Vite transitorie: gli spazi liminali nella cultura pop e oltre

Stati di passaggio, luoghi di transito, soglie impossibili: cosa sono gli spazi liminali, nella cultura dell'intrattenimento e oltre.

Vite transitorie: gli spazi liminali nella cultura pop e oltre - The Stanley Parable: Ultra Deluxe

Erano dei fiori quelli che Persefone, figlia di Demetra e dea della fioritura primaverile, stava raccogliendo, quando un’immensa voragine si aprì sotto i suoi piedi. La terra, ormai più simile a delle fauci, la inghiottì e si chiuse sopra la sua testa; quello che vide attorno a sé era un luogo oscuro, che non faceva parte della sfera della superficie, di quella realtà che aveva appena abbandonato. Rapita da Ade, il dio sovrano degli inferi, Persefone si ritrovò dunque in uno spazio liminale, in un luogo-non-luogo, che non appartiene a nessuna geografia rintracciabile, né sembra esistere dentro alcun insieme di regole comuni.

Gli antichi credevano fermamente che il regno degli inferi potesse essere accessibile dalla nostra realtà – da una backdoor, un accesso celato, che nella cultura greco-romana è chiamato ploutonion – da "Plutone", il nome latino di Ade. Di accessi agli inferi ve ne sono più d’uno nella tradizione mitologica di questa cultura, e vari eroi e anime disperate li hanno attraversati in varie circostanze, come Eracle, Odisseo e Orfeo. Tutte le divinità ctonie o legate da un rapporto con il regno degli inferi sono ritenute divinità liminali, come la stessa Persefone, costretta dagli eventi a rimanere per sei mesi nell’oltretomba e per i restanti sei nel mondo di superficie.

Analogamente alla fascinazione dell’accesso a un mondo proibito – nel senso che è normalmente precluso alla realtà che abitiamo – il motivo narrativo dei varchi per l’ignoto è radicato profondamente nella nostra cultura. Personalmente, trovo affascinanti tutti gli accessi agli edifici che hanno un’apparenza disabitata o che celino parzialmente la loro struttura e funzione. Gli ingressi dei condomini, visibili o meno visibili, attivano i meccanismi della mia immaginazione. Nelle mie lunghe camminate da studente e lavoratore, ho passato un'infinità di tempo nel catalogarli mentalmente in ogni città visitata.

I fotografi Yves Marchand e Romain Meffre hanno subito un fascino simile dai cortili dei condomini di Budapest, visitandone più di 4000 e raccogliendo centinaia di fotografie in una carrellata ininterrotta di architetture normalmente celate alla vista di chi è costretto a rimanere fuori dal portone, chiedendosi cosa vi si trovi dietro. Anche gli androni e i cortili dei condomini sono degli spazi liminali. Come lo sono, per esempio, le sale d’attesa – quelle dei dottori, dove aspettiamo il verdetto di ciò che sarà di noi, mentre la nostra vita sembra sospesa in uno stato di transizione.

Budapest Courtyards (2014-2016), di Marchand e Meffre.

La liminalità, infatti, non è solo uno stato fisico, geografico, una dipendenza dello spazio; è anche una condizione psicologica e interiore, intima. Come Persefone dopo essere stata inghiottita dalla terra, vi siete mai trovati in una simile transizione? In un momento di passaggio nella vostra vita in cui non eravate esattamente parte dello stato precedente ma nemmeno passati a quello successivo? La docente universitaria Sarah Sawin Thomas usa il mito di Persefone proprio per suggerire l’essenza della liminalità, del suo spazio e della sua influenza nella psiche di chi vi si trova. “[Lo spazio liminale] è un posto non identificabile, nebuloso, collocato tra il dove Persefone era e il dove sarebbe stata, caratterizzato da una carica cataclismatica nei confronti del normale scorrere della vita.”

Essere in uno spazio liminale, dunque, può assumere diversi significati, tutti intersecati tra loro e interdipendenti. La sensazione che questi luoghi e le situazioni associate ci procurano, sono parte di un affascinante enigma, collegato al nostro rapporto tra l’interiore e l’esteriore – il nostro spazio mentale e quello in cui siamo collocati fisicamente, fin da che la memoria della nostra civiltà esiste.

Vivere sospesi: cos'è la liminalità

Il termine "liminale" è di origine latina (da limen, ovvero "soglia") e indica una condizione psicologica o un fenomeno percettivo che tende a porsi sulla soglia della coscienza, non immediatamente catalogabile e assimilabile dalla nostra mente cosciente. Il concetto è comune in molti miti appartenenti a diverse culture. D'altronde, i miti rappresentavano, in qualche modo, lo specchio della coscienza umana e il loro scopo non era spiegare alcuni fenomeni, ma semplicemente accettarli.

Passaggi antichi, cortili nascosti, scalinate post moderne e solitarie. Gli spazi liminali hanno mille radici, forme ed epoche (foto di Gabriele Cuscino).

Riconnettendoci all’idea che esista un passaggio non solo tra un mondo e l’altro, ma anche tra due sistemi e filosofie completamente diverse, sovviene che il mito e le religioni riflettono una condizione reale – o quanto meno, quotidiana. Il concetto di liminalità, infatti, è legato a una condizione interiore e psicologica di transizione, di passaggio, caratterizzata da un grande cambiamento. Per esempio, in ambito sociale, abbiamo uno stato di liminalità quando un membro della società si trova in transizione tra la sfera dell’infanzia e quella dell’età adulta. Questi fenomeni sono stati osservati in primo luogo dall’antropologo Arnold van Gennep (con lo scritto Riti di passaggio).

Foto di Jack van Dyke.

Van Gennep fu di grande influenza per il noto studio di Joseph Campbell sul concetto di "Viaggio dell’eroe", il monomito. Victor Turner, l’antropologo che espanse le sue teorie, elevò questi concetti.

“Gli attributi della liminalità sono necessariamente ambigui... Le entità liminali non sono né qui né là; sono fra e tra gli incarichi assegnati e ordinati da leggi, consuetudini, convenzioni e cerimonie.”
Victor Turner

Il concetto è applicato ai luoghi fisici quando parliamo di spazi liminali. Uno spazio simile è caratterizzato dall’essere un luogo di connessione e transizione, apparentemente privo di qualsiasi altro scopo architettonico: una scala, un androne, un corridoio, una sala d’attesa, un incrocio stradale, eccetera. Per estensione, esistono intere architetture fondate sulla loro liminalità, come per esempio un aeroporto – forse il luogo di transizione per eccellenza – o un centro commerciale. I "mall" statunitensi sono, tra molti, un esempio perfetto di spazio liminale.

È facile identificarsi in un periodo di transizione storica e sociale ripensando alla pandemia del COVID-19, dove la fotografia di luoghi abbandonati per le restrizioni è diventata virale. La situazione spaziale e psicologica della liminalità si è verificata in modo sincronizzato per la pandemia, diventando rapidamente una popolare e recente visione comune. Una delle caratteristiche chiave di questo immaginario, infatti, è anche la totale assenza di soggetti nelle foto: persone o animali sono del tutto rimossi, restituendo all’osservatore una sensazione di profonda alienazione e distacco. L’assenza di elementi che transitano in degli spazi che esistono proprio per questa ragione è infatti sconcertante, per certi versi – ma vedremo che le ragioni per cui questa sensazione di disagio esiste sono molteplici.

L'esordio delle Backroom

Gli spazi liminali, già presenti come terminologia e concetto nel mondo dell’architettura, diventano un fenomeno postmoderno grazie al loro debutto nella cultura online. Il 12 maggio del 2019, un utente anonimo su 4chan pubblica una foto inclinata e in bassa risoluzione di un corridoio, caratterizzato da tappezzeria giallo spento e vari ambienti parzialmente visibili. Un altro utente, commentando, suggerisce l’idea che queste “backroom” si possano raggiungere tramite il “no-clipping” nella vita reale.

L'immagine che ha dato vita ai creepypasta e meme sulle Backroom. L'utente che la pubblicò, come anche la provenienza originale dell'immagine e del sito raffigurato, sono tutt'oggi avvolti nel mistero - un elemento che aumenta il fascino di questa leggenda.

Quest’ultimo è un tipico bug che affligge molti videogiochi, divenuto popolare con il primo Doom. In pratica, il giocatore ha l'opportunità di passare attraverso i muri in modo involontario, come fosse un glitch, raggiungendo luoghi dove non si potrebbe o dovrebbe andare. L’uso di questa terminologia, volontariamente o meno, connette il concetto di Backroom a quello degli ambienti virtuali dei videogiochi, proprio al momento della nascita di questo fenomeno popolare.

Al post, divenuto un celebre creepypasta (storie orrorifiche che si diffondono via social e forum su Internet) è stata in seguito associata una descrizione criptica ma sensoriale:

[Inglese]
“If you're not careful and you noclip out of reality in the wrong areas, you'll end up in the Backrooms, where it's nothing but the stink of old moist carpet, the madness of mono-yellow, the endless background noise of fluorescent lights at maximum hum-buzz, and approximately six hundred million square miles of randomly segmented empty rooms to be trapped in. God save you if you hear something wandering around nearby, because it sure as hell has heard you.”

[Italiano]
"Se non si è cauti e si esce dalla realtà nelle zone sbagliate, si finisce nelle Backroom, dove non c'è altro che la puzza della vecchia moquette umida, la follia del mono-giallo, l'infinito rumore di fondo delle luci fluorescenti che ronzano al massimo dell'intensità e circa seicento milioni di chilometri quadrati di stanze vuote e disposte a caso, in cui rimanere intrappolati. Dio vi salvi se sentite qualcosa aggirarsi nelle vicinanze, perché sicuramente lei ha sentito voi."

Da quel fatidico post, le immagini di luoghi simili iniziano a proliferare, accompagnate dalle teorie pop (e non) più variegate, dando vita a un’intera corrente estetica legata al termine Backroom. Le immagini usano la medesima grammatica visuale: luoghi di transizione, come centri commerciali, corridoi di hotel, magazzini, strade solitarie. Nessuna persona è visibile.

La mancanza di vita e l'indefinita località in questi luoghi di passaggio sono due elementi ricorrenti degli spazi liminali (foto di Brian Wan).

L’assenza di soggetti e il riprendere spesso luoghi demograficamente densi ma in questo caso desolati, causa smarrimento nell’osservatore. È una sensazione di rimozione e dissociazione, un conflitto della percezione con le memorie e il modo in cui il nostro cervello processa determinate esperienze acquisite.

Attraverso la lente del liminale nei nuovi media

I concetti riguardanti gli spazi liminali sono quindi non recenti (come il mito in apertura può dimostrare), con elementi ripresi in molte altre culture, accentuati da fattori moderni. Antropologi e studiosi del comportamento umano hanno da sempre catalogato e teorizzato sulle idee legate agli stati e ai luoghi di transizione nella cultura, come abbiamo visto, inclusi gli studiosi della mente umana.

ISLANDS: Non-Places è un interessante (seppur breve) esperimento estetico che si fonda sul concetto dei nonluoghi.

Diventano per questo uno dei mezzi d’eccellenza per rappresentare la liminalità, psicologica e spaziale. Le Backroom sono l’ossatura con cui i sandbox dei videogiochi sono costruiti in modo letterale e, a volte, non è nemmeno necessario il no-clipping o i glitch per accedervi, perché ne costituiscono il gameplay vero e proprio.

Giochi come Superliminal, ISLANDS: Non-Places, o altri innumerevoli basati sulle Backroom ne rappresentano l'estetica in maniera predominante, spesso sconfinando nella duttilità della logica onirica e nel fasto artistico più puro. Altri titoli sono più seminali e raschiano oltre lo spessore della sintassi visiva, sprofondando nella semantica. In questa sacca di esistenza separata, esistono videogiochi interamente costruiti da spazi liminali, concettualmente e strutturalmente.

The Stanley Parable: nonvivere mille vite

Kurt Lewin, che è ritenuto uno dei padri della psicologia moderna, ha ideato il "modello a tre fasi", che descrive il cambiamento come un movimento da preliminalità, liminalità e postliminalità ("Freeze, Unfreeze, Refreeze") e che è inclusa nella sua rivoluzionaria Teoria del campo. L'ambiente e il comportamento umano fanno parte dello stesso sistema, come due fattori che si influenzano a vicenda, che non possono per questo essere scissi e considerati separatamente.

"Non cerchiamo più la "causa" degli eventi nella natura di un singolo oggetto isolato, ma nella relazione tra un oggetto e l'ambiente circostante".
Kurt Lewin, "Principi di psicologia topologica".

Uno spazio, dunque, può non essere solamente un posto dove esistere, ma un sistema di cui si fa parte. La grafica 3D e i videogiochi sono entrambi potenti media, ma allo stesso tempo dei veicoli di trasmissione di determinati valori affini al consumismo, alla transitorietà e all’effimera virtualità. Ma, soprattutto, sono in grado di rappresentare gli spazi con qualità totalizzanti mai riscontrate in precedenza.

 
Istruzioni che non arrivano più. Una porta che si apre. I colleghi che scompaiono. Inizia così il viaggio liminale di Stanley, con una traccia audio in background che consiglio di ascoltare mentre leggete questo articolo.

Ed è qui che giunge The Stanley Parable. È senza dubbio possibile definirlo il padre degli spazi liminali nel mondo dei videogiochi, pur avendo innumerevoli esempi precedenti, soprattutto nell’epoca del passaggio tra il 2D e il 3D (che hanno generato mostri e fascino). The Stanley Parable, tuttavia, è quel titolo che sfrutta la liminalità come meccanica di gioco, per raccontare la sua storia.

L’impiegato Stanley, il kafkiano protagonista silenzioso e anonimo, è in una fase di transizione per antonomasia. Il suo universo – un ufficio quasi monocromatico ma multidimensionale – è un unico, immenso spazio liminale: corridoi infiniti tappezzati di giallo, porte accessorie, sale da meeting vuote, sale ricreazionali che collegano ad altri corridoi, scale di cemento con passamani di metallo crudo e cubicoli con computer che ronzano, abbandonati.

Questi spazi pragmatici deprivati della loro utilità e della presenza umana sono liminali per eccellenza, con tutte le loro caratteristiche: dissociazione, impossibilità di collocazione, mancanza di correlazione tra ambiente e funzione.

L'intera esistenza di Stanley, racchiusa nel suo ufficio, si trova in uno stato di passaggio. La transitorietà qui catalizza ogni tipo di messaggio legato agli spazi liminali: lo spettro del consumismo, l’omologazione, l’ordinaria depersonalizzazione e solitudine che schiaccia l’impiegato d’ufficio, ma soprattutto il concetto di uncanny.

Popolarizzato da Sigmund Freud, questa forte reazione psicologica è anche nota come "unheimlich", che è la parola tedesca contraria a "heimlich", ovvero confortevole, familiare. Si tratta di una sensazione di profonda angoscia da inconsueto, che sembra nascere proprio dall’incapacità di assimilare il familiare per via di un elemento di disturbo. Tradotto in italiano con "il perturbante", questo fenomeno è divenuto popolare in seguito all’adozione nel campo della robotica.

L'ufficio di Stanley, improvvisamente vuoto e privo di scopo, è uno degli esempi più intensi di "uncanny valley", di perturbante, nel mondo dei videogiochi.

Nello specifico, lo studioso di robotica Masahiro Mori rileva una sensazione di disturbo e a tratti di disgusto nei campioni di persone che si trovano faccia a faccia con robot antropomorfi. Man mano che i loro tratti assumono un’estetica e un’animazione sempre più simile a quella umana, questa sensazione aumenta esponenzialmente. La chiama "uncanny valley", ed è spesso usata nel campo dell’animazione in CGI per definire quel momento in cui gli automi che imitano l’umanità mostrano qualcosa di fuori posto, che causa una sensazione di inquietudine riguardo il prodotto finale.

Diagramma che mostra la risposta umana al fenomeno dell'uncanny valley.

La scienza ha faticato per riuscire a trovare la spiegazione neurologica di questo fenomeno antico. Un recente studio anglotedesco ha identificato nella corteccia prefrontale l’origine della sensazione dell’uncanny valley. Il cervello, infatti, ha un rilevatore di attività umana, che reagisce agli stimoli visivi. Quando questi stimoli sono difficilmente decifrabili o di natura dubbia (come un robot o un’animazione antropomorfa non perfetti), innesca una sensazione di disagio proporzionale – possibilmente, legata al nostro istinto di sopravvivenza.

La CGI degli albori era afflitta dal problema dell’uncanny valley in modo inversamente proporzionale ai mezzi tecnologici disponibili, che limitavano la qualità dell’animazione e del dettaglio (per chi non se lo ricorda bene... siete sicuri che Polar Express non sia in pieno effetto uncanny valley?). La sensazione di disconnessione e disagio risultante è molto simile nel caso di uno spazio liminale.

Confutare la realtà con la liminalità

Nel caso di The Stanley Parable, l'effetto del perturbante è talmente persistente che abbiamo l’idea che la sua realtà sia una versione di simulacro, nei termini di come il filosofo Jean Baudrillard classifica l'imitazione del reale: "immagini", ovvero rappresentazioni di rappresentazioni. Ci si potrebbe trovare di fronte a un’apparenza artificiale che si ispira alla realtà, ma che non rimanda a nessun modello di riferimento preciso e che non cela nulla dietro di essa. Come un animatronic, un'imitazione della vita che non si cura del suo stato di falsa apparenza – un inganno che noi stessi perpetriamo consciamente e che rende la realtà un pretesto logico.

"È pericoloso smascherare le immagini, perché dissimulano il fatto che dietro di esse non vi è nulla."
Jean Baudrillard, "Simulacri e simulazione".

Considerato il contesto, in The Stanley Parable si avverte l'esistenza di un forte sostrato di critica all’industria dello sviluppo di videogiochi, ed è qui che forse gli spazi liminali vengono sfruttati al meglio in tutto il loro potenziale distruttivo per il tessuto della realtà comune, rappresentando un ottimo contributo alla tesi del simulacro sociale.

Due porte, un'esortazione, l'eterno test del libero arbitrio. Dietro di esse, lo spazio liminale continua indisturbato.

La decostruzione degli archetipi videoludici si muove di pari passo con quella delle narrative ordinariamente legate – un’azione di radicalizzazione che, in ultima analisi, riscrivere nettamente il rapporto tra utente e applicazione, tra videogiocatore e videogioco. Il viaggio di Stanley lo porta spesso nella "no-clipping" zone, a scoperchiare l’involucro esteriore del sandbox del motore di gioco – un nonluogo (di cui parlerò in seguito) al quale di norma il giocatore non ha accesso.

In un capovolgimento inaspettato, la vita di Stanley assume un significato extradiegetico (come la voce fuoricampo che lo “guida”), emergendo dalla finzione e sfociando nella metarealtà. La sensazione di essere fuori posto, di aver varcato un confine sacro e inviolabile, è più tangibile che mai.

La liminalità viene quindi usata come strumentalizzazione del concetto del libero arbitrio. Da sempre al centro dell’interesse umano, in contrasto con tesi, mitologie e correnti di pensiero, il libero arbitrio è un semplice fattore di gameplay nei videogiochi, ma che viene ricondotto alla sua importanza solo in poche, seminali opere.

L'emblematica breakroom, la sala ricreativa. Manifestazione perenne di una libertà provvisoria all'interno dello spazio controllato dell'ufficio, qui diventa il silenzioso spazio liminale che simboleggia la rottura degli schemi, la decisione ribelle di Stanley di non seguire il waypoint.

L’illusione di poter scegliere il proprio percorso e, di conseguenza, il proprio destino, è in The Stanley Parable una delle funzioni degli spazi liminali, che si congiungono con la metanarrativa e i concetti di simulazione e simulacro. Essere contenuti in una sacca dimensionale come l’ufficio di Stanley è vivere dentro un luogo che non è un luogo; la consapevolezza giungerà presto al giocatore, che comprenderà come ogni via di fuga è tale se si sta cercando una via di fuga, per quanto sia un vicolo cieco. Lo scopo non è uscire dall’ufficio, ma trovare una realizzazione impossibile, un’importanza al viaggio, un senso al labirinto.

Ognuna di queste premesse è possibile solo se in relazione con un punto di riferimento esterno, che lo spazio liminale di per sé nega – ed è qui che il fascino di questo immaginario risiede. L’antropologa Mary Douglas definisce un pericolo all’interno del processo liminale. Lo stato di transizione, infatti, è caratterizzato da una nullificazione, un lasso di tempo indeterminato in cui non si è più definiti. Nella negazione strutturale in cui si trova Stanley, non esiste una destinazione per questa sua transizione, forse perché Stanley stesso non si trovava in nessun luogo di partenza. Egli stesso, è un elemento chiave del nonluogo, un nonpersonaggio, una nonvita.

L'uscita, è davvero l'uscita? Un parcheggio improbabile, un'auto abbandonata in uno stato liminale, come sospesa anch'essa nel flusso in cui Stanley è intrappolato.

“La vita stessa significa separarsi e riunirsi, cambiare forma e condizione, morire e rinascere. È agire e cessare di agire, aspettare e riposare, e poi ricominciare ad agire, ma in un modo differente. E vi sono sempre nuove soglie da varcare: la soglia dell'estate e dell'inverno, della stagione o dell'anno, del mese o della notte; le soglie di nascita, adolescenza, maturità e vecchiaia; la soglia della morte e quella dell'aldilà - per coloro che vi credono”.
Arnold Von Gennep

Identificarsi con Stanley è quasi obbligatorio: dalla sua condizione quotidiana, quasi banale, all’interfaccia in prima persona, siamo spinti a credere che la voce incorporea che sta parlando si sia rivolgendo proprio a noi. Vedremo questa o quell’altra similitudine con il nostro lavoro, la nostra routine, la direzione che la propria vita sembra aver preso, senza via di scampo.

Questo ridefinisce le nostre esistenze in un attimo che non possiamo neppure controllare: il nostro rapporto con la burocrazia, la produttività, il capitale, l’immediatezza, l’essere raggiungibili in ogni momento. E ridefinisce anche la nostra relazione con il mondo dell’intrattenimento. Viviamo tutti dentro uno spazio liminale infinito, forse? Una transizione interminabile, dalla quale forse non vogliamo emergere, che denuncia la fine dell’illusione: la crisi esistenziale moderna è iniziata, ma non ha mai avuto termine.

Come in ogni ufficio, esistono spazi che servono per inghiottire altri spazi, i rimasugli della quotidianità, della routine. Un cimitero decisionale, oltre che fattuale.

Gli elementi più forti di The Stanley Parable, non per nulla, si sono sovrapposti alla cultura memetica dietro le Backroom – al punto che si potrebbe dire che sia proprio l’origine segreta di questo culto archetipico. È infatti impossibile non notare l’eccezionale somiglianza tra la prima immagine legata al termine “Backroom” di cui abbiamo parlato in precedenza, con i corridoi giallastri e senza fine dell’ufficio di Stanley. L’origine di un mito così forte che ha ridefinito sensazioni e visioni che l’umanità ha sempre avuto ma che non ha mai del tutto associato a una corrente estetica definita.

Mirror’s Edge: urbanesimo liminale

Una delle città virtuali più intriganti, non solo dal punto di vista architettonico, di level design o estetico, è il modello che sta alla base di Mirror’s Edge e del più recente Mirror’s Edge Catalyst. Un unico piano urbano continuo, un costrutto in svolgimento da un gioco all’altro, la "city of" Glass è un agglomerato ultramoderno di aree di interesse e spazi liminali.

Gli anfratti segreti di una città, come le aree di servizio dei grattacieli, sono normalmente inaccessibili alle persone comuni, ma sono comunque ambienti di transizione. Glass vive di questi luoghi, ai margini dello "specchio", che è la fulgida apparenza della metropoli e del suo marketing invasivo.

In maniera preponderante, questi spazi sono presenti nel sandbox open world del secondo capitolo, proprio per sottolineare come questa sia non solo un’affermazione di design, ma una necessità strutturale. Gli open world, infatti, hanno bisogno di aree di collegamento per occultare tempi di caricamento, alleggerire i motori grafici o semplicemente offrire una soluzione di continuità tra un’area e l’altra, sostenendo in modo fluido un cambio di concettualizzazione ambientale – o bioma.

Riguardo gli spazi di confine della città è possibile notare che, essendo Glass racchiusa in un’architettura utopistica, la sua liminalità riflette questo status e, di contro, ne rappresenta un punto molto alto.

Gli "accent color", come vengono chiamati dal team di sviluppo, sono usati anche per distinguere nettamente una zona dall'altra. In alcuni casi, il colore è la chiave per la sensazione liminale.

Esistono, infatti, due tipi di spazi liminali classici: quelli in cui lo stato di abbandono è dovuto al decadimento e altri, in cui lo spazio è analogamente desolato ma è anche architettonicamente immacolato, al punto da essere un costrutto prefabbricato in molte situazioni (come i design appositi in CGI). L’idea che trasmettono quest’ultimi è quella di un’utopia non solo irrealizzabile, ma che lascia intravedere mondi inaccessibili.

La città di Glass ricade appieno in quest'ultima categoria, ma è anche caratterizzata da un design in cui la presenza umana è paragonabile a quella dei modelli stock presenti nei piani di concettualizzazione usati dagli architetti contemporanei. Il messaggio è chiaro: la città è la vera protagonista dell’opera, la presenza umana è solo un elemento accidentale, controllato da un algoritmo comportamentale di base.

Scale di servizio sopra tetti che sovrastano le aree pedonali: sono il dominio dei Runner, che consegnano messaggi e informazioni importanti, muovendosi letteralmente al di sopra della legge.

La palette di colori uniformi e spesso basici (con "accent color") è un altro elemento che taglia fuori gli spazi liminali dalla realtà intorno, trasformandoli in sezioni avulse da ogni contesto. Il giocatore, passando di fretta attraverso questi ambienti di comunicazione, assorbirà la sensazione di essere in transizione – che è anche una prerogativa dell’intero gameplay, ruotante attorno al cardine della mobilità, della mancanza di punti di riferimento fissi.

L’utopia del piano urbano di Glass è anche il riflesso di una distopia di architetti senza volto. La sensazione di correre contro un sistema ma anche al suo interno è una condizione dell’essere umano moderno, una rat race all’interno di una ruota per criceti. Ancora una volta, ritorna l’elemento dello spazio liminale come sottoprodotto di una gabbia sociale.

Mirror’s Edge, tuttavia, realizza un’idea istintiva che spesso si forma quando si osservano immagini senza via d’uscita e visioni di un mondo parziale: attraversarle, per uscire a "riveder le stelle", come un’altra famosa opera liminale suggerisce.

Control: la soglia dell’Oceanview

Profondamente radicato nella cultura architettonica e nel concetto di design è Control. Ne parlo diffusamente in questo articolo, che esplora il suo stretto rapporto con il movimento del brutalismo e i valori sociali rappresentati. Non potevo, tuttavia, non farne menzione qui, considerato che il suo level design si fonda su un grande utilizzo della liminalità come concetto e degli spazi relativi come estetica rappresentativa.

La solennità del cemento grezzo, i riflessi dei materiali e le forme basiche trasformano un corridoio e una scalinata in qualcosa di simile ai ploutonion - accessi per il sublime e il terribile.

Condotti e corridoi di servizio, anticamere, scalinate, sale caldaia e controllo d’aereazione – la teoria di ambienti liminali di Control supera di gran lunga quelli in cui l’azione o la narrativa del gioco vengono portate avanti. Pertanto, è possibile entrare in contatto con l’essenza di questo titolo quasi esclusivamente tra i suoi anfratti e le sue aree di transizione.

Una porta gialla alla fine di un corridoio di cemento grigio è un espediente narrativo-visuale che giustappone l’estetica alla funzionalità, in modo del tutto analogo alla "Runner vision" di Mirror’s Edge, ma che fornisce un ulteriore stadio valutativo del passaggio che si sta intraprendendo. Control è una combinazione di anticamere che eccedono la loro funzione pratica, traslandosi invece in quella fàtica. È un monito riguardo l’intero edificio della Oldest House – e, di conseguenza, il mondo della protagonista Jesse Faden: questo spazio è interamente in transizione, in bilico tra qualcosa che era e qualcosa che sta diventando.

Il primo corridoio d'accesso per l'Oceanview è a sua volta una soglia da attraversare.

Lo stesso utilizzo del termine "threshold", come "soglia", per delineare il confine tra lo spazio normale e quello paranaturale, assume una forma ipertestuale con il contesto antropologico di cui abbiamo trattato, riguardante il liminale come il "varcare la soglia". Analogamente ad altre opere simili, la quasi totale assenza di umanità è parte integrante della fascinazione che si vuole ricreare, e anche qui viene implementata con un pretesto; una scusa che permette al giocatore di esplorare la complessità della composizione senza troppe distrazioni mondane.

L’assenza dell’impronta umana si nota in modo prepotente nello spazio forse più interessante dell'avventura, ovvero il motel e casinò Oceanview, situato in un sito non meglio identificato del Montana. Per loro stessa natura, i motel, gli hotel e tutti quei luoghi di permanenza momentanea, sono spazi liminali e, come tali, sono presenti in gran numero tra le immagini meme di questa cultura.

La lobby del motel Oceanview è liminale in modo quintessenziale.

L’Oceanview è, dunque, il principe tra questi spazi, assumendo la forma finale della liminalità: è necessario attraversarlo per superare degli ostacoli strutturali nella realtà della Oldest House, ma non è possibile uscirne fino a che non vengono attivate delle modifiche al suo interno. Rimasta sospesa in un limbo, dentro il motel Jesse è bloccata in un ambiente transitorio che non può lasciarsi alle spalle tramite le normali regole fisiche, come se fosse uno stato psicologico, ma è anche necessario farlo per ritrovarsi spazialmente dislocata poi al ritorno.

Il corridoio per le stanze del motel. Il Montana è una regione statunitense ritenuta generalmente distaccata dalla cultura pop, da qualsiasi innovazione e quindi dalla macchina industriale del marketing più intenso. Questo suo essere "lenta" e distante dal cuore della modernità è probabilmente il motivo della sua scelta in Control.

La presenza di "elevator music" all’interno della reception dell’Oceanview è altamente simbolica: è un riferimento alla vaporwave, un microgenere musicale con forti elementi estetici, ma basti sapere che è un complemento alla liminalità del momento in cui si trova Jesse, alla sua visita di una reale Backroom e della sua irrilevanza pratica (in opposizione a quella simbolica).

Del motel, Jesse dice che è stata in innumerevoli posti simili nella sua vita, e questo in particolare sembra come sovrapporsi a tutti loro, "come qualcosa che ricordo da un sogno". La logica onirica, infatti, regola il dominio dell’Oceanview. All’interno della narrativa di gioco il motel, pur essendo catalogato come un Luogo di Potere, rimane un sito dall’esistenza inspiegabile. Agenti del Bureau of Control sono stati inviati in tutto il mondo per verificare se questo luogo potesse effettivamente esistere da qualche parte.

Ogni zona di transizione in Control è un invito a infrangere il tessuto della nostra dimensione umana e tangibile. Per certi versi, è ciò che molti sono spinti a desiderare osservando uno spazio liminale.

La risposta non è data, ma per il nostro discorso finora è in realtà molto semplice da intuire: come spazio liminale, l’Oceanview è presente in ogni luogo di transizione che abbiamo attraversato, ogni hotel e ostello nel quale siamo arrivati nella tarda ora, dopo una lunga fase di viaggio in cui siamo rimasti sospesi tra due paesi, due mondi, due ritmi di vite diversi. Questi spazi sono dei nonluoghi.

Supermodernità, consumismo e nonluoghi

All'Oceanview, ma anche a parte dell'ufficio di Stanley e a ogni spazio liminale, di transizione, ho spesso associato il concetto e il termine di "nonluogo". Si tratta di un termine coniato dall'antropologo francese Marc Augé nei primi Anni Novanta, per definire gli spazi transizionali che caratterizzano molte immagini liminali moderne.

Un mall (centro commerciale) statunitense abbandonato. Nonluogo per eccellenza, questo tipo di strutture sono ciò che di più liminale la società consumistica abbia mai prodotto.

Hanno caratteristiche fondamentali in comune: sono luoghi dove avviene uno spostamento, spesso legato alla transazione e al consumo di beni, come autostrade, aeroporti, ascensori in edifici pubblici, centri commerciali. Augé riconduce questo tipo di spazi allo spettro del consumismo, come molti altri studiosi della società moderna.

È per questa ragione che nella categoria vengono spesso assimilati dei movimenti estetici o artistici che si basano sulla nostalgia o su una critica di determinati periodi di consumismo storici, come la vaporwave. Quest'ultima, come dicevo in precedenza, è un microgenere musicale dalla forte estetica, che sfrutta la nostalgia degli Anni Ottanta e Novanta per intavolare una discussione critica di quei periodi, mantenendone però il fascino nostalgico. Questo genere musicale è spesso accoppiato a immagini liminali, che ne compongono il registro estetico essenziale.

Un'altra angolazione della lobby dell'Oceanview, in Control. Motel e altri siti con simili funzioni sono inclusi nella definizione di nonluoghi, simboli della transitorietà, del momentaneo. L'Oceanview lo è anche letteralmente, in quanto sfugge a una collocazione reale.

Seguendo il ragionamento di Augé, questi concetti sono tutti riassumibili nell’esistenza di quella che lui chiama "supermodernità" (o "surmodernità") e che suddivide in fattori: l’eccesso fattuale (avvenimenti storici che accadono in frazioni di tempo rispetto al passato); l’eccesso spaziale (distanze eliminate dalla tecnologia nella comunicazione e nella mobilità); infine, eccesso di individualità e cognizione di sé. Molti antropologi aggiungono a questa lista un altro fattore fondamentale ma più recente, ovvero l’eccesso di materiale – inteso come informazioni e produzione (sì, è il motivo per cui avete troppe serie da vedere o giochi da giocare in sospeso).

Musei che combinano il post moderno con l'antichità che ospitano hanno una grande carica liminale (foto di Gabriele Cuscino).

“Questi spostamenti d’attenzione e di immaginazione, questo svuotamento delle coscienze possono essere causati – e questa volta in modo sistematico, generalizzato e prosaico – dalla caratteristica che ho proposto di chiamare “supermodernità”. Tutto ciò sottopone la coscienza individuale a un’esperienza e ordalia di solitudine completamente nuove, che si connettono direttamente alla comparsa e proliferazione dei nonluoghi.”
Marc Augé, “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”.

In opposizione all’idea che tradizionalmente si ha dell’appartenenza a un luogo, a uno spazio ben definito, l’era moderna disgiunge questo rapporto e il consumismo frattura la nostra capacità di identificarci con il mondo che ci circonda in maniera univoca.

Memetica e spazi liminali

Al di là dei casi specifici in cui gli spazi liminali sono una caratteristica estetica o di gameplay, il loro posto nella nostra società, come definizione memetica, è in crescita. Questo perché gli elementi che li caratterizzano sono comuni a tutte le società industriali inglobate nel concetto di supermodernità.

Il vero potere delle Backroom, per esempio, risiede nella loro alta componente memetica. Ma cos’è veramente un meme? In un modo estremamente superficiale, vengono oggi descritti come "la versione della battuta ricorrente di Internet", ma sono ben altro. Il termine in sé viene dal greco “mímēma”, “imitazione”, ed è stato coniato da Richard Dawkins nel suo libro Il gene egoista, del 1976.

Le rovine dell'industria, riconquistate dalla natura, sono le immagini liminali tra le più potenti nella categoria dell'estetica dell'abbandono (foto di Gabriele Cuscino).

Il termine indica un’idea o sistema di idee che viene propagato per imitazione da un individuo all’altro, persino da una civiltà all’altra. Il meme è sempre stato presente nella storia della cultura umana e molti, come la psicologa Susan Blackmore, pensano siano alla base dell’evoluzione umana. Potrebbero essere uno dei meccanismi dell’imitazione che ha portato, per esempio, i primi ominidi a imparare l’utilizzo degli strumenti manuali, o intere civiltà a scambiarsi scoperte e avanzamenti tecnici e sociali.

“Quando le storie vengono trasmesse da una generazione all'altra, e quando vengono scritte e lette, la cultura viene portata avanti. Come i geni si trasmettono attraverso il legame tra una persona e l'altra, i memi si trasmettono attraverso il legame tra una persona e un libro o un film. Il mondo è pieno di innumerevoli libri, film e canzoni, così tanti che un individuo non può sperare di fruirli tutti. Di conseguenza, attribuisco un'enorme importanza ai media che incontro nell'arco della mia vita.”
Hideo Kojima, “The Creative Gene”.

Moltiplicato il loro potere grazie all’era dell’informazione (quindi, a uno dei fattori della supermodernità), i memi caratterizzano la nostra esistenza odierna in vari modi, e vengono spesso paragonati ai geni, come capacità di influenza e di trasmissione. I primi meme dell’epoca moderna nascono durante uno degli eventi più importanti della suddetta epoca, ovvero la Seconda Guerra Mondiale.

Immagini di Jared Pike.

La diffusione virale dei memi (un altro paragone al mondo biologico) è spesso troppo efficiente rispetto alla capacità di assorbirne i significati. Tuttavia, alcuni di questi si manifestano in modo persistente.

Gli spazi liminali hanno così conquistato aree di pertinenza al di fuori di quelle di appartenenza, diventando parte del linguaggio visivo e narrativo della quotidianità, ma anche dell’arte. Victor Turner ha definito gli artisti come "individui liminali", che cioè vivono negli spazi di transizione culturali, sociali ed esistenziali come habitat naturale. Non è quindi per caso che questo tipo di elemento sia stato così velocemente ripreso da artisti, scrittori, sviluppatori di videogiochi, sceneggiatori di serie televisive.

Immagini di Jared Pike.

Artisti come Jared Pike e le sue piscine pubbliche labirintiche, e fotografi o artisti citati finora, ma anche interi account social nati per diffondere questa estetica, ormai diffondono l’essenza memetica e l’estetica ne viene decentralizzata. I critici, di frequente, parlano di "appropriazione" nei confronti del materiale derivativo e della cultura mainstream, ma è senz’altro questo lo scopo dei memi: la loro diffusione e moltiplicazione incontrollata.

Mi è capitato di ritrovare il concetto estetico e sociale degli spazi liminali in Scissione (Voto: 9.2 - Recensione), una serie TV recente, che sfrutta questi elementi per parlare di alienazione, isolamento, elaborazione del lutto in salsa capitalistica. I girati all’interno del tentacolare (e fittizio) ufficio della Lumon sono un esempio lampante di come gli ambienti di transizione assumono un significato esteso.

Gli interni degli uffici della Lumon trasudano di supermodernità, passata dal filtro vernacolare del rétro.

Tra corridoi che non rispettano la logica dell’accessibilità, singolare sfruttamento di volumi e l’idea stessa di essere sottoposti a un trattamento mnemonico quando si accede a determinate sezioni dell’ufficio, sono tutti concetti che riportano alla liminalità. È un essere sospesi in uno spazio indefinito, in una fase di transizione che non sembra avere mai termine, in cui si perdono l’identità, la direzione e gli scopi.

Non è un caso che Dan Erickson, creatore della serie, abbia dichiarato come ispirazione opere come The Stanley Parable, Brazil, The Truman Show e, ovviamente, il fenomeno virale delle Backroom in primo luogo. Le implicazioni di Scissione sono una razionalizzazione di tutti i messaggi presenti nel sottotesto di queste opere, spesso più inquietanti perché inserite in un contesto ordinario e quindi estremamente plausibile.

Uno dei labirintici e infiniti corridoi della Lumon, che ci tenta con il suo punto di fuga, simbolicamente impossibile da raggiungere. Come accade anche in molte immagini di spazi liminali.

Il meme delle Backroom, tuttavia, non è solo interessante nella sua forma estetica quanto nei concetti primevi e ancestrali a cui attinge. Oltre alla moderna antropologia e psicologia, esiste un’insospettabile origine letteraria anche dietro l’uso della carta da parati e dell’applicazione maniacale del giallo spento e informe – divenuto uno dei simboli di questo immaginario collettivo.

La carta da parati: l’isteria e la segregazione femminile

Nel 1892, la scrittrice e attivista femminista Charlotte Perkins Gilman, scrive un racconto dall’emblematico titolo La carta da parati gialla. La storia si dipana tramite una narratrice inaffidabile: una donna, relegata nella soffitta di una casa coloniale, a cui è stato diagnosticato un problema di isteria dovuto a depressione post partum.

Quella che è apparentemente un tipico racconto horror dei suoi tempi, cela un importante trama sociale, rivalutata dai collettivi femministi solo negli Anni Settanta dello scorso secolo. L’isteria, specialmente durante il corso dell’Ottocento, era un costrutto sociale usato per mettere in atto un dominio patriarcale su ogni tipo di comportamento fuori dagli schemi per il genere femminile. Un comodo insieme dentro cui accorpare ogni tipo di atteggiamento “problematico” per una donna.

Immagine da "The Backrooms", uno dei tanti videogiochi ispirati dal creepypasta. Sarà anche diventata virale per meme, ma forse l'idea della carta da parati gialla ha una funzione e un'origine precedenti.

Strumenti e definizioni simili fanno parte di un tipo di violenza sistemica, che ha generato nel corso dei decenni un acceso dibattito non solo sui diritti delle donne, ma anche sulla manipolazione della scienza per strumentalizzare problemi di salute mentale.

La protagonista del racconto si ritrova imprigionata in questa stanza dal proprio marito; le pareti, ricoperte di una tappezzeria gialla con decorazioni, sono una presenza opprimente e simboleggiano il suo annullamento sociale. Ma non solo: lentamente, avviene una dissociazione che porta la donna a credere che esista un’altra persona bloccata dietro quelle pareti gialle – un’altra donna che cerca disperatamente di uscire, raschiando le pareti per strappare la carta e liberarsi.

Il finale è disarmante e sconvolgente, ma adatto agli scopi che Gilman voleva raggiungere. Il racconto, come spesso accade, non parla di una violenza verso i singoli, ma verso una categoria e un genere, ed è qui che ne emergono i lati realmente orrorifici.

“A volte penso che ci siano molte donne dietro, e a volte una sola. […] Nei punti molto luminosi sta ferma, mentre nei punti più in ombra si aggrappa alle sbarre e le scuote con forza.”
Charlotte Perkins Gilman, “La carta da parati gialla”.

Da The Stanley Parable. Cosa c'è oltre la carta da parati e la moquette gialla? Il pittore Edward Munch associava al giallo la follia, la morte e la malattia. Forse, il "mono-yellow" delle Backroom racchiude questi malesseri dell'animo meglio di qualunque altro immaginario recente.

I temi della dissociazione, della segregazione mentale, dell’annullamento della persona e della psicosi, sono alcune delle ragioni per cui molte opere che hanno utilizzato la “carta da parati gialla” come strumento estetico per visualizzare questi profondi disagi. Le Backroom, come anche l’ufficio di Stanley, sono una eco di questo potente messaggio, che aggiungono un altro livello di lettura alla loro forte carica distruttiva e sovversiva.

In questo caso, la cultura memetica dietro gli spazi liminali, un sottoprodotto dell’uncanny valley, della dissociazione dovuta al “perturbante”, genera orrori. Non a caso, le Backroom nascono in un contesto creepypasta e l’intero concetto che le permea è quello di una critica alla società dei consumi e del capitalismo, che tende a schiacciare la personalità dei suoi membri e a frantumare e diluire la loro realtà in un nulla informe e reazionario.

Sospesi verso il cambiamento

L’orrore che scaturisce da questo contesto, che è pragmatico, è attenuato dalla fascinazione di un tempo in transito. Qualcuno ha detto che la fotografia non è un singolo momento congelato nel tempo, bensì un intervallo di tempo preservato, un momento di passaggio, liminale.

Quest’intervallo, che non scorre mai, e questo spazio, che non viene mai attraversato, sono due componenti inscindibili. Come Giacomo Leopardi usò un tempo la poetica del vago e dell’indefinito per sostenere l’impossibilità di raggiungere ciò che alimenta il nostro piacere e desideri, così il fascino di luoghi di transito impossibili da attraversare ci viene trasmesso attraverso una sete infinita.

La fotografia, che sia virtuale o reale, è quindi uno dei mezzi principali con cui gli spazi liminali si diffondono, attraverso i social, piattaforme memetiche, e congelando frammenti di esplorazioni del liminale di prima mano, i videogiochi, e riflessi, serie e film. Il mezzo fotografico è un simbolo della modernità, che cattura l’essenza di qualcosa di antico.

Nel corso dei millenni, l’umanità ha cercato di attraversare il ponte dell’iniziazione il più velocemente possibile, per evitare di trovarsi in balia delle forze accennate nei miti. E con un altro mito, in opposizione al contesto di modernità in cui scaturiscono gli spazi liminali odierni, voglio chiudere come ho aperto.

Gli spazi di transito in "Year Walk" sono parte fondante del gameplay e del fascino della storia che cerca di raccontare.

Nella mitologia svedese, esiste un rituale noto come årsgång, che è stato immortalato nell’interessante videogioco narrativo dei Simogo, Year Walk. Il termine significa proprio questo: il cammino di fine anno, una “passeggiata” estremamente singolare. Al termine dell’ultimo giorno dell’anno o della notte della Vigilia di Natale (una situazione liminale), i praticanti di questo rituale, gli “year walker”, intraprenderanno un cammino dentro una foresta.

Durante questo viaggio, allontanandosi da ogni civiltà, verranno in contatto con sfide sovrannaturali e creature spirituali, che dovranno superare. Se il rituale verrà compiuto correttamente, si potrà avere uno scorcio del futuro che verrà, degli eventi dell’anno in arrivo.

La foresta è uno dei più antichi spazi liminali presenti nella cultura umana. Vera e propria soglia verso differenti biomi, intere mitologie hanno cercato di affrancarci dal terrore di questo territorio primievo (foto di Gabriele Cuscino).

Come questi trasversatori dell’ignoto, oggi tutti noi subiamo il fascino di un mondo sospeso, dove il nostro potenziale rimane congelato e il cammino verso il futuro sospeso. In questa stasi, che osserviamo o percepiamo, possiamo diventare qualsiasi cosa – e questo ci atterrisce e attrae allo stesso tempo. Lo spazio liminale non è più sito di assoluta trasformazione, ma anche di sosta in un mondo schiacciato dalla velocità, dalla produttività e dall’isolamento.

In questi nonluoghi, ritroviamo un’estetica che ha stimolato la nostra fantasia da bambini, o semplicemente un’oasi di respiro dove non essere niente, non correre verso nulla, non ambire e non desiderare. Come tanti Stanley forse, intrappolati dentro uffici tappezzati, o come chi si addentra dentro una foresta in una notte cardinale, prima dello scoccare dell’ora del cambiamento.

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