Aleksandr Sergeevich Pushkin era nato a Mosca il 6 giugno 1799 e morì a San Pietroburgo il 10 febbraio 1837, per le ferite riportate nel duello di due giorni prima
Russia Beyond (Foto: Evgenij Trifonov, Corbis/Getty Images)Un giorno, andò ospite a casa dei genitori di Pushkin Ivan Dmitriev, scrittore e funzionario di alto rango (fu anche ministro della Giustizia). La sua attenzione fu attirata dai capelli ricci del piccolo Aleksandr, che aveva allora appena dieci anni, e non si trattenne dal fargli una battuta: “Che arapchik!”, scherzò l’uomo. Si riferiva alle origini africane del poeta (gli “arapi” erano i “mori di corte”, come il bisnonno di Pushkin).
“Ritratto di Ivan I. Dmitriev” realizzato dal pittore Vasilij Tropinin nel 1835. Dmitriev fu poeta e politico; ministro della Giustizia dal 1810 al 1814, in letteratura aderì al movimento sentimentalista russo e scrisse fra le altre cose alcune favole rimaste popolari fino a oggi
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“Da zató ne rjabchik!”, gli rispose subito per le rime il piccolo Aleksandr. Ossia: “Sì, ma almeno non sono rjabchik!”. “Rjabchik” (che in russo è anche un uccello dalle piume screziate; il “francolino di monte”), in questo caso era un velenoso riferimento al fatto che Dmitriev fosse “butterato” in volto, cioè “rjabój”.
Anton Delvig, che aveva studiato con Pushkin, poco prima di morire iniziò a condurre una vita molto dissoluta (morì di febbre tifoide all’età di 32 anni, nel 1831). Un giorno si presentò a casa di Pushkin completamente ubriaco. Il poeta cercò di convincere il vecchio compagno di studi a smettere di bere, ma a tutte quelle argomentazioni Delvig, ormai disperato, rispose che la vita terrena non faceva per lui, e che si sarebbe dato una regolata nell’aldilà.
Ritratto a matita del Barone Anton Delvig (1798-1831), Impresa litografica A. Munster editore, San Pietroburgo
Dominio pubblico“Scusa”, lo gelò Pushkin, “ma guardati allo specchio, pensi che ti lasceranno entrare conciato così?”.
Qualcuno, volendo mettere in imbarazzo Pushkin, gli chiese a una serata in società: “Che somiglianza c’è tra me e il sole?”. “Né Voi né il sole potete essere guardati senza strizzare gli occhi”, replicò prontamente il poeta.
Il 19 aprile 1825 ricorreva il primo anniversario della morte di George Byron. Quel giorno Pushkin scrisse all’amico Pjotr Vjazemskij: “Ieri sera ho richiesto una messa di requiem per la sua anima. Il mio pope si è stupito della mia devozione e, porgendomi il pane eucaristico, ha pregato per l’eterno riposo del servo di Dio, il bojarin George”. Quel semplice parroco di campagna non aveva capito che Byron era il cognome; pensava che Pushkin avesse detto “bojarin”; ossia “boiardo”, una parola con cui si indicavano i nobili.
Thomas Phillips. L’ultimo ritratto di Byron
Newstead AbbeyCome sottolinea la studiosa Alina Bodrova, evidentemente Pushkin trovò la cosa divertente, perché fu addirittura officiata una seconda messa in memoria del “bojarin George”, e la vicina di casa di Pushkin, Anna Wulf, fu testimone della monelleria del poeta, e confermò che le funzioni per il bojarin George si erano tenute sia nella chiesa di Trigorsk che in quella di Voronich.
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Pushkin frequentava i giovani militari della Guardia imperiale, rampolli delle famiglie più ricche, amanti della bella vita. Un giorno invitò alcuni militari della Guardia in un popolare ristorante, il “Dominique” e offrì per tutti. Il conte Zavadovskij lo guarda e gli dice: “Comunque, Aleksandr Sergeevich, sembra che abbiate un portafoglio ben gonfio!”.
“Pushkin al lavoro”, disegno a matita e carboncino dell’artista Nikolaj Uljanov, 1936
Museo di Pushkin“A quanto pare sono più ricco di voi”, risponde lui. “A voi capita regolarmente di dover tirare la cinghia e aspettare i soldi dai villaggi, mentre io ho una rendita costante grazie alle trentasei lettere dell’alfabeto russo”. Tante erano le lettere nell’alfabeto di prima della riforma operata dai bolscevichi.
È noto che a volte Pushkin, dopo aver perso pesantemente a carte, riusciva a saldare rapidamente il suo debito scrivendo una magnifica opera in una notte e vendendola a un editore la mattina successiva. Quasi in questo modo (non in una notte, ma in due mattine) fu scritto, ad esempio, il poema “Il conte Nulin”.
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