa biologicamente o sociologicamente. La storia comparata delle religioni evidenzia alcune caratteristiche comuni: – si riconosce una “sede” della vita: l’Atem, la psiche, il sangue… (ci si potrebbe chiedere subito perché non il corpo stesso, ma una parte di esso?); – la vita è un dono degli dei; – la vita è vista in relazione alla morte, da qui la nascita e lo sviluppo delle varie credenze sulla vita eterna. Un articolo del Simbolo Niceno-Costantinopolitano, comune alle Chiese cristiane, professa la fede nella vita eterna e nella risurrezione dei morti14: si afferma dunque un qualche legame di vita e realtà corporea dell’uomo nella sua totalità. Non vi è, da questo punto di vita, una sede particolare della vita nell’uomo, ma l’uomo è la sua vita. La vita come dono e una sopravvivenza dopo la morte fisica, sono invece, elementi comuni, che acquistano però una loro particolarità a partire dalla fede nella risurrezione dei corpi. Nella sua interezza, il Simbolo pone la vita dell’uomo e del cosmo intero sotto la volontà di Dio Padre onnipotente, “creatore del cielo e della terra”. Si esprime in questo modo la fede biblica che la vita, tutta la vita, viene da Dio, nel senso che è dono di Dio e, per questo, essa non cessa di dipendere da Lui, «che fa morire e che fa vivere» (Dt 32,39). Poiché viene da Dio, la vita è santa e inviolabile15.

13

W. BRÖKER, Vita, in SM, VIII, 660. Nei Simboli più antichi si usa il sintagma “risurrezione della carne” (cfr H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, Definitionum et Declarationum de rebus fidei et morum, Friburgo i.B 341967, 10ss) 15 Non è un caso che la branca teologica che si è occupata della “vita” è la morale: dignità e inviolabilità della vita si fondano sulla sua provenienza divina. 14


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La fede cristiana, in definitiva, esprime la consapevolezza che Dio

«è all’origine della vita, Egli è presente ovunque si trovi un vivente, Egli è il Vivente che la morte non può colpire. Egli ascolta la supplica dei viventi, accoglie la loro lode. Tutte le Scritture suppongono queste convinzioni di base, questo legame permanente tra Dio e i viventi, questa identità totale tra Dio e la vita. La fede d’Israele trasformerà queste credenze spontanee in certezze nuove e in speranze sicure»16.

1. La vita nell’antropologia biblica Nella fede d’Israele s’innesta l’esperienza cristiana a partire dalla quale si elabora la teologia della vita e della morte che, se ha il suo centro nella morte e risurrezione di Gesù di Nazaret, non può prescindere dal riferimento alla tradizione da cui nasce. Il contenuto concettuale dei termini usati nel Nuovo Testamento (zoè/zèn; psychè) è quello dell’Antico. La novità fondamentale è costituita dal ruolo che svolge Gesù Cristo nella relazione tra Dio, datore di vita, e l’uomo, destinatario di questo dono:

«come Dio, anche Cristo ha in sé originariamente la vita (Gv 1,4; 14,6), della quale dispone con proprietà assoluta (Gv 5,26); per amore verso il Padre e verso i suoi, egli “dà la sua vita” (psychè: Gv 10,11.15; 1Gv 3,16), ma la dà “per riprenderla” (Gv 10,17s) nella risurrezione, con la quale egli si sottrae definitivamente al potere della morte (Ap 1,18; Rm 6,9; At 2,24.31)»17.

16 J. GUILLET, Vie, in Dictionnare de spiritualité, ascétique et mystique, XVI, Paris 1994, 585. 17 P. SORDI, Vita, in Dizionario teologico interdisciplinare, III, Torino 1977, 568.


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È necessario, dunque, considerare, sebbene sommariamente, quale sia il significato di “vita” nell’Antico Testamento, per vedere poi come il Nuovo lo riprende e lo rielabora alla luce della novità di Gesù. Nella tradizione ebraica più antica, “vita” designa la vita fisica dell’uomo senza dualismi e astrazioni: questa vita è la nostra unica vita e va considerata il bene più prezioso; raramente della morte si parla in termini positivi18. La vita è il massimo bene, nonostante la sua brevità e non ve ne sono altri in grado di uguagliarlo. Il Deuteronomio prospetta una “lunga vita” come massimo premio per l’osservanza dei comandamenti (Dt 4,15; 5,16; 6,24; 16,20; 30,19). Espressioni del tipo “giungere alla bella vecchiaia” (Gn 15,15; Gd 8,32), “morire sazio della vita” (Gn 25,8; 35,29; Gb 42,17), manifestano la convinzione che una lunga vita sia un gesto di particolare benevolenza divina. Anche la posterità numerosa, che ogni ebreo desidera, è vista come un modo di prolungare in qualche modo la propria vita, oltre che un sostegno per la vecchiaia (cfr Gn 15,1-6; 2Re 4,12-17). La predicazione dei profeti e le esperienze di tante catastrofi nazionali spostano progressivamente l’orizzonte di comprensione del significato della vita. Essa non è vista più, o almeno non più prevalentemente, come il possesso dei beni di Dio, ma di Dio stesso. A partire da ciò si elabora un ideale di vita che non verrà messo in discussione né dalla morte prematura, né dalla povertà, né dalle prove storiche cui Israele è soggetto. La sofferenza è vista in qualche modo come occasione di corroborare la vita (Sal 1; 73). Le concrete situazioni storiche di persecuzioni — in particolare il periodo di Antioco Epifane — spinsero a radicalizzare queste idee dischiudendo una nuova prospettiva, in cui sorge la convinzione della remunerazione dei giusti da parte di Dio: «Il Creatore del mondo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita» (2Mac 7,23). I giusti «si risveglieranno [dalla polvere in cui dormono] […] brilleranno come lo splendore del firmamento» mentre i loro persecutori sprofonderanno «nell’infamia perpetua» (Dn 12,2ss). tra i profeti-scrittori, Ezechiele lega l’ordine di vita e morte a quello di giustizia ed empietà19. Dio vuole la vita del suo popolo, 18

Per i testi, cfr l’ottima sintesi in ibid., 563-567. Cfr W. ZIMMERLI, La «vita» e la «morte» nel libro del profeta Ezechiele, in ID., Rivelazione di Dio. Una teologia dell’Antico Testamento, Milano 1975, 161-173. 19


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anche se peccatore, per questo gli mostra la possibilità della vita attraverso l’osservanza delle “cose che rendono possibile la vita” (le hqqôt hahajjim, cfr 33,15; 18,5-9; 20,11.13.21). La figura stessa del profeta, in Ezechiele

«non è più per prima cosa colui che mette in moto e che proclama le terribili potenze del giudizio, ma nel suo annunzio è soprattutto colui che difende e che serve la vita, ed è impegnato in questo ufficio mettendo in pericolo la propria stessa vita»20.

Nella concezione del profeta, la vita è sempre dono di Dio, ma nello stesso tempo «è sempre concepibile solo nella conversione e nell’ubbidienza di fronte al diritto di Dio»21. Il libro della Sapienza amplierà questo orizzonte, sostenendo che la vita degli empi è illusoria poiché essi «appena nati, cessano di essere» (Sap 5,13), mentre i giusti sono fin d’ora «nelle mani di Dio» (Sap 3,1), dal quale riceveranno «la vita eterna […] la corona regale di gloria» (Sap 5,15-16). In questa maniera la vita temporale si apre ad una prospettiva che va al di là della morte. Presupposto fondamentale di tutta l’antropologia anticotestamentaria è che la vita ha la sua origine in Dio. La categoria teologica che esprime questa convinzione è quella di “creazione”. Gli autori neotestamentari fondono questi orizzonti linguistici, nell’originale prospettiva cristologica. Gesù è chiamato da Paolo col titolo, carico di risonanze anticotestamentarie, di “spirito vivificatore” (pnèuma zoopoiùn: 1Cor 15,45); egli infatti è venuto tra gli uomini per dare loro la vita (Gv 10,10; 20,31) ed è in grado di richiamare alla vita coloro che sono morti (Gv 5,21.22.28s; 6,40; 11,25s). La prospettiva ebraica più antica e quella più recente (nella linea profetico-apocalittica) sono riprese: la “vita” che Gesù è venuto a portare va al di là del tempo, ma la stessa vita presente è già sotto l’azione di Cristo. Non solo! Essa è così stimata da Gesù che diventa il bene più prezioso, tanto da arrivare a sostenere che “salvare una vita” è più importante dello stesso 20 21

Ibid., 168. Ibid., 172.


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sabato (Mc 3,4 par.). In questa apparente rottura con la tradizione vi è, in effetti, un’autentica ripresa di una delle convinzioni ebraiche più originarie e radicali sulla vita dell’uomo22. Dal confronto degli scritti neotestamentari con la tradizione religiosa e filosofica greca si ha un’ulteriore conferma del loro radicamento nelle Scritture ebraiche: non vi è traccia, infatti, del dualismo antropologico greco.

«La conclusione è che anche per il Nuovo Testamento, come già per l’antico, l’uomo è una unità di carne, anima e spirito. Questa unità personale è in rapporto di essenziale dipendenza di Dio dal quale riceve la vita e verso il quale si protende, sorretta dallo Spirito, per trovare in lui la propria realizzazione totale, la “vita eterna”»23.

La particolare attenzione di Gesù alla “vita” è descritta in termini tipici nel IV Vangelo. Già nel Prologo si afferma che nel Verbo di Dio «era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4a). La comunicazione della vita, nucleo e finalità dell’opera creatrice, posta nel Prologo diventa la chiave di lettura di tutto il Vangelo. La stessa missione di Gesù è di comunicare all’uomo vita in pienezza: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). La “vita” è presentata come la qualità divina per eccellenza, è la descrizione dell’essere del Padre: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,57)24. La prassi di Gesù mostrerà concretamente la sua missione di “comunicare vita”. La parabola del figlio del funzionario regio (Gv 4,46b ss) è quasi un testo programmatico e gli episodi successivi esplicitano diversi aspetti: quello dell’invalido (Gv 5,3ss), quello del pane in Galilea (Gv 6,1ss), quello del cieco nato (Gv 9,1ss), quello di Lazzaro (Gv 11,1ss). Si potrebbe dire che la vita

22

Del resto anche nell’insegnamento della “legge orale”, codificata poi nel Talmud, si sostiene la legittimità dell’infrazione del sabato in caso di pericolo di vita. 23 P. SORDI, Vita, cit., 570. 24 Cfr J. MATEOS - J. BARRETO, Il Vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 19902, 51.


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precede la dottrina. La verità non è una teoria, «ma esplicazione e difesa di un fatto già esistente»25. La metafora della luce è utilizzata da Giovanni in questa prospettiva, quando dice che «la vita era la luce del mondo». Mentre nella tradizione rabbinica la “legge era luce del mondo”26, in Gv la “vita” è luce del mondo”. La vita stessa è conoscenza e quindi luce del mondo e diventa così guida dei suoi passi e norma della vita e della condotta. Gesù annuncia che la “vita” per l’uomo comincia ad essere una realtà dal momento in cui si ascolta il suo messaggio. Il IV Vangelo si esprime a questo proposito nei termini di un passaggio dalla morte alla vita. Coloro che, “morti in vita”, ascoltano il suo messaggio, cioè aderiscono a lui, passeranno alla sfera della vita (Gv 5,25). In questo modo, Gesù diventa il punto di riferimento per scegliere tra morte e vita: «Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso; e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo» (Gv 5,26-27). Ora, tutto questo è possibile perché Gesù è “figlio dell’uomo”, cioè uomo:

«Ciò che deciderà la sorte degli uomini sarà il loro atteggiamento dinanzi all’uomo; non c’è situazione dinanzi a Dio, che non dipenda dall’opzione nei confronti dell’uomo; la norma che sostituisce la Legge è l’uomo; il giudizio è il confronto con l’uomo»27.

Si afferma, in altri termini, che vivere è amare, la vita è l’amore. L’evangelista Luca riprende questo tema nel contesto di un dialogo tra Gesù e un dottore della legge. Questi gli chiede per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). La risposta di Gesù rimanda immediatamente alla Legge, mostrando la sua fedeltà alla religione dei padri, ma ad un’ulteriore domanda del suo interlocutore amplia l’orizzonte di comprensione del senso stesso della Legge: ora essa coincide con l’ascolto dell’uomo. Attraverso la parabola contenuta nella sua risposta, 25

Ibid., 53. Cfr Sal 119,105; Sap 18,4; Sir 45,17 (LXX). 27 J. MATEOS - J. BARRETO, Il Vangelo di Giovanni, cit., 270. 26


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Gesù afferma che per avere la “vita eterna” occorre vivere la “compassione” per l’uomo: «Quella compassione non può essere che la parola di Dio che chiama — la vocazione che suscita libertà — in un’incarnazione che anticipa ogni umana parola e che è la carne del povero»28. Dal punto di vista dei discepoli di Gesù, Egli è la vita — come Lui stesso dice: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6a) — perché è l’unico che la possieda in pienezza e può comunicarla (Gv 5,26); il discepolo la riceve attraverso la nuova nascita ad opera dello Spirito (Gv 1,13; 3,3-7; 4,14; 7,37-39). La formula che Gesù usa per designare se stesso (via, verità, vita) ci dice che Lui è la via di coloro che possiedono la vita e con essa la verità, vale a dire Egli è colui che conduce la verità e la vita al loro pieno sviluppo. La vita, in definitiva, è lo Spirito che Egli comunica (Gv 7, 37-39). Questa convinzione profonda dei discepoli di Gesù spiega il perché nelle formule più antiche, attestate dagli scritti neotestamentari, adoperate per il battesimo cristiano leggiamo di un battesimo dato in “nome di Gesù”. Ricevendo lo Spirito il battezzato partecipa della vita di Gesù che è “morto e risorto”29; l’intera esistenza umana è vista perciò come vita escatologica, in quanto partecipazione dell’evento pasquale di Gesù, della sua morte e risurrezione30.

2. “Vita” nella tradizione ecclesiale e nella teologia Per l’autocoscienza della Chiesa antica la “vita” del cristiano si caratterizza come “vera vita” in opposizione alla “vita naturale”. Dove naturale si deve intendere la realtà dell’uomo segnata dal peccato originale e quindi sottoposta alla “necessità naturale”, una vita cioè prigioniera della necessità e non guidata dalla libertà creaturale, che deve essere restaurata dall’azione di Dio, così come effettivamente accade in quella ri-creazione che è

28

Ibid., 81. L. HARTMAN, ‘Into the Name of the Lord Jesus’. Baptism in the Early Church, Edinburgh 1997, 44. 30 Ibid., 83ss. 29


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l’Incarnazione31, che trova poi il suo compimento nella Pasqua. La “vera vita” non è perciò semplice bios, ma zoë perché risultato dell’innesto, mediante il battesimo, della vita naturale nella vita della Chiesa, che è il corpo di Cristo, il quale è fonte della vera vita. Il battesimo è designato variamente: rigenerazione, rinascita, illuminazione; tutti termini che indicano la realtà dell’uomo che si caratterizza come novità e tuttavia in una certa continuità con ciò che è già dato. In altri termini vi è un dato creaturale, la vita fisica, biologica — essa stessa dono di Dio — che ha bisogno di essere rinnovata per poter giungere al suo compimento, per ritrovare il luogo del senso. Non si tratta di negare valore alla vita fisica, storica, ma al contrario di riconoscere il senso profondo di essa alla luce della fonte stessa della vita. Nella tradizione cristiana ciò è indicato con l’espressione “vita spirituale” o “vita secondo lo Spirito”. Spirituale non è qui il contrario di materiale, indica invece una dimensione della vita materiale. Si tratta della vita concreta della persona umana vissuta alla luce dello Spirito. Un riferimento fondamentale per comprendere il senso della “vita spirituale” è l’apostolo Paolo che descrive bene il significato e gli effetti della “vita secondo lo Spirito” (cfr Gal 5). Egli non contrappone “spirito” e “materia”, piuttosto due modalità di vivere. Una è designata col termine sarx/carne, l’altra col termine pneuma/spirito. La prima è la modalità di vita di coloro che concepiscono la salvezza come risultato dello sforzo dell’uomo; la seconda di coloro che affidano l’inizio e il compimento della salvezza all’azione gratuita di Dio. Le due modalità vengono presentate da Paolo come opposte, mediante la descrizione delle prassi che conseguono all’adozione dell’una o dell’altra modalità. Interessante è anche come si introducono le liste delle azioni che caratterizzano l’agire che deriva dalla sarx o dal pneuma: si distingue tra opere della carne (ta e"rga th%v sarco v) e frutti dello Spirito (carpo v tou% pneu mato v) (Gal 5,19.22). “Opere” rinvia allo sforzo dell’uomo e alla sua autoaffermazione; “frutto”, invece, ad un dinamismo ricevuto, di cui si fruisce anche senza particolari capacità o qualità. È questo dinamismo, il pneuma, ricevuto dall’uomo gratuitamente da Dio mediante Cristo, che pone il cristiano in

31

Cfr ATANASIO, L’incarnazione del verbo, I, 5.6.


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uno stato di radicale libertà dalla “carne”, dal peccato, dalla paura e da qualsiasi potere che pretenda di spadroneggiare sull’uomo, in ultima analisi come diranno poi i Padri, dalla “necessità naturale”32. Il concetto che si oppone a quello di pneuma, cioè quello di sarx/carne, non si deve assolutamente intendere con “corpo”/soma. Questo definisce l’uomo semplicemente nella sua concretezza, nel suo essere «persona che si vede, è presente, s’incontra, agisce, soffre e gioisce (cfr 1Cor 12,14-26; 6,13b, Rm 12,1), così anche dopo la morte l’uomo è corpo (1Cor 15,44; Rm 12,1)»33; sarx indica non solo la dimensione visibile e mortale della vita umana (cfr Gal 2,20; Fil 1,22; 2Cor 10,3a), ma in maniera specifica l’aspetto negativo e impersonale di quella sfera di influenza che stabilisce l’uomo in una situazione di inimicizia con Dio (Rm 8,7-8) e quindi di “morte”. La carne, infatti, a differenza del corpo, non è destinata alla risurrezione (1 Cor 15,50), bensì alla corruzione (Gal 6,8; Rm 8,13). In altri termini, la carne è lo «spazio vitale del peccato, dandogli esca»34. Si capisce allora il senso dell’opposizione tra pneuma e sarx: lo Spirito di Dio «strappa l’uomo alla sterile chiusura dell’autarchia umanistica e gli conferisce una nuova capacità di relazione e di fecondità spirituale: quella appunto che la carne gli impedisce»35. Anche la realtà della morte è colta da Paolo in questa prospettiva; essa è un evento non solo biologico, ma anche spirituale visto in un parallelismo antitetico con la “vita eterna” (Rm 5,21; 6,22-23; cfr 1Cor 15,56). Morte e vita non sono più due categorie dell’ordine biologico, ma dell’ordine esistenziale. Esse si intrecciano profondamente e si capisce ora cosa voglia dire che il senso della vita si comprende a partire dal senso che assegniamo alla morte. È possibile parlare di teologia della vita e teologia della morte solo nella prospettiva biblica che pone l’uomo in relazione dialogica con Dio: all’interno di questa relazione si ritrovano le relazioni dell’uomo con l’uomo

32

Cfr R. PENNA, Paolo di Tarso. Un cristianesimo possibile, Cinisello Balsamo 1992,

116-117. 33

Ibid., 109. L. c. 35 L. c. 34


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e dell’uomo con la natura. Vivere è ascoltare la parola di Dio e l’uomo — nella sua condizione di “bisogno”. D’altra parte, la teologia è oggi interrogata da fatti nuovi che cambiano il contesto entro cui si sono formate le categorie che hanno consentito di rendere ragione della fede professata nelle comunità cristiane. L’accento è posto sempre più sulla dimensione culturale, nella sua accezione antropologica, che ha corretto e superato quella illuministica di sapere accademico. Vita e morte, come dati dell’ordine naturale, vengono messe in discussione. Non tanto perché ciò che sta “oltre” la vita e la morte appartiene alla sfera della fede o delle credenze individuali, senza incidenza sulla vita sociale, quanto perché vita e morte vengono ricondotte alla sfera della “potenza” dell’uomo, fondata sulla tecnica. In altri termini, vita e morte sono nella “disponibilità” dell’uomo e, di conseguenza, interamente circoscrivibili entro la sfera della sua volontà. Si spiega l’ampio dibattito di natura etica e la scarsa attenzione da parte dei teologi sistematici. Sono i temi della “qualità” e della “dignità” della vita e della morte ad attirare la massima attenzione. L’antropologia biblica, che fonda la possibilità di una vita sensata sull’ubbidienza alla volontà di Dio, è spiazzata. Se prevale la volontà di potenza dell’io l’ubbidienza come orizzonte di vita, non ha più alcun significato. L’ubbidienza biblica non è però deprivazione della libertà individuale, anzi la suppone e la fonda contemporaneamente. Se l’uomo si sottrae all’orizzonte di senso (l’ubbidienza biblica) percepisce la realtà come pura necessità. La stessa “gratuità” dell’esistere, messa in luce dall’antropologia biblica e dalla teologia cristiana, è percepita come illibertà, contro cui sarebbe inutile ribellarsi. «La rivolta contro la sconcertante “gratuità” dell’essere, gratuità intesa come contingenza e assurdità, diviene quindi autodisattivazione della libertà e docile adattamento ad uno scenario di necessità»36. La gratuità può apparire una “assurda contingenza” perché nell’attuale situazione le donne e gli uomini sono dominati dalla logica dell’impossessamento e della fruizione; “sottometti o sei sottomesso” è lo slogan imperativo, per cui tutto ciò che la contraddice è avvertita come una minaccia del proprio io. Non è possibile, dunque, alcuna forma di compassione, in quanto il com minaccia la volontà di potenza dell’io. 36

R. MANCINI, Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Assisi 1996, 23.


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Nella prospettiva biblica, invece, è possibile vivere solo nella forma del con-vivere e del com-patire e fuori di questa prospettiva c’è la morte. Poiché sul piano dell’analisi sociale, «la volontà di potenza dell’io e le diverse forme di individualismo appaiono come un prodotto culturale e come indotte da un dato sistema economico»37 è sul piano propriamente culturale che occorre sviluppare una riflessione antropologica e teologica in grado di orientare la prassi ecclesiale e di confrontarsi con la filosofia e le altre scienze umane contemporanee38, così da mostrare che volontà di potenza e individualismo, sul piano dell’analisi esistenziale, «sembrano originate da quell’angoscia che è tipica del singolo alle prese con un mondo insensato»39.

Conclusione Il cristianesimo è attraversato da una forte tensione generata da una duplice consapevolezza: la “vita” è il bene più prezioso, un dono da custodire gelosamente; la vita terrena non è il tutto, «perché passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,31). Per ciò che riguarda la morte vi è pure una 37

Ibid., 22. Sul rapporto tra cultura e teologia cfr J.A. KOMONCHAK, Theology and Culture at Mid-Century: The Exemple of Henri de Lubac, in Theological Studies 51 (1990) 579-602; S. MURATORE, Teologia e rinnovamento della cultura, in Rassegna di teologia 36 (1995) 645651; C.M. MURPHY, The Church and Culture since Vatican II: On the Analogy of Faith and Art, in Theological Studies 48 (1987) 317-331; G. RUGGIERI, Molteplicità delle culture: cambiamento di un paradigma in teologia?, in Vita Monastica XLVIII (1994) 51-80; R.J. SCHREITER, Faith and Cultures: Challenges to a World Church, in Theological Studies 50 (1989) 744-760. Il nesso tra antropologia e teologia, tra cultura e teologia è stato messo in luce negli ultimi decenni non solo dalla teologia, ma anche dal Magistero pontificio. Nell’enciclica Evangelium Vitae, Giovanni Paolo II usa la categoria di “cultura della morte” in relazione a quella di “peccato strutturale”. Abbiamo qui un esempio dell’intreccio tra i piani antropologico e teologico. La posizione del papa è frutto di un pensiero che si è sviluppato soprattutto negli ultimi 40 anni, a seguito della presa di coscienza progressiva del rapporto tra cultura, antropologia e teologia in ordine alla comprensione e della natura dell’uomo e delle verità di fede fondamentali. Cfr A.A.J. DE VILLE, The Development of the Doctrine of “Structural Sin” and a “culture of Death” in the Thought of Pope John Paul II, in Église et Théologie 30 (1999) 307-325. 39 L. c. 38


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duplice percezione: essa è un fatto inevitabile e sicuro; essa è un mistero. Ne scaturisce un atteggiamento di sobrietà e realismo, di timore e meraviglia. L’autocoscienza del credente è segnata perciò da questa tensione, senza tuttavia che essa diventi una contraddizione interna. Anzi, proprio a partire da questa tensione, è possibile comprendere vita e morte l’una in relazione all’altra:

«La morte è la pietra di paragone del nostro atteggiamento nei confronti della vita. Le persone che temono la morte, hanno paura della vita. È impossibile non avere paura della vita con tutta la sua complessità e i suoi pericoli se si ha paura della morte […] Se temiamo la morte, non saremo mai pronti a prendere rischi estremi; lasceremo trascorrere la nostra esistenza da codardi, prudentemente e con timidezza. Solo se sappiamo affrontare la morte, darle un senso, una collocazione, se sappiamo determinare la nostra posizione riguardo ad essa, diverremo capaci di vivere senza timore e facendo uso di tutte le nostre capacità»40.

Morte e vita si presentano agli occhi del credente come prefazione e libro, soglia e casa:

«Tutto ciò che vive è una forma di morte; noi moriamo in continuazione. Ma in questa esperienza quotidiana della morte, ogni morte è seguita da una nuova nascita: ogni morte è anche una forma di vita. La vita e la morte non sono contrarie, non si escludono reciprocamente, ma si intrecciano»41.

L’intera esistenza umana, vita e morte, trova senso e compimento nel progetto salvifico di Dio, che si manifesta nella morte e risurrezione di Gesù. 40 41

A. BLOOM, On Death, in Sobornost 2 (1979) 8. K. WARE, Riconoscete Cristo in voi?, trad. it., Magnano 1994, 9.


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La croce è mistero di morte assunta e vinta. Nella croce ogni contraddizione si dissolve: la violenza tollerata si trasforma in dedizione, la morte in vita, il peccato in redenzione. Nel giardino dell’Eden l’albero della vita rappresenta l’orizzonte di obbedienza a Dio entro il quale vi è vita, oltre il quale vi è morte. L’obbedienza del Figlio al Padre, che genera vita, si realizza nella croce. Essa è così il disvelamento del progetto di amore di Dio: l’assunzione piena del peccato del mondo, e con esso la morte, per rifondare la possibilità di vita.


LA TEOLOGIA TRA VANGELO DELLA NONVIOLENZA E CEDIMENTO ALLE ISTITUZIONI DI VIOLENZA

SALVATORE CONSOLI*

Premesse 1. Il tema per essere bene illuminato dovrebbe essere considerato almeno nel contesto della riflessione teologica sulla guerra, sulla legittima difesa e sulla pena di morte: lo spazio assegnato alla relazione mi ha consentito di riferirmi solamente alla guerra. 2. Risalterebbe meglio se fosse contestualizzato dallo studio della partecipazione effettiva delle Chiese e dei cristiani alla guerra: lo spazio e, soprattutto, la mancanza di competenza storica non mi hanno consentito tanto, la relazione pertanto si sofferma solo sulla riflessione teologica.

1. La proposta evangelica La radicalità del discorso della montagna — secondo cui non è sufficiente accontentarsi di “non uccidere” ma è doveroso eliminare ogni tipo di offesa e bisogna amare i nemici1 —, come pure la prassi di nonviolenza di Cristo che culmina nei giorni della passione — quando egli respinge l’uso della forza e impone al discepolo di rimettere la spada nel

* 1

Dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr Mt 5,21-26; 43-48.


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fodero2 — propongono chiaramente il superamento nei rapporti umani della dialettica violenza e controviolenza. Il discorso della montagna contiene il comando di rifiutare l’uso dei mezzi violenti ma non invita alla passività e meno ancora alla stupidità: il “porgere l’altra guancia” e il “fare due miglia” nel momento in cui è superamento della reazione violenta costituisce, però, un impegno per riuscire a convincere l’avversario. Il perdono a chi offende3, contrapposto alla smisurata sete di vendetta di Lamech, espresso attraverso l’identico simbolo numerico 774, e soprattutto l’amore del nemico5 sono il segno evidente del messaggio nonviolento del Vangelo: come nota uno studioso ebreo «il comandamento dell’amore dei nemici resta una caratteristica esclusiva di Gesù […] Era il solo che predicasse l’amore incondizionato, specialmente l’amore per il nemico e per il peccatore»6. Diversi studi concludono che Gesù Cristo esige il rifiuto della violenza7: si deduce oltre che dall’analisi dei suoi insegnamenti anche dagli atteggiamenti tenuti nella vicenda della sua fine, contrassegnati da una resistenza nonviolenta al male. E il messaggio evangelico viene preparato dall’annuncio del Messia che lentamente passa dalla immagine di re vittorioso e prode guerriero8 a quella di re umile e pacifico che cavalca un asino9: e non bisogna dimenticare che l’asino è la cavalcatura dei poveri e degli umili in opposizione al cavallo che è la cavalcatura dei re e dei guerrieri.

«Indubbiamente Cristo è il “prototipo della non-violenza” (B. Haering) e la “rinuncia cosciente alla violenza rappresenta la parte centrale del vangelo”

2

Cfr Gv 18,10-11. Cfr Mt 18,21-22; Lc 17,4. 4 Cfr Gen 4,24. 5 Cfr Lc 6,27-38; Mt 5,38-48. 6 D. FLESSER, Jesus, Genova 1976, 99.106. 7 Cfr M. HENGEL - N. NEGRETTI, Violenza e non violenza, Torino 1977, 89. 94-97. 8 Cfr ad es. Sal 110,5s; Ger 17,25; 22,4. 9 Cfr Zac 9,9; Gdc 5,10. 3


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(M. Hengel). Questo precetto è analogo al divieto dell’odio, del giuramento o del divorzio. È un precetto di estrema radicalità e di universale ampiezza e non può essere attenuato come se fosse stato un consiglio rivolto a piccoli gruppi»10.

2. La Chiesa antica Fino al 180 i documenti non parlano né di guerra né di servizio militare; dal Discorso vero di Celso (scritto tra il 177 e 178) nel quale l’Autore lamenta: «se tutti facessero come voi (cristiani) nulla impedirebbe che l’imperatore rimanesse solo e senza aiuto, e che la terra divenisse preda dei barbari»11, li esorta, pertanto, a combattere per lui, diversi studiosi deducono che i cristiani dei primi due secoli si astennero dall’entrare nell’esercito12. Alla fine del II secolo con le prime coscrizioni militari obbligatorie nasce per i cristiani il problema del servizio militare e comincia la riflessione di vescovi e teologi. Nelle province orientali dell’impero, caratterizzate da instabilità politica e militare, mentre alcuni cristiani scelgono di prestare servizio militare altri vi si oppongono e optano per una vita ascetica che comporta il rifiuto del servizio militare13. Nella Grecia e nell’Oriente ellenistico il rifiuto del servizio militare è imponente, sono pochi i cristiani che militano nell’esercito: la riflessione teologica, che si sviluppa ad Alessandria principalmente con Clemente 14e Origene15, è per il chiaro ripudio della guerra e di ogni violenza16. 10 P. TRUMMER, Non-violenza, in Dizionario teologico, a cura di J.B. Bauer - C. Molari, Assisi 1974, 479. 11 ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 68. 12 Cfr A. PALINI, I primi cristiani, la guerra, il servizio militare, in Comunità cristiane per una cultura di pace, a cura di Pax Christi, Brescia 1983, 34. 13 Ibid., 36-38. 14 CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Protrepticon, X, 100,4; XI, 116,2-4; ID., Paedagogus, I, 12,98-99; II, 12,9; ID., Stromata 4,8,61; 4,14,95. 15 ORIGENE, Contra Celsum, VIII. 16 Cfr A. PALINI, I primi cristiani, la guerra, il servizio militare, cit., 38-42.


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In Africa la riflessione teologica è ampia e approfondita. Tertulliano17 dimostra la incompatibilità tra i doveri del cristiano e quelli del soldato, perché il seguace di Cristo non può rendere male per male e perché deve preferire farsi uccidere piuttosto che uccidere. Emblematica per la comprensione del suo pensiero l’affermazione che «il Signore disarmando Pietro ha disarmato ogni soldato»18. Cipriano19 non accetta che la violenza sia delitto quando è compiuta dai singoli e non quando viene compiuta per ordine dello stato20, e insiste che la patientia, che si accompagna alla mitezza, impone al cristiano di non rendere male per male e di non odiare21: essa è la via che deve seguire il cristiano. Anche Arnobio e Lattanzio giudicano la guerra e il servizio militare contrari all’ideale di pace e di mitezza del Vangelo: il cristiano non può seguire la strada caratterizzata dalla violenza e dallo spargimento di sangue: viene indicata la patientia che tende «non a eliminare l’avversario, cosa che non si può fare senza delitto e pericolo, ma la lotta stessa, cosa che si può e utilmente e giustamente fare»22. In Italia e in Europa la riflessione, a motivo della sede dell’impero centrale a Roma, pur essendo meno rigida di quella africana è tuttavia molto chiara. Ireneo, a Lione, insiste sulla profezia delle spade da trasformare in vomeri e Ippolito, a Roma, mentre esclude che i fedeli possano divenire soldati, afferma però che il soldato che si converte durante il servizio tuttavia può continuare a “militare”, a prestare cioè il servizio, ma non può “bellare”, deve astenersi cioè dagli atti di violenza e dal mettere a morte23. 17

Cfr P.A. GRAMAGLIA (a cura di), Tertulliano: la corona, Roma 1980, 50-91; E. BUTTURINI (a cura di), La nonviolenza nel cristianesimo dei primi secoli, Torino 1977, 73122; A. PORTOLANO, Il problema dell’obiezione di coscienza in Tertulliano e S. Agostino, Napoli 1971. 18 TERTULLIANO, De idolatria, 19,1-3. 19 Cfr E. BUTTURINI (a cura di), La nonviolenza nel cristianesimo dei primi secoli, cit., 123-142; J. CAPMANY, Miles Christi en la espiritualidad de San Cipriano, in Collectanea San Paciano, Barcellona 1956. 20 CIPRIANO, Ad Donatum, 7. 21 ID., De bono patientiae, 4-10,16. 22 LATTANZIO, Divinae Institutiones, VI, 18,29. 23 IPPOLITO, Traditio Apostolica, 16.


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Anche Minucio Felice manifesta una chiara opposizione a ogni uccisione e a ogni violenza. Sia in Africa che in Europa se vi sono dei cristiani presenti nell’esercito, ve ne sono di più che rifiutano il servizio militare e che subiscono il martirio24. Si può concludere che

«la condanna assoluta della guerra e l’affermazione della negatività del servizio militare […] è l’unica posizione presente nella riflessione teologica fino a Costantino, una posizione che, stando alla Tadizione Apostolica e alle sue rielaborazioni, la Chiesa tutta sosteneva. Accanto ai categorici rifiuti e alle decise condanne sta la via positiva che deve caratterizzare il cristiano nel suo essere e nel suo fare, via che soprattutto la riflessione teologica africana indica nella ‘patientia’»25.

Fino a Costantino la teologia, quindi, condanna la guerra e afferma che il cristiano non vi può mai partecipare. La nonviolenza cristiana si connota sia come scelta di non rendere male per male sia come rifiuto assoluto di versare sangue umano, e preferisce l’essere uccisi piuttosto che l’uccidere; per conseguenza è fondata sul rifiuto di usare le armi contro altri uomini, fatto che diventa vera e propria obiezione di coscienza al servizio militare26. E va evidenziato che «la base principale della loro avversione alla guerra era la convinzione della sua incompatibilità con l’amore»27 predicato da Cristo: i cristiani contrapponevano alla militia Caesaris, fondata sulla violenza, la militia Christi, fondata sull’amore. Bisogna constatare che la Chiesa primitiva ha usato la stessa rigorosità sia per quanto riguarda la proposta evangelica della fedeltà

24

Cfr A. PALINI, I primi cristiani, la guerra, il servizio militare, cit., 48-51. Ibid., 52. 26 E. BUTTURINI (a cura di), La nonviolenza nel cristianesimo dei primi secoli, cit., 2. 27 R. H. BAINTON, Il cristiano, la guerra, la pace, Torino 1968, 91. 25


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coniugale sia per quanto riguarda quella della nonviolenza: ha usato lo stesso metro e lo stesso metodo. E va annotato che non si tratta di una corrente di pensiero:

«Queste opinioni (secondo le quali non è lecito per i cristiani difendersi ricorrendo alla violenza e all’assassinio) sono perfettamente chiare e nulla permette di dire che rappresentino solo una corrente di pensiero […] Tutto suggerisce, al contrario, che non esisteva un’altra corrente di pensiero, anche se naturalmente ciò non implica di necessità che tutti i cristiani vi si ispirassero nella pratica!»28:

in effetti si trovano presenti dei cristiani nell’esercito, anche se il numero varia da luogo a luogo, come d’altronde si trovano molti che per il rifiuto del servizio militare subiscono il martirio.

3. La teoria della «guerra giusta» Nella Chiesa costantiniana, la riflessione teologica considera la guerra per giustificarla e non più per condannarla: il diritto della guerra giusta è reso definitivo dal Decreto di Graziano29, che sarà interamente recepito da Tommaso. Il Decreto fissa le questioni di legittimità avendo come punto di riferimento solamente il “diritto dei principi” e mai il testo del Vangelo. La teoria della guerra giusta oltre che della legittimità parla anche della necessità della guerra. Per Agostino il cristiano ha il diritto ed anche il dovere di partecipare alle guerre purché siano fatte per una giusta causa: la “patientia”, ossia la nonviolenza, deve essere esercitata nella vita privata del cristiano non in quella pubblica, e così ha inizio quella concezione secondo la quale i precetti evengelici riguardano solo l’intenzione interiore e non l’attività 28 29

S. WINDASS, Le christianisme et la violence, Paris 1966, 187. Parte II, causa XXIII.


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esteriore30.«Ciò lo porta all’affermazione, in se stessa contraddittoria, che, nella prospettiva cristiana, la violenza omicida della guerra non è opposta alle esigenze della bontà e della misericordia»31. Bernardo, nel XII secolo, esalta l’ideale del monaco soldato; il cristiano può partecipare alla guerra purché la causa sia giusta e l’intenzione sia retta, non si richiede la giustizia dei mezzi usati:

«I cavalieri di Cristo […] È infatti per il Cristo solo che danno la morte e la ricevono: per glorificarlo e unirsi a lui […] la morte che infliggono è a vantaggio di Cristo, quella che ricevono è a loro proprio vantaggio»32.

S. Tommaso, sulla scia di S. Agostino33, dice che la guerra, pur essendo un vizio in quanto si oppone alla pace frutto della carità, è giusta purché soddisfi a tre condizioni: 1) che sia dichiarata dall’autorità e non dal singolo cittadino; 2) che sia per una causa giusta; 3) che l’intenzione del belligerante sia retta, che tenda cioè a conseguire un bene o ad evitare un male, il che comporta sia il controllo delle azioni belliche in modo che non degenerino in crudeltà o rovine sia l’esclusione della volontà di dominio34. Alla difficoltà «la guerra è incompatibile con la pace. Dunque la guerra è sempre peccato» risponde che «quelli che fanno delle guerre giuste hanno di mira la pace. Perciò essi non sono contrari alla pace»35. E all’altra difficoltà «combattere è contrario al precetto di Dio […] Perciò far guerra è sempre peccato»: risponde che

30

Cfr AGOSTINO, Lettera 138. J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, Genova 1977, 80. 32 Testo citato da J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 81. 33 Cfr Opera omnia S. Augustini, III, Venetiis 1759, 709. 34 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 40, a. 1. 35 «Sed bellum contrariatur paci. Ergo bellum semper est peccatum» risponde che «[…] etiam illi qui iusta bella gerunt pacem intendunt. Et ita paci non contrariantur…»: ibid., ad 3. 31


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Salvatore Consoli «come nota S. Agostino tali precetti devono essere osservati sempre con le disposizioni interne: in modo cioè, che uno sia sempre disposto a non resistere, o a non difendersi, quando ciò fosse doveroso. Ma talora bisogna agire diversamente per il bene comune, e per il bene stesso di quelli contro cui si combatte»36:

sono “difficoltà” che in effetti rendono impossibile una teologia della guerra giusta, tuttavia Tommaso con molta facilità vi passa sopra insistendo esclusivamente sulla purezza dell’intenzione a detrimento della purezza della azione. Giacché secondo l’analisi di Max Weber la violenza fisica legittima è monopolio dello Stato37 — è infatti con la copertura dello Stato che gli uomini di una data collettività ricorrono “legittimamente” alla violenza —, la teologia della violenza legittima e della guerra giusta ha sempre fatto ricorso al principio della sovranità dello Stato per giustificare le sue tesi: ne è conseguito che «nel suo destino storico il cristianesimo ha subito una deformazione a causa del suo adattamento al regno di Cesare; si è chinato davanti alla forza dello Stato e si è sforzato di sacralizzare tale forza»38. L’insistenza dei teologi sul «dare a Cesare quel che è di Cesare» per motivare la sottomissione dei cristiani allo Stato, ha fatto mettere in secondo piano il «dare a Dio quel che è di Dio» che comporta il dovere di rifiutarsi di dare a Cesare quanto è di Dio, e ciò attraverso la disobbedienza civile e l’obiezione di coscienza, quando gli ordini di Cesare non sono conformi, come certamente nel caso della violenza, alla volontà di Dio.

36 «Sed bellare contrariatur divino praecepto […] ergo bellare semper est peccatum» risponde che «huismodi praecepta […] semper sunt servanda in praeparatione animi: ut scilicet semper homo sit paratus non resistere vel non se defendere si opus fuerit. Sed quandoque est aliter agendum propter commune bonum, et etiam illorum cum quibus pugnatur»: ibid., ad 2. 37 Cfr M. WEBER, Le savant et le politique, Paris 1963, 100-101. 38 N. BERDIAEFF, Royaume de l’Esprit et royaume de César, Delachaux et Niestlé, Neuchatel, 1951, 54.


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Karl Barth è convinto che

«una sorprendente trasformazione si è prodotta tra la mentalità delle Chiese dei primi secoli e quella delle Chiese costantiniane. Prima di questa grande svolta, le comunità cristiane vivevano completamente in disparte dalla guerra; Origene, Tertulliano, Lattanzio e Cipriano danno chiare spiegazioni sull’incompatibilità tra la partecipazione alla militia Christi e contemporaneamente al mondo militare. I martiri di allora, sono gli attuali obiettori di coscienza. Dopo, al contrario, tutto quanto veniva rifiutato nel primo periodo, venne generalmente approvato»39.

La teoria della guerra giusta dà eccessivo credito al “principe”, la causa “giusta” difatti si identifica con qualsiasi ragione che piaccia al principe, e non riconosce al “suddito” la possibilità di un giudizio criticoprofetico: in linea di massima la Chiesa e i cristiani si sono adattati alla teoria e alla prassi della guerra giusta40.

«La teologia morale continuò a ripetere, come al di fuori del tempo, la dottrina tanto ricca di distinzioni del bellum iustum […] L’etica tradizionale della guerra rimase, anche in occasione della prima guerra mondiale, uno strumento accuratamente conservato e tramandato, ma spuntato. I manuali di teologia morale non si rivolgevano a coloro che dovevano prendere le decisioni, bensì alla gente comune, cui però nello stesso tempo negavano la competenza di giudicare se si trattasse di una guerra condotta per motivi leciti o illeciti. L’etica classica della guerra perdeva così quella funzione critica, limitativa e correttiva nei confronti della prassi politica e militare, funzione per la quale essa era stata elaborata»41.

39

K. BARTH, Dogmatique ecclésiastique, III/4, Genève 1965, 144. Cfr G. MATTAI, Guerra, in Nuovo dizionario di teologia morale, a cura di F. Compagnoni - G. Piana - S. Privitera, Cinisello Balsamo 1990, 540. 41 W. HUBER-H.R. REUTER, Etica della pace, Brescia 1993, 205. 40


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4. Voci e atteggiamenti discordanti dalla «guerra giusta» Un’eco dell’orrore della Chiesa primitiva per lo spargimento di sangue resta in quella posizione — teorizzata per primo da Eusebio42 ma persistente a lungo — che sostiene una divisione funzionale all’interno della comunità cristiana tra preti e monaci da una parte — chiamati al celibato, alla povertà e alla nonviolenza — e laici dall’altra — chiamati al matrimonio, agli affari e, quando occorre, alla guerra e all’uso della violenza —: ha inizio, così, la doppia etica che mostrerà tutta la sua ambiguità anticristiana, nel Medioevo, con la divisione dei compiti fra i Tribunali dell’Inquisizione, gestiti dall’autorità religiosa, e il «braccio secolare», chiamato ad eseguire le sentenze con il ricorso alla violenza nelle maniere più crudeli… ma senza versare sangue(!). Parallelamente la chiamata alla santità viene riservata ai sacerdoti e ai monaci, i quali, con Costantino, cominciarono ad essere esentati dal servizio militare perché connesso con l’omicidio43; per i laici non c’è più la distinzione tra militia Christi e militia saeculi.

«Il compito di non uccidere passa dal popolo sacerdotale alla casta sacerdotale […] Ai laici spetta l’onore della guerra giusta, ai consacrati quello della voce profetica. La radicalizzazione di questo stato di cose è così presente che a tutt’oggi […] la teologia non sa chiarire l’obiezione di coscienza, che è la più semplice e la più immediata delle decisioni che vengono dal vangelo»44.

Comunque, nonostante l’ambiguità della grave dicotomia tra morale per gli ecclesiastici e morale per i laici, ci troviamo davanti ad un segno che

42

EUSEBIO, Demonstratio evangelica, I, 8. Cfr E. BUTTURINI (a cura di), La nonviolenza nel cristianesimo dei primi secoli, cit., 7-9; E. PUCCIARELLI, I cristiani e il servizio militare, Firenze 1987, 65-67. 44 G. PATTARO, Pace, in Nuovo dizionario di teologia, a cura di G. Barloglio - S. Dianich, Roma 1979, 1057. 43


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l’antica avversione all’effusio sanguinis non è stata dimenticata dalla Chiesa. La corrente antimilitarista del cristianesimo non si esaurisce, ha i suoi segni profetici che continuano a testimoniare la genuinità del messaggio antiviolento del Vangelo: basta evocare la figura di Martino di Tour, che abbandona l’esercito per la militia Dei45, e di Paolino di Nola, che invita ad abbandonare il servizio militare46. Francesco di Assisi compone la penultima strofa del Cantico «laudato si, mi Signore, per quelli che perdonano/ per lo tuo amore/ e sostengo infirmitate e tribulazione./ Beati quelli che ‘l sosterranno in pace,/ ca da te, Altissimo, sirano incoronati» per spronare il vescovo e il podestà a fare la pace:

«Francesco non invita il vescovo e il podestà a concludere un accordo, egli chiede loro piuttosto di ritrovare le energie spirituali interiori che permettono di superare le sofferenze, di perdonare, di dominare la collera, di evitare il turbamento; in breve di restare nella pace […] Il Cantico di Francesco stimola il vescovo e il podestà a ritrovare l’attitudine interiore che permette di dominare i sentimenti puramente umani»47.

Francesco fa leva sulla forza interiore perché è convinto del rapporto tra pace interiore e pace civile: il suo saluto di pace ha proprio il significato di aprire il cuore alla forza spirituale che è principio di rinnovamento morale e civile. La pace che i francescani devono avere sulla bocca è quella del loro cuore: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più nei vostri cuori. Non provocate nessuno all’ira o allo scandalo, ma tutti siano attirati alla pace, alla bontà, alla concordia dalla vostra mitezza»48. Francesco ha un progetto di pace per il mondo e affida ai frati una missione di pace: è

45

Cfr SULPICIO SEVERO, Vita Martini, 4,3. Cfr PAOLINO DA NOLA, Epist. 25,3. 47 J. PAUL, Pace, in Dizionario francescano, 1191-1192. 48 Leggenda dei tre compagni, 58. 46


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convinto che la pace può andare dal cuore dei suoi frati a quello di ciascun uomo. Francesco non ignora che chi vuole vivere secondo il Vangelo deve impegnarsi ad amare i propri nemici; la testimonianza della mitezza è capace di cambiare il nemico in amico, da qui l’indicazione della accoglienza che i frati debbono dare ai nemici:«E chiunque verrà da essi, amico o nemico, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà»49. L’ideale nonviolento del cristianesimo primitivo sarà mantenuto da comunità religiose separate dalle grandi Chiese, anche se a noi interessano i teologi, e tra questi è significativo Erasmo di Rotterdam. Per la comprensione del suo pensiero è di aiuto questo testo:

«Tra i cambiamenti che sconvolgono le cose umane, tra tanti patti e trattati firmati, poi stracciati, tutti possono trovare una ragione, se basta una ragione, per iniziare una guerra. Ma ci si difende: le leggi pontificie non condannano tutte le guerre; Agostino ne approva alcune, Bernardo loda certi cristiani. A dire il vero Cristo, Pietro e Paolo insegnano ovunque esattamente il contrario. Perché la loro autorità è per noi meno forte di quella di Agostino e Bernardo?»50.

Erasmo51 nelle sue opere contro la guerra e, soprattutto, nella sua opera classica sulla pace Querela pacis (=Lamento della pace) del 1517 evidenzia l’insensatezza della guerra che sacrifica vite umane alla sete di gloria personale, vite usate come materiale per la sete di gloria degli uomini di Stato nella loro lotta per il potere. Erasmo oltre che contro la guerra protesta contro il fatto che vi si mischi Cristo, il cui insegnamento è alieno da qualsiasi violenza bellica: e ciò perché la fede cristiana ha perso la sua funzione critica.

49

Regola non bollata, 7,15. Testo riportato da J.M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 81, nota 103. 51 Cfr W. HUBER - H.R. REUTER, Etica della pace, Brescia 1993, 95-103; P. RICCA, Testimoni, in Dizionario di teologia della pace, Bologna 1997, 943-946. 50


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La pace lamenta sia l’abitudine acquisita alla ovvietà della guerra come pure la difesa morale della sua brutalità. Erasmo si oppone all’opinione secondo la quale la guerra è un evento naturale e dimostra che la natura umana è incline alla pace: in pagine dense di argomenti fa vedere che l’uomo, per natura, tende non alla lotta ma alla comunione e all’amicizia. Arriva alla stessa conclusione analizzando due esempi storici: la divisione del lavoro e lo scambio internazionale delle merci dicono che l’attività umana è orientata alla pace nella convivenza sociale.

«Erasmo subordina in maniera radicale la guerra alla pace. Egli riconosce infatti che, con la sfrenata inclinazione alla guerra, la funzione critica della dottrina della guerra giusta è stata ampiamente vanificata. Di fronte a questa amara constatazione egli è pronto a ribadire quasi a qualsiasi costo la preminenza della pace. “Nessuna pace è così ingiusta”, egli afferma, “da non essere preferibile alla guerra apparentemente più giusta”»52.

Erasmo fa scaturire il dovere della pace dalla concordanza dei motivi della natura, della storia e della fede: non esiste dovere alcuno della guerra. Il domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546), a Salamanca, porta avanti l’ideale dello ius gentium o inter gentes che riconosce uguale sovranità a tutti gli stati: ne consegue che non si può più giustificare la guerra di uno Stato cristiano contro uno Stato infedele, e così vengono limitati i motivi che giustificano la guerra giusta. E, poi, mette in crisi il debitus modus: le sofferenze e le devastazioni non giustificano il fine perseguito, e quindi la guerra non può essere giusta53.

52 53

Ibid., 101. Cfr W. HUBER - H.R. REUTER, Etica della pace, Brescia 1993, 102, 107-109.


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5. La crisi della teoria della «guerra giusta» e il Vaticano II Benedetto XV dopo aver definito la prima guerra mondiale «inutile strage» la descrive come «carneficina che disonora l’Europa» perché ne ha distrutto i valori culturali54. Giovanni XXIII nella Pacem in terris (1963) dopo aver annoverato tra i segni dei tempi l’aspirazione alla pace, afferma che «In un’epoca come la nostra che si gloria dell’energia atomica, è fuori della razionalità (alienum est a ratione) pensare che la guerra sia uno strumento adatto per restaurare i diritti violati»: nell’era atomica, giacché è incontrollabile la potenza distruttiva degli armamenti, a molti appare del tutto improponibile la guerra come strumento di giustizia. Di questo documento fu percepita la carica profetica e innovatrice e la profonda sintonia con le aspirazioni di tutti gli uomini di buona volontà. La teologia se da una parte si convince che, a motivo delle armi atomiche, «anche la difesa più legittima diviene ingiusta perché distrugge proprio ciò che vuol proteggere: la vita con le sue condizioni di esistenza»55, dall’altra fa difficoltà a proporre la logica conseguenza che è l’obiezione di coscienza quale obbligo morale inevitabile, «questo è quanto accade nel filone ufficiale della teologia europea» legata ancora alla tradizione costantiniana56. Il Concilio Vaticano II, nonostante le spinte che venivano dall’esterno e dall’interno per una condanna piena della guerra e la approvazione dell’obiezione di coscienza, resta nel compromesso tra spinta profetica e realismo politico. La Gaudium et Spes apre con una teologia della pace di ispirazione biblica e di natura dinamica collegandola strettamente con la giustizia, l’agape e la fraternità universale (nn. 77-78); dà due nette condanne alle armi nucleari e ad ogni azione bellica indiscriminata rivolta alla distruzione

54

I testi sono riportati da G. MATTAI, Guerra, in Nuovo dizionario di teologia morale, cit., 544. 55 P. TRUMMER, Non-violenza, in Dizionario teologico, cit., 477. 56 G. PATTARO, Pace, in Nuovo dizionario di teologia, cit., 1061.


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di città o di masse umane (n. 80); non parla più della «guerra giusta» ma, al suo posto, parla solamente di legittima difesa (n. 79)57. Il documento pur condannando la guerra totale non condanna, tuttavia, il possesso delle armi nucleari (n. 80); e pur chiedendo la non punibilità dell’obiezione di coscienza, non ne sancisce il principio (n. 79)58. La posizione del Vaticano II, nonostante le varie aperture, non è profetica, cioè di nonviolenza radicale, ma di compromesso e ciò gli ha impedito di «assumere una posizione più netta e di condannare decisamente ogni guerra, senza trincerarsi dietro gli aggettivi che la qualificano (aggressiva, difensiva, offensiva, totale)»59, finendo così per bloccare la linea, intrapresa da Giovanni XXIII, della proclamazione dell’immoralità della guerra e della conseguente necessità di ricercare altre vie non sanguinose per tutelare i diritti.

6. Linee emergenti, oggi, nella riflessione dei teologi 6.1. Concezione della pace Continua ad essere presente la concezione negativa della pace, intesa come assenza di guerra fondata sul presupposto che occorre annientare il nemico: si tratta di una “pace armata” in quanto si fonda sulle

57

Da notare che essa «differisce profondamente dall’antica teoria la quale […] contemplava nella sua lunga storia una gamma sempre più vasta di legittimazioni dell’intervento armato. Al contrario, secondo una dottrina comunemente accettata dai teologi moralisti, per la legittima difesa occorre una aggressione attuale ingiusta, cui è lecito […] contrapporsi, ma non in ogni caso e a qualsiasi prezzo, bensì soltanto nell’ambito di una severa proporzionalità tra il bene o i beni che si vogliono difendere e il male che si arreca, o che ragionevolmente si prevede di arrecare, alla comunità mondiale»: G. MATTAI, Guerra, in Nuovo dizionario di teologia morale, cit., 545. 58 Cfr G. MATTAI, Guerra, in Nuovo dizionario di teologia morale, cit., 544-545; E. CHIAVACCI, Il cristianesimo e la guerra, in Guerra e pace nel mondo contemporaneo, Istituto Universitario Orientale, a cura di L. Cortesi, Napoli 1985, 209; CH. MELLON, I cristiani di fronte alla guerra e alla pace. Con Appendice di testi e glossario, Brescia 1986, 151-154. 59 G. MATTAI, I cristiani e la pace tra compromesso e profezia, in Il disarmo e la pace, Bologna 1982, 36.


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armi o di una “pace diplomatica”, che fa leva sulle intese e sul dialogo dei vertici. Accanto a questa concezione però si va affermando sempre più la visione positiva della pace, contrassegnata dalla giustizia e dal rispetto delle persone60: si fonda non sulle armi ma sulla forza della verità e della nonviolenza attiva, fa leva non sugli strumenti diplomatici ma sull’intervento attivo e sul consenso delle minoranze profetiche e del popolo. La pace va intesa sempre più non come ordine ad ogni costo ma come qualità del rapporto umano:

«I rapporti tra gli uomini saranno rapporti di pace se saranno rapporti di dono: rapporti tali, cioè, che ciascuno consideri gli altri come valore, termine del suo personale dono di sé […] Il rovescio della pace non è perciò la guerra (che sarà solo una particolare situazione di non pace); è invece il dominio dell’uomo sull’uomo. Impegnarsi per la pace è impegnarsi per la liberazione di ogni essere umano, di ogni gruppo, che in qualche modo sia oppresso, dominato da altri uomini o altri gruppi. Frutto della giustizia sarà la pace (Is 32): la giustizia di Dio è sempre la giustizia resa al povero e all’oppresso […] così il vero giusto è colui che opera per liberare gli oppressi, per spezzare ogni catena. Essere assetati di giustizia e facitori di pace (Mt 5) è in realtà la stessa cosa»61.

Lavorare per la pace comporta innanzitutto adoperarsi a che non vi sia potere e dominio di uomini o di gruppi su altri uomini o gruppi, e poi per il riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni uomo, specialmente dei più poveri e dei più emarginati. Viene ribadito il dovere della “scelta dei poveri” con l’avvertenza che «non è la scelta di una parte contro l’altra, ma è al contrario il riconoscimento che un mondo di giustizia e di pace può essere costruito solo se lo si

60 61

Cfr Gaudium et Spes, 78; Populorum Progressio, 76. E. CHIAVACCI, Pace e guerra, in Dizionario teologico, cit., 487.


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progetta dal punto di vista dei poveri, dei loro diritti conculcati»62: bisogna evitare che la libertà dei pochi si fondi sulla dipendenza dei molti. C’è un pacifismo relativo che sottopone l’uso delle armi a molte condizioni e limitazioni e considera, comunque, il ricorso alla violenza come un male minore; punta alla creazione di uno Stato mondiale che superi gli Stati nazionali sempre inclini a farsi giustizia da sé: è la tesi che sostanzialmente è presente nel Catechismo della Chiesa Cattolica63. Accanto, però, si va affermando un pacifismo radicale, che ritiene immorale qualsiasi forma di uccisione dell’uomo, sia nell’autodifesa personale che in quella collettiva; mira al disarmo globale e all’uso di metodologie nonviolente e, soprattutto alla diffusione di una cultura di pace e di nonviolenza64. Si avverte l’esigenza che la teologia nel suo riflettere sulla pace consideri la pace sia come fine sia come ricerca dei mezzi concreti che ne consentono il raggiungimento: deve, cioè, riflettere sulle vie concrete sia dello sviluppo che della liberazione sociale65.

6.2. La nonviolenza Molti stimoli hanno contribuito a che la teologia riflettesse sempre più sulla nonviolenza66: il messaggio e l’esempio di nonviolenza di Cristo è una sfida ai cristiani in tutti i campi della vita; il cristiano è chiamato ad evitare ogni violenza, quella «del pugno, della lingua e del cuore»67. La morale cristiana sta vivendo un processo di maturazione che le fa prendere coscienza che «la guerra, la pena di morte, l’omicidio […] gli attentati, la

62 L. BETTAZZI, in Comunità cristiane per una cultura di pace, a cura di Pax Christi, Brescia 1983, 11. 63 Cfr nn. 2307-2317. 64 Cfr G. MATTAI, Pace e pacifismo, in Nuovo dizionario di teologia morale cit., 873881; F. KETTMAIER, Aspetti etici della violenza, in Ekklesia 3 (1969) 4, 63-85. 65 G. PATTARO, Pace, in Nuovo dizionario di teologia, cit., 1060-1067. 66 Cfr G. MATTAI, I cristiani e la pace tra compromesso e profezia, cit., 39. 67 M.L. King citato da P. TRUMMER, Non-violenza, in Dizionario teologico, cit., 480.


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cattura di ostaggi, la tortura ecc. sono inconciliabili con lo spirito del cristianesimo»68. La nonviolenza non significa tirarsi fuori dal mondo e dai suoi drammatici problemi, è scegliere altri metodi per la soluzione dei conflitti: essa «non è l’accettazione passiva di tutto ciò che accade, bensì l’azione che tende ad eliminare non l’altro ma la causa del conflitto che mi divide dall’altro»69. Questa via della “patientia” o nonviolenza, indicata dalla Chiesa delle origini, sta ritornando nella riflessione etica della teologia. Si insiste opportunamente sulla necessità di una adeguata educazione. La nonviolenza viene raccordata con l’evento della Croce: la croce abbatte i muri della divisione e supera la categoria del “nemico”, centrale nella violenza e nella guerra. La nonviolenza non è debolezza:

«La nonviolenza non consiste nel rinunciare ad ogni lotta reale contro il male. La nonviolenza […] è invece una lotta contro il male, più attiva e più reale della legge del taglione, la cui natura stessa ha per effetto di sviluppare la perversità […] Cerco di smussare completamente la spada del tiranno, non colpendola con un acciaio meglio affilato, ma deludendo la sua stessa attesa di vedermi offrirgli una resistenza fisica. Troverà in me una resistenza dell’anima che sfuggirà alla sua stretta. Questa resistenza dapprima l’accecherà e poi l’obbligherà a piegarsi. E il fatto di chinarsi, non umilierà l’aggressore, ma l’innalzerà»70.

Porgere l’altra guancia è tagliare la catena fin dal primo anello, è mettere l’avversario dinanzi alla sua ingiustizia e alla sua violenza: «Rendere colpo su colpo in nome del principio di legittima difesa, è permettere all’altro di giustificarsi e impedirgli di prendere coscienza della sua ingiustizia. Poiché lui stesso dal momento che l’abbiamo colpito, si trova a sua volta “in caso di legittima difesa” e si trova anche lui “obbligato” 68

P. TRUMMER, Non-violenza, in Dizionario teologico, cit., 480. PAX CHRISTI (a cura di) Comunità cristiane per una cultura di pace, cit., 56. 70 GANDHI, Lettres à l’Ashram, Paris 1937, 109-110. 69


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a colpirci. La nostra violenza legittima la sua e la riconciliazione diviene impossibile. Rendere colpo su colpo è farci complici del male al quale volevamo opporci e perpetuare la violenza all’infinito»71. La violenza chiama violenza come la bontà chiama bontà: la nonviolenza è un appello alla coscienza e alla libertà dell’avversario affinché riconosca la sua ingiustizia e rinunci al male. Porgere l’altra guancia è un’espressione del precetto dell’amore, la violenza ne è la negazione. La teologia va prendendo sempre più coscienza del dovere d’insegnare l’ideale del discorso della montagna, che comanda di porgere l’altra guancia e di non rendere male per male, ma di vincere il male con il bene, escludendo chiaramente la violenza. La teologia non può e non deve ridurre l’ideale insegnato da Cristo: se il cristiano non riesce a far meglio che rendere colpo su colpo, lo si accuserà di una debolezza, tuttavia non potrà ritenere tale comportamento un diritto o una regola di vita; la virtù della nonviolenza sta nella stessa condizione di tutte le altre virtù cristiane. Secondo il Vangelo la nonviolenza è legge e la violenza è compromesso: la teologia ha preso maggiore coscienza del fatto che, insegnando la legittimità della violenza, insegnerebbe il compromesso e non la legge. La violenza tratta l’altro come oggetto, viceversa l’uomo ha l’esigenza di essere riconosciuto in quanto persona: è proprio della carità fraterna riconoscere l’altro nella sua dignità e mirare alla sua trasformazione e non alla sua distruzione. Mentre la violenza vince il nemico, la nonviolenza intende vincere l’inimicizia: «Non è il nemico che dovete combattere, ma l’errore del nemico: l’errore che il vostro prossimo commette quando gli succede di credersi vostro nemico. Alleatevi al vostro nemico contro il suo errore»72. La nonviolenza è, al dire di Gandhi, satyagrâha cioè forza della verità, indefettibile abbraccio della verità. La teologia morale in questi anni, riflettendo sul rapporto tra mezzi e fine a proposito della nonviolenza, ha opportunamente evidenziato che nessun fine è scindibile dai mezzi usati per realizzarlo: «La storia insegna:

71 72

J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 58. Gandhi citato da P. RÉGAMEY, Non-violenza e coscienza cristiana, Roma 1962, 278.


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i mezzi della violenza non possono generare niente di diverso dalla violenza stessa […] Quali i mezzi, tali i fini»73. «Ciò che si semina, si raccoglie»74: chi mette violenza in ciò che fa, dopo ne troverà altrettanta o anche di più nei risultati; «non illudiamoci che le violenze si neutralizzino a vicenda. I loro scontri non generano la pace, ma ancor più violenza»75. I mezzi sono «il fine stesso in divenire»76: per realizzare la pace necessitano i mezzi della pace. «Tra il fine e i mezzi esiste lo stesso indistruttibile legame che c’è tra il seme e l’albero»77: ecco perché «tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada»78; se i mezzi sono essi stessi il fine, la nonviolenza va incarnata nei mezzi nonviolenti, la pace nei mezzi di pace79. Ad una teologia e ad una morale dell’ordine statico sono subentrate una teologia e un’etica che valorizzano le categorie sia del progresso e dello sviluppo sia quella del futuro. I cambiamenti civili il più delle volte sono stati compiuti con mezzi violenti e cruenti

«così che per molto tempo la rivoluzione si distingueva a malapena dal “Terrore”. È anche per questo che la Chiesa non ha mai mancato fin qui di condannare, con eccessiva severità, le rivoluzioni, nelle quali non vedeva che disordine e violenza»80:

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Gandhi citato da L. SPALLACCI, Violenza e non-violenza, in Dizionario teologico interdisciplinare, Torino 1977, 546. 74 Gal 6,7. 75 P. RÉGAMEY, Non-violenza e coscienza cristiana, cit., 74. 76 J. MARITAIN, L’uomo e lo stato, Milano 1953, 64. 77 Gandhi citato da P. RÉGAMEY, Non-violenza e coscienza cristiana, cit., 274. 78 Mt 26,52. 79 Cfr P. RÉGAMEY, Non-violenza e coscienza cristiana, cit., 267-281; L. SPALLACCI, Violenza e non-violenza, cit., 545-547; B. HAERING, La contestazione dei non violenti, Brescia 1969; L. ROSADONI, La violenza dei disarmati, Torino 1966; R. SCHUTZ, Violenza dei pacifici, Brescia 1969. 80 J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 142.


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condanna fuori posto ed inefficace perché le ingiustizie, che ne stavano alla base, non sempre erano combattute dalla Chiesa. Alcuni, in questi ultimi decenni, hanno cercato di giustificare la violenza sotto il pretesto che è rivoluzionaria: è la posizione di coloro che hanno cercato di giustificare la guerriglia, si pensi a quanto si è scritto intorno a Camillo Torres81. Oggi si distingue tra rivoluzione e violenza: mentre la prima può essere legittimata in nome della giustizia, la seconda deve essere condannata in nome del Vangelo, specialmente dell’amore che comanda di amare i nemici e di perdonare le offese. È compito dei cristiani portare la carità nella rivoluzione: condannare la violenza rivoluzionaria senza giustificare la rivoluzione, quando è una esigenza della giustizia, significa schierarsi con i nemici della rivoluzione che combattono per conservare le loro ricchezze e i loro privilegi82.

6.3. L’obiezione di coscienza Il Vaticano II «non ha condannato l’obiezione di coscienza, ma non l’ha nemmeno voluta approvare»83: il testo conciliare a qualcuno addirittura è sembrato un appello all’indulgenza in favore dei sudditi che si sono resi colpevoli di un misfatto. L’obiezione di coscienza al servizio militare, agli armamenti e all’uso delle armi è un tema affrontato ormai da tutti i moralisti, ovviamente con atteggiamento e spazio diversi. Sono sempre di più, però, i teologi che vi riconoscono un valore profetico perché, oltre a mettere in guardia contro un tipo di obbedienza acritica, l’obiezione di coscienza aiuta a desacralizzare i conflitti e la difesa armata, a frenare la corsa agli armamenti, ad evangelizzare la pace e i

81

Cfr ibid., 144-154. Cfr F.V. Joannes (a cura di), Vangelo, violenza, rivoluzione, Milano 1969; Verso una teologia della violenza?, Brescia 1969; Violenza o non violenza?, 1878-1987, Milano 1991; B. MONDIN, Teologia della prassi, Brescia 1973. 83 Monsignor Ancel citato da J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 129. 82


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metodi nonviolenti in grado di crearla, e, pertanto, porta alla conversione in senso evangelico84. Le indicazioni bibliche che danno valore teologico all’obiezione di coscienza sono il “non uccidere” e l’“amare i nemici”; mentre a motivarne il dovere è il “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”: viene opportunamente ribadito che necessita un’educazione che faccia maturare la coscienza cristiana in tal senso85; solo successivamente la convinzione potrà diventare responsabilità e scelta consequenziale86. Il dovere dell’obiezione di coscienza si motiva pure con la considerazione che il cittadino non è semplicemente un suddito, con l’obbligo della obbedienza, ma un corresponsabile del bene comune, con il diritto di giudicare gli affari pubblici: naturalmente ne consegue la necessità di una educazione a giudicare le leggi; si aggiunga poi il fatto che la guerra moderna, non avendo frontiere, coinvolge non solo i militari ma anche i civili87. L’obiezione di coscienza al servizio militare trova la sua credibilità nel servizio civile, che consiste nel combattere le radici stesse dei conflitti: le ingiustizie, le esclusioni, i razzismi, le solitudini, le disinformazioni. È l’atteggiamento costruttivo, come pure l’amore per la pace, a dare valore all’obiezione di coscienza88: non avrebbe senso se fosse motivata da

84

Cfr G. MATTAI, I cristiani e la pace tra compromesso e profezia, cit., 45-47. J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 130-131. 86 «Bisognerebbe dunque fare dell’obiezione di coscienza la regola comune e imporla a tutti i cristiani? Pensiamo non convenga porre il problema in questi termini. Un impegno così grave deve procedere da una necessità interiore e corrispondere a una scelta personale di ciascuno di fronte alle proprie responsabilità […] Nella misura in cui vuol essere un atteggiamento che s’ispira al realismo del vangelo e vuole incarnare lo spirito delle beatitudini nella realtà politica è certamente missione della Chiesa promuoverla e preparare i cristiani a situarsi in questa prospettiva»: J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 130-131. 87 Cfr F. KETTMAIER, Aspetti etici della violenza, cit., 76-80; J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 95-113. 88 «Lo spirito della non-violenza o della mitezza evangelica non deve né impuntarsi né esaurirsi nel rifiuto d’uccidere, ma esprimersi anzitutto nella ricerca delle vie che conducono alla pace»: P. RÉGAMEY, Non-violenza e coscienza cristiana, cit., 361. 85


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vigliaccheria89 o da paura; l’obiettore non è un disertore ma un rivoluzionario90. L’obiezione non può limitarsi al rifiuto del servizio militare ma deve adoperarsi a che «la politica diventi nonviolenta e che la nonviolenza diventi politica»91.

6.4. Il disarmo La teologia morale oggi dà un giudizio divergente per quanto riguarda la difesa. Il giudizio è chiaramente negativo per quanto riguarda la corsa agli armamenti, che “ruba” il necessario ai poveri92 e in effetti costituisce più una minaccia che una garanzia, come pure per l’uso indiscriminato delle armi nucleari. Per quanto riguarda la deterrenza nucleare, mentre alcuni l’accettano come male minore — dato che l’equilibrio nucleare ha evitato lo scontro tra le superpotenze, ma sempre nella prospettiva del disarmo e di un reale sforzo a favore della giustizia —, altri la giudicano negativamente — perché

89 Gandhi citato da J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 131: «Io so in verità che se fosse assolutamente necessario scegliere fra la vigliaccheria e la violenza, consiglierei la violenza». 90 Cfr J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 126-140; G. TRENTIN, Costruzione della pace, violenza, obiezione di coscienza, in Regno-documenti 7 (1981) 217224; A. CAVAGNA, I cristiani e l’obiezione di coscienza al servizio militare. Nella Bibbia, nella storia della Chiesa, nella teologia contemporanea, Bologna 1992; G. NERVO, Obiettori di coscienza: imboscati o profeti. Riflessioni sulla pace, Bologna 1996; E. TREVISI, Obiezione di coscienza, in Dizionario di teologia della pace, Bologna 1997, 639-643. 91 J.Y. JOLIF, Face à la violence, Paris 1962, 76. 92 «Infatti nella nostra realtà storica, ‘militare’ anche senza ‘bellare’ […] significa essere complici con quella realtà militare che, assorbendo risorse immense, impedisce la soluzione dei drammatici problemi del sottosviluppo, che “non possono essere aggrediti frontalmente se non a prezzo di investimenti, ricerche e di altre risorse reperite solo in diretta concorrenza con il settore militare”»: Comunità cristiane per una cultura di pace, cit., 56; «Gli armamenti, anche se non sono messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri facendoli morire di fame»: La Santa Sede e il disarmo. Documento presentato all’ONU, 1976, in Enchiridion Vaticanum, V, 1990-2024.


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ogni autodifesa violenta individuale o collettiva è antievangelica e costituisce occasione prossima di peccato93. Mentre alcuni teologi, quindi, ritengono ancora necessario l’esercito e la difesa armata e, pertanto, respingono il disarmo unilaterale; altri invece sono per la nonviolenza attiva e per la difesa non militare alternativa e, conseguentemente, per il disarmo unilaterale94: sono convinti, infatti, che è meglio preferire i rischi del disarmo a quelli della guerra95: i numerosi documenti emanati da vari episcopati negli anni ’80 riflettono questa divergenza di giudizio dei teologi96.

93 «Respingono la difesa nucleare come intrinsicamente perversa, considerano la deterrenza come occasione prossima di peccato e rifiutano la possibilità di distinguere, sempre sotto il profilo etico, la minaccia (seria) di un’arma nucleare dal suo uso: per essere credibile chi minaccia deve essere disposto a porre in atto lo strumento deterrente»: G. MATTAI, Guerra, in Nuovo dizionario di teologia morale, cit., 546. 94 «Se vediamo nell’armamento degli altri la giustificazione del nostro armamento, questo, con la stessa logica, giustifica l’armamento degli altri e ci chiudiamo in un cerchio senza via d’uscita […] Ma ci si condanna a non avere alcuna presa sull’evento […] quando ci si limita a condannare in blocco la corsa agli armamenti e non si accetta di rinunciare noi stessi all’armamento nucleare se non quando gli altri vi rinunceranno […] Se la corsa agli armamenti […] “è una piaga” […] che “lede i poveri”[…] costituisce un reale pericolo per l’umanità, è conforme ai più elementari principi della morale il non rinunciare noi stessi a partecipare ad un simile misfatto se non alla condizione che anche gli altri vi rinuncino? Certamente no»: J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 157, 165. 95 «Non possiamo nasconderci che ci sono dei rischi nel realizzare un disarmo unilaterale […] chi può dire che il rischio del disarmo sarebbe più grande del rischio dell’armamento, che oggi accettiamo di correre quasi ciecamente? Il rischio del disarmo è quello della pace, il rischio stesso della vita […] e saremmo certamente colpevoli davanti a Dio e davanti agli uomini se non preferissimo questo al rischio assurdo della guerra atomica […] ci sembra che solo un disarmo unilaterale […] potrà smorzare il processo della corsa agli armamenti e così aprire vie nuove verso la pace»: J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 165-166. 96 Per i documenti degli episcopati cfr Il disarmo e la pace. Documenti del magistero, riflessioni teologiche, problemi attuali, Bologna 1982; Cristo è la nostra pace. La voce dei Vescovi contro la guerra, Milano 1986. Per le varie posizioni dei teologi cfr G. MATTAI, Guerra, in Nuovo dizionario di teologia morale, cit., 545-548; G. TRENTIN, Deterrenza, Difesa militare e non militare, in Dizionario di teologia della pace, cit., 303-311; G. MATTAI - B. MARRA, Dalla guerra all’ingerenza umanitaria, Torino 1994; W. HUBER H.R. REUTER, Etica della pace, Brescia 1993; CH. MELLON, I cristiani di fronte alla guerra


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6.5. La difesa non armata Vari teologi, sensibili all’istanza del superamento della necessità della difesa militare portata avanti da diversi movimenti pacifisti, cominciano a trattare della difesa non armata: si va affermando la convinzione che una bene organizzata resistenza popolare nonviolenta offre maggiori possibilità di riuscita che non quella violenta, a motivo delle reazioni altrettanto violente che essa suscita. La resistenza di un popolo — attraverso iniziative di resistenza politica e di disobbedienza civile — è più efficace della violenza delle armi e salvaguarda, inoltre, la inviolabilità della vita97:

«Se tutti i cristiani, uniti a tutti i poveri di buona volontà, rifiutassero decisi e compatti ogni collaborazione: a) nelle fabbriche di armi o di materiale strategico; b) nei quadri di tutte le polizie oppressive; c) negli eserciti di tutti i tipi; d) nella ricerca scientifica a scopi militari o comunque oppressivi; e) nelle operazioni economiche, a tutti i livelli, in cui si opprimono molti per arricchire pochi potenti, sarebbe ancora possibile una guerra? Questa sarà forse un’utopia, ma è certamente solo quanto la morale cattolica tradizionale insegna a proposito della collaborazione al male»98.

Come armi per la difesa non violenta vengono indicate la disobbedienza civile e la noncooperazione dopo l’entrata dei militari sul territorio: senza la collaborazione della popolazione saranno costretti ad andare via99. Viene ribadito che i mezzi nonviolenti sono più efficaci di quelli violenti: e alla pace, Brescia 1986; G. TRENTIN, Per un’etica della pace, Padova 1985; Pace, disarmo, Chiesa, a cura di G.Magnani, Roma 1984. 97 Cfr P. TRUMMER, Non-violenza, in Dizionario teologico, cit., 477. 98 E. CHIAVACCI, Pace e guerra, in Dizionario teologico, cit., 493. 99 Cfr J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 154, 171-195; viene citato Gandhi: «Non dimenticate che il nostro atteggiamento di fronte all’esercito giapponese deve essere di non cooperazione totale. Non dobbiamo dunque aiutarlo in nulla, e né trarne il minimo profitto […] C’è una cosa che i nostri compatrioti non devono mai fare: sottomettersi di buon grado. Sarebbe vile e indegno di un popolo amante della libertà».


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essi infatti facendo prendere coscienza all’avversario del torto, non gli consentono di continuare la lotta100. La disobbedienza civile riceve la legittimità morale dal fatto che è l’unico mezzo nonviolento per combattere una situazione d’ingiustizia101. Opportunamente è stato notato che «il compito più radicale, che è anche uno dei più urgenti del nostro tempo, è quello di preparare gli uomini ad eventuali gesti di disobbedienza»102.

Conclusioni 1. «Si vis pacem para bellum» era una convinzione dell’impero romano che certamente ha influenzato anche la cristianità sia quando la teologia ha espresso la dottrina della guerra giusta sia quando per i cristiani «Impugnare le armi […] far le crociate contro i nemici della loro fede e dei valori da loro professati, era diventato non solo un non-male ma addirittura un bene»103. Anche se meraviglia, bisogna ammettere che la teologia mentre ha accolto pienamente l’appello del discorso della montagna alla fedeltà coniugale e l’ha tradotto in norme etiche, ha disatteso l’appello alla nonviolenza, riducendolo nella sfera del privato, lasciandosi in questo condizionare dal diritto romano.

100

«Tutto quanto il dinamismo della non-violenza deriva dal fatto ch’essa riesce ad eliminare completamente il sentimento inconscio di colpevolezza nel non-violento, mentre simultaneamente attualizza nella stessa proporzione la colpevolezza nell’avversario. Ed è proprio questa percezione della propria cattiva coscienza a rendere l’altro più vulnerabile. Ma nella misura in cui il non-violento agisce per amore, oltre a portare la colpevolezza dell’altro al livello della sua coscienza, gliela fa anche accettare»: M. Choisy citata da P. RÉGAMEY, Non-violenza e coscienza cristiana, cit., 302. 101 P. RÉGAMEY, Non-violenza e coscienza cristiana, cit., 293. 102 Ibid., 362: l’Autore cita Pio XII: «nessuna istanza superiore può comandare un atto immorale; non esiste alcun diritto, alcuna obbligazione, alcun permesso di compiere un atto in sé immorale, ancorché sia comandato, ancorché il rifiuto di agire porti con sé i più gravi danni alla persona». Sulla difesa nonviolenta cfr TH. EBERT, La difesa popolare nonviolenta, Torino 1984. 103 P. FORESI, I cristiani e la non-violenza, in Ekklesia 3 (1969) 4, 5.


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La teologia ha sempre affermato che è un dovere conseguire la pace, ma dopo Costantino ha affermato che, per difendere la pace, può essere necessario fare la guerra: la teologia quindi condanna la guerra ma nello stesso tempo la giustifica. Molti cristiani e molti uomini, oggi, vogliono una nuova teologia della pace che non si attenga alla concezione pagana dei romani e quindi non sia fondata sulle armi, ma sul Vangelo di Cristo che proclamando «beati i miti» e «beati gli operatori di pace»104 con chiarezza addita che per essere figli di Dio bisogna essere creatori e costruttori di pace e che la via non è la forza ma la mitezza e la nonviolenza. La “legge del taglione” veterotestamentaria — che prescriveva di opporre violenza a violenza — è stata superata e capovolta dalla legge neotestamentaria dell’amore — che prescrive di amare il nemico e di “porgere l’altra guancia”—. 2. Non si può negare che oggi, quando la prospettiva della guerra è veramente tragica, dal momento che le armi nucleari hanno la possibilità di una distruzione globale dell’umanità, c’è una crescente presa di coscienza del vangelo della pace e della nonviolenza e della sua capacità di cambiare il volto conflittuale e violento della nostra società: la riflessione teologicomorale, che ha veramente lavorato ed è in continua evoluzione105, tuttavia non è ancora del tutto soddisfacente, specialmente per quanto riguarda la riflessione sulla nonviolenza; segno ne è il fatto che permangono in alcune fasce della Chiesa la dottrina della guerra giusta e la diffidenza verso il disarmo e la nonviolenza, considerati quale illusione per salvaguardare la pace e per contrastare la violenza armata. La nonviolenza non comporta la rinuncia alla difesa, ma la realizza attraverso metodi diversi di quelli che prevedono l’uccisione del nemico: il vangelo della nonviolenza si può attuare solo con mezzi nonviolenti.

104

Mt 5,5.8. Cfr quanto è stato scritto a partire da J. COMBLIN, Teologia della pace, voll 1-2, Roma 1966; nelle varie voci dei dizionari teolgici delle Edizioni Paoline; fino a Dizionario di teologia della pace, a cura di L. Lorenzetti, cit. 105


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Salvatore Consoli «La nonviolenza non postula un mondo senza tensioni, senza opposizioni e senza conflitti fra gli uomini; postula invece la possibilità di risolvere queste opposizioni e questi conflitti senza ricorrere alla violenza distruttrice e omicida»106:

fa leva sulla forza della verità e dell’amore per risvegliare la coscienza dell’avversario. 3. Sono sempre di più i cristiani che, riflettendo seriamente sul messaggio evangelico, si pongono la domanda se la nonviolenza sia un precetto essenziale per il cristianesimo: sono sempre di più i teologi che rispondono con chiarezza che essa costituisce un’esigenza fondamentale, anzi ne è l’essenza107. Si ritiene non accettabile quella tesi secondo la quale la nonviolenza riguarda solo il comportamento privato e non quello pubblico: si sottolinea che alla nonviolenza — cuore del messaggio evangelico — bisogna conformare non solo la vita privata ma anche quella pubblica. Si desidera che si elabori una teologia della pace che sia, però, una teologia della nonviolenza e non una teologia della violenza legittima e della guerra giusta. I tentativi in questo senso non mancano: la riflessione è molto aiutata dal contributo dato da Gandhi, che ha ben capito il discorso della montagna e ha dimostrato che si può mettere in pratica108. 4. La teologia, dimenticando il precetto dell’amore che comporta il “porgere l’altra guancia”, ha svuotato il vangelo di un contenuto caratteristico che, conseguentemente, non ha potuto avere l’incidenza che avrebbe dovuto avere sulla vita degli uomini e sulla storia dei popoli: il recupero di tale precetto consentirà di dare un forte contributo nel creare quella cultura della vita, oggi da molti avvertita come necessaria e urgente.

106

J.-M. MULLER, Il vangelo della nonviolenza, cit., 69. Cfr ibid. 108 DREVET CAMILLE, Gandhi interpella i cristiani, Assisi 1968. Sulla convinzione della possibilità di vivere la pace cfr i vari autori di cui alla voce Testimoni, in Dizionario di teologia della pace, cit., 925-971; come pure l’ampia bibliografia riportata in Comunità cristiane per una cultura di pace, cit., 188-194. 107


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La teologia per lungo tempo ha rassicurato le coscienze con la teoria della “guerra giusta”: la forza distruttrice delle armi nucleari ha contribuito a far prendere coscienza che non si può essere difensori della giustizia seminando la morte; la teologia, oggi, nel faticoso recupero che sta compiendo, avverte che la morale della nonviolenza non deve esaurirsi nel rifiuto di uccidere ma deve esprimersi nella ricerca delle vie che conducono alla pace. 5. Synaxis ha pubblicato una monografia su «Violenza ed educazione alla pace in Sicilia»109 frutto di un seminario interdisciplinare. Tale monografia da un lato mette in evidenza la responsabilità della Chiesa che, facendo mancare la sua voce profetica e non assolvendo sempre il compito specifico di educatrice alla nonviolenza e alla pace, ha contribuito a rafforzare strutture di violenza. Dall’altro lato fa vedere come in questi ultimi decenni si è avuta una semina abbondante di voci “nuove”: si pensi a Mario Sturzo, a Giorgio La Pira e a quanto si è scritto in tema di pace e di nonviolenza in occasione della installazione dei missili a testata nucleare a Comiso nel 1981; come pure una presenza di testimonianze: Pino Puglisi e le varie esperienze delle Caritas diocesane. La monografia chiude sottolineando la necessità che questi semi vengano coltivati sia attraverso una opportuna riflessione teologica sia mediante una seria attenzione pedagogica, anche da parte delle Chiese siciliane.

109

Synaxis XVIII/2 (2000).



IL SACRIFICO DELLA VITA ALL’ORIGINE DELL’ESPERIENZA GIURIDICA

SALVATORE AMATO*

It is hard for those who live near a Police Station To belive in the triumph of violence. Do you think that the Faith has conquered the World And that lions no longer need keepers? (T.S. ELIOT, Chorus from the “Rock”, 1934)

1. Sacratio hominis «…bellis gravia aut corrupta morbis aut fame tristia aut terrarum motibus terribilia aut inundationibus aquarum insolita aut […] parricidiis flagitiisque misera»1. Se non fossero le cupe enumerazioni delle Storie contro i pagani di Orosio, potrebbero essere le “catastrofi” che Hobsbawm pone a scandire il ’900, il “Secolo breve”: in tutte le periodizzazioni, in tutti i tentativi di rilettura globale della storia emerge un tanfo di morte, sentiamo riecheggiare quel «mattatoio»2 in cui sono distrutte le fortune dei popoli, degli stati, degli individui, malinconicamente descritto da Hegel. La cultura della vita, se c’è, sembra restare ai margini. I momenti di felicità *

Della Facoltà di Giurisprudenza. OROSIO, Le storie contro i pagani, trad. it., I, Milano 1976, 9. 2 G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, I, trad. it., Firenze 19758, 68. 1


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sono le “pagine vuote” dei libri di storia3? Più appare pessimistica e senza speranza un’analisi realistica della condizione umana più è lo stesso realismo a imporre di spiegare come sia nata una cultura della vita dinanzi a tante efferatezze. Perché mai dovremmo riuscire a scorgere qualcosa di diverso oltre il gioco perverso degli eventi? La nozione di sacrificio offre una prospettiva ideale per condurre una riflessione del genere, perché presenta una profonda ambivalenza semantica: quella che lega, in tutte le culture, sacro ed esecrando, santo e maledetto, delineando un groviglio inestricabile in cui il senso della vita, la ricerca della relazione con Dio (il sacro), sembra inseparabile dall’idea della pena e della morte e, quindi, dal rifiuto della relazione e della vita stessa (il reietto, il condannato)4. La sacratio hominis della tradizione latina nasce probabilmente dall’ancestrale offerta agli dei di sacrifici umani, ma poi diviene la sentenza di morte irrevocabile. Allo stesso modo, in ebraico herem indica tanto il consacrato quanto il condannato: entrambe le situazioni descrivono colui che ha già un destino segnato per cui la comunità non può più incidere sulla sua sorte: «ogni persona dichiarata herem non potrà essere riscattata, sarà fatta morire» (Lv 27,29). Semplificando, potremmo dire che l’originaria funzione religiosa, per effetto degli sviluppi storici, si secolarizza, si laicizza trasformandosi in funzione penale. In entrambi i casi, domina la morte come elemento irreversibile. Nel sacrificio prevale la dimensione del “dare”: il valore assoluto di colui per cui si dà la morte. Nella pena, la dimensione del ricevere: l’assolutezza della colpa di chi riceve la morte. La vita dipende dalla morte. È la morte che garantisce la possibilità di mantenere in vita la comunità, perché protetta da Dio, perché lavata dalla colpa. In questo senso, il sacrifico si prolunga nella pena, le trasmette un’ansia inappagata di assoluto che la precarietà della vita mette sempre in discussione, revoca continuamente in dubbio. Quando il processo di secolarizzazione giunge a compimento all’interno della cultura moderna, questa continuità si interrompe. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna cultura dello Stato sono concetti 3

Ibid., 82. Per una più dettagliata ricostruzione di questi percorsi semantici rinvio all’analisi di A. DI NOLA, Sacro\profano, in Enciclopedia, XII, Torino 1981, 228-334. 4


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teologici secolarizzati»5. Se avesse ragione Carl Schmitt, dovremmo dire che solo l’idea di pena ha subito questo sottile lavoro di trasformazione, restando ininterrottamente al centro della riflessione filosofica, ma secolarizzandosi sempre più, fino a perdere qualsiasi residuo metafisico. «Un illuminato razionalismo ci vieta di pensare che gli uccisi abbiano una voce, che la terra chieda vendetta per il sangue versato, che le ombre insanguinate aspettino l’uccisore oltre il velo del visibile»6. Più si afferma il modello, tipicamente moderno, della risocializzazione e più si tende a privilegiare una visione pragmatica, se non addirittura economica, della funzione della pena in cui appaiono ormai obsolete le ansie di trascendenza delle teorie tradizionali e, in particolare, della teoria restributiva. Nello Stato costituzionale di diritto, con la sua struttura democratica e le sue attenzioni sociali, la dimensione assistenziale prevale su quella afflittiva, relegando nel dimenticatoio affermazioni così radicali come quelle di De Maistre7 secondo cui l’intera struttura della società si basa sul boia. La pena costituisce l’aspetto meccanico di una tecnica (per molti già da tempo obsoleta) di organizzazione sociale in cui entrano in gioco problemi di opportunità e di equilibrio, ma nessuna pretesa di “sostituirsi a Dio” o di ritrovare Dio nell’assolutezza del dare la morte8. Anche i paesi che continuano ad applicare, in Occidente, la pena di morte, lo fanno in maniera soft, ricorrendo al ricatto della sicurezza. È come se lo Stato dicesse: sono costretto a uccidere, ma è nel tuo interesse, per difenderti, e non certo per affermare la mia onnipotenza. Se la pena ha perduto qualsiasi rapporto simbolico con il senso della vita, il sacrificio ha continuato a costituire il tema, anche se spesso marginale e sottinteso, di riflessione estrema sull’origine del potere. Estrema, in quanto punto cruciale del rapporto tra l’uomo e Dio e degli uomini tra loro. Qualsiasi sforzo di edulcorare la brutalità della riflessione 5 È il noto incipit della Teologia politica, una della parti fondamentali di C. Schmitt, Categorie del politico, trad. it., Bologna 1972, 61. 6 G. CERONETTI, La violenza e le vittime, in La carta è stanca. Una scelta, Milano 2000, 188. 7 Discussa da I. Berlin nel saggio Il Contro-Illuminismo, in Controcorrente, trad. it., Milano 2000, 35. 8 Penso alle riflessioni di V. MATHIEU, Perché punire? Il collasso della giustizia penale, Milano 1978 e di I. MANCINI, Filosofia della prassi, Brescia 1986, cap. IV.


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sulla morte, di ricondurla entro i percorsi secolari del dominio della ragione, viene meno dinanzi all’esperienza di due guerre mondiali, di massacri, olocausti, genocidi. La parola sacrificio torna a trionfare nell’agosto del 1914? «Non si tratta ora di un meschino essere singolo: un’intera generazione di anonimi viene innalzata alla nobiltà della vittima e calata nelle fosse, che ora sono trincee»9. L’umanità sembra costretta a pagare periodicamente un’inevitabile “imposta del sangue” a se stessa. Siamo carne da macello: «[…] un’entità maneggiabile che può magari sopravvivere a lungo nella quiete dei magazzini, ma in qualsiasi momento deve aspettarsi di essere chiamata a contribuire a un riequilibrante massacro»10. Proprio prendendo atto di una realtà tanto desolata e raccapricciante, non può evitare di farsi strada la domanda sul senso di questa logica perversa del sacrificio. E si fa strada con tutti i riflessi antropologici e metafisici che sono impliciti nella consapevolezza di toccare un elemento primordiale dell’identità religiosa e sociale dell’umanità, in cui convergono ansie esistenziali e problemi di fondazione e giustificazione del potere. Vi convergono, nella trama eterogenea della filosofia politica di fine millennio, in maniera diversa e con diversa consapevolezza: ora come aspetto della teoria dello Stato, ora come aspetto della teoria della giustizia, ma anche come possibile chiave di lettura del rapporto tra libertà e democrazia, democrazia e diritti umani. Cercherò di operare una sorta di recensione di tutti questi temi, per mostrare come si venga lentamente a delineare un radicale cambiamento di prospettiva. Nella cultura della morte la sofferenza appare come memoria della natura perversa dell’uomo e come monito per la natura perversa dell’uomo. Si traduce in quella lunga sequela di nefandezze edificanti (o di sacrifici necessari) che la storia ci mette di fronte:

9 Nota R. CALASSO, La rovina di Kasch, Milano 1983, 221. Un’opera singolare: tutta costruita, tra filosofia e leggenda, tra storia e aneddotica, sul tema del sacrificio come chiave di lettura della varietà delle culture e dell’essenza stessa dell’umano. 10 Traggo la citazione da un’altro saggio di R. CALASSO, La guerra perpetua, in K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, Milano 19902, 762. Napoleone avrebbe affermato: «Io ho versato il sangue, lo dovevo; forse ne verserò ancora di più, ma senza ira, con tutta semplicità, perché mi sembrava necessario un salasso» (E. LUDWIG, Napoleone, Milano 1953, 153).


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«[…] affogati nei sacchi in compagnia di bestie inferocite, schiacciati sotto il piede di un elefante, sparati dai cannoni, trafitti dai pugnali di una vergine di ferro, squartati da quattro cavalli, bollati in faccia e cotti in caldaie, esposti in gabbie alla morte per fame, sepolti vivi fino alla testa o calati in sepolcri, avviluppati in camicie di pece infiammata, decapitati da enormi lancette di orologio, inchiodati alle croci, infilzati nei pali, impiccati a uncini, precipitati in trabocchetti, arruotati prima del capestro, messi in torchi ad averne le ossa frantumate»11.

Questa visione viene capovolta dalla cultura della vita in cui la sofferenza appare come spinta all’apertura relazionale e alla sollecitudine verso l’altro. Metz parla, a questo proposito, di una nuova visione della teologia politica, una teologia, capace di cogliere la “ragione anamnestica” del progetto di modernità iniziato dall’Illuminismo: il dolore degli altri, la sofferenza del mondo come momento di “illuminazione”, per non ricadere nei medesimi errori, per trovare un luogo universale di “autocomprensione” dell’umanità. Il “soffrire in Dio”, il “soffrire per Dio” offre, secondo Metz12, alla teologia l’occasione per pensare nuovamente al carattere escatologico del suo oggetto e nello stesso tempo per fornire alla cultura laica un fondamento trascendente in cui collocare in maniera compiuta un’etica del consenso e del dialogo capace di garantire una reale “inclusione dell’altro”, il presupposto minimo della democrazia e dei diritti umani. Il pensiero va a Rawls e a Habermas, ma non dobbiamo dimenticare che la loro riflessione ha aperto la via al recupero di alcune categorie che sono etiche e teoretiche: innocenza, carità, riparazione, responsabilità… Categorie tipiche del pensiero cristiano e che, ora, ricompaiono come aspetto di sottili fenomenologie laiche sulla struttura della coesistenza.

11 G. CERONETTI, La violenza e le vittime, cit., 191-192, ma non è meno raccapricciante la sequela di Saramago: «crocifissi, sbudellati, decollati, scuoiati, incornati, seppelliti, segati…» (Il vangelo secondo Gesù Cristo, trad. it. in Romanzi e racconti 1985-1998, Milano, 1069) o di D’aubigné nel libro IV de Les Tragiques pubblicato clandestinamente in Francia nel 1616 (trad. it. parz., Milano 1979). 12 J.B. Metz, Sul concetto della nuova teologia politica 1967-1997, trad. it., Brescia 1998, 198-199.


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2. Il diritto e la cultura della morte «La morte come minaccia è la moneta del potere»13: queste parole di Canetti evidenziano il nucleo centrale della cultura della morte o almeno del suo versante esplicito: quel versante che nasce come reazione all’insufficienza dell’uomo, alla tragica presa d’atto che il male costituisce una dimensione naturale dell’esistenza.

«L’imperativo (miserabile, incondizionato) è vivere. E poiché la vita è minacciata dalla vita, che dal suo fondo oscuro libera indomabili pulsioni distruttive, dove, se non nel cuore della morte, anzi, nello stesso atto di darla, trovare salvezza?»14.

Come sappiamo questa visione si fonda su una lunga tradizione. La teoria politica di Machiavelli si costruisce sull’idea che «[…] dove si dilibera al tutto della salute della patria non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di misericordioso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso»15. È, quindi, molto “più sicuro essere temuti che essere amati”, essendo gli uomini «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagni»16. Hobbes muove dall’assunto che siamo uguali, ma solo nella capacità di fare il male perché «quanto alla forza corporea, il più debole ne ha sufficienza per uccidere il più forte…»17 e ci spiega che dobbiamo uccidere perché l’altro, ogni altro, si radica nella nostra esperienza quotidiana come l’ostacolo alla realizzazione di quel desiderio, latente in ognuno, «perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte»18.

13

E. CANETTI, Massa e potere, trad. it., Milano 1988, 571. S. GIVONE, Eros\ethos, Torino 2000, 6. 15 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III, XLI, in Opere, I/2, Torino 1999, 1174. 16 ID., De principatibus, XVII, in Opere, I/1, cit., 286. 17 T. HOBBES, Leviatano, trad. it., Roma-Bari 1989, 99. 18 Ibid., 78. 14


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Non possiamo sostenere che solo con Machiavelli e Hobbes il male faccia il suo ingresso nella filosofia politica. C’è sempre stato. Il “volto demoniaco del potere”, per ripetere il titolo del noto libro di Ritter19, era ben chiaro a Tucidide, a Platone, a Epicuro… e trova una compiuta teorizzazione nel De civitate Dei di S. Agostino, l’opera che forse ha influenzato maggiormente quegli aspetti della teoria medievale e cristiana dello Stato in cui il terrore e la violenza appaiono indispensabili strumenti di governo. Quando Schmitt pone il “marchio di Caino” come segno del destino irreversibile che condanna l’uomo «a combattere con il terrore e l’annientamento gli altri uomini che non si sottomettono a lui»20, non fa che ripetere le parole di Agostino: Caino, il fondatore della Città terrena è un fratricida, mentre Abele, «in quanto pellegrino sulla terra, non ha costruito nulla»21. Tuttavia, nel pensiero politico moderno, la cultura della morte assume una dimensione esclusivamente umana in virtù di quella “rivolta egofanica” descritta da Voegelin: «la concentrazione sull’epifania dell’io quale esperienza fondamentale che eclissa quella di Dio nella coscienza classica e cristiana»22. L’amor sui prende il posto dell’amor dei nell’analisi delle dinamiche sociali senza che la morte venga a perdere la propria centralità teoretica. Anzi, eliminato ogni residuo trascendente, ogni pretesa di trovare in terra le tracce della giustizia divina, la morte appare l’unico dato costitutivo dell’umano, come mette in luce Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Qui, attraverso la dialettica servo-padrone, la lotta per la vita di Hobbes si trasforma da situazione materiale in dimensione spirituale, diventa una categoria dello spirito perché l’identità umana e la stessa capacità di avere una dignità dipendono dal coraggio di guardare in faccia la morte, di condurre il desiderio di riconoscimento fino all’accettazione

19 Libro al quale rinvio anche per seguire i percorsi di questo versante “demoniaco” della storia del pensiero politico: trad. it., Bologna 1958. 20 C. SCHMITT, Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea, in Donoso Cortés, trad. it., Milano 1996, 112. 21 AGOSTINO, La Città di Dio, in Il pensiero politico cristiano, II, trad. it. parz., Torino 1965, 614. 22 E. VOEGELIN, La politica: dai simboli alle esperienze, trad. it., Milano 1993, 135.


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della lotta mortale per la sua soddisfazione23. È la morte a costituire la struttura della coscienza di un popolo perché solo in guerra, dove il singolo viene sacrificato all’intero, il governo giunge a compimento (vollendet), nel senso che la libertà individuale trova la via dell’assoluto nell’assolutezza del sacrificio. Come il singolo anche il popolo che ha paura di morire, di sacrificarsi “per l’individualità dello Stato”, non è un popolo, non giungerà mai a percepire l’universalità del dovere, quel legame tra gli uomini che solo il sangue può creare, distruggendo «la realtà del sussistere particolare»24. Hegel continua e intanto capovolge Hobbes. Continua l’idea di una lotta per la vita; capovolge l’esito. Per Hobbes era importante elaborare una strategia (il contratto sociale) che, a qualsiasi prezzo, riuscisse a salvare la vita. Per Hegel proprio accettando di perdere la vita, l’uomo dà un senso alla libertà, a quell’ansia di infinito che avverte in sé e che l’esistenza, limitata e finita, sistematicamente svilisce e annienta. «La coscienza di vivere, la coscienza della propria esistenza e attività è soltanto dolore, perché in questa vita essa è consapevole di avere per essenza il suo contrario e, di conseguenza è consapevole della propria nullità»25. Se non è dolore, la vita è lamento che «versa lacrime sulla necessità»26, è la solitudine di una rivolta senza speranze, senza possibilità di comprensione a cui resta solo la consolazione di un grido inarticolato di disperazione. La morte per l’universale non cancella il dolore o la disperazione del lamento, ma libera dalla storia come limite. La storia diventa mezzo: mezzo di ingresso nell’universale, mezzo di attuazione della libertà come opzione per l’infinito cammino dello spirito del mondo. Dopo Hegel, si dissolve la fiducia in questo apparato illusorio di una totalità salvifica, ma resta il conflitto come cifra esistenziale fondamentale. Resta il conflitto senza l’universale; resta la tensione degli opposti senza il 23

G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. it., Milano 1995, 275ss. Rinvio anche all’emblematica analisi di A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Torino 1991. 24 Sono le note pagine dei Lineamenti di filosofia del diritto § 324-326 (trad. it., Roma-Bari 1987, 256ss). Per un inquadramento più ampio del formarsi di questa visione nel periodo di Jena, tanto denso per Hegel di avvenimenti storici: F. ROSENZWEIG, Hegel e lo Stato, trad. it., Bologna 1976, 206ss. 25 G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., 309. 26 Ibid., 867.


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dovere verso il tutto; restano le individualità infrante senza uno spirito del mondo che le riconduca all’assoluto. Nascono così i tanti dualismi radicali su cui si avvita la nostra cultura? Il dualismo di Nietzsche della morale degli schiavi e della morale aristocratica? Il dualismo di Marx del conflitto di classe? Il dualismo di Schmitt tra amico e nemico? Sono tutte proiezioni hegeliane chiuse nella dialettica degli opposti? Vengono, comunque, eretti rigidi confini, ai margini dei quali la “serenità omicida degli intellettuali” giustifica, in nome della lotta per la vita, il sacrificio di una parte dell’umanità a vantaggio dell’altra27. La “disponibilità a dare e ricevere la morte”, per ripetere le parole di Schmitt, appare l’elemento fondamentale di ogni aggregazione politica. Anche senza giungere a questi estremi, un’implicita cultura di morte pervade tutti quegli aspetti della nostra organizzazione sociale che si adagiano, spesso inconsapevolmente, sul modello utilitarista: l’utilitarismo come modello di comportamento piuttosto che come teoria filosofica; quell’insieme di valenze pragmatiche che ne fanno, non a caso, l’ideologia tipica della cultura industriale. Queste valenze implicano strutturalmente il sacrificio di una parte degli associati in nome del bene comune o di un maggior vantaggio per gli altri. Guido Calabresi ha raffigurato, suggestivamente, questa situazione attraverso la parabola del «dono dello spirito maligno»28. Ci invita a supporre che ci appaia, all’improvviso, un’entità suprema, che ci propone un dono che renderà la vita migliore all’intera umanità. In cambio chiede le vite di mille giovani e donne, scelti a caso, e che ogni anno moriranno tra atroci sofferenze. Accetteremmo? Questo dilemma etico era già stato proposto da Bergson: «che faremmo — ci domanda — se apprendessimo che per la salvezza del popolo, per

27 È l’idea che sta dietro un singolare libro di MERLEAU-PONTY, Umanesimo e terrore, trad. it., Milano 1978. Singolare per la violenta accusa alla cultura di morte che spira dal liberalismo, in quanto “difende la libertà anziché gli uomini liberi”, e dal marxismo, in quanto pretende che esistano “utili innocenti”, persone che, anche se innocenti, devono essere punite per il bene della causa. La perversione della politica e della morale nasce, a suo avviso, proprio dall’idea che sia impossibile dichiarare colpevole il colpevole e innocente l’innocente. 28 G. CALABRESI, Il dono dello spirito maligno, trad. it., Milano 1996, 11.


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l’esistenza stessa dell’umanità, c’è in qualche posto un uomo, un innocente, che è condannato a subire torture eterne?»29. Quello che non ci dice Bergson e che ci suggerisce, invece, Calabresi è che questa scelta l’abbiamo già fatta. Le migliaia di morti per incidenti stradali, per l’inquinamento ambientale, per le condizioni di lavoro, sono il prezzo che quotidianamente si paga per garantire un miglior tenore di vita al resto dell’umanità. Siamo tutti partecipi di un metodo di scelta che, pragmaticamente, tollera un numero più o meno ampio, più o meno indefinito, di sofferenze finché è possibile ritenere che rechino vantaggio a una parte consistente della popolazione. L’utilitarismo ha tanti volti e tante raffinate configurazioni teoriche: tutte attente, con vari espedienti, a ridurre al minimo le forme di emarginazione, eliminando totalmente quelle ingiustificate. Tuttavia è nella sua logica (ma un utilitarista direbbe che è nella logica dei comportamenti umani) che gli interessi si bilancino e che, attraverso calcoli più o meno complessi, il sacrificio diventi non solo possibile, ma addiritura necessario. Non intendo asserire che l’utilitarismo sia una cultura di morte, ma è una cultura che si costruisce, realisticamente, nella prospettiva della morte, elevando, allo stesso modo di Machiavelli, Hobbes, Hegel, Schmitt, la vittima a costante di ogni calcolo. Nozick lo dice molto efficacemente, nelle prime pagine di Anarchia, Stato e Utopia, sostenendo che l’accusa che viene mossa all’utilitarismo è di elaborare una teoria troppo ristretta del bene in cui non viene preso in sufficiente considerazione “il principio di non violazione”. Questo principio assume un valore soltanto derivativo, subordinato alla “stato finale” da conseguire, per cui sarebbe giustificato anche il sacrificio dell’innocente per evitare violenze maggiori o «per salvare un territorio dalla furia della vendetta»30. John Harris è ancora più drastico e propone di sostituire, in bioetica, al “principio di non violazione” il “principio di rimpiazzabilità”:

«nel sostenere che è moralmente sbagliato introdurre nel mondo sofferenze evitabili e nell’indicare che la sofferenza è evitabile quando un individuo che 29 30

H. BERGSON, Le due fonti della morale e della religione, trad. it., Torino 1979, 297. R. NOZICK, Anarchia, Stato e Utopia, trad. it., Firenze 1981, 31.


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è, o sarà, handicappato può essere sostituito da un individuo sano, ho assunto che la rimpiazzabilità degli individui non presenta problemi»31.

La violazione dei diritti dell’innocente nell’interesse della collettività e la rimpiazzabilità dei minorati per ridurre il dolore riproducono la struttura tipica del meccanismo sacrificale in cui qualcuno è costretto a prendere il posto di un altro. Non vi è un disprezzo per la vita in quanto tale. Anzi la vita come entità generale è considerata un valore così elevato da giustificare il sacrifico della singola forma particolare di vita. Sono queste singole vite inferiori, marginali, secondarie, soccombenti nel bilanciamento dei valori, a dover essere messe da parte, ad essere lo scarto necessario dello sviluppo del tutto. C’è ancora un’altra forma di struttura vittimaria su cui è costruita la nostra società. Viene messa in luce, assieme ad una serrata critica dell’utilitarismo, in un singolare libro di Jean-Pierre Dupuy: Il sacrificio e l’invidia. Liberalismo e giustizia sociale. Dupuy studia l’invidia e il sacrifico come forme di rifiuto, di reiezione, cercando di illustrare il ruolo preponderante che svolgono nella moderna società liberale, anche se sono rimossi dalla maggior parte delle elaborazioni teoriche. In particolare, a suo avviso, l’economia è proprio la gestione razionale del sacrificio, produce delle “vittime pulite”: tutti coloro che restano schiacciati da meccanismi astratti e anonimi, i perdenti in un gioco di cui essi stessi hanno accettato le regole32. Non ci sono dei colpevoli in senso stretto, profittatori senza scrupoli oppure occulti manovratori, è il funzionamento complessivo del sistema a sviluppare marginalità necessarie, “vuoti a perdere” di cui non si occupa nessuno. Qualche anno fa è stata coniata in Germania, a questo proposito, l’espressione “società dei due terzi”. I due terzi della popolazione godono del processo di sviluppo economico e delle garanzie democratiche, ma questo è possibile proprio perché c’è il terzo residuo che è strutturalmente tagliato fuori da tutti questi vantaggi: è condannato a restare una “sotto-

31 J. HARRIS, Wonderwoman e Superman. Manipolazione e genetica e futuro dell’uomo, trad. it., Milano 1997, 127. 32 Cito nella traduzione italiana Genova 1997, 296-297.


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classe” senza margini di miglioramento o prospettive di inserimento. «c’è chi è dentro e chi è fuori, e di chi è fuori non c’è bisogno»33. Penso all’aneddoto raccontato da Simone Weil. Dinanzi al senso di fastidio mostrato da Talleyrand per la richiesta di elemosina, un mendicante si giustificava: «Monsignore debbo pur sopravvivere». Talleyrand rispondeva: «Non ne vedo la necessità»34. Questo è per Simone Weil un classico esempio di “sradicamento”: l’incapacità di avvertire le radici di amore e di sofferenza che ci legano alle altre creature umane. Sarebbe, a suo avviso, l’esito tipico della politica in quanto procedura, in quanto mera tecnica, aperta a qualsiasi esito. Lo “sradicamento” implica una struttura di sacrifici, più o meno ampi, più o meno indeterminati, proprio perché sono ritenuti scontati. «Il peccato di Niobe consisteva nell’ignorare che la quantità non ha nessun rapporto col bene; e venne punita con la morte dei figli. Noi commettiamo lo stesso peccato ogni giorno…»35.

3. Il diritto e la cultura della vita Ho cercato di mettere in luce quanto possano essere varie le forme in cui si manifesta un meccanismo sacrificale che esprime una vera e propria cultura di violenza sia come disponibilità diretta a dare e ricevere la morte (il versante del “male” politico) sia come disponibilità indiretta ad alimentare strutture irreversibili di esclusione (il versante economico ed utilitarista). Possiamo, quindi, comprendere come sia significativo l’assunto da cui muove A Theory of Justice (1971) di J. Rawls, il testo più importante nella riflessione giuridica e politica di questi ultimi trent’anni. «Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere»36. Non è soltanto importante la valenza anti-utilitarista di questo libro, ma soprattutto il fatto che sia riuscito a liberare la filosofia del diritto dall’ossessione, tutta

33

Rinvio alla riflessione di R. DAHRENDORF, Legge e ordine, trad. it., Milano, 115. S. WEIL, La prima radice, trad. it., Milano 1973, 131. 35 Ibid., 63. 36 J. RAWLS, Una teoria della giustizia, trad. it., Milano 1984, 21. 34


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hegeliana, del «male politico»37, riportando al centro dell’attenzione il bene e la giustizia. Il bene è inteso nei termini neutri ed astratti che sono tipici della visione liberale: è la capacità di elaborare un autonomo e coerente progetto di vita. L’accordo che rende pensabile la comunità politica ha, tuttavia, una fortissima coloritura morale. Le diversità non devono necessariamente sfociare nella violenza, ma si articolano in un “pluralismo ragionevole”, in un quadro equo di regole che preserva la libertà e l’uguaglianza come valori fondamentali, garantendo la coesistenza e la cooperazione di ogni cultura e di ogni visione del mondo. Questa ricerca ideologica di una compatibilità esistenziale tra i diversi progetti di vita si traduce, sul piano sociale, nel tentativo di offrire una rigorosa fondazione teorica del “principio di non violazione” che trova espressione, soprattutto nel secondo principio di giustizia, il principio del maximin: le eventuali disuguaglianze economiche e sociali devono essere volte a vantaggio dei meno favoriti. La società va pensata e costruita come una struttura riparativa (redress) che presta maggiore attenzione a coloro che sono nati con doti minori o in posizioni sociali difficili. Rawls ci dice che nessuna vittima può essere accettata, né di principio né di fatto, e che è ingiusta qualsiasi società pretenda anche solo di evitare di interrogarsi su tale dato minimo e fondamentale. Sull’idea dell’inammissibilità di qualsiasi sacrificio, neppure del sacrificio del “futuro a vantaggio del presente”, si sviluppa anche la complessa riflessione di Hans Jonas (Das Prinzip Verantwortung, 1979)38. Vi viene elaborata un’etica della responsabilità che ha i suoi elementi centrali nelle idee di “cura” e “sacro”. La “cura” è la sollecitudine verso tutto ciò che è vulnerabile, verso tutto ciò che si trova in pericolo. La “cura” ci rivolge continuamente la domanda: cosa succederà se tu non ti occupi di lui? Per occuparmi di qualcuno devo, innanzitutto, rispettarne l’identità, devo riuscire a scorgervi “qualcosa di sacro, cioè di inviolabile in qualsiasi circostanza”. Le maggiori affinità esistono, tuttavia, tra l’analisi di Rawls e la teoria dell’agire comunicativo di Habermas. Tra i due si è sviluppato, qualche 37 38

1990.

Come osserva P. RICOEUR, Il Giusto, trad. it. Torino 1998, 4ss. H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino


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anno fa, un serrato dialogo, raccolto dal “Journal of Philosophy” (1995-3)39, ma soprattutto sono legati dall’idea che le procedure giuridiche siano strutturalmente inclusive, tendano a istitituzionalizzare rapporti di comprensione tra gli uomini in cui è inconcepibile la violenza. Nella storia umana si manifesta, secondo Habermas40, uno sfondo universale di intesa, costituito dalle forme a priori della comunicazione (linguaggio, cultura, affetti, personalità…), quell’insieme di valori con cui ogni popolo costituisce la propria identità, il proprio “mondo vitale” e, intanto, entra in contatto con gli altri. La risorsa-dialogo (tipica dell’agire comunicativo) risponde alla domanda “come l’uomo incontra l’uomo?” e si contrappone alla risorsaforza (tipica dell’agire strumentale), che risponde alla domanda “come l’uomo muove l’uomo?”, mostrando che è possibile il consolidarsi della comunità attorno ad un consenso puramente argomentativo. D’altra parte, ogni discorso è tale solo se si riconosce la pari dignità di tutti gli interlocutori, il rispetto di regole comuni, il principio di verità (non voglio ingannare l’altro), il principio di carità (intendo capire le ragioni degli altri). La morale implicita nel dialogo costituisce la struttura della democrazia nello Stato costituzionale di diritto e si prolunga in una potenziale condizione di “inclusione dell’altro” in cui ciascuno è vincolato al reciproco rispetto. Su queste basi, Habermas sviluppa una serrata critica alle “scurrili riflessioni” sulla “disponibilità a uccidere” della teoria politica di Schmitt41. Il diritto non conosce forme di alterità assoluta, di negazione incondizionata, ma semmai si sviluppa come “solidarietà tra estranei”: un sistema “comunicativo” aperto e intanto un “momento di ideale autocomprensione” dell’intera umanità attorno al nucleo universale rappresentato dai diritti fondamentali. Discutendo le tesi di Habermas, Apel allarga questo orizzonte. Una solidarietà che si limiti a far proprio il principio di non sacrificabilità è, a suo avviso, insufficiente dinanzi ai rischi planetari a cui sembra oggi andare incontro l’umanità. Occorre elaborare una “macroetica” che abbia come

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Tradotta in italiano su Micromega. Almanacco di filosofia ’96, 21-106 . J. HABERMAS, Fatti e norme. Contributo a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad.it., Milano 1996, 155. L’impalcatura sociologica di questa visione è elaborata nei due volumi de La teoria dell’agire comunicativo, trad. it., Bologna 1986, 19811982. 41 J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, trad. it,. Milano 1998, 210. 40


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presupposto l’idea di «una primigenia co-responsabilità di tutti gli uomini, per le conseguenze delle azioni o attività collettive»42. Un’etica dell’accordo (Rawls) o un’etica del discorso (Habermas) hanno scarso senso se non conducono a un’etica della responsabilità nei termini indicati da Jonas. La coloritura solidaristica del rispetto delle ragioni dell’altro deve, quindi, assumere connotati ben precisi e divenire principio di trasformazione e principio di conservazione. Il primo garantisce l’effettiva eliminazione di tutti gli ostacoli che si oppongono alla conduzione e conclusione dei discorsi pratici: discriminazioni economiche, emarginazioni razziali, culturali e sociali, insomma tutte quelle strutture che determinano “vittime pulite”. Il secondo vieta di mettere in pericolo sia le reali condizioni di vita della società umana nel suo complesso sia quelle che possono essere considerate come conquiste insostituibili: i diritti umani, la qualità della vita, la pace devono divenire valori irrinunciabili che si pongono come ostacolo assoluto a qualsiasi ritorno di una cultura della morte. Ho cercato di indicare alcuni emblematici momenti di riflessione in cui non solo cresce l’attenzione per la sofferenza, ma avvertiamo un radicale cambiamento di prospettiva: la logica dei carnefici, la necessità di dare la morte, si capovolge nella continua e costante attenzione per le vittime. Sono percorsi assolutamente laici che tentano di legare l’etica della libertà di Locke al dovere di “universalizzabilità” di Kant. Tuttavia, non possiamo evitare di domandarci se una tale sensibilità si sarebbe mai formata senza il Cristianesimo. Il Cristianesimo è, infatti, l’unica religione che pone la sofferenza, la Passione al centro della rivelazione divina, la Passione come mistero teologico ma anche come evento storico. Qualcuno soffre, qualcuno ha sofferto, Cristo ha sofferto: nella capacità di far nostra questa constatazione si apre la prospettiva della redenzione. La violenza del sacrificio si piega ad una logica diversa, diventa atto di amore, un atto spontaneo, assoluto di donazione a Dio. Heauton prosenenken, «offrì se stesso», dice l’Epistola agli Ebrei (9,14), riproponendo quell’oblatus est quia ipse voluit, «è stato sacrificato perché lo ha voluto» in cui si manifesta per la prima volta la profezia del virum dolorum (Isaia 53,3).

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K-O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, trad.it., Milano 1997, 339.


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Salvatore Amato «[…] il Cristo, fin dall’incarnazione, non solo accetta, ma assume la croce… perché l’assunzione della croce è l’atto di più sublime libertà concepibile o più semplicemente il perfetto atto di amore, quello in cui e soltanto in cui la giustizia può attuarsi nel mondo e gli uomini possono — paradossalmente — ritrovare tra di loro una comunione altrimenti inattingibile»43.

Da quando il sacrifico di Cristo si è posto radicalmente al centro della coscienza dell’umanità nulla è cambiato e tutto è cambiato. Non è cambiata la logica del potere né la presenza della violenza, ma sono cambiati il nostro modo di osservare il potere e la nostra capacità di sopportare l’ingiustizia e la violenza. Il Cristianesimo offre un fondamento spirituale a quello che la teoria discorsiva lascia al livello puramente intellettuale. E lo fa, senza disegnare modelli ideali o astratte strutture di funzionamento, ma guardando dentro quella terribile minaccia di morte, quell’orrendo strumento di coazione che è la croce. Non si limita a prendere atto della presenza della violenza all’interno della coesistenza, della minaccia accanto al dialogo, ma ci dice come possiamo rendere atto di amore un simbolo di morte. Su questo sottile e radicale cambiamento di mentalità hanno richiamato la mostra attenzione, in questi ultimi anni, i raffinati lavori di René Girard e Maria Zambrano. Si tratta di riflessioni profondamente diverse: l’una incentrata sull’analisi letteraria e antropologica dei miti e delle tradizioni religiose, l’altra assolutamente teoretica; l’una interamente dedicata alla ricerca dei meccanismi sacrificali, l’altra solo marginalmente attenta a questo problema. Seppure i temi di ricerca siano divergenti, formulano la medesima domanda: da cosa nasce l’attenzione moderna per le vittime? E trovano, in risposta, il medesimo nucleo problematico: il cristianesimo, la democrazia, i diritti umani. 43 F. D’AGOSTINO, Sulla fenomenologia della giustizia. Un parallello tra Kierkegaard e Platone, in Dimesioni dell’equità, Torino 1977, 171. Solo nel mito di Prometeo troviamo un atto analogo a quello di Cristo: un dio che si sacrifica per un gesto di amore verso l’uomo. Un gesto volontario: «volontaria, volontaria fu la mia colpa» gli fa dire Eschilo (v 266). Sarebbe questo uno dei tanti momenti in cui la cultura greca sembra anticipare il Cristianesimo secondo S. WEIL, La grecia e le intuizioni precristiane, trad. it., Roma 1984, 154.


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Ripercorrendo “quelle cose che abbiamo nascosto sin dalla fondazione del mondo”, la realtà di violenza (omicidio, infanticidio, incesto) presente in tutti i miti ancestrali, Girard lega l’origine del “sacro” al coagularsi dell’identità umana nella fondazione della comunità politica. La religione appare e riappare nell’universo primitivo nel momento in cui il disordine collettivo conduce a un’unanime polarizzazione della violenza nei confronti di una vittima qualunque percepita come l’origine del disordine. Il concentrarsi della violenza su un “capro espiatorio” scarica l’aggressività presente nella comunità fondando l’ordine della convivenza44. Nel passaggio dal mitico al biblico Girard scorge, però, dietro un’apparente strutturale identità, un significativo capovolgimento nella ridistribuzione della colpa e dell’innocenza. Mentre i miti cedono acriticamente e passivamente alle credenze delle folle violente, il Vecchio e il Nuovo Testamento si mettono chiaramente chiaramente dalla parte delle vittime. La Passione e la morte di Gesù, in particolare, riproducono e, intanto, modificano questa logica: è una vittima perfettamente innocente; la sua morte rivela non solo la violenza e l’ingiustizia di ogni culto fondato sul sacrificio, ma la possibilità di una comunità, che si fondi sulla rinuncia alla rappresaglia e alla vendetta in qualsiasi forma: «[…] possiamo finalmente mostrare l’inanità di tutti gli dei violenti, spiegare e annullare ogni mitologia»45. Sotto questo punto di vista, dietro il messaggio dei Vangeli, si manifesta,

«una forma di conoscenza non più discutibile, una rivelazione morale e conoscitiva che smonta il meccanismo del desiderio violento e della mitologia che lo copre dall’interno. Non sono quindi stati il razionalismo moderno e l’illuminismo a demistificare le false credenze delle superstizioni e dell’intolleranza, ma il messaggio cristiano che lentamente ma irresisti-

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Penso soprattutto ai saggi: La preoccupazione moderna per le vittime, in Filosofia e teologia, 1999, 223ss; Nietzsche, la decostruzione e la moderna passione per le vittime, trad. it., in Ars Interpretandi, 1999, 35ss. Questi saggi, insieme ad altri studi sulla specificità del messaggio cristiano nel meccanismo sacrificale, sono raccolti nel volume: Vedo Satana cadere come la folgore, trad. it., Milano 2000. 45 R. GIRARD, Il capro espiatorio, trad. it., Milano 1987, 319.


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Salvatore Amato bilmente si è fatto strada, sul fondamento di quanto è stato detto, scritto e testimoniato lungo la sua storia»46.

Nietzsche coglie perfettamente l’assoluta novità e radicalità del messaggio cristiano quando, nei Frammenti postumi, contrappone Dioniso a Cristo, la morale pagana della volontà di potenza e la morale cristiana della compassione. «L’individuo fu tenuto dal Cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si potè più sacrificare»47. Poco importa, poi, che i vagheggiamenti neo-pagani, l’odio per la tradizione giudaica e cristiana “nata nei bassifondi della Galilea”, abbiano indotto Nietzsche a vedere in tutto questo qualcosa di perverso e corrotto, l’origine della decadenza dell’occidente. Proprio gli sviluppi del diritto moderno ci svelano invece il profondo ruolo rivoluzionario della “cura moderna per le vittime”. È un po’ come leggere la storia a ritroso e veder progressivamente delinearsi un disegno che inizialmente appariva appena percettibile. Ora lo abbiamo davanti, ma non è compiuto: nuove “vittimizzazioni”, nuove latenti forme di totalitarismo possono sempre emergere. Ecco perché diventa tanto importate, per Girard, avere un fondamento saldo e indiscutibile su cui costruire gli sviluppi del diritto e della società. «Vi è almeno un fenomeno storico che non può essere decostruito: la nostra preoccupazione verso le vittime»48. Lo stesso tema riecheggia tra le pagine, di profonda intensità emotiva e intellettuale, di Maria Zambrano. Questa studiosa spagnola, allieva di Ortega y Gasset, solo da pochi anni conosciuta e studiata in Italia, ha vissuto, come Schmitt, l’esperienza drammatica delle due guerre mondiali 46 Osserva G. FORNARI nella Introduzione a R. GIRARD, La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, trad. it., Treviso 1998, 26. 47 F. NIETZSCHE, Opere, VIII/3, 15 (110), trad. it., Milano 1986, 257-258. La citazione è di R. GIRARD, La preoccupazione moderna per le vittime, cit., 229. 48 R. GIRARD, Nietzsche, la decostruzione e la moderna passione per le vittime, cit., 45. È chiaro che possono essere mosse varie obiezioni a questa ricostruzione: ad alcune risponde direttamente ID., Non solo interpretazioni ci sono anche i fatti, in Pluriverso 4 (2000) 14ss. Nello stesso volume G. Fornari esamina l’interpretazione che La rovina di Kasch di Calasso offre del pensiero di Girard (Sacrifico, natura e differenza evangelica. Calasso e la visione sacrificale della natura da Anassimandro a Nietzsche, 28ss).


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e della crisi politica dell’Europa. Traduce la scansione schmittiana amiconemico in quella idolo-vittima. Tutte le forme di assolutismo politico, tutte le pretese di assolutizzazione della politica erigono feticci da amare, da obbedire e a cui si può conferire consistenza materiale solo attraverso il numero delle vittime che vengono immolate in loro nome. La forza del potere si conta attraverso il numero di morti che lascia sui percorsi della storia. C’è una sorta di assurdo rovesciamento teorico in tutto questo: quello che vale veramente, la vita, l’esistenza di ciascun individuo, viene negato in nome di qualcosa che non è reale, che è solo il sacrificio a far apparire, illusoriamente, reale. Prima ancora della Zambrano, Camus aveva già descritto questa perversione feticistica del potere nei deliri del Caligola, in cui l’assoluto della creazione si traduce nell’assoluto della negazione. Il potere non può creare, ma può distruggere: «Io vivo, io uccido, io esercito il potere delirante del distruttore, al confronto del quale il potere del creatore non è che una pallida imitazione»49. È possibile svelare la perversità di un simile meccanismo, allontanando definitivamente il rischio dell’assolutismo?

«Nel mistero centrale del cristianesimo, la storia di Cristo, Dio e vittima, è una sola: è Dio che si fa vittima. L’accettazione di questo mistero avrebbe dovuto liberarci dall’adorazione dell’idolo e della sua ombra, e dalla necessità che debba sempre esserci un condannato»50.

Tutte le tragedie della storia, che l’assolutismo determina e alimenta, nascono da una profonda paura della realtà umana: «niente che sia stato in noi, niente che sia un nostro prodotto è assoluto né potrà mai esserlo. Lo è solo quel lato sconosciuto e senza nome fatto di solitudine e libertà» (p. 146). Questa è l’essenza della democrazia non solo come forma di governo, ma anche come modo di vivere la storia. Nel senso che veniamo dal passato, 49

Cito nella edizione del 1941, la prima stesura di quest’opera che Camus considerava il nucleo centrale della propria ispirazione (trad. it., Milano 19864, 61). 50 M. ZAMBRANO, Persona e democrazia. La storia sacrificale, trad. it., Milano 1996, 46. Anche se è stato tradotto solo pochi anni fa, il libro è stato scritto nel 1958.


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siamo linguaggio, abitudini, tradizioni, ma siamo sempre più di questo passato, «quel non so che per cui l’uomo è qualcosa di originale e di unico» (p. 151), è persona. Quando si risveglia in noi la persona e si eleva contro ogni forma di idolatria? Quando diventiamo consapevoli della nostra originalità, quando ci mettiamo alla ricerca di un’origine, di un venire da… da Dio, aggiunge il Cristianesimo: «un Dio che si fa persona, il cui mistero originario, è quello dell’incarnazione del logos» (p.153). Ho cercato di delineare due vie: una via esclusivamente laica alla democrazia e ai diritti umani e un’altra via che nasce anch’essa da premesse laiche, perché Girard e Zambrano non muovono dal Cristianesimo, ma lo trovano lunga la via della propria ricerca. Entrambe le prospettive ci mostrano che la cultura della vita è il profondo e incondizionato rispetto dell’alterità: dell’altro di cui mi sforzo di capire le ragioni (etica del discorso), dell’altro come portatore di un progetto di vita (etica dell’accordo), dell’altro come vita che dipende anche da me (etica della responsabilità) E se ci fosse Dio? Non sempre troviamo tracce di questa domanda, ma la risposta non potrebbe che essere: se ci fosse Dio, sarebbe «il garante delle nostre differenze, il protettore ultimo dell’alterità del più piccolo degli altri uomini»51.

4. Vittime necessarie: mafia e democrazia Ritengo che la mafia offra un esempio significativo della struttura sacrificale insita in ogni cultura della morte. Non ho nessuna pretesa di riuscire a dire qualcosa di particolare sulla mafia. Ne parlo solo perché mi sembra che ci possa aiutare a comprendere meglio quanto ho cercato, finora, di illustrare. In chiave fenomenologica, credo che l’elemento su cui richiamare l’attenzione sia il fatto che nella mafia, la “disponibilità a dare e ricevere la morte” costituisce una «risorsa di identità»52: non è soltanto il

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J.F. COLLANGE, Teologia dei diritti umani, trad. it., Brescia 1991, 96. E. FANTÒ, Violenza e potere nella mafia, in Teoria politica 1 (1999) 180.


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mezzo di affermazione e conservazione del potere, ma soprattutto una qualità esistenziale che consente l’ingresso e garantisce la permanenza nel gruppo. Diventare ed apparire mafiosi significa porsi in un orizzonte che assolutizza il “principio di violazione”: il sacrificio proprio e altrui è la risorsa primaria del gruppo. Una situazione più interiore che esteriore, in quanto, come tutti sappiamo, la violenza implicita è permanente, ma la violenza esplicita è tendenzialmente episodica. La forza delle aggregazioni mafiose si misura sulla capacità intimidatrice e non sul numero dei morti. Anzi, la storia di questi ultimi anni indica che il crescere degli omicidi e delle stragi è un segno di debolezza, dell’insufficienza dei meccanismi di potere. Vi troviamo gli stessi estremi del dualismo idolo-vittima, descritto da Maria Zambrano. La costruzione di un idolo esige vittime: più l’idolo è astratto più è alto il numero delle vittime. Pensiamo a quanta importanza assume l’astrazione nella mafia: se non è ignoto chi ha il potere, non si sa mai veramente in nome di che cosa viene esercitato. Anche se il rispetto si ha per l’uomo, “il padrino”, la mafia non è mai un uomo, è un coagulo indistinto di interessi (la cosca). In termini sociologici, potremmo dire che una simile struttura è l’effetto della vocazione generalista della mafia che tende ad inglobare in sé ogni attività, lecita e illecita, politica e commerciale, sviluppando una trama pervasiva di controlli, relazioni, mediazioni, condizionamenti… La mafia può, quindi, essere identificata con tutto e con nulla, proprio come gli idoli con le immagini: immagini non di qualcosa, ma dell’immaginario nel suo complesso. L’apparente assenza di identità aumenta la carica di violenza e la spinta intimidatrice. A differenza dello Stato, che fa vittime per mantenere il monopolio della forza, la mafia fa vittime, ma soprattutto ha bisogno di vittime per costruire la risorsa identitaria del gruppo. Come l’idolo crea idolatri attraverso il sacrifico, così la mafia crea i mafiosi attraverso le vittime. Penso ancora al Caligola di Camus:

«Si muore perché si è colpevoli. Si è colpevoli perché si è sudditi di Caligola. Ma tutti sono sudditi di Caligola. Quindi sono tutti colpevoli. Dal che si desume che tutti devono morire. È solo questione di tempo e di pazienza» (p. 27).


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In questa prospettiva, si spiega, innanzitutto, la struttura parassitaria della mafia. Non mi riferisco al parassitismo economico, al tessuto di illegalità e di prevaricazioni, ma al parassitismo interiore: se non ci fosse una vittima, una qualsiasi ipotetica vittima, non potrebbe costituirsi l’identità mafiosa. Paradossalmente, la mafia si estinguerebbe se fossimo tutti mafiosi, se assumesse il controllo integrale dello Stato, non avrebbe ragion d’essere: ha bisogno dello Stato come l’amico, in Schmitt, ha bisogno del nemico per costruire la propria identità. In secondo luogo, si spiegano anche i tentativi di rivestire di una ipotetica sacralità i riti di filiazione e quell’apparente religiosità che si osserva in tanti mafiosi: pieni di santini, attenti ai sacramenti, rispettosi dei valori familiari. È un’idolatria di ritorno: l’idolatria di chi costruisce gli idoli. Negli stessi omicidi vi è sempre qualcosa di simbolico che tende ad andare oltre il singolo evento:

«la mafia non assassina: giustizia. La realtà della violenza viene mascherata e sublimata dalla forma rituale[…] Questo vale per il sasso infilato nella bocca dell’ucciso, per la pala di ficodindia al posto del portafogli, per gli organi genitali in bocca, ma anche per l’esplosivo»53.

Forse è errato parlare di cultura della morte: sarebbe già paradossalmente un fatto positivo. È una vera e propria incapacità di scorgere la vita, di scorgere, dietro l’accumularsi delle vittime, le infinite vite infrante. La logica escludente giunge fino alle estreme conseguenze, perché non solo rifiuta “l’altro”, ma non riesce neppure ad avvertirne la presenza. “L’altro” non ha mai un’identità, non ha un volto: è la vittima. Per questo non c’è possibilità di scelta: o si è mafiosi o si è vittime. Il meccanismo sacrificale di Girard non funziona. La violenza non va scaricata per liberarne la collettività, ma va mantenuta sempre “in fusione”, deve avere sempre un destinatario potenziale in quella struttura di latenze e intimidazioni a cui ho già fatto riferimento.

53

G. SAVAGNONE, La Chiesa di fronte alla mafia, Milano 1995, 43.


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Se la vittima è necessaria, è la libertà ad apparire impossibile. Il mafioso non può fare a meno della violenza perché non sa essere libero. Hans Kelsen definisce la democrazia una società senza padre: «una società di equiordinati, possibilmente senza capi»54. Senza padri vuol dire che siano soli nella responsabilità della scelta. La libertà presuppone la solitudine: ciascuno è il solo artefice del proprio destino. La solitudine, a sua volta, determina l’umiltà dell’attenzione e dell’ascolto delle ragioni dell’altro. È il grande tema del libro V dell’Etica di Spinoza: l’opera che ha indicato alla cultura occidentale il modo attraverso cui superare l’incubo lasciato dal Leviathan di Hobbes, l’incubo di violenza e terrore con cui l’uomo cercava di prendere, in terra, il posto di Dio. È la straordinaria anticipazione del vincolo etico che sta dietro quella che noi oggi chiamiamo la teoria discorsiva del diritto e della politica: pensare tutti, pensare assieme. La capacità di pensare e l’etica del pensiero legano assieme gli uomini senza violenza. A differenza dei beni materiali dell’antropologia di Hobbes che, essendo esclusivi, generano il conflitto, i valori spirituali, le idee, sono inclusivi: è possibile pensare tutti, pensare assieme; anzi, è l’unico modo per aumentare la libertà e la potenza dell’individuo e della collettività55. Comprendiamo noi stessi e intanto comprendiamo gli altri e intanto comprendiamo Dio che è “amore intellettuale infinito”. Potrebbe sembrare un modello estremamente rarefatto e idealistico. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che uno degli aspetti fondamentali dell’idea di democrazia è la fiducia nel legame intellettuale che si instaura tra libertà e solitudine. Discutiamo perché siamo liberi; siamo liberi perché siamo soli. È una circolarità che non può essere interrotta: la relazionalità nasce dal bisogno dell’altro (solitudine); il bisogno dell’altro nasce dalla libertà. Non a caso, la paura della solitudine è la premessa di tutte le opere politiche di Spinoza, mentre la paura della morte è la premessa di tutte le opere di Hobbes. Dietro la mafia si staglia, invece, la figura del padrino. Un simbolo di potere, ma anche di debolezza. In tutte le visioni oleografiche, il padrino non solo protegge (questo viene da sé), ma soprattutto rassicura: sei

54

H. KELSEN, Il primato del parlamento, trad. it., Milano 1982, 51. È la lettura del pensiero di Spinoza che suggerisce E. BALIBAR, Spinoza e la politica, trad. it., Roma 1996. 55


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all’altezza, sei degno dell’idolo. Il mafioso, quindi, non è mai solo: ha bisogno di avvertire su di sé questa costante ombra paterna. Non è solo e, quindi, non è libero. Ignora radicalmente cosa sia una relazionalità aperta alla conoscenza dell’altro. Lo attesta anche la strutturale ambiguità del linguaggio mafioso. Il suo dire e non dire: tanto chi ascolta sa già se sta dentro o fuori, tra le vittime o i carnefici. Se questa ricostruzione è corretta, ci accorgiamo che la mafia nasce da un vuoto di fede. Fede nel senso elaborato dalla Zambrano: la domanda sulla propria identità, sulla propria originalità, sulla propria solitudine. La libertà è solitudine, è un faccia a faccia con se stessi in cui, come direbbe Hegel, si scopre che «ognuno è un sillogismo del quale un estremo è fuori di lui»56. L’approdo può essere l’etica del dialogo e dell’accordo, come in Habermas e Rawls, oppure il Cristianesimo, come in Girard e Zambrano, in ogni caso è proprio nell’andare alla ricerca di questo estremo che si definisce la differenza minima ed essenziale tra la cultura della vita e la cultura della morte. Ogni religione reca, nel suo nucleo originario, questo insegnamento. Tao, Torah, Shari’a significano, più o meno, la stessa cosa: via, direzione, cammino…

56 G.W.F. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese, trad. it., in Il dominio della politica, ant. a cura di N. Merker, Roma 1980, 230.


L’EVOLUZIONE NEL CONTENUTO DEI RAPPORTI GIURIDICI FAMILIARI DEL ’900.

TOMMASO AULETTA*

Premessa Può apparire quantomeno singolare, se non del tutto fuori tema un contributo, come quello che mi accingo a proporre, sul funzionamento della famiglia nel corso del XX secolo, in un convegno in cui si riflette sulla cultura della vita e della morte. È legittimo chiedersi in che modo possa essere coinvolta in questa riflessione la famiglia se non per aspetti particolari quali possono essere quelli dei maltrattamenti, della violenza sessuale, della pedofilia se non addirittura dell’omicidio, di profilo squisitamente penalistico, che esulano dalle competenze del civilista. In verità una disamina approfondita del tema dibattuto non può trascurare la famiglia in quanto essa è la prima e più importante comunità in cui si compie la formazione e lo sviluppo materiale e spirituale della persona. Una famiglia che assolve male i propri compiti forma individui disadattati, frustrati, inappagati che proprio per questo non di rado sono dispensatori di violenza e morte. Al contrario la persona ben inserita nella famiglia in cui si vive profondamente l’affettività, la solidarietà l’aiuto reciproco spesso è in grado, perché formata solidamente, di trasmettere all’esterno i valori sperimentati.

*

Della Facoltà di Giurisprudenza.


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Tommaso Auletta

La famiglia è in grado di far vivere in senso pieno i suoi componenti quando li eleva spiritualmente, ne favorisce la crescita e lo sviluppo delle potenzialità umane, soddisfacendo le loro esigenze fondamentali. Al contrario è luogo in cui si alimenta una cultura di morte quando non consente alla persona di esprimersi liberamente, ne condiziona le scelte, reprime le potenzialità, mortifica la sensibilità, fa mancare il sostegno morale necessario per la sua crescita. Nel discorso che segue non intendo soffermarmi sul possibile cattivo funzionamento della famiglia, essendo questo un rischio comunque presente in qualsiasi contesto, ma sulla idoneità dei diversi suoi modelli, adottati nel tempo, dal nostro ordinamento di formare pienamente la persona nell’ambito di una comunità caratterizzata da un’intensa vita affettiva e dalla solidarietà dei suoi componenti. Nel corso del XX secolo, infatti, si è verificato un profondo mutamento nella disciplina della famiglia, anche in seguito all’evolversi del costume sociale e dei valori accolti dall’ordinamento e contenuti soprattutto nella Carta costituzionale.

1. I rapporti fra coniugi nella cultura della prima parte del xx secolo Agli inizi del secolo prevale ancora in Sicilia, come in altre parti del sud d’Italia, il modello di famiglia patriarcale — proprio di una società prevalentemente agricola — la quale assolve anche l’importante funzione di garantire il sostentamento dei suoi componenti. I rapporti fra coniugi sono incentrati sulla cosiddetta autorità maritale: l’ordinamento attribuisce all’uomo il ruolo di capo-famiglia, nella convinzione che questi sia «ordinariamente più adatto, per le qualità sue naturali, a tutelarne efficacemente gli interessi e dirigerla al meglio negli atti più importanti della vita civile»1. Alla moglie viene riconosciuta una capacità limitata: non ha, infatti, la piena disponibilità del proprio patrimonio ma deve ricorrere all’autorizzazione maritale per compiere atti poten-

1

F.S. BIANCHI, Codice civile italiano, V/2, Torino 1901, 11.


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zialmente pregiudizievoli2. Esiste una disparità di trattamento fra gli sposi, a danno della moglie, anche riguardo al contenuto dei doveri coniugali. Scompare alcuni anni dopo (1919) l’autorizzazione maritale, ma negli autori che scrivono intorno agli anni ’40 si trovano non di rado espressioni volte a sostenere che il dominio del marito sulla moglie «sfugge assiomaticamente ad ogni discussione» e costituisce «non solo un principio etico ma anche una norma giuridica»; si aggiunge che «il nostro codice ha omesso la menzione, alquanto cruda, del dovere di obbedienza della moglie» (contenuto invece nel codice francese) «ma nella sostanza questo dovere è rimasto»3. A proposito di etica, bisogna sottolineare che la funzione dell’autorità maritale è considerata essenziale anche dalla Chiesa. Pio XI, nell’enciclica Casti connubii del 1930, richiamando il noto passo della Lettera di S. Paolo agli Efesini, (ma analogo insegnamento si trova nella prima Lettera di S. Pietro 3,1-7), afferma che il comandamento dell’amore presuppone sia il primato del marito sulla moglie ed i figli sia la sollecita sottomissione e l’obbedienza spontanea della donna. L’uomo è la testa e la donna è il cuore. La struttura della famiglia e le sue regole fondamentali sono fissate da Dio e come tali non possono essere violate o sovvertite. Una certa disuguaglianza fra i coniugi è considerata necessaria per garantire l’unità e la stabilità di un’ordinata società domestica. Il codice del ’42 non modifica sostanzialmente l’impianto tradizionale della famiglia, quantunque anche nel sud d’Italia siano intervenuti, nel frattempo, significativi mutamenti sociali. La figura del capo si ispira, in un certo senso, alla struttura del regime politico al potere assicura il mantenimento dell’ordine in seno al gruppo e ne facilita il controllo da parte dello Stato4. Al marito spettano tutte le decisioni fondamentali: dalla fissazione 2

Sul tema dell’autorizzazione maritale cfr F.S. BIANCHI, Codice civile italiano, cit., 192ss; F. RICCI, Corso di diritto civile, I/2, Torino 1912, 1ss. 3 L. BARASSI, La famiglia legittima, Milano 1940, 194s. Così anche C. GANGI, Il matrimonio, Milano 1947, 207. Ma in senso divergente cfr N. STOLFI, Diritto civile, V, Torino 1921, 197s, il quale sottolinea l’esigenza di ripartire i compiti familiari fra i due coniugi, secondo le naturali attitudini, per evitare ingiustizie in danno della moglie. 4 Osserva M. BESSONE, in M. BESSONE - L. MONTUSCHI - D. VINCENZI AMATO - S. CASSESE – A. MURA, Rapporti etico-sociali, Commentario della costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma 1976, 49, che per uno Stato autoritario, il principio dell’autorità


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della residenza familiare alle altre scelte di vita più importanti. Egli può imporre legittimamente la propria volontà a garanzia dell’unità di indirizzo della famiglia5 e negare alla moglie qualsiasi potere decisionale. La moglie ne segue la condizione civile ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza (art. 144 cc.)6. La donna viene considerata soggetto debole, dotata di una capacità inferiore a quella del marito, anche perché facilmente influenzabile. Questi, pertanto, le deve protezione e mantenimento (art. 145 cc.), deve sorvegliarla anche controllandone la corrispondenza7. Il padre può stabilire condizioni alla madre superstite per l’educazione dei figli (art. 338 cc.). Se alla morte del marito la donna è incinta il giudice può nominare un curatore per tutelare gli interessi del nascituro (art. 339 cc.). Nel caso di passaggio della potestà alla madre per decadenza del padre il giudice può impartire disposizioni sul modo in cui la madre dovrà esercitare tali poteri (art. 331 cc.). Paventando il rischio che il secondo marito possa imporre la propria volontà a discapito dei figli di primo letto l’ordinamento impone alla donna di informare il tribunale circa le future nozze, pena la perdita del diritto di amministrare il patrimonio del figlio. La disuguaglianza fra i coniugi emerge con evidenza dalla disposizione del secondo comma dell’art. 151 cc. il quale attribuisce alla moglie la colpa della separazione per infedeltà quando ha commesso adulterio, al marito solo se l’adulterio viene consumato con modalità tali da costituire ingiuria grave per la moglie. La caduta dello Stato fascista e l’avvento della costituzione repubblicana segnano una svolta, a livello di principi, nella concezione strutturale della famiglia. L’art. 3 afferma infatti che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso». E, più maritale e la degradazione della condizione giuridica della donna costituiscono strumenti per asservire la famiglia «al suo complessivo programma di opposizione alle forme di pluralismo sociale oggettivamente incompatibili con il disegno istituzionale». 5 Cfr F. DEGNI, Il diritto di famiglia, Padova 1943, 227. 6 Si esclude peraltro la legittimità della decisione del marito di condurre una vita nomade: cfr ad es., N. STOLFI, Diritto civile, cit., 204. 7 Tribunale [=Trib.] Napoli, 18.4.1936, in Giurisprudenza italiana, 1936, II, c. 155; Cassazione [=Cass.] 25.2.1937, n. 545, in Foro italiano, 1937, I, c. 1106. In dottrina, cfr in tal senso N. STOLFI, Diritto civile, cit., 211.


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specificamente, l’art. 29, abbandonando il modello consolidato nei secoli, sancisce il principio secondo il quale il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ma nel contempo ammette l’introduzione di limiti a garanzia dell’unità familiare8. Proprio la previsione di detto limite finisce per legittimare, per diversi anni, un sostanziale immobilismo nei rapporti fra i coniugi a livello legislativo e giurisprudenziale anche per la resistenza sociale, sopratutto nel sud d’Italia, di accettare sino in fondo la parificazione della donna all’uomo. È ancora, ad esempio, profondamente radicata una diversa concezione della libertà sessuale fra marito e moglie onde si considera più grave il comportamento della donna che abbia taciuto di avere perduto la verginità prima del matrimonio di quanto non venga considerato l’analogo comportamento del marito di avere avuto rapporti sessuali con altre donne9. Un’eco di tale concezione si trova anche nella giurisprudenza la quale considera detto celamento ingiuria grave verso l’altro coniuge solo quando a rendersene responsabile sia stata la moglie. Nella medesima prospettiva, agli inizi degli anni ’60, la Corte costituzionale considera legittima la diversità di trattamento riservata dall’ordinamento alla violazione della fedeltà coniugale: mentre la moglie è punibile se commette adulterio, il marito risponde solo nel caso di concubinato. La Corte giustifica la soluzione sostenendo che l’infedeltà della moglie è più grave perché incide maggiormente sull’unità familiare e può generare figli illegittimi che vengono però considerati legittimi in virtù della presunzione di paternità del marito10.

8

Per un esame del contenuto della norma e delle implicazioni derivanti dall’introduzione nell’ordinamento, cfr M. BESSONE in M. BESSONE - L. MONTUSCHI - D. VINCENZI AMATO - S. CASSESE - A MURA, Rapporti etico-sociali, cit., 1ss. 9 Quando addirittura non si considera doverosa l’esperienza sessuale per affermare la virilità dell’uomo. 10 Corte costituzionale [=C. cost.], 28.11.1961, n. 64, in Foro italiano, 1961, I, c. 1777. Nello stesso senso in dottrina, C. GANGI, Il matrimonio, cit., 204s. In senso critico cfr G.D. PISAPIA, L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi di fronte alle legge penale, in Rivista di diritto matrimoniale (1963) 3ss.


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I giudici di merito e di legittimità, richiamandosi all’autorità maritale riconoscono al marito poteri di supremazia nei confronti della moglie11. Esemplificando, viene ancora riconosciuto al capo-famiglia un potere correzionale e disciplinare verso la moglie, da esercitarsi in forma non violenta. Si afferma peraltro non doversi equiparare la violenza a scopo correzionale a quella a scopo di degradazione ed umiliazione morale12. Invocando il potere di sorveglianza e protezione viene ribadito il principio secondo il quale è consentito al marito controllare la corrispondenza13 e le comunicazioni telefoniche della moglie14 al fine di salvaguardare l’unità della famiglia. Si arriva persino ad affermare che non è responsabile della separazione il marito che abbia percosso e cacciato di casa la moglie avendone scoperto l’adulterio15. Il marito può vietare alla moglie di svolgere un’attività di lavoro se la ritiene incompatibile col dovere di assistenza, di cura dei figli e della casa16. Può altresì vietare l’ingresso in casa di persone a lui sgradite anche contro la volontà della moglie17. A lui spetta la scelta della residenza familiare, ma essa non deve esercitarsi in modo da rendere intollerabile la coabitazione18. Movimenti di pensiero inclini ad interpretare in senso meno autoritario la potestà maritale cominciano ad emergere in quel periodo. Alcuni giudici, anche in Sicilia e nel resto del meridione, che si orientano in tale direzione: ad es., si ritiene giustificato il rifiuto della moglie di vivere con i parenti del marito19, non consentito a quest’ultimo di imporre alla moglie la 11

Per un’accurata rassegna giurisprudenziale in materia di rapporti tra coniugi prima della riforma del ’75, cfr M. COMPORTI, La disuguaglianza dei coniugi nella giurisprudenza in tema di rapporti personali, in Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, Napoli 1975, 301ss. 12 Cass. penale, 20.12.1954, in Diritto Ecclesiastico, 1956, II, 234. 13 Corte d’appello [=App.] Firenze, 5.12.1951, in Giurisprudenza toscana, 1952, 192; App. Genova, 13.11.1957, in Repertorio della Giustizia civile, 1958, voce Matrimonio, n. 58. 14 App. Milano, 17.7.1971, in Monitore dei tribunali, 1972, 18. 15 App. Firenze, 5.12.1952, cit. 16 Cass., 8.7.1955, n. 2150, in Foro italiano, 1956, I, c. 1964. 17 N. STOLFI, Diritto civile, cit., 209. 18 Cass., 21.3.1968, n. 884, in Giustizia civile, 1968, I, 553. 19 Trib. Napoli, 5.2.1958, Diritto e giurisprudenza, 1958, 552.


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cessazione di un’attività economica in corso al momento del matrimonio20, permesso anche alla donna di controllare la corrispondenza del marito per precostituirsi la prova della sua infedeltà21. Si nega inoltre che la moglie debba, in virtù dell’obbligo di assistenza, lavorare nell’impresa del marito22. Nella seconda metà degli anni ’60 la Corte costituzionale interviene a più riprese per eliminare dall’ordinamento norme del diritto di famiglia ritenute in contrasto col principio di uguaglianza fra coniugi. È significativo al riguardo, però, che la prima decisione riguarda la costituzionalità dell’art. 156, 1° comma, cc. nella parte in cui pone a carico del marito, nel caso di separazione consensuale senza colpa, l’obbligo di somministrare alla moglie quanto necessario per la sua vita, a prescindere dalle condizioni economiche della stessa23 mentre la moglie è tenuta a tale prestazione solo se il marito si trova in precarie condizioni economiche. È dunque un intervento che, in nome dell’uguaglianza, elimina l’unica regola discriminatoria prevista dall’ordinamento a danno del marito. Qualche anno dopo viene dichiarato incostituzionale anche l’art. 145, 1° comma, cc. il quale imponeva il medesimo obbligo durante convivenza coniugale24. Analoga soluzione viene adottata — questa volta a favore della donna — per il diverso trattamento riservato, in materia civile e penale, all’infedeltà della moglie e del marito25. La Corte mette altresì in discussione l’efficienza del modello gerarchico affermando che l’unità della famiglia «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità»26. Anche in dottrina si sviluppa il dibattito sulla compatibilità col principio di uguaglianza del modello gerarchico di famiglia, accolto dal codice, e sulla sua idoneità a favorire lo svilupparsi di una comunità — come quella in esame — fondata sull’affetto e sulla solidarietà. 20

App. Palermo, 24.6.1958, Foro siciliano, 1959, 26. Cass., 29.5.1947, n. 837, in Giurisprudenza italiana, 1948, I, 1, c. 194. 22 Trib. Ivrea, 9.1.1963, in Rivista di diritto matrimoniale (1963) 329; F. SANTORO PASSARELLI, Il governo della famiglia, in Iustitia, 1953, 345 23 C. cost., 23.5.1966, n. 46, in Foro italiano, 1966, I, c. 994. 24 C. cost., 13.7.1970, n. 133, in Foro italiano, 1970, I, c. 2047. 25 C. cost. 19.12.1968, n. 126 e 127, in Foro italiano, 1969, I, c. 4. 26 C. cost., 13.7.1970, n. 133, cit. 21


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Vi è chi sostiene27, anche sotto l’influenza dell’insegnamento della Chiesa, che il modello gerarchico deve essere privilegiato perché si fonda sul diritto naturale e su ragioni naturali (la diversità e complementarietà dei sessi), corrisponde all’essenza del vincolo coniugale, all’innata diversità psico-fisica dei coniugi28. La negazione della potestà maritale porterebbe all’alterazione del modello essenziale di famiglia, alla sua paralisi e morte o almeno alla sottoposizione al potere dello Stato29. L’esistenza di un capo si ritiene indispensabile per garantire l’unità della famiglia, assicurando la presenza di una persona che, nel caso di contrasti, sia comunque legittimata a decidere, evitandone così l’acuirsi e l’insorgere di una crisi difficilmente risolubile. Il principio paritario porterebbe invece, in presenza di contrasti, a dover rimettere la decisione al giudice, con grave pregiudizio per l’autonomia della famiglia e rischi di incostituzionalità. Le caratteristiche ed attitudini personali pongono fuori discussione che il capo debba essere il marito perché la donna è bisognosa di protezione30. Diversi sono anche i ruoli dei due coniugi, secondo il sistema di vita maggiormente praticato nei ceti popolari e nei ceti medi31: l’uomo deve vigilare sulla moglie, correggendone anche i comportamenti, e proteggerla dalle sue debolezza; svolge attività extra-domestica, provvedendo al mantenimento della famiglia. La donna deve obbedienza al marito; a lei è affidata la cura della casa e dei figli ed è in questo suo ruolo che deve realizzarsi senza cercare avventure in attività extra-domestiche. Pertanto il marito può vietarle di lavorare quando ciò potrebbe compromettere le cure domesti27 L. SPINELLI, Intorno alla parità dei coniugi ed all’unità della famiglia, in Iustitia, 1962, 165ss. 28 Le affermazioni che seguono sono ampiamente sviluppate da V. LOJACONO, La potestà del marito nei rapporti personali tra coniugi, Milano 1963, passim e da F. SANTORO PASSARELLI, Il governo della famiglia, cit., 337ss. 29 F. SANTORO PASSARELLI, Il governo della famiglia, cit., 344. 30 «E questo capo, per la normale, congenita, superiorità fisica e intellettuale dell’uomo sulla donna, non può che essere il marito, come è provato anche dal fatto che la preminenza del marito sulla moglie nella direzione della società familiare, è stata sempre ammessa da lunghissimo tempo non soltanto dai popoli civili, ma anche da parecchie popolazioni barbariche»: C. GANGI, Il matrimonio, cit., 206; analogamente, L. SPINELLI, Intorno alla parità dei coniugi ed all’unità della famiglia, cit., 177. 31 Cass., 26.5.1969, n. 1859, in Foro italiano, 1969, I, c. 1430.


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che32, non invece per una sfavorevole valutazione sociale del lavoro femminile. Analogo potere non è però riconosciuto alla moglie (quantunque sia configurabile che un certo lavoro del marito possa nuocere alla coesione della famiglia). In virtù del modello gerarchico spetta al marito prendere le decisioni relative alla vita della famiglia, senza che la moglie possa sindacarle, eccezion fatta per il caso di comportamento abusivo (che si configura quando si cagiona un grave pregiudizio all’interesse comune) o per l’ipotesi in cui l’esercizio dei poteri venga fatto in modo irrazionale e capriccioso (ad es., con riferimento alla determinazione della residenza comune). Non del tutto coerentemente si sostiene, però, che la moglie ha diritto di partecipare alla determinazione del tenore di vita familiare. La rigidità di tale modello — si sostiene — è comunque mitigata dal costume:infatti nella maggior parte delle famiglie che vivono in armonia i coniugi concordano le decisioni, onde l’intervento autoritario del marito costituisce extrema ratio, quando il conflitto non è altrimenti risolubile. Alla moglie viene comunque riconosciuto il discrezionale esercizio delle libertà fondamentali33. In senso contrario si esprime altra parte della dottrina la quale esclude che la donna coniugata debba subire una menomazione dei diritti garantiti costituzionalmente34 e che «la conservazione della potestà maritale o di qualsiasi situazione di privilegio da parte dell’uomo sia necessaria per garantire l’unità della coppia, semmai esattamente l’opposto»35. È demandata allora alla dialettica degli sposi risolvere pacificamente i conflitti sorti. Si sostiene che

«l’emancipazione femminile, tendendo ad affiancare all’uomo una vera compagna, ricca di interessi propri ed in grado di capire quelli del marito,

32

L. SPINELLI, Intorno alla parità dei coniugi ed all’unità della famiglia, cit., 187. Ibid., 174ss. 34 A. GALOPPINI, La potestà maritale nei rapporti personali fra coniugi, in Rivista di diritto matrimatrimoniale (1963) 444ss. 35 P: SCHLESINGER, L’unità della famiglia, in Studi Sassaresi, II, Milano 1971, 375s. Ed in senso conforme, U. MAJELLO, Relazione introduttiva, in Eguaglianza morale e 33


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Tommaso Auletta rende più facile la formazione di comunioni più profonde e complete; la maggiore mobilità dei ruoli tradizionali […] evita una formalistica contrapposizione di compiti e facilita il dialogo e l’assistenza reciproca»36.

Il modello gerarchico non si ispira, allora, al diritto naturale ma ad una situazione sociale ed economica contingente in cui alla donna veniva riservato un ruolo subalterno37. Il principio di uguaglianza fra coniugi costituisce, invece, la regola fondamentale alla quale è possibile introdurre deroghe solo se non fondate sulla disuguaglianza dei sessi. E sulle pagine di Civiltà Cattolica padre Lener affermava con decisione che un totale consorzio di vita qual è il matrimonio «esclude la stessa possibilità di riconoscere o attribuire a uno dei coniugi una potestà o una autorità sociale, che l’altro non abbia»38.

2. I rapporti genitori-figli nella cultura della prima parte del xx secolo Sulla figura del capo-famiglia sono incentrati anche i rapporti fra genitori e figli secondo la disciplina dei codici del 1865 e 1942. Ambedue i genitori sono titolari della potestà ma spetta solo al marito esercitarla. La soggezione del figlio ai genitori è intesa in maniera particolarmente intensa tanto che alla discrezionalità del padre sono rimesse le scelte fondamentali di vita del minore a prescindere dalla sua maturità39 (che, in virtù del raggiungimento della maggiore età a 21 anni, poteva essere anche ben sviluppata prima di tale momento), ivi compresa l’autorizzazione al giuridica dei coniugi, Napoli 1975, 8, afferma che la famiglia non ha bisogno di un capo ma «di chi sia in grado di presentarsi come modello ideale di azioni esemplari». 36 P. SCHLESINGER, L’unità della famiglia, cit., 380s. 37 F.D. BUSNELLI, Libertà e responsabilità dei coniugi nella vita familiare, in Riv. dir. civ. I (1973) 119ss. 38 S. LENER, Parità dei coniugi e unità della famiglia, in Civiltà Cattolica IV (1966) 15ss. 39 Cfr per tutti, A. TRABUCCHI, Patria potestà e interventi del giudice, in Rivista di diritto civile I (1961) 223ss.


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matrimonio. Al minore non è dunque consentito prendere decisioni autonome su questioni importanti della propria esistenza né deve essere consultato. Di conseguenza il padre poteva legittimamente orientare secondo i propri valori, preferenze, aspirazioni la formazione del figlio40. L’unico limite era costituito dal rispetto dei principi morali41 e — nella formulazione originaria del codice del ’42 — di quelli propri dello Stato fascista42. La madre partecipava all’educazione e alla formazione spirituale del figlio e ne aveva la cura anche più del padre (in virtù del ruolo assegnatole dall’ordinamento) ma nel caso di contrasti con il marito era la volontà di quest’ultimo a prevalere43. Era lui che rappresentava il figlio nei rapporti con gli estranei. Il giudice poteva sindacare l’operato del padre solo quando questi trascurasse i suoi doveri o li esercitasse in maniera tale da arrecare grave pregiudizio al figlio. Ma il genitore poteva decidere persino di mettere in istituto il minore responsabile di cattiva condotta. Tale struttura dei rapporti trovava giustificazione, secondo autorevole dottrina44, nell’implicita valutazione dell’ordinamento che il padre fosse «il 40 «Spetta quindi al padre determinare il mestiere o la professione cui deve avviare il figlio; scegliere la religione in cui deve educarlo; le persone che deve frequentare; sorvegliarne la corrispondenza; destinargli i maestri o gli istituti di educazione, e variarli, ove lo reputi opportuno, ecc. E nell’esercizio di tale diritto egli è insindacabile, poiché giustamente si è ritenuto, che l’affetto verso i figliuoli gli consiglierà l’indirizzo più adatto all’indole loro»: N. STOLFI, Diritto civile, cit., 534s.; nello stesso senso G. MARTINEZ, Patria potestà, in Nuovo digesto italiano, IX, Torino 1939, 540ss. 41 Cfr in proposito F. DEGNI, Il diritto di famiglia, cit., 229, il quale afferma che i genitori «non hanno il diritto di impartire un’educazione che non sia conforme ai principi sociali prevalenti». 42 Significativa al riguardo è l’affermazione di G. MARTINEZ, Patria potestà, cit., 537, secondo cui la potestà «è un dovere che va adempiuto non soltanto a vantaggio della prole, ma pure e soprattutto dello Stato, interessando sommamente al buon ordine e alla prosperità sociale che sia fortemente costituita l’autorità paterna». Giudica positivamente l’esistenza di un tale controllo da parte dello Stato, C. REBUTTATI, Matrimonio, ibid., 311. 43 Emblematica è al riguardo la posizione di L. SPINELLI, In tema di educazione religiosa della prole, in Iustitia, 1964, 288ss, il quale afferma da un lato che «i genitori debbono attendere al compito di educare la prole in posizione paritaria» e dall’altro che però il padre ha poteri di decisione finali (308s). 44 A. TRABUCCHI, Patria potestà e intervento del giudice, cit.


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miglior giudice dell’interesse del figlio». In primo piano veniva posto il potere paterno di correggere il figlio anche nelle forme più rudimentali delle punizioni corporali purché modiche45. In virtù di detto potere si riteneva consentito al genitore controllare le frequentazioni del figlio e la corrispondenza. Su tale ricostruzione dottrinaria dei rapporti fra genitori e figli non incise in alcun modo la disposizione costituzionale dell’art. 2 che garantisce alla persona il rispetto dei diritti fondamentali anche all’interno della formazioni sociali. Pur dovendosi comprendere fra queste anche la famiglia, la disposizione non fu applicata al minore. Invece, il collegamento operato tra educazione e potestà conduce l’opinione largamente prevalente a concludere nel senso che fin quando il minore è ad essa sottoposto deve soggiacere alle decisioni del genitore. Si distaccano però da questo orientamento isolate decisioni giudiziali nelle quali si configurano limiti ai poteri dei genitori affermando, ad es., che ad essi non è consentito ricorrere a mezzi coercitivi per imporre al figlio scelte religiose46 o contrastarlo nelle opzioni ideologico-culturali47; ed ancora, che la richiesta, rivolta al giudice dal genitore di ricondurre a casa il minore allontanatosi senza permesso per coltivare un rapporto sentimentale va assecondata solo se detto rapporto è dannoso per il figlio48. In vista della tutela di tale interesse è da ricondurre pure l’ordine del giudice, rivolto al genitore esercente la potestà, di consentire al minore la frequentazione dell’altro genitore separato49 o dei nonni50. Queste decisioni si muovono nella giusta direzione perché riconoscono al minore spazi di libertà ove far maturare i valori più profondi dell’animo e favorire lo sviluppo della capacità critica della persona in formazione. Un opportuno richiamo in questa direzione proviene anche dalla Costituzione conciliare Gaudium et Spes la quale al n. 52 afferma che «i figli […], mediante l’educazione devono venire formati in modo che, giunti alla

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F. SANTORO PASSARELLI, Il governo della famiglia, cit., 346. Trib. Genova, 9.2.1959, in Temi genovese, 1959, 314. 47 Trib. Bologna, 26.10.1973, in Giurisprudenza italiana, 1974, I, 2, c. 548. 48 Trib. Bologna 23.10.1973, ibid., c. 549. 49 Trib. Venezia, 10.11.1966, in Temi, 1967, 181. 50 App. Milano, 21.6.1965, in Foro padano, 1965, I, 858. 46


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maturità, possano seguire con pieno senso di responsabilità la loro vocazione». Un altro aspetto caratterizzante la disciplina pregressa dei rapporti fra genitori e figli è costituito dalla diversità di trattamento riservata ai figli naturali rispetto a quelli legittimi, soprattutto nel caso di filiazione adulterina ed incestuosa. Per gli adulterini essa trova giustificazione nell’esigenza, fortemente sentita, di privilegiare la famiglia fondata sul matrimonio nel tentativo di prevenire attentati alla sua integrità in seguito all’instaurarsi di relazioni extra-coniugali. Lo strumento adottato non mancò peraltro di sollevare perplessità perché riversava il peso della condotta riprovevole del genitore sulla prole innocente.

3. I rapporti familiari dopo la riforma legislativa del 1975 La legge n. 151 del 1975, nel modificare profondamente l’intera disciplina del diritto di famiglia, abbandona il modello verticistico che concentrava nella mani dell’uomo la maggior parte dei poteri di governo della famiglia, e li attribuisce in misura paritaria ad entrambi i coniugi. Anche riguardo ai doveri matrimoniali gli sposi vengono equiparati, abbandonando così la pregressa concezione in virtù della quale la donna non poteva essere equiparata all’uomo perché era persona debole da proteggere ed, in certi casi, anche da correggere. Ai coniugi è riconosciuta pari dignità onde non può considerarsi consentito alcun controllo da parte di uno sull’altro circa il modo di condurre la propria vita, compiuto con modalità tali da risultare lesivo di questo valore. Il governo della famiglia deve esercitarsi sulla base dell’accordo intervenuto in seno alla coppia51. Pertanto i coniugi devono concordare l’indirizzo di vita, cioè il programma futuro della famiglia (ed innanzitutto il luogo dove fissarne la residenza).

51 Ed è proprio l’accordo l’espressione dell’uguaglianza coniugale su cui si fonda l’unità della famiglia: S. PULEO, Famiglia. Disciplina privatistica: in generale, in Enciclopedia giuridica Treccani, XIV, Ist. Enc. It., Roma 1989, 7


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Scompaiono tutti i controlli in precedenza previsti per l’esercizio della potestà da parte della madre; i genitori hanno i medesimi poteri nella formazione della persona del figlio e nella gestione del suo patrimonio. Rimane però una residua posizione di privilegio a favore del padre nella disciplina di trasmissione del cognome ai figli e nelle ipotesi in cui sussista un contrasto fra i genitori riguardo ad una decisione urgente ed indifferibile relativa alla prole. Viene anche meno la preordinata distribuzione dei ruoli in seno alla coppia, onde ambedue i coniugi devono provvedere al soddisfacimento dei bisogni della famiglia in proporzione alle proprie sostanze ed alla capacità di lavoro anche casalingo, nonché all’educazione ed istruzione dei figli. Non più, dunque, un coniuge che mantiene ed uno mantenuto, uno che lavora fuori della famiglia ed uno che si dedica integralmente all’attività domestica. Nel costruire il programma di vita familiare i coniugi sono tenuti a stabilire il modo in cui andrà limitato l’esercizio dei diritti fondamentali di ciascuno, in modo da armonizzarlo con le esigenze comuni: ciò soprattutto con riferimento alla libertà sessuale ed a quella di abitazione e circolazione. Ma anche le scelte individuali relazionali, lavorative, religiose politiche, culturali e l’esigenza di riservatezza dovranno rendersi compatibili con quelle dell’altro coniuge e con gli interessi dell’intera famiglia. La libertà di utilizzazione delle risorse personali viene limitata dal dovere di contribuzione. È quindi dal dialogo e dal confronto fra coniugi che scaturisce l’impianto di vita della famiglia. All’accordo si deve anche ricorrere per tutte le altre decisioni fondamentali. Nessuna preminenza di un coniuge sull’altro, nessuna autorità che legittimi l’imposizione della propria volontà . Anzi, in base al dovere di collaborazione, si richiede agli sposi l’impegno della ricerca di soluzioni accettabili per ambedue. Sul piano patrimoniale la scelta della comunione come regime legale della famiglia è volta a perfezionare, anche sotto il profilo economico, l’unione solidale della coppia52.

52 Sul presupposto che «ogni discorso sull’uguaglianza, sulla dignità e sulla libertà sia destinato a restare vuoto di contenuto per chi si trovi in una situazione di dipendenza


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L’eventuale disaccordo fra i coniugi riguardo ad una questione essenziale non viene superato attribuendo maggiori poteri decisionali ad un coniuge rispetto all’altro (come ipotizzato in un primo tempo in sede di lavori preparatori) ma favorendo la ricerca di una soluzione accettabile da ambedue. Poco praticato è altro strumento, pur contemplato dall’ordinamento, di richiedere un intervento del giudice volto a comporre il dissidio e ancor meno l’intervento decisorio del medesimo, su richiesta concorde dei coniugi. In quest’ultimo caso comunque il giudice, nel decidere, deve privilegiare la soluzione che risulta più adeguata a salvaguardare l’interesse e l’unità della famiglia. Per interesse della famiglia deve intendersi quello risultante dalla somma degli interessi di cui si rendono portatori i membri del gruppo53. Trattasi dunque «del momento di sintesi e convergenza, di equilibrio e composizione degli interessi facenti capo ai singoli componenti della comunità»54. Rilevanti mutamenti intervengono anche nei rapporti fra genitori e figli oltre il profilo, già ricordato, riguardante l’esercizio della potestà. Scompare il dovere dei figli di onorare i genitori, il quale stava ad indicare, al di fuori del contesto biblico, una posizione di accentuata subordinazione. I genitori non hanno discrezionalità assoluta nell’educazione della prole ma devono tenere conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli55 (art. 147). Infatti i genitori esercitano un ufficio privato, come tale funzionalizzato al perseguimento degli interessi del minore sprovvisto di capacità adeguata a provvedere autonomamente. Solo in questa prospettiva esso trova giustificazione56. economica»: E. QUADRI, Famiglia e rapporti tra coniugi: il dibattito negli anni delle riforme, in Famiglia e ordinamento civile, Torino 1997, 18. 53 È da escludere, pertanto, la configurabilità di un interesse superiore del gruppo in sé considerato. Cfr per tutti M. BESSONE in M. BESSONE - L. MONTUSCHI - D. VINCENZI AMATO - S. CASSESE – A. MURA, Rapporti etico-sociali, cit., 24ss. 54 M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, in Il codice civile, Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano 1990, 23. 55 Esse costituiscono un limite alla discrezionalità dei genitori per non compromettere il godimento delle libertà fondamentali del figlio divenuto capace di esercitarle. Così P. ZATTI, Rapporto educativo e intervento del giudice, in L’autonomia dei minori tra famiglia e società, a cura di M. De Cristofaro e A. Belvedere, Milano 1980, 189ss. 56 Cfr C.M. BIANCA, Le autorità private, Napoli 1977, 9ss.


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Il principio di uguaglianza davanti alle legge non si applica al rapporto fra genitori e figli ma i poteri di cui sono dotati i primi vanno esercitati nel rispetto della dignità personale del secondo. Pertanto il minore non è sottomesso in tutto ai genitori. Anzi in alcune circostanze l’ordinamento gli riconosce poteri decisionali autonomi: ad es., il maggiore di 16 anni può chiedere autorizzazione al giudice per essere ammesso a celebrare il matrimonio; può riconoscere un proprio figlio naturale, deve prestare il consenso ad essere riconosciuto dal genitore naturale o per autorizzare l’inserimento nella propria famiglia legittima di un fratello naturale. Il maggiore di 14 anni deve dare il consenso all’adozione e all’affidamento familiare. In altre circostanze il minore deve essere sentito: ad es., quando viene demandata al giudice dai coniugi la risoluzione di un loro contrasto (art. 145); se detto contrasto riguarda decisioni che coinvolgono i suoi interessi egli deve essere sentito se ha compiuto 14 anni57. Tale coinvolgimento è pregno di significato perché comporta una partecipazione, sia pur sotto forma di un contributo non decisionale, al governo della famiglia, un’elevazione del minore dalla posizione di mero assoggettamento al volere dei genitori. È discusso in dottrina e in giurisprudenza se, al di là delle ipotesi espressamente previste dalla legge, possano configurarsi, a favore del minore, spazi decisionali relativi all’esercizio di diritti fondamentali da gestire in assoluta autonomia, o anche sotto la guida dei genitori. Parte della dottrina lo nega invocando l’assoggettamento del minore alla potestà dovuto alla sua situazione di incapacità legale. Altra corrente di pensiero gli riconosce autonomia decisionale quando abbia raggiunto una maturità tale da consentirgli di valutare adeguatamente in concreto il proprio interesse58. Si sostiene infatti che la funzione educativa rimane sganciata dalla potestà perché questa si riferisce solo ai rapporti giuridici patrimoniali 57 Per un diffuso esame di tali aspetti, cfr A. BELVEDERE, L’autonomia del minore nelle decisioni familiari, in L’autonomia dei minori tra famiglia e società, cit., 319ss. 58 Questa è ormai la posizione tendenzialmente prevalente. Fra gli altri cfr, P. CAVALIERI - M. PEDRAZZA GORLERO - G. SCIULLO, Libertà politiche del minore e potestà educativa dei genitori nella dialettica del rapporto educativo familiare, in L’autonomia dei minori tra famiglia e società, cit., 51ss; M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, cit., 259ss; M. GIORGIANNI, in Commentario al diritto italiano della famiglia, IV, Padova 1992,


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o comunque costituisce solo uno dei modi in cui si realizza la funzione educativa59. In quest’ultima prospettiva, il minore viene rappresentato dai genitori negli atti giuridici patrimoniali ma non nelle decisioni relative alle scelte di vita della persona. Detta soluzione può essere condivisa, escludendo però una completa autonomia decisionale del minore. Occorre infatti considerare che il minore è assoggettato all’autorità dei genitori perché non in grado di auto-determinarsi e di decidere in piena maturità e consapevolezza, anche se bisogna pure tenere conto che la conoscenza e la capacità di discernimento del minore mutano col progredire dell’età. In tenera età il bambino dipende in tutto dai genitori, non ha autonome aspirazioni esistenziali; spetta pertanto a chi ne ha la guida trasmettergli i valori fondamentali che ne indirizzano la crescita. Quando il ragazzo ha raggiunto una certa capacità di discernimento le modalità di educazione devono mutare, adattandosi al livello di sviluppo della persona; è necessario che i genitori si adoperino per far maturare nel figlio la coscienza critica, prospettando pluralità di valori e fornendo gli strumenti per compiere le scelte. Non viene meno però il loro potere di indirizzo, anche al fine di correggere aspirazioni distorte60. Man mano che si approssima la maggiore età il minore acquisisce normalmente una maturità che gli consente di decidere sempre più in autonomia. Tuttavia; egli rimane pur sempre un soggetto in formazione; è necessario pertanto che i genitori continuino ad esercitare il loro ruolo di guida, soprattutto puntando sulla persuasione e l’esempio61 e, perché no, su

289ss; F. RUSCELLO, La potestà dei genitori. Rapporti personali, in Il codice civile, Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano 1996, 31ss; M. SESTA, La filiazione, in Il diritto di famiglia. Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, III, Torino 1999, 213ss. In giurisprudenza, Pret. Genova, 22.4.1978, in Dir. fam., 1979, 802. 59 P. ZATTI, Rapporto educativo e intervento del giudice, cit., 250ss.; M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, cit., 265. 60 Nello stesso senso cfr A. BUCCIANTE, Potestà dei genitori, in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano 1985, 778, il quale sottolinea che il rapporto di subordinazione del figlio adolescente rispetto ai genitori risulta attenuato ma non viene meno del tutto. 61 «La vera forza trainante dell’educazione va individuata nell’esempio offerto dai genitori e nella coerenza mostrata tra i comportamenti richiesti al minore e l’atteggiarsi concreto della loro vita»: M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, cit., 271.


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un controllo discreto quando se ne profili la necessità. Non si può escludere pertanto, a mio avviso, anche a questa età la legittimità di interventi in certa misura impositivi volti a salvaguardare la vita, l’integrità fisica e morale ed altri valori fondamentali62 (ad es., imponendo determinate cure, impedendo attività dannose per la salute o frequentazioni pericolose). Saranno invece integralmente rimesse al minore le opzioni relative alla sua crescita interiore (ad es., scelte religiose, politiche, culturali, lavorative)63 che non incidano su valori della persona ugualmente rilevanti64. Quando sorgono contrasti fra i genitori su questioni fondamentali per la vita del figlio la loro risoluzione è affidata al giudice il quale deve rimettere la decisione al genitore che in concreto, a suo parere, può meglio tutelare gli interessi del figlio. In tal modo viene salvaguardata l’autonomia della famiglia perché il giudice non può imporre la propria decisione ma deve scegliere fra le soluzioni prospettate dai genitori65. Egli ha invece poteri decisionali quando l’esercizio della potestà avviene in maniera tale da pregiudicare un adeguato sviluppo della personalità del minore66. Il giudice non può essere chiamato, invece, a comporre contrasti che non consentono di compiere valutazioni circa il modo di assicurare migliore tutela all’interesse del minore (si pensi, ad es., al contrasto sulla religione in cui avviare il minore in tenera età). Un significativo cambiamento di tendenza si verifica anche riguardo alla tutela dei figli naturali. Essi infatti possono vantare, in virtù della nuova disciplina, i medesimi diritti dei figli legittimi. Scopare la discriminazione nei confronti dei figli adulterini rispetto ai quali può essere costituito il 62 In senso conforme, P. CAVALIERI - M. PEDRAZZA GORLERO - G. SCIULLO, Libertà politiche del minore e potestà educativa dei genitori nella dialettica del rapporto educativo familiare, cit., 116ss; M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, cit., 279ss. 63 In maniera sostanzialmente conforme, M. BESSONE in M. BESSONE - L. MONTUSCHI - D. VINCENZI AMATO - S. CASSESE – A. MURA, Rapporti etico-sociali, cit., 107. 64 Si ammette, ad es., che per fare conseguire al figlio un’adeguata preparazione, in vista di un lavoro futuro, i genitori possano intervenire al fine di limitarne altre inclinazioni: P. ZATTI, Rapporto educativo e intervento del giudice, cit., 290s. 65 Si sostiene però da parte di P. ZATTI, Rapporto educativo e intervento del giudice, cit., 236ss, che la discrezionalità dei genitori è limitata dal rispetto di connotati minimi di contenuto e condotta, in mancanza dei quali non può identificarsi un comportamento di tipo educativo. 66 Ibid., 282ss.


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rapporto genitoriale anche in concorrenza con i diritti della famiglia legittima. Il quadro brevemente tracciato consente di cogliere agevolmente i profondi mutamenti intervenuti nei rapporti fra genitori e figli rispetto alla disciplina previgente.

4. Valutazione critica dei modelli familiari succedutisi nel secolo scorso È giunto ormai il momento di formulare giudizi sui modelli familiari esaminati al fine di valutarne l’idoneità ad assicurare adeguato sviluppo e piena promozione della persona. A mio avviso il modello autoritario in vigore della prima parte del secolo, pur essendo conforme al costume sociale ed al modo di considerare generalmente i rapporti fra uomo e donna, fra adulto e minore, non era in grado di raggiungere l’obiettivo indicato, tanto da manifestare segni di crisi già prima dell’emanazione del codice del ’42 che ne confermava l’adozione. È infatti incompatibile con la maturità propria dell’adulto limitarne la libertà di autodeterminazione per l’intervento di scelte altrui imposte autoritariamente, sia pur in funzione di garantire l’unità di indirizzo della famiglia. L’interesse di quest’ultima si realizza infatti — come detto in precedenza — nella misura in cui le esigenze di tutti i suoi membri vengono salvaguardate o, quando non è possibile, privilegiando quelle che appaiono più rilevanti in base ad una valutazione della coppia e non di un capo. La famiglia è comunità di affetti e condivisione in cui si è disposti anche a sacrificare propri interessi ed aspirazioni ma per libera scelta. Il riconoscimento di un potere fondato sulla diversità di sesso non promuove la persona ma la mortifica, soprattutto se è la sola a dover affrontare sacrifici. Quando poi alle limitazioni si accompagnano forme di controllo o addirittura di correzione si rischia di violare la stessa dignità della persona. È peraltro un’illusione che l’unità familiare possa reggersi su poteri di un capo il quale abbia il diritto di imporre autoritariamente la propria volontà. L’unità così raggiunta rappresenta una mera finzione perché è solo nel dialogo, nella disponibilità a mettersi in discussione, nella faticosa ricerca di una soluzione che tenga conto della comuni esigenze del gruppo che si realizza la vera unità. L’imposizione divide, la concertazione


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accomuna nelle responsabilità, accresce lo spirito solidaristico, è strumento di crescita e promozione personale67. L’uguaglianza dei ruoli, pur nella diversità dei comportamenti, dipendente dall’indole personale, comporta l’assunzione di uguali responsabilità, nonché di bilaterali gratificazioni e rinunce. C’è da dire comunque che le novità normative introdotte devono essere rese effettive mediante la spontanea adesione degli sposi, non potendo essere imposte in alcun modo. Negli strati sociali più maturi il valore dell’uguaglianza dei sessi può dirsi ormai prevalentemente recepito, anche per il contributo culturale proveniente dai movimenti di liberazione della donna e dalla Chiesa, la quale non ha mancato di proporre una lettura più moderna dei passi biblici precedentemente menzionati. Nella Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, infatti, Giovanni Paolo II mette in evidenza, come, al fine di comprendere correttamente il significato delle Lettere degli Apostoli, occorre tenere conto che esse sono indirizzate a persone le quali vivono nella storia, in un ambiente caratterizzato per un certo modo di pensare e di agire. Però Cristo ha portato un messaggio di novità e di rottura con il passato. Allora «tutte le ragioni in favore della sottomissione della donna all’uomo nel matrimonio debbono essere interpretare nel senso di una reciproca sottomissione». Pertanto, la consapevolezza «che nel matrimonio c’è la reciproca sottomissione dei coniugi nel timore di Cristo e non soltanto quella della moglie al marito deve farsi strada nei cuori, nelle coscienze, nel comportamento, nei costumi». Profondamente distanti dalle espressioni usate da Pio XI contro il lavoro e l’emancipazione della donna sono anche le espressioni contenute nella Lettera alle donne di Giovanni Paolo II, con le quali si esprime un ringraziamento per la donna lavoratrice impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, per il contributo all’elaborazione di una cultura capace di coniugare ragione e sentimento, C’è da rilevare però che, nonostante l’evoluzione del pensiero in favore della concezione egualitaria degli sposi e, più in generale, dell’uomo e della donna, il principio di autorità nella conduzione della famiglia stenta

67 In senso conforme cfr M. BESSONE in M. BESSONE - L. MONTUSCHI - D. VINCENZI AMATO - S. CASSESE – A. MURA, Rapporti etico-sociali, cit., 39.


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ad essere del tutto abbandonato negli strati sociali meno evoluti, in special modo nel sud d’Italia. Ciò tuttavia — come è stato giustamente rilevato68 —,

«nulla toglie alla dignità e importanza della legge che, limitandosi correttamente al piano della garanzia sociale dei comportamenti, per un verso assolve pienamente la sua funzione, per l’altro è in grado poi di influire positivamente sulla stessa realtà sociale dei rapporti, legittimando o scoraggiando la prassi esistente e favorendone altresì l’adeguamento ai modelli prospettati come esemplari».

Analoghe considerazioni possono compiersi per i rapporti fra genitori e figli. Un giudizio negativo merita Il modello fortemente autoritario adottato nella prima parte del secolo; esso si prestava infatti ad essere utilizzato più per reprimere che per promuovere la persona e svilupparne la coscienza critica necessaria per permettere al giovane di affrontare adeguatamente le problematiche future della vita di adulto. D’altra parte anche alcune moderne concezioni che tendono a rimettere interamente al minore le scelte di vita che in concreto è in grado di compiere appaiono insoddisfacenti. Il problema infatti è proprio quello di stabilire quando un giovane possa dirsi pienamente maturo e consapevole per fare scelte in assoluta autonomia prima dei 18 anni. In linea di principio, a mio avviso, ciò è da escludere perché il minore va considerato persona ancora in formazione onde il ruolo educativo dei genitori non può venir meno del tutto ma deve invece indirizzarsi maggiormente su binari propositivi e di consiglio piuttosto che di controllo e imposizione. Ciò non toglie peraltro che, quando è messa in pericolo l’esistenza stessa o l’integrità fisica e morale del giovane, possano considerarsi giuridicamente ammessi anche interventi più incisivi per evitare pregiudizi irreparabili. Compito dei genitori è, infatti, quello di condurre il figlio al compimento della maggiore età nella condizione di poter esercitare,

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M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, cit., 27.


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questa volta sì da solo (ma senza comunque essere lasciato solo), tutte le scelte che la vita impone. Scelte senza ritorno compiute durante la minore età, costituirebbero allora abdicazione dei genitori al ruolo educativo, quello di condurre il figlio a varcare la soglia della maggiore età essendo in grado — come diceva efficacemente Lord Baden Powell — di guidare da sé la propria canoa.


EROS E THANATOS NELLE DIPENDENZE DA DROGHE

FRANCESCO FURNARI*

Il nostro studio, partendo dalla esperienza clinica e dalla ricerca in un contesto di lavoro quale quello delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti in confronto costante con i servizi per le tossicodipendenze della nostra zona etnea e della Sicilia, presenta i risultati del lavoro e delle ricerche sul campo con le riflessioni conseguenti, inquadra le dipendenze prendendo lo spunto da un contesto mitologico, quale quello di re Artù, che sta all’inizio della modernità formatasi in Europa nei primi tre secoli del millennio passato .

l. Artù nell’Etna come metafora della dipendenza Partiamo dall’assunto che la dipendenza1 non è una sostanza, un oggetto, una cosa che si ha, come si ha un vizio, una malattia, un’idea; e nemmeno è una tendenza o un’abitudine che si possiede, qualcosa di

*

Dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per le riflessioni psichiatriche sulle dipendenze, cfr TH. MILLON - R.D. DAVIS, Disorders of personality DSM-IV tm and Beyond, New York 19962. Sul significato della dipendenza: cfr S. PEELE, The meaning of addiction. Compulsive experience and its interpretation, Lexington, Mass.1985. Per la storia dei contributi e delle riflessioni psicologiche, psicoanalitiche e psicoterapeutiche: cfr A. LUCCHINI ( Ed.), Psicoterapia delle tossicodipendenze e dell’abuso di sostanze, Milano 2000; J. BERGERET M. FAIN - M. BANDELIER, Lo psicoanalista in ascolto del tossicomane, Roma 1983; L. 1


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intrinseco e già dato all’individuo per propria carenza o costituzione, ma un’azione organizzata e significativa nel tempo. Per non andare molto in là nel tempo, cercando le origini dell’instaurarsi del processo di dipendenza, ci possiamo soffermare, almeno per quanto riguarda il nostro contesto culturale siciliano, ai primi secoli del secondo millennio, periodo in cui circolava, importata dai Normanni, la leggenda di Artù nell’Etna2. CANCRINI, Quei temerari sulle macchine volanti, Roma 1982; S. CIRILLO e Altri, La famiglia del tossicodipendente, Milano 1996; P. RIGLIANO, Famiglia e tossicodipendenza, Roma 1993; V. GUIDANO, La complessità del sé, Torino 1988; A.T. BECK, Cognitive therapy of substance abuse, New York 1993; CH.E. DODGEN - W.M. SHEA, Substance use disorders. Assessment and treatment, San Diego 2000; G. EDWARDS - CH. DARE (Eds.), Psychotherapy, psychological treatments and the addictions, Cambridge 1996; M. GALANTER, Network therapy for alcohol and drug abuse, New York 1999. Sotto l’aspetto psico-sociologico: cfr A. PALMONARI, Processi simbolici e dinamiche sociali, Bologna 1988; L. BERZANO - F. PRINA, Sociologia della devianza, Roma 1995. 2 L’inizio della storia è simile in tutte e tre le varianti finali in cui ci è pervenuta nelle versioni di Gervasio da Tilbury, di Cesario di Heisterbach e di Stefano di Borbone. La leggenda narra di un palafreno del vescovo di Catania che pascolava felicemente con la mandria sulle pendice dell’Etna che, preso da lascivia, si stacca dalla mandria e si allontana. Il palafreniere accortosi dell’assenza del cavallo, lascia il resto della mandria e cercatolo invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, entrò nel cavo tenebroso dell’Etna, per un sentiero angustissimo giunse in una campagna assai spaziosa e gioconda e piena di ogni delizia; e qui in un palazzo di mirabile fattura trovò Artù adagiato su un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece restituire al garzone il cavallo perché lo tornasse al vescovo, e narrò come ferito anticamente in battaglia e avendo perso i suoi compagni, stesse in quel luogo recondito portato da Morgana, dove riposava in solitudine per riprendersi dalle ferite in attesa di ritornare dai suoi cavalieri, ma le ferite si riaprivano periodicamente non potendo così più riunirsi al suo gruppo. La variante finale nella versione di Gervasio aggiunge che Artù restituisce il cavallo inviando dei doni al vescovo che è preso da stupore. (È quando noi si parla in negativo dei gruppi assenti, lamentandoci del passato, quasi a rinnegarlo mentre si elogiano persone e gruppi presenti). La variante finale nella versione di Cesario afferma che Artù mandò il garzone con l’ordine di raccontare, pena la morte, al padrone (vescovo) quanto aveva visto, con l’obbligo al padrone di presentarsi entro quattordici giorni pena la perdita di tutta la mandria e la sua morte. (Sembra che i siciliani vivano da sopravvissuti: si è colpevoli se si è senza padre. Il pianto e il lutto delle donne — madri per la perdita del maschio — marito. Le invasioni, le conquiste, la colonizzazione che tolgono di mezzo gli uomini, lasciando le donne soli coi figli a lottare per la sopravvivenza in una società senza padri).


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Questa leggenda, come afferma il Graf3, «presuppone sentimenti, credenze, fantasie che i siciliani non potevano avere […]. Chi poneva re Artù nell’Etna doveva sentirsi legato a lui da vincoli particolari […]». Come mai Artù, che per salvarsi dalla morte era stato portato da Morgana nell’isola di Avalon, viene fatto emigrare o, comunque, portato nell’Etna? Forse, perché il vulcano rappresentando un luogo mitico, un’origine, un utero ne poteva garantire una misteriosa rigenerazione? Artù ferito, così come tanti altri feriti: naufraghi, viaggiatori, mercanti, conquistatori, colonizzatori, porta con sé nell’Etna il suo gruppo assente in attesa di rigenerazione. La Sicilia è una terra troppo piena di assenze non elaborate e non riconosciute. Questo attraversamento senza elaborazione ha bloccato il rapporto del siciliano con il gruppo, l’istituzione, la società provocando un comportamento di tipo autistico-narcisistico. Non riconoscere il condizionamento prodotto dai vari gruppi assenti ha avuto come conseguenza l’instaurarsi inconsapevole dell’assunto di base dell’omertà. I gruppi assenti o si esportano con l’emigrazione, o si subiscono, e in Sicilia e nei siciliani prolificano queste esperienze, o si riparano. L’ultimo sembra essere il processo più sano. Gli altri, invece, hanno portato alla scissione producendo processi di devianza sociale. È significativo il fatto che la Sicilia ha ricevuto in dono dai suoi conquistatori, e da tutti quelli che l’hanno attraversata, le culture più importanti di tutte le civiltà e che l’unica cultura autoctona che ha saputo costruire è stata quella mafiosa, che è appunto piena di tanti gruppi assenti. L’individualismo siciliano è il sintomo di un’eccessiva presenza non elaborata di questi gruppi assenti, facendo sì che l’isola non diventi o non

La variante finale della versione di Stefano dice che Artù ordina al padrone (vescovo) di presentarsi assieme a tre usurai in quella caverna, dove erano apparecchiati quattro letti. Invece verranno rapiti da quattro cavalli neri e portati all’inferno. (Spesso noi neghiamo il gruppo ideale, nato dal desiderio, allevato nella illusione e corroso dall’attesa. La mancanza naturale è sostituita dalla magia infernale. In questi momenti si è disposti a scendere a patti anche col diavolo pur di fare nascere una cosa impossibile). 3 A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del medioevo, II, Roma 1989, 179.


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possa mai riconoscersi come arcipelago, vivendo la sua singolarità non pensata, perché manca l’informazione di ritorno dell’assenza4. In questo contesto di riflessioni, la dipendenza viene ad essere sia variabile dipendente, come frutto degli atteggiamenti di omertà che tendono, poi, ad istituire una cultura mafiosa, sia come variabile indipendente, come causa che innesca tutto il processo omertoso-mafioso, come frutto dell’impotenza ad instaurare rapporti soddisfacenti con il seno materno percepito e vissuto come ansioso, protettivo e controllante. Possiamo, allora, considerare la dipendenza come una struttura circolare di relazione tra le persone e l’oggetto di dipendenza. Come tutte le strutture di relazione, la dipendenza è creatrice di significati e di senso per tutti quei soggetti che attorno ad essa costruiscono la propria esistenza. È una tappa di un percorso, snodo che porta a un qualche obiettivo visto e vissuto come positivo e degno di essere perseguito. Questa struttura di dipendenza è in grado di aggregare differenti processi e organizzazioni, costruendo un sistema più complessivo, il sistema socio-culturale della dipendenza, di cui è un nodo estremamente importante non solo uno dei nodi della vasta rete di significati e di pratiche, di relazioni e strutture comportamentali e sociali, che a loro volta rinforzano quel preciso punto di intersezione. La dipendenza appare, allora, come il punto centrale di una mappa differenziata, in cui anche gli altri nodi o luoghi hanno massimo significato. Tra i nodi e luoghi possibili, quali fuga-persistenza5, rischio-sicurezza, sfidaaccettazione, potere-schiavitù, adolescenza-adultità, apertura-chiusura, le nostre riflessioni soffermeremo su quello morte-vita. È proprio delle esperienze di dipendenza, come rito individuale, storicamente condizionato, richiamare in causa l’esperienza del religioso, del sacro, del simbolico, dell’esperienza altra. Anche la tossicodipendenza è un tentativo, a suo modo riuscito, per ridefinire il senso della vita attraverso un confronto estremo che chiama in causa la possibilità della morte.

4

Cfr R. ROMANO, Artù nell’Etna e gruppo assente, in Koinos XIII/1-2 (1997) 21-30. Cfr A. CASTOLDI, Il testo drogato. Letteratura e droga tra ottocento e novecento, Torino 1994. 5


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Il rapporto di dipendenza e cronicità sta nel diverso modo di vivere il tempo. Se il tempo è ciò in cui il significato diventa senso, proprio esso subisce una per-versione radicale, giacché la persona persegue una irraggiungibile modificazione di sé, che però riporta sempre al passato. In questa fuga verso un futuro immaginifico, da cui si ricada verso un passato che non passa, la persona si installa, in questa spola che è la dipendenza, in un infinitesimo presente come un’istante perennemente vuoto, senza memoria e senza crescita, che tende a imporsi all’infinito: autoconferma, profezia che si autoavvera, tautologia. La dipendenza imballa questo rapporto, lo reifica e lo isterilisce. La dipendenza è così il risultato dell’incrocio tra il potere che la sostanza ha in potenza e il potere che quella persona è disposta ad attribuire alla sostanza. Una giusta riflessione sulla dipendenza rifiuta ogni forma di determinismo,con la sua pretesa semplificatrice di stabilire dei legami lineari tra una o più cause e l’effetto dipendenza. Bisogna muoversi nella logica dei sistemi complessi e della circolarità tra causa ed effetto6. Da questo punto di vista la dipendenza può essere vista come attrattore che organizza intorno a sé un gioco di relazioni fra dinamiche mentali e affettive del soggetto e dinamiche sociali e culturali. Dipendenza è quella relazione tra una persona e un oggetto, caratterizzata da esclusività e accettazione del pericolo, un riconoscimento del limite ed estremizzazione simmetrica, che successivamente derivano da un’interpretazione di sé, dopo l’incontro con l’oggetto, come assolutamente positivo e migliore di prima. La dipendenza è così solo l’estremo cortocircuito delle possibilità di rapporto attraverso cui ognuno costruisce, tramite la ricorsività che lo lega agli enti significativi, senso e valore del proprio essere nel mondo. Laddove i legami sono molteplici e dispersi con confini elastici e cangianti, nella dipendenza sono rigidissimi ed esclusivi, impermeabili e violentemente reiterati, indifferenti a tutto il resto. L’estremo limite della dipendenza è raggiunto quando esiste un mondo duale ed esclusivo, che tende a essere puntiforme: tutto è stato 6 Cfr G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, Milano 1976; ID., Mente e natura, Milano 1989.


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espulso, niente altro più conta, altre relazioni non funzionano. La storia è stata abolita: c’è solo un presente ripetuto e infinito, il contesto non esiste più e la globalità della persona si riduce a una dualità asfittica. C’è invece un processo di rimpicciolimento e atrofizzazione dell’Io, che si ritira dal corpo e dall’immagine corporea, dall’immagine pubblica e dai vincoli sociali. Allora la persona è pronta alla morte, perché tutto il resto è già morto come significativo: vivere può volere dire solo vivere per la morte. La riduzione alla dualità si ha perché si cerca, tramite l’identificazione della persona con l’oggetto della dipendenza, di abolire la differenza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere per sempre. La dualità esclusiva mira infine alla coincidenza assoluta tra persona e oggetto della dipendenza. È la volontà di immedesimazione totale, una pretesa di identità laddove è maggiormente sperimentata l’alterità insopprimibile e insopportabile.

2. Ricerche sul campo ed esperienza clinico-educativa Il processo di sostituzione del principio del piacere con il principio di realtà o dei sentimenti e mete pulsionali con sentimenti e mete più congruentemente e ragionevolmente reali sono una evoluzione dell’umanità. Questa evoluzione continua ancora oggi nell’ambito delle organizzazioni di massa, solo che oggi — a differenza da quanto Freud teorizzò questi concetti, sono mutate le condizioni politico — economiche e sociali ed ambientali. In questa cosiddetta civiltà del consumismo e di massa, i meccanismi di sostituzione vanno incontro a vicissitudini patologiche di singoli e di gruppo o patologia sociale, vere e proprie sociopatie. Stiamo avvertendo grosse situazioni di sofferenza, per i danni provocati da un accelerato e dissennato svolgersi dei processi di socializzazione, soprattutto nei ragazzi e nei giovani. Sembra che si stanno creando dei modelli di massa i quali possono suscitare nei giovani comportamenti estremizzati di ferocia o di entusiasmo che non è paragonabile ai modelli culturali classici o delle comunità, in


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quanto quelli di massa sono la risultante di una modalità e di un montaggio di pensieri, di idee e di emozioni che si sviluppano in un sistema pluridimensionale. La massa è diventata e sta diventando sempre di più un sistema in cui è possibile vivere, godere, possedere e comunque agire in senso massimizzante, generalizzante, invasivo, perché le tensioni sociali, non più regolate da interesse e limiti individuali, si moltiplicano esponenzialmente e richiedono azioni proporzionali. La massa crea così uno Stato di massa i cui modelli e le cui dinamiche sono ancora poco noti. I giovani che prima o poi vengono coinvolti in questi fenomeni di massa, che possono essere il segno di una enorme difesa paranoica, sostituiscono il movimento interno di se stessi con il movimento tentacolare della massa in cui si immergono; sostituiscono la fantasia interna di un prodotto proprio con la fantasia di un prodotto di massa; l’odio, la persecutorietà verso un seno cattivo o verso un fratello, con un odio estremizzato e massimizzato da un’emozione altrettanto ampia, indefinibile, illimitata di una massa. Anche lo Stato di massa esige un adattamento che metta in azione tutte le risorse del giovane, il quale deve purtroppo rinunciare alla sua individualità, alla sua identità. Nella realtà di oggi, il giovane può “massificarsi”, cioè può prendere una posizione la cui base arcaica rimette in moto ansietà ed emozioni non più finalizzate a se steso come individuo, ma a se stesso come massa. Ne deriva che la relazione con gli oggetti è molto variabile, temporanea, insoddisfacente, da cui un desiderio continuo di nuovi oggetti da ottenere in qualsiasi modo: appropriazione, furto… Danno grave anche dell’Io piacere e dell’Io realtà, perché le tensioni di massa esaltano la ricerca del piacere e della realtà, che nella droga trovano una soddisfazione massima anche se brevi e devastante con l’ultima forma della morte, la quale viene vista come meno grave del vivere la vita, perché meno pericolosa e frustrante per il proprio narcisismo, perché vivere significherebbe riappropriarsi della propria soggettività e, quindi, di una memoria non riproduttiva e ricorsiva, ma creativa, ricostruttiva e riparativa per riappropriarsi del vivere etico della dimensione spaziotemporale del presente.


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Come afferma il Mc Dougall7, la patologia del tossicodipendente si radica su «una patologia nella maturazione normale dei fenomeni transizionali»: l’oggetto transizionale non ha assolto la sua funzione di ponte tra il me e il non-me, realtà interna ed esterna e non ha permesso così il passaggio successivo di interiorizzazione stabile dell’oggetto mentale materno. Per difficoltà di integrazione dei due aspetti del seno buono e cattivo materno (superamento della posizione depressiva) e per la difficoltà di elaborazione del lutto collegato con la perdita-abbandono dell’oggetto (l’immagine interna della madre non essendo consolidata non lo aiuta a consolarsi della assenza dell’oggetto tramite la sua rappresentazione mentale). Questa incapacità di rappresentazione denota l’incapacità di contenere l’angoscia nel proprio spazio mentale, per cui si ricorre all’atto-sintomo. In altri termini il pensiero del tossicodipendente viene a configurarsi come di tipo operatorio e non simbolico. La droga rappresenta il possesso del seno buono e assume l’aspetto di un oggetto transizionale con la purtroppo fondamentale differenza che gli «oggetti di addiction sono transitori, sempre da ricercare e da ricreare perché sempre esterni a sé»8, mentre quelli sono oggetti in via di introiezione e poi di identificazione. Questo meccanismo di transitorietà si ripete in ogni relazione che il tossicodipendente instaura con le persone: relazione con persone — oggetti — parziali, dalle quali ci si aspetta di ottenere il soddisfacimento del proprio insaziabile desiderio. L’Altro viene reso depositario, così come la sostanza, della funzione di «oggetto benefico»9 che deve colmare il grande buco interno del soggetto. Il bisogno di mantenere a tutti i costi l’illusione del perpetuo soddisfacimento inchioda il tossicodipendente alla coazione a ripetere autodistruttiva. In una nostra ricerca10, dove sono stati somministrati due tests proiettivi di personalità, quelli del Rorschach e del Blacky Picture, dove si 7

J.MC DOUGALL, Teatri dell’io, Milano 1989, 48. L.c. 9 Ibid., 51. 10 Cfr F. FERRARI - S. GAIO, F. FURNARI - G. FUSARI - F. SAMBATARO, Identità e destrutturazione dell’identità nei tossicodipendenti, in Il Vaso di Pandora VIII/3 (2000) 61-71. 8


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mettevano a confronto 45 tossicodipendenti e 45 “normali”, il risultato è apparso sconvolgente e inatteso. I dati delle tabelle con quelle di precedenti ricerche sul campo11 sono pressoché sovrapponibili, ma la cosa più eclatante è che le caratteristiche individuali come descrittive della tossicomania degli autori classici (come narcisismo, per esempio) sono sì presenti nel nostro gruppo sperimentale di tossicodipendenti, ma lo sono anche in percentuale uguale, se non addirittura maggiore, nel gruppo di controllo. A cambiare sembrano essere non la categoria dei tossicomani ma la gioventù in generale, che diventa sempre più fragile, più anonima, più di massa. Il meccanismo di difesa dominante sembra essere quello della “Principalizzazione”, cioè quello dell’isolamento, della intellettualizzazione, razionalizzazione che esprime l’affetto dopo averlo separato dal suo contenuto cercando di sfuggire, e quindi facendo una potente opera di trasformazione nel contrario di ciò che si vive, alla presa di coscienza della responsabilità, pur di mantenere relazioni simbiotiche e non differenziate. A un campione di 320 soggetti tossicodipendenti è stato applicato il questionario Defence Mechanisms Inventory di Ihilevich e Glaser12 per rilevare i meccanismi di difesa utilizzati come risposta ai conflitti. L’obiettivo della ricerca era quello di impostare, dai risultati empirici ottenuti, un ambiente educativo e un conseguente metodo terapeutico nella comunità di recupero, per orientare ed accompagnare le persone che hanno sofferto di queste esperienze traumatiche e distruttive, al fine di dare un senso alla vita e alla sofferenza nel contesto della logoterapia di Frankl13

11

Cfr N.B. FAGIANI - V. FORNARI, Personalità di base e destinazione psicotica nei consumatori abituali di droghe, in Annali di fregniatria e scienze affini 89 (1976) 311-332. 12 Cfr D. IHILEVICH - G.C. GLASER, Defence mechanisms. Their classification, correlates, and measurement with the Defence Mechanism Inventiry, Ossowo, MI, DMI Ass., 1986. La ricerca è stata condotta su un campione di soggetti tossicodipenti di varie comunità terapeutiche della Sicilia: “Sentiero Speranza” di Biancavilla; “Terra Promessa” di Caltanissetta; “F.A.R.O.” di Messina; “Il Sentiero” di Catania: Cfr F. FURNARI - A. PALAZZO - F. SAMBATARO, Meccanismi di difesa: variabili per il processo di recupero, in Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo XXIII/1 (2000) 39-43. 13 Cfr V.E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia 1977; G. FROGGIO, Il contributo dei modelli esistenziali alla descrizione e al trattamento delle tossicodipendenze giovanili, in Orientamenti Pedagogici XXXIII/1 (1986) 114-135; Id., Devianze, disagi sociali


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nell’aiutarli a trasformare le difese dalla angoscia della morte ad apertura e speranza in una vita più piena di senso. I risultati hanno messo in evidenza l’inibizione dell’espressione della aggressività. Solo la dimensione PRN14 (p .0185 significativo all’1%) si è dimostrata più consistente su quelle di REV e TAS. A livello educativo-terapeutico ciò indica la strada di come potere impostare interventi al fine di aiutare la persona a strutturare le proprie relazioni interpersonali operando scelte che si muovono dal polo intrapsichico a quello interpersonale. Aiutare la persona ad uscire dal proprio vuoto esistenziale verso l’altro da sé, ad autotrascendersi per approfondire e fondare una vita significativa. Si sono avuti anche punteggi significativi nella dimensione REV (p .0530 significativo al 5%). Ciò si può mettere in correlazione con i risultati nella dimensione PRN. In altri termini, si trasforma nel contrario, cioè si nega in risposta ad oggetti frustranti che evocano risposte negative. I soggetti tossicodipendenti tendono a mantenere coi loro genitori relazioni simbiotiche e non differene logoterapia, in E. FIZZOTTI - R. GARELLI (Edd.), Logoterapia applicata. Da una vita senza senso a un senso nella vita, Brezzo di Bedero 1990, 75-91. 14 Per una maggiore comprensione delle sigle usate nel testo, diamo una breve descrizione dello strumento usato. Le difese vengono raggruppate in cinque classi, in base ai diversi modi di affrontare il conflitto: TAO (= volgersi contro l’oggetto); PRO (= proiezione); PRN (= principalizzazione); TAS (= volgersi contro il sé); REV (= trasformazione nel contrario). Per ogni classe, diamo qui di seguito la descrizione sintetica dei meccanismi di difesa coinvolti (A), del modo di affrontare il conflitto (B) e di come tale conflitto si esprime (C): TAO: A) identificazione con l’aggressore, spostamento; B) attaccare un oggetto esterno attribuendogli intenti o caratteristiche negative. PRO: A) proiezione, B) giustificare l’espressione dell’aggressività; C) attribuendo intenti o caratteristiche negative. PRN: A) isolamento, intellettualizzazione, razioalizzazione; B) si esprime l’affetto dopo averlo separato dal suo contenuto; C) compulsività. TAS: A) masochismo; B), C) si rivolge l’aggressività contro se stessi. REV: A) diniego, negazione; B) si mettono in atto comportamenti positivi neutrali in risposta ad oggetti frustranti che evocano risposte negative; C) abilità nel controllare le emozioni.


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ziate (REV). Questo entra in relazione col fatto che tali soggetti non accettando se stessi, avendo una bassa autostima, cercano approvazione dagli altri e dalle persone significative in particolare (PRN). Questi risultati potrebbero essere spiegati dall’incapacità, oggi molto diffusa, di fare fronte a particolari compiti di sviluppo dell’età evolutiva adolescenziale dovuta a deficit precoci del sistema autoregolativo del sé. È quello che abbiamo verificato con la correlazione tra tossicodipendenza e pattern di accudimento disfunzionali facendo ricorso alla teoria dell’attaccamento15 e alla teoria della sequenza epigenetica dello sviluppo del sé16, applicando il PBI nella nostra esperienza clinica17. Già sin dai primi momenti di vita, nel bambino si struttura un suo attaccamento sicuro alla figura protettiva, generalmente la madre. Tale attaccamento è organizzato da regole che permettono, fra gli altri, il riconoscimento di situazioni di difficoltà e la richiesta di sostegno ad altre figure. Ciò risulta particolarmente difficile ai tossicodipendenti, i quali non dimostrano di essere in grado, affidandosi alla sostanza, di esprimere su un piano socialmente accettabile, né il proprio bisogno di aiuto, né di accettare il supporto di altri. Nell’affidarsi alla sostanza, attraverso una modalità regressiva di riorganizzare il sé su un oggetto esterno, by-passano la percezione del bisogno, alterando le strutture basiche che regolano le emozioni, gli affetti, il comportamento. Dalla nostra esperienza clinica possiamo evincere che i tossicodipendenti si potrebbero caratterizzare per un tipo di legame di attaccamento insicuro, che è direttamente correlato a quello disfunzionale di accudimento

15

J. BOWLBY, Attaccamento e perdita, 3 voll, Torino 1972, 1975, 1983. Cfr L. SANDER, Infant and caretaking environment: investigation and conceptualization of adaptive behavior in a system of increasing complexity in E.J. ANTHONY, Exploration in child psychiatry, New York 1975. 17 Cfr G. PARKER - H. TUPLING - L.B .BROWN, A Parental Bonding Instrument, in British Journal of Medical Psychology 52 (1979) 1-10 (traduzione e adattamento di T. Scrimali e L. Grimaldi della Clinica Psichiatrica dell’Università di Catania). Nella nostra Comunità, come testing iniziale per la consulenza educativa e clinica, abbiamo applicato, tra gli altri, una sessantina di protocolli del P.B.I., per uno studio di prossima pubblicazione. 16


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delle figure genitoriali, che guida e determina il modello di percezione di sé e degli altri. Il tipo di attaccamento disfunzionale prevalente sarebbe quello evitante, che porta a fare assegnamento su una strategia di esclusione difensiva delle informazioni negative del legame affettivo in atto. Gli affetti negativi di questa esclusione risultano Evidenti dal comportamento dannoso verso se stesso: l’aggressività porta all’alienazione interpersonale o a contrasti con la legge; l’abuso di sostanze compromette la salute e le funzioni cognitive adattive. La principale funzione di Regolazione degli affetti da parte della sostanza consiste nella loro esclusione dal campo cognitivo: si mantiene una visone idealizzata della figure di attaccamento e si rifiuta l’angoscia personale. Come risulta anche da altre ricerche18, possiamo dire che: a) il legame con il padre emerge nei ricordi maggiormente disfunzionale rispetto a quello della madre; b) le madri sono ricordate come meno accuditive e maggiormente controllanti e questo dato aumenta in presenza di comorbidità psichiatrica; c) in presenza di comorbidità, il legame materno risulta assente o privo di affetto; d) i padri sono ricordati per uno stile di accudimento estremamente negativo, caratterizzato da un legame assente o affettivamente poco significativo; e) tanto più i soggetti mostrano clinicamente una sofferenza emotiva tanto più i legami di accudimento si mostrano disfunzionali in termini qualitativi e quantitativi. Concludendo su questo argomento, possiamo dire che l’esistenza di una basica disfunzione nei rapporti parentali inibisce o ostacola lo sviluppo delle capacità autoregolative che appaiono specifiche e caratteristiche sia della tossicodipendenza che dei disturbi di personalità. Possiamo anche ipotizzare che il tipo di accudimento materno, caratterizzato da alto controllo e iperprotezione, e quello paterno, caratterizzato da freddezza

18

Cfr W. MASCETTI, Il comportamento d’abuso e la dipendenza, in G. BARA (Ed.), Manuale di psicoterapia cognitiva, Torino 1996, 551-588; H.A. HOROWIZ e Altri, Comorbid adolesscent substance abuse: a maladaptive pattern of self-regulation in Adolescent Psychiatry 18 (1992) 465-483; W. MASCETTI - E. MARCUCCI, Legame genitoriale e tossicodipendenza:la valutazione dei pattern di accudimento in una popolazione di tossicodipendenti in trattamento, in Quaderni di psicoterapia cognitiva V/2 (1999) 34-47.


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emotiva e assenza, funzionano sinergicamente nell’impedire al bambino uno sviluppo adeguato delle abilità interpersonali che si originano all’interno del sistema di attaccamento e, successivamente, in quello di esplorazione. Ciò ci permette di comprendere che la funzione della sostanza sia quella della ricerca di sensazioni e quella dell’evitamento della sofferenza. La tossicodipendenza si presenta così come un disturbo estremamente complesso, grave, legato a fondamentali e basici deficit di regolazione del sé e del legame con l’altro. I dati che ci provengono dalle ricerche fatte sul campo nelle comunità terapeutiche della nostra zona e della Sicilia in genere e le esperienze cliniche sul campo ci fanno riflettere in modo particolare sulle dipendenze patologiche, sospendendo il gioco delle produzioni concettuali correnti, per attivare un pensiero critico sulle diverse rappresentazioni sociali delle dipendenze. Questa criticità autoriflessiva dovrebbe sottoporre ad analisi e aiutare a prendere le distanze da tutti i rapporti persona-oggetto della dipendenza già dati, garantiti ed imposti come essenziali, per attingere valori, maturità, buona immagine presso di sé e gli altri significativi. Ci si pone oggi la necessità di indagare su un sistema socio- culturale complessivo, di cui quello della dipendenza è parte, che non solo avalla, ma anche pretende e giudica in base al rapporto esclusivo con l’oggetto, con la merce, la cosa; che rimanda circolarmente a uno status, ruolo, potere, a una identità. L’essere è giudicato in base all’apparire; è determinato sempre più dall’avere un rapporto forte, esclusivo, con un oggetto qualificante, in grado di assicurare un altro-Essere. Questi oggetti, a loro volta, non sono qualunque oggetto: ma oggettimetafora, oggetti-simulacro, oggetti che dicono e rimandano alla ipermeccanica, all’immagine, alla potenza estrema, rischiosa, eccessiva, alla sfida, alla provocazione, alla vertigine. Allora le emozioni non bastano più e niente di banale può essere ormai emotivamente appetibile: ci vuole un surplus di forza, di violenza, l’oltrepassamento dei confini, delle regole, dei limiti. Questi sentimenti negativi, che se negativi si trasformano in forze incontrollate e distruttive, si trovano in ciascuno di noi, nella nostra ombra


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che, se appunto rifiutata, rimossa genera un devastante disagio e devianza sociale. Il non riconoscere tutto ciò è il male in cui incappano le istituzioni19. Sarà nella storia di vita e di sviluppo, nella biografia, che è la tecnica educativo-terapeutica che stiamo mettendo in atto nella nostra comunità terapeutica, della persona, come della famiglia, o dei gruppi, che il concetto stesso si delineerà, allargandosi o restringendosi a seconda dei tempi e dei luoghi20. Se non dovessimo precisare dinamiche e definizioni, lo stesso termine dipendenza può risultare un termine “fuorviante per un ragionamento sbagliato”. Faremo come quell’operatore sociale o terapeuta, che vive lo stesso dramma e diventando oggetto della proiezione altrui, diventando ricettacolo, oltre che della sua, dell’angoscia riflessagli dal paziente, può inconsciamente tentare di eludere tale angoscia attraverso l’agito inducendo nel paziente un processo di cortocircuitazione, colludendo con i suoi meccanismi di difesa assumendosi il ruolo di terapeuta onnipotente che può risolvere le dipendenze dalla sostanza sostituendosi ad essa, anziché pensare criticamente e mentalizzare e accettare l’angoscia legata alla morte simbolica. Una lettura psicoanalitica del problema della dipendenza, inquadrandola in un quadro epistemologico di sistemi complessi, che individui nel ripetersi di nascita e morte la chiave del processo di formazione dell’identità, scorge nelle tossicodipendenza l’incapacità da parte della persona di fare i conti con la propria ontologica mancanza, di integrare il limite e la morte nella propria esistenza, di assumere la propria mediocrità lasciandosi alle spalle sentimenti di onnipotenza e nostalgie di un paradiso perduto. Questo ripetersi di nascita e morte è un’immagine che ci rimanda alla formazione del processo di identità. Nella nostra crescita ci dobbiamo, infatti, confrontare con molteplici immagini riflesse come in un labirinto di specchi, dove ci possiamo perdere e ritrovarci una infinità di volte. È il

19

Cfr C. BONVECCHIO - C. RISÉ, L’ombra del potere. Il lato oscuro della società: elogio del ‘politicamente scorretto’, Como 1998. 20 Cfr D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano 1996; ID., Protetti dalle nostre parole, in AA.VV., Il libro della cura, Torino 1999; S. FERRARI, Scrittura come riparazione. Saggio sulla letteratura e psicoanalisi, Bari 1994; M. FOUCAULT, La cura di sé, Milano 1993.


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confronto tra l’immagine ideale di sé e quella reale. Ogni confronto richiede dal soggetto capacità di sopportazione della frustrazione che lo scarto tra come pensiamo di essere e di volere essere e quello della immagine reale così come vista dagli altri, dallo sguardo dell’altro porta — come principio della realtà — necessariamente con sé21. Nascita e morte sono anche componenti essenziali del narcisismo che, quando è sano (eros), porta alla creatività, alla originalità, alla imprevedibilità, quando è patologico (thanatos), invece, alla distruttività, alla morte. La crescita è un cammino sempre faticoso e in costante pericolo di cadute e ricadute, nello sforzo continuo di integrazione tra le due dimensioni fondamentali della vita: quella verticale, ricerca dell’ideale e tensione verso l’alto, e quella orizzontale, legata alla socialità, alla terra, alla finitezza. Il processo di crescita è un faticoso cammino di elaborazione del lutto come frustrazione conseguente all’accettazione del limite simbolico: la morte. Il codice ontologico del soddisfacimento permea ogni atto della vita umana. La crescita è invece, e propriamente, l’elaborazione di questo lutto: riuscire a prendere coscienza dell’impossibilità di colmare la mancanza. Come la storia biblica ci insegna, l’uomo non può cogliere il frutto proibito seno-buono, fonte solo di piacere, senza essere condannato a vivere eternamente agli inferi, perché non può aspirare a diventare onnipotente come Dio. È il significato della malattia-ferita di Artù e del viaggio di Parsifal alla ricerca del Graal. Il Graal serve se ci si mette al servizio di Dio e del proprio Sé e dell’altro, non restando chiusi in se stessi, nella propria narcisistica onnipotenza. Dietro il mito di Artù che è alla base della nostra modernità, che ci ha fornito una tecnologia del sapere e del potere, ci sta la Parola sempre antica e sempre nuova di Gen 2,15. In Gen 2,15 si dice che il «Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino affinché lo coltivasse (abad) e lo custodisse (samar)». Abad significa servizio alla e della terra, ma anche servire al tempio, cioè celebrare il culto, la lode al Creatore. Adam non viene creato solo per

21

Cfr H. MATURANA - F. VARELA, L’albero della conoscenza, Milano 1987.


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Francesco Furnari

servire il giardino, ma anche per vigilare e per osservare e custodire (samar) responsabilmente e fedelmente il giardino come fedeltĂ alla vita, alla vocazione che gli viene dal suo essere a immagine e somiglianza di Dio.


LA VIOLENZA DEI MINORI

GIACOMO PACE*

Quando ho scelto il tema di questo intervento i media erano attenti esclusivamente alla violenza sui minori, e la violenza dei minori sembrava lontana. Si tratta solo di una rimozione: ciclicamente la violenza dei minori torna alla ribalta, e mai, credo, come in questo momento, un tale tema è stato così attuale in Italia. Quotidianamente i programmi televisivi sono affollati da esperti psicologi e sociologi che trattano dell’argomento. E forse è giunto il momento di meditare sul problema da giuristi. Un secolo si è appena chiuso: ma poco prima che si aprisse, un avvocato modicano, Nicolò Pinsero, pubblicava sulla prestigiosa rivista “La Scuola Positiva” un articolo “Sulla punizione dei delinquenti minorenni”1. L’osservazione della difficile realtà siciliana a cavallo tra Otto e Novecento induceva il giurista di Modica a criticare aspramente le disposizioni del Codice Zanardelli, auspicando contro «i fanciulli delinquenti» in cui «riscontrasi il germe della pazzia morale o il tipo del delinquente nato e incorreggibile» l’eliminazione perpetua dalla società, rinchiudendoli in case di correzione o di educazione o in colonie agricole a tempo indeterminato. Pinsero chiedeva inoltre di evitare disposizioni generali e vuote, affidando al prudente arbitrio del giudice la scelta della forma di repressione più adeguata; proponeva infine una nuova scansione delle età: dai sette fino *

Della Facoltà di Giurisprudenza. N. PINSERO, Sulla punizione dei delinquenti minorenni, in La Scuola Positiva 3 (1893) 1060-1070. 1


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Giacomo Pace

ai quattordici anni, la sottoposizione ad un «regime speciale educativo e correttivo», dai quattordici ai ventiquattro, potere per il giudice di adattare al delinquente il provvedimento più opportuno; dopo i ventiquattro anni le forme generali di repressione stabilite per gli adulti. L’intervento di Pinsero è tutt’altro che banale. Pienamente inserito nella temperie positivistica del suo tempo, segna alcuni punti importanti, senza appiattirsi sulle tematiche lombrosiane, alle quali tuttavia paga un forte tributo nelle prime pagine. Pinsero si distingue non certo per la proposta di sanzioni a tempo indeterminato o per l’attenzione verso i fanciulli che già mostrano il tipo del delinquente nato o incorreggibile, né per l’uso di case di educazione o colonie agricole: queste idee troveranno corpo nella tardiva summa della Scuola Penale Positiva, quel progetto di Codice Penale del 1921 che prende il nome da un giurista certo più noto di Pinsero, Enrico Ferri. L’originalità di Pinsero sta nella rivalutazione dell’arbitrium iudicis riguardo alla scelta della forma di pena da applicare, e alla possibilità di adottare per il giovane delinquente il provvedimento più opportuno. Ma forse la proposta più interessante dell’avvocato della Contea è quella di ridisegnare le età dell’uomo, giungendo a considerare la minore età fino ai 24 anni compiuti. Le proposte di Pinsero rispecchiavano un mondo di devianza minorile legato a condizioni di vita difficili, ad una violenza urbana e rurale che oggi consideriamo (con una alzata di spalle) microcriminalità, una infanzia segnata positivisticamente da crudeltà, vendetta, oscenità, rabbia, gelosia, menzogna2. Al di là della patina lombrosiana Pinsero toccava una corda ancestrale della considerazione della minore età: quella violenza insita nel bambino, che segna una alterità irriducibile, una natura istintuale, una crudeltà, che nella nostra società in cui la violenza è diminuita rispetto al passato ci sembra assolutamente insopportabile e incompatibile con la nuova etica del minore, che lo presuppone vittima e non carnefice.

2 Cfr ad es. C. LOMBROSO, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alle discipline carcerarie. Ho utilizzato la riduzione di Gina Lombroso, condotta sull’ultima ed. 1897-1900, Torino 1924, 21-28, 297-302.


La violenza dei minori

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E qui lo scritto di Pinsero fa da spartiacque ideale tra due secoli. Proprio questo nostro tempo, in cui dovremmo segnare le differenze con un passato meno ‘evoluto’, registra invece una escalation di episodi di inaudita violenza minorile. Oggi trattando questo tema non possiamo rifugiarci nelle comode nicchie della storia, per parlare solo di un tempo ormai trascorso e quindi rassicurante. Ciò che accade in questi giorni ci coinvolge tutti troppo, per rimanere sulla comoda poltrona dello studio a riconsiderare vecchi sistemi. Non posso non vedere nei recenti casi di parricidio che hanno scosso molte nostre certezze l’ombra antica e inquietante di Pierre Rivière. Il protagonista di questa sconcertante vicenda del 1835, che massacrò madre e fratelli a colpi di roncola, un contadino normanno semianalfabeta, autore di una stupefacente memoria lucida e precisa, è il personaggio centrale di un libro curato da Michel Foucault, che ha segnato una certa storia del diritto penale e la considerazione di devianza e delitto nell’era borghese3. La lettura foucaltiana faceva di Rivière un disadattato, un frutto dell’emarginazione, della povertà e dell’ignoranza, e della frantumazione dei valori contadini seguita al trionfo della borghesia. La memoria di Pierre poi si può anche considerare — al pari di alcuni romanzi francesi — una prova del crudele gioco economico a cui il Code Civil sottopose quel che rimaneva della società premoderna, costringendolo a sottostare alle ferree regole dettate dall’art. 544. Il parallelismo poi tra parricidio e regicidio segnava la sorte processuale di Pierre. I parricidi del nostro tempo appartengono invece alla borghesia, forse anche alla buona borghesia. Non provengono da ghetti o periferie, non sono ignoranti, non possiamo — lombrosianamente — riconoscere in loro le stigmate del male inscritte in una fisicità dolente. Ragazzi normali, come tanti, come gli altri che oggi continuano a riproporci storie di quotidiana violenza. La nostra inquietudine deriva proprio da ciò, dal non potere più riconoscere il facile marchio della devianza — anche se vi è ancora chi non si è arreso, e cerca ancora le stigmate del male —.

3 M. FOUCAULT (a cura di), Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo, Torino 1976.


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Giacomo Pace

Un altro grave problema è quello delle fasce di età: non penso più si possa ancora fideisticamente credere in età date e certe. Quelle della responsabilità penale sono tutt’altro che confini sicuri: i 14 anni sono stati scelti dal ministro Rocco per il legame fisiologico con la pubertà, barriera primitiva, di origine antichissima, che collega la responsabilità alla capacità di generare4; i 18 anni invece derivano attraverso una lunga strada dal diritto dell’antico regno napoletano, mediato poi dal Codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1819 e da questo consegnato al Codice Zanardelli5: e probabilmente il raggiungimento della maggiore età penale è esso stesso un rito di passaggio6. Come si vede età non certo date ma arbitrariamente create: e proprio in questi giorni il Procuratore della Repubblica di Latina ha chiesto di abbassare il limite della minore età da 18 a 16 anni — età già individuata peraltro dal Codice Penale rivoluzionario del 1791, probabilmente sulla base di un rito di passaggio, la festa della presa d’armi, da ricollegare ai liberalia romani7—. Dovremmo a questo punto guardare con più attenzione alle lontane parole di Pinsero, e riconoscere che probabilmente il limite è più fluido, la fascia grigia più ampia, e ammettere che forse fino ai 24 anni non vi è piena responsabilità. Altro punto dolente: la responsabilità è tuttora collegata alla categoria della capacità di intendere e di volere, ormai in crisi irreversibile, svuotata com’è di ogni pretesa scientifica, pretesa in cui credevano fideisticamente il ministro Rocco e i suoi commissari8. È tempo di tirare le somme: dovremmo rivalutare, nel campo della responsabilità penale del minore, come in tutti quelli che tentano di indagare troppo da vicino l’insondabile psiche umana, l’accorto arbitrium 4

G. PACE, Il discernimento dei fanciulli. Ricerche sulla imputabilità dei minori nella cultura giuridica moderna, Torino 2000, 167ss. 5 Ibid., 46ss, 63ss, 109ss. 6 Sui riti di passaggio cfr il fondamentale volume di A. VAN GENNEP, Les rites de passage, Paris 1909, trad. it. I riti di passaggio, Torino 1981; M. MITTERAUER, I giovani in Europa, cit., 63ss, 77; G. LEVI - J.C. SCHMITT, intr. a Storia dei giovani. I. Dall’antichità all’età moderna, a cura di G. Levi - J.C. Schmitt, Roma-Bari 1994, X. 7 G. PACE, Il discernimento dei fanciulli, cit., 38-39. 8 Ibid., 176.


La violenza dei minori

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di un giudice specializzato, provvisto di cognizioni particolari e la cui preparazione sia «mirata» alla comprensione dei minori come una valvola che permette di avvicinarsi a soluzioni accettabili. E probabilmente in questo senso l’antico discernimento può riproporsi come un parametro utile, nella crisi della capacità di intendere e di volere, per stabilire l’imputabilità dei minori nella misura in cui venga utilizzato intelligentemente, per il suo ruolo «positivo» di indagine scrupolosa sul giovane autore di un reato, e non in funzione meramente repressiva. Di capacità di discernimento peraltro si inizia a parlare nella civilistica come di misura della capacità di agire del bambino, e credo ciò non sia senza significato9. L’antico discernimento eliminato dal codice Rocco, è rientrato dalla finestra in questa età di maggiore attenzione verso le problematiche minorili, connotandosi ancora come un parametro specifico di considerazione dell’inseità del minore. Dovremmo prenderne atto e ricollocarlo nella sua originaria sfera penalistica.

9 P. STANZIONE, Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Napoli 1975, specie 260ss; cfr anche ID., voce Capacità. Diritto privato, in Enciclopedia Giuridica Treccani, V, Roma 1988, pubbl. anche in G. AUTORINO - P. STANZIONE, Diritto civile e situazioni esistenziali, Torino 1997, 39ss: 97-98; ID., Interesse del minore e statuto dei suoi diritti, in G. AUTORINO - P. STANZIONE, Diritto civile, cit., 161ss.



SOPRAVVIVENZA QUOTIDIANA: OSSERVAZIONI SULLA VITA DI UN QUARTIERE POPOLARE

COSIMO SCORDATO*

0. A quale domanda rispondere? Prima di proporre la nostra riflessione, riteniamo opportuno tentare di chiarire preliminarmente almeno le due principali accezioni del titolo del presente Convegno. a. L’espressione cultura “della morte” è entrata ormai nel linguaggio corrente per designare un’epoca, un frammento di storia, una situazione in quanto portano alla morte; per esempio, si può affermare che il sistema dell’associazione mafiosa include nel suo percorso la morte (uccisione) di coloro che vi si oppongono; oppure, si può pensare che il sistema filosofico del nichilismo porta ad una svalutazione della vita in forza della quale il vivere o il morire diventano la stessa cosa1; e così via. b. Quando usiamo l’espressione “cultura” della morte e della vita, l’attenzione si sposta sul sistema culturale; in questo senso si tratta di ricostruire temi, modelli, istituzioni, abitudini di una cultura nel riferimento alla morte e alla vita; in altre parole, si tratta di capire quale sia il senso e *

Della Facoltà Teologica di Sicilia. Non ci stiamo impegnando a dare una compiuta valutazione della mafia o del nichilismo, ci limitiamo soltanto a sottolineare il senso che l’espressione cultura “della morte” assume nel riferimento a questi fatti culturali, sociali… 1


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Cosimo Scordato

attraverso quali espressioni una determinata cultura oggettiva l’esperienza della vita e della morte. In questa seconda accezione prevale l’indagine antropologico-culturale. c. Noi supponiamo che il Convegno abbia voluto tener deste le due accezioni alfine di favorire una lettura ‘trasversale’ sia nel senso pluridisciplinare dell’approccio, sia nel senso di una lettura che potesse tentare uno spaccato prospettico della nostra epoca, cioè a partire dal frammento storico-geografico e culturale della Sicilia. Se è così, restano ugualmente sullo sfondo una serie di domande che accompagneranno la nostra riflessione. Come si pone la gente di fronte alla vita e alla morte? Con quali strumenti bibliografici (proverbi, analisi antropologiche, psicologiche, sociologiche, urbanistiche, socio-religiose) possiamo rilevare tutto questo? Esistono indicatori univoci dell’una e dell’altra, analoghi a quelli che certe statistiche ci propongono quando parlano di qualità della vita nelle nostre città? E, venendo al tema affidatomi, l’analisi di un quartiere (quale quello dell’Albergheria) è rappresentativo di una città, oppure offre soltanto un frammento della situazione? In quale veste tenterò di rispondere? A parte la consapevolezza della difficoltà di gestire l’approccio delle scienze e quello, per così dire, testimoniale della vita di ogni giorno, presumo di dovere intervenire nella veste di chi, pur lavorando alla teologia, si porta appresso il punto di vista di un ‘operatore’ di un centro sociale che opera in un quartiere popolare, senza rinunziare, però, alla rilevanza teoretica sollecitata dal Convegno. Il presente intervento è scandito in tre momenti: ogni cosa ha luogo e tempo [1.], il quartiere Albergheria [2.], alcune considerazioni di carattere socio-religioso [3.].

«La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole»2.

2

I. CALVINO, Le città invisibili, Torino 1972, 18-19.


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1. Il luogo-territorio: il centro storico di Palermo Prima di approdare all’esperienza dell’Albergheria, ci è parso utile contestualizzare la vicenda all’interno della storia (socio-urbanistica) dell’ultimo secolo. I processi di spopolamento, analoghi nei tempi e nelle percentuali, hanno interessato buona parte dei centri storici italiani3; il centro storico di Palermo, come in altre città del Sud, presenta però specifiche caratteristiche e specifici problemi: una ricca storia culturale, una forte concentrazione di palazzi monumentali e storici, una struttura fisica complessa e dinamica, il degrado fisico delle costruzioni, la privazione sociale dei residenti, lo spopolamento e le scarse politiche di intervento4. Comunque, a fronte del degrado e dello spopolamento, il centro storico di Palermo (250 ettari e 22.404 abitanti su 688.368), conserva l’identità di una grande capitale, ulteriormente sottolineata dalla ricchezza e dalla varietà di architettura; esso continua a mantenere un importante ruolo nel più ampio contesto urbano e rappresenta un caso di grande interesse: è infatti un’area di ampio degrado urbano e allo stesso tempo di grande potenzialità, con abitazioni di elevato valore storico e di mercato. Il processo di degrado del centro storico percorre vecchie strade, anche se si è sviluppato prevalentemente in tempi recenti. All’inizio del ventesimo secolo, l’aristocrazia e l’alta borghesia furono più interessate allo sviluppo della parte moderna della città piuttosto che alla ristrutturazione dei vecchi palazzi; successivamente gli interventi di operatori pubblici e

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Per le seguenti osservazioni seguiamo da vicino la lettura proposta da O. GIAMBALVO - F. LO PICCOLO, Marginality and Local Needs in the Historic Centre of Palermo, in AA. VV., 22th Conference on Regional and Urban Statistics and Research, Atti del Convegno China, Shenzhen 7-10 november 2000 (pro manuscripto). 4 Per un approfondimento della problematica generale dei centri storici e specifica del centro storico di Palermo, cfr T. CANNAROZZO, Palermo Centro Storico, in Recuperare 48 (1990) 338-349; ID., Palermo tra memoria e futuro. Riqualificazione e recupero del centro storico, Palermo 1996; ID. (ed), Dal recupero del patrimonio edilizio alla riqualificazione dei centri storici. Pensiero e azione dell’Associazione Nazionale Centri Storici-Artistici in Sicilia, Palermo 1999; G. CAUDO - F. LO PICCOLO, Palermo, l’area metropolitana e la città consolidata: dinamiche, piani e politiche, in M. TALIA (ed.), L’urbanistica nelle città del Sud. Processi insediativi e nuove politiche urbane nelle aree metropolitane, Roma 1998, 261-304.


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Cosimo Scordato

privati furono altrettanto gravi per la totale assenza di interventi di ristrutturazione delle costruzioni di considerevole valore architettonico5. Così, durante il periodo postbellico, la disattenzione delle amministrazioni, l’assenza delle più elementari forme di manutenzione e di tutela, l’esodo di popolazione della media borghesia (trasferita nei quartieri di edilizia economica e popolare) contribuirono al degrado e all’uso improprio delle costruzioni. Nel decennio dal 1950 al 1960 continuò il decremento iniziato nel dopoguerra, dai 125.000 residenti del 1951 si è passati ai 53.000 del 1971. Il declino della popolazione residente e la crescente povertà condussero al massiccio abbandono e deterioramento delle abitazioni; come risultato, nel 1980 un buon numero di case rimasero vuote. Ancora oggi, conventi e palazzi nobiliari sono spesso occupati, a volte illegalmente, e trasformati in magazzini, negozi e parcheggi. A pochi metri da queste zone coesistono luoghi prestigiosi, sedi di istituzioni culturali e residenze di autorità locali. I poveri, invece, vivono in aree degradate e recentemente, gli immigrati hanno cominciato ad insediarsi nelle abitazioni a lungo abbandonate e generalmente non adatte per uso abitativo, nelle quali essi conducono un’esistenza precaria6. Recentemente, sono state intraprese delle iniziative per rivitalizzare il centro storico, vi sono dei dubbi, però, sulla sopravvivenza della gente che vi è rimasta; infatti, essa rischia di rimanere esclusa dal previsto sviluppo che cambierà sostanzialmente la struttura e la funzione dell’intera area, col prevedibile aumento dei costi della proprietà, che inevitabilmente creerà un processo di espulsione dei gruppi a basso reddito. Seguendo questo scenario, il centro storico di Palermo diventerà teatro di conflitti di interesse dove si affronteranno i bisogni delle classi medie e della ‘sottoclasse’, le regole del mercato e l’interesse pubblico, la voglia di equità e la rinascita del luogo7. 5

Cfr T. CANNAROZZO, Palermo tra memoria e futuro, cit. Cfr F. LO PICCOLO, Palermo, a City in Transition: Saint Benedict ‘The Moor’versus Saint Rosalia, in International Planning Studies V/1 (2000) 87-115. 7 «Il patrimonio abitativo di una comunità fornisce una visione chiara della storia, dei vincoli e delle opportunità che ci permette di esaminare il quartiere. L’abitazione è uno dei principali contesti fisici all’interno della quale il popolo trascorre le giornate esprimendo anche il posto occupato nella struttura sociale e nella città dalla famiglia. La permanenza fisica nell’abitazione fornisce i segni del passato che se combinata con la storia sociale, 6


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1.1. Il tempo tra storia e vita quotidiana Accanto ai problemi urbanistici dovremmo poter ricostruire anche lo sviluppo storico della città di Palermo e dei suoi quartieri; rinviamo alle opere di carattere generale8, con la consapevolezza che la ricostruzione della vicenda storica passa non solo attraverso i libri di storia, ma anche attraverso la narrativa che si è interessata a questa problematica9, la storia dell’economia10, le analisi socio-culturali11, le singole storie di vita12 e così via. In altre parole, si dovrebbero ricostruire le principali tappe della vita del centro storico (e dei singoli quartieri) a partire dalla vicenda generale della città di Palermo, individuando anche gli spostamenti principali di persone (gruppi, famiglie, singoli) in andata ed in arrivo, di attività lavorative (mestieri, imprenditoria, artigianato), di uffici pubblici e privati; ma altrettanto a partire dalla presenza di parrocchie, ordini religiosi, chiese, confraternite…; il tutto in quell’intreccio così intrigato che ha poco a poco ha dato volto all’attuale situazione. economica e politica di un locale, forniscono un unico punto di origine dell’esame storico di una comunità e delle loro condizioni sociali. Così, le analisi della distribuzione dei problemi delle abitazioni nella popolazione della città procede con le discussioni dei cambiamenti nella struttura sociale e urbana» (M.B. KATZ cit. da O. GIAMBALVO - F. LO PICCOLO, Marginalità sociale e bisogni nel Centro Storico di Palermo, pro manuscripto, 7). 8 Cfr, per esempio, O. CANCILA, Palermo, Roma-Bari 1988, 239-546. 9 Di grande interesse E. NUCCIO, Racconti della Conca d’oro, Torino 1974 (ed. or. 1911); in questi racconti rivivono vicende e personaggi dei vicoli del centro storico nei primi decenni del secolo scorso; ma anche D. DOLCI, Racconti siciliani, Torino 1960; oppure ID., Inchiesta a Palermo, Torino 19575, 15-147; qui è possibile assaporare la cultura, il sentire dei siciliani attraverso l’attenta ricostruzione di fatti di vita e la ricchezza narrativa dei vari personaggi. 10 Si può fare riferimento ai dati ufficiali dell’ISTAT o più da vicino alle indagini annuali pubblicate dal Banco di Sicilia. 11 A parte le diverse tesi che sono state discusse in questi decenni presso le Facoltà competenti, è in corso una ricerca sulla povertà (e le condizioni economiche) promossa dall’Istituto di Statistica sociale e Scienze demografiche e biometriche, coordinata scientificamente dalla prof.ssa E. Capursi, ed in loco dalla ricercatrice O. Gianbalvo; il questionario è stato elaborato dall’Istituto, mentre il rilevamento prevede il coinvolgimento di alcune persone del quartiere. 12 Cfr, per esempio, C. LO PRESTI, Marginalità ed emarginazione sociale. Una ricerca empirica a Palermo, Palermo 1991.


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Anche se nel presente si sta vivendo una situazione di transizione, si può condividere l’osservazione di chi ricapitola i problemi dei quartieri del centro storico (e delle recenti periferie) nella “povertà di cittadinanza”, intendendola come quell’insieme di percorsi di esclusione dovuti sia alla mancanza di strumenti di accesso alla cittadinanza stessa sia alle materiali forme di deprivazione: «l’assenza della cittadinanza nel nostro caso si configura con la povertà, la prima è la conseguenza di una estrema deprivazione e viceversa»13. Lasciando sullo sfondo questa considerazione di carattere generale, ci limitiamo a due osservazioni. La prima è relativa alla interdipendenza tra i vari fattori a livello diacronico e sincronico; da un lato, infatti, avvertiamo che nella vita di ognuno c’è una qualche dipendenza dal passato della propria famiglia; non si tratta di qualcosa di fatalistico ma, statisticamente, è prevedibile che, se non interviene qualcosa di radicalmente nuovo, laddove sono state vissute esperienze negative (fino al carcere) resta alto il rischio della ripetizione dell’esperienza da parte dei nuovi membri della famiglia; parimenti, c’è una certa circolarità tra i vari aspetti del disagio (situazione abitativa negativa, disoccupazione, dispersione scolastica, disagio femminile…) per cui un intervento risulterà tanto più benefico quanto più sarà sistemico, cambiando le condizioni generali della vivibilità nel territorio e nella vita di ogni famiglia. La seconda considerazione è relativa al problema ‘culturale’ del rapporto tra il presente ed il passato ed il futuro. a. Nel rapporto tra presente e passato, ci sembra che si sia allentata sempre di più quella ideale continuità culturale e produttiva che aveva caratterizzato la vita del centro con la significativa presenza di maestranze, artigianato come luogo di produzione di opere belle, pur con tutte le contraddizioni delle epoche precedenti connotate da forti differenze di classe; questo ha determinato quel processo di sempre maggiore ‘estraneità’ nei confronti dei luoghi, rendendo incomprensibile l’eredità del passato; se la cultura moderna lentamente si è riconciliata col passato recependolo 13 A. LA BARBIERA, Percorsi di paura, percorsi di desiderio: piazza Magione e dintorni, in A. MAZZETTE - E. SGROI, Vecchie strade. Consumo e povertà nei centri di Palermo e Sassari, Milano 1999, 163. Anche se l’indagine è condotta nel quartiere Magione, la considerazione può essere condivisa per tutti i quartieri del centro storico.


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attraverso i “beni culturali”, va maturata, però, una nuova coscienza della continuità (per quanto discontinua) col passato ed i luoghi della memoria. Dietro un atteggiamento di abbandono e degrado urbano viene alla luce anche quella incapacità culturale a rapportarsi col passato ereditandolo, nonostante la distanza del tempo e le grandi trasformazioni della storia, come parte di un’unica storia. b. Nel rapporto tra presente e futuro, qualcuno ha fatto rilevare l’importanza culturale dell’assenza della forma grammaticale del futuro nel dialetto siciliano; in verità, anche se è assente come forma autonoma, il futuro viene composto con l’ausiliare, e questo avviene anche in altre lingue; comunque, spesso emerge un senso di precarietà, che prende forma nella difficoltà a gestire in maniera progettuale o programmatica la propria vita su lunghe distanze; si coglie, infatti, in molte famiglie il senso del provvisorio e dell’emergenza quotidiana, come se i problemi spuntassero inattesi o imprevedibili; questo favorisce quella cultura del vivere alla giornata, che se da un lato non fa sperimentare lo stress della corsa della produzione capitalistica, dall’altro espone ad un continuo senso di incertezza che poi diventa insicurezza sociale e talvolta esistenziale. Questo determina una situazione spesso aleatoria fino ai limiti della inconsistenza; la condizione di deprivazione non è soltanto di carattere scolastico, ma ‘culturale’ in senso generale; c’è una certa non-contemporaneità tra le acquisizioni maturate nel corso degli ultimi due secoli e il sopravvivere di comportamenti che restano legati ad abitudini del passato; la mancanza di progettualità, a sua volta, rende più indifesi dinanzi al futuro e quindi tende a far prevalere un morboso attaccamento alle proprie cose che è completamente sproporzionato al loro valore. Accanto a tutto questo emerge anche la necessità e l’arte di ‘arrangiarsi’; si tratta di quella capacità di prendere iniziativa, di realizzare piccoli fonti di guadagno, che porta a quella intraprendenza quotidiana spesso frutto di inventiva, ma che comporta anche una diversa concezione della legalità, della istituzione, della organizzazione sociale ed una grande approssimazione nell’impostazione dello sviluppo socio-culturale. c. Inoltre, va rilevata la mancanza di una collocazione storica dei fatti; la ricezione degli avvenimenti del presente, infatti, spesso avviene con limitati strumenti culturali che ne impediscono una comprensione che vada al di là delle reazioni emozionali;a sua volta, la crescita di influenze esterne


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(mass-media, omologazione di comportamenti, fascinosità della produzione capitalistica) sbilancia verso una comprensione di pura contiguità con i fatti della modernità, senza una mediazione culturale; il desiderio di arrivare a traguardi considerati comuni e normali, se non si fonda su condizioni di autentico sviluppo, favorisce un dispiegamento errato dell’interesse individuale ed immediato14. Su tutto questo sorge la domanda: che tipo di sviluppo si è dato la città di Palermo dal dopoguerra in poi? Come è stato affrontato il problema del risanamento? Cosa è avvenuto nel frattempo? Come ha reagito la gente? Venendo alle responsabilità di questo declino che, seppure ha radici profonde nel passato, chiama in causa soprattutto responsabilità recenti, va rilevato che l’intreccio tra politica e mafia ha giocato un ruolo determinante, nella misura in cui esse insieme hanno sviluppato i loro interessi verso lo sfruttamento delle nuove aree (più appetibili economicamente), venendo anche incontro al desiderio della gente di abitare nei quartieri residenziali più moderni. Si tratta di gravi responsabilità storiche che hanno anche compromesso le condizioni di un sereno sviluppo del futuro generale della città. Resta aperta la domanda: come mai non si è investito invece nel risanamento del centro storico, anche come opportunità politica ed economica? Qui forse va collocata quella frattura col passato e con la storia della città che, nel passaggio all’epoca moderna, non ha trovato una borghesia intraprendente e produttiva, piuttosto una classe di politici e di 14

Ci pare di potere condividere — pur sfumandole — le seguenti osservazioni: «La mobilità intergenerazionale è praticamente quasi nulla e i ruoli sono rigidamente stabiliti; l’uomo, precocemente avviato ad un lavoro che poi risulta essere precario o saltuario, quando non si dedica al lavoro, trascorre la sua vita tra le mura domestiche a guardare la TV o per strada con gli amici; la donna, precocemente sposata, vive invece quasi esclusivamente nella casa, bada ai bambini e si dedica ai lavori domestici. Le sue poche possibilità di contatto con il mondo esterno sono infatti date solo dai rapporti con il vicinato o, più raramente, dalla partecipazione ad attività religiose cosicché i luoghi di formazione della sua identità sono rappresentati dai tradizionali ‘luoghi obbligati’ quali, principalmente, la casa, la Chiesa, il vicinato. Inoltre, sia tra gli uomini che tra le donne, i bisogni prevalenti sono soprattutto di tipo primario cioè reddito e sicurezza ‘ontologica’, così come si rilevano soprattutto atteggiamenti di passività, sfiducia e impotenza verso il sistema sociale complessivo e invece prevalgono modalità e concezioni di vita fortemente ancorati a valori tradizionali e familistici» (C. LO PRESTI, Marginalità ed emarginazione sociale, cit., 102-103).


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mediatori caratterizzata per atteggiamenti culturalmente poveri con risvolti di carattere parassitario.

2. L’Albergheria «Là dove le case sono crollate, per vecchiaia, per degrado, per incuria, i bulldozer hanno spianato pietre e calce, hanno formato vuoti nel reticolo delle viuzze, enormi spiazzi bianchi di sterro. Dietro questi spiazzi, si stagliano ora nette le grandi cupole smaltate delle chiese, i campanili d’arenaria, il tetto e la facciata del palazzo dei Normanni. Le zone di case lesionate, pericolanti, fatte evacuare, sono state chiuse da mura di cinta. Dietro queste fresche mura di tufo, si accumulano le immondizie del mercato, degli abitanti, le ossa delle macellerie, vi razzolano bambini, cani, gatti, vi ballano topi. Qui Palermo è una Beirut distrutta da una guerra che dura ormai da quarant’anni, la guerra del potere mafioso contro i poveri, i diseredati della città. La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza»15.

Si può dire di un quartiere (che porta scolpito nelle sue case e nei suoi vicoli i segni dell’abbandono e del declino sociale), che è morto? Certamente, anche di un luogo si può dire che è morto e se ne possono individuare le ragioni storiche. Nel caso dell’Albergheria abbiamo preferito parlare di ‘sopravvivenza’ tentando di evocare una situazione che è al confine tra la morte e la vita, con tutte le potenzialità nelle due direzioni16.

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V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano 1988, 172. Per una prima conoscenza logistica del quartiere Albergheria, cfr G. BELLAFIORE, Palermo. Guida della città e dei dintorni, Novara 1956, 38-45; P. PIPITONE - M. MANGANO, Palermo per immagini. Storia, cultura e fatti d’arte, Palermo 1984, 77-90; per i problemi dello sviluppo edilizio, cfr tra gli altri A. SARRO - G. TORNABENE, Lettura dell’area di via Albergheria, in Palermo. Centro Storico, a cura di V. Quilici, Roma 1980, 36ss. Per un approccio alla problematica sociale, cfr V. GUARRASI, Marginalità e partecipazione nel centro storico di Palermo: il caso dell’Albergheria, in ID., La produzione dello spazio urbano, Palermo 1981, 89-112; V. MASINI, Palermo: quartieri e servizi. Secondo “progress” della ricerca “I servizi nei quartieri di Palermo”, Centro studi e iniziative “Una città per l’uomo”, Palermo 1985, 87-155. Interessanti, inoltre, in quanto frutto di esperienze didattiche, i due volumetti: SCUOLA MEDIA STATALE ‘GIOVANNI VERGA’, Noi nel quartiere, 16


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a. Nel quartiere il disagio non è facilmente documentabile e quantificabile17; eppure, abbiamo modo di poterlo osservare quotidianamente: dalla mancanza di lavoro alla ricerca di interventi assistenziali, dal tentativo quotidiano di sbarcare il lunario (dai “cavigghi” alla “riffa”) alle attività illegali (totonero, corse clandestine di cavalli, spaccio di droga), dalle diffuse forme di accidia (alcoolismo e gioco di carte) alle abitudini del fannullonismo (lamentarsi e aspettare sempre dagli altri e dall’alto un intervento risolutore); per non dire dei problemi di sopravvivenza di alcune famiglie, le quali, però, non brillano spesso per preveggenza, per prudenza o per l’arte del risparmio o della spesa oculata; per non tacere, altresì, di un certo basso profilo che caratterizza talvolta i rapporti di coppia o alcune abitudini della vita associativa del quartiere, o gli ultimi vergognosi casi di pedofilia portati alla luce da alcune scuole, dall’oratorio S. Chiara… Un peso rilevante riveste il fenomeno della dispersione scolastica non soltanto in quanto fa emergere la situazione di deprivazione culturale che impedisce un accesso normale alle proposte della società contemporanea, ma come indice di un disagio più complessivo18; secondo la ricerca citata, Palermo 1991; SCUOLA INTERNAZIONALE WEEK-END PRIMAVERA, Territorio e ambiente di Palermo, Palermo 1992; parimenti, la ricerca del CENTRO SOCIALE ‘S. FRANCESCO SAVERIO’, Indagine sociale sul quartiere Albergheria, in A. CRISANTINO, La città spugna. Palermo nella ricerca sociologica, Centro Siciliano di Documentazione ‘G. Impastato’, Palermo 1990, 259278. L’indagine è stata svolta negli anni 1988-89 da D. Natoli (coordinatrice), M. Tomasini, A. Castronovo, G. Agnelli, D. D’Amico, L. Ciriminna, H. Moreau, F. Bonafede, S. Bilello, M. Orefice, D. Orefice, A. Rubino, G. Zambito. Il materiale delle conversazioni, raccolti da G. Zambito, non è stato pubblicato; pur nella loro essenzialità, rappresenta uno spaccato della vita quotidiana e del comune modo di sentire delle famiglie a livello popolare. 17 Per un approccio essenziale, cfr S. Cohen, Devianza, in Enciclopedia delle Scienze sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, 791-800. 18 Sui problemi del disagio e della dispersione scolastica, cfr Bambini ed adolescenti a rischio. La dispersione scolastica, Atti del Seminario Internazionale Ocse/Ceri, Palermo 3-5 dicembre 1991, a cura di C. M. Gentile, Palermo 1992; in particolare gli interventi di G. PUGLISI, Interventi per la prevenzione delle situazioni a rischio: l’integrazione dei servizi nel quartiere ‘Albergheria’ di Palermo, 163-170; D. NATOLI, L’integrazione dei servizi nel quartiere Albergheria di Palermo. Il contributo del Distretto socio-sanitario, 179-183; C. SCORDATO, Interventi per la prevenzione delle situazioni di rischio nel quartiere Albergheria. L’esperienza del Centro Sociale ‘S. Saverio’, 171-178; C. M. GENTILE, Bambini e adolescenti a rischio: l’esperienza palermitana nei quartieri Albergheria e Zen, 275-331; F. MIRAGLIOTTA, Progetto d’intervento per minori con procedimenti penali: una sperimenta-


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negli anni dell’obbligo sono “in corso” (calcolando un anno di ritardo) solo il 57% delle femmine e il 59% dei maschi; sono “in ritardo” (di due o tre anni) il 21% delle femmine e il 20% dei maschi; e infine, “in abbandono” (non frequentano da almeno quattro anni) il 22% delle femmine e il 21% dei maschi. I bambini incominciano ad essere emarginati a scuola soprattutto durante il secondo ciclo dell’elementare e le prime classi della media; in un’indagine orizzontale e non prospettica non è possibile quantificare quale percentuale della quota “in ritardo” diventerà “in abbandono”, ma sappiamo che un ritardo di due-tre anni solo raramente viene recuperato; il che significa che sommando ritardo e abbandono otteniamo una situazione cumulativa di “dispersione” che per i maschi raggiunge il 41% e per le femmine il 43%! Da queste statistiche emerge che nel quartiere l’accesso al primo grado alla scuola (licenza media) è raggiunto soltanto da poco più della metà della popolazione scolastica: il che significa che attualmente lo Stato e la scuola non riescono a garantire il diritto allo studio ai bambini. Inoltre, se è vera, anche se non totalmente dimostrata, l’ipotesi della correlazione tra piccola criminalità ed evasione scolastica, questa situazione va considerata ad alto rischio. In particolare, vorremmo ricordare che i minori di nazionalità italiana detenuti o internati sprovvisti di licenza della scuola dell’obbligo costituiscono la stragrande maggioranza: il 70,7%. Questa percentuale è molto più elevata nell’Italia insulare. Nel 1986 essa risulta infatti dell’84% nella Sicilia, secondo il Ministero di grazia e giustizia19. Le ulteriori ricerche fanno emergere l’incrociarsi di tre fattori nel fenomeno della delinquenza minorile, la povertà di origine, l’ignoranza (vista in termini di scolarizzazione mancata) e la disoccupazione; anche se ad essi vanno aggiunti altri elementi di natura più complessiva. Per quanto riguarda i condizionamenti negativi di origine scolastica viene rilevato che i soggetti esposti a delinquenza

zione nel quartiere Albergheria (art. 28 D.P.R. 448/88), tesi alla Lumsa, Roma anno accademico 1991-1992. 19 Cfr DIREZIONE DEI CENTRI DI RIEDUCAZIONE DI PALERMO, Statistiche distrettuali 1983-84, tav. 6.


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Cosimo Scordato «hanno troncato gli studi nella scuola media o i più nella elementare, hanno vegetato in molte classi senza imparare gran che, presentano un vocabolario scarso ed una ridotta padronanza della lingua…, mostrano una profonda avversione per la scuola, rigettata come fattore determinante della loro esclusione ed autoesclusione»20.

In questo contesto, ha importanza la comprensione e la ricezione della mafia da parte dei ragazzi; probabilmente sono rari i casi di coinvolgimento o di contiguità con l’organizzazione mafiosa; più spesso possono darsi delle situazioni di rapporto remoto; in ogni caso, però, avvertiamo che nei ragazzini avviene una certa introiezione del fenomeno mafioso, la cui presenza emerge piuttosto sul piano dei comportamenti personali, oltre che sul piano dell’immaginario21. Sul piano dei comportamenti abbiamo osservato la frequenza del termine parrinu (padrino) nel linguaggio dei ragazzi; esso designa da un lato l’atteggiamento di protezione da parte di un adulto o di una persona più grande nei confronti di uno più piccolo, col diritto di chiedere conto e ragione dei suoi fatti; e dall’altro, la disponibilità da parte del più piccolo a lasciarsi guidare, giudicare, gratificare, mentre in quell’adulto tende a riconoscere il suo modello di vita. Questa struttura è tutt’altro che facile da superare; di fatto tutti gli interventi pedagogici dovranno essere verificati nella loro capacità di mettere in discussione e superare quel rapporto e l’introiezione del modello. La difficoltà dell’intervento risiede nel fatto che tale struttura relazionale già costituita (unidirezionale, dipendenziale, autoritaria, ripetitiva, violenta, gratificatoria in senso deteriore) non consente facilmente un nuovo diverso relazionarsi che, al contrario, sviluppi reciprocità, libertà, autonomia, originalità, stile pacifico, gratificazione nella qualità oggettiva dell’azione, non nel consenso pervasivo del padrino.

20 MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA, Ufficio per la Giustizia Minorile, Corsi biennali di scuola media integrati con attività di formazione-lavoro, testo dattiloscritto, 12. 21 Sulla presenza del fenomeno mafioso nell’immaginario, cfr L’immaginario mafioso. La rappresentazione sociale della mafia, Bari 1986.


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b. A fronte di questi aspetti negativi bisogna riconoscere anche aspetti positivi di tale realtà: le espressioni diffuse di pazienza e di coraggio, la dignità con cui tante famiglie portano avanti, anche in mezzo a molti stenti, gli impegni, la capacità di sapersi accontentare del poco e di sapere vivere momenti forti di aggregazione e di vicinato, soprattutto in occasione di difficoltà (lutto, carcere…); per non tacere, infine, della generosità nei rapporti interpersonali, pronti a dare tutto, quando si riceve fiducia e comprensione. Inoltre, va messa in conto anche una vitalità dei luoghi che, a preferenza di situazioni abitative più floride, è riconducibile più alla vita di un paese che a quella delle città (o metropoli); salvo le differenze a seconda dei diversi insediamenti delle nuove case-palazzi o delle nuove presenze, rileviamo la centralità della piazza, gli incontri nei luoghi tradizionali (mercato, barbiere, bar…), la reciproca conoscenza tra le persone (con i pro e i contra), la circolazione dei discorsi a livello di ‘informazione’, ‘curtigghiu’, contrasti… Tutto questo fa somigliare il nostro rione ad un qualsiasi altro quartiere, solo che nel momento in cui ci si vive dentro, ci si accorge che i problemi dei quali prima si acquisisce una informazione a distanza, man mano che ci avviciniamo prendono corpo, e allora cominciano a riguardarci direttamente; nasce così l’esigenza di illuminare questo lato oscuro della vita dell’uomo e della società, per tentare di interromperne i percorsi sbagliati. Dobbiamo aggiungere che la ricerca precedentemente citata non rispecchia più la situazione attuale e andrebbe aggiornata secondo gli ultimi dati; certamente il problema della dispersione scolastica ha avuto un lento e progressivo miglioramento a partire dal progetto del Provveditorato (con la presenza di psico-pedagogisti nei quartieri a rischio, e quindi anche all’Albergheria) e da una maggiore raccordo con i centri di volontariato; questo ha consentito di raggiungere risultati anche lusinghieri. Parimenti, per quanto riguarda il risanamento urbano, l’approvazione dei piani particolareggiati, l’incentivazione ad interventi sostenuti dal denaro pubblico (il 50% degli interventi nelle parti comuni dato a fondo perduto e la restante parte a tasso agevolato), oltre che la sensibilizzazione sollecitata dalla società civile ha favorito la realizzazione della prima fase del risanamento con la proliferazione di molti cantieri; molto interessante,


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in questa fase, la democratizzazione del processo in quanto che molte decisioni sono state discusse e proposte in pubbliche assemblea con la partecipazione degli amministratori e dei politici (l’ultima, e particolarmente significativa, l’assemblea cittadina del 13 maggio 2000 promossa da “Salvare Palermo” nel Palazzo di Città, che ha visto una numerosa e qualificata partecipazione popolare). Ciò non toglie che la situazione manifesti ancora carattere di gravità, soprattutto sul versante della disoccupazione; nonostante gli incentivi pubblici (dal prestito d’onore all’impresa giovanile), non sono emerse grandi iniziative private e permane una situazione di ambiguità intorno alla proposta dei diversi interventi di carattere pubblico (art. 23, LSU…) perché, se non ben orientati a favorire soluzioni di intraprendenza personale o di gruppo, si prestano a trasformarsi in occasione di neo-assistenzialismo e di neo-collateralismo politico. Nell’insieme possiamo distinguere tra famiglie che hanno una qualche stabilità (socioeconomica e culturale), famiglie che hanno una situazione di oscillazione e famiglie che non avendo un minimo di stabilità sono abituate a vivere alla giornata; di ognuna delle famiglie dovremmo ricostruire la storia per capire in che modo essa riproduce storie e condizionamenti precedenti, in che modo alcuni fatti sono stati determinanti nella costituzione della stessa famiglia (fuitina, matrimonio precoce non costruito su un minimo di garanzie e così via).

2.1. Cosa fare? Non c’è altra strada da percorrere che innescare qualcosa di diverso nelle dinamiche quotidiane, mettendo in conto che il passaggio da una situazione all’altra, data la sua traumaticità ed un certo senso di insicurezza per il nuovo, deve essere gestito gradualmente, superando le prevedibili oscillazioni della risposta. È chiaro che la pedagogia territoriale gioca il suo ruolo nella capacità di riuscire a mettere in circuito temi e modelli nuovi nel territorio, in maniera da costruire lentamente altri quadri di riferimento, attraverso la produzione di gesti comunitari che prefigurano l’alternativa possibile. Si tratta di una operazione di grande portata culturale che, pur privilegiando il


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lavoro con le persone singole, deve creare le condizioni per un nuovo gusto della vita e per una nuova aggregazione sociale che rimuova o metta al margine persone e modelli di comportamento che attentano alla vita libera della comunità. L’attuale riflessione non è la prima22; l’esigenza di un intervento che avesse carattere di ricerca-azione ha accompagnato l’attività del nostro centro fin dall’inizio; si è avvertita, infatti, la necessità di conoscere la situazione non solo a livello di dati statistici ma anche a livello di tessuto socio-culturale; ciò ha fatto maturare l’opportunità di sviluppare collaborazioni su diversi versanti; in particolare è risultata preziosa la collaborazione dell’università; il confronto con alcuni docenti della Facoltà di Scienze della formazione in vista dell’elaborazione di un progetto pedagogico mirato, gli incontri con alcuni docenti della Facoltà di economia e commercio per decifrare le possibilità di sviluppo economico del quartiere, l’attuale ricerca con l’Istituto di Statistica, oltre che la collaborazione col Centro di documentazione “G. Impastato” sui problemi della mafia, col Ciss sui problemi della mondialità e con l’Universistà della strada per la formazione ad un volontariato consapevole e creativo hanno fatto maturare l’esigenza di un continuo aggiornamento e di un ripensamento del volontariato tradizionale.

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Cfr CENTRO SICILIANO DI DOCUMENTAZIONE ‘G. IMPASTATO’ - CENTRO SOCIALE ‘S. FRANCESCO SAVERIO’, Ricostruire Palermo. Un centro sociale in ogni quartiere, Palermo 1987; N. ROCCA - A. CAVADI, Breve storia di un’esperienza, ibid., 29-33; A. MANGANO, Devianza minorile e condizionamento sociale. Esperienze di rieducazione e di sviluppo comunitario nell’Italia insulare, in Nuovi annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina 1 (1989) 763-791: 781-791; F. DAL LAGO, L’azione del volontariato in una zona del centro storico di Palermo. Il centro sociale ‘S. Francesco Saverio’ all’Albergheria, Lumsa-Roma, Palermo anno accademico 1988-1989 (tesi); A. CAVADI, Fare teologia a Palermo. Intervista a don Cosimo Scordato sulla “teologia del risanamento” e sull’esperienza del Centro sociale ‘S. Francesco Saverio’ all’Albergheria, Palermo 1989; C. SCORDATO, Uscire dal fatalismo. Un’esperienza di pastorale del risanamento, Milano 1991; U. FINGER, Die territoriale Paedagogik am Beispiel des Sozialzemtrums san Francesco Saverio im Viertel Albergheria in Palermo, Sizilien, Diplomarbeit, paedagogische Hochschule Freiburg, Freiburg 1992 (tesi); C. SCORDATO, Le formiche della storia. Un itinerario collettivo di liberazione all’Albergheria di Palermo, Assisi 1994.


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La metodologia del nostro Centro si è mossa in direzione di un ‘risanamento’ includendo nella categoria di recupero23 tutti gli aspetti socioculturali; puntando alla sua accezione socio-antropologica, si fa riferimento al dato più rilevante che rende possibili anche gli altri aspetti. Se il termine ri-sanamento allude alle condizioni mortificanti dell’autorealizzazione umana nella sua espressione storica, esso vuole puntare alla più positiva accezione mettendo in conto le potenzialità, cui bisogna potere fare appello in vista di un coinvolgimento non unidirezionale, ma di corresponsabilità; in questo senso, nel termine c’è anche l’indicazione preziosa della modalità di un intervento che, se non vuole essere offensivo o lesivo dei processi umanizzanti di responsabilità, dovrà privilegiare il coinvolgimento personale dentro un processo mai compiuto di maturazione, a fronte di interventi assistenziali, sostitutivi o di supplenza che, alla fine, rischiano di risolversi in atteggiamenti di fuga o di occultamento24. Dopo la fase conoscitiva importante è quella progettuale; qui va chiarito il rapporto tra volontariato ed istituzione. Il volontariato non deve risolvere i problemi, deve invece favorire la presa di coscienza di essi e dei canali istituzionali predisposti per la loro soluzione. In questo senso, fin dall’inizio abbiamo rifiutato un ruolo di supplenza nei confronti della istituzione, supplenza che rischia di diventare pericolosa all’interno di un modello quale quello mafioso che, alimentando il non funzionamento della istituzione con la conseguente sfiducia verso di essa, si prospetta esso stesso come alternativa. Concretamente, il problema della dispersione scolastica non può e non deve essere affrontato senza e al di fuori della scuola e delle istituzioni pubbliche preposte all’istruzione; parimenti il grave problema della situazione abitativa non deve essere risolto senza il coinvolgimento dei competenti organismi, da interpellare all’interno delle loro funzioni pubbliche e nel contesto di un corretto e trasparente funzionamento. Qualsiasi altra soluzione, a parte che sarebbe sempre inadeguata perché priva delle risorse istituzionali, rischierebbe comunque di risultare antie23 Per l’approfondimento del valore culturale del termine ‘recupero’ e degli intrecci di pensiero intorno ad esso elaborabili, cfr le originali riflessioni di E. BENVENUTO, Del recupero. La parola e la cosa, in Recuperare 3 (1984) 206-209. 24 Per un approfondimento di detta metodologia, cfr C. SCORDATO, Le formiche della storia, cit.


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ducativa rispetto al senso di uno Stato, che esiste per dare risposte adeguate ai cittadini. Inoltre, abbiamo osservato che, nella fase della progettualità, in genere solo la gente interessata ad un problema specifico è riuscita a partecipare ai momenti di elaborazione delle proposte, in un crescendo significativo che ha trovato, però, il suo principale ostacolo nei tempi lunghi dell’amministrazione e della burocrazia. Tra i momenti più belli, comunque, vanno ricordati quelli della lotta per la casa, quando, insieme con altre persone del quartiere e della città, ci si è ritrovati uniti non solo a solidarizzare con i baraccati, ma anche a vivere momenti intensi di dibattito, di riflessione e di festa. L’intendimento resta sempre quello di offrire occasioni di sviluppo e di crescita, superando la tentazione di ergersi a giudice; pur col rischio di una certa enfatizzazione, ma senza alcuna voglia di scadere nel patetico, ci piace riprendere una lettera inviataci dal carcere minorile “Malaspina” di Palermo il 5 aprile 1992 da un nostro ragazzo; essa costituisce un piccolo microcosmo che lascia intravedere la complessità della situazione, facendo trapelare indirettamente anche le attese dei ragazzi.

«Vi prego facete qualcosa per me se potete si sà se non potete lasciatemi chiuso e abbandonatemi, però sò che non siete persone che non mi abbandonate Grazie vi voglio tanto Bene io non ho avuto mai il coraggio di dirvi che vi voglio tanto bene, perché io ho fatto sempre del male alle persone è per questo io voglio pagare di tutto quello che ho fatto ma non stare in prigione voglio pagare a diventare un cittadino come tutti gli altri e anche per diventare una persona per bene come non ho fatto mai».

Quando S. accusa la sua mancanza di coraggio nel riconoscere di voler bene, forse lascia capire che non soltanto non pensa più possibile un vero rapporto di amore, ma che la mancanza di questa sua personale esperienza (dell’essere amato) gli rende difficile rispondere e comunicare in termini di amore. È interessante che una persona come S. che, in altri contesti, abbiamo conosciuto come ragazzo coraggioso fino alla sfrontatezza, alla sfida e alla spregiudicatezza, proprio di fronte ad una testimo-


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nianza di amore sente venire meno il suo coraggio, non riesce a dire che vuole bene (e però lo sta scrivendo!) perché questo mette in discussione tutto l’assetto aggressivo e violento del suo passato e quindi della sua personalità. Questo conferma con chiarezza l’importanza del nucleo familiare nell’organizzazione dei rapporti col mondo esterno e con la società. Si comprende allora perché il coinvolgimento delle famiglie è parte integrante del processo di recupero; ci siamo trovati dinanzi alle posizioni più disparate: famiglie inesistenti, disgregate, con qualche elemento di squilibrio; padri assenti, estranei, incapaci; madri conniventi, partecipi ma incapaci, scialbe; figli inattesi, non desiderati, mai accettati; il tutto sul piano della pura osservazione fenomenologica; questo ci ha fatto capire sempre di più la necessità di coinvolgere come educatori gli stessi genitori, invitandoli a superare l’atteggiamento di ‘delega’ nei confronti delle varie agenzie educative.

3. Qualche osservazione in campo religioso Le presenti considerazioni attengono alla vita religiosa e come tali chiamano in causa la storia di detta religiosità e la difficile decifrazione di processi che, diacronicamente e sincronicamente, si sono intrecciati col vivere dei siciliani. Ci limitiamo ad osservare la nostra problematica all’interno di due ambiti: il culto dei defunti e la celebrazione della morte di Cristo.

3.1. Culto dei defunti Vorremmo partire da alcuni dati che balzano all’attenzione sul piano fenomenologico25. a. La partecipazione ai funerali è massiccia; essa prevede non solo la presenza dei familiari ma anche degli amici e del vicinato; il funerale 25 A parte alcuni studi di antropologia, (cfr, per esempio DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 19752) ed


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comporta anche l’attraversamento dei quartiere ed una qualche visibilità (piazza) con percorsi talvolta specifici (la casa i luoghi del defunto). Molta gente non va a messa la domenica ma non manca ai funerali e tende a farsi vedere come ad esprimere la propria partecipazione al dolore (talvolta formale); numerosa è anche la partecipazione al trigesimo (con la consegna della immaginetta-ricordo), un po’ meno agli anniversari. Le forme di partecipazione ai funerali sono ancora vistose: il pianto, il lamento, il contatto col defunto e con la bara, le espressioni drammatiche (talvolta ‘teatrali’)… il tutto si sviluppa con una certa spontaneità, ma non senza la presenza del pubblico. Anche se si vanno diradando, in occasione della morte, sopravvivono ancora alcune forme di solidarietà da parte del vicinato, espressa col cosiddetto ‘cunsulu’ (consolazione); per i primi giorni ci si prende cura della famiglia offrendo qualcosa da mangiare. Nelle case spesso si trovano esposte (sugli stipetti, ai muri…) le foto della persone defunte e si vorrebbero esporle anche in chiesa; si comprende che il legame con la foto non ha carattere soltanto documentario ma piuttosto affettivo: l’immagine vi gioca il ruolo della persona. Non ci risultano ricerche circa i nostri cimiteri, la visita al cimitero e l’addobbo alle tombe (architetture delle cappelle, iscrizioni, fotografie, fiori…); parimenti sarebbe interessante conoscere le statistiche di dette visite e soprattutto il senso che le persone vi attribuiscono; probabilmente l’addobbo delle cappelline o dei loculi è espressione di venerazione e di rispetto al morto come se ancora fosse vivo. Si ha l’impressione che ci sia un ‘regno dei morti’ che accompagna quello dei vivi; tante volte i sogni, le suggestioni, le mediazioni (medium) sono riconducibili ad un senso di protezione che viene dalle persone care (“mi vinni ‘nsonnu u papà” per dirmi qualcosa: ammonimenti, premonizioni, avvisi, esortazioni spesso vengono ricondotti ai propri cari defunti…). Inoltre, il ricordo dei defunti è legato anche a qualcosa di ‘dolce’; per questo

alcune osservazioni che si possono ricostruire in maniera sparsa (cfr, per esempio, in R. FRATTELLONE, Proverbi siciliani. Una visione sapienziale della vita, Messina 1991, i proverbi sulla morte nn. 234-247; ma non c’è niente sui funerali), non siamo a conoscenza di uno studio sistematico delle diverse espressioni culturali relative alla morte, al culto dei defunti, al rapporto tra defunti e viventi — nei sogni, nell’immaginario —, ai luoghi…


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motivo, probabilmente, la produzione dolciaria nella festa dei defunti si caratterizza per la sua intensità di sapore. b. Ma quale è la concezione antropologica ed escatologica che sorregge questa devozione della nostra gente? Che posto ha l’annunzio della risurrezione? A partire dalla partecipazione alla messa, dalle scritte nei sepolcri, dalle immaginette sembrerebbe che un certo riferimento a Cristo e all’Addolorata sia presente; andrebbe compreso se si tratta di una sopravvivenza dell’anima, di un modo dei defunti (simile a quello degli antichi) o di risurrezione, e meglio ancora del Risorto. La domanda è ancora più interessante se consideriamo che non sempre il riconoscimento della propria identità cristiana include la professione di fede sulla risurrezione di Cristo e del credente, oltre che l’attesa della vita eterna26. Probabilmente il passato era riuscito ad esprimere il senso escatologico della vita cristiana; infatti, le chiese fino al alla fine del XVIII secolo, erano costruite prevedendo la cripta riservata ai defunti, il piano principale riservato alla celebrazione del popolo cristiano e quindi la volta riservata alla gloria di Dio e alla glorificazione di Maria, degli angeli e dei santi; ne veniva fuori una concezione ricapitolativa della comunione ecclesiale nell’insieme della Chiesa purgante, della Chiesa militante e della Chiesa trionfante; in questo contesto, anche il pensiero della morte accompagnava la vita del credente. La separazione dei cimiteri rispetto alle chiese (non senza anche qualche motivo di igiene) ha portato sempre più fuori dalla città il luogo dei defunti, favorendo quel processo di rimozione della morte (e dei morti) che tende a caratterizza la società contemporanea; sono da ricondurre a questa svolta culturale anche certi accorgimenti delle imprese funebri (imbellettamento dei defunti, allontanamento del morto dalla casa per ospitarlo nella Funeral Home…)?

26 Nelle ultime ricerche sulla religiosità degli italiani può capitare che ci si professi cristiani ma non si colleghi direttamente la fede cristiana col tema della risurrezione; cfr, per esempio, l’ultima indagine di C.C. CANTA, la religiosità in Sicilia. Indagine sulle tipologie religiose e culturali, Caltanissetta-Roma 1995, 288; pur con una certa vaghezza delle domande, solo il 38,6% pensa che dopo la morte vi sia un’altra vita, l’8,7% ritiene che non vi sia nulla, il 23,1% ritiene che non si può sapere cosa ci sia dopo la morte e il 25,5% non sa ed è incerto.


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Certamente resta compito aperto non solo l’evangelizzazione della vita in direzione cristologica, ma anche il processo di inculturazione che dovrebbe caratterizzare le liturgie dei defunti.

3.2. Il venerdì santo ed il mistero pasquale Su questa tematica, corre l’obbligo citare il brano classico di L. Sciascia:

«Non il dramma, dunque, del divino sacrificio e dell’umana redenzione; ma quello del male di vivere, dell’oscuro viscerale sgomento di fronte alla morte, del chiuso e perenne lutto dei viventi. E parrebbe che, comunque intesa, la Passione susciti nel popolo siciliano un momento di autentico afflato religioso: ma in realtà si appartiene a una contemplazione della morte quale può esprimere un mondo assolutamente refrattario alla trascendenza. Se è possibile parlare di religione senza il trascendente, allora è religiosa questa contemplazione della morte che trova nella Passione la sua più acuta rappresentazione»27.

27 L. SCIASCIA, Feste religiose in Sicilia, Bari 1965, 21-22. Per quanto si tratti di titoli non omogenei, per un inquadramento generale della religiosità popolare nel Sud d’Italia e nella Sicilia in particolare, cfr G. DE ROSA, Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa del XVII al XIX secolo, Napoli 1971; A. DRAGO, Ipotesi sulla religiosità popolare napoletana e meridionale, in Rassegna di Teologia 15 (1974) 270ss; Sfruttamento e subalternità nel mondo contadino meridionale, Roma 1975; Religiosità e cultura popolare nel meridione, “Idoc” maggio (1976); A.M. DI NOLA, Aspetti magicoreligiosi di una cultura subalterna in Italia, Torino 1976; G. AGOSTINO, Le feste religiose nel Sud, Torino-Leumann 1977; D. PIZZUTI, Religione e classi subalterne, in Rassegna di Teologia 4 (1977) 396-409; C. PRANDI, Religione e classi subalterne, Roma 1977; A. BUTTITTA - M. MINNELLA, Pasqua in Sicilia, Palermo 1978; G. DE ROSA, Chiese e religione popolare nel mezzogiorno, Roma-Bari 1978; E. GUIDONI, Processioni e città: Atlante di storia urbanistica siciliana, Palermo 1980; M. SERRAINO, La processione dei Misteri. La casazza magna, Trapani 1980; G. DE ROSA, La religione popolare. Storia - Teologia Pastorale, Roma 1981; A.I. LIMA, La dimensione sacrale del paesaggio, Palermo 1984; E. ZUPPARDO, Settimana Santa e canti popolari in Sicilia, Marina di Patti 1984; V. ORLANDO,


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Ci siamo trovati impegnati più volte e su diversi fronti, proprio nell’ultimo decennio in Sicilia, a dovere riflettere sulla religiosità popolare; in particolare la Facoltà teologica di Sicilia ha dedicato un esplicito convegno sul rapporto tra liturgia e religiosità popolare e altrettanto lo Studio Teologico S. Paolo di Catania28. A parte i diversi contributi ivi offerti, ci sembra preziosa l’indicazione del documento elaborato dalla Conferenza Episcopale Latinoamericana da tempo impegnata su questo versante.

«Dobbiamo renderci conto che nella Chiesa sempre ci saranno diversi livelli di sentimento di appartenenza, e che è un rischio ridurre la Chiesa a una minoranza di ‘puri’, benché se ne possano trovare giustificazioni apparentemente teologiche… Si cade in questo pericolo, quando si oppone la religione delle ‘élites’ e la religione popolare, scegliendo la prima, contro o a detrimento della seconda. Perciò bisogna anche interrogarsi sulla facile distinzione tra ‘cattolici di religiosità popolare’ e ‘cattolici impegnati’, perché, rispetto all’accettazione del messaggio di Cristo, bisogna per lo meno riconoscere che in tutti cresce il frumento e la zizzania» (nn. 61-62).

Religione del popolo e pastorale popolare, Torino 1986; G. AGOSTINO, La pietà popolare come valore pastorale, Cinisello Balsamo 1987; B. ALESSI, Gli archi di Pasqua di S. Biagio Platani, ‘Centro Culturale Pirandello’, Agrigento 1988; M. BARBERA - M. MINNELLA, Pietà popolare. Le edicole sacre di Palermo ieri e oggi, Palermo - São Paulo 1989; FACOLTÀ TEOLOGICA REGIONALE, Progetto culturale Sicilia, a cura di C. Valenziano, Palermo 1989; A. SFERRAZZA, Radici e popolo della religiosità del popolo siciliano, Messina 1990; G. P. FINOCCHIARO, Inventario di materiali sonori, Quaderni dell’Istituto Scienze antropologiche e geografiche, Palermo 1991; C. NARO, La cura pastorale tra innovazioni e continuità; ID., La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre. Ideale sacerdotale e prassi pastorale, Caltanissetta-Roma 1991, 339-514; A. AMITRANO SAVARESE, Sicilia antropologica. Percorsi culturali e profili etnostorici, Palermo 1992; B. RANDAZZO, Religiosità. Mistagogia e pietà popolare in Sicilia, Palermo 1992, 184; Le confraternite dell’arcidiocesi di Palermo. Storia e Arte, a cura di M.C. Di Natale, Palermo 1993. 28 Cfr FACOLTÀ TEOLOGICA DI SICILIA ‘S. GIOVANNI EVANGELISTA’, La Settimana santa: liturgia e pietà popolare, Atti del 4° Convegno liturgico-pastorale, Palermo 15-17 marzo 1995; Religione popolare e fede cristiana in Sicilia, in Synaxis XVI/2 (1998) 353-564.


Sopravvivenza quotidiana…

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Parimenti, rivendichiamo una prospettiva cristiana nella interpretazione della settimana santa la quale, se dovrà fare i conti con le possibili esasperazioni rilevate dagli altri approcci, non è riducibile solo ad esse, come se l’abuso escludesse il corretto uso. In particolare, ci sembra importante il processo di reciproca immedesimazione che si sviluppa intorno al tema del Crocifisso e dell’Addolorata; da un lato il Cristo e l’Addolorata sono l’espressione della vicinanza di Dio, dall’altro la sofferenza quotidiana della gente viene accostata a quella stessa di Dio, sapendo che solo un Dio che conosce il patire (cfr Eb 5,8) potrà capire il lamento della vita offesa e del dolore che spesso inchioda ad una croce non voluta e però poi sopportata29.

3.3. Il rapporto I misteri pagani, pur nella vaghezza e nella opacità dei loro riti, avevano evocato e preludevano all’incontro col divino, seppure intuito in un rapporto cosmico e mitico. In questo contesto vanno superate alcune precomprensioni dell’approccio socioculturale alla pietà della Settimana santa. Se un atteggiamento comparativistico tende a ricondurre le espressioni della religiosità popolare a somiglianze con altre espressioni religiose, tutte unite dalla stessa scansione dei cicli della natura, o a residuo o sopravvivenza di culture arcaiche, l’una e l’altra posizione peccano per difetto; infatti il mondo della natura, in quanto creazione libera posta da Dio come scenario in cui la sua libertà infinita si incontra con la libertà finita della sua creatura, può essere vissuto da parte dell’uomo come luogo della interpretazione del dramma della sua vita aperto all’ingresso in scena di Dio stesso. Infatti, la passione e la sua risurrezione del Figlio di Dio aprono il mondo a “luogo” dell’incontro che la pietà popolare ha tipicizzato nell’incontro tra il Cristo (morto e risorto) e Maria (Addolorata e gioiosa nel giorno di Pasqua); tener desta la tensione tra il venerdì della passione e la domenica di risurrezione è compito di una corretta evangelizzazione che, solo alla luce 29 Per un approfondimento, ci permettiamo di rinviare a C. SCORDATO, La celebrazione del triduo tra anàmnesis e mímesis, in FACOLTÀ TEOLOGICA DI SICILIA ‘S. GIOVANNI EVANGELISTA’, La Settimana santa, cit., 77-110.


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dell’intero evento pasquale, può custodire il valore della stessa contemplazione della morte (e dei cari morti) che nel ‘sorriso’ conclusivo apre al senso ulteriore della promessa di Dio, a quell’amen nel quale risuona il dono del superamento della morte, momento nel quale Dio sigilla l’eterna alleanza dando valore definitivo a ciò per cui si è vissuti. Da questa prospettiva, va riannodato quel filo unico che unisce, pur nella essenziale differenza delle esplicitazioni, la messa, atto sacramentale che ricapitola ed attualizza l’autodonazione di Dio nel servizio della Chiesa, la messa-in-opera dei gesti della condivisione umana sollecitati dalla grazia di Dio che dispone alla memoria esistenziale degli atti di amore, la messa-in-scena della teodrammatica, incontro di Dio col dramma dell’uomo, che attraversando la vicenda quotidiana, la apre alla divina trasfigurazione.


“BONIFICA UMANA”: IL MANICOMIO GIUDIZIARIO DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO

FRANCESCO MIGLIORINO*

Chi oggi volesse dare un senso a quelle stanze infilate l’una dopo l’altra nell’archivio del manicomio criminale di Barcellona, stracolme di carte feroci e d’innocui registri, sentirebbe a stento il brusio di un discorso in cui hanno parlato per decenni alienati e alienisti, guardamatti e minorati, giudicabili e condannati: centinaia e centinaia di uomini che sono venuti alla vita nella medesima pratica insieme con i loro gabinetti scientifici e i loro letti di contenzione, già impigliati in una ragnatela fittissima di giochi di verità e di astuzie di potere. Quel discorso vivente oggi è ridotto in frantumi, sbiadito nell’insensato accumulo della memoria, stenta a comunicare — oltre il muro del secondo recinto — con una realtà di sofferenze (queste sì viventi!) che — catturate ancora una volta dall’indomabile umanitarismo degli uomini — sono in procinto di decentrarsi in nuove ma altrettanto efficaci istituzioni del male mentale1. Vorremmo allora avviare il nostro percorso di ricerca con i frammenti di una storia che, nella sua veste testuale, reclama ai nostri occhi quel groviglio di relazioni con tutti gli altri testi che erano già all’opera nel solenne giorno d’inaugurazione del manicomio criminale di Barcellona: 6 maggio 1925. *

Della Facoltà di Giurisprudenza. Una miriade di associazioni finiranno per spartirsi le spoglie del manicomio criminale sotto lo sguardo compiaciuto di una psichiatria biologica intenta a colonizzare (e 1


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Francesco Migliorino «Mia adoratissima Teresa» — così comincia una lettera scritta sul finire di un giorno di festa in una cella del reparto Giudicabili — «Mi affretto a scriverti in seguito all’ultima mia, nella quale ti dicevo che si sarebbe dovuto inaugurare il Manicomio alla presenza del Ministro di Grazia e Giustizia; e difatti, oggi si è inaugurato alla presenza di Sua Eccellenza Rocco col suo Segretario, un Arcivescovo e molte Autorità Civili e Militari, con gran numero di Regi Carabinieri, Militi Fascisti e signori. Dopo la benedizione di questo pio istituto, Sua Eccellenza in compagnia dell’Ill.mo Signor Direttore del Manicomio ed altre autorità, visitarono questo immenso asilo di carità, il quale è il più grande d’Italia. Fra i fortunati che goderono l’alto onore di essere visitati nella propria camera ci fui pure io uno di questi. Giunsero da me il Ministro Sua Ecc.za Rocco accompagnato dal suo segretario e dal nostro Ill.mo Signor Cav.re Mirabella Emanuele, direttore di questo Manicomio. Egli diede ottime relazioni sul conto della mia grave disgrazia, al che Sua Ecc.za s’informò se ero ancora giudicabile, ed il Signor direttore disse di si; e il Ministro disse “meno male!” Dunque questo motto detto da Sua Ecc.za Rocco ha voluto significare che ancora si è in tempo di farmi giustizia! Io ero invaso da una forte emozione che rimasi come inchiodato e con la parola stretta alla gola, e non ci è stato verso a potermi umiliare di fronte a tanto onore ricevuto […] Come ben comprenderai, Costui è il personaggio più alto-locato della Giustizia, e quindi tutto gli è possibile. Io sono oltremodo contento di aver trovato la Scienza consapevolissima della mia grave situazione, ma ciò che mi martorizza è che il quesito della Scienza viene sottoposto al giudizio povero di dieci qualunque giurati, i quali sono sempre profani di Scienza e di Legge»2.

È un testo di straordinaria bellezza che lascia convivere l’angoscia della manchevolezza umana con l’aurorale speranza della cultura del codice. La dignità e la commozione di un uomo con la parola stretta alla gola per l’incoraggiamento del ministro si accompagnano più avanti alla struggente nostalgia per le figlie lontane e allo scoramento per un soccorso paterno che tardava a venire. E ancora: quando il nostro autore si fa una istituzionalizzare) le più svariate forme di disagio mentale: su questi profili cfr la critica incisiva di F. DI PAOLA, L’istituzione del male mentale, Roma 2000. 2 Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Archivio OPG (= AOPG), Storia clinica n. 4.


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ragione dello scarso entusiasmo del suo difensore e raccomanda ai familiari di essere dignitosi verso i professionisti, perché — così egli scrive — ognuno ha il suo temperamento. Ma c’è di più, ben oltre gli effetti di superficie e i movimenti della crosta. La lettera, in virtù della sua disarmante chiarezza, quanto più è trasparente e visibile tanto più tiene velato un singolarissimo congegno. Scritta con innocente complicità, essa non ha mai raggiunto il suo destinatario ma è rimasta reclusa dentro un fascicolo, per sempre. Eppure, quella lettera riesce ad aggirare — per sua intrinseca astuzia — le strategie di verità del severo e amorevole censore che l’ha preteso per sé e per la sua scienza. Si spinge al punto da provocarci un incontenibile riso quando osserviamo, soggiogato dal pennino del recluso, il più altolocato personaggio della Giustizia precipitare — come in un gioco di specchi — sulla pagina di un libro di storia, un impensato libro di storia clinica. Prima ancora di aver meritato il titolo di Legislatore del Codice. Prima ancora di aver cancellato quella giuria che, anche per il nostro oscuro autore, impacciava il radioso cammino della Scienza e della Legge. Tutto ciò, mentre il direttore-alienista era al lavoro per costruire un vero prodigio: censurare non alla maniera dei giornali russi di fine secolo, per nascondere la verità3, ma per produrla, per mettere alla prova la malattia mentale con le stesse scritture dei folli, con le loro insensate pretese e i loro noiosi deliri4. 3

La metafora è usata da Freud per ammettere, in polemica con la psichiatria del tempo, la stabilità della struttura psichica in quelle forme confusionali e deliranti il cui decorso ideativo solo in apparenza si mostra insensato e insignificante. Per il fondatore della psicoanalisi, anche nelle più serie alterazioni mentali si è in presenza di una sorta di omissione e di distruzione del testo a causa di una censura «che non si dà più la briga di celare la propria attività, una censura che invece di collaborare a una rielaborazione non più scandalosa, cancella senza riguardo ciò che contesta, di modo che quel che rimane diventa incoerente». Un modo d’agire dunque «del tutto analogo alla censura confinaria russa per i giornali, la quale fa pervenire i giornali stranieri ai lettori, che intende proteggere, solo dopo averne cancellato i passaggi pericolosi con spesse righe nere»(L’interpretazione dei sogni [1899], in Opere di Sigmund Freud, a cura di C.L. Musatti, III, Torino 1966, 483). Sul punto cfr le recenti osservazioni di F. PETRELLA, Censura psichica, in Rivista di Psicoanalisi 45 (1999) 45-60. 4 Per M. FOUCAULT, Il potere psichiatrico, in I corsi al Collège de France. I Résumés, trad. it., Milano 1999, 43ss, le tecniche e le procedure impiegate nei manicomi, grazie alla


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Il 14 febbraio del 1925, quando la Storia clinica n.4 varcava il cancello d’ingresso, il manicomio di Barcellona — al termine di una lunga gestazione avviata all’inizio del secolo5 — era già pronto ad accogliere quei criminali già condannati che, durante l’esecuzione della pena, avevano manifestato disordini mentali e quegli imputati da periziare o da tenere in osservazione per il fondato sospetto che il crimine commesso fosse da imputare ad un loro totale o parziale vizio di mente6. Nel nostro itinerario c’è un dato che è troppo ricorrente per non essere sospetto: in tutti i discorsi del manicomio e sul manicomio a campeggiare resta sempre la Scienza (con la maiuscola). È proprio da qui che dobbiamo partire: strada facendo ci capiterà d’incontrare quel miscuglio d’ingredienti che era necessario conoscere per far sì che quel dispositivo funzionasse scientificamente. Ancora in un giorno di festa, tredici anni prima, in occasione della posa della prima pietra dell’edificio, la città si stringeva attorno a Luigi sapiente regia del direttore alienista, svolgevano un duplice ruolo: constatare una verità nascosta e provare (épreuve) una verità da produrre. Entro tali ambigui confini anche la scrittura dell’internato s’incaricava di far apparire la follia quando questa restava celata e silenziosa, raramente essa sfuggiva all’occhiuta sorveglianza del direttore che, dopo averla attentamente vagliata, la destinava alla storia clinica del recluso finalmente violata e disvelata con vistose sottolineature in rosso. Nella medesima linea di ricerca, più di recente si è fermato sui rapporti tra potere e sapere A. FONTANA, Censura, in Enciclopedia Einaudi, II, Torino 1977, 868ss, che acutamente individua nell’attività censoria «il luogo e il modo di produzione del sapere da parte del potere». 5 Utili notizie in V. MADIA, Il Manicomio Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, estratto dalla Rivista di diritto penitenziario 3 (1932) 3-5. 6 Raffaele A., imputato di omicidio e mancato omicidio, proveniva dalle carceri giudiziarie di Nicastro per essere sottoposto a perizia psichiatrica. Dichiarato irresponsabile per epilessia motoria e psichica, fu prosciolto dalla Corte d’appello delle Calabrie il 27 agosto 1925. Prima di essere trasferito al manicomio civile di Girifalco, restò ancora un mese a Barcellona, alternando crisi convulsive a stati di profonda depressione e sconforto. Fra le notizie raccolte sulla famiglia d’origine (pazzia, alcolismo, precedenti penali) fu dato un particolare rilievo (eugenetico e morale) al matrimonio dei genitori: «il padre vecchio e la madre giovanissima (maestro ed allieva!)». Era opinione diffusa che non vi fosse «stato neuropatico in cui è tanto spiccata la tendenza ad atti delittuosi come la epilessia», sicché si finiva per assimilare le più svariate forme di atti violenti imprevedibili ed istantanei alla sfera dell’epilessia psichica che aveva subito nel tempo un consistente ampliamento dei quadri nosologici: cfr G. CREMONA, L’imputabilità degli epilettici, in Rivista di diritto penitenziario 7 (1936) 861-889.


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Facta, ministro dell’interno, e al marchese Ugo di Sant’Onofrio, voce autorevole del notabilato locale e fedele gregario di Giovanni Giolitti. Era ancora viva l’eco di un memorabile dibattito parlamentare (17 maggio 1907) in cui il Sant’Onofrio aveva illustrato le ragioni di un disegno di legge che, istituendo un nuovo manicomio criminale a Barcellona (dopo quelli di Aversa, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia), mirava a porre un argine al crescente numero dei folli criminali che da troppi anni mettevano a soqquadro le fragili strutture degli asili provinciali. Profilassi e sicurezza sociale che due uomini di dottrina, l’on. Lucchini e l’on. Bianchi, nella medesima seduta provvedevano ad inquadrare con i consueti richiami ai fondamenti positivi delle discipline scientifiche7. Nel frattempo, l’autorevolissima Rivista di discipline carcerarie salutava l’avvenimento richiamando i postulati della scuola positiva di diritto penale. Per l’amministrazione penitenziaria italiana, infatti, il nuovo istituto era chiamato a «soddisfare i reali bisogni delle odierne manifestazioni antropologiche e sociologiche nel campo della delinquenza»8. Stupefacente affermazione che lasciava in ombra il formidabile argomento della difesa sociale e preferiva enfatizzare l’augusto recinto disciplinare in cui si ricercavano da decenni nuove osservazioni cliniche e più solide fondazioni scientifiche. Un manicomio, dunque, pensato e progettato come laboratorio sperimentale al servizio di un sapere che reclamava un ruolo centrale nel sistema penale italiano. Tutto ciò non può sorprenderci: l’internamento manicomiale è stato oggetto per più di un secolo di un forte investimento simbolico9 che, situandosi al crocevia tra follia e crimine, ha contribuito ad alimentare nell’immaginario della società quello stato permanente di necessità e di pericolo che ha connotato il sistema penale italiano dai decenni immedia-

7

N. CASSATA, Storia di Barcellona Pozzo di Gotto, II, Palermo 1981, 164ss. Festa per il collocamento della prima pietra del Manicomio giudiziario a Barcellona Pozzo di Gotto, in Rivista di discipline carcerarie 33 (1908) 278ss. 9 F. DE PERI, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia, Annali VII: Malattia e medicina, Torino 1984, 1067ss, insiste giustamente sulla «complessa utopia di normalizzazione dell’etica sociale» che, dai suoi primi esordi, muoveva l’istituzione manicomiale alla «ricomposizione del malato di mente». 8


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tamente successivi all’Unità10. Un’emergenza dopo l’altra: le sollevazioni meridionali, il brigantaggio, le cospirazioni anarchiche, le lotte operaie e contadine. Al fondo un’umanità brulicante e informe di oziosi, di vagabondi, di mendicanti, di pregiudicati, di anomali e di degenerati. Paura delle classi pericolose, dunque, ma anche paura della follia, di quell’esterno che sta dentro, che scompagina col suo comportamento l’ordine del discorso, che insinua il timore per una dimensione sconosciuta dell’esistenza11. Tanto più quando la follia — come accade in molti delitti domestici — esplode con la velocità d’un lampo e colpisce con l’acume di una lama affilata12. Naturalmente è superfluo distinguere tra pericolo reale e pericolo creduto. È importante piuttosto rilevare — come fa Mario Sbriccoli — che le risposte sul piano normativo e su quello delle pratiche di giustizia hanno fatto sì che questa impronta delle origini diventasse uno dei tratti permanenti del sistema penale. Anche con riferimento ai manicomi criminali, le misure di sicurezza non hanno dovuto aspettare il cosiddetto sistema del doppio binario, dal momento che una costituzione materiale penale si era già affiancata stabilmente a quella formale grazie ad un variegato assortimento di procedure speciali, misure amministrative, penalità aggravate e norme straordinarie13. Anche la legittimità dell’internamento poteva dunque fare a meno di una formale previsione legislativa, dal momento che essa trovava un solidissimo fondamento nelle pratiche psichiatriche e in quelle giudiziarie. 10

Per una prospettiva storiografica che si sottrae al facile paradigma delle scuole penali, per esplorare — tra impronta delle origini e costanti di lunga durata — nuovi e più fecondi campi d’indagine, cfr il recente saggio di M. SBRICCOLI, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1990), in Storia d’Italia, Annali XIV: Legge Diritto Giustizia, Torino 1998, 485-551. 11 Cfr Z. BAUMAN, Cultura come prassi, trad. it., Bologna, 1976, 204. 12 Dai primi decenni dell’Ottocento riviste scientifiche e gazzette dei tribunali registrano per lungo tempo una serie cospicua di casi giudiziari (e psichiatrici) che, per la loro gratuita e immotivata efferatezza, scompaginano il rassicurante discorso borghese. Una sorta di paese degli orchi in cui a campeggiare è sempre la figura di Henriette Cornier che col suo crimine senza ragione fu incolpevole e inconsapevole alleata dell’espansionismo psichiatrico nel campo della giustizia penale: cfr in proposito le mirabili pagine di M. FOUCAULT, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), trad. it., Milano 2000, 103ss. 13 Cfr M. SBRICCOLI, Caratteri originari, cit., 489ss.


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Andiamo al cuore del problema. Perché lasciare liberi gli imputati prosciolti per infermità mentale o assegnarli, nel caso di pericolosità, a quegli asili che non disponevano degli strumenti scientifici per governarli? Soprattutto, com’era possibile tollerare che fosse sottratta ad una collaudata tecnologia della normalizzazione una massa cospicua di pazzi criminali che si era costituita in virtù della nozione codicistica di imputabilità? Alla fine, si trattava di ovviare alla colpevole dimenticanza del codice Zanardelli che in merito disponeva soltanto la consegna dell’imputato prosciolto «all’Autorità competente per i provvedimenti legge»14. Bene: dinanzi ad un parlamento che s’attardava in dotti e inconcludenti discorsi è bastato un regolamento generale penitenziario per disegnare, in quattro articoli, la geografia umana dei manicomi criminali: i condannati, colpiti da alienazione mentale, che devono scontare una pena maggiore di un anno; gli accusati o imputati prosciolti per i quali il presidente del tribunale civile pronunzia l’internamento definitivo; gli accusati o gli inquisiti in stato di osservazione15. Ancora una volta le pratiche carcerarie, formidabile officina 14

Art. 46: «Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità mentale da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti. Il giudice, nondimeno, ove stimi pericolosa la liberazione dell’imputato prosciolto, ne ordina la consegna, all’Autorità competente per i provvedimenti di legge». 15 RD 1.2.1891, n. 260 (Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari e pei riformatori governativi del Regno). Art. 469: «Per i condannati che devono scontare una pena maggiore di un anno, colpiti da alienazione mentale, sono destinati speciali stabilimenti, o manicomi giudiziarii, nei quali si provveda ad un tempo alla repressione e alla cura. Per ordinare il trasferimento in un manicomio giudiziario, occorre il rapporto speciale del medico-chirurgo dello stabilimento penale in cui trovasi il condannato, e il Ministero può sentire all’uopo anche il parere di uno o più alienisti»; art. 470: «I condannati che devono scontare una pena minore di un anno, colpiti da alienazione mentale, ma inoffensivi, paralitici o affetti da delirio transitorio, possono rimanere negli stabilimenti ordinarii, ove non manchino i mezzi di cura e non si porti nocumento alla disciplina interna. In caso contrario, possono essere inviati ai manicomi giudiziarii od anche ai manicomi provinciali a spese dell’amministrazione»; art. 471: «Gli accusati o imputati prosciolti, ai sensi dell’art. 46 del codice penale, e per i quali il presidente del tribunale civile pronunzia il ricovero definitivo in un manicomio, giusta l’art. 14 del regio decreto 1 dicembre 1889, n. 6509, sono trasferiti, con decreto del Ministero dell’interno, e su proposta dell’autorità di pubblica sicurezza, in un manicomio giudiziario, ma in sezioni separate»; art. 472: «Nelle sezioni indicate dall’articolo precedente possono essere fatti ricoverare, con decreto del Ministero dell’interno, anche gli accusati prosciolti che, ai sensi dell’art. 13 regio decreto 1 dicembre 1889, n. 6509,


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di sapere, erano in piena consonanza con la scienza che studiava l’anomalia mentale. Come vedremo, era stato proprio lo spazio del carcere ad avviare un’originalissima linea di ricerca nel campo psichiatrico. In tale contesto si capisce perché i manicomi criminali non abbiano mai avuto bisogno di una legge dello Stato per costituirsi, né tanto meno per funzionare, nonostante una legge di riforma fosse chiesta puntualmente ad ogni congresso della Società Freniatrica Italiana16. Quando dopo mezzo secolo di dibattiti la riforma vide finalmente la luce (nel 1904), essa riguardò soltanto gli ospedali psichiatrici provinciali17. Quella legge puntava ad una soluzione custodialista dal momento che poneva per l’ammissione degli alienati il solo criterio della pericolosità18. Quanto bastava per lasciare profondamente delusa la psichiatria accademica che, in questo modo, vedeva sottratta al suo sapere una massa consistente di fiacchi, di deboli nella vita della nazione, di degenerati che, lasciando

«il carattere della loro fiacchezza» ai gruppi sociali di cui facevano parte, rischiavano di ammorbare «il valore di una razza […] strettamente collegato con la salute fisica e mentale e soprattutto con la vigoria del carattere»19.

debbono essere provvisoriamente chiusi in un manicomio, in istato di osservazione»; art. 473: «Sopra apposita domanda dell’autorità giudiziaria, possono essere ricoverati in una sezione speciale dei manicomii giudiziarii, anche gli inquisiti in istato di osservazione. L’assegnazione è fatta per decreto del Ministero dell’interno». 16 Cfr F. DE PERI, Il medico e il folle, cit., 1080ss. 17 Per i diversi progetti di legge che si susseguirono dall’Unità fino all’approvazione in Senato della proposta Giolitti, cfr F. DE PERI, Il medico e il folle, cit., 1131ss e letteratura citata. 18 Legge 14 febbraio 1904, n. 36, art. 1: «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere…». 19 Intervento al Senato (9 giugno 1922) di Leonardi Bianchi che pure era stato tra i presentatori del progetto passato con la legge del 1904: F. DE PERI, Il medico e il folle, cit., 1133s.


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La riforma, soprattutto, lasciava gli imputati prosciolti in quella zona grigia che si situava al confine tra manicomi criminali e ospedale psichiatrici provinciali20. Non era ammissibile che un condannato con perduranti disturbi mentali fosse dimesso a fine pena in virtù di un criterio meramente giuridico, né era utile ingombrare i manicomi criminali con imputati prosciolti i quali, benché inoffensivi, continuavano ad essere rifiutati dalle provincie per timore di violenze e di disordini21. Si faceva strada un’idea di capitale importanza: i direttori-alienisti erano i veri padroni della follia22. 20 F. SAPORITO, Il manicomio criminale e i suoi inquilini, in Rivista di discipline carcerarie 38 (1913) 366: «La legge, infatti, assegnando a questi istituti i prosciolti, ai sensi dell’articolo 46 del Codice penale, vi riversò tutta quella categoria di soggetti che segnano una zona intermedia tra la normalità e la pazzia, e donde esce la schiera dei perenni perturbatori della quiete sociale». 21 Fra i numerosi e allarmati interventi sul problema dei prosciolti, cfr B. FRANCHI, I sistemi carcerari ed i loro sostitutivi nella dottrina e nelle legislazioni in rapporto all’opera lombrosiana, in Rivista di discipline carcerarie 31 (1906) 277-293, che si richiama letteralmente ad un libretto scritto da Lombroso nel 1875 per proporre l’internamento manicomiale obbligatorio «tanto ne’ casi d’assoluzione per infermità di mente, quanto in tutti i casi in cui l’imputabilità sia dubbia, e fino alla completa guarigione della tendenza a delinquere» (285); A. SACCOZZI, Sui prosciolti, in Rivista di discipline carcerarie 34 (1909) 141ss che sottolinea i frequenti conflitti tra amministrazione penitenziaria ed enti provinciali in merito alla custodia e alla cura dei prosciolti; F. SAPORITO, Il manicomio criminale, cit., 364s, che, come è solito fare, riassume l’intera questione in termini perentori: «non tutti quelli che dovrebbero essere rinchiusi nei manicomi criminali vi sono, né tutti quelli che vi sono vi dovrebbero essere […] [il manicomio] accoglie cioè delinquenti in attesa di giudizio pei quali sorge il dubbio della malattia mentale e delinquenti in sconto di pena che diventano malati di mente […] Domina, come si vede, sovrano un criterio giuridico, estraneo e spesso in contraddizione col criterio clinico; perché quando pel condannato scade il periodo di pena, o pel giudicabile è avvenuto il giudizio con una sentenza di assoluzione, pur persistendo la malattia e la pericolosità, l’istituto che deve accoglierlo, in forza delle vigenti disposizioni, non è più il manicomio criminale, ma è il manicomio comune: ossia è una funzione di beneficenza che si sostituisce ad una funzione di sicurezza. Da altra parte, quando i ricoverati dei manicomii giudiziarii, prescelti come si è detto, perdono la loro caratteristica di soggetti temibili […] essi continuano a rimanervi fino a quando non cessa la ragione giuridica che ve li ha sospinti. In questa seconda ipotesi, tutti gl’inconvenienti pratici non si riducono che ad un semplice ingombro (sic!) inutile pel manicomio criminale; ma nella prima ipotesi gli effetti sociali sono disastrosi». 22 Il termine è usato da M. FOUCAULT, Il potere psichiatrico, cit., 49, per rappresentare quell’ambiguo intreccio fra trattamenti-castigo e colloqui morali, fra rigore e ricompense, fra relazioni di domesticità e di vassallaggio che facevano del direttore l’unico


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Sul finire del secolo la psichiatria italiana aveva già definito da tempo il suo statuto scientifico, grazie al sapiente innesto del paradigma anatomopatologico nel campo della pratica clinica. Eppure, le vivaci dialettiche che l’attraversavano, le accese dispute sul suo carattere scientifico, medico o neuropatologico, lasciavano appena intravedere quell’aporia che avrebbe portato col passare del tempo allo scollamento tra il manicomio e gli elementi fondativi del sapere psichiatrico. La freniatria italiana dopo aver conquistato con fatica il suo posto tra le cliniche mediche, finiva per propugnare, pur con accenti diversi, un modello istituzionale che era in stridente contrasto con l’utopia terapeutica dello sguardo clinico, dell’ascolto, dell’osservazione23. Nella nostra linea di ricerca è importante rilevare il ruolo determinante della psichiatria moderna nella messa a punto di una valutazione differenziale degli individui fortemente connotata da giudizi morali. Con una scala di misura che era ad un tempo biologica, psicologica ed etica, ci si spingeva al punto da attribuire lo svantaggio sociale dell’individuo a cause d’inabilità dell’anima e di degenerazione della volontà24. La follia, dunque, personaggio capace di dominare, alleviare e riassorbire la follia. Non è per caso che gli alienisti italiani abbiano salutato con grande favore l’unificazione della funzione amministrativa e di quella medica nella persona del direttore alienista. Per tutti, il solito F. SAPORITO, Il manicomio criminale, cit., 363: «Fu merito di Alessandro Doria di troncare, d’un colpo, l’equivoco, affidando questi istituti al solo governo pieno ed intero dell’alienista […] tutto è cambiato dalle fondamenta; tutto un processo di differenziazione si è venuto a stabilire […] tutta una tecnica speciale, la quale impronta i suoi principii alla tecnica carceraria ed alla tecnica ospitaliera, in relazione al duplice fine della sicurezza e della cura». 23 Per tale linea interpretativa, cfr F. DE PERI, Il medico e il folle, cit. La ferita narcisistica inferta dalla biologia di Pasteur alla figura del medico che, quasi all’improvviso, scoprì di essere stato per ignoranza uno dei maggiori agenti di diffusione del contagio ha determinato nello sguardo clinico e nello spazio ospedaliero un diverso rapporto con la verità e la produzione della malattia (M. FOUCAULT, Il potere psichiatrico, cit., 43ss). Diversamente, l’istituzione manicomiale ha continuato a produrre — come al tempo di Charcot — i suoi effetti iatrogeni, con un progressivo scollamento, nel campo proprio del sapere psichiatrico, fra nosologia ed eziologia. Nonostante Basaglia, la psichiatria contemporanea continua a portare i segni di quell’antico divorzio dalla clinica medica, mette anzi allo scoperto la fragilità dei suoi fondamenti con l’affannoso tentativo di accordare le sue molte voci, quanto meno sulle interminabili caselle diagnostiche (vedi il DSM-IV, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Edition): cfr F. DI PAOLA, L’istituzione, cit., 13ss. 24 Cfr G. JERVIS, Presenza e identità, Milano 19922, 94ss.


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come «disturbo nel modo d’agire, di volere, di provare passioni, di prendere decisioni e di essere liberi», la follia che non apparteneva da tempo alle chimere del mondo, ma che metteva allo scoperto, con le sue affezioni morali, una condotta irregolare e anormale25. Dai suoi primi esordi, al tempo di Pinel ed Esquirol, la nozione di follia morale26, approdata ormai in un clima di dilagante scientismo, poteva finalmente avanzare la pretesa di saldare il criterio etico-psicologico alla concretezza dell’apparato corporeo27. Come nella colonia penale di Kafka, anche nel manicomio di Barcellona un sapiente apparato disciplinare scriveva giorno dopo giorno sulla carne dell’internato i segni del suo stato morboso. Una scrittura minuziosa e ossessiva che nutriva l’illusione di conoscere l’uomo nella sua anima e nella sua intenzione, di curarlo e di redimerlo, di governarlo nella sua realtà biologica e nella sua natura criminale. Le notizie sulla famiglia (pazzia, suicidio, alcolismo, sifilide, nevropatie, criminalità) e quelle individuali (dentizione, parola, educabilità agli istinti, condotta sociale) stavano insieme con i precedenti giudiziari: tutto sotto il titolo di Anamnesi. E ancora: il sistema pilifero, la fronte, le sopracciglia, il naso, le labbra, il palato e quant’altro ancora insieme con le cicatrici, le storpiature, i tatuaggi, le funzioni trofiche, la soglia spaziale tattile e dolorifica, la sensibilità, il campo visivo, la motilità riflessa e volontaria. Per finire, le funzioni psichiche, distinte con piglio botanico in sfera intellettiva, affettiva e volitiva. Una stupefacente ipertrofia di informazioni che, se scalfivano appena il soma dell’internato, avevano in compenso il vantaggio di assegnarlo alla nicchia nosologica a cui l’aveva destinato il sapere psichiatrico28. Dopo un 25

M. FOUCAULT, Il potere psichiatrico, cit., 46ss. Cfr in proposito l’interessante linea di ricerca di M. GALZIGNA, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Venezia 1988. L’ambiguo intreccio tra follia e criminalità si evince soprattutto dalle perizie psichiatriche: un esempio, fra tanti, è la raccolta di E.J. GEORGET, Il crimine e la colpa. Discussione medico legale sulla follia, a cura di M. Galzigna, Venezia 1984. 27 Cfr G. JERVIS, Presenza e identità, cit., 95. 28 Parla proprio di nicchie entro cui installare le diverse psicopatie il fondatore del manicomio di Aversa, là dove rivendica ai progressi del sapere psichiatrico il crescente aumento dei casi di follia rilevati fra i carcerati. Cfr G. VIRGILIO, L’origine e le vicende del 26


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così accurato scandaglio, l’internato era diventato intrinsecamente simile a tutti gli altri folli che si radunavano sotto la medesima classe29. La temibile coppia follia-pericolosità ha un forte impatto emotivo quando si spinge al punto da toccare la figura paterna del sovrano, quando pretende persino di colpire al cuore la metafora stessa del corpo sociale. In Inghilterra ripetuti tentativi di regicidio affrettarono il varo di un apposito Insane Offender’s Bill (1800) e la fondazione del primo manicomio criminale d’Europa (Broadmoor, 1863). In Italia l’attentato dell’anarchico Passanante a Umberto I sollevò — così raccontano le cronache — una commozione e un’indignazione generale. Ancora una volta riappare l’antico dissidio: il sistema punitivo esige la pena di morte, gli alienisti invocano l’internamento per anormalità psichica. Alla fine i piani s’incontrano, il crimine si specchia nella follia, la pena si traveste da terapia. Per l’attentatore giunge la grazia del magnanimo re e il ricovero perpetuo al manicomio di Aversa. Grazie a questo libero scambio Passanante evitò la forca e diventò un prezioso reperto per l’osservazione e lo studio della natura morbosa del delitto30. Follia e delinquenza, accomunate insieme dalla pericolosità, quasi naturalmente erano chiamate a stringere un duraturo sodalizio. Per sostenere la sciagurata parentela la scienza era già al lavoro intorno alle possibili varianti della nozione di follia morale. Imbecillità morale, pazzia morale acquisita, pazzia morale paranoica, pazzia morale epilettica, fra tutte le alterazioni degli affetti e dei sentimenti, erano le forme morbose che più facilmente scatenavano gli istinti criminali. Erano anzi le più diffuse manicomio giudiziario di Aversa, in Rivista di discipline carcerarie 25 (1900) 346s: «Guardato e studiato anche il delinquente al lume della già tanto progredita scienza medica, riusciva molto più agevole che non era stato in antecedenza il discernere oltre alle banali e turbolenti alterazioni dello spirito[…] anche quelle delicate sfumature abnormi di pensiero, di sentimento, di volontà, che danno il diritto di annoverare nel numero dei pazzi conclamati molti i quali non avevano fino ad allora, nelle diverse forme psicopatiche, le nicchie ove potessero istallarsi (sic!)». 29 Si potrebbe anche dire, con Mary DOUGLAS, che il manicomio — come tutte le istituzioni — conferisce identità mediante sistemi di classificazione che sono socialmente controllati e culturalmente costruiti: Come pensano le istituzioni, trad. it., Bologna 1986. 30 Con toni apologetici e con smisurata ammirazione per il fondatore del manicomio, si ferma sull’episodio e sui suoi esiti clinici F. RICCIARDI, Il manicomio giudiziario di Aversa “Filippo Saporito”, Aversa 1965, 24s.


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anomalie che si riscontravano nei criminali pazzi, fra quei condannati che, per sopravvenuta follia, transitavano dal carcere al manicomio31. La percezione di una psicopatia che altera radicalmente la sfera affettiva e morale dell’individuo rende possibile una mirabile manovra: nonostante la frammentazione dei quadri nosologici, essa non restringe il dominio della follia ma lo allarga a dismisura fino a comprendere, in tutte le sue gradazioni e manifestazioni, l’insensato, l’anomalo, il mostruoso, il perverso. Come ha intuito Michel Foucault, questo nuovo dominio dell’anomalia fa sì che il discorso giudiziario e quello medico diventino finalmente riducibili l’uno all’altro32. Per questa via l’alterazione della sfera morale e l’imbecillità costituzionale fanno finalmente il loro ingresso nelle sentenze della Cassazione33. 31 Con il consueto piglio botanico la psichiatria forense classificava le malattie mentali in rapporto ai sentimenti, all’intelligenza e alla volontà, individuando nelle frenosi affettive e morali «le forme mentali che più spesso si riscontrano nei pazzi-criminali». Un diffusissimo saggio del direttore del manicomio criminale di Reggio Emilia esplicitava, con l’illustrazione di numerosi casi clinici, convinzioni largamente condivise dagli alienisti italiani. Cfr A. SACCOZZI, Pazzia e criminalità in riguardo alla psico-patologia forense, in Rivista di discipline carcerarie 29 (1904) 290ss: «L’imbecillità morale, infatti, denota la completa cecità morale, quello stato nel quale manca fino dall’infanzia per causa congenita e per deficiente sviluppo dei sentimenti morali qualunque concetto di etica e il soggetto si trova inadattabile nella convivenza sociale, dedito al solo soddisfacimento delle proprie tendenze istintive, dei propri sentimenti egoistici che sono la sola sua guida. Salvo qualche lieve variante si identifica col delinquente nato. La pazzia morale acquisita comprende tutti quei casi nei quali una causa occasionale, traumi, abusi alcoolici, infezioni, intossicazioni di qualunque natura, ha fatto insorgere un processo di alterazione mentale che ha lesi i sentimenti morali i quali, si sa come siano i primi ad essere turbati e a figurare col loro pervertimento nel quadro delle psicopatie criminali. La pazzia morale paranoide, secondo me, deve comprendere tutte quelle forme mentali che presentano nella loro polimorfa varietà un complesso di deficienza morale unita a concetti, in gran parte deliranti, propri dei paranoici. Anche questa categoria è molto ricca, essendo spesso in giuoco due elementi che sono potenti fattori della delinquenza […] La pazzia morale epilettica comprende tutte le forme di pazzia morale che può produrre l’epilessia sia congenita che acquisita». 32 M. FOUCAULT, Gli anormali, cit., soprattutto 37ss. 33 In una sentenza del 30 aprile 1937, la Corte di cassazione decide per la totale irresponsabilità degli imbecilli costituzionali: «incapaci di vita civile», costoro «hanno rallentato il processo creativo, si caratterizzano per deficienza mentale da deviazione intellettuale e sentimentale e per gravi alterazioni della sfera morale, ed, inoltre, presentano spesso gravi alterazioni antropologiche, anatomiche e funzionali» (in Rivista di diritto penitenziario 8 [1937] 822s).


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Si potrebbe aggiungere che è proprio il dispositivo del carceremanicomio a instaurare un ordine del discorso che per funzionare dev’essere solo parzialmente psichiatrico e solo parzialmente giudiziario. Il penalista è assimilato al medico, l’ospedale al carcere, l’esecuzione della pena al decorso della malattia. Sullo sfondo a primeggiare quella singolare figura di scienziato ermafrodito (metà giurista, metà psichiatra) che è intento a studiare il delinquente anormale come fosse la provetta di un gabinetto chimico34. Per il manicomio il carcere è stato un formidabile serbatoio di esperienza. Con le sue modalità di distribuzione differenziale delle masse, con la sua straordinaria capacità di formazione, di investimento, di cumulo e di crescita del sapere35. Pensiamo alla prodigiosa invenzione della cartella biografica che raccoglie ogni tipo di indagine sulla personalità del recluso: la sua posizione giuridica, i suoi precedenti morbosi (pazzia, suicidio, alcolismo, sifilide, malattie dell’infanzia), la sua sfera morale (nella famiglia, nella scuola, nel lavoro), persino il suo modo di sentire e di 34

Esemplari in proposito gli slittamenti semantici (tra giustizia e medicina) in uno scritto che il direttore generale per gli istituti carcerari dedica al regime delle misure di sicurezza (G. NOVELLI, Il primo esperimento delle misure di sicurezza in Italia, in Rivista di diritto penitenziario 8 [1937] 17-48): «la ricerca del penalista, che costruisce teorie e istituti senza mai affacciarsi negli stabilimenti carcerari per sentire la voce della realtà umana che in quegli ambienti si leva nelle più varie risonanze, molto somiglia alla ricerca del medico che nella biblioteca, tra volumi e fascicoli, s’affaccia a trovare ricette e rimedi senza mai frequentare un laboratorio e un ospedale, senza mai seguire il decorso di una malattia e controllare gli effetti di una cura». Novelli esorta i cultori delle scienze morali e giuridiche ad «attingere dal gabinetto sterminato della vita, dell’aggregato sociale, gli elementi di ricerche e di controllo», avvalendosi di quello straordinario osservatorio che è l’ambiente carcerario. Il carcere, anzi, «può rappresentare, nello studio della fenomenologia della delinquenza, quello che è la provetta nel gabinetto del chimico, perché isola in un certo senso il soggetto dalle influenze perturbatrici dell’ambiente e consente lo studio appropriato della personalità di lui con tutte le ricerche collaterali, che sono necessarie all’applicazione e all’esecuzione delle leggi penali» (Ibid., 19). 35 È esemplare in proposito la biografia di Gaspare Virgilio che, come sanitario di una casa di pena, s’impegnò a studiare «l’analogia grandissima e talora anzi l’identità tra delitto, anomalia e malattia mentale», rivendicando «solo a chi sia addentro nello studio dell’antropologia, dell’anatomia e fisiologia del sistema nervoso, non che della psicologia sperimentale» gli strumenti semiotici della vasta gamma delle degenerazioni umane: G. VIRGILIO, L’origine, cit., 362.


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pensare. Negli anni trenta il direttore dell’amministrazione penitenziaria, con innocente candore, poteva vantarsi del fatto che le cartelle dei condannati erano tanto accurate e minuziose quanto i fascicoli dei funzionari36. Nel carcere e dal carcere, dunque, è nato il manicomio giudiziario: all’interno di quel recinto si è posta con drammatica emergenza il problema di una stabile istituzione della follia criminale37. Pare di vederlo, Gaspare Virgilio, medico chirurgo del carcere di Aversa, nella sua «umile oscura cameretta» — sono parole di Filippo Saporito — animato da nient’altro che «dall’intuito di una nuova verità»: prendendo a pretesto i tagli e le amputazioni, compiva «misure antropometriche ed osservazioni psicologiche comparativamente a quelle dei pazzi»38. Quando la sezione dei cronici fu trasformata nel primo manicomio criminale, quel modesto chirurgo era già un provetto alienista che credeva fermamente nella «nobile missione» — sono parole sue — «di mettere a profitto, per una salutare rigenerazione, la putredine che si raccoglie nelle sentine dell’umana miseria, che sono le carceri non meno che i manicomi»39. Il carcere come una piega della società, come un suo diverticolo. Vengono alla mente le allarmate risposte al referendum indetto nel 1908 dalla Rivista dell’amministrazione carceraria sul cosiddetto sistema di governo dei detenuti indisciplinati, ribelli ed agitati. Negli interventi quasi sempre il disordine della condotta dei detenuti è valutato nel quadro di «considerazioni biologiche d’ordine psico-fisico e d’ordine morale». In un caso si rileva ad esempio che fra gli irriducibili si rinviene sovente una sorta di «humus adatto allo sviluppo delle psicopatie e della delinquenza», quelle 36 Società di antropologia e psicologia criminale per la lotta contro la delinquenza, Seduta (18 aprile 1934), discorso pronunciato da G. NOVELLI, in Rivista di diritto penitenziario 5 (1934) 1085. 37 Ne era pienamente consapevole Filippo SAPORITO quando scriveva: «Il manicomio criminale deve considerarsi come una forma evoluta e specificata del penitenziario e del carcere, allo stesso modo come il manicomio civile è stata una evoluzione e specificazione dell’ospedale comune»: Manicomi criminali?, in Rivista di discipline carcerarie 32 (1907) 168. 38 F. SAPORITO, Il manicomio criminale, cit., 360. 39 G. VIRGILIO, L’origine, cit., 362.

III


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tare ereditarie che «regalano facilmente alla società gli eccentrici, gli squilibrati, i mattoidi, i deficienti, i pervertiti nel senso morale, gli impulsivi, gli abulici ecc. ecc.»40. Dal carcere alla società in preda ad una vera e propria epidemia, sul punto quasi di ripercorrere all’indietro la scala evolutiva della specie. Si evoca lo spettro del contagio e — come si usa fare nei discorsi scientifici — si espongono tabelle e medie per dimostrare la deleteria influenza sociale di uno sgangherato esercito di folli: nevrastenici, psicastenici, imbecilli, epilettici, abulici, anaffettivi, paranoici, frenopatici e amorali. C’era chi non perdeva occasione per scagliarsi contro i signori giuristi della scuola classica e disegnava, con la consueta eloquenza della toga, quadri apocalittici:

«Ma vivaddio! Questa gente non è dunque soddisfatta se non quando la carneficina si compia tutta sino alla fine? E quante vittime ancora dovranno cadere sotto il pugnale degli assassini, prima che i giuristi s’affranchino dall’ipnosi dei supremi principii […] e sentano il dovere morale, prima ancora che il dovere scientifico, di rinnovare la loro coscienza alla stregua del diritto umano e secondo l’imperativo categorico della difesa sociale?»41.

Carcere o manicomio?, si chiedeva nel 1911 Emanuele Mirabella42. Quello scienziato che da lì a qualche tempo sarebbe diventato il primo direttore di Barcellona poteva già vantare una solida esperienza di studio sulle perversioni dei detenuti afflitti da pazzia morale. La sua scrittura è a dir poco sorprendente. Così ricca di metafore, allusioni, trovate narrative, si dipana con un gusto per il particolare e per l’orrido che la fa assomigliare più ai racconti di Poe che alle severe e sobrie descrizioni di Kraepelin. Il carcere ha un’anima, malvagia e cattiva, con i suoi affetti e le sue passioni. Allo «stridere delle porte ferrate» e al «pesante tintinnio delle 40

Rivista di discipline carcerarie 33 (1908) 144-154. B. FRANCHI, I sistemi carcerari, cit., 293. 42 E. MIRABELLA, Carcere o manicomio? Studio di antropologia criminale, in Rivista di discipline carcerarie 36 (1911) 285-299; 37 (1912) 318-334. 41


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chiavi» diventa più sfrenata la naturale ribellione dei peggiori. Si fa strada in costoro una mania di persecuzione, un irrefrenabile odio verso i superiori e i compagni, una sete di vendetta che ha gli stessi colori del loro spasimo e del loro furore. Nelle allucinazioni di queste belve umane quel luogo di espiazione appare con «le fauci dello stesso assassino-mostro» che ha divorato la loro esistenza. Manicomio, dunque, non carcere! Quegli uomini hanno la psiche ammalata e sono germi d’infezione morale. «A loro spetta il manicomio, loro casa di salute, la quale oltre ai mali materiali curerà la loro psiche ammalata, il loro animo pervertito»43. La perversione dunque come scambiatore tra follia e crimine. Se poi guardiamo ai casi clinici descritti da Mirabella comprendiamo perché il gioco della doppia qualificazione, medica e giudiziaria, avesse bisogno per funzionare di un discorso parentale-infantile, sostenuto più dal biografismo morale che dal metodo scientifico. Facciamo qualche esempio. Di un pazzo morale:

«A sette anni fu onanista, ad undici frequentatore di postriboli. Immensamente loquace, si compiace parlare spesso in gergo […] dedito a tutte le passioni: Bacco, tabacco e venere. In lui non si ha vestigia di sentimenti morali, affettivi e religiosi; istinti malvagi, carattere morale perverso, espressione fisionomica truce […] vanitoso al grado massimo».

Rimprovera al direttore di pretendere l’amore dai suoi sudditi. Per 10 o 12 volte al giorno si masturba anche in presenza dei suoi compagni. «È uno scostumato, un pazzo!»44. Di un paranoico criminale:

«Individuo di carattere cupo, misantropo, chiuso, permaloso, irritabile, diffidente […] fu sempre malaticcio nell’infanzia, dedito all’onanismo nella 43

Ibid., 286s. Ibid., 288-293. Giuseppe B. era stato condannato a otto anni e quattro mesi di reclusione per mancato omicidio. 44


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Francesco Migliorino pubertà […] ha un fratello che anni addietro tentò il suicidio perché eccentrico ed un altro in carcere […] teme d’esser tenuto per pazzo, per stupido, per mascalzone […] ha perturbazioni nella sfera sessuale, è tormentato quotidianamente da stimoli erotici ed è afflitto da polluzioni notturne».

Si esclude la simulazione di follia per l’ottusità sensoriale e la canizie precoce45. Di un epilettico:

«Sin dai primi anni mostrò prave tendenze, in lotta continua con i compagni ne aveva sempre la peggio […] ribelle a tutti, tanto che arrivò a inveire contro la propria madre. Egoista al grado massimo, pretendeva farla da camorrista nel giuoco con i compagni di sua età […] scacciato [dalla scuola] perché di condotta deplorevolissima essendo stato trovato a masturbarsi in classe (vizio che contrasse a otto anni) […] Nulli sono in lui i sentimenti religiosi, atteggiasi a miscredente»46.

Di un grave disturbo della coscienza:

«Sin dall’infanzia fu la disperazione della famiglia, attaccava lite con tutti i coetanei, i quali irritati lo bastonavano spesso oppure lo fugavano a colpi di pietra […] ad otto anni cominciò a masturbarsi, a quindici anni ebbe contatto con le donne. Narrò che dopo una masturbazione provava delle forti vertigini, le quali aumentavano in intensità ad un secondo atto masturbatorio […] nelle case penali che ha girato è stato molte volte pederasta passivo per procurarsi un po’ di cacio, di vino, di tabacco. Le sue pratiche onaniste sono

45 Ibid., 293-296. Gavino C. aveva subito una condanna a sette anni di reclusione per incendio doloso. 46 Ibid., 296-299. In carcere per furto e contrabbando.


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di patrimonio pubblico […] L’anestesia affettiva è di pari grado a quella etica, mai si è curato dei suoi cari, odia cordialmente sua madre»47.

Questo testo, come tanti altri dello stesso genere, lascia una serie di inquietanti interrogativi. A noi tocca evitare risposte rassicuranti. Qui non siamo in presenza di un bieco moralismo, né tanto meno di una malaugurata défaillance di scienziati inesperti. Qui non è in questione la scienza, è in azione un complicatissimo congegno che, per ridurre una molteplicità di individui in uno spazio determinato e per un tempo determinabile, accumulava conoscenze tecniche non necessariamente riducibili alla coerenza del discorso scientifico. Una macchina astratta, dunque, che non si costituiva in rapporto agli individui concreti ma che classificava e radunava gli individui concretamente funzionali ai suoi meccanismi. Tanto è vero che, nonostante la codificazione delle misure di sicurezza, la previsione di un abbassamento del numero di prosciolti e condannati fu clamorosamente smentita dai fatti48. 47

Ibid., 318-320. Il direttore dell’amministrazione penitenziaria, tracciando un bilancio delle misure di sicurezza a sette anni dalla promulgazione del codice, ammetteva che le previsioni del guardasigilli Rocco non si erano realizzate. Si diceva che il numero dei prosciolti sarebbe diminuito, dal momento che la presunzione di pericolosità contenuta nell’art. 222 comportava una misura tanto onerosa da sconsigliare facili richieste di proscioglimento; si riteneva, inoltre, che la sospensione della pena (disposta dall’art. 148) era un valido deterrente alla simulazione di malattia mentale, dato che il tempo trascorso in manicomio non era computato ai fini dell’esecuzione. Nonostante tutto, però, il numero dei prosciolti aveva subito dal 1930 un consistente aumento, mentre era diminuito di poco quello dei condannati in internamento. Il fenomeno, alla fine, è spiegato con la «maggiore considerazione che le nuove leggi penali hanno per la personalità del colpevole». Ancora una volta a campeggiare è la Scienza, con i suoi progressi, che accerta con più incisiva efficacia «le condizioni mentali del soggetto» e, come una dea bendata, prescinde «dalle conseguenze giovevoli o sfavorevoli che ne possono derivare per lo stato di libertà dello stesso»: G. NOVELLI, Il primo esperimento, cit., 30ss. In merito alla sospensione della pena e alla posizione degli alienisti italiani (nettamente contraria) sarebbe utile un apposito studio. Qui ci limitiamo soltanto a rilevare la ricchezza del dibattito che — dall’o.d.g. De Crecchio votato dal congresso della Società Freniatrica Italiana (1930) ai ripetuti scritti apparsi nelle riviste scientifiche — ebbe il merito di toccare i nodi più spinosi del rapporto tra psichiatria e giustizia: pensiamo alla nozione di 48


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Follia, delinquenza, perversità, pericolo, paura s’incaricavano di tracciare quell’orizzonte di mondo che segnava i confini del mondo del carcere e del manicomio. L’irruzione nel discorso dell’anomalia e della perversione cancella finalmente quel solco che da sempre separava la ragione dal delirio. Ormai non sono più sufficienti né bordi né linee. Per misurare la risposta sociale alla pericolosità dell’anormale è già pronta una nuova analitica della follia. La questione criminale diventa un problema di bonifica umana. Il termine connota un campo semantico i cui significanti si radunano, in maniera apparentemente disassortita, dai più svariati campi della conoscenza: dalla clinica alla fisiologia, dalla psichiatria all’eugenica, dalla biologia alla statistica, dal diritto all’antropologia in tutte le sue possibili varianti. Una sorta di metasapere senza fondamenti49, un policlinico della delinquenza, una grande impresa terapeutica per la disinfezione della società50. Il manicomio criminale allora non è un’istituzione chiusa. Anzi, funziona come relais di un circuito, come infermeria del corpo sociale malato. Si entra in infermeria dal carcere perché in preda alla follia e con le stimmate della perversione, per essere osservati e classificati. Si arriva dalle aule di giustizia quando la giustizia consegna la follia al verdetto dei periti. Il manicomio, nel frattempo, è al lavoro: trattiene molti, respinge i simulatori, invia alcuni alle case per minorati o agli ospedali civili, imputabilità, alla capacità afflittiva della pena sugli alienati, ai criteri per determinare l’insorgenza della malattia, alla semiotica della simulazione di malattia mentale. In proposito, cfr almeno E. PATINI, Lo spirito e la lettera dell’art. 148 del vigente codice penale, in Rivista di diritto penitenziario 5 (1934) 105-121; G. CREMONA, La sospensione del corso della pena per sopravvenuta infermità psichica durante l’esecuzione, in Rivista di diritto penitenziario 9 (1938) 327- 355. 49 M. FOUCAULT ha sottolineato giustamente che la perversione (come scambiatore tra psichiatria e giustizia) «quanto più è epistemologicamente debole, tanto meglio funziona»: Gli anormali, cit., 38ss. 50 F. SAPORITO, Il manicomio criminale, cit., 363: «Il manicomio criminale è il policlinico della delinquenza e sotto questo aspetto esso costituisce uno dei maggiori vanti della nostra Nazione», anche se — a suo dire — era «ancora troppo lontano dall’ideale del manicomio criminale, quale fu concepito da coloro che ne vagheggiarono la fondazione […] come a mezzo sovrano di difesa sociale e di trattamento razionale di molti e forse della maggior parte dei delinquenti» (Ibid., 360).


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sorveglia soprattutto le belve umane e ne raccomanda l’internamento in speciali teratocomi. Nelle storie cliniche di Barcellona questa sapiente opera di smistamento è impresa difficilissima, soprattutto quando il vivente si sottrae alle costrizioni nosologiche51. I ricoverati modello (agitati o no) sono quelli che si lasciano inquadrare diagnosticamente nei minuziosi diari clinici52. Alla fine a giganteggiare, nelle scritture degli internati, resta la figura del direttore. Per uno è il padre che nega il suo amore al più sfortunato dei figli53, per un altro è lo scienziato che sa leggergli nel corpo e 51 Nei casi più controversi si mette in scena la messa alla prova della simulazione di malattia mentale, che attiva, fra il medico e l’internato, un sottile gioco d’astuzie e una quotidiana lotta di furberie. Il criterio della stereotipia diventa in mano agli alienisti uno strumento diagnostico per dare coerenza ad atti formalmente illogici. Alla fine, però, c’è chi deve ammettere i fragili fondamenti di una semiotica della pazzia simulata: E. PATINI, Contributo alla diagnosi della pazzia simulata, in Ricerche di Neurologia, psichiatria e di psicologia dedicate al Prof. Leonardi Bianchi, Catania 1913, 529-547. 52 Si pensi soprattutto alla dementia precox in cui la logica del delirio ha negli anni un decorso prevedibile e previsto. Esemplare la lunghissima degenza di Teopista M., il quale — per una singolare coincidenza — condivide con il direttore Vittorio Madia gli anni della sua permanenza a Barcellona (dal 1927 al 1955). Schizofrenico, egli fornisce allo sguardo clinico dell’alienista una mole rilevantissima di dati, tutti riconducibili alle magistrali descrizioni del trattato di Kraepelin: «apparisce torpido, risponde con ritardo, non sempre mangia regolarmente […] ha avuto qualche breve fase di agitazione, caratterizzata da logorrea e da movimenti concitati […] apatico, abulico, illogico, incoerente sempre […] senza affetti e senza volontà […] appartato e solitario […] delirante, dissociativo ed acritico, vive chiuso in se stesso […] disorientato, allucinato, delirante, megalomane, simbolista, anaffettivo, apatico, abulico, negativista, introvertito, asocievole […] nel complesso governabile» (AOPG, Storia clinica n. 260). 53 AOPG, Storia clinica n. 422. Umberto M. era definito delinquente per istinto con tinta paranoide. Era stato condannato a 20 anni di reclusione per fratricidio. Dopo due anni (il 2 luglio 1931) fu trasferito alla casa penale di Lecce. Lettera del 21 febbraio 1931 al direttore: «Ha mai costatato de visu l’amarezza della disillusione? No? Male […] ero ricorso alla S.V. Ill.ma con una fiducia indescrivibile, ero più che certo che l’animo suo non era insensibile alla mia preghiera, ed invece ebbi per decisione che non era possibile. Che cosa a Lei è impossibile? Nulla. Chi più di Lei? Nessuno. Lei è un Dio. Lei solo è l’arbitro incontrastabile. Chi Le può mettere piede avanti? Nessuno. Chi può sindacare il suo operato? Nessuno […] per quale motivo ho demeritato la sua benevolenza? A questo interrogativo resto di sasso. Come non merito? Come mi suona strano questo non merito. Eppure mi sto adoperando con tutte le mie forze onde mantenermi immacolata la sua benevolenza […] disponga pienamente di me, perché è un piacere da parte mia servirla, anzi mi sento


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nell’anima54, per un altro ancora egli è l’unica persona a cui raccontare una pazzia nascosta che non si vede55. Come il direttore d’orchestra di Canetti altamente onorato eseguire i suoi ordini, qualunque essi siano. Poi non posso capacitarmi perché Lei, così buono gentile ed amabile con tutti, con me poi è così inesorabile aspro e severo. Perché?». 54 AOPG, Storia clinica n. 421. Costantino B., dopo un periodo d’internamento al manicomio criminale di Montelupo, fu ammesso a Barcellona il 27 ottobre 1929. Aveva subito una condanna a 14 anni di reclusione per concorso in omicidio con il padre. Durante l’esecuzione della pena aveva manifestato gravi disturbi mentali. Prima di disporne il trasferimento definitivo a Montelupo i sanitari di Barcellona fecero una diagnosi di schizofrenia. In una lettera dell’1 gennaio 1930 Costantino B. chiede al direttore di essere trasferito nel carcere dove era recluso il padre: «Vostra Signoria Ill.ma avete detto oggi che io devo fare quello che dice vostra Signoria Ill.ma. Io sono sempre pronto a fare quello che vostra Signoria Ill.ma comandate di fare […] perché vostra Signoria Ill.ma come uomo scienziato mi leggete tutto in corpo a me come sono fatto e come penso e come faccio le cose […] voglio solo pregare a V.S. Ill.ma di farmi la carità di mandarmi con mio padre […] sempre col dispiacere però di non vedere più V.S. Ill.ma». Un mese dopo chiede di essere messo insieme con l’internato D.A. con cui condivide la passione per la musica: «Da quando mi trovo qui qualunque cosa ho fatto la domandina a V.S. Ill.ma mi avete sempre accordato ed io lo riconosco e vi bacio le mani e vi voglio bene e vi ringrazio e cerco di non seccarvi più ma però subito adesso vi cerco un’altra cosa di niente e se anche non mi accordate vi voglio bene lo stesso perché capisco che non si può dire sempre di sì […] volessi andare a stare in camera con D.A. perché lui si impara il mandolino e io pure […] ora come va va sono sempre contento, poi giacché mi trovo a scrivere mi raccomando pure a V.S. Ill.ma che non vi scordate del povero coccodrillo vostro che vi vuol bene e pensate che sono restato senza madre e senza padre perché io in queste condizioni non posso scrivere a nessuno perché io se non devo avere nessuna speranza devo scordar tutti perché io non mi sento proprio di fare altri sei anni e mezzo di galera, ma siccome faccio sempre dei sogni brutti e i carcerati dicono che vanno sempre alla rovescia ecco che io tengo sempre la speranza che V.S. Ill.ma dovete essere l’orecchio d’Italia che sente il mio lamento». 55 AOPG, Storia clinica n. 425. Lettera del 9 giugno 1932: «Ci ò un fatto insopportabile che non posso mettere la testa sul cuscino la notte. Non dormo per niente la notte. Non posso stare molto tempo all’aria perché non reggo stare all’aria. Mi sento preso da l’aria. Lei vede che quando andava all’aria era quasi sempre buttato per terra coricato, e coricato sui sedili dell’aria. Ma sempre all’ombra. Lei deve pensare questo che essendo che sono un uomo inabile a tutto sempre coricato mia moglie mi abbandonò. Nel momento della separazione colla moglie venne l’omicidio, l’istesso medesimo con mia madre. Diceva io: la moglie abbandona il marito, ma la madre no. Invece lo fa la moglie e la madre. Il momento che veniva la separazione colla madre tirai un colpo di revoltella a mia sorella che morì e tirai un altro colpo a mia madre. Venga a significarle: con tutta la proprietà da poter vivere ò fatto due omidici, con tutta la proprietà venne la separazione colla moglie e colla madre.


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«egli sa benissimo cosa sia permesso a ciascuno in ciascun istante, egli sa ciò che ognuno deve fare e sa anche ciò che ognuno sta facendo»56. Per Filippo Saporito, il più influente alienista italiano, direttore di Aversa, manicomi e carceri sono centri di depurazione fisica e morale. Bisogna intanto «scovare il nemico e identificarlo in tutti i suoi connotati». Procedere quindi all’accantonamento del materiale settico e provvedere alla sua sterilizzazione. Tutto ciò grazie ad una formidabile tecnologia di sapere e di razionalizzazione: «studiare i detenuti per conoscerli; conoscerli per governarli razionalmente; governarli razionalmente per bonificarli; bonificarli per utilizzarli»57. Non lasciamoci ingannare dai toni truculenti. Al di là delle espressioni declamatorie, la bonifica umana non è stata la messa in opera di uno sciagurato progetto pensato da una minoranza di esaltati. Il termine riceve il suo primo serio inquadramento all’interno di quegli studi demografici ed eugenici che cominciano a prodursi con maggiore frequenza alla fine della grande guerra58. Attorno all’Istituto Centrale di Statistica e alla Società Italiana di Genetica si definiscono, fra gli anni venti e trenta, gli strumenti teorici per sostenere una pratica, già collaudata in tutta Europa, che aveva fatto delle indistinte masse umane un corpo collettivo vivente da governare con le politiche della salute, dell’igiene, della natalità, della longevità, della razza. La vistosa tipicità del caso italiano è dovuta all’incrocio dell’ortogenesi di Nicola Pende con i tradizionali filoni dell’antropologia criminale e della psicopatologia penale. Merito del fascismo semmai è di aver dato Col tempo passato ò fatto 2 omicidi a libertà. Adesso ne farò 22 omicidi perché non c’è niente proprietà da vivere. La pazzia mia è nascosta non si vede. Coll’avvenire vi spiegherò. Smetto di scrivere perché la mia mente non permette più». 56 E. CANETTI, Massa e potere, trad. it., Milano 1981, 481. 57 F. SAPORITO, Pene e misure di sicurezza detentive nella lotta contro il delitto, in Rivista di diritto penitenziario 1 (1930) 14-28. 58 Il primo conflitto mondiale è stato una straordinaria officina di esperienza e di studio per la psichiatria europea. Le storie cliniche di Barcellona registrano — almeno fino ai primi anni trenta — numerosi casi clinici che sono riconducibili agli esiti della guerra. A volere tralasciare i casi di trauma fisico, basterebbe qui ricordare il grande impatto emotivo che ha avuto sugli individui l’irruzione nella storia del soggetto nuovissimo di massa.


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un’interpretazione autentica della bonifica umana, quando ha preteso di realizzare, con lo strumento della colonizzazione interna, una sorta di allevamento razionale di biotipi umani sani da impiantare nelle terre bonificate dalla malaria59. Bonifica umana fu, soprattutto, il modo in cui gli uomini s’inquadravano secondo un modello differenziale di classificazione. Tutti gli uomini, non solo i folli, gli anomali, i pervertiti e i delinquenti. In tutto questo — chi l’avrebbe mai detto? — c’entra molto la statistica. Dopo tanti studi su alienati e delinquenti, c’è chi finalmente si chiede: ma cos’è la normalità? Per valutare il grado di normalità di un dato carattere, fisico o psichico, bisogna osservarlo in rapporto al posto che quel dato individuo «occupa nell’allineamento generale della massa di uomini omogenei schierati in funzione di quel dato carattere». Sono parole di Alfredo Niceforo, un esperto teorico della statistica criminale. Tali schieramenti (così li chiama!) formano il reticolato. Il reticolato

«è formato da una serie di colonne che vanno dal segno meno al segno più passando attraverso il meno attenuato […] Se l’individuo in questione cade, per quel carattere nella zona centrale dello schieramento, potrà ritenersi normale per quel dato carattere»60.

L’uomo, dunque, viene alla vita impigliato in un reticolato di linee ortogonali. Alla fine è proprio quella quadrettatura del foglio a decidere della sua normalità.

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Cfr N. PENDE, Bonifica umana razionale e biologia politica, Rocca San Casciano

1933. 60 A. NICEFORO, Nuove e necessarie esplorazioni nel campo della criminologia, in Rivista di diritto penitenziario 9 (1938) 737ss.


L’IDENTITÀ VIOLATA: GLI EBREI IN SICILIA

GIUSEPPE SPECIALE*

1. Italiani di origine ebraica residenti in Sicilia Il censimento del 22 agosto 1938 rilevò la presenza in Italia di circa 37.000 italiani di origine ebraica e di circa 9.500 stranieri. In percentuale i numeri corrispondono all’1,1 per mille della popolazione italiana e al 3 per mille della popolazione ebraica mondiale. In Sicilia fu rilevata la presenza di 202 cittadini italiani di origine ebraica. A Catania gli ebrei erano 75, distribuiti in una dozzina di famiglie con un patrimonio immobiliare complessivo (accertato dal comune) di 95.000 lire, costituito in massima parte dagli appartamenti in cui abitavano. La provincia etnea era al 47° posto in Italia per numero di ebrei e al secondo posto in Sicilia dopo Palermo (al 46° posto con 96 presenze) e prima di Messina (al 69° posto con 21 presenze) e Siracusa (all’85° posto con 3 presenze). Duecentodue italiani ebrei tra i quattromilioni e mezzo di italiani non ebrei residenti in Sicilia: una percentuale pari a meno della metà della media nazionale. A questi duecentodue dovevano aggiungersi pochi stranieri (appena qualche decina, soprattutto tedeschi e austriaci) di origine ebraica,

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Della Facoltà di Giurisprudenza.


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profughi dai paesi europei in cui era già cominciata una vera e propria persecuzione antisemita. Non può usarsi il termine comunità per gli italiani di origine ebraica residenti in Sicilia. Gli ebrei siciliani infatti non costituivano una comunità organizzata, né omogenea, ma erano perfettamente integrati nella comunità isolana. La legge dello Stato italiano che aveva regolamentato i rapporti con le comunità israelitiche (R.D. 24 settembre 1931 n.1279) aveva previsto una comunità con sede a Palermo, ma tale comunità non era mai stata istituita, tanto che il questore di Palermo agli inizi del settembre 1938 poteva rassicurare il prefetto affermando: «in questa provincia non esistono comunità israelitiche». Più in generale sulla integrazione degli ebrei nella società italiana, soprattutto da Napoleone in poi, può valere quanto hanno scritto Arnaldo Momigliano e Renzo De Felice. Momigliano ha sottolineato come la formazione della coscienza nazionale italiana negli ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei piemontesi o nei napoletani o nei siciliani. Così come dal XVII al XIX secolo i piemontesi o i napoletani si sono fatti italiani, nel medesimo tempo gli ebrei abitanti in Italia si sono fatti italiani, il che non ha impedito che essi conservassero peculiarità ebraiche come ai piemontesi o ai napoletani il diventare italiani non ha impedito di conservare caratteristiche regionali. Per De Felice gli ebrei italiani erano in un certo senso doppiamente italiani, perché l’Italia per essi rappresentava, oltre a ciò che era per il resto degli italiani, l’emancipazione, l’eguaglianza civile. Non è qui il caso di indugiare sulla documentata partecipazione di italiani ebrei al risorgimento e alla storia italiana. Per limitarci ai cento anni precedenti il 1938 possiamo ricordare i nomi di alcuni protagonisti del risorgimento e della vita politica postunitaria — Manin, Nathan, Finzi, Luzzatti, Sonnino, Wollenborg, Ottolenghi — e i numeri che hanno pure forza evocativa — 8 erano gli ebrei tra i mille garibaldini, 11 sedevano nella camera dei Deputati nel 1871, 26 nel 1923. Alcuni avevano illustrato la scienza italiana: in onore alla Facoltà che ci ospita, ricordo, tra gli altri, Loria, Luzzatto, Sraffa, Vivante, Bolaffio, Polacco, Mortara, Cammeo, Ascarelli. E credo che un elenco del genere potrebbe ben farsi per i siciliani, i lombardi, i toscani.


L’identità violata: gli ebrei in Sicilia

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Allora forse il titolo del mio contributo1 a questo incontro di studio potrebbe correggersi: non l’identità violata, ma le identità violate. E qui è opportuno ricordare le tante testimonianze degli ebrei italiani che — costretti ad abbandonare le scuole fasciste e a frequentare le speciali sezioni riservate esclusivamente agli ebrei — solo in quell’occasione scoprirono o ebbero per la prima volta piena consapevolezza delle proprie origini. Il persecutore creava nel perseguitato un’identità e una consapevolezza di tale identità. Ma torniamo in Sicilia. Gli italiani di origine ebraica residenti nella regione non costituivano un gruppo omogeneo, almeno sul piano religioso, forse neppure su quello sociale. Non ci sono sinagoghe attive in Sicilia nel 1938. Bisognerà attendere l’arrivo delle truppe americane a Palermo nel 1943 perché ne sia aperta una per i soldati di religione ebraica. Per la composizione sociale del gruppo, poi, gli scarni dati rilevabili da una documentazione assai frammentaria non consentono, anche per l’esiguità dei numeri, di caratterizzare meglio una compagine in cui sono comunque presenti commercianti, imprenditori, professionisti, ricercatori.

2. Fonti scomparse Eventi a noi così vicini nel tempo dovrebbero facilmente potersi ricostruire. Ma non sempre è così. In Sicilia, per esempio, per i pochi ebrei che negli anni della persecuzione vissero nella provincia di Ragusa è possibile oggi consultare la documentazione pressoché completa conservata nell’Archivio di Stato ibleo2. Ma per gli ebrei di Catania poco, assai poco, dicono le carte che la prefettura e la questura hanno già versato nell’Archivio di Stato etneo. Completa, assolutamente completa, è la corrispondenza in entrata proveniente dai ministeri competenti: le disposizioni normative e

1 Il testo riporta i risultati di una ricerca che è da poco avviata e guarda principalmente ai documenti conservati negli archivi di Stato siciliani. Per un primo orientamento nella vasta produzione scientifica che riguarda l’argomento rinvio alla nota bibliografica di chiusura. 2 Proprio su queste fonti sto conducendo uno studio che darà notizia delle vicende degli ebrei presenti a Ragusa tra il 1938 e il 1943.


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le circolari applicative della complessa e dettagliata legislazione antiebraica, le richieste di informazioni, gli inviti ad applicare la legge. Poco, quasi nulla, invece, rimane della documentazione prodotta per rispondere a tali richieste. Solo alcune tracce, poche e labili, che documentano che la legislazione antiebraica fu applicata anche a Catania. Segni labili che conducono a vicende di grande sofferenza. Sofferenza e crudeltà che in molti casi non si tradussero in tragedia solo per la fortunata circostanza dell’occupazione alleata che impedì che in Sicilia accadesse quanto avvenne invece nel resto dell’Italia ad opera delle forze italiane e tedesche. Se la tragedia non si compì, se in Sicilia non si verificò ciò che avvenne altrove, il merito non è dei siciliani, ma di circostanze esterne: anche in questo caso non si può minimizzare con atteggiamenti autoassolutori. Guardiamo il caso di Catania. La complessa macchina burocratica avviata per l’applicazione delle norme antiebraiche imponeva alla questura l’accensione di pratiche aventi i seguenti oggetti: divieto di soggiorno nel regno di ebrei stranieri; ingresso nel regno di ebrei tedeschi; richieste di notizie sul conto di ebrei da parte di altri enti; presenza di ebrei sudditi inglesi; domestici, infermieri e altro personale di servizio; soggiorno in Italia di ebrei per turismo e cure; obblighi valutari; provvedimenti per la difesa della razza italiana; transito per il regno di ebrei stranieri; case editrici che recano un nominativo ebraico; carte d’identità concesse a ebrei; reati commessi da ebrei; licenze vendita apparecchi radio; amministratori di case; inserzioni pubblicitarie; schedario degli ebrei; divieto di assunzione di ebrei negli stabilimenti ausiliari; opere di autori di razza ebraica; autorizzazioni di polizia a ebrei (porto d’armi, passaporti, interpreti, corrieri, collocatori pubblicazioni, marittimi, uffici viaggi, alberghi, locande, pensioni ecc.); detenzione di armi; raccolta e vendita di uniformi militari usate e confezioni di uniformi nuove; fattorini di albergo; commercio di preziosi; commercio ambulante; esercizi pubblici; attività nello spettacolo; divieto di dare alloggio a stranieri di razza ariana; divieto di occupare posti in uffici di propaganda e in aziende alberghiere; divieto dell’esercizio di commercio di oggetti antichi e d’arte; divieto dell’esercizio di arti fotografiche, tipografiche, litografiche ed affini; divieto dell’esercizio mediatorio; esportatori di articoli ortofrutticoli; licenze per scuola di ballo; custodi e portieri; esercenti di servizi pubblici di piazza e di noleggio da rimessa con autoveicoli; stemma di forniture alla real casa su negozi; divieto di includere nominativi


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di razza ebraica negli elenchi telefonici; divieto del commercio di libri usati; raccolta di stracci di lana da parte di ditte ebraiche. L’intestazione dell’oggetto delle pratiche rinvia in modo dettagliato alle prescrizioni della legislazione antiebraica.

3. Storie catanesi Ma chi erano gli ebrei catanesi o che avevano vissuto a Catania? Tra i pochi di cui abbiamo notizie certe sono i professori universitari Angelo Segre (storico dell’economia), Maurizio Ascoli (infettivologo), Tullio Ascarelli (giurista): tutti nel 1938 si erano già allontanati da Catania. Altri invece si trovavano ancora a Catania nel 1938. È il caso del pianista Ilija Grinstein, di Roberto ed Edoardo Almagià, di Ugo Servadio, di Eliana Guzzi o Cuzzi, di Mario Jacchia, di Jonas Cluma, di Gaetano Abramo Coen, di Giuseppe David, di Felice Di Gioacchino, di Rosa Di Salvo e Giuseppe Farkas, di Vera Hwoscinsky, di Mario Rimini: questi sono i nomi che troviamo scorrendo una rubrica del protocollo della questura. Ma il carteggio relativo alle loro vicende è assente o incompleto. I due fratelli Almagià sono titolari di un’impresa edile che per il fatto di avere più di cento dipendenti non può essere gestita da ebrei. Servadio è un ingegnere impegnato nei lavori portuali ed è membro di organismi pubblici (commissioni edilizie e altri organi tecnico-professionali) da cui verrà immediatamente “dimissionato”. La signora Guzzi, o Cuzzi, è veronese ma è sposata con un catanese e vive a Catania. Servadio e Guzzi chiedono, in applicazione di quanto previsto dalle disposizioni per la razza, che il questore li autorizzi a mantenere il rapporto di lavoro con le loro domestiche ariane: ai richiedenti verrà rilasciata l’autorizzazione in considerazione del fatto che essi “non si occupano di politica” e perché sono ritenuti “soggetti non pericolosi”. Leone Kengmann, titolare di un’agenzia di import-export di frutta, intesta la sua utenza telefonica alla ditta Italfruct per ottenere di rimanere in elenco. L’ingegnere Servadio e Benedetto Krebbs, invece, verranno depennati dall’elenco in ottemperanza a quanto previsto dalla normativa vigente.


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Mario Jacchia manager di una impresa giunse a Catania proprio nel 1938. Qui nel 1940 sposò una catanese e grazie all’intervento del vescovo Patanè il matrimonio fu trascritto nei registri della curia come avvenuto agli inizi del 1938. Di Jonas Cluma sappiamo solo che era un ebreo tedesco che commerciava a Catania; di Gaetano Abramo Coen e di Felice Gioacchino di Abramo che ad entrambi furono ritirate le tessere di iscrizione al PNF; sul conto del dr. Giuseppe David sappiamo che il professore Achille Dogliotti, della cui equipe chirurgica David doveva verosimilmente far parte, intervenne in suo favore; degli altri che abbiamo sopra ricordato resta solo il nome in una rubrica. Le storie di Azeglio Bemporad e di Cesare Grassetti possono invece ricostruirsi grazie al materiale archivistico conservato all’osservatorio astronomico e nell’archivio dell’Università. Bemporad, senese, nato nel 1875, ma catanese d’adozione per avere iniziato e concluso la sua carriera di astronomo nell’osservatorio catanese, nel 1904 venne a lavorare come assistente presso l’osservatorio di Catania; dal 1912 al 1932 diresse l’osservatorio di Capodimonte; dal 1933 fece ritorno a Catania per dirigerne l’osservatorio. Bemporad, accademico dei lincei, legò il suo nome al Catalogo astrofotografico per la zona di Catania, nonché a complessi metodi di calcolo con la compilazione di tavole logaritmico-trigonometriche e di tavole per la determinazione del tempo ben presto universalmente adottate. Nel 1938 il suo essere ebreo gli costò il pensionamento coatto senza diritto alla liquidazione, la privazione dell’alloggio per sé e la famiglia, l’umiliante e bruciante rifiuto alla richiesta di poter continuare a lavorare anche solo a titolo personale e gratuito alla redazione del tanto apprezzato Catalogo astrofotografico. La sua nuova casa verrà bombardata dagli inglesi, la moglie morirà di crepacuore e non potrà assistere alla reintegrazione del marito nel grado e nelle funzioni che avverrà all’inizio del 1945. Bemporad stesso morirà prestissimo nel febbraio del 1945 e alla figlia non sarà concessa nessuna pensione perché maggiorenne, ancorché nullatenente e senza lavoro. Più complesso è il caso di Cesare Grassetti, originario del Veneto, professore di diritto civile in questa Facoltà. Egli riuscì a dimostrare che le sue origini potevano non essere ebree.


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Nei confronti di Grassetti era stato aperto un procedimento su denuncia anonima per accertarne le origini e cautelativamente il professore era stato sospeso dall’insegnamento. In ottemperanza a quanto disposto dalla legislazione razziale Grassetti doveva produrre dei documenti: certificato di nascita e di battesimo del proprio padre Fausto; certificato di buona condotta morale e religiosa cattolica proprio e del proprio padre Fausto; certificato di nascita e di cittadinanza del nonno paterno Giuseppe. Il professore produsse tali documenti ma, nonostante le ricerche condotte in numerosi archivi parrocchiali di Verona e di Modena e del contado di queste città, non trovò l’atto di battesimo del proprio nonno paterno Giuseppe, nato nel 1838. In una lettera al ministro dell’educazione scrive in proposito:

«Il sottoscritto tuttavia si permette far presente a codesto ministero onde voglia benevolmente informare il ministero degli interni che è precisamente questa circostanza, cioè la mancanza del certificato di battesimo del nonno paterno Giuseppe, che ha dato origine alla presente istruttoria di accertamento razza. Infatti, se l’atto di battesimo del nonno paterno fosse stato in possesso del sottoscritto, il sottoscritto medesimo sarebbe senz’altro di razza ariana senza necessità di pronuncia da parte del ministero degli interni [in maiuscoletto nel testo]. E infatti una volta accertato che Giuseppe Grassetti [nonno dello scrivente] fu cattolico, ne consegue che Fausto Grassetti [padre del sottoscritto] è ariano, in quanto è battezzato prima degli attuali provvedimenti razziali e ne consegue altresì che è pure ariano il sottoscritto, il quale è pure stato battezzato in data anteriore agli attuali provvedimenti razziali [atto di battesimo già precedentemente prodotto] e non fu iscritto alla nascita né comunque fu appartenente alla religione ebraica, come del pari non fu circonciso. Ma appunto il problema della appartenenza razziale del sottoscritto sorge precisamente per il fatto che non si è potuto trovare a tutt’oggi l’atto di battesimo del nonno paterno. Ma al riguardo il sottoscritto si permette di far presente che la questione circa l’appartenenza religiosa di esso nonno è, nel caso specifico, ininfluente agli effetti della decisione. Perché anche a voler fare la peggiore delle ipotesi [sottolineato nel testo], e cioè che il nonno paterno del sottoscritto fosse appartenuto alla religione ebraica, questa è una circostanza di ordine esclusivamente religioso e come circostanza di ordine esclusivamente religioso non ha influenza sulla razza [sottolineato nel testo]. Infatti il sottoscritto ha dato prova della appartenenza


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Giuseppe Speciale in linea ascendente per oltre cinque secoli ininterrottamente alla religione cattolica ed alla razza ariana. Questo è dimostrato dalle indagini di archivio compiute dalla famiglia Grassetti sin dal 1303 ai giorni nostri. E risulta così dalla prova documentata già prodotta, come pure dalla prova, pure prodotta sulla base onomastica secondo le regole ufficialmente accolte dalla araldica e dalla archivistica. Ne consegue che la eventuale conversione all’ebraismo di una generazione non può inficiare la appartenenza alla razza [sottolineato nel testo]. Mentre poi è superfluo aggiungere che, dal punto di vista religioso, è sanata dal successivo ritorno alla religione cattolica degli ulteriori discendenti».

Agli inizi del 1939 Cesare Grassetti è dichiarato dal Ministero dell’interno non appartenente alla razza ebraica e nei suoi confronti viene revocata dal Ministero dell’educazione nazionale la sospensione dall’insegnamento. Queste le poche storie catanesi che siamo in grado di ricostruire.

4. Il regime e gli altri protagonisti Ma se gli archivi sono, almeno per ora, muti o reticenti, per fortuna, invece, le biblioteche sono più prodighe di informazioni. Ci riferiamo soprattutto alle raccolte dei quotidiani locali. Il Popolo di Sicilia è il quotidiano più diffuso a Catania. È interessante scorrere l’annata del 1938. Dopo la promulgazione delle leggi antisemite il giornale non si occuperà più di ebrei, non riferendo nulla degli accadimenti locali che li riguardano, obbedendo ad una direttiva del regime che fa calare una coltre di silenzio sull’applicazione delle disposizioni discriminatorie e persecutorie. Ma nelle settimane che precedono la promulgazione delle leggi Il Popolo di Sicilia è un perfetto ingranaggio della complessa macchina della propaganda che il regime ha lucidamente attivato per preparare l’opinione pubblica ad accettare la nuova legislazione razziale. Del resto, siciliani furono anche alcuni protagonisti di livello nazionale nella campagna antisemita: Telesio Interlandi, direttore della Difesa della Razza; Santi Romano, Presidente del Consiglio di Stato e membro del comitato


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scientifico della “rivista di approfondimento teorico” Il diritto razzista; Giuseppe Maggiore, rettore di Palermo e presidente nazionale dell’Istituto di cultura fascista, insigne penalista palermitano che nel suo Razza e fascismo, a proposito dei docenti universitari di diritto di origini ebraiche, aveva scritto tra l’altro che l’intellettuale ebreo «se ha da dedicarsi a una disciplina sceglie quelle che hanno un contenuto utilitario: non per nulla egli è quasi dittatore nella economia politica e nel diritto commerciale»; e altri illustri siciliani nominati da Mussolini nel consiglio superiore della demografia e della razza. Il 15 luglio su tre colonne in prima pagina Il Popolo di Sicilia dà notizia dell’elaborazione del documento sulla razza; il 26 luglio un fondo di Giacomo Etna, «Unità etnica», accompagna la notizia, in prima pagina su più colonne, della visita al Duce degli studiosi che hanno redatto il Manifesto della Razza. Il 31 luglio l’argomento occupa tutta la prima pagina. E qui merita fermarsi per un momento. Le pagine dei giornali hanno introdotto direttamente e indirettamente gli altri protagonisti delle vicende che qui interessano. Abbiamo fatto cenno agli ebrei di Sicilia. Ora nel Popolo di Sicilia si riflette il regime e, in un complesso gioco di specchi, l’immagine che il regime ha e vuole costruire della gente, del popolo. Le pagine del giornale ci restituiscono una cronaca del fascismo e una cronaca della Sicilia così come deve essere secondo il regime, ma quelle pagine introducono anche un altro protagonista importante delle nostre vicende, anche se mai o solo raramente, espressamente citato: la Chiesa cattolica. La Chiesa non — o non tanto — come comunità di fedeli, quanto piuttosto come centro di potere politico e come fonte di autorità legittimante. Quelle pagine, cioè, ci restituiscono una delle tante dimensioni della Chiesa, certamente quella che più può interessare al regime: la Chiesa come centro di potere, come gerarchia, come potenziale fabbrica di consenso per il regime. Procediamo con ordine. Il 29 luglio, cioè solo quattro giorni dopo il ricevimento dato dal Duce per i firmatari del Manifesto della Razza, nell’Osservatore romano e in qualche altro giornale cattolico, come l’Avvenire d’Italia, è pubblicato un articolo anonimo, quindi riferibile alla direzione della testata, in cui si esprimono preoccupazioni e critiche per i sentimenti e i criteri che ispirano il documento «Il fascismo e il problema della razza» — è questo il nome autentico del manifesto della razza.


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Nell’articolo si ricollega il contenuto del manifesto ad una “influenza” dei nazisti e si riportano le parole che il papa al riguardo aveva rivolto il giorno prima agli studenti del collegio “Propaganda fide”: «Ci si può quindi chiedere come mai, disgraziatamente, l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania». Qui il papa apriva una parentesi e sorridendo — scrive il cronista — riferiva che qualcuno avrebbe potuto accusare lui — come già qualche altra volta era avvenuto — di pregiudizio, perché, si sa, il papa è figlio di milanesi, gli uomini delle Cinque giornate che scacciarono i tedeschi. «No, non è per questo» — continua il papa —, «ma è perché i latini non dicevano razza né qualcosa di simile. I nostri vecchi italiani hanno altre parole più belle, più simpatiche: gens italica, italica stirps, Japaeti gens». Risposta quanto mai blanda, anche se certamente significativa sul piano diplomatico. Una bruciante preoccupazione del resto aveva già manifestato lo stesso Pio XI nell’enciclica «Mit brennender Sorge», enciclica in lingua tedesca del 1934, in cui condannava il razzismo hitleriano. L’allora Segretario di Stato Pacelli ebbe un ruolo importante nella stesura di questa enciclica, ma sul suo atteggiamento dopo l’elezione al sacro soglio (1939) sono tuttora al lavoro due commissioni miste per indagare sulle posizioni assunte circa la legislazione antiebraica della Francia di Petain e circa le reazioni alle richieste di intervento che provenivano da autorevolissimi esponenti delle chiese locali. La recentissima apertura degli archivi statunitensi contribuirà certamente a chiarire il ruolo del papa in quei tormentati anni: le prime indagini sui documenti di quegli archivi sembrerebbero rivalutare il ruolo che Pio XII svolse per la difesa degli ebrei. La risposta di Mussolini, il 30 luglio a Forlì, è immediata e riempie la prima pagina di tutti i quotidiani: «Avviso a chi tocca. Sappiate ed ognuno sappia che anche nella questione della razza noi tireremo diritto. Dire che il fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa è semplicemente assurdo». Il 4 agosto il Minculpop invitava i prefetti a vigilare che la stampa cattolica non riportasse il discorso del papa del 28 luglio e a verificare che tutta la stampa trattasse del razzismo «entro i limiti conformi alle direttive del governo». Ma accanto alla reazione del Duce deve qui ricordarsi quanto scrisse Farinacci, il gerarca potentissimo e filonazista, stupito che la Chiesa fosse addirittura diventata filoebraica rinunciando, cito testualmente, «a quella coscienza antisemita che la Chiesa ci ha formato lungo i millenni».


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Tutti i protagonisti delle vicende che qui interessano sono adesso sott’occhio: i perseguitati, gli italiani ebrei; i persecutori, gli esponenti del razzismo fascista antisemita; la gerarchia cattolica; gli italiani, spettatori e attori, cercheremo di chiarire in che misura. Ciascuno di questi protagonisti è portatore di una cultura ed è centro di relazioni, cultura e relazioni che giocano un ruolo importante nelle nostre vicende. fascismo e nazismo. Ebrei e sionismo. Chiesa cattolica e fascismo (patti lateranensi ecc.). E ancora: Chiesa ed ebrei, Chiesa e nazismo ecc. È proprio guardando alle relazioni tra i protagonisti che possono chiarirsi i termini di alcuni interrogativi. L’antisemitismo fascista ha caratteri di originalità o si adagia sugli schemi dell’antisemitismo nazista? «Dire che il fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa è semplicemente assurdo» afferma il Duce. Solo un comodo atteggiamento autoassolutorio per la coscienza collettiva potrebbe ridurre il razzismo italiano — in particolare l’antisemitismo — al rango di tributo che l’Italia fascista ha pagato all’alleato tedesco nazista. Le origini del razzismo italiano — come ormai è stato da più parti ribadito — sono assai più complesse e intrecciate e muovono da distinti, ma concorrenti, filoni. Il razzismo è coerente con l’eugenetica di regime: «Si bonifica la terra e con la terra gli uomini e con gli uomini la razza» afferma Mussolini già negli anni venti, ben prima della legislazione razziale. È coerente con la politica coloniale imperialista perché si pone il problema dei rapporti tra popolazione dominante e popolazione dominata, del meticciato ecc. L’antisemitismo poi può essere strumentale anche rispetto a una politica internazionale antibritannica. E senza dubbio può rafforzare il legame con l’alleato nazista o accattivare la simpatia e l’ammirazione di Polonia e Ungheria. E neppure deve sottovalutarsi, nelle pratiche che accompagnarono l’antisemitismo, quella miserabile debolezza umana che è l’invidia: non deve dimenticarsi, infatti, che la condizione sociale degli ebrei era mediamente alta come dimostrano, per esempio, le percentuali di ebrei tra i professionisti e gli imprenditori. Ma ciò che in questa nostra riflessione può maggiormente rilevare è l’indagine sull’humus culturale in cui il razzismo — e l’antisemitismo in particolare — si impiantano e si sviluppano rigogliosamente in Italia. Mi riferisco non solo alle matrici culturali delle ideologie razziste — di cui spesso ha piena consapevolezza solo un’elite culturale — ma anche, anzi


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soprattutto, alle mentalità diffuse, che a quelle ideologie si riferiscono, diffuse nella massa, nella opinione pubblica, che considera naturale, e pertanto necessario, ciò che è soltanto familiare, e pertanto non necessario, ma solo consueto, perché derivante da costruzioni ideologiche e da ragionamenti che si sono lentamente consolidati in certezze collettive, in dati ritenuti inconfutabili. Non dico niente di nuovo se indico nel positivismo, in un certo positivismo, e nella Chiesa cattolica, in certe pratiche della Chiesa cattolica, due tra i tanti terreni di coltura per lo sviluppo di una diffusa mentalità razzista: in particolare il positivismo per il razzismo e la Chiesa per l’antisemitismo. E neppure deve qui trascurarsi la capacità del regime fascista — attraverso una sapiente e scientifica politica di formazione-informazione popolare — di seminare in questo humus, e di far fiorire da questo humus, nuovi tipi di organismi, non previsti, non del tutto previsti, non voluti, non del tutto voluti, da chi quell’humus ha da sempre coltivato. È chiaro che qui non si fissa un’equazione tra positivismo e razzismo, tra Chiesa e antisemitismo: qui piuttosto si individuano da un lato matrici culturali e si indicano dall’altro responsabilità oggettive, senza peraltro dimenticare né i tanti uomini di fede cattolica che si adoperarono per salvare la vita dei perseguitati, e neppure gli uomini come padre Gemelli — non il solo ecclesiastico a sottoscrivere il manifesto della razza — tanto ben visti dai Farinacci. Gemelli qui si cita perché incarna bene la complessità dell’atteggiamento di alcuni uomini di Chiesa, da un lato apertamente favorevoli ad alcuni aspetti della politica — anche razziale — del regime; dall’altro impegnati, almeno in qualche caso, a fornire vie di fuga o asilo ad alcuni ebrei. Per quanto riguarda la matrice positivista si può rilevare — senza entrare nella complessa questione della paternità del documento fascista sulla razza attribuita da taluni direttamente a Mussolini, da altri a Guido Landra, da altri ancora a Landra, ma su precise indicazioni di Mussolini o sotto la supervisione di questi — che tra i nomi di coloro che sottoscrissero il manifesto molti, quasi tutti, si formarono alla scuola antropologicopositivista di Giuseppe Sergi, a quella scuola, cioè, che in Italia costituì il centro da cui si irradiarono anche gli studi biologici ed eugenici. Per quanto riguarda la matrice cattolica può rilevarsi di più. La reazione di Farinacci alle critiche di Pio XI sopra richiamata (che la Chiesa


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era addirittura diventata filoebraica rinunciando «a quella coscienza antisemita che ci ha formato lungo i millenni») non è la reazione poco meditata di un fanatico, bensì una astuta e consapevole mossa per “ridimensionare” agli occhi dell’opinione pubblica la reazione del papa. In quegli stessi giorni, il 21 agosto, la stampa italiana, su precisa disposizione del regime, ricorda che i figli di ebrei non possono essere ordinati sacerdoti; il 24 agosto si richiama addirittura una “congregazione plenaria” del Sant’Uffizio, poi confermata dal papa, con cui nel 1928, cioè ben dieci anni prima del 1938, si era sancito lo scioglimento della società Amici d’Israele: società che aveva chiesto, tra l’altro, l’abolizione nella liturgia del venerdì santo della orazione «pro perfidis iudaeis». L’abolizione sarà decisa da Giovanni XXIII solo nel 1959. E ancora può ricordarsi che da parte della Chiesa la reazione più forte contro le disposizioni antiebraiche si motivava sul piano tecnico più che su quello dei principi, invocando la violazione del concordato, più che gridando la sostanziale e radicale ingiustizia delle norme. Quanto poi alle singole disposizioni normative contenenti i divieti e gli obblighi sanciti per gli ebrei, oppure rivolti ai non ebrei che entravano in contatto con gli israeliti, il legislatore del 1938 aveva ripercorso antichi sentieri, rendendo di nuovo attuali norme che proprio la Chiesa nel corso della sua millenaria tradizione aveva sperimentato. Per le leggi naziste Raul Hilberg ha disegnato una tabula comparativa che colpì Hans Küng, e che Michele Sarfatti ha utilizzato per le disposizioni fasciste. Può esser utile sottolineare alcuni parallelismi tra le norme fasciste e quelle canoniche: agli ebrei si vietava di contrarre matrimonio con i cristiani (Sinodo di Elvira del 306), di ricoprire cariche pubbliche (Sinodo di Clermont del 535 e Concilio di Orléans del 538), di tenere presso di sé servi o serve e schiavi cristiani (Terzo Sinodo di Orléans del 538 e Concilio di Avignone del 1209), di esercitare la mediazione nella conclusione di contratti fra cristiani (Concilio di Basilea del 1434), di costruire sinagoghe (Concilio di Oxford del 1222), di diseredare i fratelli di fede passati al cristianesimo (Concilio Lateranense del 1179), di discutere con i cristiani semplici di fede cattolica (Sinodo di Vienna del 1267), di farsi vedere per strada durante la Settimana Santa (Terzo Sinodo di Orléans del 538). Ai cristiani si vietava di consultare medici ebrei o di esercitare la professione medica in favore degli ebrei (Sinodo Trullano del 682 e Concilio di Béziers del 1246; Concilio


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Lateranense del 1179), di vendere o affittare beni immobili agli ebrei (Sinodo di Ofen del 1279), di prendere cibo assieme agli ebrei o di abitare presso di essi (Sinodo di Elvira del 306 e di Narbonne del 1050), di concedere titoli accademici ad ebrei (Concilio di Basilea del 1434), di nominare ebrei in cariche giurisdizionali. Si prescriveva il rogo del Talmud e di altri libri ebraici (Dodicesimo Sinodo di Toledo del 681). Si prevedeva per gli ebrei l’obbligo di portare un distintivo sopra i vestiti (Concilio Lateranenese del 1215) e di versare una decima (Sinodo di Gerona del 1078). Individuare le matrici culturali che hanno concorso a far fiorire la pianta del razzismo e dell’antisemitismo italiano del secolo XX non può e non deve celare, comunque, un atteggiamento autoassolutorio.

*** Nota bibliografica. Della vasta produzione scientifica che riguarda l’argomento qui trattato segnalo solo alcuni tra gli studi più recenti che possono fornire un primo orientamento. Importanti per la comprensione delle vicende degli italiani di origine ebraica nella storia d’Italia dopo l’Unità sono gli atti del IV convegno internazionale tenutosi a Siena dal 12 al 16 giugno 1989 su Gli ebrei nell’Italia unita (1870-1945) pubblicati nella collana Italia Judaica IV, Pubblicazioni degli archivi di Stato, Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1993; ESTER CAPUZZO, Gli ebrei nella società italiana. Comunità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, Roma, Carocci, 1999; ANNA FOA, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione (XIV-XIX secolo), Roma-Bari 2001; nonché gli studi raccolti da CORRADO VIVANTI in Gli ebrei in Italia, in Storia d’Italia, Annali XI/2, Torino 1997, in particolare quelli di: FRANCO DELLA PERUTA, Gli ebrei nel Risorgimento fra interdizioni ed emancipazione, 1135-1167; FABIO LEVI, Gli ebrei nella vita economica italiana dell’Ottocento, 1171-1210; GADI LUZZATTO VOGHERA, Aspetti della cultura ebraica in Italia nel secolo XIX, 12111241; TULLIA CATALAN, L’organizzazione delle comunità ebraiche italiane dall’Unità alla prima guerra mondiale, 1243-1290; ALBERTO CAVAGLION, Tendenze nazionali e labori sionistici, 1291-1320; SIMONETTA DELLA SETA e DANIEL CARPI, Il movimento sionistico, 1321-1368; GIOVANNI MICCOLI, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Ottocento e Novecento, 1369-1574; MICHELE SARFATTI, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, 1623-1764; SALVATORE MAZZAMUTO, Ebraismo e diritto dalla prima emancipazione all’età


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repubblicana, 1765-1827; AMOS LUZZATTO, Autocoscienza e identità ebraica, 1829-1900. Per gli anni del fascismo oltre agli studi citati e al sempre fondamentale RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 19723, cfr FAUSTO COEN, Italiani ed ebrei: come eravamo. Le leggi razziali del 1938, Genova 1988; Dalle leggi razziali alla deportazione. Ebrei tra antisemitismo e solidarietà. Atti della giornata di studi di Torrazzo, 5 maggio 1989, a cura di A. Lovatto, Istituto per la storia della Resistenza e della società in provincia di Vercelli “Cino Moscatelli”, 1990; L’ebreo in oggetto, a cura di Fabio Levi, Torino 1991; MICHELE SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Torino 1994; ROBERTO FINZI, L’Università italiana e le leggi antiebraiche, Roma 1997; GIORGIO ISRAEL e PIETRO NASTASI, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna 1998; 1938. I bambini e le leggi razziali in Italia, a cura di Bruno Maida, Firenze 1999; MICHELE SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende identità, persecuzione, Torino 2000; Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia (1870-1945), a cura di Alberto Burgio, Bologna 2000. Per le vicende siciliane, e catanesi in particolare, PIETRO NICOLOSI, Gli ebrei a Catania, Catania 1988, può essere utile solo per alcune informazioni, mentre una ricostruzione meditata offre MARIO GENCO, Repulisti ebraico (Le leggi razziali in Sicilia: 1938-1943), Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 2000. Su Azeglio Bemporad cfr la voce di V. CROCE nel Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, 153-154; su Cesare Grassetti lo studio citato di SALVATORE MAZZAMUTO, del quale vale la pena di leggere anche I giuristi dell’ateneo pisano e la questione ebraica, Napoli 1994.



PER GRAZIA RICEVUTA: VITA E MORTE NEGLI EX VOTO SICILIANI

ANGELO PLUMARI*

Nell’ambito della tradizione cristiana di espressione più popolare del secondo millennio, gli ex voto sono stati e sono uno degli elementi più significativi di essa che predilige come linguaggio più i segni che le parole. Non a caso qui poniamo essi quali strumenti di mediazione della cultura della morte e della vita della nostra gente. L’ex voto come rendimento di grazie alla divinità e come attestato dell’ottenuto beneficio ha origine pagana. Come dimostrano i reperti del mondo antico pre-cristiano conservati nei musei archeologici di tutto il mondo, già prima degli Etruschi e dei Romani, le pratiche votive erano diffuse presso i popoli del bacino del Mediterraneo e in Oriente. Piccoli oggetti votivi in terracotta, pietra e bronzo, sotto forma di figura umana o di animali, risalenti al VII secolo a.C., sono stati ritrovati in Mesopotamia, in Egitto e in Grecia1. Fin dai suoi primordi, attraverso un processo di transignificazione/transculturazione dal paganesimo al cristianesimo, gli ex voto furono adottati pure dai cristiani. Troviamo in numero rilevantissimo testimonianza di essi attraverso lastre marmoree incise, immagini antropomorfe, raffigurazioni in cera, legno, marmo, terracotta, metalli preziosi a memoria dello scampato pericolo. *

Dottore in Liturgia. Cfr A. RUSSI, Voto. Antichità Classica, in Grande Dizionario Enciclopedico UTET, XX, Torino 1991, 1087. 1


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Talora la donazione consisteva in oggetti connessi al culto: croci, candelabri, calici, lampade, come piccole lucerne a forma di nave. Gli ex voto venivano deposti nei santuari, principalmente a Roma dove principi, papi e pellegrini rivaleggiavano nelle offerte più ricche e rappresentative, destinate soprattutto alle tombe degli apostoli. Lampade; corone, croci, monogrammi, figure simboliche, vasi sacri o semplici placche, quasi sempre con iscrizioni relative all’offerente e al voto (votum solvit), erano spesso esposti davanti all’altare sulla pergula, come l’arredo donato da Gregorio III (731-741) alla Basilica di S. Pietro per la pergula della cappella di tutti i santi.2 L’ex voto è un’offerta fatta a Cristo, alla Madonna oppure ad un santo (o tutelari di un paese o titolari di una chiesa, di una cappella, di un santuario), come riconoscenza per una grazia ricevuta. Tale espressione, che si esplica mediante un segno e atto dello scioglimento di un voto, è stata sintetizzata dalla tradizione con le iniziali V.F.G.A. riportate molto spesso negli ex voto tangibili, che indicano l’antica frase latina Votum fecit, gratiam accepit3, trasformata successivamente dalla traduzione italiana Voto fatto, grazia avuta. Nella tradizione popolare di molte regioni italiane, gli ex-voto prendono anche il nome di “miracoli”. Varie sono le classificazioni di essi. Visti come oggetto, si ha una classificazione nelle seguenti categorie principali4. Ex ‘voto oggettuali’: rilievi, realizzati in materiali diversi ma soprattutto in lamina argentata, raffiguranti parti anatomiche che rivelano la necessità di porre sotto la protezione del santo taumaturgo una parte del corpo malata o che, colpita da malattia, sia miracolosamente guarita. Sono tipici quelli di cera che ancora oggi nel meridione d’Italia i devoti offrono durante i più importanti pellegrinaggi per testimoniare la grazia ottenuta. Di questi, volendo evidenziare un esempio siciliano, sono le statuine o le membra di cera presenti durante la settimana santa ad Ispica. In questo gruppo possono essere compresi i piccoli oggetti devozionali (crocette, rosari, medaglie) ed i monili (collane, orecchini, spille, 2

Cfr Suppellettile ecclesiatica, a cura di B. Montevecchi - S. Vasco Rocca, Firenze 1988, 388. 3 Variante: Recepit. 4 Suppellettile ecclesiatica, cit.


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anelli, spilloni, pettini, fermagli da capelli) che vengono posti come ornamento di immagini sacre e che spesso, come tecnica e materiale, sono autentici gioielli; si tratta di oggetti che fanno parte della devozione privata, del costume o dell’abbigliamento civile. Di questi basti pensare all’addobbo di gioielli del busto di S. Agata a Catania in occasione della festa. La tipologia più comune è, comunque, quella del cuore in lamina metallica, ex voto generico e prevalentemente di produzione di serie. Un altro gruppo è quello dei già citati ‘ex voto dipinti’ con varie tecniche ed in materiale diverso (legno, tela, rame, vetro, maiolica) che riproducono mediante la pittura “la scena del miracolo”, ossia il particolare momento di grave pericolo, causato dalla malattia o da un incidente, che si ritiene superato per intervento divino. Di questa gruppo, caso emblematico è il santuario di S. Alfio di Trecastagni, in cui si trova la raccolta numericamente più consistente di ex voto dipinti della Sicilia. Un terzo gruppo può comprendere gli ‘ex voto polimaterici’, realizzati con tecniche svariate — ricamo, carta ritagliata, applicazioni varie, collages fotografici — conservati spesso in appositi quadretti sotto vetro. A proposito della produzione di questi oggetti, il Pitrè, non privo di senso dell’umorismo, ci riporta nei suoi scritti che: «una ventina di anni fa, presso il teatro S. Cecilia in Palermo, c’era una bottega con la tabella: Qui si fanno miracoli»5. Parlare della morte e della vita che traspare negli ex voto siciliani, significa avere un approccio e un confronto autentico con l’espressione esistenziale popolare, che trova nel linguaggio religioso, ancora oggi, la sua “identità” più intima e allo stesso tempo il suo proprio “modo” di manifestarla sia a livello individuale che collettivo attraverso la mediazione rituale.

5 G. PITRÈ, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, ristampa dell’ed. di Palermo 1870-1913, Palermo 1980, 173.


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Sotto il profilo della pastorale ecclesiale, volere tale approccio presuppone:

«una profonda accoglienza, una saggezza evangelica che è cosa ben diversa da ogni moralismo ecclesiastico e da ogni sociologismo. A tale scopo occorre superare sia le strategie ecclesiastiche che accolgono strumentalmente il bisogno religioso popolare, sia gli ostracismi di marca protestante, sia le ingenue idealizzazioni “rivoluzionarie”»6.

Sotto il profilo scientifico, poi, i tempi sono maturi per un approfondimento più unitario e globale dell’orizzonte culturale in cui tale espressione esistenziale si colloca, superando l’attuale approccio settoriale, che ha approfondito il fenomeno sotto vari aspetti dalle scienze umane (demologico, psicologico, sociologico, politico, economico, artistico, estetico, ecc.), ma a volte tali tipi di approcci sono scaduti in inevitabili riduzioni o, ancor peggio, in letture strumentali ideologiche del vissuto religioso del popolo siciliano. Non a caso, nell’attuale interesse, gli ex voto vengono collocati tra le categorie della così detta «cultura materiale», di cui si colgono e approfondiscono i vari aspetti mediante le varie catalogazioni che si sono fatte, di cui noi ne abbiamo riportata una, ma che spesso non aiutano a comprendere in profondità ciò che sottostà ad essi .7 Accogliere quindi, sapersi mettere in ascolto della nostra gente, solo così si può essere in grado di cogliere la gioia e il dolore della quotidiana fatica di vivere, costituita dalla propria fame e dal proprio bisogno delle cose primarie (basti pensare ad esempio al lavoro che non c’è o che non si sa organizzare), dall’angoscia della morte e dell’assenza, ma anche dalla gioia di vivere, anche quando tale gioia può definirsi “pagana”.

6 G. RUGGIERI, Postfazione della sezione monografica Religione popolare e fede cristiana in Sicilia, in Sinaxys XVI/2 (1998) 562-563. 7 C. VALENZIANO, Antropologia e liturgia, Bologna 1997, 74.


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Credo sia emblematico e paradigmatico come il popolo siciliano si ritrova e si identifica il venerdì santo, muto davanti alla bara del Cristo morto e il dolore di sua Madre, di cui «“sa” vagamente, ma “sente” profondamente, che la propria sofferenza è stata accolta da Dio stesso, che anzi è riflesso dell’esperienza divina, che quindi trova un senso nel mistero stesso dell’Uomo-Dio»8, sentendosi totalmente coinvolto nel dono della Sua grande misericordia e redenzione. Volendo riassumere con quelle pennellate descrittive della realtà, che sono i nostri vocaboli dialettali, il popolo siciliano con i tratti tipici dei popoli meridionali, è capace di piniari (patire) e di pasquiari (gioire)9, cioè di esprimere quella “passione” in cui si collocano in modo particolare quelle situazioni estreme, che mettono i singoli e le famiglie di fronte alla percezione piena della morte e della vita. Le varie forme di morte sono costituite dalle situazioni di pericolo: calamità naturali, gravi malattie, incidenti di vario genere e quant’altro minaccia la propria esistenza. Di contro, attraverso il superamento di tali minacce e pericoli, si ha la vita “miracolata” di cui gli ex voto ne divengono testimoni. È dentro questo vissuto così diffuso tra la nostra gente che, al di là delle inevitabili contraddizioni insite nell’uomo, molto spesso prendono corpo le Parole di Paolo VI nella Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, in cui afferma in merito alla pietà popolare, quale religione del popolo, che

«essa è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capace di generosità e di servizio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione» (n. 48).

8 G. RUGGIERI, Postfazione della sezione monografica Religione popolare e fede cristiana in Sicilia, cit., 563. 9 B. RANDAZZO, Religiosità. Mistagogia e pietà popolare in Sicilia, Palermo 1992, 124.


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Questa è l’espressione culturale e spirituale che si sedimenta e si cristallizza negli ex voto, di cui si può rintracciare lo statuto costitutivo di essi, nel “memoriale” relativo al rapporto intercorso tra il fedele e Dio nell’ambito di una storia particolare:

«[…] eppure del rapporto in sé l’ex voto non dice nulla, o dice poco, e questo è l’aspetto sbocco, quello che secondo noi è da verificare sui dati uno a uno e non sulle classi di espressioni; del rapporto l’ex voto narra piuttosto la constatazione e ostende la costatabilità, documenta costatazione e costatabilità mediante l’accaduto non ordinario, mediante lo straordinario nello spazio e nel tempo a testimonianza di una relazione intercorsa che è quel che è e resta intima»10.

L’accadimento non ordinario si manifesta mediante un evento personale particolare tragico, la cui vittima si ritrova faccia a faccia davanti al limite, la disperazione e la morte. In questi casi la reazione “disperata”, che trasforma la vittima in fedele, conduce a un incondizionato affidamento a Dio o ad un suo mediatore, che gli consente di sperimentare in modo “miracoloso” l’intervento divino che capovolge una situazione disperata in una nuova situazione di vita. Credo sia opportuno, in tal senso, parlare di manifestazione dell’azione di salvezza da parte di Dio che si rinnova nella natura degli eventi particolari, la cui centralità non è tanto l’accertamento dell’espressione miracolosa del fatto, quanto l’occasione di manifestazione interiore di fedefiducia dell’uomo che si ritrova fedele a Dio. Un po’ come la straordinaria esperienza del cieco nato che sperimenta, nel miracolo del dono della vista compiuto da Cristo (Gv 9), quel processo simbolico che lo conduce interiormente dalle tenebre alla luce, esperienza intima e personale di un uomo che diviene allo stesso tempo evangelicamente paradigmatica. In questo dischiudersi della vita a partire da situazioni di limite e di morte, gli ex voto si pongono come «mediazione narrativa», secondo elemento costitutivo di essi. A partire da questa mediazione, C. Valenziano 10

C. VALENZIANO, Antropologia e liturgia, cit., 74.


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fa una catalogazione considerando il memoriale ex voto quale «presenza per simbolo e/o per indice e/o per icone». L’ex voto-simbolo consiste nel miracolato che diviene egli stesso ex voto offrendo in dono una preziosità affettiva. Tutto questo comporta, in una scala di tentativi, una presenza reale al massimo del miracolato che narra il rapporto con Dio e che si dedica al Suo servizio per testimonianza. Qui vanno considerati anche i doni dell’oro e dell’argento, da interpretarsi non come «compenso paritetico», ma offerta in dono di una preziosità affettiva mediante il tentativo di una analoga presenza, cioè dell’avere che ha prezzo. L’ex voto-indice comporta una presenza convenzionale come ad esempio: la divisa del militare scampato, la stampella del paralitico raddrizzato, il grembo di cera della puerpera felice, ecc… L’ex voto-icone

«è presenza per immagine […]; ed è cosa stupefacente tutto ciò che è passato nelle tavolette votive dalla controversia iconoclasta e dalle considerazioni iconofile, tanto più quanto minore è stata la ricezione occidentale del Concilio Niceno II»

relativamente alla questione delle immagini11. Desidero concludere sottolineando l’evoluzione dell’espressione popolare in atto, aspetto che rimane aperto all’indagine e che sarà interessante seguire nei prossimi anni. Dell’espressione religiosa popolare si è identificata, quale componente costitutiva, la «cultura orale primaria» che si distingueva dalla «cultura della scrittura e della stampa». Questa determinava una visione di «globalità» incapace di diversificare i vari punti di vista e livelli della realtà, acquisita invece dalla cultura colta e dotta attraverso un lungo processo storico12. Tale divario analoga11

Ibid., 74-75. Cfr M. PRETTO, La pietà popolare nel Meridione d’Italia, in Liturgia e Pietà Popolare. Dimensioni, valori, problemi, Quaderni di Liturgia 1, a cura del Centro di Azione Liturgica, Roma 1989, 67-78. 12


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mente era vissuto nell’ambito religioso che trovava riscontro immediato nella ritualità tra la liturgia dei chierici e la pratica devozionale del popolo. Anche se ancora oggi sopravvivono tali divari, credo che con le nuove generazioni una svolta sia avvenuta in questi decenni ed è in atto, sotto il profilo culturale, grazie a fattori come la scolarizzazione di massa e la fine della civiltà contadina; sotto il profilo ecclesiale grazie al Concilio Vaticano II che ha restituito a tutta la comunità ecclesiale la Bibbia e la Liturgia mediante la traduzione nella lingua volgare propria. Tali processi epocali ci stanno facendo assistere oggi, e certamente nel prossimo futuro, ad un processo di trasformazione e di nuova sintesi delle varie componenti della comunità ecclesiale, dove la frequentazione sempre più cosciente e diffusa della Sacra Scrittura e della Liturgia, stanno determinando una nuova osmosi tra la componente “che ha la meglio della parola” e quella “popolare”. In tal senso basti pensare a due grandi eventi recenti emblematici: il “caso padre Pio” e il Grande Giubileo dell’anno 2000, che hanno visto un coinvolgimento complessivo della Chiesa in tutte le sue componenti. Dentro questo orizzonte credo che non assisteremo nei prossimi anni a una crisi degli ex voto, infatti, come abbiamo visto, in quanto memoriale e mediazione narrativa essi sono una delle espressioni inalienabili del rapporto uomo-Dio, crocevia dell’esperienza del passaggio dalle situazioni di morte alla vita degli eventi personali dei fedeli, di cui sarà interessante osservarne l’evoluzione espressiva.


INDICE

PRESENTAZIONE

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LA MORTE E IL DONO DELLA VITA NELLE SCRITTURE . . . . . . (Attilio Gangemi) Parte Prima: l’Antico Testamento . . . 1. Il fondamento della creazione dell’uomo . . 2. L’ampiezza del valore della vita . . . 3. L’anelito dell’uomo verso la vita e la paura della morte 4. Riflessione sintetica . . . . Parte Seconda: il Nuovo Testamento . . . 1. La manifestazione della vita . . . 2. Il mistero di morte e resurrezione . . . 3. Nuove prospettive . . . . . 4. Accettare di essere uccisi . . . . 5. La vita eterna . . . . . Conclusione . . . . . .

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7 8 8 16 19 20 21 22 22 26 28 30 32

TEOLOGIA DELLA VITA E TEOLOGIA DELLA MORTE (Maurizio Aliotta) . . . . . Premessa . . . . . 1. La vita nell’antropologia biblica . . 2. “Vita” nella tradizione ecclesiale e nella teologia Conclusione . . . . .

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222

Indice

LA TEOLOGIA TRA VANGELO DELLA NONVIOLENZA E CEDIMENTO ALLE ISTITUZIONI DI VIOLENZA . . . . . . (Salvatore Consoli) Premesse . . . . . . 1. La proposta evangelica . . . . 2. La Chiesa antica . . . . . 3. La teoria della «guerra giusta» . . . 4. Voci e atteggiamenti discordanti dalla «guerra giusta» 5. La crisi della teoria della «guerra giusta» e il Vaticano II 6. Linee emergenti, oggi, nella riflessione dei teologi . Conclusioni . . . . . .

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51 51 51 53 56 60 64 65 76

IL SACRIFICIO DELLA VITA ALL’ORIGINE DELL’ESPERIENZA GIURIDICA . . . . . . . . (Salvatore Amato) 1. Sacratio hominis . . . . . . . 2. Il diritto e la cultura della morte . . . . . 3. Il diritto e la cultura della vita . . . . . 4. Vittime necessarie: mafia e democrazia . . . .

81 81 86 92 100

L’EVOLUZIONE NEL CONTENUTO DEI RAPPORTI GIURIDICI FAMILIARI DEL ’900 . . . . . . . . (Tommaso Auletta) Premessa . . . . . . . . 1. I rapporti fra coniugi nella cultura della prima parte del xx secolo . 2. I rapporti genitori-figli nella cultura della prima parte del xx secolo 3. I rapporti familiari dopo la riforma legislativa del 1975 . . 4. Valutazione critica dei modelli familiari succedutisi nel secolo scorso

105 105 106 114 117 123

EROS E THANATOS NELLE DIPENDENZE DA DROGHE . . . . . (Francesco Furnari) . 1. Artù nell’Etna come metafora della dipendenza . 2. Ricerche sul campo ed esperienza clinico-educativa

127 127 132

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223

Indice LA VIOLENZA DEI MINORI (Giacomo Pace) . .

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149 149 151 157 166

BONIFICA UMANA: IL MANICOMIO GIUDIZIARIO DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO (Francesco Migliorino) . . . . . .

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173

L’IDENTITÀ VIOLATA: GLI EBREI IN SICILIA (Giuseppe Speciale) . . . . . 1. Italiani di origine ebraica residenti in Sicilia 2. Fonti scomparse . . . . 3. Storie catanesi . . . . 4. Il regime e gli altri protagonisti . .

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197 197 199 201 204

PER GRAZIA RICEVUTA: VITA E MORTE NEGLI EX VOTO SICILIANI (Angelo Plumari) . . . . . . . .

213

SOPRAVVIVENZA QUOTIDIANA: OSSERVAZIONI SULLA VITA DI UN QUARTIERE POPOLARE (Cosimo Scordato) . . . . . . 0. A quale domanda rispondere? . . . 1. Il luogo-territorio: il centro storico di Palermo . 2. L’Albergheria . . . . . 3. Qualche osservazione in campo religioso . .

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Collane di Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica postconciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna AA. VV., Sezione teologico-morale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli


«QUADERNI DI SYNAXIS»

AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito)

AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184

AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito)

AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi eticogiuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138

AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito)

AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (18901920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334


AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264

AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170

AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190

AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136

AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160

AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280

AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288

P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,19-31), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524


G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418

A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244

G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19) ( in corso di pubblicazione)






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