Medioevo n. 288, Gennaio 2021

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MEDIOEVO n. 288 GENNAIO 2021

DA UN NT AN E A NO LIG CO HI N ER I

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

PROTAGONISTI ILDEBRANDO DA SOVANA

IL RITORNO DI LORENZETTI BEVAGNA NELLO SCRIPTORIUM DELLA GAITA SAN PIETRO

ICONOGRAFIA LA DINASTIA DEGLI OTTONI E L’ARTE DI BISANZIO

Mens. Anno 25 numero 288 Gennaio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO NASCOSTO S. CRISTOFORO SUL NAVIGLIO

DOSSIER

LIBRI DA GUARDARE

ORIGINE E TECNICA DELLA MINIATURA

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www.medioevo.it

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LORENZETTI ILDEBRANDO DA SOVANA GAITA SAN PIETRO S. CRISTOFORO SUL NAVIGLIO DOSSIER ARTE DELLA MINIATURA

AREZZO

IN EDICOLA IL 5 GENNAIO 2021



SOMMARIO

Gennaio 2021

ANTEPRIMA

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UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Una lettera al re

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RESTAURI Con buonissima maniera...

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE PROTAGONISTI

Ildebrando da Sovana

L’incredibile ascesa di un monaco di Maremma di Antonello Carrucoli e Debora Rossi

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Dossier

ARTE DELLA MINIATURA Libri da guardare 75 di Nicoletta Giovè e Giulia Orofino

100 24

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Lombardia

MINIATURA OTTONIANA Miniavano alla bizantina di Francesca Zago

Un gioiello sulla riva del Naviglio di Maria Paola Zanoboni 58

COSTUME E SOCIETÀ BEVAGNA

I mestieri del Medioevo

Scripta manent

di Isabelle Chabot e Paolo Pirillo 44

100

CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Santa birra!

108

LIBRI La storia è metodo

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MEDIOEVO n. 288 GENNAIO 2021

DA UN NT AN E A NO LIG CO HIE N RI

MEDIOEVO www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

PROTAGONISTI ILDEBRANDO DA SOVANA

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15/12/20 12:06

MEDIOEVO Anno XXV, n. 288 - gennaio 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Antonello Carrucoli è insegnante e scrittore. Isabelle Chabot è storica. Francesco Colotta è giornalista. Nicoletta Giovè è professore ordinario di codicologia e paleografia latina all’Università degli Studi di Padova. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Chiara Mercuri è docente presso l’Istituto Teologico di Assisi. Giulia Orofino è professore ordinario di storia dell’arte medievale all’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Paolo Pirillo è professore ordinario di storia medievale all’Università di Bologna. Debora Rossi è direttore dei Musei Civici di Pitigliano. Francesca Zago è storica dell’arte medievale. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa: copertina e pp. 6-13 – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: p. 5 (alto); AKG Images: p. 63; Archivio Mario De Biasi: p. 102; Electa/Sergio Anelli: p. 104 (basso); Zuma Press: pp. 110/111; Erich Lessing/Album: p. 111 – Doc. red.: pp. 5 (basso), 26/27, 28-35, 60, 65, 72 (centro), 75-81, 84-99, 101, 104/105, 105, 109, 110 – Cortesia degli autori: pp. 25, 60/61, 62, 66-71, 72 (sinistra), 73 – Shutterstock: pp. 36/37, 37, 38-41, 102/103, 103, 106/107, 108, 112 – Cortesia Gaita San Pietro: Stefano Preda e Alessandro Bertani: pp. 44-56 – Alamy Stock Photo: pp. 58/59 – Giorgio Albertini: disegno alle pp. 82/83 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 37, 64/65. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina San Donato, particolare della Madonna con Bambino, Santi, Annunciazione e Assunzione, polittico di Pietro Lorenzetti. 1320-1324 circa. Arezzo, pieve di S. Maria.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente pandemie

Come sanare la peste

medioevo nascosto

Gli Ebrei di Orvieto

dossier

Il giullare tra ambiguità e morale


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Una lettera al re In occasione del settecentenario della morte di Dante Alighieri, anche «Medioevo» ha voluto unirsi alle celebrazioni Lo farà con una serie di articoli dedicati al Sommo Poeta e con questa nuova rubrica che, mensilmente, ripercorrerà episodi della sua biografia. Oltre che poeta, infatti, Dante è stato uomo, figlio, marito e padre, politico e guerriero, diplomatico ed esule. Senza alcuna pretesa di esaurire la vicenda biografica dell’Alighieri in questi dodici spot, la rubrica sarà invece il pretesto per tener viva la memoria di un grande protagonista del Medioevo, rendendo cosí il 2021 un anno da trascorrere… divinamente!

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opo l’elezione a «re dei Romani», Enrico, conte di Lussemburgo, veniva incoronato ad Aquisgrana il giorno dell’Epifania del 1309. Tuttavia, per essere imperatore, doveva scendere in Italia, farsi riconoscere re e poi farsi consacrare a Roma, là dove stava l’origine stessa dell’imperium, il popolo romano. Il giovane sovrano varcò dunque le Alpi, raggiungendo Susa il 23 ottobre 1310: nel frattempo, in Italia erano giunti suoi ambasciatori ed emissari, al fine di spianare il terreno per il nuovo imperatore in una terra, l’Italia, divisa tra città rivali e fazioni. Il corteo imperiale si spostò ed Enrico soggiornò a Torino e ad Asti, a Vercelli e a Novara, per poi arrivare a Milano il 23 dicembre. Giunsero ben presto molti ambasciatori dei signori delle città del Nord Italia: gli emissari di Cangrande della Scala, per esempio, erano ad Asti già il 2 dicembre. Poi, in vista dell’incoronazione solenne, prevista per il 6 gennaio 1311, raggiunsero Milano molti sostenitori del futuro imperatore e, tra essi, probabilmente anche Dante. L’ipotesi che l’Alighieri abbia incontrato personalmente Enrico VII nasce da una sua esternazione contenuta nell’Epistola VII, indirizzata proprio al sovrano, in cui il

poeta afferma che «Anche io che ti scrivo, a nome mio e degli altri, ti vidi benignissimo e ti ascoltai clementissimo, come conviene alla imperiale maestà, quando le mie mani toccarono i tuoi piedi e le mie labbra pagarono il loro debito». Dovette essere questo uno dei momenti piú emozionanti della vita di Dante, al punto che il poeta ricorda che «in te esultò lo spirito mio, quando in silenzio mi dissi: “Ecco l’agnello di Dio, ecco chi toglie i peccati del mondo”». Se Dante fu davvero a Milano, ebbe modo di incontrarvi Lapo, figlio di Farinata, e Taddeo di Lupo degli Uberti, e ancora Galeazzo dei conti Alberti di Mangona, il pistoiese Guidaloste Vergiolesi e molti fiorentini bianchi, membri delle famiglie dei Cipriani, dei Tosinghi, degli Alfani e degli Adimari che condividevano con l’Alighieri la triste condizione di esuli. Anche il famoso giurista Cino da Pistoia ebbe modo di incontrare il re nel campo militare posto dinnanzi a Brescia. In questi mesi l’Alighieri ripone tutte le sue speranze nella missione salvifica del nuovo Cesare ed elabora appunto la celebre Epistola VII, nonché la Monarchia. Già prima dell’arrivo di Enrico, Dante aveva assunto una posizione politica ben precisa, che espresse nell’Epistola V, in cui, rivolgendosi ai signori d’Italia, invocava la pace e li invitava ad aprire gli occhi e a riconoscere «che il Signore del cielo e della terra ha stabilito per noi un re».

La statua di Enrico VII di Lussemburgo in origine facente parte del monumento funebre per lui realizzato da Tino di Camaino e collocato nel Duomo di Pisa. 1315. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

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ANTE PRIMA

Con buonissima maniera...

RESTAURI • Questo splendido polittico si deve alla

mano di Pietro Lorenzetti: un’opera mirabile, tornata «a casa» dopo un lungo intervento di restauro

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Madonna con Bambino, Santi, Annunciazione e Assunzione, polittico, di Pietro Lorenzetti. 1320-1324 circa. Arezzo, pieve di S. Maria. Maria appare tra i santi Donato, Giovanni Evangelista, Giovanni Battista e Matteo; nel registro superiore, da sinistra, i santi Giovanni e Paolo, Vincenzo e Luca, l’Annunciazione, i santi Jacopo Maggiore e Jacopo Intercisus, Marcellino e Agostino; nelle cuspidi, santa Reparata, santa Caterina, la Madonna Assunta, sant’Orsola (o Cristina?) e sant’Agata.

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coronamento di un lungo e complesso intervento di restauro, torna ad Arezzo la Madonna con Bambino, Santi, Annunciazione e Assunzione, un magnifico polittico che Pietro Lorenzetti realizzò fra il 1320 e il 1324. Nonostante spostamenti e alterne fortune, l’opera, fra le piú celebri del Trecento, è sempre stata custodita nella pieve aretina di S. Maria, pur nel diverso assetto del presbiterio, che risale al restauro di gusto neomedievale subíto dalla chiesa nella seconda metà dell’Ottocento. All’altar maggiore la descrisse Giorgio Vasari, ma lui stesso, in verità, la fece rimuovere per far largo al suo altare di famiglia, poi spostato a sua volta nella badia delle Ss. Flora e Lucilla nel 1864. Collocato

dunque su un altare laterale in fondo alla pieve, il polittico è arrivato a noi privo di significative parti strutturali, come le due colonne alle estremità con sei figure dipinte per ciascuna, che dovevano renderlo autoportante; come la predella, che il biografo aretino descrive «con molte figure piccole, tutte veramente belle e condotte con buonissima maniera», e i pilastrini tra gli scomparti terminanti in pinnacoli. Significa che molto è andato perso della sua monumentalità scenografica, parte Ricostruzione grafica del polittico, cosí come doveva presentarsi in origine; in evidenza le parti perdute: le due colonne alle estremità, i pilastrini fra le ante e la predella.

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ANTE PRIMA integrante di un’opera innovativa anche sul piano strutturale. Ricostruzioni grafiche sulla base del documento di allogazione e comparazioni con i suoi antecedenti e paralleli naturali, come il polittico di Duccio per l’Ospedale di S. Maria della Scala – che ne è l’antecedente diretto –, quello di Meo da Siena per Montelabate – oggi alla Galleria Nazionale dell’Umbria – o quello, praticamente contemporaneo, di Simone Martini per la chiesa di S. Caterina a Pisa (Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), ci

Un intervento ad alto tasso di tecnologia

Qui sotto il contratto con il quale il vescovo Guido Tarlati commissionò a Pietro Lorenzetti la realizzazione del polittico, il 17 aprile 1320.

rendono solo in parte l’idea di questa macchina d’altare. L’opera, che si considera matura nel percorso artistico di Lorenzetti e nel suo rapporto con la lezione giottesca, manifesta il legame profondo con la tradizione senese che l’incontro fondamentale con Giotto e l’affinità col temperamento drammatico di Giovanni Pisano rendono complessa e inquieta. La presenza della firma, ripetuta due volte, congiunta con il contratto di allogazione – che resta uno dei documenti piú illuminanti dell’epoca per la relazione operaartista-committente – è pietra miliare nel percorso artistico e biografico di Lorenzetti, ponendosi come termine di riferimento per

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In alto l’intervento di pulitura, eseguito con l’ausilio del microscopio. Qui sopra saggi di pulitura sull’Annunciazione. A destra particolare del ritratto di san Donato prima del restauro.

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In alto il tondo con il ritratto del profeta Daniele prima e dopo il restauro.

A sinistra e qui sopra saggi di pulitura sul ritratto di san Donato e l’immagine del martire, che fu il secondo vescovo di Arezzo, dopo il restauro.

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Al centro, a sinistra il ritratto di san Marcellino, prima e dopo il restauro. Qui sopra interventi di stuccatura sulla figura di san Giovanni Battista. A sinistra documentazione fotografica dell’intervento di pulitura del fondo oro.

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ANTE PRIMA

la sua produzione di quegli anni e particolarmente in relazione al ciclo assisiate delle Storie della Passione nella Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco, che si ritiene concluso intorno a quella data. L’opera fu commissionata a Pietro Lorenzetti dal vescovo Guido Tarlati con il contratto stipulato il 17 aprile 1320 presso la distrutta chiesa di S. Angelo in Arcaltis.

Il primo intervento Il polittico fu restaurato nel 1976 a cura della Soprintendenza di Arezzo dal restauratore Carlo Guido (falegnameria a cura dei Fratelli Nespoli) con provvedimento di urgenza, a seguito del tentativo di appiccargli fuoco da parte di uno squilibrato, per fortuna subito

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sventato da alcuni visitatori che si accorsero di due candele accese appoggiate allo scopo sul retro. Quasi quarant’anni piú tardi, è stata ritenuta di importanza essenziale la revisione di quell’intervento. La prima fase è consistita nell’analisi del dipinto in loco e delle sue condizioni attuali. L’opera è stata sottoposta a revisione della funzionalità del supporto e ogni anta del polittico è stata resa nuovamente autonoma per mezzo del taglio delle traverse di restauro (1976) in noce di Mansonia. Per la pulitura della superficie pittorica si è proposta la rimozione degli strati di restauro apposti nell’ultimo intervento (vernici e integrazione pittorica, alterate nel tempo). Rimosso il restauro del 1976, molto alterato dal tempo a

In alto particolare del volto della Madonna e del Bambino dopo il restauro. A destra l’Annunciazione dopo il restauro.


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ANTE PRIMA

A sinistra il ritratto di san Giovanni Battista dopo il restauro. In alto, sulle due pagine particolare del San Giovanni Evangelista dopo il restauro. causa della fotosensibilità delle resine naturali utilizzate, sono state rinvenute estese aree di pittura e di fondi oro in cui persistevano strati di sporco e di patinature antiche di difficile datazione. Si è quindi imposta una seconda fase di pulitura delicatissima, interamente condotta al microscopio da due operatori dedicati, che ha permesso di riportare in luce la cromia originale, recuperando colori cangianti, stesi dal pittore in strati sovrapposti di velature, e le straordinarie decorazioni – incisioni tutte condotte a mano libera –, nelle aureole, nei fondi oro e sulle cornici. Il recupero della brillantezza dell’insieme è

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risultato un evidente contributo alla leggibilità dell’opera. Un’apposita fase di ricerca e di sperimentazione, in stretta connessione con la Soprintendenza di Arezzo, è stata dedicata all’ipotesi di ricostruzione delle parti strutturali in legno della cornice monumentale con pilastri laterali fino a terra, purtroppo perduta, la quale doveva costituire una macchina autoportante di grande impatto visivo, sia per le dimensioni maggiori di circa mezzo metro in larghezza, che per i pinnacoli delle terminazioni superiori e una quantità di piccole figurazioni, tra predella e colonne laterali. Fondandosi sul calcolo proposto da Anna Maria Maetzke (1974) rivisto da Andrea De Marchi (2004), l’opera doveva misurare complessivamente 353,6 cm di larghezza (413,6 cm inclusi i due

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contrafforti di circa 30 cm ciascuno, con sei figure di santi, perduti) e 350,5 cm di altezza (inclusa la predella, perduta). Il calcolo riporterebbe alle misure contrattuali di 6 x 6 braccia (350 x 350 cm circa) + le due colonne da mezzo braccio ciascuna (60 cm circa entrambe).

Restituire le proporzioni È stata quindi proposta una ipotetica ricostruzione, con disegno digitale, tale da restituire spaziature e proporzioni corrette all’opera, e la relativa suggestione gotica che ne era parte integrante, facilitandone la lettura, soprattutto in rapporto con l’interno monumentale della pieve per la quale fu concepita. Al termine delle ricerche, la direzione dei lavori, la proprietà e l’équipe tecnica hanno scelto di limitare tale ricostruzione al recupero della

In alto le figure dei santi Jacopo Maggiore e Jacopo Intercisus dopo il restauro. larghezza del polittico, penalizzata anche dalla riduzione laterale di ciascuna pala. Ricalcolata la misura originaria di ogni pala, sono stati inseriti i listelli dorati (privi di integrazione pittorica) che ridistanziano ora il polittico, ricondotto cosí alla misura originaria almeno in larghezza. La predella di cm 30 è stata ricostruita in legno, solo come volume, per riproporzionare almeno in parte anche l’altezza del polittico. Resta da finanziare la ricollocazione dell’opera in pieve e, a tal proposito, la ricerca di contributi continua ed è in corso una campagna di raccolta fondi sulla piattaforma GoFundMe: https://www.gofundme. com/f/progetto-restauro-lorenzetti (red.)

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ANTE PRIMA

Un modello sostenibile

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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ll’insegna di «Aspettando la XXIII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico», posticipata ai giorni 8-11 aprile 2021, il Vice Direttore per la Cultura UNESCO Ernesto Ottone Ramírez, il 19 novembre scorso, nel suo intervento da Parigi, ha voluto ricordare l’evento, che da molti anni gode del supporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per la lunga durata e per essere unico tra le fiere dedicate al turismo di tutto il mondo, oltre a complimentarsi con la Fondazione Paestum per aver confermato i «Dialoghi sull’Archeologia della Magna Grecia e del Mediterraneo» in modalità telematica, al fine di preparare il palcoscenico per l’evento del prossimo anno. Riportiamo dunque le parole del Vice Direttore: «Alcuni dei piú iconici siti patrimonio mondiale UNESCO sono siti archeologici e la loro salvaguardia va al cuore della missione dell’UNESCO. A causa della pandemia da Covid-19 questo evento, come molti altri compreso il World Heritage Committee (Comitato per il Patrimonio Mondiale), è stato posticipato. La crisi ha visto il turismo diminuire rapidamente nella maggior parte dei Paesi, influenzando molti siti patrimonio mondiale UNESCO per un funzionamento corretto per l’immediato futuro. I nostri siti stanno iniziando a riaprire in alcune aree del mondo, la situazione è cambiata, ma rimane volatile, con paesi e regioni diversi che vivono sfide diverse. Nuove misure e approcci sono messi alla prova per far ripartire il turismo e alcuni trend stanno emergendo. Una tendenza chiave è la crescente importanza della tecnologia digitale. Plasmerà il futuro del patrimonio e del turismo. All’UNESCO riteniamo che avere cura della cultura e del patrimonio ci renda resilienti. Durante la crisi da Covid-19 l’accesso digitale alla cultura ha fornito istruzione, intrattenimento e conforto a milioni di persone confinate nelle proprie case in tutto il mondo. Abbiamo assistito a una richiesta senza precedenti di accesso on line alla cultura, con alcuni siti patrimonio mondiale che hanno riscontrato un incremento del 30% del traffico dei loro siti internet e dell’engagement dei loro account sui social media rispetto all’anno precedente. Per supportare l’urgente necessità di rendere la cultura accessibile a tutti l’UNESCO ha lanciato quest’anno le sue campagne Share Culture e Share Our Heritage e ha messo in campo una serie di iniziative, che puntano alla digitalizzazione del patrimonio.

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Ernesto Ottone Ramírez, Vice Direttore per la Cultura UNESCO.

Molti siti archeologici stanno implementando e esplorando l’innovazione digitale ed è incoraggiante vedere cosí tante risposte creative che promuovono l’accesso alla cultura. La mostra digitale ArcheoVirtual nel programma della BMTA è un esempio eccellente. Anche il numero attuale del World Heritage Review ha come tema l’interpretazione del patrimonio culturale e il Covid-19 e fornisce gli ultimi strumenti digitali a supporto dell’accesso al patrimonio culturale, dalle visite virtuali alle mostre on line, agli inventari di catalogazione di manufatti del patrimonio culturale. Un altro trend emergente è lo spostamento dai mercati internazionali verso la riconnessione con le comunità locali e l’invito al coinvolgimento con e alla riscoperta del loro patrimonio culturale. Tuttavia, le comunità locali avranno bisogno di maggior supporto sia per la ripresa dalla crisi in corso che per fronteggiare e adattarsi alle future sfide regionali e globali, dalle pandemie al cambiamento climatico, ai disastri naturali o ai conflitti. Saranno necessari nuovi modelli economici inclusivi e standard migliorativi di salute, sicurezza e interazione sociale. La relazione tra natura e cultura dovrà sostenere sforzi per rafforzamento e resilienza. La pandemia da Covid-19 ha dato slancio al ripensamento dei modelli esistenti e all’indirizzamento degli sforzi post Covid19 verso un turismo culturale basato sulla natura in linea con i valori UNESCO, rispettoso del patrimonio e benefico per le comunità. In risposta, l’UNESCO ha istituito una task force sul turismo culturale e resiliente, con autorità consultive della Convenzione UNESCO per affrontare temi chiave legati al turismo e per promuovere nuovi approcci, che sfruttano i valori del patrimonio e contribuiscono allo sviluppo sostenibile durante e oltre la crisi del Covid-19. Guardando avanti, l’aumento del coordinamento, il rafforzamento della formazione nell’innovazione digitale e lo scambio di buone pratiche saranno fattori cruciali. Questo sarà il focus del nostro lavoro andando avanti e la vostra collaborazione è benvenuta». gennaio

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

AVVISO AI LETTORI

Le pagine di questa edizione dell’Agenda del Mese sono state redatte nei giorni in cui le autorità nazionali e locali hanno emanato nuove disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

Mostre PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 6 gennaio

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le

accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San

ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neo-rinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria BOLOGNA

opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli,

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Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di

LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 gennaio

Un viaggio di ritorno travagliato, che ai tre secoli di attesa ha sommato altro tempo, se possibile ancor piú interminabile nella sua incertezza: ma finalmente il capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi. Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla

sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali, hanno dato vita a un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni. Il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei gennaio

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prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti

lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi, monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso dell’Ottocento i dipinti entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali. Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it

BOLOGNA IDENTITÀ NASCOSTE. SULLE ORME DEI CRIPTO-GIUDEI Museo Ebraico di Bologna fino al 10 gennaio

La mostra esplora la lunga storia degli Ebrei nella Penisola Iberica (Sefarad), dai primi anni dell’impero romano, attraverso il Medioevo e la fiorente Età d’Oro che vide un notevole sviluppo della cultura e dell’economia ebraica in Spagna, fino al dramma dell’espulsione, delle fughe e delle conversioni forzate da cui origina la storia dei criptogiudei. Il percorso espositivo getta luce sull’affascinante e complessa vicenda dei cripto-giudei, dei conversos («convertiti»), degli anusim (i «costretti»), dei nuovi cristiani, dei marrani, tutte definizioni che si riferiscono a uomini e donne che dalla fine del XV secolo vissero una drammatica doppia identità: in pubblico come cristiani, ma segretamente, nell’intimità delle loro case, continuarono a osservare il giudaismo. Le loro migrazioni furono dovute alle indagini dell’Inquisizione, destinate a scovare e castigare

i cripto-giudei che portavano una maschera di cristianità, e ai famosi statuti di purezza di sangue, che facevano dei marrani sudditi di seconda categoria. La storia dei conversos dalla Penisola Iberica è una storia di identità segrete, nascoste e mutevoli. Le loro tradizioni uniche e particolari durarono per generazioni, dimostrando la forza e la resilienza di un’intera comunità. info tel. 051 2911280; e-mail: didattica@ museoebraicobo.it RIMINI RAFFAELLO A RIMINI. IL RITORNO DELLA MADONNA DIOTALLEVI Museo della Città «Luigi Tonini» fino al 10 gennaio

Anche Rimini si unisce alle celebrazioni per il cinquecentenario della morte di Raffaello riportando in città la Madonna Diotallevi, opera giovanile dell’Urbinate che porta il nome del suo ultimo proprietario privato, il marchese riminese Audiface Diotallevi, e oggi facente parte delle collezioni dei Musei Statali di Berlino. La splendida

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AGENDA DEL MESE tavola, oltre a consentire di ammirare un frutto ancora acerbo ma già carico di promesse dell’arte di Raffaello, si rivela un mezzo straordinario tramite il quale raccontare la Rimini dell’Ottocento, i suoi piú eminenti personaggi, le collezioni che svelano una ricchezza artistica finora insospettata. info www.museicomunalirimini.it TORINO INCENSUM Musei Reali, Spazio Passerella del Museo di Antichità fino al 10 gennaio

La mostra ospita come special guest una materia prima meravigliosa ed estremamente evocativa, il franchincenso o lacrime degli Dèi. Cristalli lattiginosi con sfumature verdi che ancora oggi sono estratti e lavorati in quello che gli esploratori definivano un mondo a parte, il sultanato dell’Oman. Piú precisamente è nella regione del Dhofar che troviamo la Valle dell’Incenso, un luogo straordinario, in cui crescono numerosi alberi di Boswellia sacra. Una mostra che racconta una

storia lunga piú di cinque millenni. La suddivisione delle tematiche presentate lungo il percorso è sia cronologica che geografica, trasversale a piú culture, attestata non solo lungo il bacino del Mediterraneo, ma ben oltre, verso la Cina e il Giappone, civiltà che hanno associato all’incenso pratiche liturgiche, abitudini e costumi di vita, in modo particolare dei circoli intellettuali. info www.perfumumtorino.com ROMA IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli fino al 10 gennaio

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua dimostra come il giovane Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951. Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa. info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 31 gennaio

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Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it gennaio

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SENIGALLIA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Palazzo del Duca fino al 31 gennaio

Dopo essere stata presentata ad Ascoli Piceno e a Roma, va in scena a Senigallia, in Palazzo del Duca, la terza e ultima tappa della mostra «Rinascimento marchigiano. Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma», che, per l’occasione, si arricchisce ulteriormente, presentando una quarantina di opere. In particolare, per la prima volta dopo il sisma, viene ricomposto l’intero ciclo di Jacobello del Fiore con le Scene della vita di Santa Lucia proveniente dal Palazzo dei Priori di Fermo, presentato parzialmente nelle tappe precedenti. I recenti restauri compiuti sul ciclo sono stati molto importanti poiché hanno permesso di affermare con certezza che si tratta di una pala ribaltabile, dove i pannelli si potevano all’occorrenza richiudere uno sull’altro per svelare le reliquie poste in una nicchia sul retro, e non di un dossale, come ha sempre sostenuto la storiografia. Di grande valore culturale è

anche la campana databile al XIII secolo e molto probabilmente realizzata per la canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228: si tratta della piú antica campana francescana arrivata ai nostri giorni. Originariamente si trovava nella chiesa di S. Francesco, a Borgo, una frazione di Arquata del Tronto, e ora è conservata nei depositi del Forte Malatesta di Ascoli Piceno. Da segnalare poi una stauroteca, contenente un frammento della vera croce e

DELLE DONNE ROMANE Galleria degli Uffizi fino al 14 febbraio

una coppia di reliquiari, realizzati nel XVIII secolo dall’orafo argentiere Pietro Bracci, romano di origine, ma molto attivo nelle Marche. info e-mail: circuitomuseale@ comune.senigallia.an.it MANTOVA RAFFAELLO TRAMA E ORDITO. GLI ARAZZI DI PALAZZO DUCALE A MANTOVA Complesso Museale Palazzo Ducale fino al 7 febbraio

Il programma delle celebrazioni per il V centenario della scomparsa di Raffaello Sanzio vede protagonista anche Mantova, città che conserva una preziosa

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testimonianza del genio urbinate. Il ciclo degli arazzi con le Storie dei Santi Pietro e Paolo conservato a Palazzo Ducale fu infatti realizzato nelle Fiandre a partire dai cartoni preparatori eseguiti dalla bottega di Raffaello: questi enormi fogli dipinti commissionati da papa Leone X, in parte conservati al Victoria & Albert Museum di Londra, servirono a realizzare il celebre ciclo destinato a ornare le pareti della Cappella Sistina in Vaticano. L’edizione

mantovana, che segue cronologicamente l’editio princeps romana, è dunque un’opera di straordinario pregio, certamente tra i pezzi piú costosi e prestigiosi della portentosa collezione d’arte dei Gonzaga. La mostra presenta documenti legati alla storia del ciclo, dall’acquisto da parte di Ercole Gonzaga fino alle piú recenti vicende novecentesche. info tel. 0376 224832; https://mantovaducale. beniculturali.it FIRENZE IMPERATRICI, MATRONE, LIBERTE. VOLTI E SEGRETI

La mostra pone a confronto gli opposti modelli che caratterizzano la rappresentazione femminile nel mondo romano, e infatti si articola in tre sezioni: gli exempla femminili negativi, i modelli positivi e infine il ruolo pubblico concesso alle matrone. L’arco temporale preso in esame comprende un periodo ampiamente documentato, quello aureo del Principato, che va dall’ascesa di Augusto alla morte di Marco Aurelio. Le opere esposte sono sculture, epigrafi, gemme e disegni, in gran parte appartenenti alla collezione delle Gallerie degli Uffizi, e con prestiti da altre istituzioni. info tel. 055 294883; www.uffizi.it TORINO SULLE TRACCE DI RAFFAELLO NELLE COLLEZIONI SABAUDE Musei Reali, Galleria Sabauda-Spazio Scoperte fino al 14 marzo

A 500 anni dalla sua morte, anche i Musei Reali di Torino rendono omaggio a Raffaello con una mostra che, attraverso dipinti, incisioni e oggetti di arte decorativa, illustra la

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AGENDA DEL MESE soggetto sacro, mitologico e allegorico, dove i modelli di Raffaello sono rivisitati con formidabile perizia tecnica e originale sensibilità chiaroscurale. L’itinerario si completa lungo il percorso di visita al primo piano della Galleria Sabauda, dove sono esposte opere di autori cinquecenteschi che si misurarono con Raffaello e con l’ideale di un’arte di insuperata perfezione. info www.museireali. beniculturali.it TORINO RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 12 aprile

diffusione dei modelli derivati dalla sua opera dalla prima metà del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, in Piemonte e nelle raccolte dei Savoia. Il percorso presenta 33 opere e illustra l’arte di Raffaello attraverso lavori che derivano direttamente dai suoi modelli, sia mediante la pratica della copia, sia con la libera reinterpretazione delle sue invenzioni. La prima parte del percorso è dedicata alle copie antiche della famosa Madonna d’Orléans, opera giovanile di Raffaello forse appartenuta al duca Carlo II di Savoia, oggi conservata presso il Museo Condé di Chantilly e replicata già nella prima metà del Cinquecento da alcuni dei principali artisti attivi in area piemontese. Deriva da un

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modello raffaellesco anche la Madonna della Tenda delle collezioni sabaude, restaurata con la collaborazione del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale e il sostegno di Intesa Sanpaolo. Ritenuta all’inizio dell’Ottocento opera autografa del maestro e venduta come tale nel 1828 al principe di Carignano Carlo Alberto, è stata poi attribuita a collaboratori come Perin del Vaga e Giovan Francesco Penni. Gli approfondimenti condotti in occasione della mostra propendono invece per una realizzazione intorno al 1530-1540 a Firenze, in una prestigiosa officina come quella di Andrea del Sarto. La seconda parte presenta una selezione di stampe di

La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi santi, i busti sono a tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un

santo, realizzata con materiali preziosi, poteva condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

INGHILTERRA NASCITA DI UNA MONARCHIA MILLENARIA

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esiderio di indipendenza e vocazione internazionale segnarono la storia della corona inglese nel Medioevo. Una duplice filosofia politica, tuttora al centro dei destini strategici del regno. Il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre la storia dell’Inghilterra, che s’intreccia con quella della sua corona, una delle monarchie piú antiche d’Europa e senza dubbio la piú popolare, anche oltre i confini dell’isola. Una vicenda che prende le mosse all’indomani della caduta dell’impero romano, quando anche la Britannia può liberarsi definitivamente dal giogo straniero e, prima di trasformarsi nel Regno Unito, vede convivere molte corone. Le prime e decisive svolte si registrano con l’avvento del re anglosassone Alfredo il Grande – che sconfigge i Vichinghi e si fa promotore della crescita culturale e civile del suo popolo – e poi di Edgardo il Pacifico: solennemente incoronato nel 973, è il sovrano grazie al quale l’Inghilterra si avvia ad assumere i contorni di una nazione vera e propria. Meno di un secolo piú tardi, irrompono sulla scena i Normanni che, guidati dal duca Guglielmo il Bastardo, escono vincitori dallo scontro combattuto nel 1066 a Hastings, la «madre di tutte le battaglie»: gli Inglesi subiscono la piú grande umiliazione della loro storia, il vincitore si autoribattezza «il Conquistatore» e inaugura una stagione nuova, dando inizio a una delle piú potenti monarchie di tutti i tempi. Tempi che a piú riprese si macchiano ancora di sangue, come quando, dal 1337 al 1453, le corone di Francia e Inghilterra si batterono aspramente per il controllo di vaste porzioni della Francia nella Guerra dei Cent’anni. O, piú tardi, quando la rivalità fra le casate dei Lancaster e degli York si trasforma nella Guerra delle due Rose, che per trent’anni vede le isole britanniche teatro di scontri campali, intrighi e tradimenti.

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GLI ARGOMENTI

• LE ORIGINI L’eptarchia • EDGARDO IL PACIFICO Il primo re • HASTINGS, 1066 I Normanni al trono • RICCARDO CUOR DI LEONE Un mito senza tempo • LA GUERRA DEI CENT’ANNI Scontro tra corone • LA GUERRA DELLE DUE ROSE Un trentennio di sangue In alto spilla anglosassone in oro con granati, vetro e niello. 600 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso disegno ricostruttivo del Ponte di Londra nel XIV sec.



protagonisti ildebrando da sovana

L’incredibile ascesa di un monaco di Maremma

di Antonello Carrucoli e Debora Rossi

Fu uno dei protagonisti piú innovativi del suo tempo, eppure le informazioni biografiche su di lui sono rare e incerte. In questi giorni, la salma di Gregorio VII, divenuto pontefice nel 1073 e proclamato santo nel 1606, è visibile all’interno della Cattedrale di Sovana. L’antichissimo borgo che, forse, gli diede i natali…

S

tabilire con certezza la data di nascita di Gregorio VII – al secolo, Ildebrando da Sovana – è ancora oggi impossibile e, in attesa di nuove ed eventuali precisazioni, non si può far altro che indicare la periodizzazione convenzionale, ovvero quella compresa tra il 1025 e il 1035. Una datazione che trovò peraltro conferma nella ricognizione sulla salma del grande pontefice, effettuata nel 1984 da Francesco Mallegni e Gino Fornaciari, membri del gruppo di Paleontologia umana dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Pisa. In quell’occasione, cosí scrisse Valeria Caldelli su La Nazione del 14 giugno 1984: «Papa Gregorio VII era assai corpulento e artritico (…) e lo studio delle ossa ha permesso di indicare con una certa sicurezza la data di nascita tra il 1025 e il 1035 e non intorno al 1020 come in genere si credeva (…). Era alto un metro e sessantadue e doveva pesare parecchi chilogrammi vista la sua corporatura robusta, con omeri e femori che avrebbero fatto invidia ad un guerriero». Le analisi dello scheletro rilevarono anche che il pontefice aveva sofferto nell’ultima fase della sua esistenza di un’artrosi diffusa un po’ in tutto il corpo e aveva una profonda flebite alle gambe, messa in evidenza da alcuni segni particolari rimasti sulle tibie; in piú camminava piegato verso sinistra, come dimostra una deformazione riscontrata sulle vertebre. Sul luogo di nascita non tutta la storiografia

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concorda, ma in tre redazioni del Liber Pontificalis si afferma chiaramente che Gregorio, chiamato Ildebrando, è toscano di nascita del borgo di RaovacoRoanco-Rovaco. Se a queste informazioni coniughiamo sia l’importantissima precisazione territoriale di questo borgo fatta dal cardinale inglese Bosone († 1178) – secondo il quale Ildebrando era «di nazione toscana, originario di Sovana, del villaggio di Rovaco» –, sia l’informazione riportata dallo storico pitiglianese Evandro Baldini, il quale, parlando del torrente Roiana-Rovana, individuava lungo questo corso d’acqua (che nasce a Pian di Corano, nel territorio del Comune di Pitigliano, e sfocia nel fiume Fiora, di fronte a Poggio Buco, in località Carboniere) i resti di una fortificazione «da identificarsi forse con l’antico oppidum Rovanacum», traiamo forti indizi circa l’individuazione del luogo di nascita di uno dei piú grandi papi della storia.

Sopra un alto masso tufaceo...

Dell’oppido Rovaco, un altro storico locale, Giuseppe Giusti, scrive: «È certo che sul poggio delle Rocchette erigevasi sopra un alto masso tufaceo, un castello; tale poggio è bagnato da un fosso detto la Roiana, fosso che antiche carte che risalgono all’epoca medicea e di Maria Teresa d’Austria definiscono come flumen Ronacum, nella sua radice latina». Per parte sua, Giovan Battista Vicarelli – anch’egli gennaio

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La salma di Gregorio VII nella Cattedrale di Sovana, dove è stata eccezionalmente e temporaneamente traslata da Salerno, in occasione del millenario della nascita del pontefice.

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protagonisti ildebrando da sovana storico locale – propone una non improbabile interpretazione: l’oppido Rovaco e Sovana sarebbero lo stesso luogo, in quanto il toponimo Roanaco corrisponderebbe a Soanae, perché gli amanuensi, nel trascrivere i documenti, potrebbero aver scambiato la «S» con la «R», la «E» del dittongo «AE» sarebbe diventata «C» e il punto fermo sarebbe stato interpretato come una «O». Chi scrive è dell’opinione che l’oppido Rovaco si trovasse proprio lungo il corso della Roiana, in prossimità della valle della Iesa e della via di Trigoli, già

Sulle due pagine ritratto di Gregorio VII (al secolo Ildebrando da Sovana), olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 1608. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

importante snodo viario territoriale di quel lontano periodo, quando, a partire dal X secolo, cominciarono a intensificarsi le fortificazioni di villaggi per consentire una maggiore tutela del territorio. Al tempo in cui Ildebrando venne al mondo, quelle terre facevano parte della Contea Aldobrandesca, governata dal conte Ildebrando IV con sede a Sovana; qualche studioso ha avanzato l’ipotesi, non priva di suggestioni, di una parentela del futuro Gregorio VII con la nobile famiglia degli Aldobrandeschi, sebbene il suo nome non venga mai citato nel loro albero genealogico. Le fonti piú accreditate parlano del padre di Ildebrando come di un certo Bonizo o Boninzone, forse un soldato, un falegname o un capraio, e della madre come di un’esponente della nobiltà romana, probabilmente della famiglia dei Pierleoni. L’ipotesi che la donna non fosse di umili origini è rafforzata dal fatto che Ildebrando venne portato a Roma in tenerissima età e che, fra i quattro e i cinque anni, iniziò a frequentare la scuola del Patriarchio Lateranense, un istituto riservato a bambini di alta estrazione sociale. In questa scuola, tra gli educatori, il nostro ebbe anche Giovanni Graziano, destinato a

In alto particolare della Carta dei Territori di Sovana e Scansano divisa nelle sue Comunità. 1778-1783. Nell’area evidenziata, alla confluenza fra il fiume Fiora e il fosso Roiana (il cui corso è tracciato, ma senza l’indicazione del nome) potrebbe essere localizzato l’oppido Rovaco, che alcuni studiosi identificano con il luogo di nascita di Ildebrando da Sovana.

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protagonisti ildebrando da sovana Il Dictatus Papae

Agli esordi della Riforma gregoriana La raccolta di 27 norme canoniche che fissò i principi fondamentali della riforma della Chiesa viene, per consuetudine storiografica, attribuita a papa Gregorio VII. Vi erano affermati il potere assoluto del pontefice romano, la sua supremazia sulle gerarchie della Chiesa e il diritto di deporre gli imperatori e di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà. Che la politica

non fosse una materia sconosciuta ai pontefici è del resto noto fino almeno a partire dal V secolo d.C., quando, loro malgrado, essi dovettero occuparsene in seguito alle invasioni dei popoli germanici, essendo venuta meno l’autorità imperiale romana. Con l’avvento dei Longobardi, un secolo piú tardi, il papato si trovò obbligato a firmare un’alleanza con i Franchi dopo che, per decine

di anni, le campagne erano state percorse da bande sparse di razziatori che avevano finito per distruggere l’agricoltura e impedire i rifornimenti militari al popolo. Si può far risalire, quindi, almeno a questo periodo l’acquisizione de facto da parte del papato di un nuovo ruolo politicoistituzionale sul territorio di Roma e dei dintorni, non in virtú di una formale sovranità territoriale, ma in base al riconoscimento ottenuto dalla popolazione stessa. Inoltre, l’accresciuto peso politico-istituzionale della Chiesa, che andava oltre l’autorità religiosa, comportò la ridefinizione della stessa struttura ecclesiastica, al fine di metterla in grado di fare fronte alle accresciute, e impreviste, funzioni cui si era vista chiamata. Le donazioni longobarde dei primi castelli nell’VIII secolo, formalmente destinate «agli apostoli Pietro e Paolo», non possono pertanto prescindere dal riconoscimento ormai consolidato del ruolo politico della Chiesa, a cui gli stessi sovrani longobardi, a partire dalla grande regina Teodolinda – che intessè una fitta corrispondenza con papa Gregorio Magno –, guardavano ormai come necessario interlocutore negli equilibri politici della Penisola. La cessione effettuata nel 728 dal re longobardo Liutprando a papa Gregorio II di alcuni castelli del Ducato romano importanti per la difesa di Roma, il maggiore dei quali era quello di Sutri (la cosiddetta Donazione di A sinistra miniatura raffigurante Il Potere spirituale e il Potere temporale. XII sec. Nel registro inferiore un chierico e una coppia di sposi rappresentano il popolo sottoposto alla giustizia. Nella pagina accanto incisione raffigurante papa Gregorio VII.

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Sutri), fu la prima delle due restituzioni per donationis titulo effettuate da Liutprando alla Chiesa di Roma. La seconda si ebbe nel 743. Momenti cruciali di un percorso che vide spesso associate la croce alla spada, e che si ripetono con la dinastia merovingia prima e carolingia poi. Dopo l’usurpazione del trono regio, Pipino il Breve cercò in papa Stefano II l’alleato perfetto che, per il tramite della nuova cerimonia dell’unzione del re da parte del papa, forse ispirata dalle sacre letture bibliche sulle vicende di Saul e del profeta Samuele, creò i precedenti per un conflitto di potere epocale nella storia. La consacrazione di Pipino lo rese infatti re-sacerdote, dotato di un potere nuovo che non derivava piú solo dall’assemblea dei guerrieri ma direttamente da Dio. Inoltre, dopo la disfatta dei Longobardi guidati da Desiderio (774) e la simbolica e solenne deposizione sull’altare di San Pietro delle chiavi di 22 città dell’Italia centro-meridionale già bizantine, il pontefice si trovò a possedere intere regioni sulle quali esercitava il proprio governo, divenendo perciò papa-re. Nel 756 inoltre, per effetto della (falsa) Donazione di Costantino, il potere temporale della Chiesa romana fu legittimato con forza «retroattiva».

Con Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero si consolidò il patto di unione tra Chiesa e impero e pacifici si mantennero i rapporti tra le due istituzioni. Sino alle soglie dell’anno Mille, quando re-sacerdote e papare entrarono in conflitto per stabilire

a chi spettasse il potere universale, la summa tra il potere spirituale, eterno e celeste e quello temporale, materiale e terreno. La disputa si fece durissima a partire dalla fine del X secolo, quando, nel 962 d.C., Ottone I di Sassonia, da re-sacerdote abolí il principio di elezione cittadina dei

salire al soglio di Pietro nel maggio del 1045, con il nome di Gregorio VI, e che volle accanto a sé, in qualità di segretario, il giovane Ildebrando.

Nel solco delle idee di Cluny

Agli inizi del X secolo, nel 910, nacque a Cluny un movimento spirituale di religiosi innovatori-riformatori, fermamenti decisi a riportare la Chiesa all’originaria pu-

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vescovi, arrogandosi il diritto di nomina al fine di assegnare loro un feudo e facendone fedeli vescovi-conti. Con il Privilegio Ottoniano, inoltre, proclamò il diritto imperiale di scegliere il pontefice, un primato che finí quando la cattedra pontificia passò al monaco maremmano Ildebrando da Sovana. Gregorio VII consacrò la vita alla missione di rafforzare la Chiesa con atti confluiti in quella che viene comunenente definita «Riforma gregoriana»: obbligo del celibato per i preti, formulazione degli elementi del diritto canonico, istituzione di tribunali ecclesiastici incaricati di giudicare le infrazioni a queste norme. Egli perseguí il piú alto tra gli scopi: liberare la Chiesa dal potere laico, strappando all’impero il potere universale per attribuirlo esclusivamente al papato (Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis) e a questo scopo emanò il Dictatus Papae. Il secondo atto verso la supremazia del potere ecclesiastico si compí, con eguale e significativa forza, quando ascese al soglio pontificio Lotario dei Conti di Segni col nome di Innocenzo III, fondatore della monarchia pontificia assoluta. Con lui, l’opera di riforma intrapresa da Gregorio VII divenne ancora piú radicale, assumendo talvolta toni cruenti, come durante la crociata contro gli Albigesi (1208-1229) e gli altri movimenti evangelici. (D. R.)

rezza evangelica, sradicando definitivamente i mali derivanti dalla secolare temporalizzazione, quali la simonia, il concubinato e il nepotismo. Simili pratiche erano motivo di scandalo presso la popolazione, che non si capacitava dell’elezione di papi indegni e del mercimonio che ne derivava. Il movimento riformatore cluniacense, che riuscí a far eleggere vari papi desiderosi di liberare la Chiesa dalle pericolose dipendenze materiali-temporali,

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protagonisti ildebrando da sovana

ebbe vari leader: tra questi, spicca la figura di Ildebrando da Sovana che, il 22 aprile del 1073, venne eletto papa, succedendo ad Alessandro II. Ma l’ascesa di Ildebrando aveva avuto inizio con il pontificato di Leone IX (1048-1054), punto di riferimento del movimento riformista, quando al nostro erano stati affidati incarichi delicati e di rilievo, tra cui quello di legato pontificio: toccò a lui dirimere in terra francese l’eresia di Berengario e, morto Leone IX, dovette recarsi in Germania dall’imperatore per decidere sulla nomina del nuovo papa, che fu Vittore II (fino al 1057, anno della sua morte, n.d.r.). Ildebrando era ormai divenuto una figura di riferimento per la Chiesa di Roma e, nel 1058, l’elezione a nuovo pontefice del vescovo di Firenze, Gerardo – che prese il nome di Niccolò II – ne è la conferma. Con il sostegno dei leader riformatori – Ildebrando, Umberto di Silvacandida e Pier Damiani – nell’aprile del 1059 Niccolò II diede il

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via a un concilio, a Roma, nel quale furono prese decisioni di estrema importanza in merito all’elezione del pontefice. Questa divenne un fatto interno alla Chiesa, attraverso il voto dei cardinali, mettendo cosí a riparo la Santa Sede sia dalle lotte intestine della nobiltà romana, sia dall’ingerenza imperiale che, in virtú del Privilegio di Ottone del 962 (il Privilegium Othonis), aveva l’ultima parola sull’elezione del papa.

Il privilegio cancellato

Con la bolla In nomine domini, promulgata da Niccolò II nel suddetto concilio, non solo venne cancellato il privilegio ottoniano, ma si andò ben oltre: era la Chiesa, nella persona del papa, a concedere l’esclusiva del titolo imperiale, si condannavano e si vietavano le pratiche simoniache – identificate con le investiture che i laici davano ai sacerdoti del loro potere spirituale – e si «apriva» al normanno Roberto il Guiscardo, con il gennaio

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A destra miniatura raffigurante sant’Ugo il Grande di Cluny con Enrico IV che implora Matilde di Canossa, da un’edizione della Vita Mathildis di Donizone. 11111115 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

l’umiliazione di canossa

A piedi nudi nella neve

In alto miniatura raffigurante papa Niccolò II che incorona Roberto il Guiscardo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Nel castello di Canossa, situato nel territorio di Reggio Emilia, ebbe luogo uno dei piú celebri episodi della storia del Medioevo, che costituí il culmine, a dir poco teatrale, dello scontro fra Enrico IV e Gregorio VII. Nel gennaio del 1076 l’imperatore aveva dichiarato deposto il pontefice, il quale, un mese piú tardi, reagí con la scomunica del sovrano. Un pronunciamento che inimicò a Enrico i principi tedeschi, i quali gli imposero di ottenere la riconciliazione con il papa entro un anno, fissando inoltre un appuntamento per un’assemblea da tenersi con Gregorio ad Augusta il 2 febbraio dell’anno successivo. Appena seppe che il pontefice si apprestava a partire per Augusta, Enrico scese in dicembre con il suo esercito in Italia diretto a Roma, mentre Gregorio, avendolo appreso, si rifugiò appunto nel castello di Canossa, ospite della grancontessa Matilde. Nell’inverno fra il 1076 e il 1077 Enrico e la suocera, la contessa Adelaide di Susa, diedero inizio alla loro processione penitenziale a Canossa per ottenere la revoca della scomunica. Per tre giorni e tre notti, dal 25 al 27 gennaio 1077, Enrico fu costretto a umiliarsi, dovendo attendere davanti al portale d’ingresso del castello d’essere ammesso al cospetto di Gregorio: l’attesa ebbe luogo mentre imperversava una bufera di neve ed Enrico giaceva inginocchiato, a piedi scalzi, vestito con un saio, il capo cosparso di cenere, di fronte al portale chiuso. Solo grazie all’intercessione del padrino, l’abate di Cluny Ugo, e della marchesa Matilde, poté finalmente essere ricevuto dal papa il 28 gennaio. Dall’evento è derivata l’espressione «andare a Canossa», con la quale si intende fare atto di sottomissione umiliante, ritrattando e riconoscendo la supremazia dell’avversario. (red.)

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protagonisti ildebrando da sovana

quale il papa concluse un accordo a Menfi, riconoscendogli i ducati di Puglia, Calabria e Sicilia. Tuttavia, l’imperatrice Agnese, moglie di Enrico III e madre del futuro imperatore Enrico IV, non accolse con favore quelle risoluzioni ed ebbero inizio le frizioni destinate a sfociare nello scontro epocale tra l’impero e la Chiesa passato alla storia come «lotta per le investiture». Il 22 aprile del 1073, quando Ildebrando succedette ad Alessandro II con il nome di Gregorio VII, si mosse nel pieno di uno spirito riformatore, sulla scia di una tradizione antica nei rapporti tra la Chiesa di Roma e il potere laico, e sulla base della quale i protagonisti si confrontarono, facendo ciascuno la sua parte, con convincimento. Dal loro scontro emersero gli orizzonti dei futuri rapporti tra le parti sociali – oratores, bellatores, laboratores – in un contesto che, dopo il Mille, dava nuovi ed evidenti segni di vitalità; nascono nuove forme di aggregazioni, non piú «centrate» sui castelli: siamo alle soglie della società dei Comuni e delle città. La concezione gregoriana della Chiesa, espressa in particolare nel suo Dictatus Papae (vedi box alle pp. 2829), segue una specifica e chiara tradizione culturalereligiosa, il cui inizio si identifica con un episodio ben

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preciso nella storia antica: la rinuncia, nel 378 d.C., da parte dell’imperatore Graziano al titolo di pontefice massimo, di cui si fregiavano gli imperatori da Augusto in poi. Dopo l’editto di Tessalonica (380 d.C.), che riconosceva il cristianesimo come religione ufficiale dell’impero, quel titolo passò al vescovo di Roma, insieme alla facoltà legislativa consistente nei decretalia iniziati nel V secolo d.C dal vescovo Siricio.

Una distinzione fondamentale

Il vescovo di Roma fu, dunque, chiamato pontifex maximus, assumendo uno dei titoli propri dell’imperatore, che era appunto imperator (capo militare), titolare della tribunicia potestas (potestà tribunizia) e pontifex maximus (massima autorità religiosa). Da quel momento la Chiesa non attese molto a chiarire i suoi rapporti con l’impero; scrive papa Gelasio (494 d.C) all’imperatore di Costantinopoli, Anastasio I: «Due sono, Augusto imperatore, le autorità che reggono principalmente il mondo: la sacra autorità dei vescovi e la potestà regale. Delle quali tanto piú grave è la responsabilità dei sacerdoti in quanto devono rendere conto a Dio di tutti gli uomini, re compresi...». In questa epistola emerge il fondamentale distinguo gennaio

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante Enrico IV in trono (a sinistra) e papa Gregorio VII, dapprima in preghiera (al centro) e poi cacciato da un soldato dell’imperatore, dalla Chronica sive Historia de duabus civitatibus (Cronaca

delle due città) di Ottone di Frisinga. Metà del XII sec. Jena, Universitätsbibliothek. In questa pagina la lettera scritta dall’imperatore Enrico IV a Gregorio VII per comunicargli la sua deposizione. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliotek.

tra auctoritas e potestas: la prima a carattere legislativo – e quindi superiore – appartiene alla Chiesa, la seconda – potere esecutivo, quindi inferiore – all’impero. Secoli dopo, nel 1080, sulla falsariga di Gelasio, Gregorio VII, scrivendo a Guglielmo il Conquistatore, gli ricordò che l’umanità, per volontà di Dio, è guidata da due istituzioni superiori alle altre, quella pontificia e quella regia, il Sole e la Luna, ma la prima è di gran lunga la piú importante, visto che dovrà rendere conto dell’operato degli uomini di fronte al tribunale di Dio.

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Oltre alle ingerenze laiche, Gregorio VII dovette però guardarsi anche dai «nemici» interni alla Chiesa, vale a dire quell’episcopalismo metropolitano, fortemente localizzato e per niente incline a genuflettersi al primato del vescovo di Roma quale unico successore di Pietro. Il papa di origini sovanesi non arretrò di un passo e trasferí il concetto imperiale di Roma caput mundi in Roma caput ecclesiae: il vescovato romano – e quindi il suo rappresentante – è sede apostolica e i suoi poteri vanno oltre qualsiasi altro potere presente sulla Terra, perché derivanti direttamente da Dio. Gregorio VII fondava la sua visione religiosa sui principi di autorità e giustizia divina, una visione, tuttavia, che trascura molti aspetti che piú tardi saranno cari a Francesco di Assisi – amore, povertà, servizio –, ma pur sempre una visione figlia di una tradizione e di quel tempo, pervenuta all’idea di un onnipotente che è espressione di un Dio solenne, grande, al quale tutti devono inchinarsi. Enrico IV si oppose, e fu Canossa (vedi box a p. 31). A nostro avviso, però, a quelle vicende non si giunse perché Gregorio VII si era proposto come alfiere di una

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protagonisti ildebrando da sovana

rivoluzione che lo vedeva avverso al potere feudale. Gregorio VII fu un papa «conservatore», che si mosse, come già detto, nel solco di una tradizione i cui tratti erano stati definiti secoli prima e ancor piú strutturati tra il IX e il X secolo, quando i legami tra la Chiesa e il potere civile avevano raggiunto un’osmosi mai vista prima.

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A partire da Carlo Magno, il sovrano iniziò a essere considerato come il confratello del papa, entrambi vicari di Cristo in Terra, tanto che, sulla scia di questa ben consolidata tradizione, ai tempi di Gregorio VII, Pier Damiani – il cardinale che fu esponente di spicco del movimento riformista – scriveva: «Cristo aveva in sé in magennaio

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Roma, basilica dei Ss. Quattro Coronati, oratorio di S. Silvestro. Particolare del ciclo della Leggenda di Costantino e San Silvestro raffigurante l’imperatore Costantino che offre al papa la tiara imperiale, simbolo del potere temporale. 1246. Nella realtà, ogni nuovo pontefice riceveva «la corona che si chiama regno» dal primo dei cardinali diaconi, in S. Pietro, dopo essere stato ufficialmente consacrato e avere celebrato la Messa.

per andare contro i nemici della Chiesa; il sacerdote attende agli esercizi di pietà per rendere Dio favorevole al re e al popolo (...) il regno e il sacerdozio, devono essere uniti per divino mistero, e le due sublimi persone che li incarnano devono essere congiunte da una tale reciproca unanimità che, stretti da un mutuo amore, il re si trovi nel romano pontefice e il romano pontefice nel re» (Pier Damiani in Dag Tessore, Gregorio VII: il monaco, l’uomo politico il santo, Città Nuova, 2003; pp. 70-71). La tradizione era dunque questa: chiara, segnata; e Gregorio VII all’inizio si mosse in questo solco, mostrandosi paterno e conciliante con un Enrico IV, uomo dai costumi tutt’altro che irreprensibili. Tuttavia, anche Enrico IV agiva sulle basi di una tradizione imperiale: senza andare troppo a ritroso, a partire da Ottone I e fino a Enrico III, erano stati gli imperatori a cercare di salvaguardare la dignità della Chiesa – non senza tutelare i propri interessi – influenzando le nomine pontificie e, addirittura, facendo deporre papi indegni. Come si poteva quindi conciliare questa tradizione con i principi del Dictatus Papae? Entrambi i confratelli trascesero, andando oltre il solco della tradizione: trascese Enrico IV, che continuò a disobbedire alla Chiesa circa la rinunzia alle investiture laiche dei vescovi-conti e teorizzando la superiorità del potere regio su quello della Chiesa, sulla base del passo evangelico delle «due spade» (Luca 25, 35-38). E trascese Gregorio VII, quando, con il Dictatus Papae – 27 brevi proposizioni scritte nel 1075 – teorizzò la superiorità della Chiesa come istituzione divina sul Regnum, attribuendo al pontefice, fra le molte facoltà, il potere di deporre gli imperatori e, come se non bastasse, affermando che «la sua sentenza non deve essere messa in discussione da nessuno, ma egli soltanto può mettere in discussione le sentenze di tutti» (vedi box alle pp. 28-29).

L’apice della crisi

niera eminente e indissolubilmente congiunte la dignità regale e quella sacerdotale, di modo che, nella guida del popolo cristiano, queste due dignità devono essere unite e darsi reciproco aiuto. Ciascuna di esse ha la sua ragione d’essere, rispetto all’altra. Il sacerdozio è protetto dal regno e il regno è consolidato per mezzo della santità del ministero sacerdotale. Il re è armato di spada

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A nostro avviso, insomma, nulla separa la presa di posizione di Gregorio VII, che agisce nell’XI secolo, da quella assunta da papa Gelasio nel 494, quando scrisse all’imperatore di Costantinopoli, Anastasio, la già citata lettera. Quell’idea, formatasi nel 378 d.C. con il passaggio della carica di pontefice massimo dall’imperatore al vescovo di Roma, era destinata ad andare in crisi: e l’apice di questa crisi si ebbe nell’XI secolo, con Gregorio VII, Enrico IV e Matilde di Canossa. (segue a p. 41)

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protagonisti ildebrando da sovana

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EMILIA-ROMAGNA Carrara Massa Viareggio

Pistoia Lucca

MAR

Pisa

Prato FIRENZE

LIGURE

Arezzo Siena

Arcipelago

U M B RIA

Grosseto Sovana

To s c a n o MAR TIRRENO

L A Z IO

Due immagini di Sovana (Grosseto), la cittadina che diede i natali a Ildebrando in una data a oggi imprecisata, ma collocabile fra il 1025 e il 1035. A sinistra, i resti della Rocca Aldobrandesca (XI-XVI sec.); in basso, uno scorcio della piazza del Pretorio, con, al centro della foto il Palazzo dell’Archivio (o Palazzo Comunale).

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protagonisti ildebrando da sovana la cattedrale di sovana

Un armonioso incontro fra romanico e gotico Isolata rispetto alla piattaforma tufacea su cui sorge l’abitato di Sovana, svetta, da ponente, la Cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo, un edificio religioso architettonicamente rilevante per dimensioni, antichità e apparato ornamentale e scultoreo, nel quale convivono elementi romanici e gotici. Di fronte alla chiesa, la terrazza panoramica accoglie il visitatore, offrendo un’ampia vista sul paesaggio collinare toscano, interrotto solo dai picchi coniformi di Monte Labbro (1250 m) e Monte Amiata (1750 m). L’attuale edificio risale al XII secolo e ingloba i resti di una

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preesistente struttura del IX-XI secolo, verosimilmente ancora visibili al tempo di papa Gregorio VII come sembra attestare l’iscrizione lapidea apposta nella lunetta del portale. All’XI secolo possiamo assegnare con certezza la cripta, l’abside e la cupola; al XII secolo i pilastri polistili e i loro capitelli; al XII e XIV secolo i muri laterali, rafforzati da speroni massicci, la copertura a volta in sostituzione di quella a capriate lignee e l’addossamento del Palazzo Episcopale. Quest’ultimo costituisce un fabbricato orientato secondo i

canoni liturgici del tempo e per la sua edificazione furono verosimilmente obliterati il portico e l’originario ingresso della Chiesa alla quale, oggi, si accede dal lato lungo meridionale. La preziosa trama decorativa del portale affascina anche il visitatore piú distratto, in quanto reimpiega le pregevoli lastre marmoree superstiti della struttura originaria, fornendo al contempo un ricco campionario impregnato di romanico simbolismo. Attraverso il portale della Chiesa, infatti, aveva seguito il passaggio dallo spazio esterno e mondano a quello interno e

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Nella pagina accanto la facciata della Cattedrale di Sovana. L’attuale edificio risale al XII sec., ma insiste su una chiesa piú antica, databile tra il IX e l’XI sec. A destra la figura di un cavaliere che brandisce la spada scolpita nello stipite destro del portale della Cattedrale.

sacro, aspetto che non doveva essere sconosciuto agli architetti dell’epoca se destinarono a questa «soglia» un’iconografia ornamentale tanto preziosa. Il portale è serrato da due stipiti nel quale trovano alloggio lastre marmoree scolpite (rispettivamente cinque in quello di sinistra e quattro in quello di destra); a essi addossate si trovano due colonnine scanalate – a spirale la destra e a treccia la sinistra –, sormontate da due protomi leonine a fauci spalancate in pietra vulcanica, protettrici e guardiane dell’ingresso. Il leone di sinistra stringe un ariete tra le zampe, l’altro poggia su foglie d’acanto. La decorazione scultorea dello stipite di sinistra mostra, dal basso, una sirena bicaudata con volto reso a tratti essenziali, un aspetto distintivo nell’iconografia scultorea romanica. Al di sopra della sirena si osserva una croce ornata da quattro spirali e sormontata da un volto umano grottesco, rotondo e sogghignante. Due eleganti pavoni, ritratti di profilo e divisi dall’albero della vita in frutto, sono il soggetto della lastra sovrastante la precedente. Tra questa e la protome leonina è posta una nuova piastra marmorea, con una rosa stante al centro di quello che sembra essere un sole radiante. Il simbolismo floreale prosegue nei numerosi medaglioni che decorano le due colonnine piú interne del portale. Nello stipite di destra è raffigurata una serie di cerchi sovrapposti al di sotto dei quali, nella parte inferiore, si staglia la

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figura di un singolare cavaliere col braccio destro alzato a brandire una spada e l’altro abbassato e protetto da uno scudo ogivale; entrambi gli elementi richiamano alla mente gli epici racconti appartenuti al ciclo cavalleresco che tanta fortuna ebbe in Italia e Oltralpe in età medievale.

In alto, lo spazio semicircolare della lunetta risulta composto di pezzi eterogenei, disposti in tre file di dodici lastre complessive, forse appartenenti ai plutei dell’edificio originario anteriore al Mille. In ciascuna di esse sono presenti motivi essenziali e stilizzati in semplici linee spiraliformi,

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protagonisti ildebrando da sovana

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

curve e ondulate. Nella parte superiore il motivo è circolare con rosette all’interno di festoni rotondi. Nella fila inferiore si riconosce il cosiddetto «nodo celtico o infinito», ovvero un intreccio di linee che si intersecano a meandro. Nell’arco è una figura umana, probabilmente simbolo animistico, ovvero anima che s’invola verso il Regno dei Cieli. La facciata esterna dell’abside è divisa in cinque parti da lesene marmoree. Numerosi rilievi scultorei decorano, come intarsi biancheggianti, le pareti tufacee di questa parte dell’edificio. Al centro della parete si aprono due strette finestre allungate: la piú lunga guarda all’interno verso l’altare maggiore, l’altra dà luce alla cripta. Quest’ultima, forse risalente all’VIII secolo, si configura come ambiente raccolto, di piccole

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dimensioni, divisa in cinque navatelle da sei rozze colonne di travertino a sostegno della bassa volta. Su una parete laterale è appoggiata un’urna contenente le reliquie di san Mamiliano, patrono di Sovana, che il Vescovo Pio De Santi fece trasferire dalla vicina chiesa di S. Maria Maggiore, visto il pessimo stato di conservazione della chiesa. Formelle e pietre scolpite provenienti dall’edificio antico sono murate in varie zone dell’interno della chiesa (630 mq circa) che si presenta ripartito in tre navate da imponenti file di colonne a fascio bicrome (bianco-nero). La navata centrale è di grandezza quasi doppia rispetto alle due laterali. In quella di destra è collocata l’urna che conteneva le reliquie di san Mamiliano, prima che venissero trasportate nella cripta. L’arca

funeraria, originariamente collocata nella chiesa è in travertino e reca scolpita, su un basamento a forma di sarcofago, la figura giacente del santo. I capitelli che sormontano le colonne sono intagliati a motivi vegetali e arricchiti da figurazioni simboliche umane e animali che richiamano, nello stile, l’intervento di maestranze provenienti in parte dall’area senese dell’abbazia benedettina (pilastri di sinistra), in parte dell’Alto Lazio (modi lombardo-laziali nel colonnato di destra). I migliori caratteri delle due componenti stilistiche, benedettina e lombardolaziale, confluiscono nella ragguardevole decorazione dei rilievi figurati del capitello del secondo pilastro. La bicromia, simbolica rappresentazione della via gradinata di accesso al Paradiso, conferisce una nota di autentica vivacità al complesso. gennaio

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Traslazione straordinaria Il 1020 è una delle date proposte per la nascita di Ildebrando da Sovana, divenuto papa con il nome di Gregorio VII. Il 2020 ha dunque potuto rappresentare il millenario dei natali del grande pontefice e tra le numerose iniziative celebrative promosse dalla diocesi di Pitigliano, Sovana, Orbetello vi è stata la traslazione della salma di Ildebrando dalla Cattedrale di Salerno – città in cui egli morí il 25 maggio 1085 – nella Cattedrale di Sovana. Qui, pur con le limitazioni imposte dai provvedimenti adottati per contenere la diffusione del COVID-19, resterà esposta al culto dei fedeli fino al prossimo 22 febbraio.

Il ciborio in bronzo dorato del XV secolo e l’altare settecentesco in marmo sono stati sostituiti oggi da un sobrio altare in pietra. Nell’abside sopravvivono i resti affrescati, assai deteriorati, di Santa Margherita egiziaca. Nel vano di passaggio tra la navata destra e quella mediana si colloca il fonte battesimale del 1434 a coppa ottagona di travertino impreziosito di simboli sacri. La Cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo custodiva in origine la pala di Guidoccio Cozzarelli, raffigurante la Madonna col Bambino, angeli e Santi (1494), oggi conservata nel Palazzo Orsini a Pitigliano; ancora in loco è invece la tela di Domenico Manenti, della scuola di Caravaggio, raffigurante il Martirio di San Pietro del 1671 e la Conversione di San Paolo. Info www.palazzo-orsini-pitigliano.it (D. R.)

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Nella pagina accanto l’acquasantiera di epoca rinascimentale collocata in una delle navate laterali della Cattedrale sovanese. In alto la cripta della Cattedrale, forse risalente all’VIII sec., divisa in cinque navatelle da sei colonne di travertino che sorreggono la volta.

Ciascuno fece la sua parte e, nell’alternarsi delle vicende di questo scontro epocale, emerge la sofferenza di questo grande religioso, Ildebrando, costretto a chiamare i Normanni di Roberto il Guiscardo per essere difeso dall’imperatore e dall’antipapa; e al quale non fu risparmiato il dolore di vedere mezza Roma distrutta dai suoi «liberatori», che lo condussero a Salerno, dove morí, in esilio, il 25 maggio del 1085. Sul letto di morte concesse l’assoluzione a tutti, salvo che a Enrico IV e all’antipapa Guiberto. Da allora, il suo corpo riposa all’interno di un’urna di argento e cristallo nella Cattedrale di Salerno. Nel 1106, abbandonato anche dai figli, sconfitto su tutti i fronti, muore Enrico IV. Nel 1115 è la volta di Matilde, che alla morte era vicaria imperiale e viceregina d’Italia per il giovane imperatore Enrico V. Nel tempo, il nome della grancontessa è divenuto leggendario e la sua profonda religiosità l’aveva portata a preparare le strade per i pellegrini verso Roma e a far costruire splendide chiese. Nel testamento lasciò parte dei suoi beni alla Chiesa (aprendo nuovi contrasti con l’impero), la quale, riconoscendole il ruolo giocato in quel delicato periodo, l’accolse in seguito nella monumentale tomba costruita da Gian Lorenzo Bernini nella basilica di S. Pietro a Roma. (A. C.)

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bevagna i mestieri del medioevo Un «amanuense» al lavoro nello scriptorium ricostruito dalla Gaita San Pietro di Bevagna.

gaita san pietro

LO SCRIPTORIUM

Scripta manent

di Isabelle Chabot e Paolo Pirillo

Il nostro viaggio nel Medioevo bevanate tocca questa volta la Gaita San Pietro, tra le cui attività spicca la produzione di codici manoscritti e miniati. Realizzata all’interno di uno scriptorium fedelmente ricostruito, tanto da essere stato scelto come ambientazione di film e serie televisive. E i cui artefici sono stati richiesti come consulenti perfino dalla prestigiosa biblioteca del convento francescano di Assisi 44


«P

e’ favore, prendeme lo scalandrino che sta sott’ar fanfano!». E tu fai finta di capire con un sorriso di convenienza, anche se un poco perplesso, e capisci di essere in un pianeta diverso da quello da cui provieni: sei nella Gaita San Pietro. Abbastanza presto scopri che si tratta di un microcosmo con una forte identità, parte di un pianeta piú ampio chiamato Bevagna. I Sanpietrini – come vogliono essere chiamati con fierezza gli appartenenti alla gaita – non fanno fatica a integrarti e cosí, nel giro di poche ore, metti da parte lo sguar-

do distaccato dell’antropologo della domenica: non sei nella foresta amazzonica o in un villaggio africano dove si parla Swahili, sei nel cuore della gaita sotto l’ombra del fanfano. Sí, perché, indipendentemente da quello che ti dice il vocabolario che hai consultato di soppiatto sul cellulare – dove la voce fanfano rinvia a un pesce (Naucrates ductor) o a un aggettivo (chiacchierone) –, il fanfano è un albero che fa bella mostra di sé nella centrale piazza San Filippo. Un bagolaro (Celtis australis), il cui valore per il popolo della gaita ti fa venire in mente l’Irminsul

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bevagna i mestieri del medioevo

venerato dai Sassoni e distrutto da Carlo Magno, l’accanito nemico dei riti pagani. Ma quello dell’età carolingia è un Medioevo assai lontano dagli interessi degli abitanti della gaita. Certo anche i Sanpietrini, come accadeva ancora alla fine dell’età medievale, quando tante comunità si riunivano in consiglio sotto l’albero antistante la loro chiesa, si ritrovano nella bella stagione sotto al fanfano, intenti a progettare mestieri, strutture, attrezzi, sceneggiature, ideare scene di un mondo lontano. Ognuno ricopre ruoli che forse mai nessuno gli ha assegnato e che si è ritagliato, spesso fin da giovane, se non da piccolo, grazie ai propri interessi, competenze, capacità: chi fa ricerca bibliogra-

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fica e iconografica, chi pensa ai costumi e li prepara, chi progetta le strutture e le realizza, in un continuo confronto che smussa gli attriti e le tensioni tipici della vita di ogni comunità.

Mai sedersi sugli allori

Tra l’ombra del fanfano e la vicina taverna – il «covo» della gaita – anno dopo anno, incontro dopo incontro, hanno preso forma le iniziative che, fino a oggi, sono state presentate ai giurati delle gare e al pubblico che, nel giugno di ogni anno, assiste sempre piú numeroso alle manifestazioni del Mercato delle Gaite. Mentre li senti discutere, c’è subito un primo elemento che ti colpisce: l’assenza di autocompiacimento e la costante in-

soddisfazione dei Sanpietrini nei confronti delle loro realizzazioni. Proprio da qui ha origine il loro continuo sforzo di crescita, la ricerca tesa a riprodurre fedelmente una realtà lontana molti secoli: quella che, anche per lo storico di mestiere, è un’eterna chimera sperata e costantemente inseguita anche se con la coscienza che si tratta di un’illusione. Tutti i mestieri ideati e proposti dalla San Pietro si possono cosí considerare come la traduzione materiale di quanto offrono le testimonianze medievali come l’iconografia, la documentazione coeva e la produzione storiografica. In altre parole, i risultati di un costante processo di sperimentazione che, nel corso degli anni, ha finito per gennaio

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Sulle due pagine lo spazio esterno allo scriptorium, destinato al trattamento preparatorio delle pelli. A destra, dall’alto la scarnitura, la lisciatura con la pomice e un altro momento delle fasi di lavorazione preliminari.

dare vita a luoghi, contesti, strumenti di lavoro animati dalla presenza di maestranze e mano d’opera che ne costituiscono la parte attiva, viva ed esemplificativa, mai semplici comparse. In questo clima vivace, sono dunque nate quelle che la gaita considera le perle della propria collana: lo scriptorium, la tintoria e la cereria-spezieria, dimostratesi i cavalli di battaglia sanpietrini protagonisti di molte gare. Descrivere nella ricchezza dei dettagli questi mestieri non è operazione agevole, proprio per la loro accurata complessitĂ , ma vale la pena tentare, cercando, quando possibile, di mostrare in trasparenza il lavoro che resta a monte e che, ovviamente, i visitatori non vedono. Lo scripto-

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bevagna i mestieri del medioevo rium prima evocato è forse quello che meglio si presta a una visita che permette di seguire, nella sua completezza, un intero ciclo di lavorazione. E da questo iniziamo. I lettori di «Medioevo» sanno bene cos’era uno scriptorium medievale e, del resto, abbiamo tutti ben presente l’epicentro del romanzo Il nome della rosa. Uno spazio silenzioso, destinato alla riproduzione manoscritta di opere della natura piú disparata, il cui modello aveva la sua lontana origine in grandi monasteri, alcuni dei quali erano divenuti veri e propri riferimenti culturali europei, come Montecassino, Bobbio, Lindisfarne o Cîteaux (e del quale, proprio in questo numero, si parla diffusamente nel Dossier alle pp. 75-99). Quello ricostruito dalla gaita fa riferimento allo scriptorium allestito nel convento domenicano fondato a Bevagna dal beato Giacomo Bianconi nella seconda metà del Duecento, come si legge nella sua agiografia. Qui è possibile seguire, in dettaglio, tutte le fasi di lavorazione che dalla pelle animale portavano a un codice rilegato e corredato da miniature. Nella parte esterna ai locali dello scriptorium è stato allestito lo spazio dedicato al trattamento preparatorio delle pelli di pecora, capra e vitello immerse in vasche di calce spenta mista ad acqua (calcinai). Dopo un accurato lavaggio, si procedeva poi alla depilazione con lame non taglienti per passare alla messa in tensione della pelle sul telaio: l’imbrecciatura, il cui nome deriva dai piccoli sassi levigati o brecce che fungevano da ancoraggio per i lacci di trazione. A questo punto, con mezzelune affilate, si passava alla scarnitura: l’ablazione del carniccio. Le pelli cosí preparate erano lasciate essiccare all’esterno, prima di essere introdotte nei locali dello scriptorium, dove altre mani provvedevano, con la pomice,

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a rendere liscio quello che ormai era definibile come una pergamena. Il foglio veniva poi forato e rigato a secco per agevolare l’allineamento della scrittura.

Quel verde inaspettato...

Se tutto questo è molto facile da descrivere, lo è meno quando si tratta di passare dalla teoria alla pratica e alcuni Sanpietrini si ricordano ancora del primo scoraggiante esperimento delle fasi descritte sopra, quando la pelle estratta dalla calce rivelò un inquietante colore verde, dovuto a un errato dosaggio dei componenti versati nel calcinaio. Ma proprio qui, accanto a quell’autoironia che costituisce uno dei tratti dell’identità sanpietrina, interviene l’inventiva che potrebbe essere riassunta da

uno dei motti del Corpo dei Marines: Improvise, Adapt, Overcome («Improvvisa, adatta, supera»). E dunque, come ottenere un buona pergamena su cui scrivere? Ecco che la non facile ricerca di un pergamenaio, poi trovato a Verona, rivelò alcuni segreti del mestiere per evitare successivi errori. Poi l’improvvisazione che porta a conservare sotto sale le pelli degli agnelli del pranzo pasquale per utilizzarle nelle gare di giugno, oppure a raccogliere nei boschi dell’Appennino le noci di galla per l’inchiostro o le erbe destinate alla spezieria. Entriamo adesso nello scriptorium camminando in punta di piedi, perché nello spazio dove sono collocati i leggii e l’intero mobilio ligneo, regnava l’umanità silenziosa dei Domenicani

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Due immagini che documentano l’attento e prezioso lavoro del miniatore, al quale era demandata una delle fasi piú importanti nella realizzazione dei codici.

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bevagna i mestieri del medioevo

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

La foratura e la rigatura dei fogli: quest’ultimo è un passaggio essenziale per agevolare il lavoro di scrittura.

intenti alle loro varie mansioni: copisti, calligrafi, correttori, parti integranti ed essenziali di un unico e articolato processo. Dai copisti le pagine venivano passate ai miniatori per essere illustrate, ai rubricatori che avevano il compito di scrivere le lettere in rosso, agli alluminatori che applicavano alla pagina una sottilissima lamina di oro, facendola aderire alla pergamena con il loro alito e con un brunitore. Infine, i fascicoli scritti e decorati passavano alla rilegatura, dando vita a un codice protetto dai due piatti anteriore e posteriore e dal dorso. La ricerca del dettaglio fedele all’originale ha posto, fin dall’inizio, un altro dilemma e non di poco conto, trattandosi di uno scriptorium: il problema della scrittura.

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Perché il visitatore vede effettivamente scrivere i frati che operano nel laboratorio utilizzando grafie della fine del Duecento e degli inizi del secolo successivo, ma diverse: dalla corsiva, alla libraria ed è inutile dire che non si impara in un solo giorno a scrivere come un religioso del primo Trecento…

Le noci per il nero

Ognuna di queste operazioni ha richiesto dunque uno sforzo di ricerca documentaria e la perizia tecnica di ogni personaggio che anima la scena. L’inchiostro nero viene realizzato con la macerazione delle noci di galla, poi, dal momento che nello scriptorium domenicano della gaita non si osservavano le limitazioni di san Bernardo sulla scrittura monocroma e priva di decorazioni, era necessario procedere alla preparazione dei colori utilizzando pigmenti minerali, vegetali e di origine animale, dando vita a un lavoro ben testimo-

niato dalla presenza nel laboratorio di molti mortai. Ovviamente, tutto viene realizzato traducendo in realtà tangibile una serie di conoscenze acquisite da letture mirate e da una non esigua iconografia che è stata alla base della realizzazione del materiale scrittorio: penne d’oca, pennelli, temperini, righelli, punteruoli. Il complesso processo di lavorazione di uno scriptorium è cosí presentato dall’inizio alla fine. La precisione e la qualità della ricostruzione del centro scrittorio conventuale bevanate e la sua aderenza alla realtà storica è stata apprezzata dagli scenografi della serie televisiva tratta dal romanzo di Umberto Eco (2019), che hanno preso a prestito le strutture dello scriptorium per allestire alcune scene. Inoltre, la biblioteca del convento francescano di Assisi ha chiesto alla Gaita San Pietro l’allestimento di una parte della biblioteca con uno scrittoio, un telaio per la pergamena e dei colori. gennaio

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LA TINTORIA

TUTTI I COLORI DI MASTRO MARTINO

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ell’atelier della tintoria sono rappresentate tutte le varie fasi della tintura di filati e tessuti: sia la preparazione della materia con coloranti e mordenti, sia le procedure per la colorazione, sia l’asciugatura del prodotto finito. In realtà, la possibilità di accedere a testimonianze dei secoli XIII-XIV relative alla descrizione di una bottega di tintore non sono poche. Cosí la letteratura specifica è stata setacciata a dovere e integrata con fonti iconografiche, statuti dell’Arte dei Tintori e ambientazioni della novellistica tre-quattrocentesca. Questo ha permesso di realizzare una tintoria in un unico locale, fornito di due soppalchi: uno per la

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preparazione dei colori e dei mordenti e l’altro per alloggiare i garzoni e gli apprendisti.

Un processo articolato

Come per lo scriptorium, anche l’attività della tintoria è divisa tra l’esterno e l’edificio stesso che ospita il laboratorio. Nell’area antistante si procedeva al lavaggio dei tessuti (canapa, cotone, lino, lana e seta), alla sbiancatura del panno con terra da sbianca e acqua bollente e al lavaggio con sapone, urina fermentata e liscivia, per poi asciugare il tutto con fumi di zolfo per esaltarne la brillantezza. In una fase successiva, il panno veniva trattato con allume e gromma (il tartaro delle botti vi-

narie) per agevolare il legame tra le fibre e i coloranti, nel processo detto di mordenzatura. Sempre all’esterno, si macinavano le foglie di guado (Isatis tinctoria), riducendole in poltiglia modellata in pallottole poi essiccate al sole. Nel caso della tintoria sanpietrina, la lavorazione prosegue nel primo vano interno del laboratorio, dove il guado essiccato viene ridotto in fruntumi, messo a macerare in fosse con urina fermentata e vino rosso per poi essere filtrato nei colatoi. Da qui si accede al cuore della tintoria dove vengono messe in opera le tre tipologie principali del mestiere: la tintura in fiocco di lana con il guado con la tecnica detta al tino; la tintura a bagno unico di matasse di lana con reseda, la tintura a mordente con robbia. Qui l’attenzione è attratta dalle La tintura a mordente dei tessuti di lino con la robbia (Rubia tinctorum).

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Una veduta d’insieme della tintoria ricostruita dalla Gaita San Pietro.

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caldaie interrate e rivestite di materiale da forno destinate ai bagni di tintura sotto alle quali è acceso il fuoco. Già questo, insieme al calore, ai vapori e ai miasmi, rende alla perfezione l’atmosfera di un girone infernale, popolato dai lavoranti sporchi e madidi di sudore, ed è quanto basta per capire

perché il laboratorio del tintore veniva anche chiamato infectorium, da cui sarebbe poi derivato il termine di infezione. In questo scenario dantesco vengono tinti i panni sciogliendo i coloranti e i solventi nell’acqua calda e immergendovi le fibre in fiocco o i panni già tessuti fino alla gennaio

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da vasca è riservata alla tintura a mordente dei tessuti di lino con la robbia (Rubia tinctorum), fibre che richiedono prima un bagno in acqua mista a un mordente portata a ebollizione e raffreddata e infine l’immersione nel colore.

Una reazione «magica»

loro colorazione. Una prima asciugatura viene fatta direttamente sopra i bagni ripetendo poi con il mordente l’operazione di fissaggio del colore iniziata all’esterno. Anche per questo mestiere, le cose non sono semplici e lineari proprio per la volontà di illustrare i differenti procedimenti tin-

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tori. Questo spiega la presenza delle tre vasche: una adibita alla tintura diretta con l’erba guada (Reseda luteola), dove le matasse di lana vengono immerse in un bagno di colore a 50-60°, portato fino all’ebollizione che, per la lana, dura almeno un’ora. A differenza della prima, la secon-

La terza vasca è utilizzata per la tintura cosiddetta «al tino», dove vengono trattati i fiocchi di lana inseriti in sacche e immersi in una caldaia d’acqua bollente, poi estratti con una fune per farli sgocciolare. Segue l’immersione nella tintura dove è stato preparato del guado ad alta temperatura fermentato con urina. Malgrado gli odori, questa è la tecnica decisamente piú spettacolare, poiché il guado fissa il colore alla fibra grazie a una reazione chimica che si manifesta però dopo pochi istanti di ossidazione all’aria quando il fiocco sollevato dal bagno assume un colore azzurro intenso. Il cambiamento di colore passa dal bianco al giallo e dal verde per arrivare al blu e lo fa in pochi momenti che, per il timore di un fallimento, a tutti i figuranti sembrano ore, mentre soltanto il tintore mastro Pietro, per ragioni sceniche, è autorizzato a manifestare la sua apprensione. Il prodotto semilavorato passa poi alla scamattatura, viene cioè colpito con bacchette lignee per allargare i fiocchi prima di subire un lavaggio conclusivo. Non sfugge al lettore che l’allestimento di un mestiere cosí complesso presenta notevoli complicazioni perché, oltre alla realizzazione delle strutture interne della tintoria, si sono rese necessarie conoscenze specifiche sull’ars tinctoria medievale: sulle sostanze usate e sulla loro preparazione per i bagni di colore. Cosí, un’équipe di Sanpietrini si è assunta il non agevole compito di indagare su questi indispensabili aspetti legati al mestiere, lanciandosi in ricerche

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bevagna i mestieri del medioevo

Il momento culminante dello spettacolare procedimento che permette di ottenere panni di colore azzurro.

storico-documentarie indirizzate sia alle modalità, alle tecniche e alla strumentazione delle tintorie medievali, sia alle scelte e all’impiego delle sostanze naturali necessarie alla tintura. Ed è cosí che tintori trecenteschi come il senese Landoccio di Cecco d’Orso o il fiorentino Giunta di Nardo Rucellai si sono trasformati in ignari consulenti della gaita. Parallelamente, si è reso necessario il reperimento delle materie prime per poter organizzare il lavoro dei tintori in maniera filologicamente corretta, sapendo che la scelta del colore era legata a quella

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della pianta: con la tintura della lana in un bagno unico con la reseda luteola si otteneva un giallo-biondo; con la robbia il rosso e con il guado il blu, ma il passo successivo consisteva nel procurarseli.

Il rispetto dell’ambiente

Ed ecco dunque arrivare piante di guado da un istituto professionale di Sansepolcro e semi dalla campagna vicina a Urbino e cosí per tutte le altre piante che è stato essenziale imparare a conoscere e a utilizzare nei processi tintori. L’oricello, il kermes, la robbia, il verzino, lo zafferano, la galla, l’indaco e il guado, come si è visto, venivano ridotti in frammenti e messi a macerare in vasche di urina fermen-

tata: per questo, in età medievale e anche nei secoli successivi, i tintori erano obbligati al rispetto di alcune norme di natura ambientale sia per il forte inquinamento dei corsi d’acqua, sia per il fetore esalato da alcune componenti della lavorazione. Tra le sostanze utilizzate come mordenti si faceva ricorso alle noci di galla impiegate nello scriptorium per ottenere l’inchiostro mentre, in ambito tintorio, l’alta percentuale di tannino le rendeva un ottimo fissante insieme all’allume o alla cenere (ranno). La perfetta tintura della lana dà sollievo all’apprensione di mastro Martino e dei suoi lavoranti e ci fa uscire dalla tintoria per andare a visitare un altro mestiere. gennaio

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LA SPEZIERIA

CERA E SPEZIE D’ORIENTE

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n discorso a parte merita la spezieria che è forse l’esempio piú evidente dei percorsi concettuali che muovono le sperimentazioni dei Sanpietrini. La spezieria era uno dei punti di riferimento di ogni centro di età medievale di una certa importanza demica: qui si preparava e si commerciava una grande varietà di prodotti essenziali alla vita di tutti i giorni, alla cucina, alla salute. La spezieria sanpietrina è nata, in realtà, da un’altra attività precedente: la cereria, la «fabbrica» di candele, da cui è dunque opportuno iniziare. Il fulcro della cereria è un fornello alimentato a legna costruito con mattoni refrattari sul quale è adagiata una caldaia in rame, contenente dell’acqua con una seconda caldaia all’interno riempita di cera d’api. Il riscaldamento a

bagnomaria porta alla liquefazione della cera con un processo che può durare anche cinque ore. A fusione avvenuta, la cera liquida viene colata lentamente e piú volte sui cinquantasei stoppini di canapa (bombici) appesi a un cerchio ruotante montato sopra la caldaia. Le colature successive, aderendo a quelle precedenti in via di solidificazione finivano per dare forma alla candela con un processo di circa nove ore. Due candele cosí ottenute e ancora plasmabili venivano poi attorcigliate tra loro per ottenere i cosiddetti doppieri. Le candele di cera erano prodotti destinati agli strati piú alti della società medievale: ne è prova il fatto che facevano parte degli omaggi rituali pretesi dalle autorità regie, religiose e anche comunali. Una larga parte della

popolazione faceva invece ricorso a maleodoranti candele realizzate con grasso animale: motivo principale che a suo tempo aveva fatto abbandonare alla gaita il progetto di fabbricarle, proprio per evitare i rischi di un pernicioso inquinamento olfattivo.

Un tripudio di profumi

La bottega della cereria ha finito per costituire la molla per la realizzazione del contesto di un’attività piú ampia: nel 1994 vedeva appunto la luce la spezieria, uno spazio diviso in piú ambienti. Il primo ospita i mobili e le suppellettili della bottega aperta al pubblico ed è il regno di contenitori e albarelli che contengono essenzialmente sostanze medicinali e spezie. Qui è un tripudio di profumi esotici come il pepe nero, bianco e verde, la cannella, lo zenzero, la noce moscata, lo zafferano, il coriandolo, i chiodi di garofano, il cumino, e poi il sesamo, i semi di papavero, di finocchio, e ancora zucchero, miele, Sacchetti contenenti i preziosi pigmenti con i quali si realizzavano i colori.

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bevagna i mestieri del medioevo L’interno della spezieria della Gaita San Pietro.

fichi secchi, orzo, lino, avena, grano, legumi e, non ultime, le candele di cera. In un vano attiguo sono presenti tre alambicchi (uno in vetro e due di rame), destinati alla produzione di idromele, acqua di rose e di rosmarino che costituivano le componenti-base per moltissimi prodotti medicinali. Nel retrobottega, si trovano tre distillatori di coccio, vetro e rame destinati alla estrazione di acquavite e sostanze alcoliche da fiori, semi, erbe e spezie. In bottega lo speziale doveva avere anche prodotti vegetali, animali e minerali destinati a essere utilizzati per le attività piú diverse: basti pensare all’inchiostro, ai mordenti, ai preziosi pigmenti per i colori. Da cosa – come si dice – nasce cosa e la presenza di uno speziale nelle ricostruzioni del mondo medievale della San Pietro ha poi convinto tutti della necessità di allestire un Hortus conclusus, destinato ad assicurare l’approvvigionamento della bottega. Protette da un solido muro, le piante sono state distribuite per aiuole contraddistinte dalle loro qualità umorali: piante calde (Issopo, Menta, Origano, Salvia, Ruta, Agrimonia, Betonica, ecc.); piante emollienti

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(Altea, Malva, Lino, Paritaria) e poi caldo-umide e piante fredde. Inutile dire che, anche il lento e progressivo lavorío che ha portato alla spezieria odierna è stato accompagnato da correzioni continue. Tutti gli «speziali» sanpietrini ricordano alambicchi rifatti perché quelli precedenti erano stati realizzati con forme di età moderna ispirate dal manuale di Biringuccio, l’errata colorazione degli albarelli, i fagioli «fuori cronologia»: incidenti di percorso poi tradotti in nuovi incentivi per correggere, modificare, migliorare.

Da Bevagna all’Australia

A ben vedere, le soddisfazioni non sono mancate, al di là degli esiti delle gare annuali: cosí, se lo scriptorium, per la sua credibilità, ha fatto bella mostra di sé ne Il nome della rosa televisivo, anche le candele prodotte dalla cereria sono presenti sugli schermi, come nella serie dedicata ai Medici dalla Rai e non desta stupore il fatto che le candele della San Pietro siano in vendita a New York e, nell’altro emisfero, a Malvern East, un sobborgo di Melbourne. Tutto quello che è stato descrit-

to fin qui (e anche molto altro) si è realizzato negli anni sotto l’occhio attento, vigile, critico ma sempre benevolo di Annunziata Bordoni, la vera dea ex machina della gaita. Una ultima constatazione sul carattere dei Sanpietrini che vivono tutte queste esperienze, speranze, tensioni sempre con una grande e contagiosa allegria, e per questo non c’è da stupirsi se i colori della San Pietro – il giallo e il verde – nel Medioevo erano quelli che identificavano i giullari e i pazzi. Restituire appieno i mestieri medievali dei Sanpietrini richiederebbe ancora molto, ma il racconto deve finire qui lasciando qualcosa in sospeso: un espediente come un altro per nutrire la curiosità. Cosí, per scoprire i mestieri medievali, quelli della San Pietro e delle altre gaite, non vi resta che andare a Bevagna. Ma per sapere cos’è uno scalandrino lo dovrete chiedere a un Bevanate e se vi capita di interrogare un Sanpietrino ci sono forti probabilità che, oltre alla risposta, vi possa invitare all’ombra del fanfano a bere un bicchiere di Montefalco, a patto di brindare alla salute della Gaita San Pietro. E il fanfano adesso sapete cos’è. gennaio

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miniatura ottoniana

Miniavano alla

bizantina Alla vigilia dell’anno Mille, Ottone I di Sassonia viene consacrato imperatore e si fa promotore del recupero degli antichi fasti di Roma. Un revival non soltanto ideologico, ma anche estetico, nella cui trama s’intrecciano a doppio filo le tradizioni e i modelli elaborati a Bisanzio. Di questi ultimi si fa ambasciatrice d’eccellenza la principessa Teofano, futura imperatrice del Sacro Romano Impero

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partire dalla metà del IX secolo i numerosi conflitti dinastici conseguenti alla morte di Carlo Magno († 814) contribuirono a minare fortemente l’autorità centrale imperiale, provocando, nel tempo, l’affermarsi di vari principati territoriali in cui l’aristocrazia, localmente radicata, venne lentamente ad assumere poteri sovrani. Già indebolito da continui scontri interni e dalle frequenti incursioni di Normanni e Saraceni, l’impero si avviò, dunque, verso una rapida disgregazione. Il suo precario destino si compí a seguito della deposizione di Carlo III, detto il Grosso (839-888; re dei Franchi orientali dal 876): gravemente malato, il sovrano fu detronizzato nell’887 da un gruppo di nobili provenienti dai ducati di Baviera, Franconia, Alamannia (Svevia) e Sassonia. Il cronachista e abate benedettino Reginone di Prüm (842-915) scrive che, dopo la morte di Carlo, «i regni che erano stati sottomessi al suo dominio si disgregano e si sbriciolano come se fossero stati privati di un legittimo erede. Non dovendo piú aspettare un sovrano designato dalla natura stessa, ognuno di essi cerca di crearsi un re tratto dalle sue viscere provocando cosí grandi disordini e guerre». Carlo il Grosso fu l’ultimo imperatore della dinastia carolingia, nella linea di discendenza legittima, a governare un impero unificato. Il suo successore, Arnolfo di Carinzia (850 circa-899; re dei Franchi orientali dal 887), figlio naturale di Carlomanno († 880),

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Magdeburgo, Cattedrale. Le statue che ritraggono Ottone I e la prima moglie Edgith d’Inghilterra (o, secondo una diversa interpretazione, la Chiesa e Cristo). 1245 circa.

di Francesca Zago


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miniatura ottoniana LIUDOLFINGI E OTTONI Genealogia breve

Liudolfo († 866) duca di Sassonia

Ottone «l’Illustre» († 912) duca di Sassonia

Enrico († 936) re di Germania come Enrico I dal 919

(2) Ottone I (912-973) imp. dal 962 = 1. N.N. 2. Edgith d’Inghilterra († 946) 3. Adelaide di Borgogna (†999)

(2) Liutgarda (931- 953) = Corrado «il Rosso» († 955) duca di Lotaringia

Ottone di Worms († 1004) duca di Carinzia

Enrico († 995 ca.) = Adelaide († 1039/46)

Corrado di Franconia († 1039) re di Germania come Corrado II dal 1024 imp. come Corrado I dal 1027 = Gisela († 1042)

DINASTIA SALICA

In alto particolare del pastorale di Erkanbald, abate di Fulda dal 997 al 1011 e arcivescovo di Magonza dal 1011 al 1020. Hildesheim, Museo Diocesano.

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(3) Ottone II (955-983) coimp. dal 967 imp. dal 972 = Teofano († 991)

Ottone III (980-1002) re di Germania dal 983 imp. dal 996

=

1. Hatheburg 2. Matilde († 968)

(2) Enrico I duca di Baviera († 955) = Giuditta di Baviera († 985)

Enrico II «il Litigioso» duca di Baviera († 995) = Gisella di Borgogna († 1006)

Enrico IV duca di Baviera (973-1024) re di Germania come Enrico II dal 1002 imp. come Enrico I dal 1014 = Cunegonda di Lussemburgo († 1033)

In alto il Privilegium Othonis. 962, Città del Vaticano, Archivio Apostolico Vaticano. A sinistra la corona del Sacro Romano Impero realizzata per l’incoronazione di Ottone I, nel 962 circa. Vienna, Hofburg.


poté infatti governare soltanto su un territorio limitato al regno dei Franchi orientali, a cui piú tardi si aggiunse la Lotaringia. La dinastia carolingia sopravvisse ancora con il figlio di Arnolfo, Ludovico il Fanciullo (893-911, re dei Franchi orientali dal 899), alla cui morte la guida del regno fu contesa fra gli esponenti delle principali famiglie aristocratiche, che potevano contare su solide basi di potere in vasti territori. La dignità regia venne quindi assunta dall’aristocratico laico piú potente, Corrado I di Franconia († 918; re dei Franchi orientali dal 911), della famiglia dei Corradini. Il ruolo universalistico dell’impero riprese vigore solo nella seconda metà del X secolo, grazie alla dinastia sassone. Prima di morire, infatti, Corrado inaspettatamente designò come successore uno dei suoi maggiori oppositori, Enrico (876 circa-936; re di Germania dal 919) duca di Sassonia, appartenente alla dinastia dei Liudolfingi (dal nome del suo capostipite Liudolfo, † 866). La Continuatio Reginonis di Adalberto di Magdeburgo (910-981), che riprende e prosegue la narrazione di Reginone, riporta che, nel 919, Corrado «come sentí che si avvicinava il giorno del suo trapasso, chiamò a sé i suoi fratelli ed i suoi cognati, vale a dire i piú insigni tra i Franchi e disse loro che la sua morte era ormai imminente, ammonendoli paternamente che la scelta

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del suo successore non portasse a divisioni nel regno. Per scongiurare questo rischio ordinò che eleggessero il duca dei Sassoni, Enrico figlio di Ottone (Ottone detto l’Illustre, † 912, n.d.r.), uomo forte e abile, fautore della pace. Convinto che nessuno fosse altrettanto degno di quel compito, affidò ai suoi congiunti la corona, lo scettro e le altre insegne del potere perché le consegnassero ad Enrico, con l’impegno di proteggere e conservare il regno». Con Enrico, nel 919, salí al trono una dinastia, denominata in seguito ottoniana, destinata a guidare il regno di Germania per quasi un secolo e che ripristinò l’autorità imperiale, contrastando efficacemente le incursioni degli Ungari e avviando una politica espansionistica al di là dell’Elba verso i territori slavi.

L’arte al servizio degli Ottoni

Proprio all’epoca della dinastia ottoniana riprende vigore il disegno politico-religioso, già in parte introdotto da Carlo Magno, di una Renovatio imperii Romanorum legata alla volontà di riaffermare il ruolo storico dell’impero romano d’Occidente da contrapporre all’impero bizantino. A partire da Ottone I (912-973; imperatore dal 962) il titolo imperiale tornò ad assumere un ruolo preminente; proprio gli Ottoni, infatti, sempre attenti alla comunicazione simbolica – basata su formule e riti

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miniatura ottoniana A sinistra miniatura raffigurante Ottone II attorniato dalle province dell’impero, opera del Maestro del Registrum Gregorii. Foglio staccato tratto dall’Epistolario di papa Gregorio Magno (590-604) commissionato da Egberto. 983 circa. Chantilly, Musée Condé. Nella pagina accanto missorio in argento dell’imperatore Teodosio I. 388 o 393 circa. Madrid, Real Academia de la Historia.

ripresi dalla tradizione carolingia, bizantina e imperiale romana – rinnovarono il ruolo sacrale del re. In questo senso va interpretato il grande cerimoniale di tradizione carolingia utilizzato da Ottone I all’atto della sua incoronazione a re di Germania, avvenuta nel 936 ad Aquisgrana, nella Cappella Palatina. Il secondo

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libro dei Rerum gestarum Saxonicarum libri tres (967/968) di Widukindo di Corvey († 980), una delle fonti piú ricche per lo studio della dinastia sassone, ci riporta infatti che in quell’occasione Ottone, presentato dall’arcivescovo di Magonza Ildeberto († 937), attraverso l’electio divina, la designazione paterna e il consenso dell’intera gennaio

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comunità dei principes otteneva piena legittimazione come re. L’unzione e la stessa imposizione della corona impartite dai vescovi, venivano anch’esse riconosciute come atti legittimanti il suo titolo. Se dal punto di vista simbolico Ottone I cercava di presentarsi come vero erede di Carlo Magno, sul piano politico agí in modo innovativo cercando di stabilire nuovi legami e di mediare tra i vari gruppi di potere del regno, sia laici che ecclesiastici. Riuscí in questo modo a costruirsi clientele solide, si appoggiò alla rete vescovile per controllare il territorio e intensificò l’alleanza con la Chiesa anche per accrescere l’influenza sugli Slavi non ancora cristianizzati. Dopo aver preso possesso definitivamente del regno italico nel 961, scalzando Berengario II marchese d’Ivrea († 966; re d’Italia dal 950 al 961), l’anno seguente Ottone e la sua terza moglie, Adelaide di Borgogna († 999), vennero incoronati imperatori del Sacro Romano Impero da papa Giovanni XII (937 circa-964; pontefice dal 955), a Roma, nella basilica di S. Pietro. La descrizione dell’evento, fornitaci brevemente da Liutprando di Cremona (920 circa-972) nella sua Historia Ottonis (entro il 964), restituisce, ancora una volta, in tutta la sua forza, la sacralità di una celebrazione fortemente impregnata di valore simbolico. Grazie a questo rito, Ottone assunse il ruolo di vero rappresentante di Dio: ricevendo l’unzione dal papa diveniva anche protettore della cristianità e della chiesa di Roma.

Lettere d’oro sulla porpora

Di lí a poco sarebbe stato emanato anche il Privilegium Othonis, che imponeva di fatto la necessità del consenso imperiale per l’elezione del papa. Questo solenne documento si presenta sotto forma di un diploma di gala, incorniciato da un bordo fogliato a piú colori, ma non presenta alcuna decorazione. Il testo è scritto a lettere d’oro, su una pergamena color porpora nel solco della tradizione imperiale bizantina (vedi foto a p. 61). Quest’ultimo aspetto sembra inaugurare, di fatto, una prassi che perdurò nel corso del periodo ottoniano, in particolare all’indomani della salita al trono di Ottone II (955-983; coimperatore dal 967; imperatore dal 972) e della bizantina Teofano († 991; imperatrice dal 972), prassi di una continua emulazione del nuovo regno

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Romanorum con quello bizantino, con la netta volontà di affermare la totale parificazione dei ruoli tra la corte sassone e quella costantinopolitana. Non a caso, Ottone III (980-1002; re di Germania dal 983, imperatore dal 996) avvolse la salma di Carlo Magno in un preziosissimo tessuto di seta del X secolo, che un’iscrizione assegna all’opificio del Grande Palazzo di Costantinopoli. In questo clima di rinnovamento politico anche la produzione artistica, dunque, e in particolare quella manoscritta, assunse in breve tempo un ruolo sempre piú preminente contribuendo a fornire grande risalto alla dignità imperiale; numerosi codici miniati vennero infatti realizzati nei principali scriptoria del regno in seguito alla fondazione di chiese e abbazie che necessitavano di libri liturgici. In alcuni di questi manoscritti i sovrani faranno inserire i loro ritratti quali strumenti di ostentazione del loro potere e del loro ambizioso mecenatismo. L’approccio, quasi mistico, alla persona dell’imperatore si coglie pienamente nella miniatura attribuita al Maestro del Registrum Gregorii, un foglio staccato tratto dall’Epistolario di papa Gregorio Magno (590-604) commissionato da Egberto, arcivescovo di Treviri (in carica dal 977 al 993). Raffigura un giovane Ottone II assiso in trono, sormontato da un baldacchino, nell’atto di reggere un globo e uno scettro mentre riceve l’omaggio delle quattro province dell’impero: Germania, Alamannia, Francia e Italia (vedi foto a p. 62). Raffigurato immobile, quasi visionario, il protagonista richiama una tradizione aulica antichissima tratta dal repertorio di simboli di Stato e di insegne di dignità trasmesso dal basso impero, come la Notitia Dignitatium (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 10291) e noti esemplari come il missorio d’argento dell’imperatore Teodosio I (vedi foto in questa pagina). La medesima iconografia ricorrerà piú tardi anche nell’Evangeliario di Ottone III (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 4453), figlio di Ottone II e di Teofano, del 998 circa, nella scena in cui le province rendono omaggio all’imperatore in trono. Il giovane e imberbe sovrano, che ricorda l’Augusto dell’iconografia imperiale romana, regge il globo con la mano sinistra e un grande scettro con la destra qui sormontato da un’aquila; quest’ultimo attributo ricorre già nel cam(segue a p. 66)

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miniatura ottoniana

Canossa. Nel regno d’Italia si affermò, nel corso dell’XI sec., la dinastia di Canossa, che, con la contessa Matilde, raggiunse un eccezionale ma effimero potere politico e militare nell’area centrosettentrionale della Penisola.

Germania. Al tempo degli Ottoni, la Germania era divisa tra i ducati di Alta e Bassa Lotaringia a ovest del Reno, di Sassonia a nord, di Franconia al centro, di Svevia a sud e di Baviera a sud-est.

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In basso la Croce di Lotario (Lotharkreuz). Ultimo quarto del X sec. Aquisgrana, Domschatz. Al centro del prezioso manufatto, donato da Ottone III alla cattedrale di Aquisgrana, è incastonato un cammeo romano con l’effigie dell’imperatore Augusto.

Francia. Sotto la dinastia dei Capetingi, il regno di Francia era diviso in grandi feudi semi-autonomi e indipendenti dal sovrano che dominava direttamente solo la regione centrale dell’Île-de-France, con capitale Parigi. Il sud-est della Francia, l’antico regno di Borgogna, passò all’impero germanico nei primi decenni dell’XI sec. MEDIOEVO

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miniatura ottoniana A sinistra miniatura raffigurante l’apoteosi di Ottone III, dall’Evangeliario di Liuthar. 996 circa. Aquisgrana, Tesoro del Duomo, f. 16r. Il sovrano è ritratto in trono, in una mandorla, incoronato dalla stessa mano di Dio; circondato dai simboli dei quattro evangelisti, viene omaggiato da due re e, in basso, dai rappresentanti della Chiesa e dello Stato.

meo romano con l’effigie di Augusto incastonato nella Croce di Lotario, donata proprio da Ottone III alla cattedrale di Aquisgrana (vedi foto a p. 65). Il sovrano in trono, rivestito delle insegne della sua dignità e circondato dai grandi dell’impero, ci appare in tutta la sua gloria. Sulla pagina affrontata, a differenza della miniatura precedente, che compare su un foglio isolato, il sovrano è accompagnato dalle personificazioni delle province che, in processione, gli rendono omaggio: segnaliamo qui la comparsa della nuova provincia di Sclavinia, che si riferisce probabilmente alla vittoria riportata da Ottone sugli Slavi nel 997 (vedi qui accanto). La morte precoce e improvvisa di Ottone II, avvenuta nel 983, a soli ventotto anni, bloccò ogni suo progetto espansionistico e determinò una situazione di grave crisi. Ottone III, infatti, aveva solo tre anni quando alla morte del padre ottenne l’incoronazione regia e solo

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A destra miniature raffiguranti l’Omaggio delle province all’imperatore Ottone III in trono, tratte dal suo Evangeliario. 998 circa. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, ff. 23v, 24r.

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grazie alla ferma reggenza della madre Teofano e della nonna Adelaide riuscí a mantenere i suoi diritti fino all’incoronazione imperiale del 996. Rispetto al progetto politico del nonno Ottone I, quello di Ottone III era fortemente sbilanciato sul versante ideologico. Cresciuto nel mito dell’impero, egli non curò i rapporti con i grandi del regno, ritenendo che la sua autorità e sovranità fossero garantite dalla sola sacralità del suo titolo. Nel diploma del 17 gennaio 1000 l’ambizioso Ottone si designa Servus Iesu Christi […] secundum voluntatem Dei Salvatoris. Incisiva è l’espressione che lo legittima come imperatore: egli è tale per volontà di Gesú Cristo.

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Similmente, tale concezione era già apparsa in ambito bizantino con Giustiniano II (primo regno 685-695; secondo regno 704-711), il quale l’aveva inserita come richiamo sulla propria monetazione durante il suo primo regno. In essa l’immagine del sovrano, non piú fulcro assoluto della rappresentazione, si pone al servizio del divino. La moneta, in questo caso un solido, presenta al dritto la raffigurazione del busto frontale di Cristo benedicente con vangelo nella mano sinistra e legenda circolare IhS CRISTOS REX RESNANTIVM; mentre al rovescio Giustiniano, con corona crucigera e loros (sciarpa), tiene l’akakia nella mano sinistra (elemento derivante dalla

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miniatura ottoniana mappa, il drappo che, presso i Romani, i consoli gettavano nella piste dell’ippodromo per dare il via alla gara, n.d.r.) e regge con la destra la croce potenziata posta su tre gradini, con legenda D IVSTINIANVS SERV ChRISTI; in basso CONOP, a identificare la zecca di Costantinopoli, e, nel campo in basso a destra, la lettera B. La raffigurazione della vera e propria apoteosi dell’imperatore, una delle piú audaci immagini del sovrano Christomimesis («imitazione, mimesis, di Cristo») appare nell’Evangeliario di Liuthar miniato intorno al 996 e oggi custodito ad Aquisgrana, nel Tesoro della cattedrale (vedi foto a p. 66). Ottone III viene incoronato a Roma nel 996 nel giorno dell’Ascensione. La tradizione iconografica bizantina, probabilmente nota alla scuola della Reichenau presso la quale fu redatto il manoscritto, solitamente raffigurava Cristo seduto entro una mandorla e circondato dagli angeli mentre ascende in paradiso. Nella nostra miniatura ci troviamo invece di fronte alla glorificazione del sovrano che qui si palesa nelle sue due nature, quella umana e divina e che in questa circostanza ricalca proprio l’immagine della Maiestas Domini. In trono entro una mandorla, Ottone III è incoronato dalla stessa mano di Dio (che rivela la sua divinità), è circondato dai quattro simboli evangelici, è omaggiato da

capolavori fra oriente e occidente

L’Apocalisse di Bamberga e il Libro delle Pericopi di Enrico II In epoca ottoniana l’influenza dell’iconografia bizantina non si limita alla sfera del ritratto imperiale, ma anche all’illustrazione delle numerose scene neotestamentarie che in questo periodo compaiono copiosamente in molti codici miniati. Citiamo, a titolo di esempio, due capolavori i cui risultati sono tra i piú alti e originali, in termini di stile pittorico, di questa cultura imperiale e testimoniano la posizione di mediazione dell’arte ottoniana fra Occidente e Oriente: l’Apocalisse di Bamberga (Bamberga, Staatsbibliothek, Bbl. 140) e l’Evangeliario di Enrico II o Libro delle Pericopi (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm. 4452). In entrambi emerge uno spiritualismo espressivo e trascendente, che viene illustrato magnificamente dalle

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immagini degli evangelisti dagli occhi visionari e dalle figure a gesti esagerati e spettacolari, le cosiddette Gebärdenfiguren, nei quali culmina il dramma spirituale delle immagini. Decorata con cinquanta miniature a piena pagina, l’Apocalisse di Bamberga venne donata alla chiesa collegiale di Sant’Etienne di Bamberga dalla coppia imperiale Enrico II e Cunegonda di Lussemburgo († 1033), in occasione, forse, della solenne dedicazione della chiesa, avvenuta nel 1020 da parte di papa Benedetto VIII. Fino al Settecento, infatti, nella rilegatura, andata perduta, compariva ancora l’iscrizione di dedica che menzionava i due sovrani. Se la rilegatura venne commissionata nel 1020 dai reali, non ci è dato sapere con certezza se anche il manoscritto fu commissionato

dagli stessi a quella data o se, invece, risalga al suo predecessore Ottone III morto nel 1002. Al f. 59v è raffigurato un giovane imperatore imberbe (Enrico II o Ottone III) assiso in trono mentre regge lo scettro e la sfera; è fiancheggiato dai santi Pietro e Paolo, patroni dell’arcivescovado di Bamberga, raffigurati nell’atto di posargli la corona sul capo. In questo caso l’atto di investitura divina non è svolto da Cristo ma dai suoi rappresentanti apostolici. L’immagine potrebbe essere in linea con il nuovo titolo con cui Ottone III si designa nel diploma del gennaio 1001 al suo ritorno a Roma dalla Polonia, Servus apostolorum, audace riproposizione del titolo papale, Servus servorum dei. L’incoronazione dell’Apocalisse rappresenta pertanto l’idealizzazione gennaio

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’imperatore incoronato dai santi Pietro e Paolo, dall’Apocalisse di Bamberga. 1020 circa. Bamberga, Staatsbibliothek, f. 59v. A sinistra miniatura raffigurante Cristo che incorona Enrico II e Cunegonda, accompagnati dai santi Pietro e Paolo, dall’Evangeliario di Enrico II (o Libro delle Pericopi). 1007-1012 circa. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, f. 2r.

e l’esaltazione dell’impero ottoniano, tramite l’espressione del trionfo del suo sovrano. L’Evangeliario di Enrico II o Libro delle Pericopi è databile agli anni 1007-1012. Il codice venne probabilmente commissionato prima dell’incoronazione di Enrico II, avvenuta nel 1014, e, secondo alcuni

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studiosi, in occasione della fondazione dell’arcivescovado di Bamberga del 1007. L’Evangeliario rappresenta l’esemplare piú spettacolare del gruppo di codici donati dalla coppia reale alla cattedrale di Bamberga e quello che piú palesa il legame stringente tra l’imperatore con il vescovado e la sua cattedrale.

Ciò è evidente, fin da subito, dalla pagina di dedica, che vede i donatori del codice, Enrico II e Cunegonda nel registro superiore incoronati da Cristo assiso in trono; gli apostoli Pietro e Paolo, al loro fianco, si presentano quali santi patroni e intercessori presso Dio della coppia reale. Queste donazioni erano una manifestazione di trionfo politico ed ecclesiastico per Enrico II: l’intento era quello di utilizzare il vescovado di Bamberga quale base per la missione di evangelizzazione dei pagani della regione del Meno, la città stessa inoltre rappresentava un bastione strategico alla frontiera con gli Slavi.

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miniatura ottoniana Sulle due pagine miniature tratte dal Gero-Codex. Entro il 969. Darmstadt, Hessische Landes- und Hochschulbibliothek. A destra, lo scriba Anno consegna il codice a Gerone (f. 7v); nella pagina accanto, Gerone dona il codice a san Pietro (f. 6v).

due re e in basso dai rappresentanti della Chiesa e dello Stato. Una rappresentazione che, probabilmente, neppure i Bizantini avrebbero osato raffigurare. Il busto è attraversato da un grande velo, allegoria della separazione della terra e del paradiso (si accosta allo stesso significato dato al velo del tempio che divide il Santo dei Santi o il Tabernacolo dal resto del tempio): al di sopra del velo compaiono le parti del corpo dell’imperatore che vengono unte con l’olio santo durante il rituale dell’incoronazione (la testa, le spalle e il busto), mentre al di sotto vi sono gli arti di un semplice uomo. Lo storico tedesco Ernst Kantorowicz citava per l’appunto il Commento ai Salmi di Agostino «Oh Cristo, che siedi alla destra del Padre, ma hai piedi e gambe che si dibattono sulla terra». La rinascita dell’impero, la Renovatio imperii tanto desiderata da Ottone III, carica di elementi simbolici e sacrali, si scontrò con una realtà caratterizzata da poteri locali forti e localmente radicati, che i primi Sassoni non avevano mai tentato di sopprimere, cercando invece di coordinarli. Ottone riservò grande attenzione ai domini italiani e alla Chiesa; da qui la lunga permanenza in Italia e i ripetuti interventi nelle vicende del papato, che portarono all’elezione, nel 996, di Gregorio V (972 circa-999) e, nel 999, di Gerberto d’Aurillac, suo precettore, come Silvestro II (950 circa-1003). Nel 1001, cacciato da Roma in seguito a ripetute sollevazioni di esponenti dell’aristocrazia italica e romana – privata della sua influenza sull’elezione pontificale –, Ottone dovette rifugiarsi in un monastero dove, quello stesso anno, ancor giovanissimo morí e senza lasciare eredi.

L’abbandono del sogno imperiale

Dopo non pochi contrasti, nel 1002 fu eletto re di Germania Enrico II, IV duca di Baviera (973-1024; imperatore come Enrico I dal 1014), della famiglia dei Liudolfingi, il quale, oltre a essere uno dei grandi del regno, poteva vantare una parentela relativamente stretta con la casa di Sassonia (il nonno Enrico I duca di Baviera era fratello di Ottone I). Egli rinunciò definitivamente al sogno imperiale romano di Ottone III, cercando piuttosto di rafforzare la propria autorità nei confronti dei poteri locali che si erano consolidati nei territori dell’impero. Thietmar di Merseburg (975-1018), nel suo Chronicon, pone l’attenzione sull’importanza e sul valore simbolico del cerimoniale liturgico quando descrive, per

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esempio, l’incoronazione imperiale di Enrico avvenuta a Roma nel 1014. Il cronista specifica che nella processione imperiale, che ha inizio sul Monte Mario per poi proseguire in S. Pietro, Enrico è circondato da dodici senatori, sei di loro imberbi e i rimanenti, «allegoricamente», con la barba. L’aggettivo fa riferimento proprio al parallelismo che questa processione imperiale suggerisce: il Cristo circondato dagli apostoli. In vari manoscritti provenienti dallo scriptorium del monastero della Reichenau è palese l’influsso della coeva miniatura bizantina, suggerito da piú di un elemento: per esempio, nell’utilizzo di posture classiche per i ritratti degli Evangelisti inseriti in sfondi architettonici, anch’essi di gusto classicheggiante; o nell’impaginazione e nell’iconografia dei cicli cristologici di alcuni dei piú celebri codici ottoniani che si rifanno direttamente ai lezionari bizantini. Tra i piú significativi, si ricordano il Salterio di Egberto (Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, cod. CXXXVI, Egberti,), attribuito al 980 circa, il Codex Egberti (Treviri, Stadtbibliothek, cod. 24) del 985 circa e il Sacramentario di san Gereone di Colonia (Parigi, Bibliothéque nationale de France, cod. Latin 817) del 996-1002. Il Salterio di Egberto e il Codex Egberti sono i rappresengennaio

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miniatura ottoniana Teofano

La principessa venuta dall’Oriente Nel 972 giunge in Occidente la principessa Teofano, nipote dell’imperatore bizantino Giovanni I Zimisce († 976): il suo matrimonio e la sua incoronazione imperiale (con il titolo di co-imperatrix) con il successore al trono sassone, il futuro Ottone II, ha significative implicazioni e conseguenze sul panorama culturale europeo. Il diploma di nozze

Miniatura raffigurante la Vergine in trono, dal Sacramentario di Petershausen. 960-980. Heidelberg, Universitätsbibliothek, f. 40v.

(vedi foto qui accanto), approntato in uno scriptorium germanico, è redatto su una pergamena tinta di porpora, come nella tradizione imperiale bizantina, e decorata con i motivi delle stoffe rotate orientali. Medaglioni con santi tra pavoni e leoni affrontati riempiono il bordo dorato superiore e sotto il testo, in minuscola dorata, il fondo porpora è animato da feroci grifoni e leoni dipinti en camaieu (a cammeo), nel modello di un tessuto bizantino in seta. Oltre a una ricchissima dote, la giovane Teofano porta con sé

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A sinistra il diploma di nozze fra Ottone II e Teofano. 972. Wolfenbüttel, Niedersächsisches Staatsarchiv.

anche una consolidata consuetudine nell’impero d’Oriente che vede le arti al servizio del potere, un’attitudine che la corte ottoniana non tarda a fare propria. Questo nuovo orientamento si riconosce nella splendida placchetta eburnea in cui Cristo incorona la nuova coppia imperiale. L’intera scena è inquadrata entro un leggiadro baldacchino, tipicamente bizantino, cosí come lo sono le vesti che i due personaggi indossano – costumi della corte costantinopolitana (loros e thorakion) –, le iscrizioni in latino e greco che li identificano, l’impaginazione della raffigurazione e, non da ultimo, la scelta dell’avorio per la fabbricazione del manufatto. Tutti questi elementi fanno della tavoletta di Cluny quasi una copia occidentale di un prototipo o modello bizantino: basti pensare, per esempio, alla tavoletta dell’incoronazione di Romano II ed Eudocia, oggi al Cabinet des Médailles della Bibliothéque nationale di Parigi. Teofano portò con sé diversi manufatti dall’impero d’Oriente, ma, giunta in Europa, ne fece confezionare molti altri. Tra questi, la produzione miniata gioca un ruolo determinante. Si pensi, per esempio, alla Vergine ritratta come un’imperatrice bizantina in uno dei piú celebri manoscritti della scuola della Reichenau, il Sacramentario di Petershausen (Heidelberg, Universitätsbibliothek, Cod. Sal. IX b, fol. 40v) del 960-980: nella miniatura a piena pagina che apre il Liber Sacramentorum del codice, Maria siede su un trono privo di spalliera, con un cuscino tubolare, tipico delle raffigurazioni della Vergine presenti a Costantinopoli, avvolta in un maphorion (manto che copre il capo e gennaio

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tanti di un mecenatismo che, soprattutto nell’arte ottoniana, vede come protagonisti anche alti dignitari ecclesiastici spesso a loro volta provenienti dai ranghi dell’aristocrazia, se non addirittura dalla cerchia della famiglia imperiale. Il piú celebre mecenate e zelante riformatore dell’epoca è, per l’appunto, Egberto, arcivescovo di Treviri tra il 950 circa e il 993, cappellano e cancelliere di Ottone II ed egli stesso esperto di calligrafia e oreficeria.

Immagini a piena pagina

La Crocifissione raffigurata sulla coperta del Codice aureo di Echternach, 985-991. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

la tunica) decorato con rote e incorniciata da un largo clipeo. Sebbene nello stile e nelle fattezze emerga indissolubilmente la tradizione miniaturistica sassone, l’iconografia appare legata ai costumi orientali, tanto da aver spinto alcuni studiosi a scorgervi addirittura un possibile ritratto della stessa Teofano. Nella sontuosa coperta del Codex Aureus Epternacensis (Codice aureo di Echternach, Norimberga, Germanisches Nationalmuseum, Hs. 156142), il pannello d’avorio al centro è opera di un grande anonimo maestro dell’intaglio che proprio da questo manufatto prende il nome di Maestro di Echternach e che gli studiosi collegano con Treviri. Sui bordi, invece, in lamina dorata emergono le figure protese di Ottone III e della madre Teofano, che rivelano la committenza imperiale del codex, mentre le altre figure della Vergine e dei santi, i simboli degli evangelisti e i fiumi del Paradiso, sono disposte negli spicchi geometrici creati dalle perpendicolari della croce e dalle diagonali.

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Entro il 969 viene eseguito il Codice di Gerone (Darmstadt, Hessische Landes- und Hochschulbibliothek, Hs. 1948), indicato generalmente come Gero-Codex, eseguito per un custos Gero che si suppone sia l’arcivescovo Gerone di Colonia (dal 969 al 976). Il Codice è opera dello scriptorium del monastero della Reichenau e appartiene al cosiddetto Gruppo di Eburnant, dal nome di uno dei suoi scribi. Il manoscritto contiene una pericope (una raccolta di brani evangelici disposti secondo la sequenza liturgica) ed è arricchito da una serie di immagini a piena pagina, alcune delle quali riproducono le illustrazioni di un ben noto codice carolingio, l’Evangeliario di Lorsch (Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 50). In apertura compaiono i ritratti degli evangelisti intenti a scrivere, inquadrati da colonne e con una nicchia sullo sfondo, come si scorgono in numerosi manoscritti bizantini, al f. 5v vi è una Maiestas Domini e, a seguire, due scene di dedica. Al f. 6v è raffigurato Gerone (il quale non veste ancora il pallio arcivescovile) nell’atto di offrire il codice a san Pietro titolare del duomo di Colonia, mentre al f. 7v lo scriba Anno, che si designa sia come scriptor che come auctor, consegna il volume a Gerone, basilicae Petri custos (vedi foto alle pp. 70-71). Nella gamma cromatica, tutta giocata su colori acidi, verdini e violetti, luminosi come smalti, si riconosce una caratteristica tipica della miniatura ottoniana, cosí come lo sono il trattamento dei frastagliati panneggi e l’appiattimento dello sfondo. Oltre che un’ispirazione iconografica diretta, l’arte ottoniana sperimenta anche il «riuso» di oggetti bizantini all’interno di manufatti elaborati in ambito sassone. Il caso piú ricorrente sembra essere quello delle placchette eburnee riutilizzate nelle splendide coperte auree dell’Evangelario di Ottone III (Monaco, Staatsbibliothek, Clm. 4453), con una Dormizione della Vergine d’atelier costantinopolitano, o l’Hodigitria del Sacramentario di Fulda, del 1000 circa (Bamberga, Staatsbibliothek, Lit. 1). Ciò che non riuscí a Enrico II fu il mantenimento della corona regia e imperiale nelle mani della sua famiglia. Nel 1024 morí infatti senza figli, e fu eletto suo successore Corrado II di Franconia († 1039; imperatore come Corrado I dal 1027), appartenente alla famiglia dei Salii, che riuscí a mantenere la corona imperiale per quattro generazioni, sino al 1125.

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di Nicoletta Giovè e Giulia Orofino

Libri da guardare La miniatura è una delle massime espressioni artistiche del Medioevo. Ma come nacque l’uso di arricchire le trascrizioni dei copisti con vignette e, spesso, veri e propri «cicli» pittorici? E quali tecniche furono elaborate per fissare su carte e pergamene quelle vivaci e multicolori composizioni? Miniatura raffigurante san Marco che scrive e, sull’armadietto di fronte a lui, gli strumenti del copista, da un tetravangelo del XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


Dossier

I I

l Medioevo è l’epoca del libro in forma di codice di pergamena o di carta. La pergamena si ricavava dalla pelle di vitello, ma piú frequentemente di pecora e soprattutto di capra, pelle che doveva subire una lavorazione lunga e accurata. Innanzitutto doveva essere liberata sia del pelo che dei residui di carne e, a questo scopo, dopo essere stata rasata, veniva immersa in bagni di calce, alternati a risciacqui in acqua fresca, per poi essere tesa e messa ad asciugare. L’ultimo trattamento consisteva nel lisciarne con una pietra pomice la superficie, in modo da annullare o comunque ridurre al minimo le differenze fra il «lato pelo»,

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corrispondente alla parte esterna della pelle, di solito giallastro e spesso piuttosto ruvido al tatto, e il lato carne, in genere piú chiaro e molto piú liscio e morbido. Un ulteriore passaggio poteva consistere nella tintura dei fogli, il piú delle volte con la porpora, ma anche in colori diversi, come il nero o l’azzurro. Dalla pelle trattata – le cui dimensioni erano a volte anche molto grandi, nel caso di animali adulti – attraverso una serie di piegature si ricavavano i fogli, che, piegati a loro volta a metà, venivano poi messi insieme, di norma da due a sei, a formare i fascicoli, l’unità di base del singolo codice. I fascicoli sovrappo-

sti, in numero molto variabile, erano infine cuciti insieme e protetti con una legatura, cosí da formare il codice. Per evitare che la corretta sequenza dei fascicoli venisse scompaginata, accanto alla numerazione dei fogli o piú raramente delle pagine, si adottavano la numerazione dei fascicoli e i richiami, consistenti nella scrittura nell’ultimo foglio di un fascicolo della prima parola del fascicolo successivo. La legatura poteva essere molto semplice: una coperta, di solito in tavolette di legno poi rivestite di cuoio, o anche di cartone o di pergamena. Ma nel caso di libri particolarmente importanti, magari commissionati da un sovra-

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no o da offrire in dono a un santo, le legature erano di gran pregio. La produzione libraria altomedievale, al suo massimo livello, ci ha lasciato eccezionali testimonianze di codici, in particolare liturgici, le cui legature sono vere e proprie opere d’alta oreficeria, laminate d’oro e d’argento inciso, su cui si incastonano pietre preziose, cammei spesso romani, piastre eburnee decorate a rilievo, magari antiche, e perle: è per esempio il caso di un manoscritto lussuosissimo come l’evangeliario prodotto per l’imperatore Ottone III. Altrimenti i piatti potevano essere rivestiti di stoffe preziose, sete e damaschi dai vividi colori.

La rivoluzione cinese

Nel Medioevo occidentale la pergamena rimase il supporto esclusivo della scrittura sostanzialmente sino a tutto il XII secolo, momento in cui fece la sua comparsa, diffondendosi progressivamente, la carta. Arrivata dalla Cina nell’impero musulmano, e poi in Europa attraverso la Spagna, la carta fu prodotta in particolare in Italia, ma non fu, all’inizio, apprezzata come la pergamena, in quanto considerata, come di fatto è, meno resistente. Eppure la carta medievale era certamente migliore di quella moderna – ricavata dalla cellulosa – dal momento che veniva fatta con una pasta consistente, di fibre ricavate dalla triturazione e dalla macerazione degli stracci; questa era versata e messa ad asciugare nelle forme, telai rettangolari di legno dal fondo costituito da una fitta trama di fili metallici su cui spiccava un disegno, anch’esso in filo di metallo – la filigrana –, che rappresentava il vero e proprio marchio di fabbrica di ogni singola cartiera, e che può aiutare a ricostruire la provenienza e la datazione dei fogli. Il mondo classico e l’età medievale hanno conosciuto una straordinaria varietà nei supporti della scrittura e negli strumenti

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Nel caso di libri importanti, le legature erano di gran pregio, spesso autentiche opere d’alta oreficeria A destra la coperta di un codice che conserva la catenella grazie alla quale era assicurato al pluteo della biblioteca. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto un’edizione manoscritta della Regola di san Benedetto. XII sec. Città del Vaticano, Archivio Segreto.

grafici. Accanto a papiro, pergamena, carta, si utilizzarono tavolette cerate e lignee, lamine bronzee e plumbee, cocci di terracotta, e altri materiali duri come marmo, pietra, intonaco. Per tracciare i segni grafici, dipinti, ma anche incisi, graffiati o scalpellati, la mano dello scriptor poteva usare calamo, stilo, pennello, penne di volatile, punte metalliche, scalpelli. Per scrivere, infine, la mano doveva operare secondo posizioni assai diverse, scegliendo talora posture difficoltose e inconsuete, e comunque rispettandole rigidamente; i suoi movimenti potevano essere innaturali, improvvisi, faticosi, oppure, al contrario, preordinati, ritmici, regolari. La ricostruzione delle tenute della penna, della posizione

del corpo e dell’avambraccio, della pressione muscolare non è facile, ma indispensabile per definire la dinamica della scrittura. A ricostruire le posizioni e i movimenti della mano e dell’avambraccio e a fornire informazioni sulla tenuta e sui movimenti dello strumento scrittorio contribuiscono fonti diverse, fra cui anche i trattati di scrittura, prodotti in particolar modo in Italia, soprattutto nel Cinquecento, quando maestri calligrafi vollero fissare per sempre le regole che governavano le scritture canonizzate del tardo Medioevo e dell’Umanesimo, condannate oramai a una morte inevitabile, dal momento che la diffusione della cultura scritta si avviava a passare definitivamente attraverso il libro

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Dossier a stampa e la scrittura a mano veniva relegata al ruolo di esperienza assolutamente personale. Come ci suggerisce, per esempio – al pari di molte altre testimonianze iconografiche –, l’immagine del profeta Esdra nella Bibbia Amiatina, maestoso e pesantissimo codice di origine insulare, si scriveva appoggiandosi di norma su un piano inclinato, talora sostituito da un banco con piano d’appoggio orizzontale, su cui erano collocati gli strumenti della scrittura, il calamaio per l’inchiostro o il raschietto per cancellare gli errori, e sul quale si poggiava l’avambraccio e si faceva scorrere la mano, i cui movimenti variavano a seconda del tipo di scrittura. Per la scrittura greca si suppone che il gesto della mano sia stato determinato dai movimenti del polso, in quanto lo strumento scrittorio era tenuto in posizione verticale rispetto al supporto, mentre nell’ambito latino era piuttosto consueto tenere lo strumento obliquo rispetto al supporto, sul quale scorreva seguendo anche i movimenti del gomito.

Movimenti brevi e ripetitivi

Per quanto concerne le tenute della penna, quella che si può definire «solidale» prescriveva che la si reggesse con tutte le dita poste alla stessa altezza, mentre, nelle tenute cosiddette combinate, piú frequenti, la penna poteva essere sostenuta dal pollice, dall’indice e dal medio, o solo dai primi due, tesi e poggiati solo sul mignolo, oppure sul mignolo e sull’anulare. A scrivere, in una sequenza di movimenti brevi e ripetitivi, erano insomma di norma tre dita, tres digiti, come confermano tanti copisti, i quali però aggiungono che totum corpus laborat, dunque che a lavorare e a faticare è tutto il corpo. Tre dita che, come misticamente interpreta Cassiodoro, sono in realtà l’espressione della Trinità. Sinora si è parlato di quello che

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A sinistra la coperta di un Sacramentario Gregoriano di produzione longobarda impreziosita da una placchetta in avorio piú antica (VIII sec.). IX sec. Trento, Castello del Buonconsiglio. Nella pagina accanto la Pace di Ariberto, denominazione con cui si indica il coperchio della cassetta che conteneva l’Evangelario commissionato appunto dall’arcivescovo Ariberto d’Intimiano, una finissima opera di oreficeria realizzata tra il 1034 e il 1036. Milano, Tesoro del Duomo.

potremmo definire l’assemblaggio materiale del codice, di come dunque si costruisca un prodotto di alto artigianato, l’oggetto-libro, il contenitore. Ma il libro realizza la propria funzione solo quando viene scritto – in tempi lunghi e con grande fatica, come si è detto –, quando riceve cioè un contenuto. E per essere scritto deve passare attraverso una serrata e precisa organizzazione degli spazi destinati a ricevere la scrittura, e dunque del foglio. La superficie di quest’ultimo viene divisa razionalmente e geometricamente, attraverso una complessa distribuzione degli spazi che ne determinano la cosiddetta mise en page, ovvero l’assetto complessivo della pagina, nella sua divisione fra il bianco, le parti non scritte, e il ne-

ro, quelle occupate dalla scrittura. Se osserviamo in particolare un codice del pieno Medioevo, vediamo che di norma un libro poteva essere scritto a piena pagina oppure a piú colonne, spesso due, ma anche, magari nel caso di lessici o indici, tre o quattro. Lo spazio destinato a ricevere la parola era distinto visivamente grazie alla rigatura, cioè all’insieme delle righe orizzontali e verticali che determinano il cosiddetto specchio di scrittura e i margini. Per la rigatura, dapprima tracciata a secco, con una punta metallica che lasciava un solco sulla pagina, venne poi usato l’inchiostro oppure una mina di piombo che, con minor fatica, produceva invece righe molto piú visibili. Operazione preliminare alla rigennaio

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Dossier per incardinare il testo all’interno dello spazio della pagina in modo sistematico e rigoroso, occorre che il copista, prima di avviare l’attività di trascrizione, curi anche la mise en texte, ossia il modo in cui il testo viene organizzato al suo interno, mediante l’utilizzo di elementi diversi, come la decorazione e la punteggiatura, che lo scandiscono in articolate e raccordate sottounità. Ecco infatti che l’articolazione del discorso si mette in evidenza mediante una serie di elementi diacritici, che scandiscono e al tempo stesso raccordano le unità logico-testuali: un sistema articolato di lettere iniziali, la presenza regolare dei segni di paragrafo, i titoli e le rubriche che regolarmente ricordano l’argomento del testo, infine i titoli correnti. Si prevedono e si usano insomma precise procedure di distinzione e divisione del testo nelle sue sottounità, gerarchicamente interconnesse, che sono la proposizione, il periodo, il paragrafo, il capitolo, il libro.

Un’attenta pianificazione

Quando arriva nelle mani del miniatore, un manoscritto ha dunque già subito una serie di operazioni: preparazione della pergamena, scelta del formato, allestimento dei fascicoli, determinazione della mi-

Gli arnesi del mestiere Miniatura raffigurante il profeta Esdra che scrive accanto a un armadio in cui sono riposti numerosi codici, dalla Bibbia Amiatina, realizzata nei monasteri di Wearmouth-Jarrow (Inghilterra) per volere dell’abate Ceolfrith e destinata come dono alla basilica di S. Pietro in Roma. VIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. La vignetta è una preziosa testimonianza sull’organizzazione della postazione e gli strumenti di lavoro di un copista.

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gatura era la foratura, ovvero l’incisione sulla superficie del foglio con un compasso o una punta metallica di una serie di fori, che servivano da guida alla rigatura. La mise en page determinava in modo molto rigoroso anche le dimensioni dei margini che, in particolare nei codici universitari tardomedievali destinati allo studio, sono in progressione geometrica, dunque con valori che aumentano man mano che si va dal margine superiore a quello inferiore. Ma,

Miniature «parlanti»

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se en page e, nella maggior parte dei casi, trascrizione del testo con l’indicazione dei punti in cui andranno i titoli, le rubriche, le iniziali, le illustrazioni. Quasi sempre, dunque, la decisione di dove – e come – distribuire la decorazione è stata presa prima che il miniatore cominci a lavorare. Dietro la realizzazione di un codice importante c’è sempre un ideatore – il committente o il sovrintendente dello scriptorium – che pianifica gli spazi da destinare all’ornamentazione, stabilisce le tipologie – lettere iniziali arricchite da elementi geometrici o vegetali oppure abitate da figure e da storie, scene di dedica e scene narrative a piena pagina, inserite all’interno della colonna di scrittura o disposte nei margini del foglio – e redige il programma iconografico. Quali sono allora i compiti del miniatore? Un trattato scritto tra il 1460 e il 1470, il XX artium liber di Paulus Paulinus li definisce con grande precisione: «Illuminator est artifex ponens colores super libros, cuius officium est scire bene capitalia varia facere, et flores protrahere et aurum et argentum scire libris stabiliter imprimere et fulgide et imagines et picturas scire pertinentissime capitalibus infigere et habere debet pingellos, pennas bonas (segue a p. 85)

Spesso sono le stesse miniature a fornire informazioni preziose non soltanto sui procedimenti e sulle fasi di produzione di un manoscritto medievale, ma anche sul corredo degli strumenti impiegato da scribi e artisti e persino sul mobilio dello scriptorium. In una Bibbia in tre volumi oggi conservata presso la Biblioteca Reale di Copenaghen, una serie di iniziali istoriate documenta alcune delle operazioni per l’esecuzione del codice, dall’acquisto della pergamena al taglio dei fogli, alla rigatura e alla definizione della mise en page, alla trascrizione

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Miniatura raffigurante un monaco copista, da un’edizione delle Chroniques de Hainaut di Jacques de Guyse. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Spiccano, tra i vari strumenti, gli occhiali e un pezzo di piombo usato per tenere aperto il libro da trascrivere.

del testo, per finire con la miniatura. La Bibbia fu scritta dal calligrafo Carolus nel 1255 per Bertoldo diacono cattedrale di Amburgo. In questo periodo il processo produttivo del libro non è più monopolio esclusivo dei monaci, ma frutto della collaborazione tra operatori laici ed ecclesiastici: nelle miniature della Bibbia di Copenaghen il taglio della pergamena, la rigatura e la scrittura sono opera di monaci, ma è un pergamenario laico che procura al committente le pelli animali, ed è laico anche l’artista che si autoritrae mentre dipinge una testa umana su

un foglio sciolto, intingendo il pennello nella tavolozza di colori fissata al piano di lavoro. Questo è collegato a un ingegnoso seggiolone per mezzo di un braccio mobile, che ne permette l’inclinazione: un tipo di mobile che viene spesso raffigurato tra il XII e il XIII secolo, e che si trova anche descritto nelle fonti, a dimostrazione della sua diffusione. Nella pagina accanto, in basso particolare di una miniatura di un codice bizantino che mostra san Luca seduto davanti a uno scrittoio a braccio mobile. XII sec. Atene, Biblioteca Nazionale.

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Ricostruzione dell’attività che si svolgeva all’interno di uno scriptorium nel XII sec. I fogli di pergamena, consegnati dal fabbricante (un laico) al monaco responsabile (nel fondo), venivano preparati per la scrittura, in genere da un novizio (al centro), che li lisciava, e vi tracciava le righe che avrebbero guidato il copista (a sinistra). Le pagine passavano poi sul tavolo del miniatore (in primo piano) che riempiva con figurazioni e decori gli spazi lasciati liberi dalla scrittura.

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sottoscrizioni

Un lavoro faticoso «O beatissime lector, lava manus tuas et sic librum adprehende, leniter folia turna, longe a lettera digito pone. Quia qui nescit scrivere, putat hoc esse nullum laborem»: «O felicissimo lettore, lava le tue mani per prendere il libro, gira con delicatezza i fogli e tieni lontane le dita dalle lettere. È infatti chi non sa scrivere che ritiene che non sia per nulla faticoso». «A fatuis sordide libri tractantur ubique sed noscens litteras hos tractat ut margaritas»: «Dai fatui i libri sono trattati ovunque sordidamente, ma l’uomo di cultura, invece, li tratta come perle». In queste due sottoscrizioni, accanto ad alcune condivisibili cautele da osservare nel maneggiare i codici, emerge un duplice messaggio. Da una parte il copista vuole sottolineare la fatica della scrittura, attività che costa sofferenza a tutto il corpo; da un’altra, proprio perché è l’esito di

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un grande sforzo, si sottolinea il valore del libro, prodotto prezioso e da rispettare. Scrivere è dunque un’attività faticosa, e soprattutto lenta, che procede necessariamente con un ritmo blando e nel contempo assai regolare. Proprio grazie alle sottoscrizioni dei copisti, che concludono talora la loro attività di trascrizione, informando i lettori sulla propria identità e anche sul tempo impiegato per completare la copia, possiamo ricostruire con una qualche approssimazione la speditezza di chi scriveva a mano, giungendo a un dato medio di circa due fogli al giorno. Si tratta naturalmente di un dato solo parzialmente significativo, che non può tenere conto – ma dovrebbe! – di una serie di fattori: la professionalità o meno del copista professionista oppure il livello della tipologia grafica utilizzata o, ancora, le dimensioni dei fogli e il numero delle colonne e delle righe.

Particolare dell’affresco di Tommaso da Modena raffigurante personaggi dell’Ordine domenicano mentre scrivono o leggono. 1352. Treviso, Seminario Vescovile (ex convento di S. Nicolò), Sala del Capitolo dei Domenicani.

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In basso due fogli del cosiddetto Messale del Dragone. 1421. Benevento, Pubblica biblioteca arcivescovile Francesco Pacca. Quando un manoscritto giunge sul tavolo del miniatore, ha già subito varie operazioni, che vanno dalla preparazione dei fogli alla trascrizione del testo con l’indicazione dei punti in cui andranno i titoli, le rubriche, le iniziali, le illustrazioni.

et colores bene effectos»: «Un miniatore deve saper stendere i colori sulle pagine di un libro, saper eseguire le lettere decorate con immagini, storie e fregi, deve saper dorare e argentare e deve avere penne, pennelli e colori ben preparati». Con quali strumenti lavora il miniatore? Pochissimi sono quelli sopravvissuti, e di difficile datazione. Per ricostruire l’attrezzatura di un miniatore bisogna allora ricorrere all’archeo-iconografia, ossia alle immagini di artisti all’opera contenute negli stessi manoscritti, e ai ricettari, il piú celebre dei quali è il De arte illuminandi, tramandato da un manoscritto napoletano del XIV secolo, conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, il manoscritto XII E 27. Il De arte illuminandi è l’unico trattato medievale specificamente dedicato alla miniatura, scritto da un anonimo professionista del ramo, il cui scopo dichiarato è appunto insegnare a praticare l’arte, descrivendo «amichevolmente e in forma

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Il verde: istruzioni per l’uso

«Bellissimo ed eccellente»

Miniatura raffigurante Mosè che separa le acque, dall’Exultet commissionato da Giovanni da Procida, nobile salernitano e forse realizzato in uno scriptorium dell’abbadia di Cava o nella stessa Salerno. Metà del XIII sec. Salerno, Museo Diocesano.

La preparazione del colore verde viene cosí descritta nel trattato trecentesco De arte illuminandi: «Il verde si ritrova nei gigli azzurrini, detti iris, che si trasformano tuttavia, artificialmente, in color verde purissimo. Dai quali gigli si estrae cosí il colore: prendi di questi fiori freschi, di primavera, quando fioriscono; pestali in un mortaio di marmo o di rame, e spremine con una pezza il succo dentro una scodella invetriata, immergendo nel detto succo altre pezze pulite, di lino, bagnate una o due volte in acqua di allume di rocca e poi disseccate. Quando le pezze siffatte saranno bene imbevute del detto succo di gigli, lasciale seccare all’ombra e riponile tra i fogli dei libri, poiché da questo succo conservato in tal modo si fa col giallolino un verde bellissimo ed eccellente» (De arte illuminandi, a cura di Franco Brunello, Vicenza 1992). Nella pagina accanto miniatura raffigurante san Luca, dall’Evangeliario detto «di Godescalco» (dal nome del copista che lo trascrisse), realizzato presso la scuola palatina di Carlo Magno. 781-783. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso una pagina miniata dall’edizione

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manoscritta cassinense del De universo (o De rerum naturis) di Rabano Mauro. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale. Risalente agli anni dell’abbaziato di Teobaldo (1022-1035), il testo è fornito da un corredo di immagini che rende il codice assai prezioso e ne fa una vera rarità.

semplice» la preparazione dei colori artificiali e naturali e le tecniche per applicarli, la composizione delle colle e dei leganti, la realizzazione della foglia d’oro e del mordente per farla aderire alla pergamena. Le fonti ci restituiscono un arsenale impressionante: penne, squadre, righe e compassi; stilo di piombo per l’abbozzo del disegno; mollica di pane e raschietti per cancellare; coltelli per temperare le penne, tagliare le foglie d’oro e d’argento, grattare via le polveri dei colori; filtri di tessuto – colatoria – per chiarificare i liquidi o separare i colori da soluzioni depuranti; mortai e pestelli di porfido, di bronzo o d’oro per la macinazione dei colori minerali; vasi e ampolle di vetro o terracotta, corni

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Dossier analisi di laboratorio

L’azzurro svelato dai protoni Che in una miniatura si usi l’azzurro oltremare o il piú volgare azzurro della Magna non è indifferente nella valutazione della qualità e del pregio del manoscritto, ma non sempre è facile distinguere i due colori a occhio nudo. Può allora essere determinante l’osservazione scientifica, come quella basata sulla PIXE (Particle-Induced X ray Emission). Questa tecnica di tipo nucleare ha il vantaggio di essere non distruttiva e non invasiva, poiché non comporta il prelievo di microesempi dalle miniature, e permette di rilevare la presenza dei diversi elementi atomici in una determinata area colorata di una miniatura, e quindi l’individuazione dei pigmenti usati. Si basa sull’emissione di raggi X, la cui energia è differente per ciascuna specie atomica.

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur L’emissione di questi raggitendamusam è stimolata consent, perspiti dal bombardamento del materiale da conseque nis analizzare da parte di un fascio di particelle maximIleaquis (protoni) prodotti da un acceleratore. earuntia dei cones risultato è che, visualizzando le energie apienda. raggi X prodotti dall’interazione tra la fascia dei

protoni e il bersaglio, si ottiene uno spettro, ossia un istogramma della distribuzione delle energie che mostra gli elementi presenti nella zona esaminata e la loro quantità. Nel caso del colore azzurro, per esempio, la presenza del lapislazzuli – che contiene soprattutto minerali del gruppo delle sodaliti – sarà evidenziata dalla rivelazione dei raggi X del sodio, dell’alluminio, del silicio e dello zolfo, quella dell’azzurrite, un minerale di carbonato di rame, da una massiccia quantità di rame.

A sinistra un’altra miniatura dall’Exultet commissionato da Giovanni da Procida raffigurante un sovrano circondato dai suoi vassalli. Metà del XIII sec. Salerno, Museo Diocesano.

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A sinistra capolettera miniato raffigurante re Salomone nell’atto di scrivere, dal Libro dei Proverbi della Bibbia detta «di Arnstein» (dal nome della località tedesca in cui fu prodotta). 1172. Londra, The British Library. In basso L’adorazione dell’Agnello dal Messale di Roberto di Jumièges o Sacramentario di Winchester. XI sec. Rouen, Bibliothèque Municipale.

di bue, sacchetti di cuoio, gusci di tartaruga o conchiglie, tavolozze. I pennelli piú adatti alle miniature erano fatti con i peli della coda del vaio o scoiattolo, riuniti e legati in un cannello di penna d’avvoltoio o d’oca, di gallina o di colombo, a seconda della grandezza desiderata, a cui si applicava un’asticciola di legno affusolata e appuntita all’estremità libera. I peli venivano pareggiati tagliandoli con la forbice o sfregandoli sulla pietra di porfido fino a rendere la punta sottile. Il pennello di setola di porco veniva usato dal miniatore per sbattere o schiumeggiare la chiara d’uovo. Per lucidare le

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Dossier La doratura

Un’operazione delicata e che teme... gli spifferi La tecnica piú diffusa per arricchire con l’oro le decorazioni dei manoscritti è la doratura a foglia. È un’operazione delicatissima, descritta già nei piú antichi trattati, come la Schedula diversarum artium (cap. XXIV) di Teofilo, monaco vissuto in un monastero tedesco agli inizi del XII secolo, forse da identificare con l’orafo Ruggero de Helmarshausen. Sulla pergamena ben levigata si applica, nelle zone da decorare, l’albume d’uovo; si umetta in bocca la punta di un pennellino e con essa si solleva la sottilissima foglia metallica – preparata dallo stesso miniatore o, soprattutto nell’Italia tardo-medievale, da un artigiano specializzato, il battiloro –, la si depone sulla pergamena e la si stende con l’aiuto di un altro pennello; si lascia asciugare e si brunisce. Nel posare la foglia, Teofilo consiglia di stare attenti alle correnti d’aria e raccomanda di trattenere il respiro, per evitare di perdere argentature e le dorature si adoperavano i brunitoi, costruiti montando su impugnature di legno i denti di vari animali, specie carnivori (lupi, cane, cinghiale), oppure il diaspro rosso o l’agata, tagliati a forma di dente, arrotati sulla mola e sfregati con polvere di carbone sulla pietra di porfido. Prima dell’uso i brunitoi dovevano essere strofinati con un panno per renderli asciutti e caldi, Facsimile della Bibbia commissionata da Borso d’Este alla metà del XV sec. Borso voleva un’opera che desse fama e lustro alla famiglia estense, ma, oltre alla precisione, aveva ordinato anche la velocità d’esecuzione. Da contratto fu portata a termine in sei anni, dal 1455 al 1461: 600 carte in pergamena miniate da entrambi i versi per un totale di 1202 pagine.

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la preziosa pellicola aurea. Col tempo, per far aderire la foglia si sostituí l’albume d’uovo con mordente inorganico, composto di gesso o asiso, biacca di piombo e bolo armeno temperati con chiara d’uovo, colla di pergamena o altri leganti; a volte il mordente è colorato, come si può verificare dove la foglia è caduta. Per stendere l’oro a pennello invece si lima e si macina il metallo con poca acqua, si impasta con colla di pesce, si applica sul mordente e si brunisce. Per manoscritti meno prestigiosi si cercava di imitare l’effetto dell’oro con surrogati vari: l’oro musivo o porporina, costituito da solfuro stannico, l’orpimento, un minerale di color giallo luminoso costituito da trisolfuro di arsenico, o anche un’improbabile sostanza ottenuta svuotando un uovo, riempiendolo di argento vivo e facendolo covare da una gallina per 30 giorni.

come consiglia Cennino Cennini nel suo Trattato della pittura: «Togli la tua pietra da brunire e fregatela al petto, o dove hai migliori panni, che non sieno unti. Riscaldala bene» (cap. CXXXVIII). Tutte le ricette, che siano annotate nei margini dei manoscritti o sui fogli di guardia o raccolte piú organicamente nei trattati, prestano particolare attenzione ai colori, la cui buona composizione era dunque

Nella pagina accanto miniatura di Giovanni Monte del Fora per la Vita di Lorenzo il Magnifico di Niccolò Valori. XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella ricca cornice sono rappresentati episodi della vita del Magnifico, un suo ritratto, lo stemma della famiglia e figure allegoriche.


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Dossier

In alto la seconda pagina dell’incipit del Vangelo di Matteo nell’Evangeliario di Lindisfarne con il testo ornato da un cristogramma. 710-721. Londra, The British Library.

A destra pagina miniata da una Bibbia moralizzata di produzione francese. 1227-1234. New York, Pierpont Morgan Library. Nel registro superiore, Bianca di Castiglia (?) che

un’esigenza primaria per il miniatore, che quasi sempre li preparava da solo e raramente li acquistava, piú o meno pronti all’uso, dall’apotecario. I colori sono in genere composti da pigmenti uniti a leganti. I pigmenti possono essere artificiali, ottenuti per reazioni chimiche, come il cinabro, composto di zolfo e argento vivo (il mercurio), oppure

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si rivolge a Luigi IX (?) di Francia; in quello inferiore, un chierico tonsurato (a sinistra) tiene aperto un libro e indica un miniatore che sta lavorando a una serie di medaglioni.

naturali, minerali allo stato puro o estratti vegetali. I minerali – come il lapislazzuli – venivano pestati e ridotti in polvere, quindi decantati in acqua per liberarli dalle impurità e messi a seccare; con i succhi di particolari piante venivano invece imbevute pezzuole di lino lasciate seccare e poi strofinate con il pennello bagnato per stendere il colore.

I pigmenti venivano stemperati con sostanze leganti e agglutinanti: chiara d’uovo, gomma arabica, colla di pelle o di pergamena. Il De arte illuminandi consiglia una soluzione di gomma arabica, albume e miele «per lucidare i colori, perché risplendano come avviene con la vernice sulle tavole» (cap. XXIX). Il fiele di bue dava vivacità e adesione alle tinte, l’orina alcalinizgennaio

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va da un Oriente favoloso, «de paese de Tartaria», «in le parte de Damasco e in le parte de Cipro», e piú verosimilmente dalle miniere del Badakshan descritte nel Milione di Marco Polo: «quivi è una montagna, ove si cava l’azzurro et è lo migliore e lo piú fine del mondo» (cap. XXXV). La doratura si otteneva con procedimenti differenti, a foglia o a pennello, o con surrogati dell’oro (vedi box a p. 90).

Ricette segrete

zante era usata nell’estrazione dei colori vegetali, l’allume di rocca per le lacche. Uno stesso colore si poteva ottenere da sostanze diverse: il blu, per esempio, macinando l’azzurrite, un minerale estratto soprattutto in Germania (veniva chiamato anche azzurro della Magna), in Tirolo e in Francia meridionale, o il lapislazzuli, ben altrimenti prezioso, che arriva-

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Ricostruire i colori delle miniature attraverso le ricette è difficile e richiede una serie di «precauzioni»: tra la pratica quotidiana, i gesti dell’artista o dell’artigiano e la loro codificazione scritta si interpongono molti filtri, a partire da quelli legati alla trasmissione stessa del testo che, copiato piú volte, modificato e contaminato, va filologicamente ricostruito nella sua struttura originaria. Si sa poi che le strategie operative, i segreti del mestiere, sono affidati in gran parte all’oralità. La stessa nomenclatura dei colori è tutt’altro che canonizzata: le sostanze usate nel corso dei secoli cambiano nome e i nomi cambiano le sostanze. Col termine minium, per esempio, viene chiamato a volte l’ossido salino di piombo, quello che ancor oggi si chiama minio, a volte il cinabro, ossia il solfuro di mercurio, e cinabro viene chiamato anche il sangue di drago. I nomi dei pigmenti non sono mai neutri, anzi spesso ne giustificano l’uso: è il caso proprio del sangue di drago, che Plinio ritiene una favolosa miscela di sangue di dragone e di elefante. In realtà si tratta di una resina ricavata da una particolare famiglia di palme, ma il plusvalore simbolico e leggendario, oltre alla rarità del pigmento che già nell’età classica veniva contraffatto, ha sicuramente giocato un ruolo importante per la fortuna del sangue di drago non solo nella tecnica della miniatura ma anche nell’immaginario collettivo.

La pergamena è un supporto ideale per le miniature e, anche se la sua preparazione non è un compito specifico del miniatore, egli si preoccupa della qualità delle pelli impiegate, del loro colore (i pittori non usano quasi mai le pelli di montone borgognone, perché hanno una tinta irregolare) e della loro provenienza (un miniatore inglese del XII secolo, Ugo, impiegò nella Bibbia eseguita per l’abbazia di Bury St. Edmund pelli fatte arrivare appositamente dall’Irlanda). Con altrettanta cura si valutano la consistenza – per i manoscritti miniati si preferiscono pelli di vitello o di capra, meno grasse di quelle di pecora – e lo spessore: in generale, la pergamena delle pagine miniate ha non solo una superficie piú ruvida per impedire la trasparenza e favorire l’adesione dei pigmenti, ma è anche notevolmente piú spessa. Non è insolito riscontrare, in uno stesso codice, pergamene diverse per le pagine destinate a contenere solo il testo e per quelle decorate, un accorgimento che si è dimostrato dannoso per l’integrità del manoscritto, poiché ha provocato rotture nella struttura dei fascicoli o perdite dei fogli miniati sciolti.

Copiare è la norma

Una volta approntati gli strumenti, i colori e il supporto, il miniatore può finalmente cominciare a lavorare. Per riempire gli spazi lasciati vuoti sulla pagina dispone, oltre che dei repertori di motivi e scene accumulati nella sua memoria o raccolti nei taccuini e libri di modelli, di una serie di guide molto precise. Spesso ha davanti un esemplare, il piú delle volte antico, che deve riprodurre: come per i testi, copiare era una regola anche per le illustrazioni. Per trasferire i disegni si usano varie tecniche: la copia per trasparenza, le silhouettes ritagliate, il calco o lo spolvero. Un caso celebre di calco è quello operato a metà del IX secolo dai miniatori carolingi della Bibbia di Viviano (Parigi, Bibliothèque

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Dossier

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Sulle due pagine altri particolari della Bibbia di Borso d’Este (qui nell’edizione in facsimile dell’editore Franco Cosimo Panini). Una volta completato, fu il codice piú costoso al mondo per l’epoca: costò al duca 5610 lire marchesane, tra pergamena, scrittura, miniature, cucitura, doratura dei fascicoli, la cassa in legno per la sua conservazione, la sovracoperta di panno ricamato con fili d’oro e i fermagli in argento.

I miniatori della Bibbia di Borso d’Este sostennero le spese «de oro, et azuro fino a de altri colori» nationale de France, lat. 1), i quali ricalcarono appunto con lo stilo i contorni di alcune figure del «Virgilio Vaticano» (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3225), il prestigioso manoscritto del V secolo che in quel tempo si trovava proprio a Tours, per riprodurle nel codice donato a Carlo il Calvo. I committenti possono fornire al miniatore un vero e proprio brogliaccio o una maquette dove siano indicati il layout e i soggetti delle illustrazioni. L’uso di specimen è attestato nei contratti, che precisano, oltre all’obbligo di impiegare buoni materiali, ai tempi di consegna e ai pagamenti,

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la quantità, le tipologie e i temi delle figurazioni. Nella convenzione stipulata l’8 luglio 1455 e firmata tre giorni dopo tra il camerlengo del duca di Ferrara, Galeotto dell’Assassino, e gli «adminiatori» Taddeo Crivelli e Franco dei Russi per decorare la Bibbia di Borso d’Este (Modena, Biblioteca Estense Universitaria, Lat. 422-423), uno dei capolavori del Rinascimento italiano, i due artisti si impegnano a miniare il codice nel giro di sei anni, in una casa appositamente affittata, sobbarcandosi le spese «de oro, et azuro fino a de altri colori», «per lo modo et forma che è il terzo quinterno nel libro Exodi segnato D».

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Dossier terminologia

Elementi cardine dell’oggetto-libro

Nella maggior parte dei casi, le istruzioni per il miniatore si trovano all’interno dello stesso manoscritto su cui deve intervenire: si tratta di annotazioni scritte, cifrate o schizzate nei margini dei fogli – venivano erase o tagliate al momento della legatura – o negli spazi destinati poi a essere coperti dalla decorazione.

Le «note di servizio»

L’esempio piú antico di istruzioni scritte risale alle origini stesse della miniatura dei codici, all’inizio del V secolo: nei fogli sopravvissuti della cosiddetta Itala di Quedlinburg (Berlin, Deutsche Staatsbibliothek, Cod. theol. lat. fol. 485), sotto le scene che illustrano il Libro dei Re, laddove i colori sono caduti, sono emerse lunghe note in corsiva che suggerivano agli artisti, probabilmente romani, i soggetti biblici da rappresentare, descritti fin nei minimi dettagli. Sono sopravvissute anche vere e proprie «note di servizio» appuntate dal capo miniatore, che avvisa il suo assistente di lasciare lo spazio vuoto perché sarà lui stesso a eseguire l’immagine, o note di correzione: «Ista figura est male facta»: «Questa figura è fatta male».

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Il termine «miniatura» non deriva da deminuere, ma da minium, la sostanza che oggi i chimici identificano con l’ossido salino di piombo, usato per proteggere dall’ossidazione le strutture di ferro, ma che nell’età classica e nel Medioevo era il cinabro, cioè il solfuro di mercurio. In origine, «miniare» significava scrivere con l’inchiostro rosso i titoli dei testi, le rubriche, le iniziali, i segni di paragrafo; col tempo, il termine ha acquisito un senso piú largo, fino a comprendere l’intero apparato decorativo e illustrativo di un libro manoscritto. Nella lingua italiana, «miniatura» ha però significati diversi: designa dipinti autonomi, di piccole dimensioni, eseguiti su carta, avorio, rame; ricostruzioni in scala di ambienti reali per usi scenografici; in senso estensivo o figurato indica «lineamenti precisi e aggraziati» o «un lavoro eseguito con grande precisione, ricchezza di particolari e finezza». Questa ambiguità ha pesato e pesa ancora oggi sulla valutazione della miniatura, spesso considerata solo una forma ridotta della pittura, una «pittura in piccolo», mentre ha caratteri specifici legati alla tecnica, alle funzioni, ai mezzi espressivi, al tipo di fruizione e al pubblico cui si rivolge. Occorre sempre tener presente che la miniatura è strutturalmente legata al testo che illustra e all’oggetto-libro per il quale è stata concepita e dal quale non è corretto separarla. Proprio perché considerate solo «piccole pitture», le miniature sono state – e purtroppo sono ancora – ritagliate e asportate dai libri, sfigurate materialmente e concettualmente e ridotte a «quadretti».

In alto pagina miniata da un’edizione del Commentario all’Apocalisse di Beato di Liebana realizzata nel monastero spagnolo di San Salvador de Tábara. 945 circa. New York, Pierpont Morgan Library. A destra Alfonso II d’Aragona, detto il Trovatore, dispone il riordino dell’Archivio Reale, nel frontespizio del Liber feudorum maior. Fine del XII sec. Barcellona, Archivio della Corona d’Aragona. Nell’angolo in basso, a sinistra è rappresentato un copista al lavoro.

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Altri promemoria per i miniatori sono i disegni sommari preliminari o le cifre che fissano il numero e il tipo di iniziali da eseguire in ciascun fascicolo, annotandone a volte anche il prezzo, o i motivi scelti per tappezzare gli sfondi – lo per losangé, un fondo a losanghe, mo per mosaiqué, qua per quadrillé, diapré per un fondo a motivi vegetali – o ancora sigle che individuano, all’interno dei vari campi da colorare, quale tinta usare. Un vero e proprio «codice cromatico» è stato individuato nel disegno dell’Ascensione di un manoscritto cassinese della seconda metà dell’XI secolo (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, 99): sulle vesti dei personaggi una mano coeva all’esecuzione dell’Omiliario ha appuntato il nome abbreviato dei pigmenti – ocrea, cinnaberin, cianus, robeus, caucecaumenum, ossia ocra, rosso cinabro, azzurro, rosso lacca, verde – che, essendo il codice incompiuto, non sono in realtà mai stati stesi sulla pergamena.

Miniatori laici

Le istruzioni scritte, spesso in volgare, ci parlano della complessità dei processi della creazione artistica e dei problemi che il miniatore deve risolvere, ma anche del suo stato sociale, della sua capacità di leggere, dell’idioma in cui si esprime. Non solo: le annotazioni riflettono le diverse pratiche di produzione dei libri medievali. Esse infatti aumentano considerevolmente a partire dagli anni fra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, quando cioè, per rispondere alla domanda di un pubblico di fruitori cresciuto e profondamente cambiato, comincia ad affermarsi la figura professionale del miniatore laico, che non opera piú tra le mura di un monastero o di una scuola cattedrale, fianco a fianco con lo scriba e col capo scriptorium, ma in officine specializzate, installate soprattutto nelle città universitarie. Queste

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officine sono spesso distanti l’una dall’altra e in esse vige la divisione del lavoro e la collaborazione tra diversi artigiani che, lavorando contemporaneamente allo stesso codice, hanno bisogno di sapere in dettaglio come operare. Nel colofone della Bibbia donata al re Carlo V dal suo valet de chambre, Jean de Vaudetar (L’Aja, Rijksmuseum Meermanno-Westreenianum, B. 10.23), lo scriba Raoulet d’Orléans racconta che per star dietro all’esecuzione delle miniature ha dovuto correre su e giú per le strade di Parigi, sotto la pioggia, mattina e sera: «pour lesquelles (per le miniature) il en a faites plusieurs alées et venues, soir et matin parmi les rues, et mainte pluye sus son chief, ains (avant) qu’il en soit venu a chef». Le note scritte, cifrate o visive, rivelano le tappe intermedie tra la ste-

Pecetto Torinese, chiesa di S. Sebastiano. Particolare di una delle volte del presbtierio che accoglie la raffigurazione degli evangelisti nella quale si vedono alcuni libri conservati in una cassapanca. L’affresco, databile fra il 1440 e il 1450, viene da alcuni attribuito a un ignoto Maestro di Pecetto e da altri al pittore piemontese Guglielmetto Fantini.

sura del testo e la sua illustrazione. Altrettanto preziosi per ricostruire i vari stadi di esecuzione delle miniature sono i manoscritti dove queste non furono completate. Un Esateuco in inglese antico del secondo quarto dell’XI secolo, eseguito a Canterbury (Londra, British Library, ms. Cotton Claudius B. IV), contiene uno dei piú ricchi cicli illustrati medievali dell’Antico Testamento, ben 394 miniature, molte delle quali non finite o appena cominciate. Esse testimo-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

niano quasi minuto per minuto tutte le fasi della creazione di una miniatura, dallo spazio lasciato bianco dallo scriba, al disegno preliminare tracciato con lo stilo di piombo e poi ripassato a pennello; alla stesura dell’oro, posato sempre per primo in modo da poter essere brunito e rifinito senza pericolo di rovinare altri colori; alla stesura delle tinte dei fondi e man mano delle vesti e degli incarnati, delle ombre, delle lumeggiature, fino ai particolari dei panneggi e dei tratti fisionomici. Alla fine di questo lungo e complesso lavoro, il miniatore può a buon diritto affidare la sua memoria alle firme – celebri sono le firmelabirinto dei manoscritti spagnoli altomedievali, dove intere pagine «a tappeto» ripetono e magnificano il nome degli artisti – o agli autoritratti. Per restare in Spagna, se Emeterius si ritrae insieme allo scriba Senior e a un anonimo pergamenario mentre, nello scriptorium ricavato in una stanza adiacente alla torre campanaria del monastero di Tavara, lavora alla decorazione del Commento all’Apocalisse del Beato di Liebana (Madrid, Archivio Storico Nacional, Cod. 1240) terminata nel 970, e sottolinea la fatica dell’impresa durata tre mesi – «O turre Tabarense, alta et lapidea, insuper prima teca ubi Emeteri-

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In alto miniatura raffigurante Cornelio Nepote che trova in un tipico armadio per libri l’Historia de excidio Troiae di Darete Frigio, da un’edizione del Roman de Tristan. 1340-1350. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

us tribusque mensis curvior sedit et cum omni sua membra calamum conquassatus fuit» (O alta e lapidea torre Tabarense, dove, al primo piano, Emeterio, sempre piú curvo, rimase seduto tre mesi e sfibrò il calamo con tutte le sue forze) –, con tutt’altro spirito il collega e contemporaneo Florentius esprime la sua soddisfazione raffigurandosi col discepolo Sancius sotto l’omega conclusiva della Bibbia di Valeranica (León, Collegiata di S. Isidoro, Cod. 2) mentre brinda alla fine dell’opera.

Spazi ampi e solenni

Se pensiamo a una biblioteca medievale l’immagine che viene a materializzarsi davanti ai nostri occhi è certamente quella di uno spazio ampio e solenne, in cui spiccano imponenti i banconi su cui poggiano codici di grandi dimensioni dalle legature preziose, dai vividi colori e con lucenti e preziose lamine di metallo pregiato. La stessa immagine, insomma, che ancora oggi potremmo vedere entrando per esempio

nella suggestiva Biblioteca Malatestiana di Cesena. Ma questa rappresentazione corrisponde solo in parte alla realtà, anzi corrisponde a una delle tante possibili fisionomie delle biblioteche medievali che, nel corso dei secoli, hanno vissuto profonde evoluzioni, tanto da assumere strutture assolutamente opposte le une dalle altre. Le differenze cronologiche determinano le differenze degli spazi in cui le raccolte librarie erano conservate, ma si sostanziano anche nell’evoluzione delle funzioni assolte dalle raccolte librarie e anche dei gennaio

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modi attraverso i quali si descrivevano le fisionomie delle raccolte e, ancora, nella diversità delle figure e dei ruoli delle persone legate ai libri. Facciamo qualche esempio e partiamo dai luoghi in cui fisicamente venivano conservati i libri. Nei secoli iniziali del Medioevo le biblioteche non sono ambienti autonomi e organizzati, ma occupano spazi diversi, in modo quasi casuale; entrano in particolare nelle sacrestie, dove si conservavano soprattutto i libri necessari per le funzioni liturgiche, ma anche in luoghi piú appartati e protetti, che a volte possono essere le sacrestie stesse, e che sono quelli in cui si conservano A sinistra la sala di lettura della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, con i plutei che, secondo Vasari, furono realizzati dagli intagliatori Giovan Battista del Cinque e Ciapino seguendo i disegni di Michelangelo.

i tesori. I libri, infatti, fanno di norma parte del tesoro, il tesoro di un monastero oppure di un sovrano o di una famiglia aristocratica. Ecco allora che entrano in gioco ruolo e possessori dei libri: è ben noto che, nell’Alto Medioevo, i libri rappresentano un bene statico, destinato a una fruizione collettiva e rarefatta, appannaggio di élites ristrette e istituzioni religiose, soprattutto benedettine. Dal XIII secolo essi diventano, invece, un bene dinamico, oggetti in continuo movimento che passano attraverso

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le mani di studenti, di mercanti, ma anche di predicatori e di collezionisti, destinati come sono a soddisfare esigenze diverse e moltiplicate, da quelle dello studio intenso e individuale a quelle del diletto personale o dell’edificazione privata, ma anche dell’educazione morale e spirituale delle masse o del fervore bibliofilo di ricchi esteti.

Mutamenti ed evoluzioni

A fronte di questa nuova e spiccata versatilità del libro, cambia inevitabilmente la struttura delle biblioteche, che riescono a guadagnarsi uno spazio autonomo, diventando appunto un luogo fisico ben organizzato, una sede autonoma che rimane nel tempo spesso immutata e intatta, come avviene per esempio nel caso di alcune grandi e famose biblioteche francescane: si pensi alla biblioteca del Convento del Santo di Padova e a quella del Sacro Convento di Assisi, ambedue fondate agli inizi della storia dell’Ordine, dunque del Duecento, e tuttora vive e attive. Un riflesso di questo intreccio di cambiamenti ed evoluzioni si può osservare anche nei testi degli inventari delle biblioteche, che da registrazioni casuali e sintetiche, spesso scritte quasi distrattamente, come sono quelle altomedievali,

In alto Sisto IV affida la Biblioteca Vaticana a Bartolomeo Platina, affresco della cosiddetta «corsia Sistina» dell’ospedale romano di S. Spirito in Sassia. Ultimo quarto del XV sec. Si noti la disposizione dei plutei-scaffali, i cosiddetti «banchi».

diventano progressivamente elenchi redatti con cura e con dovizia di particolari, in cui ogni volume è descritto con attenzione ed è talmente riconoscibile che è possibile identificarlo con certezza ancora oggi. Se negli inventari dei codici appartenuti al capitolo della cattedrale della città tedesca di Augusta, databili alla metà dell’XI secolo, i singoli volumi sono indicati solo con un secco richiamo al loro contenuto, in quello della biblioteca di Assisi, redatto con grande cura nel 1381 dall’allora bibliotecario, fra’ Giovanni di Iolo, e del quale abbiamo ben due redazioni, il solerte conservatore non si limita a informarci sul contenuto dei libri: ce ne descrive la decorazione e la legatura, oltre che qualche volta la scrittura, e, soprattutto, ci fornisce la segnatura. Ci dà insomma una tale messe di informazioni che è possibile riconoscere ancora, fra quelli tuttora conservati, i codici corrispondenti a quelle precise descrizioni!

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Un gioiello sulla riva del Naviglio di Maria Paola Zanoboni

Il complesso di S. Cristoforo, composto da due distinti edifici affiancati e costruito sul luogo di un antichissimo luogo di culto pagano, figura tra le piú piccole chiese di Milano. Tanto piú grande è, invece, la sua importanza come scrigno d’arte e come luogo di eventi davvero memorabili

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ostituita da due chiese affiancate, le origini della piú antica delle quali risalgono alla notte dei tempi, S. Cristoforo sul Naviglio Grande milanese è stata a lungo ritenuta un esempio del tipo architettonico noto come «chiesa doppia», diffuso in varie parti d’Europa (Francia, Spagna, Russia, e Lombardia appunto), e caratterizzato da due edifici di culto della stessa epoca affiancati e costruiti simultaneamente per ragioni ancora sconosciute (si sono ipotizzati motivi climatici che portavano alla realizzazione di una chiesa invernale e di una estiva; oppure ragioni dovute alla volontà di dedicare una parte specifica dell’edificio al culto di un martire, lasciando l’altra alle funzioni ordinarie). Nulla di tutto questo per la chiesetta sul Naviglio milanese, che, pur essendo dedicata al culto di un martire, e pur essendo formata da due distinti edifici affiancati, non rappresenta il risultato di un progetto in tal senso, ma, semplicemente, la giustapposizione di costruzioni lontanissime fra loro nel tempo, e che furono unite a formare un corpo unico soltanto intorno al 1625, con l’eliminazione della parete che le separava. Sulle origini della chiesa piú antica (quella di sinistra) non rimangono documenti, ma solo indizi «trasversali» e citazioni di autori tardi. La prima attestazione che ne testimonia l’esistenza risale all’inizio del Trecento (Liber Notitiae Sanctorum Mediolani), mentre alla fine del secolo (12 dicembre 1398) il duca Gian Galeazzo Visconti, ordinando al comune di Milano di ripristinare il ponte esistente davanti alla chiesetta, accollandosene la manutenzione, menzionava contemporaneamente quest’ultima come esistente da «tempo immemorabile». Soltanto alcuni indizi successivi portano a collocare la

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sua costruzione con maggiore esattezza: in primo luogo una visita pastorale di san Carlo Borromeo (1567) che, tra gli oggetti presenti in S. Cristoforo, elencava alcune reliquie risalenti alle crociate, cosa che lascia ipotizzare la sua edificazione all’inizio del XII secolo. In secondo luogo il racconto del cronista trecentesco Galvano Fiamma, il quale narra come nel 1176, mentre si combatteva la battaglia di Legnano, i primi ad avere la notizia della vittoria dei Milanesi contro Federico Barbarossa furono proprio i cittadini riunitisi a pregare nella chiesetta, che costituiva il punto piú vicino al campo di battaglia. Ancora Galvano Fiamma racconta che nel 1329 le truppe di Ludovico il Bavaro in lotta contro Azzone Visconti si accamparono nel tempietto sul Naviglio.

Ercole cristianizzato

Se in questo modo si è riusciti a ricostruire approssimativamente l’epoca dell’edificio piú antico, va precisato – come messo in evidenza da Alessandro Tamborini, il principale studioso di S. Cristoforo – che esso venne realizzato su una struttura antichissima, forse un tempietto pagano del V secolo, e di poco posteriore all’epoca di Massimiano (285-310), periodo in cui andò diffondendosi il culto del santo martire, nel quale la leggenda e la tradizione popolare avrebbero visto la figura cristiana analoga a quella pagana di Ercole. A Ercole appunto erano intitolate sia Porta Ticinese, sia le non lontane terme di S. Lorenzo fatte realizzare da Massimiano e di cui rimangono ancora le colonne, nella stessa zona della città in cui si trova la chiesetta sul Naviglio. Una leggenda narra infatti che il santo (martirizzato in Licia nel 250, sotto Decio), di grandezza erculea, sarebbe stagennaio

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Gli affreschi dell’abside della chiesa di S. Cristoforo sul Naviglio, attribuiti alla scuola del Bergognone e databili al tardo Quattrocento. Le pitture raffigurano un Dio Benedicente,i simboli degli evangelisti e i santi titolari del tempio.

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Parco Guido Vergani

San Cristoforo sul Naviglio

A sinistra lavandaie sul Naviglio, nei pressi della chiesa di S. Cristoforo, in una foto degli anni Cinquanta.

to un soldato al servizio dell’imperatore. Convertitosi al cristianesimo, avrebbe portato Gesú Bambino sulle spalle per aiutarlo ad attraversare un fiume (Cristoforo deriverebbe appunto da Christus fero). Da qui la scelta del sito per la chiesetta originaria, lungo un fiume, il Lambro meridionale, che scorreva in quella zona prima che fosse scavato il Naviglio. Nel 1211 il tratto di Naviglio antistante la chiesa esisteva già.

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Intorno al 1270 all’antica chiesetta romanica fu aggiunta un’abside a volta con arco a tutto sesto (trasformato poi in sesto acuto), ornato all’esterno da archetti in terracotta intrecciati, abbelliti da decorazioni zoomorfe. Un secolo piú tardi venne realizzato il magnifico portale ad arco acuto in cotto, con un rosone centrale squisitamente decorato, di chiara derivazione nordica francese. Fu ornato da vetri multicolori fino al gennaio

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A sinistra mappa dell’area urbana milanese con la localizzazione della chiesa di S. Cristoforo sul Naviglio. In basso la vetrata policroma, di epoca moderna, che chiude una delle finestre della «cappella ducale».

Porta Nuova

Giardini Indro Montanelli

Parco Sempione

Castello Sforzesco

Museo di Storia Naturale

Pinacoteca di Brera

Stazione di Milano Cadorna Santa Maria delle Grazie

Museo Civico Archeologico

Duomo di Milanoa

Basilica di Sant’Ambrogio

Basilica di Sant’Eustorgio Porta Ticinese

Parco Ravizza

1725, quando sulla facciata interna della chiesa venne collocato un organo (ora non piú esistente). Due mensole marmoree finemente scolpite vennero poste a sostegno dell’architrave della porta. Alla stessa epoca risalgono gli affreschi delle pareti interne.

L’ospedale per i pellegrini

Un ospedale per accogliere e rifocillare i numerosi pellegrini e viandanti che passavano per quella strada (molto frequentata perché conduceva a Porta Ticinese, importante polo commerciale cittadino), venne costruito nella seconda metà del Trecento, di fronte alla chiesa, per iniziativa di frate Pietro da Tavernasco e col sostegno dell’arcivescovo Guglielmo Pusterla che, nel 1364, aveva lanciato una sottoscrizione per l’edificazione della struttura assistenziale. La costruzione della seconda chiesa (quella di destra), la cosiddetta «cappella ducale», risale sicuramente ai primissimi anni del Quattrocento, come dimostrano gli stemmi dei Visconti (il biscione), dell’arcivescovo Pietro Filargo – il futuro Alessandro V– (un sole raggiante e un cappello prelatizio), e del comune di Milano (una croce rossa in campo bianco) posti sopra il portale d’ingresso, insieme alla data di consacrazione, avvenuta il 1° settembre 1404 (o 1405)

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medioevo nascosto lombardia A sinistra planimetria della chiesa di S. Cristoforo sul Naviglio. A destra un’immagine che mostra la giustapposizione fra S. Cristoforo (a sinistra) e la cappella ducale. Nella pagina accanto la parete sinistra della chiesa di S. Cristoforo. In basso Crocifissione, affresco di Bassanolo de Magistris. 1405 circa. Alla sinistra del Cristo, le pie donne, con al centro Maria, colta nel momento dello svenimento; sulla destra, san Giovanni Evangelista, alle cui spalle un santo vescovo, che con la mano destra regge un calice, tocca con la sinistra il capo di un devoto.

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sotto il duca Giovanni Maria Visconti, come documenta una lapide corrosa dal tempo (la costruzione era stata iniziata però sotto Gian Galeazzo). Una leggenda nata nel Seicento collegherebbe la sua fondazione a un voto del duca per liberare la città dalla terribile pestilenza che l’aveva colpita nell’anno 1400. In realtà, l’edificazione avvenne per iniziativa di alcuni milanesi non meglio identificati che, nel 1398, (cioè due anni prima dell’epidemia) chiesero a Gian Galeazzo Visconti licenza di costruire una chiesetta, accanto a quella già esistente, e su un terreno di proprietà del Comune, per celebrare la battaglia di Alessandria (1391) in cui il duca aveva sconfitto il conte d’Armagnac, chiamato in Italia dai Fiorentini. Essa fu dedicata ai santi Giovanni, Giacomo, Cristoforo e Cristina, ma è nota comunemente come «cappella ducale». Si tratta di un’elegante costruzione appoggiata alla chiesa piú antica, con volta a due campate a sesto acuto, divise in vele da cordonature a mattoni rotondi e lisci. Sulla facciata si aprivano due finestre, poi murate, ornate da vetrate multicolori recanti gli stemmi ducali, e al centro un rosone. Contemporaneamente alla cappella fu costruita la sagrestia, di forma quadrata, con volta a sesto acuto, cordonature a mattoni lisci arrotondati, che si intrecciano in corrispondenza di una formella in

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terracotta raffigurante san Cristoforo. Sul lato verso il naviglio un’elegante finestra in terracotta a sesto acuto, con gruppi di colonnine decorate. Durante l’epidemia di peste del 1630, dietro la sagrestia piú antica venne costruito un ossario di forma ottagonale, in stile barocco, divenuto poi una seconda sagrestia. Il campanile sembra sia stato edificato contemporaneamente all’abside: in origine era molto piú basso dell’attuale, e le campane si trovavano in corrispondenza delle finestre in seguito murate. Nel XV secolo venne sopraelevato con l’attuale cella campanaria aperta sui quattro lati con arcate a sesto acuto. La sua forma con cuspide a cono è tipica espressione dell’architettura sacra dell’epoca e richiama altre chiese milanesi coeve, come S. Marco e l’Incoronata. Entrambe le chiese erano interamente affrescate sia all’interno che all’esterno. All’esterno venne raffigurata in epoche diverse l’effigie di san Cristoforo di grandi dimensioni, perché risultasse visibile anche da lontano ai viandanti di cui il santo era ed è protettore (piú recentemente divenne il patrono degli automobilisti).

Pitture di pregevole fattura

La chiesa piú antica conserva al suo interno affreschi tardo-quattrocenteschi di pregevole fattura attribuiti alla scuola del Bergognone (1453-1523): sulla parete sinistra una Madonna in trono con Bambino e santi, e un riquadro di identico soggetto di cui rimangono soltanto San Giovanni Battista, la Maddalena e Sant’Antonio abate. Sull’arco che conduce all’abside è appena visibile un’Annunciazione molto rovinata. L’abside, i cui affreschi sono invece molto ben conservati, è completamente decorata con pitture attribuibili alla scuola del Luini, raffiguranti nella vela centrale della volta Dio Benedicente sopra le nuvole, sostenuto dagli angeli; in quelle laterali i simboli

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medioevo nascosto lombardia degli Evangelisti; i santi a cui la chiesa è dedicata sulla parete centrale e su quelle laterali sottostanti; tondi con busti di santi lungo l’arco a sesto acuto che conduce all’abside. Sul lato sinistro dell’arco si può ammirare un Cristo Benedicente di fattura bizantina, (fine del XII-inizi del XIII secolo), vera rarità nel territorio milanese. Nella chiesa piú recente (la «cappella ducale») i due affreschi meglio conservati si trovano sulla controfacciata. Una Madonna in trono affiancata da due santi, recante negli angoli gli stemmi delle famiglie Alciati e Landriani (i probabili committenti), è firmata dal pittore Bassanolo de Magistris, che la realizzò intorno al 1405 mantenendosi fedele alla cultura pittorica del secolo precedente. I santi che affiancano la Madonna sono probabilmente opera di Stefano, figlio di Bassanolo, attivo presso i cantieri del Duomo e del Castello. Immediatamente sotto il riquadro con la Madonna è raffigurata una Crocifissione dello stesso autore. Quasi completamente distrutta, invece, è un’altra grande Crocifissione, che richiama l’arte degli Zavattari (gli autori degli affreschi della cappella della regina Teodolinda a Monza), e che occupava tutta la parete di fondo. Già in pessime condizioni per le mutilazioni dovute all’installazione di un altare monumen-

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Veduta d’insieme del complesso di S. Cristoforo sul Naviglio. Oltre a essere un importante polo devozionale, il sito ebbe sempre una notevole importanza strategica, poiché situato sulla strada che entrava a Milano per Porta Ticinese, nonché sul Naviglio Grande.

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tale poi rimosso, venne ulteriormente danneggiata nel 1970 da una molotov lanciata nella chiesa dopo che il dipinto era stato appena restaurato. L’affresco rimase completamente annerito per oltre vent’anni, e neppure un recente recupero ha potuto riportarlo allo stato precedente: la parte inferiore del Crocifisso è andata irrimediabilmente perduta. Degna infine di attenzione una Madonna con Bambino nello stile del Luini, oggetto di particolare devozione popolare.

Sulla via d’accesso alla città

Come accennato, la chiesetta, situata in prossimità della città, sulla strada che conduceva a Porta Ticinese, rappresentava un punto strategico fondamentale per l’accesso a Milano, reso ancora piú importante dalla presenza del Naviglio Grande, collegato a tutte le altre vie d’acqua che giungevano al centro cittadino, e sul quale transitavano tutte le merci e gli approvvigionamenti destinati alla capitale del ducato visconteo-sforzesco. Uno snodo cruciale, dunque, tanto dal punto di vista commerciale che da quello militare. Non c’è da

stupirsi perciò se S. Cristoforo costituí a piú riprese il palcoscenico di importanti eventi: la già accennata notizia della vittoria nella battaglia di Legnano (1176), appresa appunto in questo luogo; l’accamparsi qui delle truppe di Ludovico Il Bavaro nel 1329; l’incontro tra Beatrice d’Este (che veniva da Ferrara) e Ludovico il Moro, avvenuto in questa chiesetta il giorno precedente le nozze (1° febbraio 1491). Da S. Cristoforo il maestoso corteo sfilò poi verso S. Eustorgio, e il giorno seguente gli sposi, vestiti di bianco, tra schiere di paggi, cortigiani, trombettieri, nobili e autorità, seguiti da 50 donzelle a cavallo, si recarono in Duomo per le cerimonie religiose, a cui seguirono le feste che Leonardo da Vinci aveva preparato (la «festa del Paradiso»). Ancora a S. Cristoforo si accampò, nel 1515, l’esercito francese, con 300 cavalieri e 7000 fanti, per negoziare con le autorità cittadine, e da qui poi mosse alla conquista di Milano. Secondo una leggenda, nella chiesa sarebbe stato sepolto in gran segreto, trasportato lungo il Naviglio a lume di candela in una notte d’estate, Matteo Visconti, morto scomunicato il 24 giugno 1322.

Da leggere Alessandro Tamborini, La chiesa di S. Cristoforo sul Naviglio, Tipografia Card. Ferrari, Milano 1923 Raffaele Bagnoli, San Cristoforo sul naviglio nella tradizione milanese, Tip. F.lli Calvi, Milano 1939 Fermo Roggiani, La chiesa di San Cristoforo e il Naviglio grande, Arti grafiche Fiorin, Milano 1985 Marino Ronchi, I dipinti della chiesa di San

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Cristoforo sul naviglio, in «Città di Milano», aprile 1962 Damiano Spinelli, La decorazione tardogotica di San Cristoforo sul Naviglio a Milano. Novità documentarie e proposte attributive, in «Arte Lombarda», 2012, fasc.1-2; anche on line su academia.edu

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Storie, uomini e sapori

A sinistra fiori di luppolo (Humulus lupulus). Si impiegano nella fabbricazione della birra, a cui conferiscono il caratteristico sapore amaro. Nella pagina accanto Monaco seduto con un boccale di birra, olio su tavola di Eduard von Grützner. 1904.

Santa birra! di Sergio G. Grasso

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l tempo dell’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, nella seconda metà del I secolo d.C., i vigneti italiani erano quanto mai rigogliosi e il commercio del vino seguiva la sempiterna regola del mercato: alta la disponibilità, buona la qualità, contenuto il prezzo e consumo diffuso in tutte le classi sociali. Attratti dai facili guadagni molti proprietari terrieri iniziarono a convertire le terre da cereali in vigneto, incuranti del fatto che Roma, popolata da circa un milione di persone, dovesse importare ogni anno piú di tre milioni di quintali di grano per far fronte alle distribuzioni gratuite di pane a quel terzo della popolazione che rappresentava la «plebe frumentaria». Nel 92 d.C., l’imperatore Domiziano tentò di porre freno allo smodato

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consumo di vino, emanando un editto che vietava nuovi impianti di vigneti in Italia e imponeva la distruzione di almeno metà delle viti in tutte le province dell’impero.

Orzo al posto dell’uva L’editto, mai pienamente applicato, fu abrogato da Probo due secoli piú tardi, quando l’impero si era ormai spaccato in due fazioni: quella del vino e quella della birra. In Spagna, Gallia e Illiria, i campi d’orzo e di frumento s’erano sostituiti ai vigneti, e alle popolazioni «assetate» non restava che far fermentare il mosto d’orzo in sostituzione di quello d’uva. I Gallo-Romani diedero alla bevanda spumeggiante e dorata il nome di cervisia, in onore di Cerere; gli Spagnoli la chiamarono certa o celia, cioè «frumento bollito» mentre

in Illiria fu battezzata sabaium (gustoso), da cui deriverebbe il nome dello zabaione, la deliziosa e spumosa crema di uova e vino che si produceva allora con la birra. Imploso l’impero, tra l’VIII e il X secolo si assistette a un notevole incremento della produzione e del consumo di birra, che presto divenne soggetta a tassazione. I monasteri, anche perché esenti da imposte e gabelle, ne divennero i pioneristici sperimentatori e produttori, trasformando la loro perizia tecnica in un’importante risorsa economica. Tra orzo e frumento, entrambi intensamente coltivati nelle proprietà di molte abbazie, i frati preferivano il primo, piú ricco di enzimi – che trasformano gli zuccheri in alcol e anidride carbonica – e di carboidrati, che gli conferiscono un alto potere gennaio

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germinativo, in grado di trasformarlo rapidamente in malto. Il frumento, al contrario, manifesta una minore attività fermentativa, ma è anche privo del rivestimento protettivo dei chicchi, fattore che li rende piú vulnerabili durante il processo produttivo. Quella che per noi è la birra-bevanda è da sempre anche birra-alimento, in tutto simile al pane. Gli ingredienti sono gli stessi – cereali, acqua, lievito – e i risultati finali sono molto simili: carboidrati, grassi e proteine in entrambi, con il supplemento

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nutrizionale dell’alcool nella birra. Per questo motivo gli abati autorizzavano i loro monaci a consumare quel «pane liquido» senza il timore di infrangere i digiuni imposti dalla regola.

Sette litri al giorno per le sorelle Ma non basta: per soddisfare la sete causata da carni e pesci conservati quasi sempre sotto sale, i monasteri che non possedevano vigne lasciavano i frati liberi di bere birra ad satietatem; né le badesse erano meno liberali, visto che in alcuni registri di clausura ne risultavano

concessi fino a sette litri al giorno per monaca. A dimostrazione del fatto che la birra non era considerata una bevanda plebea o di soccorso, bastano i resoconti di spesa del concilio di Aquisgrana dell’862, da cui si apprende che i valletti servivano ai severissimi padri conciliari quattro litri di birra al giorno ciascuno. Un notevole impulso al consumo di birra nell’Alto Medioevo fu dato dalla generale scarsità di acqua potabile. Quella dei pozzi e dei fiumi era spesso contaminata e molti antichi acquedotti erano stati gennaio

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distrutti dai barbari. Grazie alla bollitura, tutta l’acqua impiegata nella produzione della birra diventava potabile e in tempi di epidemie, pestilenze e scarsa igiene i monaci tutelavano la salute di chi lavorava le loro terre, assegnando a ogni contadino un congruo quantitativo di birra. Tra le abbazie medievali in cui si produceva birra, va riconosciuto il primato di quella laziale di Montecassino, in cui nel VI secolo e per 25 anni visse san Benedetto da Norcia e dalla quale, alla metà del

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un monaco intento alla preparazione della birra, dall’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung (Registro della Fondazione Mendel dei dodici fratelli). 1425 circa. Norimberga, Stadtbibliothek. A sinistra il lavoro in una birreria, replica di una tavola realizzata dall’incisore svizzero Jost Amman, per l’opera Eygentliche Beschreibung aller Stände auff Erden..., un trattato sulle arti e i mestieri pubblicato per la prima volta a Francoforte nel 1568. A destra vetrata policroma raffigurante la concessione del diritto a produrre birra, uno dei privilegi reali concessi al vescovado di Tournai (Belgio). 1490 circa. Tournai, cattedrale di Notre-Dame.

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CALEIDO SCOPIO Un particolare dell’allestimento della sezione storica del Museo nazionale della birra di Bruxelles.

600 usciva, documenti alla mano, la piú antica birra d’abbazia d’Europa. Verso il 760 iniziano a produrla i benedettini di Weihenstephan, nei pressi di Monaco di Baviera, seguiti a ruota dai monaci dall’abbazia di Gorze in Mosella. Nell’abbazia di S. Gallo in Svizzera fu messo a punto un sistema che permetteva di ottenere tre prodotti diversi dal medesimo mosto: la birra melior, ricca di zuccheri e destrine per gli abati e gli ospiti importanti; la regular, di medio corpo per il consumo quotidiano dei monaci; e la tertia, piú diluita, leggera e di minor valore, destinata a mendicanti e viandanti. Le prime corporazioni laiche di birrai compaiono a Londra e in Norvegia poco dopo l’anno Mille, in un’epoca in cui per conferire aroma e sapore alla birra si utilizzava largamente la materium cerevisiae, detta anche gruyt, una miscela segreta di erbe e spezie amaricanti, balsamiche e antisettiche preparata solo da speziali autorizzati e nella cui formulazione entravano spesso il mirto, il ginepro, lo zenzero, il cumino, l’anice, la noce moscata e il luppolo. Sul gruyt gravava una pesante tassazione, applicata obbligando i produttori, monasteri inclusi, ad acquistarne in proporzione alla quantità dei cereali

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impiegati. Nella serenità dell’abbazia di St. Rupert in Germania, santa Ildegarda di Bingen, monaca benedettina ed esperta botanica, sperimentò alla metà del 1100 le proprietà stabilizzanti e conservanti del luppolo. Nel suo Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, Ildegarda ne parla cosí: «Il luppolo è caldo e secco, contiene un po’ di umidità e non presenta grande utilità per l’uomo, poiché aumenta in lui la melanconia, provoca tristezza nella mente e appesantisce le viscere. Tuttavia, grazie alla sua amarezza, blocca la putrefazione di certe bevande alle quali lo si aggiunge, al punto che possano conservarsi molto piú a lungo».

Una bevanda buona e nutriente Il consiglio della santa fu subito messo in pratica, tanto che nel 1268 il prevosto di Parigi Etienne Boileau vergava sul suo ponderoso Livre des Métiers: «Noi birrai non possiamo né dobbiamo produrre cervogia se non di luppolo e di cereali; ovvero d’orzo e di cereali mescolati». Il risultato era una bevanda non filtrata, ricca di buone proteine, che soddisfaceva il palato saziando il ventre e a cui proprio il luppolo, al posto del gruyt, conferiva preziose note amaricanti, eccellenti caratteristiche antibatteriche e utilissime doti conservanti.

Nel XV secolo il consumo di birra eguagliava quello del vino e nelle regioni del Centro e del Nord, dove la vite non aveva vita facile, lo superava. Per contrastare le inevitabili frodi, alcune corporazioni birrarie si erano dotate di ispettori specializzati, che visitavano sia i laboratori di produzione, sia i locali di vendita e mescita. Chiamati eswarts nelle Fiandre e bierkieser in Alsazia, questi controllori adottavano un sistema tanto poco scientifico quanto efficace per verificare che la birra fosse conforme ai regolamenti: ne versavano un po’ sulla sedia di legno e vi si sedevano sopra. Se dopo un’ora, alzandosi, le loro braghe di pelle restavano attaccate alla sedia, significava che la birra era conforme alle normative imposte; in caso contrario, quella birra troppo leggera veniva dichiarata senza appello cervisia debilis e il fedifrago, oltre a pagare un’ammenda era obbligato a venderla a un prezzo piú basso. Nel XVI secolo la birra divenne un appannaggio di Fiamminghi, Bavaresi e Olandesi, poiché il luppolo era coltivato estensivamente in Fiandra e in Baviera, dove il clima gli era propizio. Entrava cosí in vigore nel 1516 il cosiddetto «Editto di Purezza» (Reinheitsgebot) con il quale Guglielmo IV di Baviera ordinava che la birra dovesse essere da allora in poi prodotta solo con malto d’orzo, luppolo e acqua. E cosí è ancora. Quanto a Gambrinus, il patrono (laico) della birra, in cui molti hanno voluto vedere il duca delle Fiandre Jan Primus di Brabante piuttosto che uno dei coppieri di Carlo Magno, è bene precisare che si tratta di un personaggio immaginario, uscito dalla penna del meistersinger tedesco Hans Sachs, che nel 1526 prese spunto dalla parola camb, birreria in antico olandese, e da cambatum, l’odiata imposta sulla birra. gennaio

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La storia è metodo LIBRI • Verificare le fonti è l’imperativo a cui nessuno

storico deve sottrarsi: una buona prassi piú che mai attuale in tempi di post-verità...

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oketto è una parola giapponese che in italiano non ha corrispettivo. Per tradurla, serve una locuzione, tipo «lasciar vagare lo sguardo in lontananza, senza pensare a niente», oppure si potrebbe tentare un’etimologia piú originale, facendo corrispondere a «boketto» un’intera poesia: l’Infinito di Leopardi, per esempio. Sí, perché «boketto» vuol dire proprio questo, guardare la siepe e perdersi nel pensiero oltre la recinzione... E nel nuovo libro di Tommaso di Carpegna Falconieri, si trovano riflessioni come questa. Riflessioni che prendono avvio dall’esegesi di una parola, da una notizia di cronaca, dai versi di una canzone pop, dalla domanda insistente di una figlia, fino ad arrivare a una lezione di metodo. Immagini che spaziano di disciplina in disciplina, che, in alcuni casi, rimbalzano dalla vita privata dell’autore fino alla politica, impiegate come paradigma di un metodo, quello storico. Quando i pensieri vagano all’indietro, somigliano a una ruspa che scava nel passato: se scava in modo disordinato, allora, è nostalgia, ma se si compie l’operazione in maniera sistemica – riorganizzando i fatti, catalogandoli, tracciando connessioni – stiamo invece storicizzando, produciamo storia individuale e collettiva. Possiamo storicizzare ogni singolo fatto che abbiamo vissuto, di cui siamo stati protagonisti, contestualizzandolo, calandolo dentro una stagione politica, un certo tono della società. Ma se possiamo farlo sulla nostra

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vita privata, altrettanto possiamo fare sulla storia: non è difficile, ci spiega l’autore, è questione di applicazione, di affinare la nostra capacità di analisi. Si tratta di acquisire conoscenze, perché dai dati, dalle fonti, e non dalle opinioni, si deve partire. Prima dell’analisi, è necessaria la disamina di quei dati e di quelle fonti, perché le fonti quasi mai sono neutre: talvolta non sono neppure veritiere, spesso ci giungono contraffatte, proprio come oggi le fake news, che sono notizie truccate e non false, come avverte l’autore. Se fossero false, sarebbero piú facilmente smascherabili, meno dannose, invece sono costruite ad arte, da un giocatore occulto, apposta per confonderci. La falsificazione delle notizie – afferma l’autore – non arriva con l’avvento del web o dei social: c’è sempre stata e in questo libro se ne ripercorrono tutti i prodromi illustri.

La Donazione che non c’era Ma che cosa c’entra il Medioevo in tutto questo? C’entra perché l’autore è un medievista e, nel dare la sua lezione di metodo, parte dall’epoca che conosce meglio e che è anche quella in cui il «falso storico», se proprio non fu inventato, ebbe sicuramente grande fortuna. Prova ne è la vicenda della falsa Donazione di Costantino. Non era un documento da niente, tutt’altro: con esso si dava fondamento al potere temporale dei papi, facendolo partire da Costantino, il quale, se

Tommaso di Carpegna Falconieri Nel labirinto del passato 10 modi di riscrivere la storia Editori Laterza, Bari-Roma, 216 pp. 18,00 euro ISBN 9788858141885 www.laterza.it non fu il primo imperatore cristiano, fu comunque il primo a emanare un editto di tolleranza sul cristianesimo. Quel documento venne per secoli ritenuto autentico, o meglio spacciato per autentico e sbandierato come tale dalla corte pontificia ogni qual volta l’impero minacciava o metteva in dubbio la legittimità del potere dei papi. E quel falso documento funzionò a lungo. Poi arrivò un filologo, di talento, Lorenzo Valla (1407-1457), il quale – test codicologici e paleografici alla mano – dimostrò che il documento era sí

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CALEIDO SCOPIO nato nel Medioevo, ma aveva molti meno anni di quanti ne dichiarava. Spie lessicali e grammaticali lo riconducevano indubitabilmente all’età carolingia, grande fucina di falsi storici e falsari. Ma non fu tanto il merito di aver svelato il trucco a consacrare la fama del Valla, quanto l’aver messo sul tavolo la questione: non fidarti mai di una fonte fin quando non hai scoperto il piú piccolo difetto, la passione piú insignificante, la pulsione meno significativa del suo autore e, se di cancelleria si tratta, allora cerca di scoprire tutto questo a proposito dei suoi committenti. Con un po’ di metodo si sarebbe potuti arrivare molto prima a capire che quel documento da secoli forniva false generalità, e persino un’indagine superficiale avrebbe dato certezza che il movente c’era, eccome: fare da supporto al potere temporale della corte pontificia. Dunque, l’intento ostinato del libro è affermare che la storia serve, e che ancora di piú serve il suo metodo. E, mai come oggi, è fondamentale apprendere quel metodo che insegna la storia, un vademecum con cui si arriva fino in fondo, con cui si scava fino al dato nudo, quello incontrovertibile, inoppugnabile, quello da cui ripartire, come fosse il filo sottile che può guidare i nostri passi fuori dal labirinto. Non ci vuole fiuto, ci vuole metodo, appunto. Bisogna ristabilire il fine con cui sono state scritte le fonti. Che non sono sacre: la patina del tempo che ha ingiallito la pergamena su cui le fonti sono riportate non basta da sola a farne un totem e il fatto che presentino spesso un sigillo autorevole, impresso su ceralacca d’epoca, non è sufficiente a renderle veritiere. Se non impariamo a decodificare, a decostruire gli elementi spuri, le palesi contraffazioni, le eventuali superfetazioni, rischiamo di credere che, per Antonio, Bruto fosse davvero un uomo d’onore! Dunque questo prescrive il libro:

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occhio nella selva dei falsari, perché essi non si accontentano quasi mai di battere moneta fasulla, ma puntano molto piú in alto, vogliono cambiare il corso della storia, pilotare la politica, manipolare le folle. Di falsari è pieno il Medioevo, ma è piena anche l’età post-moderna. Oggi, con gli stessi intenti che mossero l’autore della Donazione di Costantino, si scattano foto in Texas e poi si dice che invece sono scatti rubati sulle sponde del Golfo Persico... E però, con un po’ di metodo, si arriva alla verità, si arriva a chiedersi: un cormorano zuppo di petrolio? In gennaio? Nel Golfo Persico? Non è possibile! Per la buona ragione che in Kuwait i cormorani arrivano solo tre mesi dopo! Ma l’autore ci ricorda che quel cormorano serviva, nel gennaio del 1991, a gettare fumo negli occhi, a confondere l’opinione pubblica, a convincerla della necessità di portare guerra a Saddam Hussein. E qui deve intervenire il metodo: se c’è una foto, dev’esserci un fotografo e noi dobbiamo pretendere di sapere tutto su di lui per poter stabilire se al momento dello scatto avesse o meno interesse a raccontare «la sua verità». E comunque, avverte l’autore, «Raccontare la propria verità» è una contraddizione in termini!

Un’impresa possibile Il Primo comandamento impartito dal libro è quindi : controlla sempre le tue fonti! Non fare la figura del reporter sprovveduto, che spaccia per vero ciò che ha ripreso da fonti di seconda mano o che gli è stato venduto da un informatore improbabile. Affina i ferri del mestiere, non cadere negli inciampi della «realtà virtuale» perché la realtà virtuale non esiste, dice l’autore, anche questo è un ossimoro! Nessuna impresa impossibile, dunque, basta indagare, interrogarsi, scandagliare. Non ci vuole fiuto, solo metodo. Ed è la parola «metodo» quella che torna piú di frequente

nel libro, direttamente espressa o implicitamente sottintesa, quasi fosse la sua parola d’ordine, la sua chiamata alle armi. Anche se non sei un detective, anche se non lavori per i servizi segreti, anche non sei un affiliato di mafia – sembra dire l’autore –, non sentirti autorizzato a trascurare quel metodo e non dire che non sei in grado di applicarlo; fa’ come quando leggi una recensione negativa su Amazon: chiediti se chi spara a zero su una muta da sub sa almeno nuotare. Insomma, scandaglia, indaga, domandati, e nel frattempo chiedi alla storia, leggi la storia, studia la storia, impara dalla storia, perché contestualizzare le notizie e verificare le fonti è da sempre il suo mestiere. A dispetto di quanto dichiarato nel titolo, la storia non è un labirinto o, meglio, è un labirinto con uscita di sicurezza, con un solo senso di percorrenza. Ci vuole pazienza, occorre verificare i percorsi, eludere le false piste, segnalare le strade chiuse... ci vuole metodo, appunto, lo stesso che oggi sembra necessario per sopravvivere alla velocità con cui il web sforna le post-verità, le storie controfattuali, le ucronie, le utopie, le distopie, a volte, le semplici spacconate. Il metodo storico serve non tanto a vedere nel passato, ma a non cadere nelle trappole maledettamente serie del presente, serve a capire fino a che punto «nazioni straniere siano in grado di condizionare le elezioni di un paese attraverso internet o un personaggio pubblico possa essere fatto bersaglio di una campagna seriale di affermazioni false, tweetstorm, com’ è accaduto nel luglio 2018 a Roberto Saviano...». C’è una guerra mediatica in corso, e a noi che in trincea dobbiamo combatterla ogni giorno l’autore del libro consegna come fosse uno scudo, l’adagio che a lui ha insegnato il nonno: «tempo di guerra: spaccio di bugie!». Chiara Mercuri gennaio

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