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Igor Stravinskij

The best of Stravinskij

https://youtu.be/ne4PoC7V0Mk

https://www.youtube.com/watch?
v=hfUgAv2Yew4&list=PLDU_EQQLuYPtG5T27_DlHrYEENOn6YToY

https://www.youtube.com/watch?v=BjGwIwmv-
lY&list=PLjVEbg6rqcFbQ3chUsY0i_MPVraoa9UZj

Indice

Opere teatrali

Balletti

Composizioni vocali con orchestra

Composizioni vocali con strumenti

Composizioni per orchestra

Composizioni per strumento solista e orchestra

Musica da camera

Composizioni per pianoforte

Composizioni vocali senza accompagnamento

Trascrizioni e elaborazioni

N. Anno

Opere teatrali

24 1908 - 1914

Le rossignol

https://www.youtube.com/watch?v=DIOYX7Y27qM
https://www.youtube.com/watch?v=tcZJ_xamX1M

https://www.youtube.com/watch?v=eRMHcl0OZxk+

Fiaba musicale in tre atti


Libretto: proprio e Stepan Mitusov, da Hans Christian Andersen
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Rossignol24-testo.html

Ruoli:

L'usignolo (soprano leggero)


La piccola cuoca (soprano)
Il pescatore (tenore)
L'imperatore della Cina (baritono)
Il ciambellano (basso)
Il bonzo (basso)
La morte (contralto)
I messi giapponesi (tenore e basso)
Cortigiani e fantasmi (coro)

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3
anche controfagotto), 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, piatti, triangolo, tamburo
militare, grancassa, 2 campanelli, tamburello basco, tam-tam, 2 arpe, celesta, pianoforte, chitarra,
mandolino, archi
Composizione: 1908 - 1914 (revisione 1962)
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre de l'Opéra, 26 maggio 1914
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1923
Sinossi

Atto primo.

Sul margine di un bosco in riva al mare, un pescatore (rappresentato sulla scena da un mimo mentre
il cantante si trova in orchestra) aspetta l'alba, ricordando il canto dell'usignolo che alleviava i suoi
affanni. All'improvviso si ode la voce meravigliosa dell'usignolo (anch'essa proveniente
dall'orchestra). Nella radura arrivano i cortigiani dell'Imperatore della Cina, guidati da una giovane
cuoca che conosce il luogo dove risuona l'incantevole voce dell'uccello. Gli ottusi dignitari
scambiano il canto dell'usignolo prima col muggito di una mucca poi col gracidare delle rane,
finché la cuoca non indica loro il piccolo animale a lungo cercato. Il ciambellano invita l'usignolo a
palazzo, affinché allieti le orecchie dell'Imperatore.

Atto secondo.

La corte è in subbuglio per preparare la grande festa (coro 'delle correnti d'aria'). L'imperatore fa il
suo ingresso, al suono di una solenne marcia, assiso sul baldacchino e preceduto dal corteo dei
dignitari. A un cenno del sovrano, l'usignolo si esibisce destando l'ammirazione generale e
soprattutto delle frivole dame, che tentano goffamente di imitarne l'abilità per mettersi in mostra.
L'usignolo, di suo, si dichiara già abbastanza ricompensato dalle lacrime di commozione
dell'imperatore. Entrano anche i messi dell'imperatore del Giappone, che ha inviato in dono al
sovrano vicino un usignolo meccanico. Mentre si esibisce la macchina, il vero usignolo scompare
senza farsi notare. Offeso dalla sua fuga, l'imperatore lo bandisce dal regno.

Atto terzo.

In una notte di luna, l'imperatore giace a letto gravemente ammalato: la Morte già gli sta vicino.
L'imperatore, spaventato dagli spettri del suo passato, chiede a gran voce della musica; l'usignolo
accorre per confortare l'imperatore morente con il suo canto, che desta meraviglia persino nella
Morte. Essa insiste per ascoltare ancora la voce dell'uccellino, ma in cambio questi le chiede di
restituire la corona e la spada all'imperatore. L'imperatore dunque guarisce, e vorrebbe tenere vicino
a sé l'usignolo, come se fosse il più alto dei dignitari. Ma l'usignolo declina gentilmente come aveva
fatto in precedenza, promettendo però di tornare tutte le notti a cantare per lui. Al mattino i
cortigiani rimangono stupefatti vedendo il sovrano perfettamente sano, mentre la voce del pescatore
commenta in lontananza il canto degli uccelli: «Ascoltateli: con la loro voce vi parla lo spirito del
cielo».

Guida all'ascolto (nota 1)

«Le rossignol prova forse soltanto che avevo ragione nel comporre balletti mentre non ero ancora
pronto per scrivere un'opera, nonostante ne esistesse già qualche germe come nell'idea del duetto
maschile (tra il ciambellano e il bonzo), che avrei sviluppato in seguito in Renard, Oedipus, nel
Canticum sacrum e in Threni e la figura in sedicesimi dell'interludio del pescatore alla fine del
primo atto, che è puro Baiser de la fée». Con queste parole l'anziano Stravinskij giudicò, con un
pizzico di civetteria, la sua prima opera, che fu composta interamente in Russia tra il 1907 e il '14.
In realtà, dopo aver finito il primo atto nel 1908, Stravinskij riprese in mano il libretto solo nel '13
in vista di una rappresentazione al Teatro Libero di Mosca, che però non ebbe luogo a causa del
fallimento del teatro stesso. La 'prima' dell'opera a Parigi, dopo quanto era successo per il Sacre du
printemps, - ricorda Stravinskij - «fu un insuccesso, solo nel senso che non riuscì a creare uno
scandalo». L'idea dell'opera nacque dunque in un periodo in cui il giovane Stravinskij gravitava
ancora nell'orbita del maestro Rimskij-Korsakov, al cui modello di fiaba operistica va
evidentemente riferita anche la scelta del soggetto. Stravinskij, assieme all'amico Matusov, elaborò
infatti una delle più note 'fiabe artistiche' di Andersen, mantenendo sostanzialmente intatta la
struttura drammaturgica già delineata nel racconto.

Al contrario di ciò che accade nella favola di Andersen, in cui la semplicità del canto dell'usignolo
si contrappone all'artificioso fasto della corte, nell'opera di Stravinskij la drammaturgia musicale
appare rovesciata: è la prodigiosa abilità belcantistica dell'usignolo a stagliarsi sullo sfondo del
registro basso o popolaresco dell'ambiente che lo circonda. L'effetto di sorpresa, che in Andersen è
provocato dall'ingresso del 'naturale' canto dell'usignolo in un ambiente ormai totalmente
artificioso, viene raggiunto invece in Stravinskij dal carattere 'meraviglioso', non comune, della
voce dell'usignolo, che solo nella finzione teatrale è frutto di ingenuo talento. In realtà le parti più
'rozze' della musica sono proprio quelle riservate a raffigurare l'ambiente pomposo della corte
imperiale. Questa opposta prospettiva drammaturgica si presta particolarmente bene a una
trasposizione musicale, si intende per consentire il dispiegarsi dell'elegante virtuosismo vocale della
protagonista, che ha il suo momento culminante nella canzone del secondo atto ("Ah, joie, emplis
mon coeur"). A questo si contrappone lo stile popolare ruvido ma sincero della giovane cuoca, la
vuota pomposità del ciambellano e l'accento persino comico del bonzo, con il suo continuo
intercalare «Tsing-Pé!».

L'insegnamento di Rimskij-Korsakov è certamente avvertibile in Rossignol, in particolare


nell'estatico canto iniziale del pescatore ("Porté au vent, tombant au loin") o nella simbologia
negativa legata all'uccello meccanico, genialmente rappresentato con un assolo di oboe. Tuttavia la
personalità di Stravinskij è qui già sviluppata a sufficienza per permettere di disseccare il retaggio
del debussismo e dell'operismo russo della sua formazione nello stile asciutto e a tratti tagliente dei
cinquanta minuti dell'opera. Certe angolosità del ritmo e certi timbri strumentali hanno un sapore
cubista, così come l'intonazione qua e là un 'selvaggia' dell'espressione popolaresca prefigura il
piglio fauve delle Noces. Quest'opera di transizione indica come il linguaggio successivo di
Stravinskij si sviluppi in realtà dalla maturazione di germogli contenuti nelle stesse radici russe del
suo stile.

Oreste Bossini

50 1921 - 1922

Mavra

https://www.youtube.com/watch?v=YtkBGFAY9hc

https://www.youtube.com/watch?v=8KNfG3qWeyE+

Opera buffa in un atto


Libretto: Boris Kochno, dal poema "La casetta di Kolomn" di Aleksandr Puskin
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Mavra-testo.html

Personaggi:

Paraša (soprano)
la madre (contralto)
la vicina (mezzosoprano)
l'ussaro, poi sotto le false vesti della cuoca Mavra (tenore)

Ouverture
Aria di Paraša
Canzone gitana dell'ussaro
Dialogo (la Madre e Paraša)
Aria della Madre
Dialogo (la Madre e la Vicina)
Duetto (la Madre e la Vicina)
Dialogo (la Madre, la Vicina, Paraša e Mavra)
Quartetto (la Madre, la Vicina, Paraša e Mavra)
Dialogo (la Madre, la Vicina, Paraša e Mavra)
Duetto (Paraša e Mavra)
Dialogo (Paraša, Mavra e la Madre)
Aria di Mavra
Coda (Mavra, Paraša, la Madre e la Vicina)

Organico: soprano, mezzosoprano, contralto, tenore, 3 ottavini, 2 cornette, clarinetto piccolo, 2


clarinetti, 4 fagotti, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, archi
Composizione: 1921 - Biarritz, 9 marzo 1922
Prima rappresentazione: Parigi, Teatro dell'Opera, 3 giugno 1922
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1925
Dedica: alla memoria di Puskin, Glinka e Cajkovskij

Sinossi

Paraša è intenta a ricamare in un salotto borghese. L'ussaro Vasilij si affaccia alla finestra e Paraša
intona una malinconica canzone, di carattere inequivocabilmente russo, in cui si lamenta della sua
prolungata assenza. Vasilij le risponde con la ‘Canzone gitana dell'ussaro', e il suo canto si intreccia
con quello di Paraša, trasformandosi in un breve duetto d'amore fino a quando l'ussaro si allontana,
lasciando l'innamorata terminare la sua aria. Fa il suo ingresso la madre di Paraša, che si lamenta
per la mancanza di una domestica dopo la morte della vecchia cuoca Fyokla. La madre manda
Paraša a cercare una nuova domestica e intanto si intrattiene in chiacchiere con una vicina. Paraša
fa ritorno a casa assieme a una robusta ragazza che presenta come la nuova cuoca, mentre d'altri
non si tratta se non dell'ussaro travestito, a cui è stato affibbiato il nome di Mavra; i quattro
esprimono la loro contentezza e cantano le lodi della scomparsa Fyokla. Dopo che la vicina si è
allontanata e la madre è salita per prepararsi a uscire, i due innamorati, finalmente soli, intonano il
loro duetto; poi Paraša si allontana anch'ella, insieme alla madre. Rimasta sola in casa, Mavra ne
approfitta per radersi, ma viene sorpresa nell'assai poco femminile incombenza dall'inopinato
ritorno di Paraša e della madre, che perde i sensi, riprendendoli in tempo per vedere Mavra che,
dopo aver cantato un'aria alquanto frettolosa, fugge dalla finestra, mentre la figlia grida: «Vasilij,
Vasilij!».

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Mavra venne originariamente concepita nella primavera del 1921, al Savoy Hotel di Londra, come
un'operina che fungesse da prologo alla 'riesumazione' da parte di Djagilev della Bella
addormentata nel bosco di Cajkovskij, a cui Stravinskij contribuì riorchestrando due numeri. Boris
Kochno racconta di aver cercato con Stravinskij, tra i classici russi, una sceneggiatura con pochi
personaggi, scegliendo infine il poema satirico di Puškin La casetta di Kolomna. Stravinskij e
Kochno elaborarono insieme, a Londra, l'ordine di successione dei numeri, dopo di che il
compositore russo si ritirò ad Anglet, in attesa che si concludesse la stesura del libretto. Nelle parole
del compositore, «Mavra è cajkovskijana sia per il periodo sia per lo stile (...) ma la dedica a
Cajkovskij era anche un gesto propagandistico. Volevo mostrare una Russia diversa ai miei colleghi
non russi, specialmente a quelli francesi, i quali erano, a mio parere, saturi dell'orientalismo da ente
turistico del gruppo dei Cinque». Mavra è infatti dedicata «alla memoria di Puškin, Glinka e
Cajkovskij» e raccoglie l'eredità della musica colta russa dell'Ottocento (mentre con Les Noces,
Pribautki e Renard aveva assunto come punto di partenza la musica popolare russa), anche se
Stravinskij pare qui rivolgersi più a Glinka che a Cajkovskij - a quest'ultimo avrebbe dedicato, sei
anni dopo, un ampio ed esplicito tributo personale con il balletto Le baiser de la fée. Mavra segna
un momento fondamentale e nevralgico - oltre che controverso - nell'evoluzione del linguaggio
compositivo di Stravinskij, nel quale si delineano i tratti fondamentali della poetica 'neoclassica'
(intesa soprattutto come 'musica al quadrato', nel suo trarre spunto da musiche preesistenti), pur
concludendo virtualmente il suo periodo russo. Secondo Ansermet con Mavra assistiamo alla messa
in atto di un processo di 'riduzione' da parte di Stravinskij, che «nella povertà trova la salute» e dà
l'avvio a una nuova fase in cui «la musica si spoglia di tutto ciò che l'aveva irrigidita». Con il suo
balletto Pulcinella Stravinskij aveva del resto già individuato un percorso (fatto di 'sguardi
all'indietro') che gli consentiva di adattare e trasformare sulla base delle proprie esigenze creative
linguaggi e convenzioni stilistiche appartenenti alla storia della musica, da lui intesa come
repertorio pressoché illimitato di possibilità, di risorse compositive suscettibili di essere utilizzate
con disinvolta quanto appassionata voracità e attitudine 'predatoria'. Così, in Mavra, materiali
sonori estremamente variegati, nei quali si fondono motivi russi, tzigani (seppure di maniera),
ragtime e altro ancora, vengono calati in cornici individuabili come arie, duetti e quartetti, ovvero
gli stereotipi dell'opera buffa italiana e del melodramma russo ottocentesco (inaugurato da Glinka -
i cui modelli erano Rossini, Donizetti e Bellini - e proseguito da Cajkovskij), dei quali si mantiene,
se pur parodiandola in una sorta di ironica e sarcastica rifrazione, l'impronta inequivocabilmente
belcantistica, contrapposta a una trama orchestrale affatto atipica e dirompente, segnata da aspri
impasti strumentali - Casella ha parlato di una «sonorità quasi sempre feroce e truce» - ai limiti del
grottesco (grazie anche al nettissimo sbilanciamento timbrico dovuto alla preponderanza degli
strumenti a fiato: 23 su 34). La vicenda narrata da Puškin ne La casetta di Kolomna è, in senso
stretto, un semplice aneddoto, che si regge interamente sul coup de théâtre; nell'opera viene
suddivisa in tredici 'numeri', che si susseguono uno dopo l'altro senza soluzione di continuità, e
quindi con la sostanziale abolizione dei recitativi.

La prima rappresentazione di Mavra fu un insuccesso clamoroso e Stravinskij, che ne ebbe


un'amarezza senza confronti nella sua pur lunga e contrastata carriera compositiva, si ostinò in più
occasioni nel difendere le sue posizioni estetiche, dimostrando l'importanza che attribuiva a questo
lavoro tutt'altro che marginale nell'ambito della sua produzione. Mavra rappresenta, analogamente
al testo di Puškin, prescelto proprio in virtù delle sue caratteristiche affatto convenzionali e
aneddotiche, un vero e proprio esercizio di stile, nel quale il compositore ritorna alla tradizione
dopo averla accuratamente svuotata di significato, riducendola allo status di archetipo, dopo aver
disseminato il testo musicale di scarti improvvisi e deviazioni, e dopo aver mandato in cortocircuito
le norme stilistiche assunte a modello, in una serratissima e vertiginosa poetica dei contrasti.
Stravinskij smonta e rimonta a modo suo il meccanismo dell'opera buffa individuandone l'elemento
fondante, strutturale, nell'artificio retorico della parodia (che di volta in volta assume nella
composizione accenti e soluzioni tecniche diverse). Il compositore oggettivizza la musica,
straniandola dalla sua funzione drammaturgica, creando un contrasto irresistibile sia tra il materiale
musicale e il soggetto trattato che, ad esempio, tra la linea vocale, fluida e gradevole, e
l'accompagnamento, caratterizzato da un andamento meccanico ma nello stesso tempo 'sghembo' e
intermittente; o ancora, tra le attese ritmiche e armoniche suggerite dalle melodie e le effettive
soluzioni adottate nella scrittura orchestrale.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Igor Strawinsky era un rossiniano inconsapevole (in parte consapevole lo divenne nel corso degli
anni, quando lamentò di non poter accedere alle partiture del Pesarese e convinse il figlio a
trascrivere alcuni dei «Péchés de vieillesse»). Forse gli sarebbe piaciuto scoprire che la sua
«Mavra» era in sostanza lo stesso soggetto musicato da Luigi Ricci (di cui probabilmente ignorava
anche il nome). La vicenda aveva del resto fatto strada anche in Francia. Un ufficiale travestito da
cuoca prepara una frittata anche in «Le Docteur Miracle», libretto di Leon Battu e Ludovic Halévy,
messo a concorso da Offenbach nel 1856. Il concorso fu vinto ex-aequo da Lecocq e dal giovane
Bizet. Certo nel teatro tutto ciò che è simile è anche diversissimo. Del resto all'origine del libretto di
Strawinsky vi era una novella di Puskin scritta nel 1830 (dunque pochi anni prima dell'opera di
Ricci) e intitolata «La casa di Kolomna».

La vicenda dell'uomo assunto come donna al posto della cuoca era accompagnata da una specie di
manifesto poetico che i critici dello scrittore amano sottolineare per riscattare forse la semplicità del
racconto. Ma a Strawinsky dovette piacere proprio quella, con la possibilità di trarne una
concentrata opera buffa sul solco della tradizione. All'opera buffa Strawinsky tendeva per vocazione
e anche per spirito polemico contro i tempi e contro certa musica. «Mavra» fu concepita all'Hotel
Savoy di Londra nel 1921, come racconta lo stesso musicista in «Esposizioni e sviluppi»: «Avevo
pensato che la 'Casa di Kolomna' di Puskin fosse un buon soggetto e avevo chiesto al giovane Boris
Kochno di trarne un libretto. Kochno era stato buon amico di Diaghilev un anno prima, ma in
seguito non godeva più di quei favori instabili. Aveva un dono particolare per la versificazione e la
sua 'Mavra' è per lo meno musicale nei senso migliore della parola (in russo in ogni modo). Lo
schema dell'azione, con l'ordine di successione dei numeri, fu elaborato insieme da noi due a
Londra, dopo di che mi ritirai ad Anglet per aspettare la fine della stesura del libretto e comporne la
musica. La prima parte della partitura che composi fu l'aria di Parasha e l'ultima l'ouverture.
Utilizzai principalmente strumenti a fiato, sia perché sembrava che la musica dovesse fischiettare
come fischiettano gli strumenti a fiato, sia perché essa conteneva qualche spunto di jazz -
specialmente il quartetto - che sembrava richiedere il suono di una 'band' piuttosto che di
un'orchestra ».

«Mavra», dopo un'anteprima al pianoforte all'Hotel Continental fu rappresentata il 3 giugno 1922


all'Opera insieme con «Renard», e si concluse con un insuccesso. Diaghilev non apprezzava l'opera,
osteggiò la regia della Nizinskaja e non perdonò a Strawinsky il finale dell'opera che giudicava
banale ed affrettato. Al conto di «Mavra» Strawinsky doveva anche aggiungere il fatto che Ravel
gli avesse da allora «voltato le spalle». La partitura era dedicata a Ciaikovsky, Glinka e Puskin e
anche ciò celava l'intenzione polemica di dimostrare che la musica russa non era soltanto colore, e
quel tipo di colore che aveva suscitato l'interesse a Parigi grazie agli allestimenti di Diaghilev.
Polemiche e pretesti oggi appaiono lontani. «Mavra» è russa fino in fondo, volendo mostrare,
musicalmente s'intende, una certa Russia non folklorica («musica ciaikovskiana per lingua e stile
nel senso che si tratta di musica per gente di città o di piccoli proprietari terrieri»), ma è anche una
perfetta opera buffa del novecento, con la nostalgia del numero chiuso, ma anche con la lente
deformante che si posa sulle vicende. E la lente è rappresentata soprattutto dallo sberleffo
dell'orchestra, mentre i numeri chiusi dall'espandersi in più punti del canto dei protagonisti. Ma
«Mavra» è opera del novecento anche e proprio per quel suo finale incompreso che Strawinsky,
malgrado le pressanti richieste, rifiutò dì correggere (anche se rivide la partitura nel 1949).
Mancando del suggello narrativo e liberatorio, «Mavra» si afferma come una perfetta «musica
oggettiva», un atto puro teatrale, un'epifania di opera buffa. Per avere un'altra conclusione, opposta
ma di identico segno, bisognerà arrivare alla «Carriera del libertino» il cui sipario calerà,
programmaticamente, con il ritorno all'origine del melodramma e alla favola di Orfeo.

Bruno Cagli
Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Nella primavera del 1921, Strawinsky si trovava a Londra, dove Sergej Djagilev, il direttore dei
«Ballets russes», doveva curare una ripresa della «Sagra della primavera»; durante questo
soggiorno nacque il progetto dì «Mavra», opera comica in un atto. L'argomento fu tratto da una
novella in versi di Puskin, «La casetta di Kolomna», e il libretto affidato a Boris Kochno, un
giovane poeta amico di Djagilev. Nell'inverno seguente, a Biarritz, Strawinsky attese alla
composizione dell'opera; la «prima» ebbe luogo il 3 giugno 1922 all'Opera di Parigi, sotto la
direzione di Saul Fitelberg e per la regia di Bronislava Nijinska,

«A la mémoire de Pouchkine, Glinka et Tschaikovsky / Igor Strawinsky», reca il frontespizio della


partitura dì «Mavra»; e di questa dedica, parlando a nome proprio e di Djagilev, Strawinsky stesso
spiega diffusamente le motivazioni in un celebre passo delle «Chroniques de ma vie»: «Il genio di
Puskin in tutta la sua diversità e in tutta la sua universalità, ci era non solo particolarmente caro e
prezioso, ma significava per noi tutto un programma. Per il suo carattere, la sua mentalità, la sua
ideologia, Puskin era il rappresentante più perfetto di quella straordinaria discendenza che
scaturisce da Pietro il Grande e che, in una felice congiunzione, ha saputo fondere gli elementi più
specificamente russi con le ricchezze spirituali del mondo occidentale. Djagilev apparteneva
incontestabilmente a questa discendenza e tutta la sua attività non ha fatto che confermarci
l'autenticità di quell'origine. Quanto a me, io avevo sempre avvertito i germi della medesima
mentalità che non chiedevano che di svilupparsi e che in seguito ho coltivato in modo più
consapevole. La differenza fra questa mentalità e quella del gruppo dei «Cinque» che tosto si era
trasformata in accademismo e si era ridotta al circolo Beljaev dove dominavano Rimskij-Korsakov
e Glazunov, non consisteva nel fatto che la prima era per cosi dire cosmopolita e l'altra puramente
nazionalista. Gli elementi nazionali occupano un posto considerevole tanto in Puskin quanto in
Glinka e Ciajkovskij. Soltanto in questi ultimi, essi sgorgano spontaneamente dalla loro stessa
natura, mentre presso gli altri la tendenza nazionalista era un estetismo dottrinarlo che essi volevano
imporre. Questa estetica nazionale etnografica in fondo non è molto lontana dallo spirito di tutti
quel film sulla vecchia Russia degli zar e dei Boiardi. Ciò che si constata in essi, come del resto nei
folkloristi spagnoli moderni, pittori e musicisti, è precisamente questa velleità ingenua, ma
pericolosa, che li porta a rifare un'arte già creata istintivamente dal popolo. Tendenza assai sterile e
malattia della quale soffrono molti artisti di talento».

La lunga citazione è utile a chiarire la collocazione di «Mavra» nel momento, delicatissimo, In cui
Strawinsky imboccava con l'apertura della fase neoclassica la via che avrebbe segnato per un
trentennio la violenta frattura ideologica, più ancora che di stile, col filone disceso dalle
avanguardie viennesi: finita la «coesistenza pacifica», o meglio la tregua armata che sinora aveva
regolato i loro rapporti, Strawinsky e Schönberg sarebbero divenuti i punti di riferimento di due
schieramenti rigidamente contrapposti, divisi da polemiche spesso aspre. Posteriore di tre anni a
«Pulcinella», il primo lavoro strawinskiano decisamente neoclassico, «Mavra» è vista
comunemente come l'atto conclusivo del periodo cosiddetto «russo»; ma la sostanza musicale
dell'opera, coerentemente agli assunti ideologici esposti dall'autore nel brano sopra riportato, ne fa
nello stesso momento una tappa non secondaria della nuova maniera strawinskiana, premessa logica
del balletto «Il bacio della fata» su musiche di Ciajkovskij, ed avvisaglia lontana di certe soluzioni
teatrali della «Carriera di un libertino».
Leggiamo «Mavra» e l'omaggio a Ciajkovskij alla luce delle parole con cui Massimo Mila
sintetizza i termini della «titanica impresa» affrontata da Strawinsky con la svolta neoclassica:
«dopo aver realizzato in piena espressione d'arte le proprie qualità di barbaro russo estraneo alla
civiltà occidentale, impossessarsi, ricreandola e foggiandola in sé, della secolare tradizione che
sostiene alle spalle, inconsciamente, gli artisti europei». Rifarsi a Ciajkovskij, e tramite lui a
Glinka, l'iniziatore riconosciuto della scuola nazionale russa, aveva allora un duplice significato: da
un lato, giustificare la permanenza di certi agganci folklorici, peraltro depuratissimi ed
intellettualizzati: dall'altro, fonderli con Irrinunciabile logicità al processo di assimilazione e
ricreazione, attraverso la «parodia», del patrimonio culturale occidentale, specialmente italiano;
quello cioè che secondo Strawinsky aveva consentito al due compositori ottocenteschi di dar vita ad
una salda tradizione operistica autenticamente russa e al tempo stesso svincolata dall'«orientalismo
da ufficio turistico» del «Gruppo dei Cinque».

Il risultato di tutto ciò fu la partitura concisa e densissima di «Mavra», dove in piccolo spazio
concorrono e si fondono con assoluta coerenza frammenti linguistici dalle origini più disparate,
assunti a loro volta attraverso una serie quanto mai differenziata di mediazioni e di filtri stilistici.

Sono echi dell'opera russo-italiana, residui di vocalità belcantistica, atteggiamenti jazzistici,


ricuperi, quasi citazioni, da lavori recenti (specialmente da «Les noces»); tentativi di romanza
tzigana, agganci «occidentali» (Casella vuol riconoscervi addirittura una «pulsazione melodica
derivata da Bach»); il tutto calato nelle forme dell'opera buffa italiana, arie, duetti, quartetto,
perfino una piccola ouverture, chiaramente identificabili nonostante si succedano senza soluzione di
continuità. Tessuto connettivo della materia musicale, l'implacabile dinamismo ritmico della parte
orchestrale, affine in qualche misura a certe indicazioni dell'«Histoire du soldat»; l'acidità del segno
strumentale, in contrasto spesso con i suggerimenti lirici di certe espansioni vocali, e comunque col
tono «casalingo», «piccolo-borghese» della vicenda (sono sempre parole di Casella), diviene anzi il
reagente da cui scaturisce la comicità dell'azione.

Accuratissimo, in questo disegno, il rapporto fra le voci e il tessuto strumentale, articolato su un


numero ristretto di esecutori, in cui predominano i fiati, con l'aggiunta di dì tre violoncelli e tre
contrabbassi e l'intervento sporadico di due violini e una viola; a monte di ciò, ancora un motivo
polemico («ho voluto rinnovare lo stile di quei dialoghi in musica le cui voci erano state coperte e
spregiate da frastuono del dramma lirico»), oltre che l'indicazione di un gusto sonoro preponderante
nello Strawinsky di quegli anni (si è addirittura coniata l'espressione «trionfo di fiati»),
dall'«Ottetto» al «Concerto per pianoforte».

Daniele Spini

56 1926 - 1927

Oedipus rex

https://www.youtube.com/watch?v=eYypSAC9uKA

https://www.youtube.com/watch?v=dRDGNTP5ThY

https://www.youtube.com/watch?v=Iksi83ct2ow
https://www.youtube.com/watch?v=7QKqOTuEgFE

Opera oratorio in due atti


Libretto: proprio e Jean Cocteau, da Sofocle (tradotto in latino da Jean Daniélou)
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Oedipus-testo.html

Personaggi:

Edipo (tenore)
Giocasta (mezzosoprano)
Creonte (baritono)
Tiresia (basso)
il pastore (tenore)
il messaggero (baritono)
Narratore (voce narrante)
coro di tebani

Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, (3 anche clarinetto piccolo),
2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, tamburo basco, tamburo
militare, grancassa, piatti, pianoforte, arpa, archi
Composizione: Nizza, 11 gennaio 1926 - Nizza, 10 maggio 1927 (Revisione 1948)
Prima rappresentazione: Parigi, Teatro Sarah Bernhardt, 30 maggio 1927 (in forma di concerto);
Vienna, Staatsoper, 23 febbraio 1928 (in forma scenica)
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1927

Struttura dell'opera

ATTO PRIMO

Speaker
Coro "Kaedit nos pestis"
Aria di Edipo "Liberi, vos liberabo"
Ripresa del coro
Speaker
Aria di Creonte "Respondit Deus"
Aria di Edipo "Non reperias"
Ripresa del coro iniziale
Speaker
Coro "Delie, expectamus"
Aria di Tiresia "Dikere non possumus"
Duetto Tiresia-Edipo
Coro "Gloria"

ATTO SECONDO

Ripresa del "Gloria"


Speaker
Recitativo e aria di Giocasta "Nonn' erubeskite"
Duetto Giocasta-Edipo
Ensemble (Edipo, Giocasta e coro)
Speaker
Aria del Messaggero (con Coro)
Recitativo e aria del Pastore
Aria di Edipo "Nonne mostrum"
Duetto del Pastore e del Messaggero
Arietta di Edipo "Natus sum"
Speaker - interrotto da fanfare di trombe
Scena finale (racconto della morte di Giocasta, concertato tra il Messaggero e il coro)
Ripresa del coro iniziale

Guida all'ascolto (nota 1)

La genesi della composizione dell'Oedipus Rex ci è nota fin nei minimi dettagli dai racconti che
Stravinsky ne ha fatto prima nelle Chroniques de ma vie (1935) e poi, una trentina d'anni dopo, nei
Dialogues con Robert Craft del 1963. Esule russo in Francia dal 1920, Stravinsky sentiva da anni il
desiderio di comporre un lavoro drammatico di vaste proporzioni su un soggetto antico e
universalmente noto, d'intonazione tragica, che non appartenesse dunque alla tradizione della sua
terra, cui si ricollegavano invece le tre opere di soggetto fiabesco o buffo precedenti (ossia Le
Rossignol, Renard e Mavra). Il problema principale era costituito dalla lingua: il russo, la sua
lingua, era musicalmente impraticabile a queste condizioni; mentre il francese, il tedesco e l'italiano
gli erano estranei per questioni di temperamento.

Tornando da Venezia a Nizza nel settembre 1925, Stravinsky si fermò per alcuni giorni a Genova,
città che gli era cara per un ricordo felice (vi aveva festeggiato, nel 1911, il quinto anniversario di
matrimonio con Ekaterina Nossenko, la sua prima moglie). Qui, su una bancarella di libri, fu
attratto da un volume in francese: la traduzione della biografia di San Francesco d'Assisi scritta da
Johannes Joergensen. La comprò e la lesse quella notte stessa. Un passo lo colpì subito
enormemente: «Il provenzale era per San Francesco il linguaggio della poesia, il linguaggio della
religione, il linguaggio delle sue più belle memorie e delle ore più solenni, il linguaggio cui
ricorreva quando il suo cuore era troppo colmo per esprimersi nella sua lingua, l'italiano, che per lui
era divenuto popolare e basso per l'uso quotidiano: il provenzale era la lingua della sua anima. Ogni
volta che parlava in provenzale, coloro che lo conoscevano capivano che era felice».

Questo spunto, per quanto enfatizzato, diede a Stravinsky l'idea di servirsi per la sua nuova opera di
una lingua speciale, a suo modo sublime, circondata da un'aura di ritualità e di sacralità. E questa
lingua non poteva essere che il latino: scelta che aveva il grande vantaggio di offrirgli «un mezzo
espressivo non morto, ma pietrificato e divenuto così monumentale da essere immune da tutti i
rischi di scadimento nella volgarità».

Al suo ritorno a Nizza, Stravinsky continuò a meditare sul soggetto della sua opera. Gli pareva che
un mito tra i più celebri dell'antica Grecia corrispondesse al suo desiderio di basarsi su una vicenda
universale nota a tutti, tale da non aver bisogno di essere esposta seguendo i binari di un'azione
drammatica: chiara conseguenza di una idiosincrasia - altro cardine della sua estetica - verso gli
sviluppi passati e presenti del dramma musicale. Optò così per l'Oedipus Rex. L'opera avrebbe
dovuto fondarsi sulla convenzione, come una "natura morta": «Desideravo lasciare la tragedia,
come tragedia, dietro l'opera. Pensavo di distillarne con ciò l'essenza drammatica per essere libero
di concentrare maggiormente l'attenzione su di una drammatizzazione puramente musicale»
(Dialogues). Per il libretto, Stravinsky decise di affidarsi a Jean Cocteau, di cui era amico fin dai
tempi delle prime stagioni parigine dei Ballets Russes, cioè da prima della guerra, e di cui aveva
ammirato la riduzione dell'Antigone di Sofocle da lui allestita all'Atelier di Parigi alla fine del 1922
(ma Stravinsky forse la vide all'inizio del 1923). Il compositore aveva idee molto precise sulla
messa in scena della sua opera. Voleva assolutamente che ci fosse sul palcoscenico solo il minimo
indispensabile di azione. Immaginava il coro seduto in una sola fila, che leggeva la parte con il
volto nascosto da cappucci, mentre i cantanti dovevano stare su pedane, ciascuno a diversa altezza.
Una nota premessa alla partitura dà questa indicazione: «Tranne Tiresia, il Pastore e il Messaggero,
i personaggi restano nei loro costumi e nelle maschere costruite. Si muovono solo le teste e le
braccia. Debbono avere l'aspetto di statue viventi». Stravinsky voleva che i cantanti venissero
illuminati durante le loro arie. Creonte e Giocasta dovevano apparire già sul palcoscenico, invece di
entrarvi. Edipo doveva stare sempre sulla scena, e la sua cecità nella scena finale manifestarsi con
un semplice cambiamento di maschera. Benché chiaramente concepito come Opera, e sia pure sui
generis, appare evidente che Stravinsky nutrisse più di un dubbio sulla possibilità che il suo lavoro
venisse accettato in teatro come tale; così decise di renderlo eseguibile anche nelle sale da concerto
e lo indicò con il termine di Opera-oratorio, in sé ibrido ma non estraneo alla sua natura composita.

Il rapporto con Cocteau non fu né facile né disteso. Il poeta fu costretto suo malgrado a cedere
quasi completamente alla volontà del compositore: il quale chiese ed ottenne che il libretto venisse
riscritto due volte e lo sottopose infine a una limatura finale. Solo a quel punto il testo venne
consegnato a padre Jean Daniélou perché lo traducesse in latino. E lecito ritenere che Cocteau
soffrisse non poco questi condizionamenti: lo dimostra tra l'altro il fatto che la sua versione in
francese non venne mai pubblicata. Delle sue idee originarie ne sopravvisse praticamente solo una:
quella di un Narratore (o Speaker, come è indicato in partitura) che assume le funzioni dello
"storico" dell'oratorio e che, vestito in abito da sera contemporaneo, anticipa gli eventi dell'azione
scena per scena, leggendoli nella lingua del pubblico. Questo espediente dello speaker fu più tardi
criticato nei dialoghi con Craft da Stravinsky stesso, che retrospettivamente lo giudicava troppo
didascalico e artificioso. Cionondimeno, l'efficacia del suo carattere straniante appare ancora oggi
uno dei punti di forza del lavoro, in linea con le scelte stilistiche dell'opera, giacché consente,
distinguendo i piani dell'azione, di concentrarsi sullo svolgimento puramente musicale della
partitura.

La composizione musicale ebbe inizio l'11 gennaio 1926 e proseguì con qualche interruzione nei
mesi successivi, per essere completata il 14 marzo 1927. La strumentazione fu finita alle quattro del
mattino del 10 maggio 1927, appena venti giorni prima dell'esecuzione, che avvenne al Théàtre
Sarah Bernhardt di Parigi il 30 maggio 1927 nell'ambito dei Ballets Russes di Djagilev, per
festeggiare il ventesimo anniversario della sua attività teatrale; sotto la direzione del compositore,
ma in forma di concerto. Era accaduto infatti che, di fronte allo scarso entusiasmo del dedicatario, il
quale non aveva mancato di considerare quel singolare omaggio un "cadeau très macabre", e in
seguito alle difficoltà insorte per la commissione della scenografia e la preparazione dei cantanti,
Stravinsky accettasse il suggerimento di Djagilev di eseguire l'Oedipus Rex semplicemente come
concerto, senza scene e con i protagonisti in abito da sera, seduti sul palcoscenico davanti a un
sipario di velluto nero. Il lavoro non suscitò grande impressione quando venne udito per la prima
volta; sicuramente gli nocque l'accostamento con L'uccello di fuoco, che era nello stesso
programma: fu eseguito tre volte e poi più. Il ricordo di Stravinsky nei Dialogues suona lapidario:
«Prevedevo che l'Oedipus non avesse probabilità di successo con il pubblico parigino del balletto.
Ma quando il mio austero concerto vocale fu messo in programma vicino a un balletto così pieno di
colori, il fiasco risultò maggiore di quanto avessi previsto. Il pubblico non si comportò in modo
molto educato». La prima rappresentazione in forma scenica ebbe luogo a Vienna il 23 febbraio
1928. Seguì un'edizione alla Krolloper di Berlino, diretta dal giovane Otto Klemperer. Alla prima
rappresentazione del 25 febbraio 1928 era presente Arnold Schönberg, che rimase freddo e distante.
Egli fu il primo di una vasta schiera di artisti, tra i quali va annoverato anche uno stravinskiano di
ferro come Pierre Boulez, che evidentemente faticano a entrare in sintonia di gusto, come è
legittimo, con la maschera mortuaria di un genere antico e sacrale. Dietro la quale si cela, come
altrettanto legittimamente si può ritenere, uno dei più lucidi esorcismi della riflessione artistica,
capace di intridere di pietà e di amore la consapevolezza della crisi e l'angoscia dell'essere, per
trasfigurare nell'ordine e nella chiarezza l'oggettiva negatività nel mondo.

Opera od oratorio? La domanda sulla prevalenza del genere, e quindi sul giusto modo di eseguire
l'Oedipus Rex è, sotto ogni punto di vista, anche storicamente, oziosa: giacché se intuiamo che il
contenuto musicale della partitura sia drammatico, le indicazioni per la messa in scena e la loro
cornice presentano un quadro niente affatto operistico. I personaggi del dramma interferiscono tra
loro non con i gesti ma con le parole. Nessuno di loro "agisce", e ciò che guida il movimento
scenico è il narratore, e solo per mostrare il suo distacco dagli altri personaggi in scena, che non si
voltano per ascoltare ciò che dicono gli altri ma si rivolgono direttamente al pubblico. Nella sua
dinamica bloccata, dunque, l'opera tende a una dimensione statica di tipo oratoriale, sospesa nel
tempo e nello spazio, dove il dramma è interno alla musica e la distanza dall'azione è accentuata
dalla lingua latina, al tempo stesso convenzionale e rituale. Ciò rende l'Oedipus Rex una sorta di
astrazione metafisica che può far pensare alla tecnica della pittura cubista, una specie di incubo di
inesorabile fissità e di abbagliante autonomia strutturale, che riemerge dalla memoria con nettezza
di contorni, ma enigmaticamente: da ultimo paradossalmente esorbitante sia dalla finzione illusoria
del teatro sia dalla dichiarata formalità della sala da concerto. L'opera-oratorio Oedipus Rex si
compone di due atti, preceduti da un Prologo parlato e seguiti da un Epilogo. Nel passaggio dalla
fonte al libretto sono mantenuti i nodi essenziali della tragedia di Sofocle, ma le funzioni
drammatiche sono in larga misura modificate e talvolta addirittura ribaltate: alcune parti sono
drasticamente eliminate e altre che nella tragedia sono affidate a singoli personaggi vengono
trasferite al coro. Un confronto tra fonte e libretto mostra come Stravinsky abbia mirato a una
sintesi essenziale del dramma, di tipo quasi aforistico, e l'abbia sviluppata compositivamente, con
frequenti ripetizioni sia di parole sia di figure musicali ad esse collegate.

Nel Prologo lo Speaker, rivolgendosi agli spettatori, espone gli antefatti. Tebe è demoralizzata.
Dopo la Sfinge, infuria la peste. Il popolo supplica Edipo di salvare la città. Edipo, che ha già vinto
la Sfinge, promette. All'apertura del primo atto il coro (tenori e bassi) riprende e amplifica questa
supplica. La semplice scansione corale del testo, su un andamento ostinato di 6/8, è sorretta da
accordi dell'orchestra collegati da rapide scale ascendenti e discendenti. Questo ostinato si
ripresenta più volte nel corso dell'opera e assume in momenti particolari un significato simbolico,
quasi di uniforme impassibilità: esso ritorna anche alla fine, a siglare la conclusione della partitura
nel segno di un destino immodificabile. Una seconda idea musicale affidata a pianoforte, arpa e
timpano, che ritornerà anch'essa alla fine dell'opera, sottolinea, con una costante ritmica di
pulsazione funebre, sempre ossessivamente chiusa nella ripetizione di una terza minore, la
lamentazione corale, offrendo lo spunto per un successivo episodio stilizzato ritmicamente dai corni
sulle parole "e peste serva nos". La risposta di Edipo (tenore) si caratterizza per la ricchezza di
melismi, fioriture, arabeschi, ampollosi vocalizzi. All'inizio l'ornamentazione della sua parte si
stacca nettamente dalla sillabazione ostinata del coro e assume un sapore di ieratica, quasi liturgica
solennità, di tinta arcaica. Solo in seguito il suo canto diventerà più incerto e nervoso, a tratti quasi
isterico, gridato, svelando così dapprima la fragilità umana e la vanità del personaggio, poi la sua
resa alle forze "che ci sorvegliano al di là della morte".

Spinto dalla supplica del popolo, Edipo ha inviato il cognato Creonte a interrogare l'oracolo. Il coro
saluta l'arrivo di Creonte con fiduciosa speranza. Lo Speaker introduce poi Creonte (basso-
baritono), che torna recando il responso dell'oracolo: "l'assassino del vecchio re Laio si nasconde in
Tebe e deve essere punito". Creonte sta dalla parte degli dei; alla sua grande aria in do maggiore
con da capo, solenne e profonda nella sua maestà, Edipo risponde vantando la propria abilità nello
sciogliere enigmi, in un arioso accompagnato da figurazioni ritmiche degli archi e inframezzato da
brevi interventi corali e strumentali: come liberò Tebe dalla Sfinge, ora scoverà l'assassino di Laio.
Lo Speaker continua: Edipo interroga il vate Tiresia, la fonte della verità. Il suo silenzio irrita il re.
Questi accusa Creonte di volere il trono e Tiresia di essergli complice. Costretto a parlare, Tiresia
(basso) si decide a rivelare che "l'assassino del re è un re". La sua aria, preceduta da un saluto del
coro, è nobilmente dolorosa e ammonitrice, sostenuta ora da note ribattute ora da salti ampi e
plastici arpeggi, che definiscono l'austera gravità del personaggio. Contro di lui si scagliano le
minacce di Edipo, che ostenta sicurezza. La comparsa di Giocasta (mezzosoprano) vale a
stemperare la tensione di un oscuro presagio: il coro intona uno squillante "Gloria" osannando la
regina. Dopo martellanti figure ritmiche di legni, archi, timpani e pianoforte, il primo atto termina
su un accordo di do maggiore luminosamente strumentato per i fiati con il coro.

L'atto II inizia con la ripresa del "Gloria" finale del I atto. Poi lo Speaker anticipa nuovamente
l'azione: la regina Giocasta non crede negli oracoli. Avevano predetto che Laio sarebbe morto per
mano di suo figlio, invece è stato assassinato dai ladroni all'incrocio di tre strade. "Trivium!":
questa parola spaventa Edipo, il quale ricorda che arrivando da Corinto ha ucciso un vecchio
all'incrocio di tre strade. Giocasta rimprovera i prìncipi: dimostrerà che gli oracoli mentono. La sua
aria, tesa e drammatica, culmina appunto sulle parole: «oracula mentita sunt". È preceduta da una
sorta di recitativo patetico ("Nonn' erubeskite") e spazia da sinuose curve baroccheggianti a
esplosioni di concitazione quasi furiosa, sottolineata dall'orchestra con ostinati ritmici sempre più
incisivi (si riconoscerà, nella sillabazione ossessiva di "mentita sunt oracula", un collegamento col
"ritmo del destino" della Quinta di Beethoven). Quando la regina ricorda l'uccisione di Laio, il coro
insiste sulla fatidica parola: "trivium". Edipo è in preda al terrore, il suo canto si fa frantumato e
ansimante, come se lottasse con una verità che a poco a poco si fa strada nella sua coscienza. Un
timpano solo fa eco alle parole di Edipo "Ego senem cecidi", con uno scarno effetto di potente
tragicità (si noterà di passaggio che Stravinsky sbaglia l'accentazione della parola "cecidi", che
accentata sulla e come compare nel suo testo significa "Io muoio", mentre avrebbe dovuto essere
accentata sulla prima i per significare "Ho ucciso il vecchio"). Un "tempo agitato" cui partecipa
tutta l'orchestra sostiene il duetto tra Giocasta, che ammonisce il re a non credere agli oracoli, ed
Edipo, che pur avendo paura vuole sapere.

È ancora lo Speaker ad anticipare la peripezia del dramma: un messaggero reca la notizia della
morte di Polibo, re di Corinto e presunto padre di Edipo, e rivela al re che egli non era il suo vero
padre, ma il padre adottivo. Il coro introduce il Pastore (tenore) e il Messaggero (basso baritono),
portatori della cruda verità. E quando il racconto del Pastore che aveva raccolto il piccolo Edipo
svela essere questi il figlio di Laio e Giocasta, le ritmiche scansioni del coro in risposta alle
rivelazioni sono irrigidite da un accordo caratterizzato dai timbri strumentali e dalla percussione;
ripetuto quattro volte, esso sottolinea il momento della verità. Alla vocalità elementare e diretta del
Pastore, accompagnato dal timbro di due fagotti sull'andamento di un cullante 6/8, e a quella
nervosa e sincopata del Messaggero, quasi modellata sullo stile della musica popolare russa, si
contrappone il tremore afasico di Edipo, come inebetito sulla ripetizione della parola "nefastum".
Poi la scena si spegne in una semplice formulazione di ironia tragica: "Lux facta est!". Una fanfara
di trombe annuncia l'Epilogo, introdotto dal recitante: Giocasta si è uccisa, Edipo si è accecato con
le fibule d'oro della regina. La figura di scale che iniziava l'opera ricompare con il suo moto
oscillante, a ondate; il disegno ritmico implacabile accompagna il coro che rievoca la fine di
Giocasta e il terribile furore di Edipo. Per quattro volte le violente scale degli archi e l'annuncio del
Messaggero si alternano al commento corale: dopo un ultimo sussulto prevale infine la pietà, e con
la scarna fissità del ritmo ostinato, ora quasi accettato come un segno del destino, il popolo di Tebe
tributa un accorato, stilizzato saluto all'infelice Edipo.

Scriveva Cocteau: «La luce invece di smorzarsi crescerà di intensità fino alla fine. Il dramma,
cominciato nell'ombra, termina in pieno sole, con Edipo cieco». Accettando la convenzione come
forma, come garanzia di un ordine immanente e immutabile, Stravinsky concentra la tragedia di
Sofocle non su Edipo o sugli altri personaggi, ma sullo svolgimento fatale, quasi geometrico, delle
linee nel loro ineluttabile intersecarsi. Questo atteggiamento dichiaratamente antipsicologico e
oggettivo sposta l'attenzione della vicenda in sé, che difatti viene narrata e non "agita", alle
conseguenze che essa ha non solo sugli individui che vi sono implicati ma sul modo stesso di
riviverla: come se ad esserne protagonisti fossero non tanto i personaggi in prima persona, quasi
attori di una vicenda che li trascende e a cui assistono impotenti, ma i meccanismi di incastri
governati da un determinismo tragico e perfetto nella sua logica, rispecchiato da agenti esterni che
si palesano in forma di oracoli o di luoghi emblematici. La progressiva presa di coscienza del laccio
che si stringe attorno a Edipo non è caratterizzata da una dinamica lineare e ascensionale, ma dal
paradosso secondo cui il dramma tanto più si illumina quanto più l'ombra e la tenebra avvolgono
circolarmente la storia. E la tendenza verso un anticlimax è sottolineata dal ritorno, alla fine, dello
stesso tempo con cui il dramma era iniziato, scandito dal coro e dall'accompagnamento ostinato:
quasi il chiudersi del cerchio in una morsa fatale.

Le linee architettoniche dell'Oedipus Rex hanno dunque una sorta di pietrificata staticità. A questa
concorrono non tanto l'uso in sé di forme chiuse della tradizione, come arie, duetti e cori, quanto il
repertorio di formule, che Stravinsky stesso giudicava "anodine e anonime", di cui l'opera è
sostanziata. Si va dal Barocco, con particolare riferimento all'oratorio hndeliano, fino all'Ottocento
melodrammatico francese e italiano: senza però che sia possibile riconoscere allusioni univoche, o
deliberate citazioni. È come se tutto questo materiale di riporto venisse sospeso in un gelido, irreale
rito, e da ciò ricevesse nuova forza e pregnanza, collegando l'epoca lontana al presente nella
dimensione di un passato eternamente immutabile. La monumentalità austera a cui tende il
musicista non ha nulla di celebrativo né di intenzionalmente critico, non significa né restaurazione
di stili del passato né volontà di opporre ai linguaggi della modernità un sistema antico di valori:
essa è semplicemente espressività mediata, riflessione sulla capacità della musica di abbattere le
barriere tra invenzione e storia. Il rilievo conferito al ritmo, e più ancora il carattere dell'invenzione
ritmica modellata sullo studio dei metri classici (a tal punto da sacrificare talvolta la correttezza
degli accenti per esigenza di libertà nel musicare le sillabe) sono determinanti in una partitura che
nasce con questi presupposti. Figura portante ne è l'ostinato, che rappresenta con la sua regolarità il
simbolo dell'ineluttabilità nel concatenarsi degli eventi. Ancor più efficace appare questa ossessiva
ripetizioni di formule ostinate quando sia combinata con parole-chiave, che ne risultano così non
solo evidenziate ma addirittura assolutizzate (per esempio pestis, oracula, trivium, nefastum), o con
ripetizioni di parole all'interno di frasi seccamente scandite, che sembrano quasi comunicare una
verità di cui non si voglia prendere atto: come nel caso del duetto tra Giocasta ed Edipo, tutto
giocato sull'alternarsi di illusione e svelamento.

Altro elemento caratterizzante è l'uso delle armonie e più latamente delle tonalità. Che l'opera sia
letteralmente impregnata del modo minore può sembrare già di primo acchito coerente con il tono
luttuoso che la pervade. In realtà i rapporti sono più sfumati, complessi e insieme significativi.
Edipo, nelle sue arie, sembra lottare continuamente per affermare il modo maggiore, che altrettanto
continuamente sembra sfuggirgli e beffardamente eluderlo. Solo nel momento in cui raggiunge la
completa coscienza del suo crimine, sulle parole "Lux fatta est!", si afferma in modo
inequivocabile, con chiarezza accecante, la tonalità di re maggiore, secondo una associazione di
relazioni che è contemporaneamente musicale e sapienziale. Il coro degli uomini di Tebe, che
all'inizio piange la piaga che infesta la città, è significativamente in minore; ma quando esso
riappare alla fine, dopo che l'enigma è stato sciolto e il re colpevole, cieco, ricompare per avviarsi
all'esilio, esso risuona in maggiore, per tornare poi al minore nella trenodia, quasi marcia funebre,
dell'addio. Do maggiore si afferma invece splendidamente nel coro che inneggia alla regina
Giocasta alla fine dell'atto I e all'inizio dell'atto II; ma interamente in minore, quasi presagio di
sventura, è la grande aria di Giocasta che segue. Anche qui non si dovrebbe parlare di introspezione
psicologica bensì, semplicemente, di analisi tragica.

Nell'Oedipus Rex il coro, che impiega le sole voci maschili, assume un ruolo decisamente attivo, e
più nel senso di un oratorio che di un'opera. Del primo assolve a due funzioni, ora di coro-turba
(lamentoso nel coro iniziale, "Kaedit nos pestis", raggiante nel "Gloria" indirizzato a Giocasta), ora
di historicus, come alla fine, quando narra i "fatti orrendi" alternandosi con il Messaggero. Della
seconda riprende invece la funzione di amplificazione drammatica quando si intreccia con i
personaggi e con l'orchestra divenendo parte attiva della rappresentazione, quasi prendendo vita di
personaggio individuale. Un discorso a parte merita la parte finale, la "tarantella funebre", come la
chiamava Stravinsky, che inizia con le parole "Mulier in vestibulo". Stravinsky stesso ironizzava sul
fatto che quel coro venisse citato «da gente - aggiungeva - che non possiede uno stile personale,
come un brano di gaiezza inopportuna, una coda di balletto, persino un cancan». «L'invereconda
truculenza ritmica, che può far pensare al dinamismo puro di certi passi della Carmen», di cui
scriveva Massimo Mila, non è altro che un esempio ulteriore di quel doppio livello - vaneggiamento
inquadrato in un controllo musicale rigoroso - che contraddistingue la visione stravinskiana della
tragedia, insieme fossilizzata nella morte e pulsante di vita. Viene così ribadito il senso più
profondo della sua appropriazione del mito classico: mezzo di conoscenza che conduce alla verità e
preserva dall'oblio. Esso può essere colto solo fingendo impassibilità e freddezza, purificando il
fuoco dei sentimenti e la lucidità della ragione nella catarsi rigeneratrice della forma.

Sergio Sablich

88 1948 - 1951
The Rake's Progress (La carriera di un libertino)

https://www.youtube.com/watch?v=_JzdLqesAKk

https://www.youtube.com/watch?v=EjC7l2goZbg

https://www.youtube.com/watch?v=DdJw86l22JA

Opera in tre atti


Libretto: Wystan Hugh Auden e Chester Kallman
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Libertino-testo.html

Personaggi:

Trulove (basso)
Anne, sua figlia (soprano)
Tom Rakewell (tenore)
Nick Shadow (baritono)
Mother Goose (mezzosoprano)
Baba la turca (mezzosoprano)
Sellem, venditore all'incanto (tenore)
il guardiano del manicomio (basso)
prostitute, ragazzi, servi, cittadini, folla, pazzi

Organico: 2 flauti (2 anche ottavino), 2 oboi (2 anche corno inglese), 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni,
2 trombe, timpani, campana, clavicembalo (o pianoforte), archi
Composizione: 1948 - Hollywood, 7 aprile 1951
Prima rappresentazione: Venezia, Teatro la Fenice, 11 settembre 1951
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1951

Sinossi

Luogo dell'azione: Inghilterra, XVIII secolo.

Atto primo

Scena 1. Il giardino della casa di campagna di Trulove, in un pomeriggio di primavera. Tom e Anne
amoreggiano; il padre della ragazza, Trulove, dubita delle qualità morali del giovane e per questo
gli offre un lavoro come contabile. Tom rifiuta, lavorare non gli interessa, ed esprime il suo primo
desiderio: diventare ricco. All'istante compare uno sconosciuto, Nick Shadow, per annunciare che
uno zio di Tom, appena defunto, ha lasciato in eredità al nipote un patrimonio. Tom assume Shadow
al proprio servizio e decide di stabilirsi a Londra prima di sposare Anne. I due giovani si separano
affettuosamente. Shadow dichiara che per la sua ricompensa attenderà un anno e un giorno, quindi
si rivolge al pubblico rivelandosi come il diavolo: «La carriera di un libertino ha inizio».

Scena 2. Il bordello di Mother Goose, a Londra. Tra prostitute e clienti, la tenutaria Mother Goose e
Shadow inculcano a Tom i princìpi di un'esistenza cinica e dissoluta. Quando il discorso cade
sull'amore, tuttavia, il giovane è afferrato dalla nostalgia per Anne; vorrebbe andarsene, ma Shadow
ferma il tempo e lo riporta indietro di un'ora, incitando Tom a divertirsi. Il giovane si rivolge allora
ad Amore perché accolga la sua tristezza; le prostitute, turbate e affascinate, vorrebbero consolarlo,
ma Mother Goose afferma il propri diritti e si apparta con il giovane. Shadow commenta che
quando i sogni del libertino finiranno questi morirà.

Scena 3. Il giardino della casa di Trulove, notte autunnale di luna piena. Anne è convinta che,
nonostante non abbia più notizie di Tom, il giovane la ami ancora e abbia bisogno del suo aiuto. Per
questo è decisa ad andare a Londra a cercarlo, e invoca come alleate la notte e la luna.

Atto secondo

Scena 1. Stanza della colazione nella casa di Tom, in una piazza di Londra. Tom è annoiato, deluso
dalla vita brillante che conduce ed esprime un secondo desiderio: essere felice. Shadow lo convince
allora a prendere in moglie Baba la Turca, mostruosa donna da circo con tanto di barba nera:
soltanto così, con un gesto gratuito che lo libererà in un sol colpo dai vincoli della passione e della
ragione,Tom potrà essere felice. Una risata dei due uomini ne suggella l'intesa.

Scena 2. La strada di fronte alla casa di Tom, crepuscolo autunnale. Anne sta aspettando Tom,
quando è sorpresa da una processione di servitori. Tom scende da una portantina, vede la ragazza e
tenta di convincerla a ritornare a casa. Seduta nella portantina, Baba la Turca, il volto velato,
reclama intanto le attenzioni del marito: Tom confessa alla stupefatta Anne che quella è la sua sposa
e tranquillizza Baba dicendole che l'altra donna non è che una lattaia alla quale deve del denaro.La
folla dei passanti ha nel frattempo riconosciuto Baba e la acclama; per compiacere il pubblico, Baba
allora si toglie il velo mostrando la sua folta barba nera.

Scena 3. La stanza della casa di Tom, ora ingombra di oggetti di ogni genere. Tom non sopporta più
la presenza e le continue chiacchiere di Baba, la quale dal canto suo reagisce con furia all'irritazione
e al disprezzo del marito. Mentre Tom, dopo aver zittito la moglie ponendo sul capo di lei la sua
parrucca, si abbandona al sonno, sopraggiunge Shadow con una strana macchina che trasforma le
pietre in pane (pantomima). Svegliatosi, Tom esprime un terzo desiderio: compiere buone azioni
con una macchina che ha appena sognato ed essere degno dell'amore di Anne. Quando riconosce la
macchina in quella di Shadow, Tom esulta: ne vuole costruire altre, su scala industriale, così da
eliminare dal mondo fame e povertà.

Atto terzo

Scena 1. La stanza nella casa di Tom, con ogni cosa ricoperta di ragnatele e di polvere. L'impresa di
Tom è fallita e i suoi beni sono messi all'asta; Anne è tra il pubblico. Nella serie dei beni all'incanto
c'è anche Baba, che, non appena viene rimossa la parrucca che le copre la testa, riprende il discorso
interrotto nella scena precedente. Dalla strada, arrivano le voci irridenti di Tom e Shadow. Prima di
uscire dignitosamente di scena con l'aiuto riluttante di Sellem, il banditore, Baba rassicura Anne
sull'amore di Tom nei confronti di lei.

Scena 2. Un cimitero con tombe, in una notte senza stelle. Sono trascorsi un anno e un giorno dal
patto tra Tom e Shadow e quest'ultimo reclama il suo compenso: non si tratta di denaro, ma
dell'anima del libertino. A lui il diavolo concede tuttavia, per eccesso di presunzione, un'estrema via
di scampo: può ancora giocarsi la vita - e la salvezza dell'anima - in una partita a carte. Tom deve
indovinare le tre carte che Shadow estrarrà dal mazzo. E, anche grazie al suo amore per Anne, le
indovina: la prima è la regina di cuori; la seconda, il due di picche; la terza, ancora la regina di
cuori che Shadow, barando, aveva reinserito nel mazzo e di nuovo estratto. Sconfitto, il diavolo
sprofonda nel fuoco e nel ghiaccio ma porta con sé la ragione di Tom che ora crede di essere Adone.

Scena 3. Il manicomio di Bedlam. Credendosi Adone, Tom chiama gli altri internati a celebrare le
sue nozze con Venere; e in effetti, quando sopraggiunge Anne, egli la prende per la dea dell'amore.
Le chiede perdono. Anne, dal canto suo, culla Tom e lo addormenta con una ninna nanna prima che
Trulove sopraggiunga e la porti via. Risvegliatosi, Tom cerca invano la sua Venere ma non la trova
e muore con il cuore spezzato.

Epilogo. Davanti al sipario, s'accendono le luci. Si presentano i personaggi principali dell'opera, per
affermarne la morale: con gli oziosi il diavolo trova sempre lavoro.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Stravinskij aveva iniziato a pensare a un'opera in inglese sin dal 1939, quando si era stabilito negli
Stati Uniti. Perché si presentasse l'occasione di realizzarla, tuttavia, avrebbe dovuto aspettare
diversi anni. Nel maggio 1947 il compositore visitò la mostra di William Hogarth, allestita nel
Chicago Art Institute, e fu decisiva, per la scelta del soggetto, l'impressione di grande teatralità
suscitata dalle incisioni tratte dal ciclo di otto dipinti The Rake's Progress (1732-33). Non è chiaro
se questa impressione fosse allora rafforzata in Stravinskij dalla conoscenza diretta delle recenti
trasposizioni del soggetto nel balletto di Ninette de Valois (1935) e nel film di Sidney Gilliat con
Rex Harrison (1945). Certo è che, su consiglio di Aldous Huxley, il compositore individuò come
librettista Wystan Hugh Auden, il quale, dopo aver lavorato nel novembre 1947 con Stravinskij per
definire la sceneggiatura, l'intreccio, i personaggi e lo stile dell'opera, chiamò a collaborare al
libretto l'amico Chester Kallman. Il testo fu redatto in pochi mesi e consegnato alla fine di marzo
1948. Stravinskij lavorò alla partitura componendo un atto per anno e completò il lavoro nella
primavera del 1951.

Programmato dal XIV Festival di Musica Contemporanea di Venezia in coproduzione col Teatro
alla Scala, The Rake's Progress andò in scena al Teatro La Fenice l'11 settembre 1951. Per la prima
assoluta fu lo stesso Stravinskij a salire sul podio, mentre le altre recite furono dirette da Ferdinand
Leitner; tra gli interpreti dello spettacolo, firmato per la regia da Carl Ebert, c'erano Robert
Rounseville (Rakewell), Elisabeth Schwarzkopf (Anne), Otakar Kraus (Shadow) e Jennie Tourel
(Baba). Al successo di pubblico non corrisposero gli unanimi consensi della critica, che anche nelle
numerose riprese successive (soltanto nei restanti mesi del 1951 l'opera andò in scena in tedesco a
Stoccarda e ad Amburgo, in italiano a Milano) si divise sul carattere retrospettivo dell'opera; opera
che, in ogni caso, si sarebbe poi imposta come la più rappresentata tra quelle composte dopo la
morte di Puccini. Il rapporto controverso del Rake con «tradizione» e «modernità» ha fornito del
resto materia per una discussione storico-critica quasi inesauribile; il che sta già a indicare la vitalità
estetica e le ambiguità affascinanti di un'opera irriducibile a una chiave di lettura univoca.

A ben guardare, le stesse categorie di «tradizione» e «modernità» appaiono equivoche se non sono,
a loro volta, storicizzate. Da un lato è ovvio che il Rake possa sembrare - e tanto più poteva
sembrarlo nel dopoguerra delle neoavanguardie - più che altro un'opera esplicitamente e
polemicamente retrospettiva; lo stesso Stravinskij scrive in Memories and Commentaries: «The
Rake's Progress è decisamente un'opera, composta di arie, recitativi, cori e pezzi d'insieme. La sua
struttura musicale, il concetto dell'uso di queste forme, perfino i rapporti tonali, sono sulla linea
della tradizione classica». Secondo lo schema interpretativo che suddivide l'attività di Stravinskij in
fasi ben distinte, con essa si concluderebbe il cosiddetto periodo «neoclassico» iniziato con
Pulcinella (1920); e senza dubbio il «neoclassicismo» del Rake è manifesto in ogni aspetto
dell'opera: dal soggetto alla struttura, dal testo alla musica. Prendendo a modello l'architettura
drammaturgica e le forme dell'opera comica del Settecento nella declinazione di Mozart e Da Ponte
- con particolare attenzione a Così fan tutte - Stravinskij trovò un coautore tanto ideale quanto
geniale in Auden, per il quale il problema della «modernità» consisteva nel non essere «più
sostenuti dalla tradizione senza esserne consapevoli» [«no longer supported by tradition without
being aware of it»].

Dall'altro lato, sarebbe equivoco considerare regressivo in sé il principio dell'«opera a numeri» in


opposizione a quello del «dramma» di ascendenza wagneriana, in cui la logica dell'azione attraversa
e connette le scene. Come la raffinata «favola» di Auden e Kallman offre un ordito ricchissimo di
citazioni, allusioni, riferimenti letterari e culturali, così la musica di Stravinskij manifesta una fitta
rete di richiami che comprende, oltre a Mozart, Händel e Gluck, Schubert e Weber, Rossini e
Donizetti, Verdi e Cajkovskij. Eppure la partitura, che nel testo si riflette in modo speculare, non è
tanto un virtuosistico pastiche quanto piuttosto la quintessenza dell'assimilazione organica di
Stravinskij al proprio stile, in un atteggiamento onnivoro non privo di tratti necrofagi, di forme e
convenzioni drammaturgiche della tradizione operistica, utilizzate come materiali e strutture da
impiegare in un complesso gioco teatrale, che ha appunto il senso della «favola», con consapevole,
ironico distacco (in modo non molto diverso Stravinskij avrebbe d'altronde assimilato dopo il Rake
la serialità, ormai divenuta anch'essa ai suoi occhi un linguaggio storicizzato). Auden e Stravinskij
imprimono alla dimensione morale e alla critica sociale di Hogarth una nuova tensione ideale,
segnata da connotazioni mitologico-culturali e religiose e incentrata sul tema della redenzione
attraverso l'amore. Per questo gli stessi personaggi sono creature ben più complesse dei tipi umani
suggeriti da Hogarth: in Tom Rakewell si ravvisano i lineamenti di Prometeo, Don Giovanni, Faust
e persino di Cristo tentato da Satana; in Anne, quelli di Venere e della Mater dolorosa; nel diavolo
Nick Shadow, quelli di un mefistofelico alter ego del protagonista.

Cesare Fertonani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La genesi di The Rake's Progress (La carriera del libertino), l'opera capitale del periodo americano
di Stravinskij (aveva lasciato la Francia allo scoppio della seconda guerra mondiale), ci è narrata
diffusamente dallo stesso autore. "Sei anni fa (cioè nel 1947), a Chicago, ad una mostra sulla pittura
inglese, fui colpito dalle diverse serie narrative di Hogarth [William Hogarth, pittore inglese del
Settecento, nato e morto a Londra rispettivamente nel 1697 e nel 1764] che mi sembrarono una
successione di scene d'opera. Poco dopo, conversando con il mio amico e vicino di Hollywood
Aldous Huxley - che si potrebbe chiamare il 'padrino' della mia opera, poiché fu lui a suggerire
Wystan H. Auden come librettista - discutemmo il problema dell'opera in lingua inglese. Nel
settembre 1947, dopo aver finito l'Orpheus, informai il mio editore, il defunto Ralph Hawkes, del
mio progetto di scrivere una lunga opera. L'idea gli piacque molto; commissionò il libretto a
W.H.Auden. In novembre il poeta mi raggiunse a Hollywood: ci accordammo sul soggetto, una
favola morale in tre atti basata sulla serie The Rake's Progress e impostammo una trama, l'azione, le
scene e i personaggi. Tornato a New York, Auden prese come collaboratore Chester Kallman. Nel
marzo 1948, consegnarono quello che è sicuramente uno dei più bei libretti d'opera. La
composizione della musica mi tenne occupato per tre anni [1948-1951: l'Epilogue è datato 7 aprile
1951]". Per la prima rappresentazione Stravinskij preferì un teatro di proporzioni ridotte ma di
grande tradizione, come La Fenice di Venezia. La première ebbe luogo martedì 11 settembre 1951,
nell'ambito del XIV Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia. Il coro e
l'orchestra erano quelli del Teatro alla Scala, sotto la direzione dell'autore; il regista Carl Ebert; nel
cast figuravano nomi importanti: Raffaele Ariè, Elisabeth Schwarzkopf, Robert Rounseville, Otakar
Kraus e Jennie Tourel.

Stravinskij coltivava da molti anni l'idea non soltanto di tornare all'opera, che nel suo catalogo
mancava dai tempi giovanili di Le rossignol e Mavra, ma anche di scrivere un'opera in inglese, che
cioè nascesse con la prosodia inglese e fosse elaborata alla sua maniera con corrispondenti elementi
di gesticolazione musicale. La visione dei quadri di Hogarth fu dunque soltanto l'occasione esterna
che mise in moto un meccanismo in parte già prefigurato. Fu però un impulso decisivo, almeno per
due motivi. Il racconto per immagini di Hogarth intitolato appunto The Rake's Progress, una serie
di otto dipinti del 1732-1733 divenuti molto popolari grazie alle incisioni che ne furono tratte, oltre
a narrare una storia emblematica - l'ascesa e la caduta del libertino come lo poteva intendere
moralisticamente il razionalismo settecentesco -, rappresentava nel suo seguito di scene un'idea
molto vicina alla concezione che Stravinskij aveva dell'opera, ossia come una serie di quadri
staccati basati su forme chiuse; inoltre costituiva la quintessenza di quel particolare tipo di
Settecento inglese che configurava un idioma e in musica si rispecchiava nel melodramma italiano,
e nel Mozart italiano in particolare. Non dramma musicale, dunque, ma opera: da questo punto di
vista The Rake's Progress è, come scrisse l'autore, "decisamente un'opera, composta di arie,
recitativi, cori e pezzi d'insieme. La sua struttura musicale, il concetto dell'uso di queste forme,
perfino i rapporti tonali, sono sulla linea della tradizione classica".

Naturalmente a Stravinskij non sfuggiva che un'opera "sulla linea della tradizione classica" avrebbe
comunque dovuto confrontarsi con la contemporaneità, e non soltanto per evitare l'accusa di
restaurazione e di sguardo rivolto nostalgicamente al passato (accusa che già aveva colpito anni
addietro i suoi lavori cosiddetti neoclassici): si trattava anche di una questione, oltre che di forme,
di linguaggio e di stile, anzi di cristallizzazione di un nuovo stile. Il suo modo di intendere la
contemporaneità non era però basato sul principio di progresso, bensì di riflessione: e in questo
senso non esistevano esperienze che non potessero essere rese attuali. In questa sorta di moto
pendolare, di storicità e rispecchiamento, la vicenda illustrata in The Rake's Progress conteneva non
soltanto precisi riferimenti a un modello storico ma anche elementi di universalità che la visione
contemporanea avrebbe potuto rendere più chiari: di fatto li rese più problematici. Sotto questo
profilo il ciclo di Hogarth, tipico prodotto della cultura inglese del Settecento "moralista", ossia
incline alla satira e alla parodia della società londinese del tempo, diviene un apologo, una favola
non più soltanto "morale" bensì "artistica", una parabola caricata di simboli assai più pregnanti e
sospesa in una dimensione mitica, senza spazio e senza tempo. In altri termini, La carriera del
libertino assume un valore più comprensivo e si trasforma, come acutamente suggerisce Quirino
Principe, nella Carriera di libertino: dove il libertino è prima di tutto l'autore alle prese con i suoi
ritorni al passato e le sue alchimie di compositore spregiudicato, capace di ironizzare anche su se
stesso.
Nell'operazione che fece di The Rake's Progress un'opera tipicamente novecentesca per coscienza e
consapevolezza gran parte ebbero i due librettisti, che lavorarono con il compositore in una stretta
consonanza di intenti. Il libretto del poeta Auden, al quale l'amico Kallman portò in dote la sua
esperienza teatrale scrivendo l'ultima parte dell'atto I scena I e tutta la scena III, parte della scena I
dell'atto II e tutta la scena II, parti delle scene I e II dell'atto III, si distacca dallo schema di Hogarth
proprio al fine di rendere più ricco e multiforme, più screziato e da ultimo più ambiguo, il
significato della vicenda. "Nel comporre il nostro libretto" - scriveva Auden - "Chester Kallman e io
abbiamo conservato gli elementi essenziali della versione di Hogarth come l'improvvisa eredità, lo
sperpero della stessa, il matrimonio con una brutta e vecchia donna, la vendita all'asta della
proprietà dell'eroe e la sua fine in manicomio. Abbiamo poi aggiunto altri tre miti comuni: 1) la
storia di Mefistofele - qui il protagonista Tom Rakewell si prende un servo chiamato Ombra; 2) una
partita di carte con il diavolo in cui il diavolo perde per soverchia fiducia in se stesso; 3) il mito dei
tre desideri: nell'opera il primo desiderio di Rakewell è di essere ricco, il secondo di essere felice e
il terzo di essere buono. Questi tre desideri sono in relazione con le tre tentazioni e rispettivamente
cioè con il desiderio del piacere, il desiderio dell'assoluta libertà spirituale in qualche atto gratuito, e
il desiderio di diventare il salvatore del mondo". In effetti, guardando più da vicino, il protagonista
Tom Rakewell ha contorni assai più problematici e sfumati, e non è solo un corrotto, un dissoluto
che dopo aver sperperato la sua vita viene punito. La fortuna non gli deriva dall'eredità del padre
avaro (come nel primo dei quadri di Hogarth), ma gli viene lasciata inaspettatamente da un ricco zio
che egli neppure conosce; l'ascesa non è segnata dall'esibizione della ricchezza accumulata e
dall'ambizione di emancipazione sociale tipo borghese gentiluomo (La levée, secondo quadro di
Hogarth), ma dall'azione di una potenza demoniaca esterna. Anche le ragioni della sua caduta sono
modificate da Auden, che lo mostra non soltanto soccombere alla lussuria e ai piaceri della carne
(come nella scena del bordello, pendant del quadro III hogarthiano, L'orgia), ma abbandonarsi
anche alla sfrenatezza dell'acte gratuit (il matrimonio con la mostruosa Baba la Turca) e alla
megalomane illusione di poter cambiare le miserie del mondo sfruttando la fantastica invenzione
che tramuta le pietre in pane: del che in Hogarth non vi è traccia. Anche la figura di Hogarth della
fanciulla (Sarah Young) che il protagonista ha sedotto promettendole il matrimonio e da cui ha
avuto un figlio scompare e il suo posto è preso dalla virtuosa e delicata ragazza di campagna Anne
Trulove, che incarna l'immagine stessa dell'amore fedele e idealizzato. La novità più importante è
però costituita dall'invenzione di un personaggio del tutto estraneo a Hogarth, Nick Shadow, che
riassume in sé i tratti di Mefistofele, alter ego di Rakewell-Faust, e di Leporello, servitore di
Rakewell-Don Giovanni. Shadow si offre di realizzare i tre desideri di Rakewell - ricchezza,
felicità, salvezza del genere umano - ma dopo un anno e un giorno di servizio (l'azione si svolge da
primavera a primavera), falliti i suoi desideri, gli rivela di essere il diavolo e reclama come
compenso l'anima del suo padrone. Rakewell ottiene di poter giocare il suo destino a carte e con
fortuna stupefacente vince; il diavolo allora lo condanna alla follia. Se per lui non vi è redenzione,
la sua fine non è la conseguenza di un comportamento scellerato bensì di un potere soprannaturale
di cui è vittima.

Il modello a cui Stravinskij si ispirò nello scrivere un'opera di stile "italiano-mozartiano" fu per sua
stessa ammissione Così fan tutte; alcuni momenti, come la scena II dell'atto III e il quintetto
dell'Epilogo, richiamano invece rispettivamente la scena del cimitero e il sestetto finale del Don
Giovanni. Nella sua favola morale Stravinskij interpretò in senso novecentesco non soltanto le
convenzioni ma anche lo spirito del dramma giocoso mozartiano, intrecciando commedia e tragedia
in modo ingegnoso e vario. I nomi dei personaggi sono maschere di commedia (nella traduzione
italiana del libretto si chiamano Tom Birba, Nick Ombra, Corfido, Mamma Oca) e talora l'azione
volge decisamente alla farsa; gli stati d'animo sottendono però una gravità permeata di serietà e di
mistero. E per quanto l'Epilogo stemperi la tensione introducendo la morale della favola in una
sorta di giocoso vaudeville, la catastrofe finale della pazzia nell'ultima scena del manicomio non
manca di suscitare pietà e prolunga il suo alone tragico oltre lo scioglimento lietamente distensivo.
Se Mozart è dunque il punto di partenza, con qualche reminiscenza delle atmosfere elisie di Gluck,
molteplici sono i riferimenti sia all'operismo barocco inglese (Purcell e Haendel), sia al
melodramma italiano del primo Ottocento (Rossini, Donizetti, Verdi), sia alle proiezioni del
settecentismo che giungono nell'Ottocento fino a Gounod (Faust), Offenbach (Orfeo all'inferno) e
naturalmente Cajkovskij (La Donna di picche: il personaggio di Hermann, le carte, il diavolo). In
ogni caso si tratta però più di memorie storiche sedimentate, ripensate se non reinventate, che di
esplicite, riconoscibili citazioni.

Anche l'orchestra si rifà al più tipico organico settecentesco: legni e ottoni a due (senza i tromboni),
timpani e archi, più il clavicembalo, cui è affidato non solo l'accompagnamento dei recitativi
"secchi" ma anche parti "drammatiche" di rilievo (nell'elenco premesso alla partitura Stravinskij
scrive "Cembalo (Pianoforte)"; alla prima veneziana fu impiegato il pianoforte, ma in molte
esecuzioni successive fu ripristinato l'uso del clavicembalo: è una questione aperta). I recitativi
"secchi" sono lo scheletro di un'opera che si articola in numeri chiusi chiaramente segnati in
partitura e che consistono anche di "accompagnati", ariosi, arie, ensembles (Duetti, Terzetti e
Quartetti), concertati e vari interventi corali. I tipi di aria comprendono come casi estremi una
Cavatina (per Tom) e una Cabaletta (per Anne): in genere le parti vocali mantengono una costante
cantabilità, con uso di intervalli ampi in funzione espressiva sia per Tom sia per Anne (la rovina di
Tom sarà anzi sottolineata dalla perdita progressiva di questa facoltà di espandersi liricamente e
dalle spire di un attanagliante cromatismo). Le arie, gli ensembles e i cori sono generalmente scritti
in versi, mentre i recitativi sono in prosa. I vari numeri sono collegati da un deliberato impianto
tonale che si rivela essenziale nella costruzione dei personaggi e delle situazioni (per esempio il la
maggiore con cui l'opera si apre e si chiude) e il gioco delle modulazioni, mobile e spesso
imprevedibile, vi recita un ruolo di primo piano.

Caratteristico è anche il ricorso, in alcune arie, a introduzioni strumentali e a soli "obbligati" che
definiscono un clima, a seconda che si tratti di tromba, oboe, fagotto o corno. La parte strumentale
presenta la trasparenza e la sobrietà di una composizione da camera: e come "musica da camera"
l'autore considerava fondamentalmente la sua opera. I tratti più caratteristici dello stile
stravinskiano si riscontrano però nel ritmo e nelle armonie. Nel ritmo predominano l'ostinato e il
ribattuto, che scandiscono la vicenda come in una marcia ineluttabile, tanto oggettiva quanto
ossessiva. I costrutti armonici sono invece spesso apparentemente "sporchi", in realtà sottoposti a
un processo di acidificazione che li rende caustici e velenosi. Né mancano da un lato gli arcaismi
modali, che offrono quasi un'oasi di pacificante consolazione, dall'altro le incursioni nella
politonalità più inquieta e nervosa, per mezzo di continue sovrapposizioni e incroci. Nel complesso,
però, l'opera mantiene una quadratura classica: divisa in tre atti, si articola in nove scene intese
come entità a sé stanti, tre per ogni atto, e in un "a parte" in forma di Epilogo.

Il primo atto è introdotto da un brevissimo preludio, affidato quasi esclusivamente a una fanfara di
trombe e corni, poco più di un segnale e un richiamo all'attenzione: l'autore lo considerava "non
ouverture, né un preludio importante, ma semplicemente l'equivalente di 'on va commencer', 'si
incomincia'. La prima scena del primo atto si svolge in un pomeriggio primaverile nel giardino
della casa di campagna di Trulove (basso), padre di Anne (soprano), fidanzata di Tom Rakewell
(tenore). Il Duetto iniziale di Anne e Tom, che diviene Terzetto con l'intervento, a parte, del padre di
Anne, si svolge in un arcadico clima settecentesco, mite e idilliaco, riecheggiante teneri spunti
mozartiani. Nel Recitativo secco che segue, Trulove offre a Tom un impiego in banca, ma Tom lo
rifiuta e in un Recitativo seguito da un'Aria bellicosa rivela di nutrire altre ambizioni e di sperare
nell'aiuto della fortuna: poi emette il suo primo desiderio, "vorrei molto denaro". Appare
improvvisamente al cancello Nick Shadow (baritono), l'Uomo Ombra, il diavolo in incognito: la
sua apparizione è contrassegnata da un arabesco del clavicembalo, un arpeggio che nel corso
dell'opera ritornerà significativamente a quasi tutte le sue entrate. In un Recitativo accompagnato
dall'orchestra Shadow annuncia a Tom che ha ereditato le ricchezze di uno zio sconosciuto. La
sorpresa si mescola alla gioia, e nel Quartetto che segue Tom, Anne e Trulove manifestano i loro
sentimenti, mentre Shadow, che Tom ha ingaggiato come servitore, lo invita a recarsi a Londra per
curare i propri affari. Anne e Tom, rimasti soli, si salutano in un Duettino trasognato, che riporta i
palpiti soavi del Così fan tutte mozartiano. In un nuovo Recitativo, accompagnato alternativamente
dal solo clavicembalo e dall'orchestra, Tom chiede a Shadow quale sia il suo compenso. Shadow
risponde elusivamente che tra un anno e un giorno egli pagherà quanto sarà giusto. Tom accetta di
buon grado, suggellando il patto con una rapida cadenza "perfetta". La scena si chiude con un
Arioso e un Terzettino: nell'Arioso Tom prende commiato da Anne e Trulove, promettendo di
chiamarli a Londra al più presto; nel Terzettino, iniziato da Tom, i tre personaggi esprimono
"ognuno per sé", come il compositore indica in partitura, i diversi stati d'animo al momento
dell'addio. Poi, con un semplice arpeggio di sol maggiore sostenuto dal rullo dei timpani, Shadow,
alla maniera di un banditore da fiera, annuncia al pubblico: "La carriera del libertino ha inizio".

La seconda scena si svolge a Londra nella casa di piacere di Mamma Goose (Mamma Oca,
mezzosoprano). Un coro di sgualdrine e crapuloni, tra sfrontati ritmi marziali e carezzevoli
seduzioni, inneggia brindando a Venere e a Marte. Shadow introduce Tom, affinché venga
esaminato dalla padrona del locale prima di essere iniziato al piacere del bordello. In un Recitativo
drammatico accompagnato dall'orchestra Tom risponde a tutte le loro domande, ma si arresta come
confuso e sgomento di fronte a quella che riguarda l'amore vero. L'orologio a cucù suona l'una. "E'
tardi!", conclude Tom. A un cenno di Shadow l'orologio torna indietro e suona la mezzanotte.
Riprende il coro provocante delle prostitute e dei giovanotti. Tom replica intonando una
malinconica Cavatina accompagnata dagli archi e dal clarinetto obbligato, nella quale piange il suo
tradimento verso Anne, e prega il dio Amore di assisterlo, anche se sa di non avere la forza di
resistere alla tentazione. Il coro delle cortigiane si fa allora sentimentale e invita Tom a dimenticare
le sue pene e la sua tristezza tra le loro braccia. Ma Mamma Oca, reclamandolo per diritto di
anzianità, s'impadronisce del giovanotto e s'allontana con lui, mentre il coro fa ala al loro passaggio
con maliziose eppur enigmatiche, lubriche allusioni. Shadow alza il bicchiere augurando a Tom
sogni dolci durante quel sonno alla cui fine l'attende la morte.

Con la terza scena ritorniamo nella casa di campagna di Trulove. E' una notte autunnale di luna
piena. In un Recitativo accompagnato dagli archi e in un'Aria timbrata dal suono scuro e insinuante
del fagotto concertante Anne esprime la sua desolazione per non aver ricevuto notizie da Tom. E' un
momento di altissima concentrazione emotiva e di profonda umanità, che ricorda addirittura la
severità incantata di certe Arie delle Passioni di Bach: il personaggio di Anne, creatura gentile e
affettuosa, semplice e schietta, riceve qui la sua consacrazione di luce nelle tenebre. Ma non solo.
Anne possiede anche la chiarezza della decisione; sicché, con repentino cambiamento d'umore, può
slanciarsi in una brillantissima e inaudita Cabaletta, la cui sfacciata parodia di stilemi italiani, con il
suo vertiginoso virtuosismo, non intacca la genialità di un'invenzione miracolosamente libera e
travolgente.

La prima scena del secondo atto (a Londra, in casa di Tom) si apre con un lungo a solo (un'Aria
intramezzata da un denso Recitativo) nel quale Tom dà voce alla noia e al disgusto della sua nuova
vita, dissipata e oziosa, in città: si sente prigioniero, e al tempo stesso triste, svuotato. Sospira un
desiderio: "vorrei essere felice". Ed ecco arrivare, preannunciato dal sinistro arabesco del
clavicembalo, Shadow che reca il ritratto di Baba la Turca, una donna barbuta, mostruosa, che si
esibisce come attrazione nei baracconi della fiera. Un Recitativo accompagnato prima dal solo
clavicembalo, poi da secchi accordi dell'orchestra, e infine da un'insistente figurazione ritmica degli
archi, sostiene il dialogo nel quale Shadow induce Tom a chiedere in sposa Baba la Turca, onde
affermare con un atto gratuito e assurdo la propria incondizionata libertà. Nel Duetto finale i due
compari, dopo una risata euforica, prorompono nella gioia incontenibile e insensata di mettere in
atto la loro colossale e bizzarra burla. La seconda scena si svolge di fronte alla casa di Tom. Anne è
giunta a Londra e si aggira sola e smarrita davanti alla dimora del fidanzato: questa sorta di ansiosa
pantomima è accompagnata dal canto nudo e solitario di una tromba, evidente, anzi dichiarata
reminiscenza del Don Pasquale di Donizetti. In un Arioso Anne manifesta tutto il suo affanno, che
da concitato e fremente si trasforma in un più disteso e lirico melodizzare intriso di speranza. Al
suono di un'allegra marcetta s'avanza un corteo nuziale: i servitori depongono a terra una portantina
chiusa, scortata da Tom. Anne riconosce Tom: segue un Duetto nel quale la fanciulla dà sfogo alla
sua gioia, è pronta a perdonare le miserie di cui Tom si accusa di fronte a lei e a dimenticare ogni
offesa. Invano Tom cerca di persuaderla ad allontanarsi. A un tratto si ode la voce di Baba
(mezzosoprano), che aprendo lo sportello della portantina e sporgendo il volto velato protesta con
voce querula di essere stufa di aspettare. Il Duetto si muta in Terzetto (anzi Trio, come scrive
Stravinskij): Anne apprende da Tom che Baba è sua moglie e, al colmo del dolore, si dispera e
fugge. E' uno dei momenti più intensi dell'opera, delicato e al tempo stesso amaramente patetico e
grottesco, gonfio di ironia tragica: come ha scritto Massimo Mila, "nessuna parola riuscirebbe mai a
rendere con l'evidenza, con la realtà di questo canto, la disperazione d'una fatalità assurda che
separa due esseri proprio nel momento in cui riconoscono ancora una volta d'amarsi più di ogni
altra cosa al mondo". Partita Anne, ha inizio il Finale, con effetto quasi straniante nella sua solenne
indifferenza: Tom aiuta con galanteria la sposa a uscire dalla portantina e si avvia con lei sullo
scalone; Baba, come una grande diva, si toglie il velo e mostra la sua barba nera, fluente, alla folla,
che trionfalmente l'acclama.

La terza scena ha luogo nella stessa stanza del primo quadro, ora piena di oggetti strani e
improbabili. I due sposi siedono a tavola per colazione. Baba attacca un'Aria monotona e
cantilenante sopra un "perpetuum mobile" degli archi e dei clarinetti, distrattamente seguita dal
marito annoiato; allora, per attirare la sua attenzione, intona una sguaiata Canzoncina sentimentale,
mentre l'orchestra tace del tutto. Tom la interrompe brutalmente e scoppia una rissa, con l'isteria di
Baba tradotta ora in furiose esclamazioni ora in disumani gorgheggi. Per farla definitivamente
tacere, Tom le caccia sul viso la sua parrucca, poi sfoga la sua indifferenza in un breve Recitativo,
infine si addormenta arcanamente ipnotizzato da una lunga nota tenuta del corno con sordina e della
viola sul ponticello. Nella Pantomima che segue entra di soppiatto nella stanza Nick Shadow
recando con sé una strana, fantastica macchina: prende un panino dalla tavola, apre uno sportello
sul davanti della macchina, vi caccia dentro il panino e richiude lo sportello. Poi raccoglie da terra
un coccio di vaso, lo getta in un imbuto della macchina, gira una ruota e il panino cade fuori da un
canale. Apre lo sportello, tira fuori il pezzo di porcellana, v'introduce il panino e ripete la manovra:
tutto ciò deve accadere in modo che il pubblico si accorga che tutto il meccanismo è un assurdo
imbroglio. Soddisfatto, Shadow canterella una triviale melodia. Quando dall'orchestra sale la nota
figura arpeggiata del clavicembalo che rivela la presenza diabolica, Tom si sveglia pronunciando il
suo terzo desiderio: "vorrei che fosse vero". Poi, in un Arioso, racconta d'aver sognato una
macchina capace di liberare l'umanità dal bisogno, trasformando i cocci o le pietre in pane. Shadow
gli fa vedere la macchina e lo invita a provarla: detto fatto. Tom, estasiato, cade in ginocchio.
Attacca a questo punto il vivace Duetto finale, nel quale Tom si abbandona all'entusiasmo e incita
all'azione, dimenticando Baba e i suoi lamenti, più che mai sicuro della protezione di Shadow.

Nella sua riconfermata varietà - una prima scena comicamente grottesca, una seconda intensamente
drammatica, una terza in modo toccante patetica - il terzo atto costituisce il culmine sia drammatico
sia musicale dell'opera: un culmine però progressivamente segnato da un raffreddante anticlimax.
Esso inizia in un pomeriggio di primavera nella stessa stanza in casa di Tom, dove una folla di
Rispettabili Cittadini è convenuta per assistere chiassosamente alla vendita all'asta dei suoi ultimi
beni dopo la bancarotta. Baba è seduta ancora con la parrucca in testa allo stesso posto che
occupava alla fine del secondo atto. Giunge Anne, in cerca di Tom. Il suo impaccio, la sua
esitazione sono subito travolti dall'eccitazione per l'inizio dell'asta, condotta dal banditore Sellem
(tenore caratterista) con caricaturale frenesia: da notare lo straordinario effetto d'un "vibrato" di
tromba che scandisce ossessivamente su una sola nota ribattuta e via via ascendente di grado il
caotico avvicendarsi delle offerte. Roman Vlad vede in questa scena "gesti musicali da vertiginosa
'toccata' ; per Massimo Mila essa si configura invece come "una specie di gigantesco rondò".
Quando il banditore si avvicina a Baba credendola un oggetto dell'asta, Baba si risveglia, si libera
della parrucca e riattacca la sua Aria là dove l'aveva lasciata nel secondo atto. La folla ora non ha
occhi che per lei, la regina della fiera. Si odono fuori scena le voci di Tom e Shadow che cantano
una canzonetta volgarmente allusiva. Baba e Anne le riconoscono, incontrandosi. Nel Duetto che
segue Baba esorta Anne a rintracciare Tom per toglierlo dalle grinfie del suo diabolico servitore. Di
nuovo risuona dall'esterno la voce di Tom e Shadow, ancora più sguaiata, ancora più inquietante.
Anne si appresta a partire. Durante la Stretta finale, elaborata in uno spettacolare reticolo di
contrappunti e canoni, l'uscita trionfale di Baba è appena increspata dall'ultima ripresa della
canzonetta dei due compari, fuori scena, dileguante in lontananza.

E siamo alla lugubre scena del cimitero, la seconda dell'ultimo atto. E' una notte buia, senza stelle.
Arrivano Rakewell e Shadow, soffermandosi davanti a una fossa appena scavata. Sono trascorsi
l'anno e il giorno durante i quali Shadow si era impegnato a servire Tom. Ora esige il suo
compenso. Non vuole denaro, ma l'anima del suo padrone. Quanto al corpo, la fossa è pronta e Tom
potrà uccidersi con l'arma che vorrà allo scoccare della mezzanotte. Tom è terrorizzato, cupo,
rassegnato. Ma Shadow, attaccando improvvisamente un Recitativo, dichiara di voler offrire a Tom
un'ultima possibilità: egli potrà giocare la sua anima in una partita a carte. Il destino giocato in una
partita a carte: "simbolo" - commenta Massimo Mila - "della vita dell'uomo, il quale non è altro che
un trastullo, secondo il deterministico pessimismo stravinskiano, nelle mani di forze superiori, di
cui egli non può penetrare le leggi misteriose". Geniale è l'intuizione di accompagnare il lungo
Duetto della fatale partita con il suono oltremondano, metallico e duro, livido e glaciale, del
clavicembalo solo: sono lenti arpeggi bitonali, che ogni tanto si condensano in accordi arpeggiati,
gravi e spaziosi come in una danza macabra, ossessionanti e implacabili come in un "ostinato
perpetuo". Ancora Mila: "C'è una logica elusiva e inafferrabile nelle evoluzioni di quegli arpeggi
che non hanno fretta; la bitonalità produce l'effetto di una scissione dolorosa, d'un vuoto che non si
riesca a colmare, d'una ferita che non rimargina". Tom, soccorso dal pensiero di Anne, la cui voce
da ultimo risuona fuori scena con la forza dell'amore, vince le tre "mani" e allo scoccare della
mezzanotte ha salva l'anima; ma il diavolo, scornato e beffato, per vendicarsi della sconfitta lo priva
della ragione. Sulla scena si è fatta oscurità completa. Quando spunta l'alba, Tom siede sorridente e
stranito sul verde tumulo della sua tomba, si cosparge il capo d'erbetta e con voce infantile
canterella una filastrocca, dicendosi coronato di rose come Adone, in attesa della sua bella Venere:
con orrore ci accorgiamo che la sua cantilena altro non è che una parodia della canzonetta sguaiata
e volgare che poco prima aveva allegramente condiviso con il diavolo.

Nell'ultima scena Tom è nel manicomio di Londra. In un Arioso pregno di attesa e di calma
spettrale vagheggia l'arrivo imminente di Venere. Invano i matti cercano di persuaderlo che l'attesa
è vana: come lemuri gli danzano e cantano intorno con gesti di scherno un lugubre Minuetto. Ma
giunge Anne, introdotta dal guardiano, che mette in fuga i matti. Tom l'accoglie, credendola Venere,
con un Recitativo quasi Arioso di dolce, mortale spossatezza, lancinante e doloroso, chiedendo alla
Sublime Dea di accoglierlo nel suo grembo e di cullarlo. E come nel finale del Peer Gynt di Ibsen,
Anne canta una Ninna-nanna d'infinita, semplice e tenera bellezza, fino a che Tom non si
addormenta; poi, raggiunta dal vecchio Trulove, parte, giurando fedeltà eterna al loro amore.
Quando Tom si risveglia, rendendosi conto che Anne non è più lì, si dispera e impreca, accusando i
matti della sua scomparsa. Poi invoca Orfeo perché intoni il "canto del cigno" sulla morte del
giovane Adone. Il coro dei matti raccoglie l'invito al compianto, e con una lamentazione funebre di
cinerea fissità, nella tonalità di la minore, prende congedo dallo sfortunato amante, mentre il sipario
lentamente si chiude. Ma prima che giunga a chiudersi del tutto, Nick Shadow lo ferma con un
gesto e invita gli attori alla ribalta. In teatro si accende la luce. Ora gli uomini sono senza parrucche
e Baba la Turca senza barba. Un festoso tema orchestrale in la maggiore, lietamente circolare,
incornicia l'Epilogo, nel quale ogni personaggio a turno dà la sua versione della vicenda e tutti
insieme cantano la morale della favola: "Per chi nell'ozio se ne sta / il diavolo ha / da far, per lei,
signor, per lei, bella signora, / per lei e lei!". Poi s'inchinano rispettosamente al pubblico ed escono.

Non è questo dell'Epilogo il solo imprestito mozartiano che Stravinskij e i suoi librettisti si
concedono. Anzi, come si è già accennato, il ritorno a forme e atteggiamenti del passato raggiunge
in quest'opera un'evidenza forse maggiore che in qualsiasi altra opera precedente per ciò che
riguarda tanto gli estrinseci aspetti formali quanto gli intrinseci elementi del linguaggio sonoro
(melodia, ritmo, armonia, strumentazione ecc.). Eppure The Rake's Progress ci appare più che mai
oggi, cinquantatré anni dopo la sua prima apparizione, un'opera ineludibilmente, direi fatalmente,
forse disperatamente novecentesca. Stravinskij gioca con delle regole, ma poi le fa saltare. In altri
termini, il gioco stravinskiano, se davvero di gioco si tratta, è, come ben rappresenta la partita a
carte nel luogo simbolico della morte, il cimitero, un gioco da giocarsi in un cerchio magico, se non
addirittura in faccia alla morte: sotto questo aspetto niente vi è di più serio che la finzione sub
specie ludi. Non solo. In un certo senso The Rake's Progress è anche un'opera autobiografica, e il
libertino altri non è che Stravinskij stesso, compositore allo specchio della storia e dell'uomo. Con
una differenza, però: Tom, incarnazione dell'uomo senza qualità moderno, vive la contraddizione
interna di chi soccombe senza sapere perché e senza raccogliere altro frutto che insoddisfazione e
rimorso: la sua debolezza è una sorta di spleen della volontà. Stravinskij, al contrario, reagisce con
la forza della volontà alla coscienza della vanitas vanitatum e assume di volta in volta, come il
grande burattinaio della favola, anche gli attributi del diavolo e quelli della candida fanciulla mossa
dall'amore. E la salvezza è data proprio da questo trasformismo, che reintegra eroicamente la
tragica dissociazione dell'individuo in una categoria di superiore distacco, in una visione
panoramica, l'unica che possa consentire il recupero della totalità. Quando Stravinskij affermava
che "l'arte richiede soprattutto la coscienza dell'artista, pena la perdita di se stessi", non faceva altro
che riaffermare un principio che avrebbe esteso a ogni fase della sua "carriera" di compositore
"libertino". E se la storia ci ha insegnato che in arte il libertinaggio può essere anche indice di alta
moralità, il Novecento vi ha aggiunto la consapevolezza che ogni epoca costituisce un'unità storica.
Non vi è pessimismo, dunque, ma semmai una vena di scetticismo nelle parole che Stravinskij
aggiunge a questa consapevolezza: "Non apparirà mai se non come una cosa o l'altra ai suoi più
parziali contemporanei, naturalmente, ma la somiglianza è graduale, e col tempo l'una cosa e l'altra
divengono gli elementi compositivi della stessa cosa".

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

1. In principio fu l'OPERA. Presentando The Rake's Progress, Stravinskij, amante riamato di tutte le
forme musicali, si affrettò a dichiarare di aver voluto scrivere una vera opera, fatta di Arie e
Recitativi secondo la tradizione classica, e non un dramma, dal quale anzi intendeva porsi in totale
antitesi. Per meglio e con più forza esplicitare questo concetto nel colloquio avuto con Emilia
Zanetti alla vigilia della prima veneziana era giunto a rigettare perfino il Boris Godunov di
Musorgskij. Alla domanda su cosa l'avesse attratto "nel modello dell'opera italiana-mozartiana, con
la sua struttura a pezzi chiusi" aveva infatti risposto:

L'opera mi ha sempre interessato fin dall'inizio, mentre non gradisco, né tanto meno credo al
dramma musicale. Per esempio Musorgskij è innegabilmente un grande artista ma, mentre ammiro
Glinka e le sue opere, il Boris Godunov non mi dice niente.

Se tale era la sorte di un capolavoro del repertorio russo, figuriamoci quella riservata al Pélleas et
Melisande! Richiesto del suo interesse in merito, Stravinskij ribadiva:

[Mi interessa] Meno ancora. Il dramma musicale non può creare tradizioni. Esso è l'assenza totale
della forma. E, per me, l'arte acanonica non ha alcun interesse. On doit toujours se donner des
limites. Ciò che è anche la condizione per essere realmente liberi: non si ottiene la libertà se non si
accettano le costrizioni, se non si lavora entro certi limiti ben definiti, tra un principio e una fine. Il
vago, l'indeterminato è sospetto. Guardiamo ad esempio a Verdi stesso. Nell'Otello e nel Falstaff
prendendo la via del dramma musicale egli ha smarrito se stesso; di contro che mirabile opera la
Traviata, e, soprattutto, Il trovatore. Ebbene in entrambe la bellezza si appoggia ad una solida
architettura musicale.

Va da sé che in questi colloqui "a caldo" Stravinskij forza alquanto (sembra inutile sottolineare che,
a modo suo, Falstaff può essere considerato un ritorno convinto al numero chiuso). Ciò che
interessava era tener lontana qualsiasi ombra o sospetto di compiacenza nei confronti del "dramma
musicale" in nome dell'opera assoluta e assolutamente intesa.

A questo atto di fede nel genere si può associare quello sulla sua attualità e Stravinskij ricostruisce a
ritroso il suo iter, abbastanza anomalo, verso quest'opera e verso l'opera in assoluto, parzialmente
rinnegando anche alcuni propri lavori e considerando Mavra (un micromelodramma) la premessa
stilisticamente più vicina:
L'usignolo mi sembra assai più lontano di molte opere inglesi di tre secoli fa, o dell'opera
mozartiana italiana, che è stata tanto trascurata e malintesa dagli autori di melodramma. Mavra
suggerisce un confronto con questa mia attuale opera, in quanto quest'ultima risponde al mio
concetto di opera [...].

Questa dunque la strada verso il prodotto finito, così come l'autore volle rievocarla. Fondamentale,
a questo punto, il discorso che riguarda il rapporto tra musica e testo, musica e lingua, musica e
prosodia:

Da molti anni avevo coltivato l'idea di compone un'opera inglese. Con ciò intendo dire una musica
che traesse origine dalla prosodia inglese, elaborata a modo mio; come avevo fatto con le prosodie:
russa (L'usignolo, Mavra, Le nozze); francese (Persefone) e latina (Oedipus rex, Sinfonia di Salmi).

Il problema della lingua era stato posto anche nel colloquio con Emilia Zanetti. Di fronte alle
prevedibili obiezioni sulla possibilità dell'inglese di funzionare in un'opera quale intendeva l'autore,
Stravinskij si era affrettato a mettere le mani avanti:

Dopo aver scritto su testi russi, francesi e latini era venuta la volta di interessarmi alla prosodia
inglese. E conoscendo la lingua è facile rendersi conto della quantità di problemi che mi son trovato
a risolvere. Nondimeno perché mai l'inglese dovrebbe essere una lingua antimusicale? Ogni cosa
vale per quel che le si chiede di essere. Se avessi voluto una lingua sonora, piana e dolce, mi sarei
rivolto naturalmente all'italiano. L'inglese ha altre riserve musicali. Ma considerarlo antimusicale è
continuare un pregiudizio smentito prima che da me da due secoli di musica cantata inglese - il XVI
e il XVII - e da un artista come Purcell.

Questi dunque gli antefatti (veri o ricreati a posteriori), che collocano i problemi di genere, stile,
lingua e struttura. Nemico del dramma musicale, uscito nauseato dai rituali di Bayreuth, Stravinskij
non soffriva, almeno in apparenza, del male degli impotenti, il dubbio. The Rake's Progress volle
dunque essere, già in partenza, un manifesto poetico inteso a smantellare tutta una parte della storia
del teatro musicale. Il rifiuto del dramma era infatti il rifiuto di concedere alla musica possibilità
espressive che non fossero quelle, astratte ed assolute, dell'antica galleria degli affetti. Per far ciò
occorreva ricorrere non solo ad un soggetto adatto, ma anche a versi e strofe dotate di strutture a
loro volta solidissime. E infine che fare del vecchio Recitativo che, nell'opera italiana, aveva
sempre funto da ponte tra un numero chiuso e l'altro assicurando al dramma, o, se vogliamo
rifuggire da questa sospetta parola, alla vicenda, di andare avanti e di passare da un numero
all'altro? Era un compito arduo e solo felici circostanze e una serie di sceltissime collaborazioni
potè determinarne il felice esito.

2. La folgorazione avvenne nel 1947 all'Art Institute di Chicago nel corso di una visita casuale. Nel
Museo era esposto il celebre gruppo di quadri di Hogarth intitolato The Rake's Progress,
normalmente custodito nel Soane Museum di Londra. Iniziata verso il 1732 la serie degli otto
dipinti intendeva replicare il successo della precedente The Harlot's Progress, sei incisioni replicate
innumerevoli volte che avevano dato al pittore la fama che, ispirata al moralismo illuministìco,
illustrava gli inizi, il declino e la fine ("per una malattia propria alla sua professione" come notava
Jean André Rouquet, autore delle Lettres de Monsieur*** à un de ses amis à Paris pour lui
expliquer les Estampes de Monsieur Hogarth pubblicate nel 1749 per illustrare le serie delle
incisioni di Hogarth) di una prostituta. Il vizio "in progress" doveva affascinare molti altri nel
periodo, in pittura e soprattutto in letteratura, ivi compresi campioni dell'illuminismo nero come il
marchese de Sade. Dalla prostituta Hogarth passò al libertino, allargando e raffinando l'impianto.
Reso cauto dagli abusi che si erano verificati con le incisioni non autorizzate del precedente ciclo,
Hogarth attese il 1735 e la promulgazione della legge sui diritti d'autore degli incisori per trarre
dagli otto dipinti ad olio altrettante lastre. Posto a Chicago davanti agli otto quadri Stravinskij non
ebbe dubbi: "[essi] mi suggerirono immediatamente una serie di scene d'opera".

L'evento non è peregrino come può sembrare. Non credo che Stravinskij fosse a conoscenza del
fatto che uno dei modelli e dei capolavori della storia del teatro musicale, Il matrimonio segreto di
Cimarosa, era tratto da un testo teatrale a sua volta ispirato a una terza serie di quadri e incisioni di
Hogarth (The Marriage à la mode). Se lo avesse saputo, la notizia avrebbe certo solleticato la sua
ambizione di essere nella tradizione degli autori delle "vere" opere.

Non è difficile tracciare il parallelismo tra i cicli di William Hogarth e i libretti d'opera tradizionali.
Ambedue isolavano in singoli numeri momenti essenziali o, per così dire, essenzialmente vistosi, di
una trama narrativa. Il tutto in vista di un finale da cui potesse scaturire una morale: per lo più
quella della triste fine dei colpevoli, passati attraverso una serie di disavventure e di progressivo
decadimento, oppure quella del premio riservato ai buoni che avevano superato ogni sorta di tristi
vicende.

Nell'impianto melodrammatico di Hogarth contano i momenti essenziali, i caratteri, il colore e i


chiaroscuri. Le scene intime e quelle di insieme sono parimenti attente ai minimi particolari
dell'impianto. Quanto al trionfo della virtù e alla progressiva edificazione, essa ritengo interessasse
pochissimo Hogarth. Piuttosto veniva dedotta come lezione della contemplazione dei mali del
malvagio. Ed era su questi mali che il pennello, e più ancora il bulino acre di Hogarth, si
esercitavano con compiacimento, allineandosi con prodotti letterari analoghi (per limitarsi a un solo
esempio, basterà citare Moll Flanders di Daniel Defoe, del 1722, che precede di circa un decennio
The Harlot's Progress). La morale illuministica si nutriva dell'utopia del bene, ma soprattutto di una
sfiducia radicata nella virtù umana e se un filosofo affermava che il mondo progrediva grazie alle
mele di Satana, queste a loro volta costituiscono un motore essenziale per qualsivoglia vicenda
teatrale e operistica. Del resto, per chi avesse tempo e voglia di leggerli, le deduzioni morali o
moralistiche erano affidate ai testi già ricordati di Rouquet. Questi forniva il coté riflessivo al gusto
estetico e poteva iniziare la sua Lettre Deuxième con queste parole: "Credete voi che sia possibile
correggere gli uomini? Per quel che mi riguarda non ne conosco alcun esempio [...] nonostante ciò
è lodevole lavorare in tal senso e cercare di ispirare allontanamento e disprezzo per tutto ciò che è
male. La follia degli uomini è d'altra parte l'incontestabile patrimonio della satira [...]". Così, prima
che Richardson con la sua Pamela offrisse ai lettori il versante piacevole delle lacrime e della virtù
e prima che il marchese de Sade scoprisse che la medesima virtù è oggetto di raffinato
compiacimento e può provocare "prodigiosa eccitazione" nei viziosi, gli inglesi rabbrividivano
voluttuosamente di fronte ai tableaux di Hogarth e alle tristi (fino a un certo punto) vicende della
prostituta e del libertino. Queste ultime concluse, all'ottavo quadro, con un vivace manicomio: esito
ultimo che il moralismo assegnava di preferenza, nelle sue narrazioni, ai malvagi, veri o presunti, in
omaggio, probabilmente, al concetto che il male deriva dalla follia degli uomini.

3. Le otto scene della Carriera, ricche di particolari e affollate di personaggi, secondo il costume
dell'autore, sono state lette anche con vistose varianti interpretative. La prima mostra il giovane
eroe che, dopo aver ricevuto un'eredità, inizia lo sperpero affidandosi a un sarto, del tutto
insensibile alle lacrime di una ragazza che tiene in mano un anello, pegno di una promessa che non
sarà mantenuta. La seconda scena fa vedere il libertino al suo risveglio, circondato da clienti e
persone che offrono servizi vari, dal maestro di ballo a un personaggio che, secondo Rouquet, è "un
bravo pronto ad ogni sorta di favori" (raccordabile quindi alla figura di Nick nell'opera di
Stravinskij). Segue il libertino ubriaco nella Taverna della Rosa. Nella quarta scena i creditori
assalgono il libertino, mentre la ragazza tradita offre i propri averi per riscattarne la libertà.
Dimentico di tanta dedizione il libertino sposa una donna vecchia, laida e ricca (V) ed esulta (VI)
all'invenzione della macchina dell'oro capace di trasformare qualunque oggetto nel prezioso
metallo. Ormai in prigione (VII), il protagonista è maltrattato dalla moglie, che ha trascinato nella
propria rovina. Su un tavolo giace il responso negativo di un direttore di teatro al quale egli ha
inviato una commedia scritta come ultima risorsa. Alla perdita dei beni e della libertà segue,
nell'ultimo quadro, la perdita della ragione. Nel manicomio il protagonista ha accanto la ragazza
che ha disprezzato, ma non sembra neppure in grado di riconoscerla.

4. Gli spunti che tale ciclo poteva offrire a Stravinskij erano molteplici. Fondamentalmente la
contrapposizione tra la figura femminile virtuosa e tutta dedita al bene dell'uomo amato e alla sua
redenzione, e quella del libertino. L'intera vicenda, con la punizione del colpevole (il dapontiano
"fin di chi fa male") poteva subito riportarsi a innumerevoli modelli e a quello di Don Giovanni in
particolare. Dell'empio punito il libertino di Hogarth è una visione meno eroica e filtrata attraverso
la morale borghese. È interessante notare come, tanto Stravinskij quanto Auden, abbiano insistito
sul fatto che stavano scrivendo un'opera morale e il compositore ribadì che la "qualità teatrale [di
Hogarth] si manifesta in quel gusto della narrazione per serie di immagini con una moralità che ho
voluto rispettare". E, per meglio intendersi, non si trattava qui di una morale astratta in cui gli autori
credevano, ma di una morale che doveva costituire il filo conduttore della vicenda, la quale è
appunto "in progress", è in vista di una soluzione drammaturgica che non può non sottintendere la
volontà di dare un senso al tutto (laddove andrà detto che l'adozione, in molte opere
contemporanee, di scene staccate risponde alla volontà di sottrarre un senso al teatro e al
melodramma in particolare, o per lo meno di sottrargli un senso esplicito e predeterminato). Lo
stesso Stravinskij ha adottato la traduzione italiana "carriera" per "progress" perché "carriera
conserva l'ironia di Hogarth più di progresso: carriera difatti è, anche se quale genere di carriera!".

A questa linea generale si può aggiungere la suggestione che le scene della prigione, quelle della
sala da gioco con la macchina dell'oro, della taverna e dello sposalizio potevano esercitare, essendo
raccordabili ad altrettanti numeri chiusi tradizionali dell'opera (anche se il matrimonio con una
donna ricca e brutta era insolito). Non tutto naturalmente fu accolto nel libretto e da certe
suggestioni Stravinskij trasse ispirazione per soluzioni completamente diverse. Padrino dell'opera
fu, come ha dichiarato lo stesso compositore, Aldous Huxley, al quale Stravinskij chiese consiglio
dopo la visita all'Art Institute di Chicago, per la scelta di un librettista: "Quando descrissi a Huxley
il tipo d'opera in versi che volevo scrivere egli mi assicurò che Auden era il poeta adatto con cui
collaborare. Di conseguenza nell'ottobre del 1947 scrissi ad Auden dicendogli la mia idea". I due
lavoravano insieme in California nel novembre successivo. Qui fu realizzato, con il contributo
determinante del compositore, il primo abbozzo della trama e delle singole scene, comprensivo
delle indicazioni dei numeri musicali corrispondenti. Per il completamento del lavoro e la stesura
Auden scelse poi come collaboratore Chester Kallman". "Nel marzo 1948 [essi] mi presentarono
quello che io ritengo essere uno dei libretti più belli che siano stati mai scritti" notò Stravinskij,
aggiungendo: "La composizione della musica mi tenne occupato per tre anni". L'incontro felice con
Hogarth si era concretizzato con quello, altrettanto fortunato, con Auden. Qui, come sempre,
l'infallibile non aveva sbagliato nemmeno una mossa.

5. Non a caso Stravinskij ha pubblicato il testo della prima sceneggiatura della Carriera di un
libertino. Essa non differisce molto dall'impianto definitivo. Può anzi illuminare sulle intenzioni che
hanno determinato certe scelte, o passaggi e momenti che poi la stesura definitiva, per la necessaria
essenzialità del libretto per musica, ha in parte sottinteso. È comunque un documento eccezionale
che testimonia dell'ambizione degli autori che vollero non soltanto scrivere un'opera nel senso
pieno del termine, ma fare un vero e proprio percorso a ritroso nell'intera storia del melodramma e
si potrebbe persino dire del teatro. Pur conservando la linea narrativa e alcune proposte di Hogarth,
queste furono inserite in un piano di ben più ampio respiro. Come notò lo stesso Auden, a Hogarth
furono aggiunti tre miti comuni: 1) la storia di Mefistofele - cioè il protagonista Tom Rakewell si
prende un servo chiamato Ombra; 2) una partita di carte con il diavolo in cui il diavolo perde per
soverchia fiducia in se stesso; 3) il mito dei tre desideri - nell'Opera il primo desiderio di Rakewell
è di essere ricco, il secondo di essere felice e il terzo di essere buono. Questi tre desideri sono in
relazione con le tre tentazioni e rispettivamente cioè con il desiderio del piacere, il desiderio
dell'assoluta libertà spirituale in qualche atto gratuito, e il desiderio di diventare il salvatore del
mondo.

In definitiva il testo doveva risultare una fusione del mito faustiano, della storia di Don Giovanni e
di varie altre leggende connesse, come quella dell'uomo che conduce la sua partita con la morte e
con il diavolo. Diviso tra l'amore puro di Anna e l'accettazione di una vita semplice da un lato, il
desiderio di sperimentare dall'altro, Tom - Ulisse rovesciato che segue la conoscenza attraverso il
male e l'abnorme - non può accettare la sfida. Il libertino cerca la libertà e per riaffermarla (e non
per uscire dalle ristrettezze economiche, come in Hogarth) sposa non già una donna ricca e brutta,
ma Babà la turca, un essere mostruoso. Con questo atto di volontà Tom dovrà affrancarsi non solo
dalla tirannide della morale e della coscienza, ma anche da quella della concupiscenza. I suoi tre
desideri esplicitano uno dei passi più enigmatici del vangelo, quello in cui Cristo nel deserto viene
tentato da Satana a sperimentare la sua potenza di Figlio di Dio, violando i confini dell'umano.

6. È evidente, da questo modo di elaborare gli spunti offerti da Hogarth, che nella trattazione dei
miti della conoscenza e dell'arbitrio, della sperimentazione umana e della morte come scotto pagato
per la vita, gli autori andarono molto oltre. Nel finale è esplicitamente ricordato che Dio è buono,
ma, pur soffrendo come Padre, non può opporsi alla giustizia e cioè alla morte e alla punizione. È
una visione cristiana e addirittura cattolica che presuppone il libero arbitrio, nonché l'esistenza del
male. E non sorprenderà che, rispondendo a una obiezione sul concetto di libertà (questa volta in
sede estetica) Stravinskij abbia risposto in tutta tranquillità di essere vicinissimo al cattolicesimo,
aggiungendo: "Io sono portato a questo dalla mia educazione spirituale come dalla mia natura. La
religione ortodossa che professo è abbastanza vicina al cattolicesimo. E non sarebbe da
meravigliarsi se un giorno divenissi cattolico". Sarebbe errato considerare queste affermazioni
come semplici boutade (come invece si è fatto). In realtà Stravinskij era un credente; credeva nella
missione dell'artista e, nei limiti di essa, nel bene e nel male, e nello scrivere la Carriera credeva di
scrivere appunto un'opera "morale", e che tra i compiti dell'artista vi fosse quello di esplicitare i
sensi nascosti delle vicende umane mediante la loro esposizione mitica sul palcoscenico. In tal
senso l'affermazione del musicista di aver dedicato l'intera vita all'Opera va presa in senso letterale,
al di là della quantificazione dei lavori e delle alchimie dei cataloghi e dei dati biografici. E solo
questa fede incrollabile fa sì che il libretto non diventi una mera sperimentazione sul teatro
precedente o una copia sovrabbondante di quanto già il melodramma e il dramma avevano fatto in
innumerevoli versioni. Compito dell'uomo del Novecento non è quello di negare, ma quello di
coniugare con formule vecchie e rinnovate, eterne e risperimentate, la verità o le verità. Dunque
nessun rifiuto del passato, ma la sua accettazione. L'opera è accettata come genere, il libretto è
accettato nella sua concezione classica (Auden biasimò lo stesso libretto del Cavaliere della rosa di
Hofmannsthal, a suo avviso troppo letterario, prefendogli quello ben più essenziale della
Sonnambula di Bellini) e le sue strutture sono riprese non già da un passato vicino, bensì da quello
remoto dell'opera italiana del Settecento e del primo Ottocento. Il che, tradotto in termini di
estetica, significò neoclassicismo. E al culmine del cosiddetto neoclassicismo stravinskijano si
colloca comunemente e giustamente La carriera di un libertino.

7. Ma sui termini occorre intendersi. Il neoclassicismo stravinskijano non era dimostrazione di


bravura, raffinato gusto per la ripetizione aggiornata, abile esercizio di mano, ma ancora una volta,
o di conseguenza, atto di fiducia nelle forme o nella Forma. Già la prima stesura della sceneggiatura
reca, come si è detto, la suddivisione della partitura in numeri chiusi, quelli appunto dell'antica
opera italiana: Recitativo, Aria, Cabaletta, Duetto, Arioso, Terzetto, ecc. E la partitura definitiva
esplicita le medesime indicazioni con meticolosità puntigliosa (sono indicati anche i Recitativi tra le
varie riprese delle Arie e le riprese stesse, e in un caso la Cabaletta è addirittura intitolata a parte,
come se fosse distinta dall'Aria a cui in realtà appartiene). I Recitativi sono poi accompagnati o
secchi e cioè "con pianoforte". Così nella prima sceneggiatura. Nella versione definitiva il
pianoforte rimase come soluzione alternativa ad libitum per il cembalo, preferito e adottato
dall'autore nelle esecuzioni da lui stesso dirette. L'orchestra è molto sobria e comprende, oltre agli
archi e ai legni, due soli corni, due trombe e i timpani. Un semplice confronto con l'orchestra di fiati
e percussioni di Mavra, opera di soli trenta minuti, è illuminante. Parimenti il discorso musicale e le
soluzioni timbriche sono di assoluta trasparenza, al pari delle parti vocali, sempre cantabili. Che la
musica dovesse derivare dalla prosodia della lingua inglese non fu ancora una volta un semplice
proponimento di Stravinskij, ma una realtà effettivamente realizzata. Il testo è sempre
comprensibile, come lo era nelle opere di Mozart, di Rossini, di Verdi e degli altri italiani (e la
comprensibilità del testo non è la percezione diretta delle singole parole, che è perseguita semmai
nel dramma musicale e non nell'opera). Anche il gioco non è mai gratuito. E se Tom nella Scena
Terza dell'Atto Secondo blocca la cadenza finale dell'Aria di Babà la Turca mettendole una parrucca
sul viso, là medesima cadenza sarà ripresa e completata quando nell'atto seguente la parrucca verrà
tolta nel corso dell'asta. Non è una trovata comica (o solo questo): la ripresa indica il riemergere
della funzione estraniante del personaggio. Ma il gesto musicale può anche avere altri sottintesi: per
esempio quello che La carriera di un libertino riprendeva i moduli belcantistici dopo una lunga
interruzione. Analogamente alcuni arcaismi inseriti da Auden nel libretto e, per analogia, rispettati
nel linguaggio musicale con soluzioni parallele rispondono alla volontà di storicizzare l'opera e di
dialogare con il passato o di coniugarlo.

8. Libretto e partitura rispettano la divisione ternaria. Tre gli atti e tre le scene in cui ciascuno è
suddiviso. Dopo una breve fanfara di sapore monteverdiano che introduce brevemente e
asetticamente l'opera, il primo quadro si apre con un Duetto dai toni idilliaci. Tom e Anne esaltano
la natura e la comunione dell'uomo con essa nella vita semplice. Il Duetto diventa Terzetto quando
Trulove esce dalla casa e si ferma a contemplare commosso i due giovani. Nel Recitativo che segue
Trulove offre a Tom un posto, non accettato, di contabile. L'eleganza tenera dell'inizio cede
nell'Aria in cui Tom esprime la propria ambizione. Una breve invocazione recitata (Stravinskij
prescrive parlando) al denaro di Tom, "I wish I had money" è seguita da un capriccioso ghiribizzo
del cembalo che introduce Nick Shadow, l'Uomo-Ombra, il Diavolo. Come nella tradizione classica
il Recitativo secco cede a quello accompagnato dall'intera orchestra quando Nick, dopo che Tom ha
fatto intervenire anche Anne e Trulove, annuncia solennemente l'eredità. Il Quartetto che segue
consente a Stravinskij di sfidare gli operisti italiani nell'arte di esprimere musicalmente sentimenti
contrastanti. Nel Duettino di congedo tra Tom e Anne e nell'Arioso e Terzettino conclusivi del
primo quadro riappare l'atmosfera idilliaca dell'inizio. Ma esso si chiude per contrasto sul
Recitativo imperioso di Tom: "The Progress of a Rake begins!". Teatralmente e musicalmente
questo quadro rappresenta dunque un vero e proprio prologo che avrà un pendant nell'ultima scena,
l'epilogo. Un altro elemento fondamentale è già evidente sin dal Preludio. I numeri chiusi sono di
estrema brevità e concisione, modelli citati si direbbe e, piuttosto che rielaborati, ripresi quasi
aforisticamente secondo una prassi, qui tuttavia usata in modo personalissimo, che è propria di altre
scuole novecentesche. Anomalo anche il ricorrente richiamo al passato delle melodie e di alcuni
"affetti" espressi dalla musica. Già nel Prologo si possono cogliere echi e ammiccamenti ad altri
compositori che in qualche caso si spingono fin quasi alla soglia di ostentate citazioni. Cajkovskij e
Mozart sembrano i modelli più vicini. In questo duplice modo di riportarsi alle forme e ai contenuti
musicali dell'opera tradizionale, consiste in realtà il vero neo-classicismo di Stravinskij. Ciò che
impedisce di fare del Rake's Progress un sia pur elegante lavoro di restaurazione è proprio la sintesi
folgorante. Le forme vengono assunte in microorganismi concentrati come se l'autore volesse non
già compiacersi di esse, ma ricercarne la vera e più autentica origine.

Dopo questo inizio la scena si sposta nel bordello. Gli interventi del coro (prostitute e crapuloni) in
cui il compositore dà una delle migliori prove di talento ritmico e sarcastico, incastonano una
Cavatina in cui Tom rimpiange l'amore vero lontano. La tenera melodia è sottolineata da un
accompagnamento di accentuata espressività. Questo clima tornerà, creando un'ideale unione tra i
due amanti lontani, nel terzo quadro. Qui è Anne, rimasa sola nella casa, che esprime la sua
desolazione di donna abbandonata. La scena consta di un recitativo, dell'Aria vera e propria, di una
nuova sezione di Recitativo e di una Cabaletta (qui appunto evidenziata nel tìtolo) conclusiva. È il
pezzo più fedele ai canoni italiani. La stessa Cabaletta è di quelle di "determinazione". La donna
esprime la sua volontà incrollabile di restar fedele al proprio amore e di non abbandonare Tom.
L'invocazione alla notte che apre l'Aria, "I go to him. Love cannot falter, cannot desert", ha
innumerevoli precedenti. Molto stretta l'analogia della situazione di Anne con quella di Micaela
nella Carmen e del suo "Je dis que rien ne m'épouvante". È possibile che Auden abbia avuto in
mente questa scena, dato che alcuni suoi versi riecheggiano direttamente quelli dell'opera francese.
Musicalmente la ripresa della Cabaletta è variata secondo i canoni del belcanto, ma non secondo lo
stile belcantistico il cui principio basilare era la diminuzione (e cioè la frammentazione delle note in
più note di valore minore). Stravinskij di fatto ignora (nel senso che trascura) questo principio e
adotta di volta in volta variazioni dettate dal desiderio di esplicitare nuove trovate armoniche o di
attribuire sensi o funzioni espressive diversi alla melodia. Effetti che nella tradizione vocale certo
potevano pur sempre essere presenti, ma come conseguenza della prassi primaria posta al servizio,
della bravura dell'interprete che doveva dimostrare la sua capacità di essere sempre più veloce con
un numero sempre più fitto di note. Anche in questo particolare, tutt'altro che trascurabile, si
evidenzia il senso peculiare del cosiddetto neoclassicismo stravinskijano.

Il Secondo Atto si apre nella casa di Tom a Londra. In un'Aria preceduta da un raffinato Preludio,
Tom esterna il suo tedio. Un ampio Recitativo accompagnato, una sezione molto simile a quelle che
gli autori italiani chiamavano "scena", divide la prima parte dalla reprise. Qui Stravinskij anima il
discorso musicale seguendo dettagliatamente i contenuti del testo e creando un concitato contrasto
con l'atmosfera sognante dell'Aria vera e propria il cui tema triste e sinuoso è enunciato dal fagotto.
L'atmosfera rarefatta, certi particolari dell'orchestrazione e soprattutto la linea vocale ricordano i
protagonisti dell'Onegin e della Dama di picche. Ma Nick ha una soluzione pronta per Tom: sposare
Babà la Turca. È l'atto gratuito, corrispondente alla seconda tentazione, che deve affermare la
libertà assoluta. I toni mefistofelici dell'Aria di Nick ricordano non solo Gounod, ma anche certe
canzoni di Musorgskij. La risata che conclude l'elogio diabolico della libertà avvia un Duetto
conclusivo di questo quadro dai toni sinistramente esaltati. Nella Seconda Scena vediamo Anne
ormai davanti alla casa di Tom. Il suo Recitative and Arioso è preceduto da un assolo di tromba il
cui modello è quello del Preludio del Secondo Atto del Don Pasquale di Donizetti. La donna torna a
esprimere la sua volontà di vincere ogni timore. Ma nel successivo Duetto, dopo che ha assistito
all'arrivo di Tom e della portantina in cui è celata la Turca, viene esortata dall'antico fidanzato ad
abbandonare la città corrotta dove non vi è posto per la virtù. Nel Recitativo che di fatto interrompe
il Duetto Anne apprende dalla voce della Turca che questa è ormai la sposa di Tom. Nel Trio Anne,
al pari di Tom, esprime tra sé il proprio dolore. Poi fugge mentre in un breve finale la Turca chiama
a sé lo sposo. Nel Terzo Quadro vi è subito l'Aria grottesca della Turca la cui prima sezione, ben
lungi dall'essere un'Aria amorosa, intende esprimere il cicaleccio della mostruosa donna, una vera e
propria Aria di nonsense. Quando la Turca finalmente rivolge parole affettuose al marito e viene
bruscamente respinta, si passa ad una seconda parte (la partitura usa ancora il termine "Aria", ma di
fatto si tratta di una Cabaletta) che è una vera e propria parodia delle antiche concitatissime Arie di
furore. La cadenza, come si è accennato, è interrotta da Tom che applica la parrucca sulla faccia
della Turca. È la pagina di più scoperta comicità nell'opera. Nella successiva pantomime, che
comprende un Recitativo e Arioso di Tom e un Duetto tra Tom e Nick, quest'ultimo presenta la
macchina fantastica e Tom racconta di averne sognata una capace di liberare il mondo dal bisogno.
È la terza tentazione: "Il désire devenir Dieu", come indica Auden in una lettera a Stravinskij del 28
gennaio 1948. In questa sezione, come in tutto il Secondo Atto, viene portato al massimo il
continuo contrasto tra momenti scopertamente lirici, (come quelli in cui Tom "contempla" il futuro
benessere dell'umanità), con quelli di esaltata concitazione. La successione è rapida, così come i
contrasti sono fortissimi.

All'inizio del Terzo Atto siamo ancora nella stanza di Tom dove la folla assisterà all'asta dei suoi
averi. Lo straniamento domina l'Aria del banditore e il ritmo rende l'affannosa corsa della vendita e
dell'acquisto. Quando verrà messa all'asta anche Babà e il banditore toglierà la parrucca dalla sua
faccia, questa terminerà, riprendendo dalla cadenza interrotta, la sua Aria di furore. Ma nel Duetto
che segue, dopo che si sono udite le voci di Tom e Nick che cantano una canzone, sarà la stessa
Babà a esortare Anne, a salvare Tom dalla follia con il suo amore. I molteplici piani teatrali e
musicali dell'opera vengono qui, per così dire, raddoppiati. La folla sorpresa assiste al Duetto come
a una scena d'opera, ora partecipando ai sentimenti dei due, ora divertendosi. La ripresa della
canzonetta dietro le quinte provoca lo stretto-finale che chiude il movimentato quadro
musicalmente fìtto di echi e di richiami. Con grandissima maestria Stravinskij sfrutta l'inserimento
di quegli inserti (di Sellem e della folla, oltre che di Tom e Nick da dietro le quinte) che venivano
chiamati nel linguaggio dell'opera italiana "pertichini".

Tutta la seguente scena delle carte, un Duetto di varie sezioni preceduto da un cupo Preludio, è
ricca di giochi politonali. Più che l'Aria della divinazione della Carmen qui sono evocabili le tre
carte fatali di Gherman nella Dama di picche. Nel corso della scena la presenza delle zone di
Recitativo con il cembalo acquistano una valenza particolare. Verso la fine domina sempre più il
ritmo ostinato e meccanico. Ma la vittoria che, grazie all'amore di Anne, Tom ottiene sul demonio è
pagata con la follia. Mentre Nick sprofonda, Tom si ritrova seduto sull'erba. Spunta l'alba di un
giorno di primavera. Su un inciso ripetuto nel ritmo pastorale dei 3 /8 Tom annuncia: "Adonis is my
name".

9. L'epilogo nel manicomio - che musicalmente, dopo un brevissimo Preludio, vede in rapida
successione arioso, dialogue, chorus-minuet, recitative, (ripresa dell') arioso, duet, recitative (quasi
arioso), lullaby, duettino, finale con il mourning-chorus seguiti dall'epilogo - si riallaccia all'inizio
dell'opera. Per il Prologo, nella prima stesura gli autori avevano indicato: "Pastorale come in
Teocrito, amore, giovinezza, paesaggio campestre, etc. (Accennare forse ad Adone?)". Questo
accenno è stato tolto all'inizio dell'opera, ma rimase l'atmosfera di idillio destinata a tornare nella
straniata conclusione. Sebbene su questo punto sia Stravinskij sia Auden siano stati estremamente
parchi di spiegazioni, non vi è dubbio che la funzione dell'ultima scena, come quella della prima, è
di incorniciare l'intera vicenda come se fosse la citazione di un melodramma al pari di quelli della
Camerata Fiorentina e di Monteverdi (autore che Stravinskij amava, e nessuno dei suoi grandi
amori è assente nella Carriera). D'altra parte nella scena del manicomio l'amore oblivioso tra il falso
Adone e Anne, che viene convinta a secondarlo entrando nel ruolo di Venere, si chiude con la
invocazione del morente a Orfeo, perché intoni il compianto accompagnato da Ninfe e Pastori.
Dunque una citazione diretta di Monteverdi e del mito di Orfeo che presiedette alla nascita
dell'opera. Ma la favola resta interrotta. Nick fa un cenno e tutti personaggi vengono alla ribalta per
intonare nel teatro illuminato la "morale conclusiva". La quale non ricorda solo che la fine del
libertino è ben grama, questo ancora fa parte del gioco. Ricorda anche, per bocca della Turca, che
gli uomini sono folli e che le loro imprese sono commedia. Ulteriore sottolineatura della valenza
teatrale in un lavoro di metalinguaggio: teatro è la vita degli uomini, teatro le vicende che la
rispecchiano, a loro volta inserite nella citazione di un melodramma. Questo insistere sul gioco
degli specchi esplicita l'intera operazione stravinskijana. La regola del teatro richiederebbe infatti
che i personaggi, nella conclusione, assumessero le loro vesti reali. Ma qui non vi è agnizione e i
protagonisti indossano abiti mitologici ed entrano in ruoli estraniati. È come se ci si accingesse a
recitare una nuova opera e solo la sospensione provocata dal gesto dell'Uomo-Ombra ne blocca il
fruire. Dietro, vita e teatro restano pur sempre "in progress". Il credente Stravinskij non ha, né può
avere fiducia nel transeunte: sa che la vita è mera parvenza e che le vicende umane, incontrollabili,
rispettano regole a loro volta non determinabili dal singolo. "Qualcuno insinua che io non sia
realmente esistente", dice in chiusura lo stesso Shadow. Così al musicista non resta che affidarsi al
valore astratto della Forma, trattandola (da nemico quale era del contenutismo in musica e in arte)
con mano di supremo artigiano, senza accoglierne il coinvolgimento, così come avevano pur fatto
(consapevolmente o inconsapevolmente) i grandi maestri preromantici. Questo non è dunque, come
pur si è creduto, cinismo e compiacimento del giocatore. È la conclusione di chi sa che il teatro e la
vita sono in definitiva la stessa cosa e che l'Assoluto è altrove, o meglio al di sopra.

Bruno Cagli

102 1961 - 1962

The Flood

https://www.youtube.com/watch?
v=Kr0jNzB9aw8&list=OLAK5uy_klRrg8cPiONrF_ekQtLOIf5P0Xv2pC3Zg
Sacra rappresentazione per soli, coro e orchestra
Libretto: Robert Craft

Prelude
Preludio strumentale
Te Deum (Coro)
Melodramma (Narratore)
Parola di Dio (due bassi)
Aria (Lucifero)
Melodramma (Narratore)
Parola di Dio
La costruzione dell'Arca - (Coreografia)
Catalogo degli animali - Melodramma (Noè e il Banditore)
The Comedy - Melodramma (Noè, moglie e figli)
Il diluvio - (Coreografia)
Apparizione dell'arcobaleno
Parola di Dio (due bassi)
Melodramma (Noè)
Ripresa del preludio strumentale
Aria (Lucifero)
Sanctus (Coro)

Personaggi:

Lucifero (tenore)
Dio (2 bassi)
Narratore (ruolo parlato)
Noè (ruolo parlato)
Moglie e figli di Noè (ruoli parlati)
Un visitatore (ruolo parlato)
Coro misto

Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 2 corni inglesi, 2 clarinetti, clarinetto basso, clarinetto
contrabbasso, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti,
xylorimba, 3 tom-tom, arpa, celesta, pianoforte, archi
Composizione: 1961 - Hollywood, 14 marzo 1962
Prima rappresentazione televisiva: CBS Television, 14 giugno 1962
Prima rappresentazione scenica: Amburgo, Staatsoper, 30 aprile 1963
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1963

Balletti
16 1909 - 1910

L'oiseau de feu
https://www.youtube.com/watch?v=q0MpwTEkzqQ

https://www.youtube.com/watch?v=hANdWg3OCN0

https://www.youtube.com/watch?v=VZqYPIN4CEI

https://www.youtube.com/watch?v=RZkIAVGlfWk

https://www.youtube.com/watch?
v=ArKQsoCWOB8&list=PLHMaOPmxHtFpq6ZeCbCCvDMZl7Kj4nRk7

Balletto fantastico in due quadri


Libretto: proprio e Michail Fokin

Introduzione
Quadro primo: Giardino incantato di Kascej
Apparizione dell'Uccello di fuoco inseguito dallo Zarevic Ivan
Danza dell'Uccello di fuoco
Lo Zarecic Ivan cattura l'Uccello di fuoco
Supplica dell'Uccello di fuoco
Apparizione della Tredicesima Principessa Incantata
Gioco della Principessa con le mele d'oro - Scherzo
Improvvisa comparsa dello Zarevic Ivan
Il Khorovod della Principessa
Alba
Carillon magico: apparizione dei mostri a guardia del giardino di Kascej; cattura dello Zarevic
Ivan
Arrivo di Kascej lImmortale; dialogo con lo Zarevic Ivan; intercessione della Principessa
Apparizione dell'Uccello di fuoco
Danza della scorta di Kascej sotto l'incanto dell'Uccello di fuoco
Danza infernale di tutti i sudditi di Kascej
Ninna-nanna
Morte di Kascej
Quadro secondo: Sparizione del palazzo e dissoluzione delle magie di Kascej; liberazione dei
guerrieri pietrificati; rigraziamento generale

Organico: 4 flauti (3 e 4 anche ottavino), 3 oboi, corno inglese, 3 clarinetti (3 anche clarinetto
piccolo), clarinetto basso, 3 fagotti (2 anche controfagotto), controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3
tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, triangolo, tamburo basco, tam-tam, campane
tubolari, glockenspiel, xilofono, celesta, 3 arpe, pianoforte, archi
Sulla scena: 3 trombe, 4 tube wagneriane
Composizione: Pietroburgo, novembre 1909 - 18 maggio 1910
Prima rappresentazione: Parigi, Opera, 25 giugno 1910
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1910
Dedica: Andrej Nikolajevic Rimskij-Korsakov
Guida all'ascolto (nota 1)

La genesi dell'Uccello di fuoco venne narrata con le seguenti parole da Stravinskij nelle proprie
memorie: «Già avevo cominciato a pensare all'argomento dell'Uccello di fuoco durante il mio
viaggio di ritorno a San Pietroburgo da Ustilug nell'autunno del 1909, prima ancora d'aver ricevuto
l'incarico ufficiale di Diaghilev: questi infatti mi telefonò in dicembre, chiedendomi di dar inizio
subito alla composizione. Ed io gli risposi che già da un mese ne stavo scrivendo la musica. Di per
sé, come soggetto, l'Uccello di fuoco non mi attirava granché. E questa ne era la ragione: al pari di
tutte le vicende legate ad una destinazione ballettlltlca, v'era la necessità di un genere di musica
descrittiva che allora non avevo intenzione di scrivere perché non ero tanto sicuro dei miei mezzi
creativi e non mi ritenevo in grado di criticare apertamente le teorie estetiche dei miei collaboratori.
Nondimeno, decisi di farmi valere, e con arroganza, pur avendo soltanto ventisette anni. In realtà
tutta la sottile arte diplomatica di Diaghilev risolse ogni problema il giorno che venne a trovarmi
insieme al coreografo Fokine, al ballerino Nijinskij, agli scenografi Bakst e Benois; e quando tutti
assieme, tutti e cinque, proclamarono formalmente la loro fiducia nel mio talento, allora, solo allora
credetti in me stesso e accettai. Ero lusingato, naturalmente, dalla promessa dell'esecuzione della
mia musica a Parigi e quando vi giunsi, provenendo da Ustilug, verso la fine del successivo mese di
maggio, ero davvero in condizioni assai eccitate di spirito. Gli entusiasmi però furono, di colpo,
raggelati perché alle prove mi sembrava che dappertutto, sulla scena e pure nella musica, vi fosse
impresso il marchio della scritta "prodotto russo d'esportazione". D'estrema crudezza erano infatti le
scene mimiche ma, vista la sicurezza di Fokine, non sollevai alcuna obiezione».

Continua Stravinskij: «La première fu scintillante e ne conservo un ricordo memorabile. Ero nel
palco di Diaghilev e, alla fine del balletto, fui chiamato diverse volte alla ribalta. Stavo ancora
inchinandomi agli applausi del pubblico quando mi cadde in testa il sipario: Diaghilev corse ad
aiutarmi e accanto a lui notai un signore dalla bella fronte spaziosa che mi rivolse la parola,
presentandosi. Il suo nome era Claude Debussy. Ebbe espressioni gentili per la mia musica e
m'invitò a cenare con lui. L'uccello di fuoco è, dal punto di vista stilistico, legato a quell'epoca, e
segnato da un particolare rigore che è più evidente che in altre musiche legate a motivi
d'ascendenza folclorica, ma, ora, non vi ritrovo una particolare originalità. Riconosco che la
composizione presentava tutte le condizioni utili a riscuotere successo: successo che fu
immancabile e non solo a Parigi. Quando mi orientai a trame una Suite per l'esecuzione
concertistica, l'Uccello di fuoco figurava sui cartelloni dell'intera Europa e, salvo che in Russia, non
è mai uscito dal normale repertorio orchestrale. Ho da aggiungere, in proposito, ancora un ricordo:
l'Uccello di fuoco ha svolto un ruolo fondamentale nella mia carriera di direttore d'orchestra, perché
proprio a questa musica è legato il mio debutto come direttore: fu nel 1915, a Parigi, quando
condussi l'esecuzione dell'intero balletto per una manifestazione a beneficio della Croce Rossa. Da
allora sino al 1962, data di questo mio ricordo, l'ho diretto non meno di un migliaio di volte. Ma
anche se l'avessi diretto diecimila volte, tale esperienza non sarebbe riuscita a cancellare dalla mia
memoria il ricordo del terrore che soffersi quella prima sera del debutto nel lontano 1915».

Presentato all'Opera di Parigi il 25 giugno 1910 per la stagione dei Ballets Russes di Diaghilev,
l'Uccello di fuoco ha significato la sintesi di tutte le esperienze compositive degli anni precedenti di
Stravinskij, orientato ormai alla realizzazione di un nuovo stile russo, nel superamento
dell'Impressionismo. Il linguaggio musicale di questa partitura, infatti, è ricco di smaglianti colori
ed intriso delle seduzioni armoniche del retaggio di Rimskij-Korsakov e Skrjabin, nonché di
qualche reminiscenza debussiana, pur se appare inequivocabilmente stravinskijano, specie nel
terrificante dinamismo ritmico delle sue pagine più celebri.

Di per sé il balletto trasse l'ispirazione da una antica fiaba russa trasferita in sede coreografica da
Bakst e da Fokine, formulatore quest'ultimo di una nuova teoria sul balletto che era antitetica alla
ripetizione di passi già esistenti, nonché contraria alla funzione della musica come mero
accompagnamento della danza.

La trama, di carattere magico, con tanto di apoteosi nuziale alla fine, simboleggia la vittoria delle
forze del bene su quelle del male. Il principe Ivan cattura un uccello di fuoco ma gli ridona la
libertà. Mentre Ivan si intrattiene con le tredici principesse prigioniere del mostro Katschej, questi
giunge con il suo seguito e si appresta a trasformare ogni creatura in pietra con le sue arti magiche.
Interviene però l'uccello che addormenta tutti gli astanti con un incantesimo al suono della dolce
Berceuse, dando la possibilità ad Ivan di spezzare lo scrigno che contiene l'anima del mostro. Il
regno dei malvagi viene distrutto ed Ivan è il nuovo re della terra liberata, accanto alla più bella
delle principesse.

La partitura presenta due aspetti marcatamente differenti in riferimento ai mondi contrapposti dei
due gruppi di personaggi, cioè al mondo sovrannaturale delle fiabe (che comprende Katschej, i suoi
sudditi e l'uccello di fuoco) e al regno umano (di cui fan parte le tredici principesse prigioniere e il
giovane Iva'n). Per la sfera dell'umano Stravinskij adotta un linguaggio essenzialmente diatonico
che si ricollega all'influenza del Gruppo dei Cinque e in parte anche a Cajkovskij, mentre il mondo
magico del sovrannaturale viene a fondarsi su procedimenti cromatici di carattere orientale, nello
scoperto influsso di certi episodi del Gallo d'oro di Rimskij-Korsakov. In tutta la musica
dell'Uccello di fuoco si notano smaglianti raffinatezze di scrittura e straordinarie invenzioni
strumentali, oltre ad una vibrante incidenza del ritmo e a una scoperta asprezza di timbri puri. I temi
sono brevi e sintetici, il tessuto musicale appare sovente squadrato a blocchi, nella netta
contrapposizione dei diversi piani tonali.

In questa partitura, inoltre, Stravinskij ebbe a sviluppare ulteriormente le esperienze maturate in


lavori precedenti, come lo Scherzo fantastico e i Fuochi d'artifcio, in specie a proposito della
struttura asimmetrica di certi accordi armonici e del peculiare impiego della politonalità. Attento
essenzialmente ai contrasti tra gli effetti scenici, Stravinskij non si preoccupò minimamente che un
medesimo linguaggio servisse sia per un elemento positivo come l'uccello di fuoco, sia per un
elemento negativo come Katschej, pur se a quest'ultimo furono riservati gli intervalli più dissonanti.

Nella stesura originaria del balletto il compositore russo impiegò un vastissimo organico
orchestrale, rimasto pressoché inalterato nella prima Suite sinfonica realizzata nel 1911 che faceva
seguire all'Introduzione, le Suppliche dell'uccello di fuoco, il Gioco delle principesse con il pomo
d'oro, la Ronda delle principesse, la Danza infernale dei sudditi di Katschej. Nel 1912 Stravinskij
estrapolò la Berceuse che venne inserita nella seconda Suite concertistica, realizzata a Morges nel
1919 per un organico strumentale più limitato. Nel 1945, infine, venne curata da Stravinskij una
terza Suite che, per ragioni ballettistiche, provvide a recuperare tra il primo e il secondo episodio
della seconda Suite tre pantomime, un pas-de-deux e lo Scherzo-Danza delle principesse. In tale
ultima veste l'Uccello di fuoco venne adottato da Balanchine nel 1950 per uno spettacolo del New
York City Ballet.
La partitura integrale del balletto ha una peculiare sua fisionomia e si caratterizza per vari specifici
parametri, armonici non meno che timbrici e ritmici. Un carattere, quindi, innovatore non soltanto
nell'ambito della tecnica di "montaggio" del balletto che ne marcò lo stacco dalle azioni
coreografiche del repertorio ottocentesco russo, essenzialmente descrittive, con il rischio
dell'accademismo. Tra i momenti di più significativo impatto musicale vi è senz'altro l'Introduzione
con il suo aspetto grave e solenne, quasi regolato sul respiro umano che, nel suo incedere
cadenzato, riesce perfettamente ad introdurre l'ascoltatore in un mondo misterioso e fantastico. Il
clima malinconico e quasi opprimente del movimento viene all'improvviso interrotto dai furiosi
accenti degli archi che sottolineano il risveglio dell'uccello che, in tutto il suo splendore, fa la sua
apparizione nel giardino fatato, sottolineato da raffinati effetti coloristici.

Altrettanto memorabile risulta la Ronda delle principesse, nella preziosa tinteggiatura di un


bozzetto orientale. Ma, all'apparire dei sudditi del re Katschej e alla sua Danza, la tensione del
discorso musicale si incupisce ed il ritmo si fa ossessivo, nel rintronare dei fiati e negli improvvisi
staccati degli archi. In modo simmetrico il quadro successivo della Berceuse ha di nuovo un
andamento lento ed un carattere soporifero, con gli archi che suonano in lontananza e i lievi accenni
dei legni e degli ottoni, mentre il Finale, pagina fiammeggiante, veloce e cadenzata dai timpani,
appare improntato al più inequivoco tradizionalismo del tardo Ottocento ed è prossimo, sotto molti
aspetti, alle conclusioni di tante opere sinfoniche e liriche del repertorio russo, tra presente e
passato.

Luigi Bellingardi

18 1910 - 1911

Petruska

https://www.youtube.com/watch?v=XvXlFKvpoOg

https://www.youtube.com/watch?v=pVXkBIWmQQs

https://www.youtube.com/watch?v=NBaKgjmGxbU

https://youtu.be/UjBnGQLjz-g

https://www.youtube.com/watch?v=89m8h5AyXq

https://www.youtube.com/watch?v=hX7aSsic7eM

Burlesque in quattro scene - Prima versione


Libretto: proprio e Alexandre Benois

Parte I: Festa popolare della settimana grassa

Introduzione
La bancarella del ciarlatano
Danza Russa

Parte II: La stanza di Petruška

Parte III: La stanza del Moro

La stanza del Moro


Danza della Ballerina
Valzer - La Ballerina e il Moro

Parte IV: Festa popolare della settimana grassa (sera)

Danza delle balie


Il contadino con l'orso
Il mercante gioviale con le due zingare
Danza dei carrettieri e degli stallieri
Le maschere
La lotta del Moro con Petruška
Morte di Petruška
Comparsa del fantasma di Petruška.

Organico: 2 ottavini, 4 flauti, 4 oboi, corno inglese, 4 clarinetti, clarinetto basso, 4 fagotti,
controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 2 cornette, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti,
glockenspiel, rullante, tamburello, triangolo, xilofono, tam-tam, rullante, tamburello (fuori scena),
pianoforte, celesta, 2 arpe, archi
Composizione: Losanna, agosto 1910 - Roma, maggio 1911
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre du Chatelet, 13 giugno 1911
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1912
Dedica: Alexandre Benois

Guida all'ascolto (nota 1)

Dopo il successo dell'Uccello di fuoco, Stravinskij cominciò a progettare la Sagra della primavera.
Quasi per distrarsi, nell'agosto del 1910, ebbe l'idea di scrivere un pezzo da concerto per pianoforte
e orchestra: "Componendo questa musica - scrive nelle Cronache della mia vita - avevo nettamente
la visione di un burattino scatenato che, con le sue diaboliche cascate di arpeggi, esaspera la
pazienza dell'orchestra, la quale a sua volta gli replica con minacciose fanfare. Ne segue una
terribile zuffa che, giunta al suo parossismo, si conclude con l'accasciarsi doloroso e lamentevole
del povero burattino". Poi trovò il personaggio che si adattava perfettamente con questo soggetto:
"Un giorno ebbi un sussulto di gioia. Petruska! L'eterno infelice eroe di tutte le fiere, di tutti i paesi!
Era questo che volevo, avevo trovato il mio titolo". A Sergej Diaghilev, che in autunno gli fece
visita sul lago di Ginevra, Stravinskij fece ascoltare il nuovo pezzo. Diaghilev ne fu entusiasta e
convinse il compositore a trasformare quella musica in un nuovo balletto. Petruska è un burattino
del teatro popolare russo, presente negli antichi spettacoli di cantastorie (gli skomorochi), un
personaggio spavaldo e manesco, dal linguaggio schietto, che però nella trama elaborata insieme da
Stravinskij e Diaghilev assunse caratteri insieme più intimistici e più tragici, con molti punti di
contatto con Pierrot e anche con Pinocchio, come un "essere" inanimato che prova il desiderio
impossibile di una vita umana.

La vicenda è ambientata a Pietroburgo, nella piazza dell'Ammiragliato, durante le feste della


settimana grassa: in mezzo a una folla chiassosa e variopinta, un Ciarlatano presenta al pubblico i
suoi burattini animati, Petruska, la Ballerina e il Moro. Il più sensibile è Petruska che si innamora
della Ballerina. Lei però gli preferisce l'ottuso ma prestante Moro, che alla fine uccide Petruska in
mezzo alla confusione del Carnevale.

Il compositore portò a termine la partitura nel maggio del 1911, e il balletto andò in scena il 13
giugno 1911 al Théâtre du Châtelet di Parigi, con le innovative coreografie di Michel Fokine, con
due interpreti prestigiosi come Nijinski e la Karsavina, con le coloratissime scenografie di
Alexandre Benois, e con Pierre Monteux sul podio. L'intersecarsi dei personaggi sulla piazza con
quelli del teatrino, la dimensione del metateatro, l'atmosfera festosa che acutizza il dramma
personale, costituirono meccanismi molto efficaci per dare sostanza drammatica alla vicenda. L'idea
delle emozioni imprigionate nel corpo di una marionetta suggerì anche a Stravinskij l'uso di
materiali musicali di tipo meccanico, ripetitivi, il gusto per sonorità aspre, dissonanti, percussive,
facendolo approdare ad un linguaggio musicale assai più moderno e antiromantico rispetto a quello
dell'Uccello di fuoco, e lontano da ogni suggestione esotica e favolistica.

Stravinskij usa un grande organico orchestrale (con legni e ottoni per quattro) ma giocando sulla
contrapposizione di blocchi sonori, prediligendo timbri stridenti, cercando di imitare il suono delle
orchestrine popolari o degli organetti di Barberia. Abbandona anche la sintassi tonale, insieme con
la logica dell'elaborazione tematica e dello sviluppo, per creare un struttura formale di tipo
paratattico, elimina le cadenze (creando così un effetto di continua sospensione), sostituisce le
funzioni tonali con strutture armoniche polarizzate. Anche se usa materiali più diatonici che
cromatici, il continuo gioco di incastri e sovrapposizioni crea risultati politonali, e complessi
reticoli sonori, accentuati anche dai continui cambiamenti di metro, che anticipano la ritmica del
Sacre.

Nella partitura di Petruska Stravinskij intesse insieme una grande varietà di motivi, stilisticamente
assai diversi, e sempre atomizzati, privi di ramificazioni, montati come in un collage: la musica da
fiera, popolaresca e sfrenata, echi di canzonette e di marce, valzer e polke, musiche da cabaret e
temi bandistici, in uno straniante caleidoscopio sonoro. L'animazione e la confusione della piazza
pervade tutto il primo quadro (La fiera della settimana grassa): nell'introduzione (Vivace)
Stravinskij stratifica tremoli di corni e clarinetti con motivi e formule ripetitive, creando una fascia
sonora densa, brulicante, carica di tensione, che sfocia in una grande fanfara di tutta l'orchestra (su
un tema liturgico della Pasqua, conosciuto come il canto dei Volocebniki), che accompagna il
passaggio di un gruppo di ubriachi. Nel caos della festa affiora anche l'imitazione di un organetto,
affidata a due clarinetti all'ottava, e la citazione di una sguaiata chanson francese ("Elle avait une
jambe de bois"), intonata delicatamente da flauti e clarinetti (poi anche dalla tromba) e punteggiata
dal triangolo (poi anche dal Glockenspiel). Un poderoso rullo di tamburi attrae l'attenzione della
folla sul teatrino del Ciarlatano (Lento): i disegni cupi di fagotti, controfagotto e contrabbassi, gli
arpeggi dell'arpa e della celesta, gli armonici degli archi e una cadenza incantatoria del flauto
disegnano un'atmosfera improvvisarrìente misteriosa, che introduce la Danza Russa (Allegro
giusto) - il flauto del Ciarlatano anima i tre burattini che cominciano a danzare di fronte al pubblico
stupefatto -, pagina brillante, vigorosa, omoritmica, basata su sequenze parallele di accordi
martellanti, nella quale comincia ad emergere il ruolo concertante del pianoforte.

Questo strumento acquista un vero e proprio rilievo solistico nel secondo quadro (nella stanza di
Petruska) che corrisponde anche all'iniziale partitura del Konzertstück. Dopo un prolungato rullo di
tamburo, troviamo Petruska solo coi suoi pensieri. Tutto il suo carattere è concentrato in una breve
cellula affidata a due arpeggi sovrapposti dei clarinetti, un insieme dissonante, che si insinua spesso
nella trama della partitura, come una specie di Leitmotiv. Poi emergono gli altri stati d'animo di
Petruska: la rabbia, che esplode in un fortissimo di tutta l'orchestra (Furioso), dominato da un
arpeggio discendente di tromba e cornetta (con sordina); i pensieri amorosi rivolti alla Ballerina,
resi da un melodizzare dolce e malinconico del flauto (Andantino); la sua goffa gioia che esplode
all'ingresso della Ballerina (Allegro) e che si interrompe dopo 13 battute con l'uscita di scena della
stessa.

Il tamburo introduce anche il terzo quadro che descrive invece il Moro nella sua stanza, attraverso
una rapida alternanza di gesti violenti e pesanti (Feroce stringendo), squarci sinistri, break
improvvisi, una danza dal sapore orientale, affidata a clarinetto e clarinetto basso, accompagnati da
piatti e grancassa, un motivo inquietante del corno inglese. Assai più serena la danza della Ballerina
(Allegro), una spigliata melodia della cornetta a pistoni accompagnata dal tamburo. Poi insieme la
Ballerina e il Moro avviano un valzer, basato su due temi distinti: il primo (Lento cantabile), in mi
bemolle maggiore, intonato da cornetta e flauto ("cantabile sentimentalmente") accompagnati dagli
arpeggi del fagotto; il secondo (Allegretto), in si maggiore, affidato ai flauti e alle arpe. Anche qui
Stravinskij crea un sofisticato gioco combinatorio, sovrapponendo questi due temi con quelli del
Moro, mescolando quindi insieme motivi ternari e binari, e ottenendo in questo modo una
dimensione sonora di estrema tensione con materiali in sé piuttosto neutri. Il pas de deux della
Ballerina e del Moro è bruscamente interrotto dall'arrivo di Petruska, che piomba nella stanza per
opporsi alla tresca, con il suo tema "gridato" dalla tromba. Ma il Moro lo affronta con la scimitarra
e lo insegue, su un movimento rapido e staccato di archi e legni, che si conclude con violenti
accordi sincopati.

Il tamburo introduce ancora l'ultimo quadro (La fiera dell'ultimo giorno di Carnevale) che riporta al
brulichio orchestrale della festa, trasformato qui nel suono fluttuante di una grande fisarmonica. Su
questo sfondo orchestrale Stravinskij innesta una serie di danze, molto colorite, basate su temi tratti
da varie raccolte di melodie popolari russe: la danza agile e leggera delle Balie (Allegretto) sul
motivo tradizionale "Lungo la via Piterskai'a", introdotta dall'oboe, e seguita da uno spensierato
refrain; la danza dell'orso (Sostenuto] caratterizzata da un incedere lento e pesante e da un motivo
dissonante dei clarinetti; la scenetta delle zingare e del venditore ambulante, su un tema staccato e
saltellante, scandito con forza dagli archi; la Danza dei cocchieri (Moderato), basata su un tema
molto ritmato e accentato, prima suddiviso tra trombe, archi, tromboni e corni, poi ripreso da tutta
l'orchestra, anche in forma di canone, in un crescendo martellante; l'ingresso dei saltimbanchi e
delle maschere (Agitato) su una trama veloce volatile di archi e legni nella quale si innesta un
pesante, drammatico motivo degli ottoni. Questo crescendo sfocia alla fine in un assolo della
tromba: è Petruska che irrompe sulla scena, inseguito dal Moro che lo raggiunge e lo colpisce a
morte, fra l'orrore dei presenti ai quali il Ciarlatano spiega che si tratta solo di una marionetta,
mostrando la testa di legno e il corpo pieno di segatura.
Resta alla fine una trama uniforme dei corni, sulla quale ritorna il tema della tromba (con sordina),
livido e agghiacciante: questa volta è il fantasma di Petruska che compare sul tetto del teatrino,
facendo sberleffi. Mentre il sipario si chiude su un enigmatico motivo di quattro note pizzicate degli
archi (Molto più lento).

Gianluigi Mattietti

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il secondo balletto di Stravinsky è quasi esattamente contemporaneo all'unica opera di Bartók. I due
musicisti erano quasi coetanei, avevano entrambi una profonda ammirazione per Debussy e si
legavano nei rispettivi paesi ad una corrente «nazionale» facendo riferimento alle tradizioni de!
canto popolare. Questi elementi in comune sembrerebbero di un certo rilievo, ma in concreto non lo
sono affatto: i mondi di Barbablù e di Petrushka appaiono lontanissimi fra loro. Il rapporto di
Stravinsky con il canto popolare è semplicemente l'incontro con uno dei tanti materiali (uno dei
primi) su cui si sarebbe esercitato il suo inesauribile potere di stilizzazione; mentre in Bartók è una
scelta definitiva, compiuta con profonda partecipazione etica. E assai diverso è il modo di prendere
le distanze dal tardoromanticismo e dall'impressionismo: non si può certo ridurre il Castello del
principe Barbablù a queste etichette, ma si è visto come le suggestioni di Debussy e Strauss
possono venir accolte in quest'opera senza menomarne l'autonomia. Diverso è soprattutto il modo
di atteggiarsi nei confronti dell'espressione, e in senso più ampio, la visione del mondo: Bartók non
avrebbe potuto condividere le implicazioni antiumanistiche dell'«oggettivismo» stravinskiano. Ma
converrà lasciare questi rapidi e troppo schematici appunti per vedere più da vicino il significato di
Petrushka, dopo averne ricordato brevemente la genesi.

Stravinsky cominciò a lavorare a questa partitura nell'agosto-settembre 1910 e la finì in meno di un


anno, il 26 maggio 1911. La prima rappresentazione ebbe luogo a Parigi il 13 giugno 1911, con la
compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev, la coreografia di Fokine e la direzione di Pierre
Monteux. Petrushka era Nijinski, la Ballerina Tamara Karsavina, il Moro Aleksandr Orlov, il
Ciarlatano Enrico Cecchetti.

Tra le testimonianze autobiografiche che Stravinsky ci ha lasciato sulla genesi di Petrushka è


essenziale in primo luogo un celebre passo delle Chroniques de ma vie, che non possiamo esimerci
dal citare. Stravinsky racconta come, dopo aver già concepito il progetto del Sacre, aveva pensato
di rimandarlo e di affrontare intanto una pagina puramente strumentale: «volli divertirmi con un
lavoro orchestrale in cui il pianoforte avesse una parte predominante, una specie di Konzertstūck.
Componendo questa musica avevo nettamente la visione di un burattino subitamente scatenato che,
con le sue diaboliche cascate di arpeggi, esaspera la pazienza dell'orchestra, la quale a sua volta gli
replica con le minacciose fanfare. Ne segue una terribile zuffa che, giunta al suo parossismo, si
conclude con l'accasciarsi doloroso e lamentevole del povero burattino. Terminato questo bizzarro
pezzo, per ore e ore, passeggiando sulle rive del Lemano, cercavo il titolo che esprimesse in una
sola parola il carattere della mia musica e, di conseguenza, la figura del mio personaggio. Un giorno
ebbi un sussulto di gioia. Petrushka! L'eterno, l'infelice eroe di tutte le fiere, di tutti i paesi! Era
questo che volevo, avevo trovato il mio titolo!».

Stravinsky prosegue narrando che Diaghilev, conosciuto il pezzo, propose con insistenza l'idea di
trasformarlo in balletto, e raccontando le circostanze in cui fu steso il soggetto e compiuta la
composizione. Il soggetto fu definito in collaborazione con Alexandre Benois, autore anche di
scene e costumi per la prima rappresentazione (sono le stesse scene che si vedono in questo
spettacolo: se ne servì poi anche Milloss, la cui coreografia non intese contrapporsi a quella di
Fokine, ma in un certo senso proseguirne la linea).

Ci sono nessi evidenti tra le immagini che Stravinsky collega alla genesi del Konzertstūck e la vera
e propria vicenda del balletto. A Pietroburgo, durante le feste della settimana grassa un vecchio
Ciarlatano presenta al pubblico tre marionette, che si rivelano poi dotate di sensibilità umana. Il
malinconico Petrushka corteggia la Ballerina, ne viene respinto, freme di gelosia quando il Moro la
conquista e infine, nella confusione del carnevale, viene ucciso dal rivale con un colpo di
scimitarra. Il Ciarlatano mostra agli intervenuti che si trattava solo di un burattino; ma quando la
folla si disperde il fantasma di Petrushka appare sopra il teatrino a compiere gesti di minaccia e
scherno.

Sulla voluta ambiguità di questa conclusione Stravinsky ebbe a dichiarare a Craft: «Il fantasma di
Petrushka, così come concepii la storia, è il vero Petrushka, e la sua apparizione alla fine fa sì che il
Petrushka degli episodi precedenti risulti un semplice fantoccio. Il suo gesto non è di trionfo o di
protesta, come spesso si dice, ma una specie di marameo rivolto al pubblico».

Nel racconto stravinskiano sopra riportato è decisiva l'affermazione che l'idea del balletto nacque da
un pezzo puramente strumentale, fu un modo di dare evidenza scenica a delle implicazioni già
presenti nella concezione musicale, quasi di tradurne in gesto teatrale alcune delle intuizioni più
originali e innovatrici. Il fatto non sorprende in un compositore come Stravinsky, la cui musica,
rifiutandosi allo spirito del canto, tende a risolversi nell'evidenza di un movimento, di un gesto (di
qui la specifica congenialità al balletto che si è costantemente riconosciuta alla musica di
Stravinsky, anche a quella destinata alla sala da concerto). Nel caso specifico del Konzertstūck da
cui nacque Petrushka la gesticolazione della musica suggeriva rigidi movimenti di marionette, ad
esempio attraverso la novità di un timbro pianistico secco, percussivo, privo di alone e di
potenzialità cantabili, incline quasi ad una metallica meccanicità, o ancora, attraverso la tagliente
asprezza di dissonanze come quelle degli «arpeggi diabolici» bitonali.

Ma il soggetto suggerito dalla situazione musicale presenta inquietanti ambiguità e si ricollega a


temi del Romanticismo e del Decadentismo di cui Stravinsky nelle Chroniques si guarda bene dal
far cenno. Nei dialoghi con Craft dichiara che il Ciarlatano doveva essere un personaggio alla
Hoffmann, e questo riferimento si può prender alla lettera. Qualche perplessità può invece suscitare,
nelle Chroniques, il riferimento alla figura di Petrushka come è conosciuta nella tradizione popolare
russa. Quel burattino è un ribaldo manesco, insolente e truffaldino, non un «infelice eroe», qualifica
che invece compete a Pierrot, maschera per eccellenza malinconica. Una volta collegato Petrushka
a Pierrot e al teatro di marionette sarebbe agevole concedersi ad ampie divagazioni, da Hoffmann a
Kleist a Gordon Craig, da Verlaine al Pierrot lunaire e via discorrendo. Per questa strada, però, si
potrebbero cogliere solo marginalmente le implicazioni più caratteristiche del burattino
stravinskiano. La sua vicenda si lega anche ai temi romantici e fin de siècle del doppio,
dell'ambiguità uomo/marionetta, del rapporto maschera/realtà, e fa propri gli aspetti inquietanti di
quella tematica, ma è fondamentale il fatto che tale vicenda è immersa nella atmosfera popolare
della festa del carnevale. L'irrompere della folla, il chiasso e la confusione della settimana grassa
sono elementi decisivi per sottrarre completamente Petrushka all'aura di un eroe verlainiano e per
definire la novità di questa partitura: il linguaggio musicale qui spazza via ogni possibile residuo di
aura tardoromantica o impressionistica, e, ad un solo anno di distanza dall'Uccello di fuoco,
rinuncia a tutte le suggestioni favolistiche ed esotiche che tanto rilievo avevano nel determinare il
fascino di quel balletto.

La cruda nettezza del segno, la violenza delle ben definite campiture di colore (non a torto
paragonate alla pittura dei «fauves»), la stilizzazione della banalità della canzonetta, la
rivalutazione della fiera e del baraccone (che assurgono a dignità d'arte in una misura inconcepibile
prima di questa partitura) sono alcuni degli elementi più vistosi che fanno di Petrushka un testo
capace di segnare una svolta, un nuovo corso nella musica del nostro secolo. Vi si impone una
logica formale che ignora l'elaborazione tematica, lo sviluppo, e punta tutto invece sulla tagliente
evidenza di idee melodiche brevi, semplici, in sé compiute, derivate in parte dal canto popolare
russo, ma anche da fonti «cittadine», da musica di consumo, come una canzone francese o valzer
viennesi, idee che non aspirano ad essere «nobili», che non si prestano a sviluppi, ma che non per
questo sono modellate su un'intima cantabilità: in sé possiedono non il canto, il lirismo, ma la secca
scansione del ritmo e del gesto, una chiarezza che è posta crudamente in luce dalle scelte timbriche
e armoniche. Con tali idee Stravinsky procede per ripetizioni, giustapposizioni e sovrapposizioni,
sorrette dalla lucida crudezza dei colori di cui si è detto e da una straordinaria fantasia ritmica.
Questo modo di procedere suggerisce, dietro la sua colorita vitalità, una situazione rigidamente
bloccata: la ripetitività, il carattere frammentario e a mosaico, rimandano ad una impossibilità di
sviluppo, sono spia di una concezione adialettica della stòria e strumento di un «oggettivismo»
antipsicologico. La affollata e colorita festa del carnevale è indifferente alle sofferenze e alla morte
del malinconico burattino: il carattere apparentemente impersonale di tutta l'impostazione della
musica si carica di ambiguità sinistre, con la sua crudele, deterministica meccanicità e il suo gusto
del grottesco. L'antipsicologismo si carica di sfiducia nella storia e nella tradizione umanistica,
rimanda ad un umorismo metafisico, e a quel radicale pessimismo di cui si sostanzia la visione del
mondo di Stravinsky (per il suo fatalistico determinismo non è una marionetta il soldato giocato
alla fine dal diavolo? E che altro è Edipo, fragile zimbello del destino?).

Le acrobazie e i pezzi di bravura dell'orchestra di Petrushka, le magistrali evocazioni della folla e


della festa non bastano ad esorcizzare il significato inquietante della sfiducia nei valori interiori,
della loro implicita negazione. E si capisce allora perché anche le citazioni di canti popolari russi
non abbiano l'accento di una candida innocenza, di una freschezza primitiva (siamo ben lontani dal
significato che aveva il folclore per un Bartók), si capisce perché possono venire «inquinate» dalla
convivenza con spunti canzonettistici di estrazione cittadina e «banale», come la canzone francese
«Elle avait un'jambe de bois» (che Stravinsky sentì suonata da un organetto sotto le sue finestre a
Beaulieu, presso Nizza, e che inserì senza sapere che il suo autore, un certo Spencer, era vivo e
avrebbe preteso da lui dei diritti) o due volgari valzer di Lanner, citazioni queste usate proprio in
funzione della loro banalità.

Dei quattro quadri dai quali il balletto è formato il primo e l'ultimo sono ambientati nella piazza
dell'Ammiragliato a Pietroburgo, in mezzo alle feste del carnevale, mentre i due centrali, più brevi,
rispettivamente nelle stanze di Petrushka e del Moro. All'inizio si ha la celebre, suggestiva
evocazione del turbinio della folla, con un alternarsi, incrociarsi e sovrapporsi di brevi spunti. La
prima idea che viene enunciata a piena orchestra, emergendo da un continuo fluttuare, è tratta da un
canto popolare russo della regione di Smolensk (il cui testo era di ispirazione religiosa). Un poco
oltre si evoca l'arrivo sulla piazza di un organetto di Barberia: esso suona una melodia di trito
sentimentalismo e uno spunto più vivace, quello della già citata canzonetta «Elle avait un' jambe de
bois», intonata dai legni cui si affianca il triangolo. Ritornano poi spunti già noti, fino alla
conclusione della prima parte, quando nel silenzio dell'orchestra le note ribattute dei soli strumenti
a percussione richiamano l'attenzione sulla figura del Ciarlatano. Per sottolinearne il carattere
hoffmanniano Stravinsky lo presenta con una piccola cadenza del flauto allusiva a Weber, cui segue
una pagina breve, immersa in un'atmosfera di magia freddamente sinistra, e infine la Danza russa
dei tre burattini (che è anche il primo dei pezzi che Stravinsky trascrisse per pianoforte solo nei
Trois mouvements de Pétrouchka): qui il pianoforte, con le sonorità rigide e legnose di cui già si è
detto, ha una parte di rilievo.

La musica del secondo quadro, che si svolge nella stanza di Petrushka, non contiene vere e proprie
danze, ma ha un carattere di pantomima: di qui partì l'intera concezione di Petrushka. Troviamo gli
«arpeggi diabolici» di cui parla Stravinsky nelle Chroniques, arpeggi che con la loro bitonalità
introducono nella musica una sorta di lacerazione, una sensibilità armonica nuova. Si ha in questa
pagina un procedere frammentario, nervoso, a scatti, con sussulti amari e «sgraziati»; anche questo
pezzo è trascritto nei Trois mouvements pianistici, come secondo brano.

Dopo il nuovo cambio di scena segnato dalla sola percussione il terzo quadro si apre con il ritratto
della goffaggine del Moro; poi la tromba, accompagnata dal solo tamburo militare, segna con uno
sfacciato spunto bandistico l'ingresso della ballerina. Essa, che nella scena precedente ha respinto il
mesto Petrushka, danza ora con il Moro un valzer, la cui melodia è tratta dalle Steyrische Tànze di
Josef Lanner ed è sostenuta da un grottesco accompagnamento del fagotto; anche il successivo
spunto di valzer è di Lanner. A turbare questa danza, deformata in movenze banali e meccaniche,
interviene Petrushka, folle di gelosia, ma viene scacciato.

Nel quarto quadro irrompe nuovamente la festa del carnevale, con il suo caotico affollamento: si ha
una successione di danze, che sono nell'ordine, dopo la pagina introduttiva, la Danza delle balie
(basata su due temi popolari), il Contadino con l'orso, Le zingare e il venditore ambulante, la Danza
dei cocchieri (su un tema popolare), Maschere. Irrompe infine improvvisa la zuffa tra il Moro e
Petrushka seguita dalla secca, veloce conclusione, con la morte di Petrushka e la sua beffarda
riapparizione.

Nei dialoghi con Craft Stravinsky dichiara di non aver mai avuto simpatia per Fokine («fu senza
dubbio l'uomo più sgradevole con cui abbia mai lavorato»), ma esprime, accanto a riserve, alcuni
significativi apprezzamenti positivi, come quello sull'invenzione del movimento con il braccio
rigido «che Nijinski doveva poi concretare in modo indimenticabile». Il giudizio stravinskiano più
equilibrato su questa storica coreografia si legge nelle Chroniques. Dopo aver reso omaggio alla
grandezza di Nijinski e della Karsavina osserva: «Fu gran peccato invece che i movimenti della
folla siano stati trascurati, che, cioè, anziché avere un ordine coreografico prestabilito, in armonia
con le esigenze così chiare della musica, siano stati lasciati all'improvvisazione arbitraria degli
esecutori. E tanto più lo rimpiango in quanto le danze d'insieme (dei cocchieri, delle balie, delle
maschere) e quelle dei solisti devono considerarsi come una delle migliori creazioni di Fokine».

Paolo Petazzi

18a 1946 - 1947

Petruska
https://www.youtube.com/watch?v=SvMrT0fUQq4

https://www.youtube.com/watch?v=TCwoin5wew4

Burlesque in quattro scene - Seconda versione


Libretto: proprio e Alexandre Benois

Parte I: Festa popolare della settimana grassa

Introduzione
La bancarella del ciarlatano
Danza Russa

Parte II: La stanza di Petruška


Parte III: La stanza del Moro

La stanza del Moro


Danza della Ballerina
Valzer - La Ballerina e il Moro

Parte IV: Festa popolare della settimana grassa (sera)

Danza delle balie


Il contadino con l'orso
Il mercante gioviale con le due zingare
Danza dei carrettieri e degli stallieri
Le maschere
La lotta del Moro con Petruška
Morte di Petruška
Comparsa del fantasma di Petruška.

Organico: 2 ottavini, 4 flauti, 4 oboi, corno inglese, 4 clarinetti, clarinetto basso, 4 fagotti,
controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 2 cornette, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti,
glockenspiel, rullante, tamburello, triangolo, xilofono, tam-tam, rullante, tamburello (fuori scena),
pianoforte, celesta, 2 arpe, archi
Composizione: Hollywood, ottobre 1946
Edizione: 1947

21 1911 - 1913

Le sacre du printemps

https://www.youtube.com/watch?v=9wK8fSkjOy0
https://www.youtube.com/watch?v=YOZmlYgYzG4

https://www.youtube.com/watch?v=YOZmlYgYzG4

https://www.youtube.com/watch?v=z1hFwsXaTVY

https://www.youtube.com/watch?v=a9M2oTHa3GM

https://www.youtube.com/watch?v=aAQSQYdMeRQ

https://www.youtube.com/watch?v=EkwqPJZe8ms

Quadri della Russia pagana in due parti


Libretto: proprio e Nikolaj Roerich

Parte I: L'adorazione della Terra

Introduzione
Gli auguri primaverili - danze delle adolescenti
Gioco del rapimento
Danze primaverili
Gioco delle tribù rivali - corteo del saggio - il saggio
Danza della terra

Parte II: Il sacrificio

Introduzione
Cerchi misteriosi delle adolescenti
Glorificazione dell'Eletta
Evocazione degli antenati
Azione rituale degli antenati
Danza sacrificale (l'Eletta)

Organico: ottavino, 3 flauti (3 anche ottavino), flauto contralto, 4 oboi (4 anche corno inglese),
corno inglese, clarinetto piccolo 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), clarinetto basso, 4 fagotti (4
anche controfagotto), controfagotto, 8 corni (7 e 8 anche tube tenore), tromba piccola, 4 trombe (4
anche tromba bassa), 3 tromboni, 2 bassi tuba, timpani, grancassa, tam-tam piatti, triangolo,
tamburello, guiro, crotali, archi
Composizione: Ustilug, 1911 - Clarens, 1913
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre des Champs Élisées, 29 maggio 1913
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1921
Dedica: Nikolaj Roerich

Guida all'ascolto 1 (nota 1)


Pensare che la storia della cultura proceda lungo un binario può essere utile in sede didattica ma
può portare a una semplificazione che impedisce di comprendere le sfumature di un'opera d'arte. I
processi culturali sono invece simili a cerchi concentrici nei quali è frequente trovare tentativi
espressivi variegati. La dimensione di ogni presente è sempre eterogenea e la novità di un'opera
rispetto a quelle della sua epoca si trova nell'aver rappresentato meglio di altre le tensioni della
società in cui nacque. Deriva da qui il valore "profetico" di un'opera, quel saper cogliere come in
una premonizione l'essenza del futuro. Inserire la Sagra della primavera in un percorso storico
lineare non permette di coglierne a pieno l'effetto dirompente: al di là della sua novità formale,
l'opera rompe con la convenzione in primo luogo perché riesce a gettare una luce disincantata sulla
sua epoca e ne coglie le tensioni sottocutanee.

L'idea dell'opera venne a Stravinskij nel 1910, mentre lavorava all'Uccello dì Fuoco per la
compagnia dei Balletti russi diretta da Sergej Diaghilev, nel modo che il compositore stesso ci
descrive nelle Chroniques (una delle sue biografie): «Un giorno, in modo assolutamente inatteso
giacché la mia mente era occupata da cose affatto diverse, intravidi nell'immaginazione lo
spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, osservano la danza di
morte di una vergine che essi stanno sacrificando per propiziarsi il Dio della primavera». Dalle
profondità dell'inconscio giunge a Stravinskij, in modo inaspettato e prepotente, l'immagine di un
rito in cui si propizia la divinità col sacrificio umano sperando che ella permetta il ritorno della
primavera. In fondo, a pensarci bene, è una visione al contempo trasgressiva e violenta, non certo
consona al distillato universo musicale che l'Ottocento aveva coltivato. Ma c'erano state avvisaglie,
in molti ambiti della società e soprattutto in quella francese, del fatto che l'accentuata sublimazione
delle emozioni avrebbe potuto aprire di contro la strada a un'energia difficilmente controllabile, più
antica e profonda, della quale atteggiamenti "primitivi" e neopagani erano evidenti filiazioni.

A queste tendenze di fine Ottocento si sposarono le influenze culturali del processo industriale,
l'immagine e il ritmo delle sue grandi macchine, l'energia cieca che esse sviluppavano (si pensi al
Futurismo), energia facilmente apparentabile a quella dirompente e incontrollabile dell'inconscio e
delle sue sfumature distruttive, materia che la psicoanalisi andava approfondendo in quegli anni. La
Sagra della primavera è il punto di incontro di queste tendenze, nelle quali l'istintuale, il
"motoristico", gli aspetti del fauvisme che rifiutavano la cultura tradizionale europea, si
manifestavano tutti come bisogni espressivi dell'artista "attuale".

Come è noto, il 29 maggio 1913 si scatenò un putiferio passato alla storia per la memorabile
insurrezione degli spettatori. Ci fu sicuramente un'esagerazione mondana e aneddotica nella
descrizione dell'avvenimento, ma è innegabile che la musica di Stravinskij abbia toccato i nervi
scoperti di un uditorio sensibile.

L'Adorazione della terra e il Sacrifìcio

Il compositore pensò di proporre il tema della Sagra della primavera a Diaghilev che ne fu subito
entusiasta. Stravinskij cominciò così a lavorare con Nikolas Roerich, pittore e scenografo
specializzato nell'evocazione del paganesimo, nonché con Diaghilev stesso, per definire la forma
dell'opera. La composizione procedette spedita e all'inizio della primavera del 1912, Stravinskij
terminò la partitura, il cui copione ci è giunto in tre differenti versioni. L'ultimo e definitivo divide
la Sagra in due grandi quadri: l'Adorazione della terra e il Sacrificio. Questa la traccia di cui
disposero gli spettatori del maggio 1913:
Primo quadro: «Primavera. La terra è ricoperta di fiori. La terra è ricoperta di erba. Una grande
gioia regna sulla terra. Gli uomini si abbandonano alla danza e, secondo il rituale, interrogano
l'avvenire. L'avo di tutti i saggi prende personalmente parte alla glorificazione della Primavera.
Viene guidato a unirsi alla terra rigogliosa e orgogliosa. Tutti danzano come in estasi».
Quadro secondo: «Trascorso è il giorno, trascorsa la mezzanotte. Sulle colline stanno le pietre
consacrate. Gli adolescenti compiono i loro mitici giochi e cercano la grande via. Si rende gloria e
si acclama Colei che fu designata per essere accompagnata agli Dei. Si chiamano gli avi venerabili
a testimoni. E i saggi antenati degli uomini completano il sacrificio. Così si sacrifica a larilo, il
magnifico, il fiammeggiante».

La generica trama non scende nei particolari dell'opera, in realtà divisa in varie sezioni, ma ne
dichiara l'elemento simbolista, presente almeno nelle intenzioni del copione, nel quale colpisce la
dimensione antisoggettiva in cui vengono inquadrati i protagonisti. Anche la ragazza destinata al
sacrificio («Colei che fu designata per essere accompagnata agli Dei») è parte di una collettività
indistinta che si identifica con la natura. Nella Sagra il soggetto è dunque un intero gruppo sociale,
fattore che la distanzia quanto mai dal teatro musicale, fondato quasi tutto sulla singolarità dei suoi
eroi, nonché dalla gran parte dei balletti precedenti. Ne deriva la mancanza quasi assoluta di un
intreccio, sostituito da una serie di cerimonie «mutuate», a dire di Stravinskij, «dalla Russia pagana
e unificate da una sola idea fondamentale: il mistero dell'improvviso sorgere del potere creatore
della primavera». Altra conseguenza è la rinuncia al vocabolario espressivo di emozioni come
l'amore, l'amicizia, il dolore, la nostalgia o simili. L'Introduzione, con la nota frase melodica al
fagotto, potrebbe trarre in inganno; in realtà la melodia mantiene una neutralità sua propria e ha la
pura finalità di un "richiamo".

Il mondo delle emozioni romantiche non trova accoglienza nella Sagra, e le soluzioni armoniche
che l'avevano descritto si condensano in blocchi sonori la cui unica funzione è quella
fenomenologica, ovvero quella di apparire come entità sonore complesse che non sono momenti di
un percorso ad ampio raggio. Ne deriva una musica il cui tempo drammatico è sospeso, proprio
come in un rito che col ripetere i suoi codici solleva l'attimo al di sopra del tempo.

Il principio dinamico fondamentale diventa così il ritmo, di sicuro l'aspetto più innovatore,
spettacolare e sconcertante dell'opera, poiché è per le scelte ritmiche che la Sagra appare in tutto il
suo splendore come un fenomeno totalmente isolato. Lo si avverte subito dopo l'Introduzione. La
sezione intitolata Presagì primaverili gioca su un accordo dalla pulsazione isocrona e
dall'accentazione irregolare: il tradimento dell'attesa, la difficoltà a individuare la sequenza,
generano un notevole senso di straniamento. Compare qui il primo andamento "motoristico"
dell'opera: l'orchestra si muove come un sussultante pistone. Tuttavia, quando il tessuto sonoro
rischia di farsi ripetitivo, il compositore interrompe la sequenza con un canto tradizionale russo, un
chorovod, che dona solennità e spazialità religiosa alla scena. Stravinskij gestisce il materiale
combinandolo e alternandolo per creare un puro gioco di forme che aumenta o diminuisce la
tensione sorprendendo l'ascoltatore. Nel brano successivo (Gioco del rapimento) il compositore
introduce altre novità: fa combaciare una struttura ritmica semplice e una struttura metrica
irregolare col fine di descrivere l'antagonismo degli elementi in scena (inseguimento dei rapitori e
fuga della vittima). Tale fattore ritmico caratterizza anche la sezione intitolata Ronde primaverili,
dove, a piena orchestra, ricompare anche il solenne chorovod. Il passaggio di strutture ritmiche e di
cenni tematici da un brano all'altro assicura all'opera una certa unità.
I Giochi delle città rivali e il Corteo del Saggio presentano ancora nuovi aspetti della ritmica
stravinskiana. Il primo ha una sola unità ritmica, la croma, che gioca su una dialettica tra accento
stabilito e tempo forte variabile, mentre il Corteo del Saggio, pur avendo una metrica invariabile,
apre il campo a una poliritmia favolosa dove ogni strumento procede secondo propri ritmi.
L'intenzione di Stravinskij nella Sagra è quella di rendere dialettico, in generale, il rapporto fra ciò
che nella musica è costituito a priori (per esempio, le battute con i tempi forti e deboli) e ciò che
invece è mobile, un'intenzione che anima tutta la partitura e dalla quale proviene il suo fascino
straniante. Il senso dell'antico e del primitivo è raggiunto anche con l'uso di melodie popolari russe:
si è fatto cenno al chorovod che compare nei Presagi primaverili e nel Gioco del rapimento, ma
anche quello presente in Cerchi ha un suo ruolo simile, più tendente però alla poeticità che alla
solennità. Il brano seguente, la Glorificazione dell'Eletta chiamata negli abbozzi di Stravinskij
"Danza selvaggia", è per potenza e originalità uno dei culmini dell'opera. L'assenza dei bassi, gli
slanci verso il sovracuto, le proiezioni sonore discontinue, sembrano sfidare la legge di gravita e
porsi in contrapposizione con i brani successivi, intitolati l'Evocazione degli antenati e l'Azione
rituale degli antenati dotati entrambi di un andamento più processionale, quasi fossero tappe di
relativa stabilità tra la Glorificazione e la Danza sacrale che segue.

In questo ultimo brano l'autore si pone un'altra difficile sfida: l'intensità si contrappone alle masse
(egli richiede infatti a pochi strumenti intensità oltre il fortissimo: sarebbe stato più facile ottenere
effetti di grandiosità con tutta la massa orchestrale), mentre i registri degli strumenti mirano a
realizzare contrasti timbrici paradossali. L'effetto ottenuto e la difficoltà nel raggiungerlo vengono
dunque percepiti insieme, dando luogo ad un esito semantico unico per l'epoca.

Nel finale la Sagra presenta una voluta ambiguità tecnica, ricercata non solo per la novità del suo
risultato uditivo. Al di là di tutto il suo scoppiettante formalismo, l'opera denuncia (forse è questo
che gli spettatori dell'epoca ebbero difficoltà a tollerare) una dialettica sempre più difficile tra
singolo e società, difficoltà profetica alla luce di quello che sarebbe di lì a poco accaduto in Europa.
I cent'anni della Sagra

Cosa può scandalizzarci oggi nell'ambito dell'arte? La domanda è lecita, soprattutto nel centenario
della Sagra della primavera. Lo scandalo presuppone certi valori, magari proclamati e poco
praticati, ma li presuppone. I valori presumono una società compatta che condivide alcune idee,
situazione poco riscontrabile nella frammentazione di oggi. Pensiamo spesso da singoli e,
soprattutto nelle cose artistiche, dubitiamo tra noi della qualità di un'opera ma non ne facciamo un
problema di scandalo. Se la Sagra abbia (inconsciamente) denunciato davvero il pericolo di una
regressione sociale alla barbarie (come poi accadde) o cavalcasse ad agio dell'autore certe tensioni
senza reale volontà di denuncia, è questione inestricabile. Sono passati cento anni ed è certa una
cosa: la Sagra della primavera, oggi, ha una funzione diversa da quella che aveva quando apparve:
forse potrebbe insegnarci cosa è lo scandalo...

In occasione del centenario le riflessioni in proposito si sono moltiplicate: critici, musicologi -


citiamo ad esempio il bell'articolo pubblicato il 18 settembre 2012 sul "New York Times" a firma di
Anthony Tommasini: Shocking or Subtle, Still Radical - e istituzioni concertistiche, celebrando
questo anniversario, si pongono interrogativi sulla reale funzione dell'arte, sul suo ruolo nella
società contemporanea, sulla capacità di un'opera d'arte di essere trasgressiva e provocatoria, e se è
o no lecito esserlo con il solo obiettivo di far parlare di sé, dando vita ad una palese iniziativa
pubblicitaria.
Stravinskij e Diaghilev, artisti geniali e impresari di rara scaltrezza, avevano voluto lo scandalo e ne
erano soddisfatti ("era esattamente ciò che volevo" esclamò Diaghilev alla fine della serata);
sapevano che questo avrebbe assicurato loro il successo. Quanto genio, però, nello strapotere
ritmico di questa partitura. I valori del movimento e del corpo sono esaltati da una musica dalla
fisicità travolgente. Altri importanti compositori di quel periodo hanno scritto cose più radicali ma
difficilmente così scioccanti; ad essere scioccante era anche la tematica, che importava un rito
primitivo nella raffinata società parigina (che comunque è stata la culla del modernismo
novecentesco). Cosa leggevano i parigini in questa vicenda, alla luce del Romanticismo che
avevano vissuto e prima delle guerre mondiali? Forse avevano individuato una minaccia latente, o
magari l'avevano presa come un'accusa.

La partitura della Sagra della primavera è lunga e complessa ma possiede una comunicativa
immediata. Un altro aspetto per cui ci può essere utile è la sua capacità di passare all'ascoltatore
trame complesse in modo diretto e spontaneo. L'augurio di questo centenario è dunque che la Sagra
ci instradi, con la lungimiranza del suo ingegno e con il ragguaglio minaccioso della sua trama,
verso un miglioramento sociale che passa inevitabilmente per lo scandalo.

Simone Ciolfi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Durante la primavera del 1910, mentre a Pietroburgo stava terminando le ultime pagine della
partitura dell'Uccello di fuoco, Stravinskij ebbe come una visione. Racconta egli stesso nelle
Cronache della mia vita: "un giorno - in modo assolutamente inatteso, perché il mio spirito era
occupato allora in cose del tutto differenti - intravidi nella mia immaginazione lo spettacolo di un
grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, che osservano la danza fino alla morte di
una giovinetta che essi sacrificano per rendersi propizio il dio della primavera. Fu il tema del Sacre
du printemps. Confesso che questa visione m'impressionò fortemente; tanto che ne parlai subito
all'amico pittore Nikolaj Roerich, specialista nell'evocazione del paganesimo. Egli accolse l'idea
con entusiasmo e divenne mio collaboratore in quest'opera. A Parigi ne parlai pure a Djagilev, che si
entusiasmò subito di tale progetto".

Nonostante la folgorazione e l'entusiasmo di Djagilev, che immediatamente ne vide le potenzialità


per un nuovo balletto, la realizzazione non seguì immediatamente. Stravinskij fu occupato dalla
composizione di Petruska che lo impegnò dalla metà del 1910 alla metà del 1911: solo dopo la sua
rappresentazione, avvenuta nel giugno del 1911, poté pensare alla stesura della Sagra e alla sua
concretizzazione scenica, in collaborazione con Roerich. Il balletto, con il sottotitolo di "Quadri
della Russia pagana", si suddivide in due parti: "L'adorazione della terra" e "Il sacrificio". In una
lettera a Djagilev, Roerich così descriveva l'azione: "Nel balletto Le sacre du Printemps, così come
lo abbiamo concepito io e Stravinskij, il mio scopo è presentare un certo numero di scene che
manifestano la gioia terrena e il trionfo celestiale secondo la sensibilità degli slavi. La prima scena
deve trasportarci ai piedi di una collina sacra, in una pianura rigogliosa, dove le tribù slave sono
riunite per celebrare i riti della primavera. In questa scena c'è una vecchia strega che predice il
futuro, un matrimonio dopo un rapimento, danze in tondo. Poi viene il momento più solenne. Il
vecchio saggio è condotto dal villaggio per imprimere il suo sacro bacio sulla terra che ricomincia a
fiorire. Durante questo rito la folla è in preda a un terrore mistico. Dopo questo sfogo di gioia
terrestre la seconda scena suscita intorno a noi un mistero celestiale. Giovani vergini danzano in
circolo sulla collina sacra, fra rocce incantate: poi scelgono la vittima che vogliono onorare.
Immediatamente ella danzerà davanti ai vecchi vestiti di pelli d'orso per mostrare che l'orso era
l'antenato dell'uomo. Poi i vecchioni dedicano la vittima al dio Jarilo".

La prima rappresentazione del balletto ebbe luogo a Parigi al Théâtre des Champs-Elysées per la
stagione dei Rallets Russes il 29 maggio 1913 (coreografo Vaslav Nijinskij, direttore Pierre
Monteux) e suscitò uno scandalo rimasto memorabile. Stravinskij abbandonò la sala dopo le prime
battute del preludio, che sollevarono immediatamente risa e canzonature. "Queste manifestazioni",
ricorda il compositore nelle Cronache della mia vita, "dapprima isolate, divennero presto generali e,
suscitando d'altra parte delle opposte manifestazioni, produssero in breve un chiasso infernale.
Durante tutta la rappresentazione rimasi tra le quinte, a fianco di Nijinskij. Questi stava in piedi su
una sedia e gridava a squarciagola ai ballerini: "Sedici, diciassette, diciotto..." (si servivano di un
conteggio convenzionale per segnare le battute). Naturalmente i poveri ballerini non sentivano
niente a causa del tumulto della sala e del loro calpestio. Io ero costretto a tenere per il vestito
Nijinskij, fuori di sé dalla rabbia e in procinto di balzare in scena, da un momento all'altro, per fare
uno scandalo. Djagilev, per far cessare il fracasso, dava ordini agli elettricisti, ora di accendere, ora
di spegnere la luce nella sala. È tutto ciò che ricordo di quella 'prima'. Fatto strano, alla prova
generale a cui assistevano, come sempre, numerosi artisti, pittori, musicisti, letterati e i
rappresentanti più colti della società, tutto si era svolto in modo calmo e io ero lontano mille miglia
dal prevedere che lo spettacolo avrebbe provocato quella gazzarra".

Anche in seguito a quella storica serata, la partitura del Sacre rimase a lungo il simbolo della
musica moderna, in ogni senso: se da un lato la sua apparizione parve sconvolgere tutti i canoni
della bellezza e del gusto per l'inaudita violenza con cui si evocava l'irruzione di forze selvaggie e
primordiali, d'altro canto l'originalità della sua lingua barbarica e "primitiva" esercitò un influsso
notevole, e non solo tra le avanguardie musicali del tempo. La radicale novità della partitura,
percepibile soprattutto nell'invenzione ritmica, di una ricchezza e complessità senza precedenti, ma
estendibile anche ai parametri armonici e melodici, si basava su una visione formale profondamente
emotiva, ma improntata anche a una evidenza insieme classica e popolare. Non a caso Jean Cocteau
definì il Sacre "le georgiche della preistoria", ponendo l'accento su una rappresentazione delle forze
della natura che per quanto rovesciata in confronto alle visioni idilliche della primavera ne serbava
il carattere mitico e l'aura sacrale; mentre Stravinskij stesso, ancora anni dopo la composizione,
ribadì che a influenzarlo era stata l'esperienza della "violenta primavera russa, che sembra iniziare
in un'ora ed è come se la terra intera si spezzasse": un'esperienza che risaliva alla sua infanzia e che
si intrecciava con il ricordo dei riti propiziatori della tradizione popolare. Gran parte del fascino
incomparabile della partitura sta proprio in questa strettissima commistione di artificio e natura,
mitologia e folklore, simmetria e asimmetria. pulsione vitale e istinto di morte, dinamicità e
staticità.

L'Adorazione della terra si apre con il celeberrimo assolo del fagotto impiegato in una tessitura
acuta, su una melodia popolare lituana. Fin dall'inizio si stabilisce un clima di arcaica staticità, cui
ben si attaglia il titolo di "Notte pagana" suggerito dal compositore per il grande sacrificio: qui è
come se la musica volesse rappresentare il timore suscitato dalle grandi forze cosmiche della
creazione, "il risveglio della natura, lo stridio, il rodio, i movimenti di uccelli e bestie", secondo
un'indicazione del compositore stesso. Alcuni caratteri fondamentali si delineano già in questa
introduzione: i motivi si riducono per lo più a frasi brevi e incisive, quasi formule elementari, che
hanno però già in sé le forze della propria trasformazione; il ritmo, anche attraverso l'uso frequente
dell'ostinato, provoca l'impressione di un impulso inarrestabile, che non è solo quello realistico
della danza, ma assurge anche a valore simbolico di esasperazione del movimento; le
sovrapposizioni politonali, congiunte da un lato con procedimenti modali e dall'altro con il libero
trattamento delle dissonanze che non eliminano l'esistenza di centri tonali, creano un antagonismo
che acquista via via un sempre più marcato senso drammatico (massimamente nel Gioco del
rapimento, culmine anche di un crescendo dinamico di forza esplosiva). Ad episodi di crescente
tensione fanno seguito zone di quiete e di rarefazione: così le Ronde primaverili vengono introdotte
da un lungo trillo dei flauti che preludono a un movimento "sostenuto e pesante", dove i clarinetti
danno voce a una melodia di sapore popolare che ricorda il Chorovod, la danza circolare in onore
della primavera. I trilli dei flauti fanno nuovamente da preludio al Gioco dalle città rivali, in cui
entrano con prepotenza le percussioni, che assumono l'importanza quasi di una sezione orchestrale
a sé stante. La tremenda tensione interna tra la semplicità del materiale tematico e la discordante
complessità della tessitura ritmica e armonica è acuita dalla strumentazione, che utilizza mezzi
estremamente sofisticati per ottenere un effetto volutamente elementare, primitivo. Episodi di
opposta spettacolarità sono il Corteo del saggio, che culmina nella straordinaria magia evocativa del
"bacio della terra", e la vorticosa Danza della terra, momento di estrema forza centrifuga che chiude
la prima parte con l'esplosione di un caos primordiale. La seconda parte si apre con una nuova
Introduzione, di segno diverso: sono, secondo Roman Vlad, "sonorità glaciali, da notte polare", che
creano il clima di attesa sacrificale. Nei freddi armonici degli archi e negli echi dei corni si fa luce
un tema d'un singolare, astrale lirismo.

Nei Cerchi misteriosi degli adolescenti, intrisi ancora della medesima atmosfera velata, questo tema
si dispiega in un incedere quasi ipnotico, trepido e struggente. A questo momento di ripiegamento
lirico, segue, avviata dal tamburo, in un brusco accelerando, la Glorificazione dell'eletta,
originariamente pensata come una selvaggia cavalcata delle amazzoni; la solenne Evocazione degli
antenati ristabilisce il carattere religioso del sacrificio, a cui l'episodio successivo, Azione rituale
degli antenati, conferisce sussulti e spasimi di sinistra irrevocabilità. Si avvicina così l'epilogo, la
danza sacrale della vittima designata a morire per propiziare il rinnovarsi della primavera. Nella
Danza dell'eletta, il furore ritmico raggiunge l'apice del più orgiastico parossismo, rimettendo in
gioco tutte le possibilità strutturali sperimentate nell'opera e non lasciando più dubbi sul carattere
barbarico del sacrificio. Eppure, proprio da questa identificazione con le crudeltà del rito che si è
appena compiuto, si rigenera una sorta di euforia vitale, di panica rivelazione del mistero della
rinascita, di tragica consapevolezza del ciclo eterno degli inizi e delle fini scandito dalle leggi
immodifìcabili della natura.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

«Terminando a Pietroburgo le ultime battute dell'«Uccello di fuoco» — racconta Stravinsky nelle


sue «Cronache» — un giorno intravidi nella mia immaginazione, in modo del tutto inaspettato,
poiché il mio animo era allora occupato a cose del tutto differenti, lo spettacolo di un grande rito
sacrale pagano: vecchi saggi erano seduti in cerchio a osservare la danza della morte di una
fanciulla che essi sacrificano per rendere loro propizio il dio della primavera. Fu il soggetto della
«Sagra della primavera». Devo dire che questa visione mi aveva molto impressionato e ne parlai
subito all'amico pittore Nicholas Roerich, specialista nello studio del paganesimo. Egli accolse
l'idea con ardore e divenne mio collaboratore. A Parigi ne parlai anche a Diaghilev, che subito si
entusiasmò per il progetto ».

In realtà la realizzazione del lavoro non fu altrettanto subitanea come la traccia immaginativa: un
anno (fra il 1910 e il 1911) fu completamente assorbito dalla stesura di «Petruska» e
successivamente, di ritorno da Parigi, Stravinsky compose due «Melodie» per voce e pianoforte e la
cantata «Zvesdoliki» («Il Re delle Stelle»), tutte su testo del simbolista russo Constante Belmont.

«La Sagra» era infine terminata il 17 novembre 1912 e inaugurava la stagione dei Ballets russes al
Théatre des Champs Elisées a Parigi il 28 maggio 1913, sotto la direzione di Pierre Monteux e con
la coreografia di Nijnsky.

Il balletto fu un insuccesso dei più clamorosi; vani gli sforzi di quelle «cinquanta persone» presenti
in sala che — come racconta Casella — cercavano di tenere a freno la «feroce bestialità»
scatenatasi fra il pubblico. «A metà del preludio, scoppiò la tempesta, sotto forma di urli, fischi e
schiamazzi di ogni genere. Quando si aperse, la scena, la coreografia di Nijinski, anziché attenuare
la bufera, la aggravò ancora. Si vedevano infatti sulla scena strani gruppi di uomini e di donne che
parevano esquimesi raggruppati insieme in pose dolorosamente e goffamente contorte,
probabilmente tolte da qualche ceramica popolare russa... Per tutta la mezz'ora che dura il lavoro, fu
impossibile udire qualcosa».

Del resto se lo stesso autore dissente fortemente dalla «incoscience» della coreografia di Nijinsky
che avrebbe completamente travisato lo spirito dell'opera, gli sembra altrettanto inconcepibile che
del «Sacre» si sia potuto fare una specie di vessillo rivoluzionario, come Stravinsky chiaramente
esprime nella sua «Poetica». Questo è un fatto, molto significativo della posizione estetica tenuta
dal musicista nei confronti dei suoi prodotti, che considera assolutamente 'naturali', perché elaborati
senza selezioni qualitative o scarti prioritari. Partendo cioè da premesse di ordine estetico,
escludenti interferenze etiche, egli si comporta come un bravo 'artigiano' — appellativo di cui ama
spesso fregiarsi — che di continuo si rinnova seguendo l'istanza dei suoi «appetiti» e, nuovo Don
Giovanni, rincorrendo prede sempre diverse (E. Ansermet).

Le quali, nella fattispecie del «Sacre» sono semplici e pertanto 'impersonali' mezzi musicali;
inseguiti e costruiti quasi mentalmente: il ritmo, di continuo modificato in un'incessante asimmetria
al limite del parossismo, la tonalità, che si esplica in potenti fasce politonali, gli strumenti,
soprattutto quelli percussivi, usati come ai fini di una potente deflagrazione («Danza della terra»).

La partitura comprende un'orchestra di dimensioni enormi: 2 ottavini, 3 flauti, 1 flauto in sol, 4


oboi, 2 corni inglesi, 3 clarinetti, 1 clarinetto piccolo, 1 clarinetto basso, 4 fagotti, 2 controfagotti, 8
corni, 4 trombe, 1 tromba piccola, 1 tromba bassa, 3 tromboni, 2 tube, 2 tube tenori, 5 timpani,
Grancassa, Tam-tam, triangolo, tamburo basco, guiro, crotali, quintetto d'archi.

Il sottotitolo del balletto è "Quadri della Russia pagana in due parti", («Adorazione della Terra», «Il
Sacrificio») che dovevano nelle intenzioni di Stravinsky e Roerich ricreare la cerimonia delle tribù
slave fedeli al dio Yarilo le quali, all'inizio della primavera, offrono in sacrificio una fanciulla,
simbolo di fertilità e di nuova linfa vitale.
«Componendo la "Sagra" — scrive il compositore — mi immaginavo l'aspetto scenografico del
lavoro come un seguito di movimenti ritmici di una estrema semplicità eseguiti da dei grandi
blocchi umani, di effetto immediato sullo spettatore, senza minuzie superflue né complicazioni
forzate ad una sola danzatrice. La musica di questo passo, netta e precisa, esigeva ugualmente una
coreografia corrispondente semplice e facile da cogliere». Anche lì dove le intenzioni del musicista
sottendono un programma, tutto si risolve con un taglio decisamente astratto, in cui le componenti
cubiste e del fauvismo offrono un felice supporto.

L'«Introduzione» affida una melodia lituana (R. Vlad) al fagotto solo impiegato in registro acuto,
mentre dopo poco il corno inglese, l'oboe, la tromba piccola svolgono dei «temi-richiamo» di
incredibile efficacia, quasi «segnali che affiorano da un mondo primitivo» (G. Pestelli). La sezione
successiva prevede l'arrivo dei sacerdoti e degli indovini (àuguri primaverili) in un clima di
opprimente angoscia: gli accenti si inseriscono nella simmetria delle battute, poi ripresi dagli archi
in contrattempo, con l'intervento dei corni sui tempi deboli. Qui il ritmo si afferma con la
prerogativa stessa del tempo puro che si costruisce da solo la forma musicale (G. Brelet) e ciò è
anche maggiormente rilevabile nel successivo «Gioco del ratto» che si configura come una lotta fra
le battute introdottte in 9/8, quelle in 2/8, 3/8, 4/8, 5/8, 6/8, e in 12/ 8, a velocità forsennata, la
pulsazione sembra rallentarsi nelle «Ronde primaverili», mentre il «Gioco delle città rivali» (Molto
allegro) riprende il ritmo concitato, con un motivo già esposto nel «Gioco del ratto», ripreso dai
corni. Da tenere presente che tale procedimento è piuttosto raro; per lo più il tema nasce, si evolve,
si ripete e sparisce, gode cioè di una sua palese autosufficienza. I venti temi su cui, all'incirca, si
fonda la partitura sono legati fra di loro (con un'arte che sta fra il magico e lo stregonesco potere di
Stravinsky), per via di vaghe e sottili assonanze create dall'intervallo di quarta e la loro semplice
articolazione fa pensare a influenze del folclore russo (anche se non testuali). «L'opera procede
interamente per schemi aggiuntivi esterni, con un rinnovamento continuo e totale» (A. Schaffner).

Nel «Corteo del saggio» l'organico orchestrale si amplia di tamtam e grancassa finché a un certo
punto tutto si placa su un accordo dei fagotti, timpano e controfagotto che «pulsano la nota 'fa'
quasi battendo alle porte di un oracolo o quasi il Saggio chinasse il suo orecchio come un
taumaturgo alla crosta terrestre per indagare i battiti sotterranei» (G. Pestelli). La prima parte si
chiude con la «Danza della terra» in cui si sprigionano tutte le forze, con un senso quasi 'panico'
della natura. La seconda sezione si apre con suggestioni timbriche che contrastano i violenti 'coups
de marteau' con cui terminava la parte precedente: flauti, oboi, corni (su un accordo di re minore) e
archi con accordi armonici acuti che fanno affiorare «sonorità glaciali, da notte polare» (Vlad).
L'intreccio bitematico che appare in questa «Introduzione», si presenta separato dapprima nei
«Cerchi misteriosi degli adolescenti» e poi nell'«Azione rituale degli antenati» (A, Schaeffner).
L'episodio della «Glorificazione dell'Eletta» era stato concepito come una cavalcata selvaggia delle
amazzoni; la fanciulla che sta per essere sacrificata appare in una iuce di bagliori primordiali,
vitalisticamente esaltati (potenti colpi di percussione alternati a violenti accordi dissonanti).
L'elemento collettivo che permane nell'«Evocazione degli antenati» e nell'«Azione rituale degli
antenati» sparisce con la «Danza Sacrale dell'eletta»: qui la vittima è sola di fronte alle forze della
natura che deve cercare di propiziarsi. Dalle figure aggettanti dei pannelli del bassorilievo prende
corpo in un 'a tutto tondo' l'«eletta» che, dolorosamente partecipe dei destini dell'umanità, si
assoggetta all'imperioso richiamo di un ritmo 'disumano', di una strumentazione ossessiva e
orgiastica.

Fiamma Nicolodi
31 1915 - 1916

Renard

https://www.youtube.com/watch?v=Hjx0bJP867g

https://www.youtube.com/watch?v=DaAQ9x_j4po

Burlesque cantata e danzata


Testo: Alexander Afanasyev

March
Prelude
First story
Interlude story
Second story
Postlude (Mocking song)
March

Organico: 2 tenori, 2 bassi, flauto (anche ottavino), oboe (anche corno inglese), clarinetto, fagotto,
2 corni, tromba, timpani, triangolo, tamburello con campanelli, tamburello senza campanelli,
tamburo cilindrico, piatti, grancassa, cimbalom (o pianoforte), 2 violini, viola, violoncello,
contrabbasso
Composizione: Château d'Oex, 1915 - Morges, 1 agosto 1916
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre de l'Opéra, 18 maggio 1922
Edizione: A. Henn, Ginevra, 1917
Dedica: principessa Edmond de Polignac

37 1914 - 1917

Les noces

https://www.youtube.com/watch?v=wfLjn_bAK-E

https://www.youtube.com/watch?v=vsXR81dLjjE

https://www.youtube.com/watch?v=QAXanZ1B7wI

Scene coreografiche russe


Libretto: proprio
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Noces-testo.html

La treccia (Benedizione della sposa)


Benedizione dello sposo
Partenza della sposa
Festa di nozze

Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, 4 pianoforti, xilofono, timpani, 2 crotali,
campane, 2 piccoli tamburi, tamburello, tamburo basso,piatti, triangolo
Composizione: 1914 - Salvan, 11 ottobre 1917
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre de la Gaîté, 13 giugno, 1923
Edizione: J. & W. Chester, Londra, 1923-24
Dedica: Serge Diaghilew

Sinossi

Primo Quadro: Nella casa della sposa. La treccia. - La sposa piange, le comari la consolano, la
pettinano e le annodano la treccia «con un nastro rosso come le mie gote, - con un nastro azzurro
come gli occhi miei», dice Natascia.

Secondo Quadro: Nella casa dello sposo. - E' ora la volta dei compagni, poi dei genitori, di adornare
il fidanzato. La preghiera si mescola ai loro canti finché il figlio invoca la benedizione paterna (con
un canto basato sulle modificazioni di un tema che nella liturgia bizantina viene di solito cantato
nella Messa dei Morti).

Terzo Quadro: L'addio della sposa. - Lo sposo è venuto a prendere la compagna. Benedizione della
coppia davanti all'icona da parte dei genitori; lamento delle due madri che supplicano i figli di
tornare alle loro case.

Quarto Quadro: Il banchetto di nozze. - Si susseguono incessanti i motti di sapore paesano, i frizzi
tra i convitati, le buffonesche raccomandazioni o allusioni agli sposi, spesso senza nesso e senza
senso come accade tra avvinazzati. Infine gli sposi sono accompagnati alla stanza nuziale e la festa
ha termine.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La prima idea di Noces venne a Strawinsky nel 1914 durante un soggiorno londinese. Poco dopo,
da una breve visita al suo paese natale (poi non più ripetuta), Strawinsky riportava con sé un
volume intero di canti di nozze. La loro lettura provocò in lui due ordini di sensazioni, uno
sentimentale e affettivo (la tristezza della guerra, la nostalgia della patria lontana, l'attrazione verso
costumanze e riti della «vecchia Russia»), l'altro più propriamente artistico e musicale. «Quel che
mi seduceva in quei versi», narra egli stesso nelle Chroniques de ma vie, «non erano tanto gli
aneddoti spesso truculenti, né le immagini o le metafore sempre deliziosamente impreviste, quanto
piuttosto la concatenazione delle parole e delle sillabe così come la cadenza che essa provoca, e che
produce nella nostra sensibilità un effetto molto vicino a quello della musica».

La prima stesura per canto e pianoforte, già ritardata da diverse circostanze, ebbe termine nel 1917;
ma prima che Noces trovassero la loro specifica veste strumentale dovevano passare altri sei anni,
durante i quali nascevano intanto capolavori quali l'Histoire du Soldat e Mavra. Strawinsky concepì
originariamente l'opera per due categorie di mezzi fonici: una materia soufflée e un'altra frappée
(sono parole sue). Gli parve corrispondessero a tali esigenze in un primo momento ottoni ed archi,
successivamente armonium e pianola, in unione a quel cembalo ungherese ch'egli aveva già
ampiamente introdotto nella partitura di Renard. Seguirono altre ricerche e tentativi, di cui erano
indirettamente partecipi gli abitanti di Morges sul lago di Ginevra allorché sentivano «il signore
russo», come racconta Ramuz, ora martellare un pianoforte, ora pedalare sopra un ventoso
armonium, ora percuotere con violenza un incredibile assortimento di strumenti a batteria.
Diaghilev attendeva inutilmente il compimento di queste «scene coreografiche» che egli si
proponeva di rappresentare a Parigi nel 1921; ma soltanto nel 1923 la partitura fu terminata nella
forma strumentale odierna, ove il contrasto tra i due elementi fonici è stato ridotto alla sua cruda
essenza e al tempo stesso risolto in una geniale congiunzione delle voci da una parte e di quattro
pianoforti e 13 strumenti a percussione dall'altra.

Ben noti i caratteri strutturali dell'opera. Forte semplificazioni armonica rispetto ai lavori
precedenti, soprattutto alla Sagra, e, correlativamente, emergenza delle linee polifoniche corali,
disposte secondo «uno stile profondamente diatonico, con grande preponderanza di accordi
perfetti» (Casella). Il melos popolare e liturgico russo lievita di continua nel sostrato di Noces, ma
due soli i temi ad esso materialmente riferibili.

Stante la speciale impostazione strumentale, le risorse timbriche sono surrogate da tutta una
particolare vocalità, generalmente tesa su registri alti, moltipllcata in chiaroscuri e prospettive e
contrappuntata dalla policroma batteria, mentre le quattro tastiere pianistiche, perduto ogni colore
chopiniano o debussiano che sia, sono adibite ad un martellante lavoro di incastro e di mosaico per
costituire la piattaforma armonica. Il ritmo è quasi invariabilmente scandito su un valore unitario,
sillabico, slittante di accento da battuta a battuta.

Entro tale struttura fonica vivono personaggi che, pur nel loro schietto vigore realistico, in virtù
dell'ostentata fissità prodotta da quel brulichio e gridio vorticoso di ritmi e di voci, finiscono man
mano per assumere ai nostri occhi una sorta di investitura simbolica: quella di una umanità che nel
tripudio esteriore tenta coprire la tristezza di un evento pur destinato alla gioia. In realtà nei
genitori, con il distacco dei figli, la vita compie il suo ciclo, esaurisce la sua ragion d'essere; e ai
figli, all'atto delle nozze, la vita s'affaccia con tutte le sue drammatiche incognite.

Nella chiusa, quella tristezza proprio nel toccare il suo acme si fa muta di voci. Il vasto silenzio
della steppa riprende il suo dominio e la pena dei cuori sembra dilatarsi con i rintocchi delle
campane. Così si conclude il grande trittico del periodo russo di Strawinsky: dopo la tragicità dei
fantocci cittadini di Petruska, dopo la violenza terrificante dell'uomo e della natura primitivi della
Sagra, in Noces l'umanità contadina, umile e semplice, ma non per questo immune da un originario,
universale destino di ansia e di pianto.

Giorgio Graziosi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La matrice primitiva e rituale della musica e la sua facoltà di rappresentare attraverso i mezzi più
"elementari" - quindi il canto e le percussioni - i simboli "elementari" della vita, è anche e
soprattutto prerogativa di Les Noces di Igor Strawinsky. Queste «scene coreografiche russe con
canto e musica» sembrano cristallizzare il fauvisme della Sagra della primavera nella
formalizzazione e nella solennità del rito. Se quindi nella Sagra prevaleva il momento esplosivo
della crisi rituale, nelle Nozze prevale il controllo liturgico (Carpitella). E se di fronte allo
scatenarsi delle forze telluriche della Sagra l'umanità restava sgomenta e ammutolita, nel rito delle
Nozze l'umanità canta senza posa lasciando agli strumenti solo lo scampanio delle battute
conclusive (Vlad). La natura è quindi scomparsa e l'uomo resta il solo protagonista (Mila).

Proprio al 1912, periodo in cui Strawinsky lavorava alla Sagra, risale la prima idea delle Nozze, ma
il lavoro iniziò concretamente solo nel 1914 sulla scorta di alcuni canti popolari, tratti dalle raccolte
antologiche di Afanas'ev e Kireevsky: «Intendevo comporre una specie di cerimonia scenica,
valendomi, a modo mio, degli "elementi rituali" che mi offrivano a piene mani, i costumi paesani
conservati da secoli in Russia per la celebrazione dei matrimoni». In sintonia con la definizione di
"gioco di nozze" che la tradizione attribuisce al rito nuziale Strawinsky afferma che «questo
spettacolo doveva essere un "divertimento" ...non intendevo ricostruire le nozze contadine, ed ero
ben poco preoccupato di problemi etnografici». Inoltre la cerimonia che viene rappresentata non è
un quadro della Russia pagana, ma «un prodotto tipico della Chiesa russa. Si sentono lungo tutto il
lavoro invocazioni alla Vergine e ai Santi». E' in questa contaminazione tra il rito pagano e quello
cristiano che va rintracciata l'essenza popolare delle Nozze.

Lo spartito, che nel 1915 era composto per due terzi, fu completato a Morges nel 1917: quando
Strawinsky lo suonò a Diaghilev, questi ne fu commosso alle lacrime ed esortò Strawinsky ad
orchestrarlo. Ma dovettero passare altri sei anni perché la partitura assumesse la sua veste definitiva
e lo spettacolo fosse inserito nel cartellone dei Balletti Russi (nel giugno del 1923, con la
coreografia di Bronislava Nijinska).

La lunga gestazione, che non impedì peraltro una perfetta omogeneità, è da attribuire quindi in gran
parte alle difficoltà nella scelta della veste strumentale. In una prima stesura Strawinsky fece ricorso
ad un'orchestra simile a quella della Sagra; poi pensò ad un organico comprendente flicorni,
cornette, pianole e altri strumenti popolari; infine approntò «una partitura che comportava interiori
blocchi polifonici: pianoforte meccanico e armonium azionati elettricamente, un complesso di
percussione e due cimbalom ungheresi. Ma questa volta cozzai in un nuovo ostacolo: la grande
difficoltà per il direttore d'orchestra di sincronizzare le parti eseguite da musicisti e cantanti con
quelle degli strumenti meccanici... Vidi chiaramente che nella mia opera l'elemento vocale...
sarebbe stato sostenuto nel miglior modo da un complesso costituito unicamente da strumenti a
percussione... un'orchestra costituita per una parte da pianoforti, timpani, campane e xilofono
(strumenti a suono determinato) e per l'altra da tamburi di timbro e di altezza vari (strumenti a
suono indeterminato)». Usando per i pianoforti una scrittura decisamente percussiva ottenne così
un'orchestra «nello stesso tempo perfettamente omogenea, perfettamente impersonale e
perfettamente meccanica», e riuscì anche nell'intento di fondere la materia "soufflée" del canto con
quella "frappée" delle percussioni, senza ricorrere ad alcun folklorismo timbrico: «Questa
combinazione, com'è chiaro, era la conseguenza di una necessità risultante direttamente dalla
musica stessa delle Nozze e non era affatto suggerita da un desiderio di imitare la sonorità delle
feste popolari di questo genere, che peraltro non ho mai visto né sentito».

L'assoluta originalità dell'orchestrazione e l'essenzialità della scrittura fanno delle Nozze un punto
nodale nella produzione strawinskyana. In questa dimensione sonora, in cui la percussione assume
funzione tematica, è il ritmo nudo a costituire il vero fondamento strutturale, tanto che timbro ed
armonia appaiono ad esso subordinati. E l'apparente primitivismo della pulsazione deriva in realtà
da complessi incastri politonali, da strutture polimetriche e dal contrappunto ritmico, ed è pertanto
costruito e raffinato come un quadro cubista. Le dissonanze, che servono soltanto a sottolineare gli
urti ritmici, sono principalmente quarte aumentate e settime che conferiscono una durezza granitica
all'impianto armonico. A sua volta apparente, perché nasce solo dalla sovrapposizione di strutture
lineari modali e diatoniche. La dimensione orizzontale e quella verticale si integrano quindi in
un'unica dimensione obliqua, in un'eterofonia dove linee e blocchi sono presenti
contemporaneamente.

I diversi temi utilizzati sono tutti costruiti su un intervallo di quarta, scomposto in modi diversi.
Brevi e ritmicamente incisivi, risultano punteggiati da frequenti appoggiature che ne sottolineano il
carattere semitonale e gravitante attorno ad un solo centro tonale. Per questo i motivi melodici delle
Nozze proliferano senza però mai svilupparsi in una vera e propria arcata melodica, ruotando
attorno a se stessi senza imprimere una direzione al materiale musicale. E il senso arcaico che
assumono è dovuto alla frequente presenza di formule salmodiche, alle sovrapposizioni in forma di
discanto, e al principio antifonale dell'opposizione coro-solista, presente sin dall'inizio. Quando pòi
vengono sovrapposti temi e testi differenti scaturiscono strutture contrappuntistiche a catena. Tutti
questi temi, nonostante il loro carattere popolare, sono inventati, tranne il canto operaio del quarto
quadro che sarebbe, secondo Strawinsky, l'unica vera citazione - Casella e Belaev sostengono
invece la presenza di altri temi liturgici -, basata peraltro su una struttura intervallare analoga a
quella degli altri temi.

Questa costruzione musicale si ingrana con un testo montato da Strawinsky senza linearità nella
struttura narrativa e nei cambi di scena, e con personaggi senza ruoli vocali prefissati. L'insieme da
l'idea della cerimonia affollata e caratterizzata da contenuti diversi ma ricorrenti: il lamento,
l'invocazione alle divinità, il riso collettivo. E' in questo spazio psicologico, in cui alla gioia
dell'evento si unisce il lamento per la perdita e il turbamento di fronte al mistero della vita, che ogni
frase, nella propria ritualità priva tanto di realismo quanto di idealizzazione, si anima di partecipe e
profondissima umanità. In questo cerimoniale, che Strawinsky vuole "rappresentare più che
descrivere", l'azione consiste nella musica: è solo la musica "a dar vita alla scena e a ogni suo altro
cambiamento".

I quattro quadri si succedono senza soluzione di continuità: il primo ("la treccia") si svolge nella
casa della sposa Nastasia Timofievna, mentre le amiche le sciolgono la treccia annodata con nastri
rossi e blu, simboli apotropaici della fanciulla vergine. La tradizione vuole che la sposa prima del
matrimonio pianga assieme ad un gruppo di lamentatrici professionali secondo "moduli" protettivi:
così il balletto si apre con il lamento di Nastasia, punteggiato da brevi incisi delle amiche: «La mia
treccia a me! Mia madre ti aveva intrecciato morbidamente ogni sera con un pettine d'argento!
Povera me!». Sulle ultime note della sposa si innesta il coro delle consolatrici, sereno, popolaresco
e dal caratteristico movimento rotatorio: «E Nastasia non piange più, ti volge il suo sorriso. Ah! E
la festa sia perenne. Il ruscello va al muschio, lieti là essi andranno e lieti li seguiremo. Qui si ride e
si danza. Faremo brindisi, canteremo e danzeremo, invocheremo ogni bene sulla sposa e faremo
festa». Segue l'invocazione alla Madonna perché assista e benedica la sposa, invocazione
sottolineata dalla completa sospensione della pulsazione ritmica. Quanto alla suddetta
intercambiabilità dei ruoli vocali, si consideri che qui le parti della madre e della sposa sono
sostenute da un soprano e da un tenore. Il quadro si conclude col ritorno al tema iniziale delle
amiche che cantano: «Un nastro rosso e un nastro blu vogliamo annodare alla morbida treccia». Ad
esse si sovrappone il canto della sposa: «Un nastro rosso come le mie gote e un nastro azzurro come
i miei occhi».
Il secondo quadro ("presso lo sposo") è simmetrico al primo: siamo in casa dello sposo Fetis
Pamfilievitch mentre il suo entourage è intento a pettinarne i bei riccioli biondi. Se la dimensione
vocale del primo quadro era prevalentemente femminile, qui è maschile, e il coro iniziale, dalla
struttura omoritmica e sillabica, è ancora un'invocazione alla Madonna, ma questa volta affidata a
tenori e bassi: «Vieni, Madre del Signore, madre benedetta, assistici, posa la mano divina sui
riccioli di questo sposo». Quindi di nuovo un lamento, quello dei genitori (sdoppiati nelle parti di
soprano, mezzosoprano, tenore e basso), per l'allontanamento del figlio: «Figlio, caro figlio che ho
portato nel seno, te ne vai lontano dalle mie braccia. O frutto del mio seno un'altra ti amerà e ti farà
i ricci». Il lamento è sottolineato dai colpi violenti delle percussioni, regolari ma sfasati rispetto al
canto. L'incalzante crescendo stratiforme che segue si arresta improvvisamente sul canto dello
sposo (anche questo sdoppiato in due voci, basso e basso profondo) che chiede la benedizione dei
genitori: «O padre e madre benedite il figlio che va fiero e con cuore puro a conquistare la sua
sposa». Segue il canto degli amici, dello sposo, punteggiato da esclamazioni, e infine l'invocazione
a Dio, a San Luca e a San Damiano, sottolineata prima da scale dei pianoforti e dello xilofono, poi
da blocchi accordali.

Nel terzo quadro ("la partenza della sposa") gli amici dello sposo vengono a prendere Nastasia per
andare alla chiesa. E' il quadro più breve, e la sua caratterizzazione femminile si rivela fin dal coro
iniziale, statico e rotatorio: «Come la bianca luna vive nel cielo accanto al sole, così viveva nel
palazzo la vezzosa principessa presso il padre già canuto, gaia, spensierata come un passero». Poi il
padre, la madre e la sposa cantano: «Ecco la colomba lascia il nido: beneditela, Signore, con il pane
e con il sale davanti alla santa immagine». La pulsazione ritmica si sospende sull'invocazione alla
Madonna e ai santi Cosma e Damiano, «riconosciuti in Russia - ricorda Strawinsky - come santi
propiziatori del matrimonio e adorati dal popolo come divinità del culto della fertilità». Sulla fine
dell'invocazione si innesta il lamento delle due madri, basato sull'intervallo di semitono e
accompagnato dai tremoli dei pianoforti: «- Figlio mio che io misi al mondo torna da tua madre -
Figlio che ho portato nel mio seno, che ho nutrito del mio latte, vieni, torna da tua madre - Mio caro
figlio, ha lasciato qui la chiave d'oro al sommo del suo nastro d'argento - Figlia che io misi al
mondo, figlia mia cara».

Il quarto quadro ("il pranzo di nozze"), che da solo costituisce la seconda parte del balletto,
rappresenta la allegria grassa e confusionaria del banchetto, per mezzo di una continua
proliferazione melodica e testuale. I temi si incatenano gli uni sugli altri seguendo il principio della
progressione e dello sviluppo a strati - a strati è costruita anche la dinamica - che fanno di questo
quadro una struttura musicalmente evolutiva, in cui all'idea della ripresa si sostituisce quella della
crescita organica.

Nel coro iniziale è l'allegoria degli sposi descritti come due fiori sul ramo, uno bianco (Nastasia) e
uno rosso (Fetis): «E il fiore rosso col bianco ragiona, e il bianco ascolta piegato sul ramo. Il fiore
rosso è il nostro caro sposo e la bella Nastasia è il fiore bianco sul ramo». Segue un tema
canzonatorio (il basso canta in falsetto e introduce un ritmo singhiozzante a mo' di hoquetus) che
narra la storia di Palagaj che ha perso un anello d'oro ornato di rubino. Nella confusione generale
emergono brevi frasi del padre dello sposo e della madre della sposa, poi l'attenzione si focalizza
sulla storia di un'oca e di un cigno - ancora simboli dei due sposi, oltre che personaggi di un antico
gioco popolare russo -, tematicamente caratterizzata da due intervalli ascendenti di quarta, e affidata
prima alle voci femminili, poi ancora al falsetto del basso.
Il canto della sposa («Ho dell'oro che scende sino alla cintura, e perle fino a terra»), accompagnato
da un movimento parallelo ed uniforme delle parti pianistiche, è il canto di fabbrica sopra citato, e
l'unica citazione dichiarata nell'intera partitura. A un certo punto, ennesimo sprazzo goliardico e
salace di questo banchetto, il padre della sposa viene apostrofato da un convitato in questo modo:
«Vecchio porco, hai venduto tua figlia per un bicchiere di vino». Dopo una breve frase parlata ha
inizio il finale, costruito come un'antifona tra coro e solisti: «E lo sposo ha detto: Sono tuo. E la
sposa ha detto: Eccomi. E lo sposo ha detto: il letto è piccolo. E la sposa ha detto: c'entreremo. E lo
sposo ha detto: Ahimè, il letto è freddo. E la sposa ha detto: lo scalderemo». Una coppia di astanti
viene inviata a scaldare il letto nuziale, mentre la festa procede combinando le frasi cantate con
quelle parlate, l'ultima delle quali recita: «Non vedete che ella non resiste più? Par che tenga il
broncio. E poiché ha il broncio mettiamola a letto». Gli sposi vengono messi a letto e la porta viene
chiusa, mentre i quattro genitori si siedono su una panca davanti alla porta e gli altri cantano: «Chi
ha veduto mai un letto più candido? Tutto piume, fatto per l'amore... Il passero ha trovato la sua
compagna e la tiene stretta al cuore. Nel loro nido sono stretti cuore a cuore...». Dopo un crescendo
il coro si conclude su note lunghe via via sfibrantisi, seguite dalla melodia finale dello sposo, dolce
tanto da annullare l'atmosfera greve del banchetto. La accompagnano solo pochi accordi dei
pianoforti, due crotali e una campana, lasciati vibrare fino all'estinzione: rintocchi quasi funebri che
sembrano sospendere il rito nell'eternità: «Ebbene, dolcezza del mio cuore, fiore dei miei giorni e
miele delle notti, fiore di vita, io vivrò con te come conviene che si viva, e per l'invidia del mondo
intero».

Gianluigi Mattietti

41 1918

L'histoire du soldat

https://www.youtube.com/watch?v=LMSOMBINNPM

https://www.youtube.com/watch?v=IuPxtNyhWOs

https://www.youtube.com/watch?v=cFBUWcTLMZU

Balletto in due parti


Libretto: Charles-Ferdinand Ramuz
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Soldato-testo.html

La marcia del Soldato


Il Violino del Soldato
Pastorale
Marcia reale
Piccolo concerto
Tre danze: Tango, Valzer, Ragtime
Danza del Diavolo
Piccolo corale
Canzone del diavolo
Grande corale
Marcia trionfale del Diavolo

Organico: violino, contrabbasso, clarinetto, fagotto, cornatta (o tromba), trombone, percussioni


Composizione: Morges, 6 aprile - 3 settembre 1918
Prima rappresentazione: Losanna, Teatro Municipale, 28 settembre 1918
Edizione: J. & W. Chester, Londra, 1924
Dedica: Werner Reinhart

Guida all'ascolto (nota 1)

Nel 1918, accerchiato dalla guerra, espropriato dalla Rivoluzione Russa, esule in Svizzera e senza
soldi, Igor Stravinskij - ancora scritto così, prima di americanizzarsi in Stravinsky - assieme allo
scrittore Charles-Ferdinand Ramuz, inventava uno spettacolo povero, da baraccone, su una favola
di Afanasiev. Un Soldato torna a casa per una licenza, il Diavolo lo blandisce e gli sottrae il violino
in cambio di un libro che realizza ogni desiderio. Tre giorni di sogni fatti realtà, solo tre giorni, ma
quando il Soldato, senza il violino, arriva a casa, trova che sono passati tre anni, la sua donna s'è
sposata, il suo posto non c'è più. A che serve il denaro senza affetti? Tornato povero, il Soldato
riprende la strada del profugo, arriva nella terra governata da un re la cui figlia, malata, sposerà chi
riuscirà a guarirla. Il Soldato ha di nuovo il suo violino, riconquistato al Diavolo con vodka e
astuzia. La Principessa è sedotta, danza un tango, un valzer e un ragtime, e cade fra le sue braccia.
Sembra l'epilogo bello di una fiaba. Ma quando i due giovani si metteranno in strada per
raggiungere la patria del Soldato, il Diavolo li aspetterà all'incrocio del destino per riprendersi
violino e anima, e al Soldato non resterà che seguirlo a capo chino. In fondo - come ha suggerito
Peter Sellars in un suo spettacolo recente - L'histoire du Saldat è l'opera di un profugo sul tema
dell'essere profughi.

All'inizio della prima Guerra Mondiale, Stravinsky s'era rifugiato in terra neutrale. I primi anni
ruggenti dei Ballets Russes, a Parigi, dei terremoti di lingua e di stile in folgorante successione -
L'oiseau de feu (1910), Petrushka (1911), Le sacre du Printemps (1912) - erano finiti. Con
Diaghilev il filo rischiava di spezzarsi, la vita era difficile per tutti e l'arte non aveva le tasche piene.

Nel 1917 Stravinsky era stato privato delle sue proprietà in Russia, e anche il flusso dei diritti
d'autore s'era ridotto a un rigagnolo. Viveva dignitosamente, nulla più, a Morges. Ma bisognava
lavorare a tutti i costi.

Fra il '15 e il 17 prendono così corpo i Tre pezzi facili e i Cinque pezzi facili per pianoforte, il
Souvenir d'une marche boche, le Berceuses du chat, Renard, le Trois histoires pour enfants, Les
Noces in versione francese, la Berceuse per voce e pianoforte.

Anche Charles Ferdinand Ramuz era virtualmente un profugo. Viveva nel villaggio di Treytorrens e
aveva incontrato per la prima volta Stravinsky alla stazione di Epesses, portatovi in treno da Ernest
Ansermet. La collaborazione cominciò con la traduzione francese di Renard, proseguì con i testi di
canzoni, sfociò in amicizia vera e culminò con la versione francese di Les Noces. E poi?

«Ho concepito la prima idea dell'Histoire du Soldat nella primavera del 1917 - racconta Stravinsky
-, ma non ho potuto approfondire quell'argomento perché intento alla stesura de Les Noces e a
realizzare un poema sinfonico da Le Rossignol. Il pensiero di comporre uno spettacolo drammatico
per un teatro ambulante m'era venuta parecchie volte alla mente fin dall'inizio della Prima Guerra
Mondiale. Il genere di lavoro cui pensavo doveva esigere un organico di esecutori semplice e
modesto al punto da permettere una serie di allestimenti in una tournée nelle piccole cittadine
svizzere, ed essere altrettanto chiaro nel suo intreccio in modo che se ne afferrasse facilmente il
senso. Il soggetto mi venne dalla lettura di quella novella di Afanasiev che racconta del soldato e
del diavolo: in quella novella, quel che mi aveva colpito particolarmente era il modo in cui il
soldato adescava il diavolo a bere molta vodka per poi dargli da mangiare una manciata di piombo,
convincendolo che era caviale, così che il diavolo avidamente lo mangiava e tirava le cuoia. In
seguito trovai altri episodi fiabeschi sul medesimo tema e cominciai a elaborare un soggetto:
soltanto lo schema del lavoro è da attribuirsi ad Afanasiev e a me, perché il testo definitivo è opera
di Ramuz, mio grande amico e collaboratore, a fianco del quale lavorai attentamente, traducendogli
riga dopo riga il mio testo».

Non c'è motivo di parafrasare Stravinsky: il primo nucleo dell'Histoire è questo, perché anche i
Souvenirs sur Igor Stravinsky di Ramuz confermano la versione.

Nell'idea prima ci sono il tema e il dramma dello sradicamento: quello dei giovani arruolati con la
forza nelle guerre di Nicola I contro i Turchi. Il Soldato di Afanasiev è la metafora dell'uomo
costretto a viaggiare in quella terra di nessuno che è poi tutto il mondo, se allontanarsi da casa non è
frutto di una scelta e riconquistare le proprie origini una chimera. Stravinsky capì in quel 1917 che
il ritorno in Russia sarebbe rimasto un desiderio proibito. Anzi vietato.

Un'opera? Difficile far rientrare L'Histoire nel grande genere, considerato che le voci sono di un
Narratore, di un Soldato e un Diavolo che agiscono e parlano, al più, seguendo metriche ritmiche,
mai altezze. E il quarto personaggio, la Principessa - cancellata presto l'idea di fare del re un ruolo
vero - è consegnato all'astrazione muta della danza. Eppure L'Histoire du Saldat è un rito scenico,
ma d'una nuova forma di teatro musicale che con l'Opera, derivata ed evoluta dal Melodramma, non
ha più legami.

Lo spettacolo doveva essere povero, portatile: «Un piccolo palco montato su una piattaforma - si
legge nelle istruzioni alla prima rappresentazione di Losanna, il 28 settembre del '18 -. Uno
sgabello (o un barile) ai due, lati. Su uno degli sgabelli siede il Narratore di fronte a un tavolino sul
quale ci sono una caraffa di vino bianco e un bicchiere. L'orchestra è sul lato opposto del
palcoscenico». Ma piccolezza non significava già più scarso respiro: con L'Histoire du Soldat si
compie il salto definitivo in quell'estetica contemporanea che archivia l'orchestra come più alto
grado della santificazione strumentale.

«La limitatezza originaria dell'allestimento dell'Histoire - annotava Stravinsky - mi costringeva a


impiegare pochissimi strumenti, ma questo non costituì un limite, dal momento che le mie
concezioni musicali si erano già orientate verso lavori per strumenti solisti». Clarinetto, fagotto,
cornetta a pistoni, trombone, violino, contrabbasso e percussioni erano più che sufficienti a creare
varietà, in una nuova dimensione a-sinfonica con ascendenze lontane: quelle di una terra con
cultura mista verso la quale Stravinsky avrebbe finito per muoversi all'annuncio della guerra
prossima ventura. L'Histoire du Saldat è il primo contatto con l'America e con la cultura di altri
profughi: i neri. Nella quantità, nella qualità, nel suono e anche nelle forme, L'Histoire è un laccio
gettato d'istinto verso quella cultura "altra" che avrebbe scritto una parte predominante della musica
del secolo quasi archiviato.
«La scelta degli strumenti per L'Histoire fu influenzata da un importantissimo evento della mia vita
in quel periodo: la scoperta del jazz americano... L'organico si richiama a quello della banda jazz in
quanto ogni famiglia strumentale - archi, legni, ottoni, percussioni - è rappresentata dai suoi
estremi, nel registro acuto e nel registro basso. Inoltre gli stessi strumenti venivano impiegati nella
musica jazz, eccetto il fagotto, che, secondo me, stava per il sassofono».

Ma quale esperienza del jazz aveva Stravinsky in Svizzera, nel 1918, prima della musica registrata?
Partiture che Ansermet aveva portato da una tournée in America.

«La conoscenza che io avevo del jazz - ammette Stravinsky - derivava soltanto da letture
occasionali di fogli pentagrammati di questa musica. Non avendo mai potuto ascoltare il jazz
improvvisato o suonato dal vivo, ero però in grado di assimilarne lo stile ritmico, così com'era
scritto pur se non come veniva eseguito. Ero in grado di immaginarmi il suono del jazz, comunque,
o almeno mi compiacevo di pensarlo. Il jazz significava comunque un insieme di sonorità del tutto
nuove nella mia musica, e L'Histoire segna la mia definitiva rottura con la produzione della scuola
sinfonica russa».

Per la verità, anche L'uccello di fuoco, Petrushka e La sagra della primavera sembrano oggi uno
stacco perentorio rispetto alla scuola sinfonica russa; nell'alveo storico, con tutti gli onori ai modelli
dei maestri, già lo Stravinsky "barbaro" stava stretto, anzi debordava con violenza da disgelo sulla
Neva. Ma è certo che L'Histoire du Soldat volta definitivamente le spalle non solo alla scuola russa
tardoromantica, ma anche all'Est, per guardare lungo verso Ovest, al di là dell'oceano.

Che Stravinsky avesse del jazz una conoscenza riflessa, e una "immaginazione" di tecniche e
sonorità mai sperimentate, dà il senso di una miracolosa sintonia. E anche di una ineluttabilità
storica. A macchia di leopardo stavano diffondendosi nel Vecchio Mondo analoghe soluzioni jazz-
oriented vissute per istinto. Nel 1913 Satie aveva composto Le Piège de Meduse su un organico
quasi del tutto simile a quello dell'Histoire (ma l'accusa di plagio è sventata dalla circostanza che
l'opera del silenzioso Mammifero non venne eseguita prima del 1921). E dalla fine della guerra agli
anni Trenta, tra Parigi e Berlino, il jazz cominciò a sbucare ovunque dalla pasta di tante
composizioni e di tanti compositori diversi, da Milhaud a Krenek. Ma c'era la musica registrata, e il
contagio afroamericano - inutilmente stoppato dalle leggi razziali e da liberi pensatori come
Pfitzner - era destinato a diffondersi sulle sue ali in maniera irresistibile.

Un mese e mezzo dopo la prima esecuzione dell'Histoire du Soldat, alle undici dell'11 novembre
1918, momento esatto in cui si firmava l'armistizio e la guerra finiva, Stravinsky concludeva la
strumentazione di Ragtime. Forse nemmeno lui s'era immaginato che uno spettacolino da
baraccone, su una favola russa di Afanasiev, l'avrebbe portato così lontano.

Carlo Maria Cella

46 1919 - 1920

Pulcinella

https://www.youtube.com/watch?v=ShIYpjSYoZI
https://www.youtube.com/watch?v=O_vro86erg4

https://www.youtube.com/watch?v=m_ydaNBLzww

Balletto con canto in un atto


Libretto: Léonide Massine
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Pulcinella46.html#Testo

Ouverture. (Dal primo movimento della prima "Sonata a tre", in sol maggiore, di Domenico
Gallo) - Allegro moderato
Serenata: Mentre l'erbetta pasce l'agnella (Da "Il Flaminio", atto I, Pastorale di Polidoro) -
Larghetto
Scherzino. (Dalla seconda "Sonata a tre", in si bemolle maggiore, di Domenico Gallo) - Allegro
Poco più vivo: Benedetto, maledetto (Da "Il Flaminio", atto III, canzone del Checca) - questo
brano non ha numero - Poco più vivo
Allegro. (Dal terzo movimento della seconda "Sonata a tre", in si bemolle maggiore, di
Domenico Gallo) - Allegro
Andantino. (Dal primo movimento dell'ottava "Sonata a tre", in mi bemolle maggiore, di
Domenico Gallo) - Andantino
Allegro. (Da "Lo frate 'nnamorato", atto I, Aria di Vannella) - Allegro
Allegretto: Contenta forse vivere (Dalla Cantata "Luce degli occhi" - Aria tratta da "Adriano in
Siria" e parodiata in "L'Olimpiade") - Allegretto
Allegro assai. (Dal terzo movimento della terza "Sonata a tre", in do minore, di Domenico Gallo)
- Allegro assai
Allegro alla breve: Con queste paroline (Da "Il Flaminio", atto I, aria di Vastiano) - Allegro alla
breve
Largo: Sento dire no' ncè pace (Da "Lo frate 'nnamorato", atto III, Arioso di Ascanio)
Allegro: Chi disse cà la femmena (sempre da "Lo frate 'nnamorato", atto II, Canzone di Vannella)
Presto: Ncè sta quaccuna pò / Una te fa la nzemprece (Duetto) - Larghetto
Allegretto alla breve. (Dal terzo movimento della settima "Sonata a tre", in sol minore, di
Domenico Gallo) - Allegro alla breve
Tarantella. (Dal "Concertino n. 6" in si bemolle maggiore di Fortunato Chelleri)
Andantino: Se tu m'ami (Da attribuire probabilmente a Alessandro Parisotti)
Allegro. (Dalla "Suite per clavicembalo n. 1", in mi maggiore, di autore anonimo)
Gavotta con due variazioni. (Dalla "Suite per clavicembalo n. 3", Rondò in re maggiore, di autore
anonimo) - Allegro moderato
Vivo. (Dalla "Sinfonia per violoncello e basso continuo" in fa maggiore)
Tempo di minuetto: Pupillette, fiammette d'amore (Da "Lo frate 'nnamorato", atto I, «canzone di
Don Pietro») - Molto moderato (Trio)
Allegro assai. (Dal terzo movimento della dodicesima "Sonata a tre" di Domenico Gallo)

Organico: soprano, tenore, basso, 2 flauti, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, tromba, trombone, archi
Composizione: Morges, 1919 - Biarritz, 20 aprile 1920
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre de l'Opéra, 15 maggio 1920
Edizione: J. & W. Chester, Londra, 1920
Guida all'ascolto (nota 1)

«Pulcinella fu la mia scoperta del passato, l'epifania attraverso la quale tutto il mio lavoro ulteriore
divenne possibile. Fu uno sguardo all'indietro - la prima di molte avventure amorose in quella
direzione - ma fu anche uno sguardo allo specchio».

A quella scoperta del passato fu poi dato il nome di neoclassicismo, una definizione che rischia di
rendere gelide e accademiche quelle che Stravinsky considerava "avventure amorose" (dunque non
veri amori, ma avventure, e tante: un libertinaggio a tutto campo, che dopo il Pergolesi di Pulcinella
lo spinse a rivolgere le sue non disinteressate attenzioni a Cajkovskij, a Rossini, a Bach e ad altri
ancora). Ma piuttosto che allungare lo sguardo su quello che sarebbe successo dopo Pulcinella, è
bene cominciare a vedere quello che era avvenuto prima, per capire quanto deve essere stato
sorprendente per i suoi contemporanei quest'improvviso interesse di Stravinsky per la grande civiltà
musicale dei secoli precedenti.

Tra il 1910 e il 1913, con L'oiseau de feu, Petrouchka e Le sacre du printemps, Stravinsky aveva
dato uno scossone alle abitudini d'ascolto del pubblico della ville lumière che, dopo essere appena
riuscito a digerire le delicate nuances timbriche e armoniche di Debussy, si era trovato
improvvisamente a doversi confrontare con colori barbarici, ritmi violenti e scale evocanti mondi
primitivi estranei alla civiltà musicale occidentale. Subito dopo, la guerra del 1914-1918 aveva
frapposto grossi ostacoli all'attività di quel giovane "barbaro" venuto dalla Russia, tanto che il Sacre
stesso non fu stampato che nel 1921, mentre Renard e Les noces, nonostante fossero stati già
completati durante la guerra, poterono avere la prima rappresentazione pubblica rispettivamente nel
1922 e nel 1923: ma nel frattempo, il 15 maggio 1920, Stravinsky aveva presentato Pulcinella
all'Opera, riuscendo nuovamente a sorprendere il suo pubblico con un'altra rivoluzione, più
tranquilla e pacifica della precedente ma altrettanto inaspettata. Di tali cambiamenti di fronte sono
capaci le persone che hanno un innato senso teatrale, come i grandi artisti, o un infallibile intuito
tattico, come i grandi politici: fu anche grazie a queste doti che Stravinsky riuscì a prendere le
redini del mondo musicale e a mantenerle per mezzo secolo.

Pulcinella segnò un discrimine non soltanto nell'arte di Stravinsky ma in tutta la musica del
ventesimo secolo. Eppure (ma questo è tipico delle "avventure amorose") era nato in modo
totalmente casuale: galeotto era stato ancora una volta Diaghilev, il geniale impresario dei "Ballets
russes", che aveva sottoposto al compositore una serie di composizioni di Pergolesi (o a lui
erroneamente attribuite) perché ne ricavasse un balletto su una trama ispirata a un canovaccio
napoletano del 1700. L'impresario dei "Ballets russes" voleva ripetere il successo delle Donne di
buonumore e della Boutique fantasque, due balletti su musiche rispettivamente di Domenico
Scarlatti e di Rossini, da lui commissionati a Vincenzo Tommasini e Ottorino Respighi negli anni
immediatamente precedenti: a Stravinsky, come ai due compositori italiani, chiedeva soltanto di
restaurare quelle antiche musiche con un'orchestrazione abile e aggiornata. Le sue indicazioni,
precise e vincolanti quanto alle linee generali del balletto, erano invece elastiche riguardo alla
realizzazione pratica, e questo permise a Stravinsky d'affermare la propria genialità e d'emergere sui
due compositori di cui Diaghilev si era precedentemente servito. Mentre Tommasini e Respighi si
erano limitati a una libera trascrizione, Stravinsky con pochi tocchi diede un'impronta
assolutamente personale alle musiche di Pergolesi, assimilandole così totalmente che spesso si è
tentati di riconoscere la sua mano anche in passaggi che sono invece rimasti sostanzialmente
immutati rispetto all'originale settecentesco. Stravinsky stesso osservò che «la cosa più notevole di
Pulcinella consiste non tanto nel rilevare quanto sia stato aggiunto e cambiato, ma quanto poco». Le
linee melodiche di Pergolesi non sono modificate ma tutt'al più integrate qua e là da alcuni passaggi
di raccordo e anche i bassi sono sostanzialmente rispettati, eppure il contributo di Stravinsky è
essenziale: infatti, se alcuni pezzi sono rimasti così com'erano senza mutarne la forma, altri
vengono del tutto riplasmati, la veste strumentale è interamente rifatta, dissonanze e note
"sbagliate" s'infiltrano nell'armonia settecentesca e la regolarità ritmica viene spezzata da accenti
spostati, sincopi e tempi bruscamente interrotti. Il risultato è un intrigante e stimolante gioco di
scambi e di rimandi, in cui Pergolesi non è più Pergolesi, Stravinsky non è più Stravinsky e diventa
difficile se non impossibile capire a chi dei due attribuire la paternità di ciò che si sta ascoltando, se
al compositore del Settecento o a quello del Novecento.

Parallelamente alla musica, anche la veste teatrale di questo "balletto con canto in un atto"
presentava un simile connubio di moderno e d'antico, perché coreografia e scene erano di Leonide
Massine e di Pablo Picasso, mentre il soggetto era ricavato da un canovaccio napoletano ancora più
antico di Pergolesi: tutte le ragazze del paese sono innamorate di Pulcinella e i loro fidanzati gelosi
s'accordano per ucciderlo, ma l'astuto Pulcinella si fa rimpiazzare da un amico, Furbo, che finge di
morire sotto i colpi dei rivali. Pulcinella stesso si traveste da mago e viene a resuscitare il suo sosia.
Quando i giovani, che credono d'essersi sbarazzati di lui, si presentano alle loro fidanzate, il vero
Pulcinella appare e sistema tutti i matrimoni: egli stesso sposa Pimpinella, con la benedizione di
Furbo, ora travestito a sua volta da mago.

La partitura prevede un'orchestra di dimensioni e trasparenza settecentesche (notare che un


concertino di cinque soli si stacca dalle file degli strumenti ad arco, secondo lo stile del Concerto
grosso) e consta di una breve ouverture e di otto scene. Le musiche di Pergolesi che vi vengono
travasate sono numerose, perché alcune scene ne utilizzano più d'una: in realtà soltanto nove di
questi pezzi sono autentici (sono tratti dalle opere Il Flaminio, Lo frate 'nnammorato e Adriano in
Siria e da una Sonata per violoncello e basso continuo) mentre gli altri fanno parte della grande
quantità di falsi pubblicati sotto il nome di Pergolesi subito dopo la sua precoce morte. Autentiche o
meno che fossero quelle musiche, Stravinsky vi trovò quel che cercava: un Settecento napoletano
sprizzante vivacità ritmica, schiettezza popolaresca e gestualità vivacissima. Tutta quella musica gli
sembrava animata da ritmi danzanti, che egli assorbì nel suo Pulcinella che, pur essendo
infinitamente meno violento e aspro del Sacre du printemps, è egualmente innervato da una
pulsazione ritmica irrefrenabile e tagliente.

Questa musica costruita sulla base di una musica preesistente non è un pastiche o un ibrido
stilistico, perché quando «i vocaboli formali del passato vengono completamente rifusi nel
crogiuolo della sensibilità e del gusto di un artista appartenente ad un'epoca posteriore, essi possono
benissimo ricevere una nuova investitura significativa e comporsi in opere nuove e originali»
(Roman Vlad). Una tale capacità di forgiare il nuovo a partire dalla tradizione è un aspetto
fondamentale e modernissimo del camaleontico genio di Stravinsky.

Mauro Mariani
Testo

N. 2 - Tenore
Mentre l'erbetta
pasce l'agnella,
sola soletta
la pastorella
tra fresche frasche
per la foresta
cantando va.

N. 7 - Soprano
Contenta forse vivere
nel mio martir potrei,
se mai potessi credere
che, ancor lontan, tu sei
fedele all'amor mio,
fedele a questo cor.

N. 9 - Basso
Con queste paroline
così saporitine,
il cor voi mi scippate
dalla profondità.
Bella, restate qua,
che se più dite appresso
io certo morirò.
Così saporitine
con queste paroline
il cor voi mi scippate,
morirò, morirò.

N. 10 - Terzetto (Soprano, Tenore, Basso)


Sento dire no'ncè pace
Sento dire no'ncè cor,
ma cchiù pe 'tte no, no.
no'ncè carma cchiù pe'tte.

Tenore (solo)
Chi disse cà la femmena
sa cchiù de farfariello
disse la verità, disse la verità.

Duetto (Soprano e Tenore)


Soprano
Ncè sta quaccuna po'
che a nullo vole bene
e a cciento nfrisco tene
schitto pe'scorcoglià.
e a tant'autre malizie
chi maie le ppo', le pp'o conta.
Tenore
Una te fa la nzemprece
ed è malezeosa,
'n autra fa la schefosa
e bo'lo maretiello,
Chi a chillo tene 'ncore
e a tant'autre malizie
chi maie le ppo', le ppo' conta,
e lo sta a rrepassa'.

Tenore (solo)
Una te fa la nzemprece
ed è malezeosa,
'n autra fa la schefosa
e bo'eo maretiello,
ncè sta quaccuno po'
che a nullo - udetene -
chi a chillo tene 'core
e a cchisto fegne amore
e a cciento nfrisco tene
schitto pe' scorcoglià
e tante, tant'autre malizie
chi maie le ppo' conta'.

N. 13 - Soprano
Se tu m'ami, se tu sospiri
sol per me, gentil pastor,
ho dolor de' tuoi martiri,
ho diletto del tuo amor,
ma se pensi che soletto
io ti debba riamar,
pastorello, sei soggetto
facilmente a t'ingannar.
Bella rosa porporina
oggi Silvia sceglierà,
con la scusa della spina
doman poi lo sprezzerà.
Ma degli uomini il consiglio
io per me non seguirò.
Non perché mi piace il giglio
gli altri fiori sprezzerò.

N. 17 - Terzetto (Basso, Tenore, Soprano)


Pupillette, fiammette d'amore
per voi il core struggendo si va.
57 1927 - 1928

Apollon Musagète

https://www.youtube.com/watch?v=fkYlas1hBrY

https://www.youtube.com/watch?v=f2HqFK4ACnk

https://youtu.be/WFJRt1DVa0I

Balletto in due scene


Libretto: Adolph Bolm

1° quadro: prologue, naissance d'Apollon


2° quadro: variation d'Apollon, pas d'action, variation de Calliope, variation de Polymnie,
variation Terpsichore, variation d'Apollon, pas de deux, coda, apothéose

Organico: archi
Composizione: Nizza, luglio 1927 - 20 gennaio 1928 (revisione 1947)
Prima rappresentazione: Washington, Library of Congress, 27 aprile 1928
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1928

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nel contesto del peculiare ambiente culturale che s'era costituito a Parigi tra le due guerre mondiali,
e specificatamente negli anni a cavallo tra il secondo e il terzo decennio del Novecento, attorno ai
temi dell'antichità greca classica e dei rimandi mitologici connessi con le correnti estetiche che
facevano capo al cosiddetto neoclassicismo, maturarono varie e singolari esperienze artistiche che
produssero numerosi e stimolanti frutti nella coeva letteratura musicale, dall'Antigone di Honegger
su testo di Cocteau all'Oedipus Rex di Stravinsky su testo di Cocteau-Daniélou, all'Enlèvement
d'Europe di Milhaud (primo pannello d'un trittico che si completerà con L'abandon d'Ariane e La
délivrance de Thésée, sui testi di Henri Hoppenot) del 1927, all'Amphion di Honegger su testo di
Paul Valéry e al Bacchus et Ariane di Albert Roussel, un balletto per la coreografia di Lifar e la
scenografia di De Chirico.

In tale milieu artistico, improntato ad un'estrema raffinatezza di gusto e di tratto, venne ad inserirsi
l'apparizione dell'Apollon Musagète. Sulla genesi di questo balletto fu prodigo di notizie lo stesso
Stravinsky, spiccatamente nelle "Croniques de ma vie" (Paris, 1936). Al principio dell'estate 1927
Stravinsky ricevette la commissione dalla Fondazione Elizabeth Sprague Coolidge di scrivere un
balletto per un festival di musica contemporanea in programma alla Library of Congress di
Washington. Precisò il musicista: «C'era la massima libertà sulla scelta del soggetto, il compenso
era di mille dollari, le uniche condizioni riguardavano il numero limitato di danzatori e la durata
non superiore alla mezz'ora». Quell'occasione Stravinsky decise di non lasciarla assolutamente
cadere, dal momento che già da qualche tempo «coltivava l'idea di scrivere un balletto basato su
momenti o episodi della mitologia greca interpretati plasticamente da ballerini della cosiddetta
scuola classica». Per realizzare il suo progetto Stravinsky scelse, come argomento, il tema di Apollo
Musagete, decidendo di ridurre il numero delle Muse da nove a tre: Calliope che raffigurava la
poesia e il ritmo, Polimnia che rappresentava il mimo e Tersicore che, riunendo assieme il ritmo
della poesia e l'eloquenza del gesto, s'identificava nella danza. L'articolazione del soggetto
comprendeva due quadri, il primo, coincidendo con il prologo, si sarebbe rapportato alla nascita di
Apollo a Delo, mentre il secondo quadro doveva prospettare la successione di nove danze
allegoriche per Apollo e le tre muse, nel corso delle quali la divinità, dopo averle esibite con i
caratteri emblematici delle loro arti, le avrebbe guidate al Parnaso.

La composizione della partitura si svolse a Nizza tra il luglio 1927 e il gennaio 1928. Aggiunse
Stravinsky: «Allorché, nella mia ammirazione per la bellezza lineare della danza classica, pensavo
ad un balletto di questo genere, la mia mente andava soprattutto a quello che viene chiamato il
ballet blanc, in cui si rivela, secondo me, l'essenza di quest'arte in tutta la sua purezza. Vi scorgevo
una meravigliosa freschezza, il prodotto dell'assenza di ogni attrattiva policroma e di ogni
sovrabbondanza». Nella scelta d'un linguaggio idiomaticamente coerente all'assunto, Stravinsky
accennò all'Apollon come ad «un omaggio al Seicento francese». E aggiunse: «Ritenevo che i
francesi lo potessero comprendere a volo, se non dalla mia versione musicale del verso
alessandrino, almeno dalle scene: il carro, i tre cavalli e il disco del sole per simboleggiare le Roi
soleil». Nei "Dialogues and a Diary" (Londra, 1961), Stravinsky, al riguardo, aggiunse: «Il vero
soggetto di Apollon è la versificazione, che per i più significa qualcosa di arbitrario e di artificiale.
Gli schemi ritmici principali sono giambici, e le singole danze si possono considerare come
variazioni del metro giambico, in ritmo puntato e nel suo inverso».

Nel Primo quadro (Prologo) il ritmo puntato conferisce alla introduzione una solennità ampia e
solenne da ouverture alla Lulli: il lento incedere strumentale conduce, con moto ascensionale, al
tema principale in mi maggiore, per compiere poi l'itinerario inverso. Dopo un passaggio cadenzale,
si ascolta una danza (Allegro) delle due dee, presentata in forma di duetto e che annuncia il ritorno
dell'idea in do maggiore quando la dea guida Apollo verso l'Olimpo.

Il Secondo quadro si apre con la Prima Variazione di Apollo: una cadenza per violino solo si
trasforma poi in un duetto per due violini solisti con accompagnamento in pizzicato. Anche qui il
tono è austero nella ripetizione delle medesime formule melodiche in ritmo puntato. Dopo il Pas
seul, appaiono Calliope, Polimnia e Tersicore: segue un Pas d'action per tutti e quattro. Il carattere è
di stile barocco e il principio della variazione coinvolge anche la timbrica con una raffinata varietà
di sfumature. La Variazione di Calliope si basa sul ritmo dell'alessandrino, con la melodia divisa in
frasi in metro giambico. La Variazione di Polimnia è un Allegro dall'incedere veloce, mentre la
Variazione di Tersicore, in tempo Allegretto, comprende quattro fermate che corrispondono, nel
balletto, alle attitudes della danzatrice. Subentra una seconda Variazione di Apollo nell'impegno
esecutivo dell'intero organico, con un breve episodio per quintetto solista. Il Pas de deux per Apollo
e Tersicore è un Adagio d'intenso carattere espressivo, con gli archi con sordina salvo il
contrabbasso. La Coda per Apollo e le tre Muse, per contrasto, ha un incedere vivace.

L'Apoteosi, in cui Apollo guida le Muse verso il Parnaso, ripropone il clima e l'andamento solenni
dell'Introduzione e del Prologo: dopo alcuni ostinati, l'atmosfera musicale, dando l'impressione
d'una sorta di rotazione circolare, approda ad una dissolvenza crepuscolare.

Il primo allestimento di Apollon Musagète andò in scena il 27 aprile 1928 a Washington con la
coreografia di Adolph Bolm e con scene e costumi di Nicholas Remissoff: tra gli interpreti, Ruth
Page come Tersicore. La prima esecuzione europea fu ad opera dei Ballets Russes al Théàtre Sarah
Bernhardt di Parigi il 12 giugno 1928 con la coreografia di Balanchine, scene di André Bauchant,
protagonista, come Apollo, Serge Lifar, mentre le tre Muse erano la Danilova, la Cerniceva e la
Dubrovska. In proposito, Balanchine notò: «Guardo all'Apollon come alla svolta decisiva della mia
vita. Con la sua disciplina e il dominio che implicava, la sua sostenuta unità di tono e sentimento, la
partitura era una rivelazione. Sembrava dirmi che non potevo osare ad utilizzare tutto, che anch'io
avrei dovuto procedere ad eliminare il superfluo... La danza, come la musica, deve saper trovare la
sua economia, la sua unità di stile. Esistono rapporti tra i movimenti come fra i colori e i suoni:
alcuni sono incompatibili con altri. Occorre lavorare in uno spazio ben delimitato».

Nel 1947 Stravinsky curò la pubblicazione da Boosey & Hawkes d'una revisione di Apollon
Musagète, con limitate rettifiche di fraseggio e dinamica nelle indicazioni strumentali.

Luigi Bellingardi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nel 1927 Stravinsky ricevette dalla «Library of Congress» di Washington l'incarico di comporre un
balletto destinato ad un Festival di musica contemporanea, con le sole condizioni che il lavoro
durasse non più di mezz'ora e potesse essere rappresentato con un ristretto numero di esecutori.
Stravinsky stesso ha narrato come questa commissione lo spingesse a realizzare una idea che da
tempo lo tentava: un balletto ispirato a qualche momento o episodio della mitologia greca, la cui
plasticità avrebbe dovuto essere trasfigurata dalla danza cosiddetta classica. La scelta
dell'argomento cadde sulla figura di Apollon Musagète (= condottiero delle Muse), restringendo
l'ambito del mito alle tre sole Muse Calliope, Tersicore e Polimnia, in un certo senso quelle che
meglio esprimevano e rappresentavano l'arte della danza.

Come scrive Vlad, l'intenzione di Stravinsky era quella di «comporre quel che si dice un 'balletto
bianco'. Cioè un balletto basato interamente sulle astratte figure coreografiche della danza classica.
Senza nessun intento psicologico, narrativo od espressivo. Senza valersi di sgargianti scenografie o
costumi, ma limitandosi all'uso del monocromo tutù, della calzamaglia. A questa monocromia
scenica corrisponde la monocromia timbrica delia musica che viene realizzata da un'orchestra di
soli archi. Anche le strutture intrinseche delle figure sonore sì dispongono in vista dello stesso fine.
Le sovrapposizioni politonali sono rare. Vi abbondano statici accordi perfetti. Neppure gli urti
dissonanti producono violenti effetti dinamici. Essi servono al contrario a rendere più asciutte le
armonie; a dissanguarle quasi; ad annullarne la tensione tonale».

La dimensione dell'organico orchestrale, ridotto come si è ricordato ai soli archi (otto primi e otto
secondi violini; sei viole; quattro primi e quattro secondi violoncelli; quattro contrabbassi),
trascende di gran lunga l'occasione esterna della commissione per porsi come il fatto espressivo
principale e distintivo, non solo in senso timbrico ma anche propriamente compositivo: «L'idea di
scrivere una musica nella quale tutto gravitasse intorno al principio melodico», precisa Stravinsky,
«esercitò sul mio spirito un'attrazione irresistibile. E poi, che piacere ritemprarsi nell'eufonia
multisonora degli strumenti ad arco e farla penetrare nei più piccoli recessi della trama polifonica!».

«Apollon Musagète» rappresenta nella forma più pura e rarefatta la fase antica, o meglio greca, del
periodo neoclassico di Stravinsky, ed è in questo senso una prima tappa del cammino stilistico ed
espressivo che culminerà in opere come «Perséphone» (1934) e soprattutto in «Orpheus» (1948).
Come ha scritto ancora Vlad, «l'ermetismo di questa musica può ingenerare facilmente freddezza e
noia, ove non se ne intuisca il senso di calma sublime, di liberazione da ogni passione umana. Alla
staticità della vicenda musicale corrisponde la staticità della vicenda coreografica. Come dicevamo,
quest'ultima si basa esclusivamente sui movimenti plastici del balletto classico e s'inquadra nelle
tradizionali forme del 'Pas d'action', 'Pas de deux', 'Variations' e 'Coda' ».

Rappresentato per la prima volta a Washington il 27 aprile 1928 con la coreografia di Adolphe
Bolm, «Apollon Musagète» fu consacrato definitivamente alla storia del Novecento quando, il 12
giugno dello stesso anno, venne eseguito a Parigi con la direzione del suo Autore e la coreografia di
George Balanchine, interpreti principali Serge Lifar, la Nikitina, la Tcehernicheva e Doubrovska.
L'idea di affidare a Balanchine (nato a Pietroburgo nel 1904) la nuova coreografia dell'«Apollon»,
che doveva essere realizzata dalla Compagnia dei Balletti russi, era stata dello stesso Diaghilev, che
affiancò all'allora giovanissimo coreografo, alla sua prima esperienza importante, il pittore «naif»
André Bauchant. La coreografia di Balanchine per l'«Apollon Musagète», in questa occasione
presentata nella realizzazione di John Taras, è non soltanto uno dei grandi capolavori in questo
campo - come dimostra fra l'altro il suo quasi mezzo secolo di vita - ma segna anche uno degli
esempi più perfetti di quella compenetrazione reciproca fra musica e danza tanto cara alla poetica
greca fin dai tempi di Platone, e che qui si incarna nella progressiva e lucida ascesa verso l'apoteosi
dello spirito apollineo della danza. Primo momento della fruttuosa collaborazione con Stravinsky, la
coreografia di Balanchine, il gran ballo della giovinezza, del genio e dell'equilibrio estetico
dell'artista ventiquattrenne, sembra dare ragione all'ammirazione che il grande musicista russo
dichiarava di nutrire per il balletto classico, che «nella sua vera essenza, per la bellezza del suo
ordine e per l'aristocratica austerità della sua forma, corrisponde perfettamente alla mia concezione
d'arte»; e lo stesso Balanchine, in una testimonianza di molto successiva, ricordava con queste
parole quella tappa fondamentale della sua vita: «Ai tempi dei Balletti russi ho ballato tutto, il «pas
de deux» come i ruoli dei vecchi barbuti e curvi. Nello stesso tempo ho creato dieci balletti fino alla
morte di Diaghilev avvenuta nel 1929. Credo che l'«Apollon Musagète» nel 1928 sia stato decisivo
per me. La partitura di Stravinsky mi ha insegnato che la danza come la musica deve saper trovare
la sua economia, la sua unità di stile. Esistono rapporti fra i movimenti come fra i colori e fra i
suoni, alcuni sono incompatibili con altri. Occorre lavorare in uno spazio ben delimitato».

58 1928

Le baiser de la fée

https://www.youtube.com/watch?v=7q1XwEY-cJU

https://www.youtube.com/watch?v=gA-qLdFtamM

https://www.youtube.com/watch?v=3B2ayMw1tc4

Balletto allegorico in quattro scene


Libretto: Bronislava Nizinska

Personaggi :
una Fata
un Giovane
la sua Fidanzata
la Madre del Bambino
Creature che servono la Fata
Popolani
Musicisti a una festa
Amici della Fidanzata

Berceuse dans la tempête


La fête au village
Près du moulin
Épilogue: berceuse des félicités éternelles

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 3
trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, arpa, archi
Composizione: Talloires, aprile - Nizza, 30 ottobre 1928 (revisione 1950)
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre de l'Opéra, 27 novembre 1928
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1928
Dedica: alla memoria di Petr Il'ic Cajkovskij

Guida all'ascolto (nota 1)

Una fata, bianca e gelida, bacia in fronte un bambino - o piuttosto lo «marca» con un bacio. Il
bambino cresce, diventa uomo, sta per sposarsi, Ma la fata ritorna e se lo porta via per sempre.
Questa è la nuda trama della favola di Hans Andersen, che lo stesso Stravinsky ha trasformato nel
suo balletto Il bacio della Fata, un omaggio a Ciaikovski e al balletto classico tardo-ottocentesco.

C'è da chiedersi se tutti i balletti romantici - sia dell'800 sia del '900 - non raccontino, in fondo, la
stessa storia. Ma sì. James, l'eroe della Silfide, e cioè il prototipo del balletto romantico (1832), così
come questo ultimo protagonista romantico del Bacio e del repertorio classico dei Ballets Russes
(1928), è l'incarnazione dell'idea di Poeta, di Artista creatore, dilaniato tra materialità e spiritualità,
tra realtà e fantasia, tra la quieta vita domestica e la fuga, il viaggio, la ricerca. E Silfide del 1832,
così come la Fata del 1928, è l'incarnazione del mondo superumano ed eterno dell'arte. Il suo bacio,
così come la sua pallida, eterea bellezza, sono sempre in qualche modo fatali. Perché la visione
romantica vuole il Poeta come «maledetto» e la Poesia come «Belle dame sans merci». E chi tocca
l'Arte, il mistero della creazione poetica, non sopravvive, ma muore languidamente - o resta
impietrito ed esangue nell'eternità. L'Arte è l'evoluzione romantica dell'idea di albero del bene e del
male. È l'arte che - nell'estetica romantica - dà il divino, eterno sapere; o che, piuttosto, suscita il
miraggio, sempre sfuggente ed effimero, del sapere e dell'eternità. Eva è - in questo senso - la
«Belle dame» e Adamo il «Poeta».

E ancora - ripensando al grande libro di Mario Praz La carne, la morte e il Diavolo - il balletto
romantico di ieri e di oggi rielabora e riprende non soltanto il tema primordiale del paradiso
terrestre - della seduzione dell'arte e dell'immortalità - ma anche il mito di Medusa, il mito della
Sfinge, e in qualche modo, quello di Euridice. La bellezza-che-uccide, il pallore malato e
impassibile della creatura sublime e mostruosa il cui scopo è attirare e poi uccidere, è dunque anche
il senso profondo di Myrtha, regina delle Willi, in Giselle, e della Regina della Montagna di rame
nel Fiore di pietra di Lavronsky-Prokofiev - concepito e creato soltanto quarantanni fa.

Il decadentismo, che dal romanticismo procede, ha poi portato il rapporto Poeta-«Belle dame sans
merci» a conseguenze estreme: la Fata diviene Donna Fatale e il Poeta il ricettacolo di ogni fragilità
e di ogni corruzione, lungo una gamma immensa di livelli qualitativi, che vanno da romanzi di
D'Annunzio alla canzone Vipera.

Oggi, la Bellezza non uccide. E il Poeta non si immola tra le sue braccia. Il rapporto tra il Poeta e la
società si è fatto più semplice, a volte troppo semplice; così come la Bellezza è tra noi, carta
vincente di milioni di industrie. Si ha la sensazione che Poeta e Bellezza siano ormai partners - o
magari complici - intenti ad appiattire la gente qualsiasi dai grandi e piccoli schermi. La vittima non
è più l'Eletto, l'unico, il prescelto - il «baciato dalla fata». La Fata e il Poeta, insieme, inventano, ci
incantano, ci seducono - e tutti gabbati.

Ma non per Eugenio Polyakov, pervicace romantico russo-fiorentino. Tanto crede, Polyakov,
nell'eterno mito del Poeta che abbandona la casa, e le proprie radici, per inseguire
avventurosamente l'utopia della fantasia e della libertà creativa, che l'ha vissuto - in qualche modo -
in prima persona. Non solo. Il Bacio non è per lui occasione di semplice, devoto «revival» - di
ricostruzione filologica dell'originale di Bronislava Nijinska, creato per i Ballets Russes e per Ida
Rubinstein, nei panni della Fata (una fata seducente e bellissima, più mima che danzatrice). Ma è
occasione per una nuova e audace rivisitazione della vicenda essenziale, ambientata negli anni
stessi in cui il Bacio fu creato (gli ultimi anni venti), con al centro un Artista, che altri non è se non
lo stesso Stravinsky, ancora giovane, quando con le sue gloriose scelte innovative - scelte musicali e
culturali - stava dando, da Parigi, la scalata definitiva al successo. Chissà. È forse un gesto, davvero
concreto, di omaggio a Stravinsky, nell'anno del centenario.

In un ambiente scenografico di gusto iperrealista, che riproduce in formato naturale episodi e


caratteri della vicenda, «impietriti» per natura e per posizione - si svolge una sorta di astratto poema
coreografico in quattro quadri. Una scultura «racconta» lo Stravinsky bambino, seduto al pianoforte
sotto gli occhi delle sorelle. Quel bambino sarà baciato dalla Fata, alla fine della prima scena. E
quel bambino rivedremo, ormai cresciuto, vestito tutto di bianco, come in certe foto estive del
Maestro o in certi schizzi di Cocteau. Una schiera di creature indistinte, di sapore romantico, lo
circondano. Tra loro c'è la Fata: una presenza ancora più sfuggente e impalpabile delle altre. Il
Maestro danza con lei. Poi la scena analoga a quella originale della festa del villaggio si svolge, qui,
in un bar parigino. Come nell'originale, arriva una zingara a predire al Maestro un destino ambiguo,
«diverso». È naturale che la zingara abbia le connotazioni di una «musa» di Sainf-Germain des
Prés, un po' alla Juliette Greco. La «scena del matrimonio» ha luogo lungo le rive della Senna, con
echi visuali del «Dèjeuner sur l'herbe». Qui avviene il momento della riappropriazione definitiva
dell'Eletto da parte della Fata. Ma, nella visione di Polyakov, è piuttosto lui, il Maestro, che sceglie
di sua libera volontà di lasciare il certo per l'incerto, la terra per il cielo, la prosa per la poesia. Sale
con la Fata su una simbolica rampa, che non porta tanto a un «cielo» indeterminato, quanto alla
vetta del Parnaso - o della gloria dell'Arte. Come Apollo, accompagnato da Tersicore, nel finale di
Apollon Musagète di Balanchine. Non c'è, in lui, nessun senso di rimorso, di angoscia, di
rimpianto; ma soltanto una lucida, serena determinazione. Che accade dopo, nell'ultimo quadro?
Qualcosa che - come si era accennato - ribalta un po' il messaggio culturale di questa versione
coreografica. Accade, cioè, che non è l'Artista a congelarsi, a impietrirsi. Ma gli altri, che restano di
polvere e cemento, sicché la realtà aderisce all'iper-realtà. Il mondo originario dell'Artista resterà
sempre una sagoma, mentre egli stesso - l'eterno, romantico Eletto - salirà, unico vivo, al Parnaso.

Vittoria Ottolenghi

67 1936

Jeu de cartes

https://www.youtube.com/watch?v=O6dskV66rjI

https://www.youtube.com/watch?v=htFd3WupOUU

https://www.youtube.com/watch?v=Mj4bdWzTMCk

Balletto in tre mani


Libretto: Georges Balanchine

Prima mano:

Introduzione - Alla breve


Pas d'action - Meno mosso
Danza del Jolly - Moderato assai
Valzer-Coda - Stringendo-Tranquillo

Seconda mano:

Introduzione - Alla breve


Marcia - Cuori e Picche
Quattro variazioni solistiche per le Regine di Cuori, Quadri, Fiori, Picche - Allegretto
Quinta variazione - Sostenuto e pesante
Coda - Più mosso
Marcia e Ensemble - Con moto

Terza mano:

Introduzione - Alla breve


Valzer-Minuetto
Battaglia fra Picche e Cuori - Presto
Danza finale - Leggiero grazioso
Trionfo dei Cuori - Tempo del principio

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
percussione, archi
Composizione: Parigi, 6 dicembre 1936
Prima rappresentaziome: New York, Teatro Metropolitan, 27 aprile 1937
Edizione: Schott, Magonza. 1937

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nel 1935, durante un soggiorno negli Stati Uniti, Stravinsky ricevette l'invito da Edward Warbung e
Lincoln Kirstein per scrivere una partitura a beneficio dell'American Ballet che si era costituito da
poco tempo e di cui era coreografo Georges Balanchine. La scelta del soggetto fu demandata al
libero arbitrio del compositore. E Stravinsky non si smarrì certo d'animo né perse tempo al
riguardo. Da tempo egli aveva coltivato il progetto di scrivere un balletto sull'intarsio di certe
combinazioni numeriche, qualcosa come le Chiffres dansants che rimandavano alle Lettres
dansantes di Schumann. In tale prospettiva, come ha scritto Eric Walter White, «l'azione doveva
esser implicita nella musica, e uno dei personaggi avrebbe dovuto essere una forza del male, la cui
sconfitta finale avrebbe conferito al lavoro un carattere morale» (1966).

Al momento d'accingersi però a stendere la sceneggiatura, Stravinsky mutò d'avviso sul soggetto. E
decise di rifarsi a certe esperienze personali in tema di giochi. Rammentò, secondo la testimonianza
di Alexandre Tansman, che «era sua abitudine rilassarsi dopo il pranzo con gli scacchi cinesi. Un
altro gioco però l'aveva sempre coinvolto assiduamente, il poker, e proprio sul poker si orientò a
formulare la sceneggiatura del nuovo balletto». Ancora una volta l'esperienza autobiografica,
trattata comunque con un certo distacco e rivista con la consueta, notevole dose d'ironia verso se
stesso e d'umorismo corrosivo, risultò la carta vincente: «Sono sempre stato attratto - scrisse
Stravinsky in Themes and conclusions (1972) - dal gioco d'azzardo e ho giocato a carte per buona
parte della mia vita... Le origini del balletto, nel senso della mia attrazione verso questo soggetto,
sono tuttavia precedenti alla mia esperienza di giocatore, e si possono far risalire probabilmente alla
mia infanzia, durante le vacanze in una stazione termale tedesca. La mia prima impressione di un
casinò è tuttora vivamente impressa nella memoria: le lunghe file di tavoli e i giocatori di roulette,
baccarat o whist... Mi ricordo ancor oggi, come il giorno in cui scrissi la musica, il modo in cui il
maestro di cerimonia di una di queste sale annunciava, con una voce da trombone, Ein neues Spiel,
ein neues Gluck (Un nuovo gioco, una nuova fortuna). Il ritmo e la strumentazione del tema con cui
inizia ognuna delle tre "mani" del mio balletto sono l'eco o l'imitazione del tempo, del timbro, in
effetti dell'intero carattere di quell'enfatico proclama».

La composizione di Jeu de cartes fu avviata e condotta a termine entro la fine del 1936, durante il
soggiorno parigino a Faubourg St. Honoré, con l'eccezione d'un breve episodio scritto a bordo della
nave "Kap Arcona" nel corso del viaggio intrapreso tra Boulogne e Buenos Aires, senza l'ausilio del
pianoforte. Ultimato il lavoro, la partitura venne mandata a New York per la realizzazione
coreografica di Balanchine. L'argomento, come ricordò il musicista in un'intervista al quotidiano
parigino "Le Jour" del 3 febbraio 1938, «venne in mente una sera in un fiacre mentre mi recavo a
far visita ad alcuni amici: ne fui così contento che feci fermare il vetturino e lo invitai a bere con
me». Jean Cocteau, invitato a collaborare alla stesura, declinò e fu lo stesso Stravinsky a
provvedere all'uopo assieme a Malaieff, un amico di casa. In partitura fu vergato quest'argomento:
«I personaggi del balletto sono le principali carte del gioco del Poker, cui partecipano parecchie
persone al tavolo verde di una sala da gioco. A ogni mano la situazione è resa più complessa dalla
scaltrezza senza fine del perfido Jolly che si crede invincibile per la sua possibilità di diventare
qualsiasi carta si voglia. Durante la prima mano, uno dei giocatori è sconfitto, ma gli altri due
restano con "scale" alla pari, sebbene uno di loro possegga il Jolly. Nella seconda mano il giocatore
che ha il Jolly vince grazie a quattro assi che facilmente sconfìggono quattro Regine. Viene ora la
terza mano. L'azione diventa sempre più tesa. Questa volta c'è una lotta fra tre "colori". Benché
all'inizio sia vittorioso su un avversario, il Jolly, panneggiandosi in testa ad una sequenza di Picche,
è battuto da una "scala reale" di Cuori. Questo pone fine alla sua malizia e vanteria».

A metà delle prove giunse a New York Stravinsky e intervenne per modificare il disegno
coreografico di Balanchine, obiettando che c'era «una sovrabbondanza di invenzione fantasiosa,
con i danzatori a ventaglio a simulare le carte tenute in mano». Un altro suo intervento fu sui
costumi: non volle quelli ispirati ai tarocchi medievali perché «avrebbero collocato il lavoro in un
periodo ben definito e avrebbero evocato una qualità figurativa non presente nella musica». In
luogo d'essi, ne furono realizzati altri da Irene Sharaff su mazzi di carte ordinari, acquistati dal
"drugstore" all'angolo.

La prima rappresentazione assoluta di Jeu de cartes andò in scena al Metropolitan il 27 aprile 1937,
con l'autore sul podio è con William Bollar nella parte del Jolly. In termini coreografici
l'articolazione di Jeu de cartes è la seguente, con la premessa che ad ogni carta corrisponde un
danzatore e che «i ruoli maschile e femminile sono per il compositore ciò che il forte e il piano
erano nei concerti grossi del diciottesimo secolo» e che una fanfara degli ottoni segna l'inizio di
ogni "mano". Prima mano: Introduzione (Alla breve), Pas d'action (Meno mosso), Danza del Jolly
(Moderato assai), Valzer-Coda (Stringendo-Tranquillo), Seconda mano: Introduzione (Alla breve),
Marcia (Cuori e Picche), Quattro variazioni solistiche per le Regine di Cuori, Quadri, Fiori, Picche
(Allegretto), Quinta variazione (Sostenuto e pesante) e Coda (Più mosso), Marcia e Ensemble (Con
moto). Terza mano: Introduzione (Alla breve), Valzer-Minuetto, Battaglia fra Picche e Cuori
(Presto), Danza finale (Leggiero grazioso) e Trionfo dei Cuori (Tempo del principio).

La musica è senza interruzioni, in un clima prevalentemente allegro e ricco di allusioni, come


appare dalla magistrale qualità, lieve ed ironica, della scrittura strumentale. In un contesto
«costruito con i cascami di tutte le musiche cosiddette brillanti del secolo scorso, cementati assieme
in una stregonesca alchimia. Dopo la solennità ruvida e un po' arcaica dell'introduzione, fondata su
aspri accordi di settima e di quinta, gli elementi del discorso musicale vengono desunti a volta a
volta dal sentimentalismo floreale di Cajkovskij, o dal rimbombante slancio del valzer viennese, dal
lascivo indugio cromatico di sollecitazioni ritmiche da danze della belle époque alla provocante
citazione rossiniana della Sinfonia del Barbiere, piegata nell'ultimo quadro a un significato di quasi
drammatica agitazione. Piccoli passettini ritmo-melodici di minima estensione, che sembrano
dettati alla musica dalla natura stessa della danza sulle punte, sviolinate solistiche di bravura dal
piglio quasi zigano, rauchi echi di corni straussiani evocanti l'intenerimento patetico di gaudenti
sentimentali, il fuoco di Weber e l'eleganza asciutta di Ravel entrano in quelle cinque prestigiose
Variazioni che costituiscono il nucleo del secondo quadro. Tutti questi elementi, malinconici residui
di ciò ch'era stata la gaiezza musicale di un'epoca, sono triturati e saldati insieme, in prodigiosa
unità stilistica, dall'unico comun denominatore del ritmo: quel ritmo stravinskiano a macchina da
cucire» (M. Mila in Compagno Strawinsky, Torino, 1983). In Jeu de cartes la cifra neoclassica
dell'ultimo periodo europeo di Stravinsky attinge, per concludere, la sua più alta, e stravolta,
realizzazione culturale.

Luigi Bellingardi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)


Jeu de cartes, "ballet en trois donnes" come lo definì l'autore, fu composto nel 1936 e rappresentato
il 27 aprile 1937 a New York dall'"American Ballet" con la coreografia di Balanchine. Appartiene
dunque al periodo neoclassico di Stravinskij, di cui incarna caratteri e motivi in modo felicissimo,
quasi emblematico.

L'azione del balletto ha per protagoniste le carte da gioco, impegnate in una diabolica partita di
poker in tre mani. Nella prima e nella seconda mano il Jolly, maliziosa incarnazione del diavolo che
si ritiene invincibile, determina il gioco mutandolo a suo piacimento e sbaragliando gli avversari;
ma nella terza e decisiva mano egli viene sconfitto, inopinamente da una sequenza di scala reale di
cuori. Il simbolismo è evidente: la forza d'amore, impersonata dalla scala reale di cuori, decreta la
sconfitta finale dello spirito del male, incarnato dal Jolly. Giustamente Casella vi ravvisa l'altra
faccia del demonio dell'Histoire du soldat; e in questo senso va interpretata la "moralità" finale, che
si riassume nei versi di La Fontaine citati da Stravinskij in partitura: "Nous pouvons conclure de là /
Qu'il faut faire aux méchants guerre continuelle. / La Paix est fort bonne de soi; / J'en conviens;
mais de quoi sert-elle / Avec des ennemis sans foi?".

Forse non si è più lontani dal vero se si considera la trama del balletto quale pretesto per
abbandonarsi al puro gioco, al puro divertimento (Vlad parla apertamente di "massimo disimpegno
esistenziale"), realizzato attraverso il dominio di un intelletto che monta con esattezza e ordine
infallibili la sua "fabbrica" sonora. L'argomento viene risolto in termini puramente musicali, in una
partitura di raffinatissima e magistrale scrittura. Ognuna delle tre "mani" costituisce una parte del
balletto ed è introdotta dallo stesso tema "Alla breve", nucleo generatore della composizione. Nella
prima parte seguono ad esso un Moderato assai e un Tranquillo; nella seconda una Marcia, cinque
Variazioni sul tema e una Coda; nella terza una serie di danze che culmina, circolarmente, nella
ripresa del "Tempo del principio" e in un vorticoso Presto finale. Il tema "Alla breve" con cui inizia
ciascuna "mano" del balletto sarebbe, nella mente di Stravinskij, "un'eco, l'imitazione del tempo,
del timbro e del particolare carattere della voce" con cui, in un suo ricordo d'infanzia, un germanico
croupier, "maestro di cerimonie con voce di trombone", invitava i visitatori di un casinò a prendere
parte al gioco.

In Jeu de cartes le allusioni, le assonanze e le citazioni da opere altrui abbondano, e vanno dal
valzer viennese al galoppo bandistico, sino ad autori come Rossini e Johann Strauss. Stravinskij
stesso ha giustificato simili imprestiti col desiderio di suggerire il clima dei concerti di una "Kursaal
Band" come quelle che suonavano nei luoghi di cura e di villeggiatura in Germania. Ma queste
citazioni vengono poste in un contesto che le deforma e le stravolge, andando ben al di là della
"musica al quadrato" pur tipica dell'attegiamento compositivo stravinskijano. Valga per tutte il caso
di quella più vistosa e riconoscibile, il tema dell'Allegro della sinfonia del Barbiere di Siviglia
incluso nella terza sezione del balletto. Nel suo dinamismo ritmico reso ancora più irrefrenabile, il
tema rossiniano risulta alla fine talmente trasfigurato da apparire lontanissimo dalla sua veste
primitiva, divenuto quasi una creazione originale e indipendente di Stravinskij: simbolo della gioia
del movimento, del gioco sonoro, che cela l'ombra dell'inesorabile trascorrere del tempo.

Sergio Sablich

86 1945 - 1947

Orpheus
https://www.youtube.com/watch?v=__C9aVdTYdU

https://www.youtube.com/watch?v=939WvhxYuW0

https://www.youtube.com/watch?v=5fELa_NBipI

Balletto in tre scene


Libretto: Georges Balanchine

Scena I

Orfeo piange Euridice. È in piedi, immobile, con la schiena volta al pubblico. Alcuni amici gli
portano doni e si condolgono con lui - Lento sostenuto
«Air de danse» - Andante con moto
«Danza dell'Angelo della morte». L'Angelo conduce Orfeo all'Ade - L'istesso tempo
Interlude. L'Angelo e Orfeo ricompaiono nelle tenebre del Tartaro - L'istesso tempo

Scena II

«Pas des Furies» (movimenti e minacce) - Agitato in piano. Sempre alla breve ma meno mosso
(a) «Air de danse» (Orfeo) - Grave. Un poco meno mosso
Interlude. Le anime tormentate nel Tartaro tendono le braccia incatenate verso Orfeo, e lo
implorano di continuare il suo canto consolatorio - L'istesso tempo
(b) «Air de danse» (conclusione). Orfeo continua il suo Air - L'istesso tempo
«Pas d'action»: le Ombre, commosse dal canto di Orfeo, si placano. Le Furie lo circondano, lo
bendano e gli rendono Euridice. (Sipario abbassato.) - Andantino leggiadro
«Pas de deux» (Orfeo ed Euridice davanti al sipario abbassato). Orfeo si toglie la benda dagli
occhi. Euridice cade morta - Andante sostenuto
Interlude (sipario abbassato, dietro v'è la scena del primo quadro) - Moderato assai
«Pas d'action». Le Baccanti assalgono Orfeo, lo afferrano e lo fanno a pezzi - Vivace

Scena III

«Apoteosi di Orfeo». Appare Apollo. Prende la lira di Orfeo e innalza il suo canto ai cieli - Lento
sostenuto

Organico: ottavino. 2 flauti, 2 oboi (2 anche corno inglese), 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe,
2 tromboni, timpani, arpa, archi
Composizione: Hollywood, 1945 - 23 settembre 1947
Prima rappresentazione: New York, City Center Theater of Music and Drama, 28 aprile 1948
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1948

Guida all'ascolto (nota 1)

Una realizzazione interamente danzata dell'«Orfeo e Euridice» di Gluck, prodotta nel 1936 a New
York, aveva indotto Balanchine a sollecitare Igor Stravinski alcuni anni dopo a comporre un
balletto sul mito di Orfeo. A Stravinsky, che varie volte si era interessato ai miti greci («Oedipus
Rex»/1927, «Apollon musagète»/1928, «Persephone»/1933, «Agon»/1957), piacque l'idea. Il
musicista e Balanchine seguivano il noto mito del cantore tracio Orfeo senza tuttavia stendere un
libretto. La prima assoluta avvenne il 28 aprile 1948 al City Center di New York per conto della
Ballet Society (che più tardi divenne il New York City Ballet). Scene e costumi erano di Isamu
Noguchi.

Per la realizzazione della prima europea dell'«Orfeo» Stravinsky ha pensato ad Aurelio M. Milloss
il quale lavorava in quel periodo a Buenos Aires. Grazie all'aiuto di Ferdinando Ballo, allora
Direttore artistico della Biennale di Musica Contemporanea di Venezia, è stato possibile presentare
la prima europea nello stesso anno. E così la prima assoluta della versione coreografica di Milloss
dell'«Orfeo» ebbe luogo il 9 settembre 1948 al Teatro La Fenice di Venezia insieme alla prima
assoluta del balletto «Marsia» (Dallapiccola - Milloss). La stessa edizione venne in seguito
rappresentata a Madrid e Barcellona.

Nel 1949 l'«Orfeo» venne eseguito per la prima volta nella versione coreografica di Milloss anche
al Teatro Colon di Buenos Aires e un anno dopo il lavoro andò in scena al Teatro dell'Opera di
Roma. Milloss ha poi ripreso perfezionandola la sua coreografia per l'«Orfeo» all'opera di Stato di
Vienna, dove apparve il 15 marzo 1974, ed è in questa forma che egli Io presenta ora al XXXVII
Maggio Musicale Fiorentino.

Stravinsky scrisse la musica per l'«Orfeo» nel 1947, cioè nello stesso periodo in cui nacque la
«Messa» per coro misto e doppio quintetto a fiato. Un anno dopo il musicista cominciò coi primi
abbozzi per «La carriera di un libertino». Il carattere antico, mitico dell'argomento, indusse il
compositore ad impiegare le scale della musica greca. La polifonia perciò si libera sovente dalle
catene della tonalità. Due particolarità della strumentazione meritano di essere messe in risalto. La
prima riguarda l'uso degli ottoni: come vuole la tradizione, da Monteverdi in poi, essi raffigurano i
terrori del Tartaro. L'altra sta nell'impiego dell'arpa come simbolo musicale della lira orfica.

La travolgente danza delle furie con la sua strana, soppressa inquietudine, offre un contrasto
efficace con l'«air de danse», con la quale il protagonista placa le forze infernali accompagnandosi
sulla lira, ai cui suoni si associa la melodia di un oboe nello stile pastorale del settecento italiano.

Un minaccioso interludio precede la danza delle baccanti che si precipitano su Orfeo e lo dilaniano.
Con i suoi ritmi spezzati questo brano ricorda il principio ritmico che presiede la «Danse sacrale» e
che tuttavia assume qui una fisionomia nuova, rimanendo sempre in penombra persino quando, per
l'unica volta, la dinamica raggiunge il «fortissimo» per essere subito arrestata alla visione di Orfeo
fatto a pezzi. Due episodi apparentemente simmetrici racchiudono l'opera con un'austerità dorica.

Con quest'opera il sessantacinquenne Stravinski ha compiuto una delle sue più felici metamorfosi.
Nell'«Orfeo» si è veramente accostato allo spirito del mondo antico dal quale il convenzionale
«Apollon Musagète» del 1928 era tanto lontano. Un poco meno che nella «Messa» si rivela anche
nell'«Orfeo» una strana fusione fra tendenze barocche e caratteristiche del primitivismo che a volte
vengono adombrate da altre forze per essere sempre di nuovo ristabilite dall'uso di determinati temi.

Milloss rinuncia nel finale dell'«Orfeo» all'apparizione di Apollo di persona, soluzione adottata
nella precedente realizzazione newyorkese, poiché egli considera, basandosi sulla musica di
Stravinski, il finale come una specie di variante risolutiva dell'introduzione. Una grande apoteosi
creerebbe un contrasto insanabile con l'intimismo di questa atmosfera musicale. E così Milloss ha
optato per fare apparire Apollo sotto una delle sue altre forme, scegliendo il simbolo del sole in
corrispondenza alle tendenze baroccheggianti della musica stravinskiana. È una delle massime che
informano il modo di lavorare di Milloss rispettare pienamente ciò che è scritto sulla partitura, farne
emergere l'essenziale e far rivivere nella coreografia le strutture musicali. Stilisticamente Milloss
segue lo spirito del classicismo del balletto, eliminando cioè le influenze del balletto romantico, e
rigenera gli elementi tradizionali settecenteschi con un repertorio di movimenti derivanti dagli
sviluppi del nostro secolo, con aperti riferimenti al presente.

Gli stilemi barocchi della partitura di Stravinski si riflettono anche sulla componente visiva del
balletto. La versione viennese e l'attuale edizione fiorentina seguono principalmente quella del 1948
con piccoli cambiamenti, però, dovuti anche al fatto che questa volta scene e costumi sono stati
creati dal pittore greco Pantelis Dessyllas. Anche alcune evoluzioni coreografiche sono state
adeguatamente variate ed ampliate rispetto alla prima versione.

Lothar Knessl

95 1953 - 1957

Agon

https://www.youtube.com/watch?v=1IfdLnvAH6c

https://www.youtube.com/watch?v=QNTvHRlorQw

https://www.youtube.com/watch?v=Ud8zVcHPnuM

Balletto per 12 danzatori


Libretto: Georges Balanchine

a. Pas-de-Quatre
b. Double Pas-de-Quatre
c. Triple Pas-de-Quatre

Prelude

[First Pas de-Trois]


a. Saraband-Step
b. Gailliarde
c. Coda

Interlude

[Second Pas-de-Trois]
a. Bransle Simple
b. Bransle Gay
c. Bransle de Poitou

Interlude

a. Pas-de-Deux
b. Four Duos
c. Four Trios

Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti,
controfagotto, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, timpani, xilofono, 3 tom-tom, castagnette, arpa,
mandolino, pianoforte, archi
Composizione: dicembre 1953 - Hollywood, 27 aprile 1957
Prima esecuzione: Los Angeles, Philarmonic Auditorium, 17 giugno 1957 (in forma di concerto);
New York, City Center Theater of Music and Drama, 1 dicembre 1957 (in forma scenica)
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1957
Dedica: Lincoln Kirstein e Georges Balanchine

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Agon, composto fra il dicembre 1953 e l'aprile 1957 (la partitura è datata: "26 aprile 1957") è una
«suite» di danze ispirata dai «ballets de cour» dell'epoca di Luigi XIII e di Luigi XIV. Il lavoro fu
concepito senza alcuna idea preconcetta di argomento o di scenario: il titolo, per Strawinski,
significa semplicemente «competizione». Quanto al carattere «coreografico» di questa
competizione il musicista lascia al coreografo la più grande libertà, pur mostrando, una particolare
predilezione per quella realizzata da Balanchine il 1° dicembre 1957.

Il piano di lavoro stabilito dal compositore è il seguente :

Parte prima

Passo a quattro (quattro danzatori, col dorso voltato verso il pubblico, si avvicinano)
Doppio passo a quattro (otto danzatrici)
Triplo passo a quattro (otto danzatrici e quattro danzatori). Coda. Dal punto di vista della forma
musicale, questa danza è una variazione e uno sviluppo di B).

Parte seconda

Preludio (orchestra)
I° Passo a tre (un danzatore e due danzatrici)
Sarabanda (solo del danzatore)
Gagliarda (le due danzatrici)
Coda (un danzatore e le due danzatrici)
Interludio (orchestra)
II° Passo a tre (due danzatori e una danzatrice)
Bransle semplice (due danzatori)
Bransle gaio (danzatrice sola). Un disegno di Strawinski indica che solo la danzatrice deve
volgere la testa successivamente verso ognuno dei due danzatori nei due momenti della partitura in
cui gli strumenti tacciono e soltanto le castagnette suonano.
Bransle doppio del Poitou (due danzatori e una danzatrice)
Interludio (orchestra)
Passo a due:

Adagio (un danzatore e una danzatrice)


Variazione (un danzatore)
Variazione (una danzatrice)
Refrain (un danzatore)
Coda (un danzatore e una danzatrice).

Parte terza

Alla stretta (Orchestra: archi, ottoni, batteria, pianoforte)


Danza dei quattro Duo (quattro coppie)
Danza dei quattro Trio (Archi e ottoni - Quattro coppie)
Coda dei tre Quartetti (Tutta da compagnia - Archi e ottoni). Verso la fine, quando suonano
solamente gli ottoni, le danzatrici escono dalla scena e i danzatori ritornano alla posizione di
partenza, col dorso rivolto al pubblico, come all'inizio del balletto.

Questo per l'architettura dell'opera, la quale se, sotto certi aspetti si riallaccia alla tradizione dei
balletti neo-classici, per certi altri se ne stacca profondamente, e non solamente per il largo impiego
che Strawinski fa della tecnica dodecafonica-seriale. Poiché questo lavoro, cominciato nel dicembre
1953 in uno stile diatonico modale, interrotto più tardi dalla composizione dell'In memoriam Dylan
Thomas e del Canticum Sacrum, e ripreso nel 1956, dopo l'esperienza dodecafonico-seriale, fu
terminato appunto con quest'ultima tecnica. Si poteva pensare a un risultato eterogeneo,
frammentario sapendo che Strawinski aveva conservato le pagine già composte: ma sarebbe non
conoscere il nostro musicista.

Qualche data ci aiuterà: nel dicembre 1953 Strawinski scrive la Fanfara che apre e conclude il
lavoro, e poco più tardi l'ultima parte del Doppio passo a quattro; nella primavera dell'anno
seguente, i due quinti del lavoro sono già composti. Ma allora il musicista s'interrompe per
dedicarsi alla composizione dei due lavori più sopra ricordati. Nella primavera del 1956 Agon è
ripreso: Strawinski compone allora i primi due Bransle (è un'antica danza francese di caratteri
diversi secondo le province in cui veniva danzata), nell'agosto dello stesso anno, a Venezia,
compone il terzo, e il resto del lavoro fu terminato tra il febbraio e l'aprile del 1957.

Volendo conservare le musiche composte tre anni prima (ma che furono in parte riscritte e
ristrumentate) Strawinski si trovava ancora una volta dinanzi al problema che gli si era presentato
per il Rossignol: quello di dare una unità a un lavoro di due stili diversi. E la soluzione, del
problema non poteva essere più la stessa.

Nondimeno Strawinski trovò una nuova soluzione, e più geniale della prima: da un lato si servì di
«ripetizioni» della musica composta all'inizio e riformulata prima di integrarla nella partitura: così
la Fanfara iniziale viene ripetuta alla fine del balletto, il Preludio (II parte) viene ripetuto con
qualche modificazione, nei due Interludi. Ma questa non era che una parte della possibile soluzione:
a costituire una forte unità autentica Strawinski provvide incorporando nelle «serie» create per ogni
danza, gli «intervalli melodici» principali delle pagine già composte, e giungendo così al risultato
che si la musique est sérielle, on ne s'en aperçoit ni ne s'en soucie guère (R. Craft).

Un'analisi della struttura di ogni pezzo, nonché della composizione strumentale - per la prima volta,
dopo il 1945, Strawinski ritorna a usare la grande orchestra, e sia pure senza utilizzarla mai in tutta
la sua potenza, ma dando ad ogni danza un insieme strumentale appropriato e originale - sarebbe
interessantissima; ma richiederebbe troppo tempo e spazio, e non è questo il luogo né il momento
per farla.

Bastino questi pochi cenni per destare l'attenzione e l'interesse dell'ascoltatore su questo singolare
lavoro di un musicista settantacinquenne, creazione sorprendente per la freschezza e per la forte
struttura unitaria, che potrebbe anche segnare l'apertura di una via dove le varie tendenze, spesso
contradditorie, che sconvolgono la musica del nostro tempo, potrebbero conciliarsi rinnovando
l'antica «concordia discors».

Domenico De Paoli
Guida all'ascolto 2 (nota 21)

Dopo «Orpheus», rappresentato a New York nel 1948, Stravinsky non produce nessun balletto fino
a questo «Agon», che va in scena, sempre a New York, il 1 dicembre 1957, con la coreografia di
Georges Balanchine (ma la musica era già stata eseguita il 17 giugno a Los Angeles, per il
settantacinquesimo compleanno dell'autore; in ottobre, a Roma, c'era stata la prima italiana, sempre
in concerto); e in fondo «Agon» resterà l'ultimo balletto di Stravinsky, che tornerà a scrivere per la
danza solo nelle circostanze abbastanza anomale di un'opera destinata alla televisione, «The Flood»
(Il diluvio), misto di musica e di recitazione (1962). Dopo le esplosioni della sua prima maturità
(basti pensare alla «Sagra»), dopo le allegorie mitologiche del periodo neoclassico, Stravinsky si
congeda dal balletto con un lavoro profondamente diverso da tutti quelli che l'hanno preceduto. È
comunque abbastanza lecito riconoscere la linearità del processo che lo porta dai balletti con
libretto vero e proprio, a mo' di quelli ottocenteschi, fino ad un'opera assolutamente astratta sul
piano narrativo come «Agon», passando per successivi gradi di stilizzazione; cosi come è lecito —
e ovvio — ritrovare la corrispondenza di questa evoluzione nel massimo creatore di balletti del
nostro secolo con tutto il divenire della sua stessa personalità di musicista.

Non si dice nulla di nuovo, ormai, se si rivendica una profonda coerenza a tutto l'iter stilistico di
Stravinsky: più passa il tempo, più si scopre quanto le svolte brusche, che nei quasi settant'anni del
suo operare artistico hanno stupito e sconcertato i suoi seguaci non meno degli avversari, siano state
in realtà men contraddittorie e meno inspiegabili di quel che sian sembrate a caldo. E si è fatto
soprattutto evidente il rapporto di reciproco scambio che si è realizzato nel tempo fra il preteso
«restauratore» e tutta la cultura musicale di un secolo dibattuto fra crisi e rinnovamento.
All'organicità sostanziale del procedere di Stravinsky (non limitata, è ovvio, al solo aspetto pratico
della composizione musicale) partecipano il carattere ed il linguaggio musicale di «Agon», nonché
le modifiche non indifferenti che quel linguaggio ebbe a subire nel corso di una gestazione
abbastanza lunga.
Stravinsky aveva cominciato a comporre «Agon» nel dicembre 1953, arrivando a stenderne circa
due quinti; riprese il lavoro, dopo una lunga interruzione, nel 1956, portandolo rapidamente a
termine. La nascita di «Agon» casca dunque nel bel mezzo di un periodo importantissimo per
Stravinsky: chiusa nel '51 con «La carriera di un libertino» la lunga esperienza neoclassica, lo
vediamo nei sette anni immediatamente successivi compiere un graduale avvicinamento alla tecnica
dodecafonica, che verrà adottata integralmente per la prima volta in «Threni» (1958). La «Cantata»,
il «Settimino», gli «Shakespeare Songs», sono i primi passi verso la serialità; la prima, parziale
stesura di «Agon» precede un lavoro che fa un po' da spartiacque, «In Memoriam Dylan Thomas»,
dove le diverse serie impiegate giungono ad esaurire il famoso «totale cromatico» dei dodici suoni,
e il «Canticum Sacrum», dodecafonico in tre delle sue cinque sezioni. Tolta qualche composizione
minore, «Agon» è l'unica opera fra il «Canticum» e «Threni», e si pone come l'ultima fase del
noviziato dodecafonico di Stravinsky.

Si capisce l'importanza, in un contesto simile, del ritorno di Stravinsky ad un genere che aveva
coltivato intensissimamente in momenti assai diversi da questo. Mentre la sua adesione alla
dodecafonia era ancora vista con perplessità, né si poteva sapere se si sarebbe trattato di una
conversione definitiva o di una sbandata temporanea, un nuovo balletto poteva significare un
ripiegamento su posizioni precedenti. Tanto più che lo spirito della dodecafonia (non si conosceva
ancora «Moses und Aron», con la «Danza del vitello d'oro») sembrava postulare l'esatto contrario
della moralità artistica di un compositore di balletti, almeno stando a quel che aveva detto Adorno,
nel disegnare una fenomenologia della musica contemporanea. Ma Stravinsky, più che questi
problemi, sembrò porsi nel riprendere in mano i frammenti di «Agon» quello della coerenza interna
di un lavoro cominciato con intendimenti diversi, sul piano stilistico, da quelli che ormai avevano
fissato nuove linee alla sua produzione. Adeguò quindi le parti già scritte a ciò che stava per fare,
realizzando un'opera che, al pari del «Canticum Sacrum», trovava nella composita fisionomia
stilistica, più che non un motivo di discordanza, il senso quasi di un riassunto di tutte le sue
esperienze linguistiche più recenti.

Indicato come un «Balletto per dodici danzatori» (otto donne e quattro uomini), «Agon» non segue
una trama precisa, ma si limita a proporre un'astratta «competizione» fra quelli, dando cosi ragione
del titolo. Si apre con un «Pas-de-Quatre», affidato agli uomini, che è una fanfara di trombe e corni;
segue un «Double Pas-de-Quatre» per le donne, che nella sua vivacità ritmica riporta a certe pagine
neoclassiche. Questo a sua volta sfocia in un «Triple Pas-de-Quatre», che impegna tutti i danzatori,
ed impiega il materiale musicale del pezzo precedente nella variante retrograda. Un «Preludio»
introduce il primo «Pas-de-Trois»: questo si articola in tre sezioni, una «Sarabande-Step» per il
primo ballerino, una «Gailliarde» per due danzatrici, una «Coda» per tutti e tre. Un «Interludio»
prepara il secondo «Pas-de-Trois»: qui entrano due danzatori in una «Bransle simple», poi una
ballerina in una «Bransle Gay», quindi i tre nella «Bransle Doublé». Ancora un «Interludio» prima
del «Pas-de-Deux»: questo impegna un danzatore ed una danzatrice in un «Adagio», due
«Variazioni», un «Refrain» e una «Coda» seguita da una «Stretta». La scrittura dodecafonica, dopo
la «Fanfara» iniziale, si è fatta sempre più rigorosa; la strumentazione vivacemente colorita di tutti i
brani successivi (che accosta a numerosi fiati arpa, mandolino e pianoforte), nonché una
percussione incisiva e brillante, cede il passo nella conclusione del balletto, articolata in quattro
«Duetti» e quattro «trii», prima della «Coda» di tutti i danzatori, ad un tessuto timbrico più
rarefatto, che sembra sottolineare la rigida struttura seriale di quest'ultima parte.

Daniele Spini
Composizioni vocali con orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=mz1MZrn_8Xo&list=PLH2tnBZzETg6IFEu9-
lehMluJMagecCdl

8 1906 - 1907

Le faune et la bergère, suite di canzoni op. 2

https://www.youtube.com/watch?v=owcUDVu7omg

per mezzosoprano e orchestra


Testo: Aleksandr Puskin, tradotto in francese da A. Komarov

La pastorella - Andantino (si bemolle maggiore)


Il fauno - Moderato (do minore). Allegro moderato
Il torrente - Andante (si maggiore). Allegro

Organico: mezzosoprano, 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni,


basso tuba, timpani, percussioni, archi
Composizione: Imatra e Pietroburgo, 1906 - 1907
Prima esecuzione: San Pietroburgo, Teatro dell'Ermitage, 9 maggio 1907
Edizione: Beljaev, Lipsia, 1908
Dedica: alla moglie Ekaterina Nossenko

20 1911 - 1912

Le roi des étoiles

https://www.youtube.com/watch?v=t3_btxxTkm8

https://www.youtube.com/watch?v=6v3b2KiBw7k

Cantata per coro maschile e orchestra


Testo: Konstantin Bal'mont, tradotto in francese da Michel Dimitri Calvocoressi
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Roietoiles20.html

Largo assai (do maggiore)

Organico: coro maschile, 4 flauti, 4 oboi, 4 clarinetti, 4 fagotti, 8 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso
tuba, timpani, percussioni, celesta, 2 arpe, archi
Composizione: Ustilug, 1911 - 1912
Prima esecuzione: Bruxelles, Institut National Belge de Radiodiffusion, 19 aprile 1939
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1913
Dedica: Claude Debussy
Guida all'ascolto (nota 1)

Il re delle stelle ha una scarsa notorietà che deriva da obbiettive difficolta di esecuzione e da una
quasi volontaria segregazione in cui la cantata su versi di Balmont è stata tenuta dal suo autore fino
al dopoguerra.

Il re delle stelle risale al periodo precedente La sagra della, primavera; venne composto nel 1911 e
dedicato a Debussy (la copia in possesso del maestro francese andò dispersa nella vendita ad uno
sconosciuto, l'edizione Jurgenson del 1911 è rarissima, esistente la copia già in possesso
dell'autore): a parte presunte esecuzioni a Bruxelles, che avrebbero avuto luogo nel 1914 secondo
Milhaud e nel 1939 secondo Mantelli, l'ingresso della cantata nel repertorio si deve all'esecuzione
diretta da Robert Craft nel 1949 alla Carnegie Hall di New York e all'esecuzione dell'8 febbraio
1957 alla radio di Colonia. Strawinsky, nel 1935, affermava che Il re delle stelle non era mai stato
eseguito (Chroniques de ma vie).

Intorno al Re delle stelle, i commentatori hanno toccato il problema di una dialettica nella creatività
di Strawinsky: la cantata lascia trasparire inequivocabilmente lo «sfondo religioso dell'arte di
Strawinsky» (Vlad), e d'altro lato, ponendosi dialetticamente alla vigilia del Sacre, espose un
possibile incontro del compositore con Schönberg, rinviato di quarant'anni, al periodo delle opere
seriali.

Claudio Casini

Testo

I suoi occhi son come le stelle,


come i fuochi che arano il cielo.
Il suo volto è come il sole
quando giunge allo zenith.
I colori luminosi del cielo,
la porpora, l'azzurro, l'oro
marezzano di luce l'abito
che Egli indossa per rinascere fra noi.
Intorno a Lui balena la folgore
per il cielo sconvolto,
denso di temporali.
Sette cerchi di stelle lucenti
circondano il suo capo luminoso.
La sua luce batte le colline,
fa nascere i fiori di primavera.
«Custodite voi il Verbo?» ci chiese
e noi tutti rispondemmo. «Sempre».
«Io solo regno», disse Egli,
Il tuono si fece udire più forte.
«E' l'ora», disse Egli nella sua gloria,
«le messi attendono. Amen».
Noi andammo, fervidi e pii.
La folgore tagliava le nubi.
Sette cerchi di stelle lucenti
segnavano il cammino verso il deserto.

22a 1912 - 1913

Trois Lyriques japonaises

https://www.youtube.com/watch?v=QfWvz6H2So0

https://www.youtube.com/watch?v=AVrYIZ44Xh0

Versione per soprano e orchestra


Testo: testo russo di A. Brandta, traduzione in francese doi Maurice Delage

Akahito - Moderato
Composizione: Clarens, 16 - 29 dicembre 1912
Dedica: Maurice Delage
Mazatsumi - Vivo
Composizione: Clarens, 8 - 21 dicembre 1912
Dedica: Florent Schmitt
Tsaraïuki - Tranquillo
Composizione: Clarens, 9 - 22 gennaio 1913
Dedica: Maurice Ravel

Organico: soprano, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 violini, viola, violoncello, pianoforte


Prima esecuzione: Parigi, Salle Gaveau, 14 gennaio 1914
Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1913

23a 1929 - 1930

Tre Piccole canzoni (Ricordi della mia infanzia)

Versione per voce e orchestra


Testo: testi popolari russi, tradotti da Charles-Ferdinand Ramuz

La gazza - Ma non troppo


Composizione: 25 - 26 dicembre 1929
Dedica: Svjatoslav Soulima
Il corvo - Allegro
Composizione: 29 dicembre 1929
Dedica: alla figlia Ljudmila
La taccola - Festoyant
Composizione: 4 gennaio 1930
Dedica: al figlio Teodor
Organico: voce, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, archi (senza contrabbassi)
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1934
Vedi al n. 23 del 1913 la versione originale per voce e pianoforte

33a 1923

Tilimbom

https://www.youtube.com/watch?v=n7wQjS20kpA
Versione per voce e orchestra
Organico: voce, 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 corni, tromba, timpani, archi
Composizione: Biarritz, dicembre 1923
Edizione: J. & W. Chester, Londra, s.a.
Vedi al 33 n. 1 la versione originale per voce e pianoforte

60 1930

Sinfonia di salmi

https://www.youtube.com/watch?v=wQJ9jJQEIEA

https://www.youtube.com/watch?v=DqWZGUO_eoc

https://www.youtube.com/watch?v=iDFvfLaFb74

https://www.youtube.com/watch?v=ICK2OS4QLtQ

https://www.youtube.com/watch?v=_jsZWCqiK2I

https://www.youtube.com/watch?v=3LaUBcBTq3k

per coro e orchestra


Testo: Salmo XXXVIII, 13-14; Salmo XXXIX, 2-4; Salmo CL

Exaudi orationem meam - dal salmo XXXVIII, 13-14


Expectans expectavi Domine - dal salmo XXXIX, 2-4
Laudate Dominum - dal salmo CL
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Salmi.html#Testo

Organico: coro misto, 5 flauti (5 anche ottavino), 4 oboi, corno inglese, 3 fagotti, controfagotto, 4
corni, tromba piccola, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, 2 pianoforti, arpa,
violoncelli, contrabbassi
Composizione: gennaio - agosto 1930 (revisione 1948)
Prima esecuzione: Bruxelles, Palais des Beaux-Arts, 13 dicembre 1930
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi 1930
Dedica: Boston Symphony Orchestra
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La Symphonie de Psaumes (Sinfonia di salmi, 1930) di Stravinskij è, con l'Oedipus rex (1927), con
Apollon Musagète (1928) e con la poetica e misconosciuta Perséphone (1934, su un testo di Andre
Gide), uno dei capolavori, e per qualcuno il capolavoro, del suo periodo creativo chiamato
genericamente neoclassico (che si era iniziato con il balletto cantato Pulcinella, 1919, e che poi si
concluse con l'opera The Rake's Progress, 1951).

Parlando di Stravinskij il termine di "neoclassicità" serve a poco più che a una definizione di
comodo e cronologica (i lavori, appunto, del trentennio tra il 1919 e il 1951), non avendo mai la sua
musica maggiore nessuno dei manierismi dello stile mondano e internazionale neoclassico, né del
ricercatamente semplice né dell'impersonalmente costruttivo (pur avendo voluto egli essere il vero
musicista europeo cosmopolita dell'epoca e dettando legge come tale).

Dopo i grandi lavori ispirati al folklore russo e al suo fiabesco primitivismo e dopo la Prima Guerra
Mondiale, dalla Russia Stravinskij si trasferì in Europa e con onnivora, strabiliante genialità fece
propria, assimilandola, la cultura europea, la musica soprattutto, dopo averla osservata, e ammirata,
"dal di fuori", tutta insieme, facendo a meno di ogni criterio storico, di tutte le gerarchle
cronologiche: e così procedendo creò, con un'unica, istintiva diffidenza verso il romanticismo
tedesco. E tutto questo senza smarrire l'aristocratica raffinatezza del suo "oriente", né la austera
sensibilità, che aveva nell'intimo del carattere, per il sacro, nelle forme autenticamente religiose, o
mitiche, o rituali. Dunque, un linguaggio, che vuole e sa essere ecumenico e atemporale, cattolico
nel senso primo e vero, quindi greco e romano pagano, bizantino, latino-cristiano, rinascimentale, e
poi anche barocco, e infine razionale, ironico e novecentesco, secondo le figure assolute delle
epoche e senza la loro storia - un tale linguaggio, dunque, diffìcilmente può sembrarci espressione
di un'accademica classicità e esso certamente non ha in sé niente di "neo", - di manieristico, di
ripetuto. Anche perché, poi, con il potere che appartiene agli ingegni superiori e originali,
Stravinskij la sua tradizione, la sua "classicità" esemplare se le crea egli stesso volta per volta e
quindi la coerenza col passato è garantita, e l'ibrido stilistico, se mai capita, è secondario e
occasionale.

Dunque, la Symphonie de Psaumes (composta per un'occasione pubblica solenne, il cinquantenario


della Boston Symphony Orchestra) è un grande e serio lavoro, nato dal fervore religioso e
concepito «a la gioire de DIEU» (come è scritto nella partitura). La prima esecuzione a Boston,
diretta da Serge Koussevitsky il 19 dicembre 1930, fu preceduta per pochi giorni dall'esecuzione
europea, a Bruxelles, diretta da Ernest Ansermet (13 dicembre).

La parola "sinfonia" del titolo rinnova il termine antico e rinascimentale che valeva "unione
armonica di suoni e canti" e non rimanda in nessun modo all'idea del sinfonismo austro-tedesco.
Infatti nella composizione di Stravinskij è assente ogni proposito di organizzazione di temi musicali
e di sviluppo. Essa è quasi un grande polittico in tre pannelli, in cui la musica mira a una composta
immobilità liturgica, mira, dunque, alla spazialità sottraendosi al tempo e alla storia, secondo il
carattere intimo del genio del musicista, come ho detto.

I testi delle tre parti sono tratti dalla traduzione detta "vulgata" (in sostanza la traduzione della
Bibbia in latino fatta da San Girolamo) che un tempo era obbligatoria per la chiesa di Roma: e sono
i versetti 13 e 14 del Salmo 38 (39 nell'ebraico), i versetti 2, 3, 4 del Salmo 39 (40 nell'ebraico) e
tutto il breve Salmo 150, l'ultimo del salterio. Le tre parti sono, secondo quanto ha chiarito il
musicista (e anche quanto è evidente dall'estrema precisione espressiva della musica),
un'implorazione, un ringraziamento, un inno di adorazione.

Dopo una breve introduzione strumentale di segno asciutto e nervoso (oboi e fagotti, accordi
strappati di tutta l'orchestra in mi minore: il suono essenziale di un'inquietudine) il coro sostenuto
dagli oboi mormora la preghiera («Exaudi orationem meam...») su una cellula di due note vicine
(un intervallo di seconda minore): l'immagine incerta di una folla in una chiesa in penombra. Il tono
dell'invocazione si innalza fino a diventare un grido di grande efficacia nel ricordo di un esilio
perenne («Et peregrinus sicut patres mei»): si noti qui il potente effetto di angoscia e insieme di
immobilità, dovuto alla tecnica esotica dell'eterofonia (un unico, breve disegno musicale enunciato
da tutti gli strumenti in cellule sovrapposte e ritmicamente diverse).

Il secondo pannello è una "doppia fuga", di grande maestria contrappuntistica. Alla prima fuga solo
strumentale, in do minore, segue la seconda corale, sulle parole «Expectans expectavi Dominum et
intendit», in mi bemolle minore, che si sviluppa sulla prima fuga strumentale. Dopo l'esultanza
dell'attesa di un «canticum novum», in fortissimo, le voci si smorzano nell'espressione della
speranza (ammirevole l'eco in pianissimo dell'inizio della fuga, nei violoncelli e contrabbassi e con
una tromba acuta in sordina).

Il «canticum novum» s'inizia con l'Alleluja e si snoda dapprima nel forte contrasto tra una melodia
iniziale a disegno circolare (simbolo musicale di spazialità) e un brano di entusiasmo quasi
barbarico. Poi, attraverso una progressiva diminuzione degli intervalli nel canto che ascende (per
seste nei contralti e nei tenori e per gradi congiunti nei soprani e nei bassi), tutto si placa in una
breve, bellissima melodia, anch'essa a cerchio, o meglio a spirale, che si estingue in un accordo
luminoso e sereno di do maggiore.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Con i tre Cori liturgici [Pater noster (1926), Credo (1932) e Ave Maria (1934)], la piccola cantata
Babel (1944-45), la Messa (1948), la Sinfonia di Salmi, composta nel 1930 «à la gioire de Dieu» e
dedicata alla Boston Symphony Orchestra in occasione del cinquantenario della sua fondazione,
costituisce uno dei momenti più importanti e significativi della produzione sacra di Stravinsky: e
tale appare, in una valutazione complessiva dell'esperienza estetica del compositore, anche dopo le
recenti prove del Canticum Sacrum ad Honorem Sancti Marci Nominis, del 1955, e dei Threni, id
est Lamentationes Jeremiae Prophetae, del 1957-58.

L'opera consta di tre parti, da eseguirsi senza soluzione di continuità, basate rispettivamente sui
versetti 13 e 14 del XXXVIII salmo, sui versetti 2, 3 4 del XXXIX salmo e sull'intero salmo CL.
L'organico comprende, oltre a un coro a quattro parti (così come per la Messa, il compositore
consiglia di affidare le parti più acute a voci bianche, per ottenere un impasto più asciutto e secco,
privo della risonanza pastosa e morbida delle voci femminili), un'ampia sezione di fiati (4 flauti e
ottavini, 4 oboi e corno inglese, 3 fagotti e controfagotto, 4 corni, tromba piccola e 4 trombe, 3
tromboni e tuba); timpani e gran cassa; arpa e due pianoforti; degli archi vengono usati i soli
violoncelli e contrabbassi (viole e violini non vengono utilizzati per la stessa ragione per la quale
nella sezione dei fiati sono eliminati i clarinetti, i timbri cioè più evidentemente compromessi con
significazioni «profane» che Stravinsky ha sentito assolutamente estranee alla ispirazione
profondamente religiosa dell'opera).

La Sinfonia di Salmi (dove il termine «Sinfonia» è da intendere evidentemente nella sua accezione
etimologica, al di fuori da ogni riferimento alla forma classica) si apre con una drammatica pagina,
che dai toni sommessi di accorata preghiera si tende sino ad accenti di disperata invocazione
laddove il salmo fa riferimento alla condizione dell'uomo «advena et peregrinus» dinanzi al Dio
biblico, inflessibile ministro di giustizia.
Exaudi orationem meam, Domine,
Et deprecationem meam,
Auribus percipe lacrimas meas.
Ne sileas, quoniam advena ego sum apud te
Et peregrinus sicut omnes patres mei.
Remitte mihi ut refrigerer
Priusquam abeam et amplius non ero.

La seconda parte presenta una struttura di singolare complessità, degna di stare alla pari con i più
grandi monumenti del contrappunto barocco e classico: si tratta infatti di una mirabile doppia fuga
vocale e strumentale. Alla esposizione dei due soggetti, affidati nell'ordine agli strumenti e alle
voci, segue uno stretto della seconda fuga, che porta a un passo per coro a cappella; lo stretto della
prima fuga conclude il movimento. Sul piano espressivo l'episodio si pone come un fidente «atto di
speranza» nella misericordia divina.
Expectans expectavi Dominum, et intendit mihi
Et exaudivit preces meas
Et eduxit me de lacu miseriae et de luto faecis
Et statuit super petram pedes meos
Et direxit gressus meos
Et immisit in os meum canticum novum,
Carmen Deo nostro.
Vedebunt multi et timebunt
Et sperabunt in Domino.

Il terzo tempo corona la composizione con un «inno di gloria» che trascorre da accenti di
martellante e sferzante violenza ritmica e fonica a incantate pause meditative, nelle quali il discorso
musicale si atteggia a una sospesa e come disumana ieraticità.
Alleluja.
Laudate Dominum in sanctis ejus, Laudate eum in firmamento virtutis ejus; Laudate eum in
virtutibus ejus,
Laudate eum secundum multitudinem magnitudinis ejus.
Laudate eum in sono tubae.
Laudate eum in tympano et choro,
Laudate eum in chordis et organo.
Laudate eum in cymbalis benesonantibus,
Laudate eum in cymbalis iubilationis:
Omnis spiritus laudet Dominum. Alleluja.
Francesco Degrada

Testo
I
Exaudi orationem meam, Domine,
et deprecationem meam:
auribus percipe lacrymas meas.
Ne sileas, quoniam advena ego sum apud te,
et peregrinus, sicut omnes patres mei.
Remitte mihi, ut refrigerer priusquam abeam,
et amplius non ero.

Psalmus XXXVIII 13,14 (vulgata)


I
Ascolta la mia preghiera, Signore,
porgi l'orecchio al mio grido,
non essere sordo alle mie lacrime,
poiché io sono un forestiero,
uno straniero come tutti i miei padri.
Distogli il tuo sguardo, che io respiri,
prima che me ne vada e più non sia.
II
Expectans expectavi Dominum,
et intendit mihi.
Et exaudivit preces meas;
et eduxit me de lacu miseriae,
et de luto faecis.
Et statuit supra petram pedes meos;
et direxit gressus meos.
Et immisit in os meum canticum novum,
carmen Deo nostro.
Videbunt multi et timebunt;
et sperabunt in Domino.

Psalmus XXXIX 1-4 (vulgata)


II
Ho sperato: ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto dalla fossa della morte,
dal fango della palude;
i miei piedi ha stabilito sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
lode al nostro Dio.
Molti vedranno e avranno timore
e confideranno nel Signore.

III
Alleluja.
Laudate Dominum in sanctis eius,
Laudate eum in firmamento virtutis eius.
Laudate eum in virtutibus eius,
laudate eum secundum multitudinem magnitudini eius.
Laudate eum in sono tubae,
laudate eum in psalterio et cithara.
Laudate eum in tympano et chori,
laudate eum in chordis et organo.
Laudate eum in cymbalis bene sonantibus,
laudate eum in cymbalis jubilationis;
omnis spiritus laudet Dominum.
Alleluja.

Psalmus CL (vulgata)
III
Alleluja.
Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza.
Lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza.
Lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra.
Lodatelo con tìmpani e danza,
lodatelo sulle corde e sui flauti.
Lodatelo con cembali sonori,
lodatelo con cembali squillanti;
ogni vivente dia lode al Signore.
Alleluja.

(trad. da La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, EDB, 1990)

64 1933 - 1934

Perséphone

https://www.youtube.com/watch?v=Fa_qpv4PA64

https://www.youtube.com/watch?v=m9tZZzPGi6o

https://www.youtube.com/watch?v=gdZ2fKUKKsE

Melologo in tre scene


Libretto: André Gide
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Perephone64-testo.html

Il rapimento di Persefone
Persefone agli Inferi
Rinascita di Persefone

Organico: tenore, voce narrante femminile, coro misto, danzatori, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno
inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, contro fagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso
tuba, timpani, xilofono, grancassa, tamburo militare, 2 arpe, pianoforte, archi
Composizione: Voreppe, maggio 1933 - Parigi, 24 gennaio 1934 (revisione 1949)
Prima rappresentazione: Parigi, Opera, 30 aprile 1934
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1934

Guida all'ascolto (nota 1)

La genesi di Perséphone è tanto interessante quanto complessa. Interesse che viene dalla
collaborazione di tre grandi figure della cultura novecentesca quali Ida Rubinstein, ideatrice di
Perséphone, André Gide, autore del libretto, e Igor Stravinsky autore delle musiche; complessità
che deriva di per sé dalla struttura della forma drammatica da loro impiegata, il mélodrame, nonché
dall'interpretazione che essi ne diedero in questa occasione.

Nel 1933 la ballerina e coreografa Ida Rubinstein chiese a Stravinsky se era disposto a lavorare su
un testo di Gide ispirato all'Inno a Demetra di Omero, in quanto era sua intenzione proporre per la
stagione del '34 della sua compagnia, i Ballets de Ida Rubinstein, una novità al pubblico di Parigi.
Ida Rubinstein e Igor Stravinsky avevano già lavorato insieme, ed esattamente nel 1928 quando la
Rubinstein aveva commissionato al compositore un nuovo balletto per la sua compagnia, Le baiser
de la fée; il lavoro riuscì perfettamente denotando una convergenza di gusto nell'ambito del
cosiddetto neoclassicismo stravinskyano volto alla rilettura in chiave moderna di forme e stili sette-
ottocenteschi, nonché alla ricerca di un "armonico equilibrio" di matrice ellenica, come si era visto
nelle sue opere precedenti, quali Oedipux Rex, del 1927, Apollon musagète del 1928, ed il
Concerto per violino del 1931. Il testo che Ida Rubinstein voleva far musicare da Stravinsky era una
produzione di Gide precedente alla prima guerra mondiale e mai pubblicato; un poema di gusto
"parnassiano" ispirato all'inno omerico a Demetra, e nel quale Gide aveva operato un interessante
lavoro di cesello poetico sul verso francese, liberandolo dai vincoli della fissità metrica, e
donandogli quella naturale quanto raffinata (e non è un controsenso) classica semplicità che aveva
entusiasmato la Rubinstein. Nessun altro, secondo la coreografa russa, avrebbe potuto comprendere
meglio l'essenza dell'inno gidiano se non lo Stravinsky "neoclassico" del quale aveva tentato invano
nel 1928 di riallestire il balletto ellenistico Apollon musagète, impedita in questo suo progetto dal
fatto che l'esclusiva europea dei diritti era detenuta dall'intransigente "régisseur" dei "Ballets
Russes", Sergej Diaghilev (tra l'altro suo scopritore e primo impresario). L'adesione a tale corrente
estetica determinò senza dubbio la scelta dei due autori fatta da Ida Rubinstein, scelta però, a
guardar bene, ideologicamente non proprio così felice come poteva sembrare.

André Gide e Igor Stravinsky si conoscevano di vista sin dal 1910, ma solo dopo il Sacre du
printemps, come racconta Stravinsky (quindi tra il 1913 ed il 1914, altri dicono nel 1917) avevano
avuto modo di confrontare per la prima volta le rispettive visioni sul rapporto fra poesia e musica,
quando cioè Gide propose a Stravinsky di comporre le musiche di scena per la sua traduzione
dell'Antonio e Cleopatra di Shakespeare. Nella sezione dei "Mémoires" dedicata proprio a
Perséphone, Stravinsky ricorda l'incontro, ed anche la garbata incomprensione che l'uno provò nei
confronti del pensiero dell'altro; Gide riteneva necessaria l'adozione di un criterio storico-realistico
per la messa in scena e la realizzazione di un commento musicale adeguato e in consonanza con il
testo shakespeariano; Stravinsky affermava invece «che la rappresentazione avrebbe dovuto essere
recitata in abiti moderni [...] che saremmo stati più vicini a Shakespeare inventando qualcosa di
nuovo, sempre più vicini, in ogni modo, di quanto lo fosse lui stesso, da un punto di vista veristico,
ad Antonio e Cleopatra». L'orrore per il realismo inteso come verità, permeava il pensiero
stravinskyano, teso invece a dimostrare la crisi del soggetto (l'uomo) nella dissacrazione dei miti,
popolari o colti che fossero; una posizione incomprensibile per Gide, che non poteva certo
immaginare, come invece voleva Stravinsky, un Antonio nei panni di un «bersagliere italiano»
senza veder crollare con questo quell'aura di sacralità che per lui circondava e nutriva le opere ed i
personaggi di Shakespeare. Stravinsky ammirava il talento di Gide, ma non altrettanto le sue opere,
e probabilmente lo stesso si poteva dire di Gide nei confronti del musicista russo; si può dunque
supporre che il primo incontro a Wiesbaden nel 1933 fra Stravinsky e Gide per discutere su
Perséphone, pur essendo improntato al massimo rispetto reciproco, fosse permeato da una certa
diffidenza ideologica che, pur inizialmente fugata (come attestano le lettere che i due si
scambiarono in quel periodo), inevitabilmente, proprio nel corso della realizzazione di Perséphone,
si concretizzò in inevitabile incomprensione.

Si è inizialmente sottolineato lo specifico genere a cui appartiene Perséphone, e cioè il mélodrame,


e questo non a caso, poiché il punto focale del lavoro di Stravinsky e Gide fu la definizione delle
modalità di realizzazione di tale struttura drammaturgica e musicale suggerita loro dalla Rubinstein.
Il mélodrame non va assolutamente confuso con il melodramma italiano, in quanto indica un genere
proprio del teatro francese, e poi tedesco, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo; esso
consiste in una lettura o declamazione di un testo poetico o in prosa, alternata dall'esecuzione di
brani musicali in forma di commento, genere che in italiano viene definito con il termine melologo.
Fondamentale nel mélodrame è pertanto il rapporto fra testo e musica, in quanto vi deve essere una
comunione d'intenti fra poeta e musicista nel regolare forze e debolezze delle due arti sorelle, così
da rendere omogeneo il procedere dell'azione drammatica; e in parte così fu anche in Perséphone.
La pulizia estrema del verso di Gide si specchiava nella nitidezza delle armonie stravinskiane, e le
sonorità dell'orchestra, così come le tessiture delle linee melodiche di tenore e coro, si
amalgamavano con le passioni, gli slanci e le paure dominatrici dei personaggi creati da Gide per
narrare la storia della vergine Persefone. Ciononostante, quando Stravinsky suonò per la prima
volta la sua composizione dinanzi a Gide in casa di Ida Rubinstein, l'unico ed enigmatico
commento pronunciato dal francese fu «C'est curieux, c'est très curieux», seguito poi, come ricorda
sempre nei "Mémoires" Stravinsky, da una rapida e pressoché definitiva scomparsa di Gide che
abbandonò Perséphone al suo destino.

Probabilmente causa di tale commento e conseguente allontanamento di Gide, fu il trattamento


musicale riservato da Stravinsky ai suoi versi, anche in forza di un gusto che non corrispondeva a
quello del poeta francese. «Vi sono almeno due spiegazioni per l'avversione di Gide alla musica di
Perséphone - scrive Stravinsky nei "Mémoires" - l'una è che l'accentuazione musicale del testo
l'abbia sorpreso e gli sia dispiaciuta, quantunque l'avessi subito avvisato che avrei forzato,
accentuato e trattato il francese come avevo fatto con il russo [e cioè privilegiando la sonorità al
senso]. L'altra spiegazione è semplicemente dovuta al fatto che non poteva seguire il mio
linguaggio musicale». È un commento realistico, anche se venato di una certa ironia, quello che fa
Stravinsky a tanti anni di distanza, ed in fondo non si discosta molto in linea di principio da quello
che il compositore fece apparire a sua firma il 29 aprile ed il 1° maggio 1934 sulla rivista
"Excelsior", alla vigilia e all'indomani della prima all'Opera di Parigi; in essi il compositore
ribadiva l'importanza di una sillabazione musicale del verso poetico che non seguisse il senso
letterale e descrittivo del testo, bensì ricercasse un'autonoma, ed astratta essenzialità svincolata da
qualsivoglia intento realistico. La concezione stravinskiana senz'altro provocatoria e tesa ad una
poetica della distruzione nell'apparenza ordinata della "edificazione", fagocitò il testo gidiano
riplasmandolo e rendendolo estraneo all'estensore, il quale, dinanzi allo sconvolgimento della sua
creatura, alla lotta preferì un aristocratico distacco. Emblematica di tale atteggiamento fu, per
esempio, la dedica fatta da Gide a Stravinsky sul libretto dopo la prima, ed in cui scrisse «in
comunione»; la cosa lasciò perplesso Stravinsky, il quale gli rispose dicendo che l'unica cosa che
non vi era stata fra loro era proprio una comunione d'intenti.

Se tale situazione si mostrò in tutta la sua evidenza solo alla fine dell'opera, a giochi fatti ed a pochi
giorni dalla prima, un'altra questione di fondo era già apparsa precedentemente: il problema della
struttura della trama e la sua realizzazione scenica.

Nel riprendere il testo di Perséphone per la versione del 1934, Gide suddivise l'azione in tre scene,
Perséphone ravie, Perséphone aux enfers, Perséphone renaissante, immaginando una riproposizione
in questa tripartizione del ciclo delle stagioni nella cultura greca; l'ambiente naturale doveva fare da
sfondo alla vicenda, ed i personaggi, ridotti di numero rispetto a quelli della prima stesura,
dovevano avere una parte musicale. Rispetto poi all'inno omerico a Demetra che era stata la fonte
ispiratrice, Gide apportò una modifica fondamentale alla vicenda narrata da Omero, in quanto
Persefone, invece di essere rapita da Plutone, discendeva negli inferi di sua volontà, mossa dalla
pietà nei confronti delle disperate anime dell'Ade; una interpretazione questa che fornisce una
chiara chiave di lettura del complesso mito persefoneo secondo un'ottica cristiana che ne
rappresenta al contempo uno stravolgimento ed una modernizzazione. Queste scelte furono in parte
condivise ed in parte criticate; Stravinsky infatti propose a Gide di iniziare la vicenda nel periodo
dell'autunno facendo seguire immediatamente la discesa agli inferi di Persefone, così come il
regista e lo scenografo chiamati dalla Rubinstein suggerirono a Gide di ambientare in una cattedrale
la scena di Persefone nell'Ade. Inoltre, il fatto che vi fosse un'azione coreutica, imponeva di
considerare i movimenti sulla scena di ballerini, mimi e cantanti, il che provocò, per esempio, la
riduzione unicamente a ruolo danzato e non cantato di alcuni personaggi ideati da Gide, quali
Plutone e Mercurio, la cui presenza, senza la messa in scena, sfugge all'ascoltatore. Molte di queste
soluzioni vennero ritenute da Gide del tutto assurde, tant'è che lo scrittore francese decise di
interrompere il lavoro e si recò in "vacanza" in Sicilia per ben un mese quasi alla vigilia dell'inizio
delle prove dello spettacolo. Ad ogni modo, un'operazione sinestetica quale Perséphone reca con sé
difficoltà e incomprensioni legate alla complessità della creazione, e ci volle la caparbia tenacia di
Ida Rubinstein, nonché la prepotente graniticità ideologica di Stravinsky, per condurre in porto
un'operazione così complessa, ed in cui si scontravano concezioni estetiche apparentemente simili,
ma in fondo molto diverse tra loro.

La vicenda di Perséphone si snoda in tre scene: Perséphone ravie, Perséphone aux enfers,
Perséphone renaissante. I personaggi nell'esecuzione concertistica sono: Eumolpo, tenore, primo
sacerdote dei Misteri di Eleusi dedicati a Persefone, che nel melologo svolge il ruolo di narratore;
Persefone, a cui è affidato un testo da recitare, ed il coro, formato da un coro misto e da un coro di
fanciulli. Nella prima scena Eumolpo invoca Demetra, madre di Persefone, divinità che
sovraintende all'agricoltura e simboleggia la fertilità, ed inizia la rievocazione del mito del
rapimento della figlia, nucleo centrale degli antichi Misteri Eleusini. Le ninfe attorniano Persefone
in danze e canti, glorificando la bellezza e la fecondità della natura che s'incarna nel colore e nel
profumo di mille fiori; ecco che appare il narciso («di tutti i fiori della primavera / il narciso è il più
bello»), ma Eumolpo ammonisce le fanciulle: «Colui che si piega sul suo calice / colui che respira il
suo profumo, / vede il mondo sconosciuto degli Inferi». Persefone si china sul fiore, ed in esso
scorge «un popolo senza speranza, / triste, inquieto, senza colore» ed una grande pietà verso quelle
anime l'assale: «Ninfe, sorelle mie, dolci compagne / come potrei ancora ridere e cantare con voi
senza pensiero / ora che ho visto, ora che so / che un popolo dolente soffre e vive nell'attesa».

La seconda scena, che musicalmente è completamente collegata alla prima, presenta quella
variazione di trama che prima è stata sottolineata fra il testo di Gide e l'inno a Demetra di Omero.
Recita Persefone: «O popolo di ombre dolenti, tu mi chiami! / Verrò a te»; solo a quel punto, dice il
sacerdote Eumolpo, Plutone sorse dalla terra e prese con sé la figlia di Demetra. La scena ora si
svolge nell'Ade, ed al coro festante delle ninfe si sostituisce quello delle ombre degli Inferi che
cantano la loro tristezza. Persefone accetta il grave compito di regina di quei luoghi e cerca di
portare conforto alle anime raccontando loro delle bellezze della primavera e di sua madre Demetra.
L'arrivo di Plutone cambia l'atmosfera della scena dandole fosche tinte; Persefone è combattuta fra
il ricordo della madre, che nel narciso che ha con sé vede disperata alla sua ricerca su di una terra
spoglia e senza frutti, la tentazione di Mercurio che insieme alle Ore le fa gustare un melograno per
farla tornare sulla terra, ed i doni di Plutone che la vuole come sua sposa. Dinanzi alla disperazione
di Persefone, ecco Eumolpo vaticinare che un giorno ella tornerà alla luce del sole grazie a
Demofonte-Trittolemo, suo futuro sposo che Demetra ad Eleusi sta educando per ricondurre la
figlia perduta sulla terra facendo così ritornare la primavera.

La terza e conclusiva scena del mélodrame si svolge dinanzi ad un tempio dedicato a Demetra. La
gente porta offerte votive per far risorgere Persefone dall'Ade; Trittolemo toglie a Demetra il
mantello di lutto, e mentre cosparge la terra di fiori in attesa della sua sposa, ecco che le porte del
tempio si aprono e Persefone appare portando con sé la primavera. La gioia di Demetra, delle ninfe
e di tutti gli astanti è grande, ma Persefone sa che dovrà tornare negli inferi; felicità e melanconia si
fondono in questa apparizione, ma su di esse trionfa la serena pietà di colei che con il suo morire e
poi risorgere, regola ormai la vita della natura.

Il giudizio sulla musica di Stravinsky per Perséphone dato da Robert Craft, direttore d'orchestra e
biografo del compositore russo, fu senz'altro lusinghiero: «Perséphone trabocca di magnifiche
innovazioni orchestrali. Mai un numero così ridotto di note di pianoforte fu utilizzato con un tal
brio. Mai nessun compositore era riuscito a dare alla musica un tal rilievo tramite una
strumentazione individuale ed elegante ad ogni frase dell'opera. [...] Nel suo complesso l'opera - per
citarne il testo - è fresca come "il primo mattino del mondo"». Nell'impossibilità di seguire punto
dopo punto il percorso compositivo stravinskiano, occorre qui fare degli accenni ai momenti forse
maggiormente significativi dell'opera. Innanzitutto un colpo d'occhio generale sulla struttura
armonica di Perséphone ci indica la predilezione di Stravinsky per le tonalità maggiori rispetto a
quelle minori, nonché l'aver riservato quelle melanconiche in bemolle per accompagnare il
personaggio di Persefone. Il percorso armonico è dunque semplice e saldo ad immagine forse di
quell'arcaico tempio dorico che appare nella terza scena, e dalle cui porte serrate uscirà trionfante la
dea. Anche il trattamento che Stravinsky riserva per le linee melodiche del tenore-narratore
(Eumolpo) tende ad un'aulica semplicità; denominatore comune è infatti l'intervallo di quarta
discendente variamente suddiviso al suo interno, intervallo che non può, in una situazione come
quella descritta in Perséphone, non ricondurci al tetracordo, l'elemento costitutivo della musica
greca. Allo stesso modo il generale franamento omofonico e non contrappuntistico delle parti corali
s'inserisce nel quadro di una semplicità ricercata attraverso quelle finezze a cui faceva cenno Craft,
come per esempio, l'uso musicale di pause e soste nell'ambito della scrittura corale, grazie alle quali
Stravinsky rende il silenzio un elemento costitutivo del discorso melodico.

Interessante è l'eco delle Noces nel declamato di Eumolpo all'apertura della prima scena, così come
il primo coro dell'opera che ricorda le movenze dell'Apollon Musagète; due punti di riferimento
questi che ricorreranno più volte nella composizione stravinskyana, come nel recitativo secco di
Persefone "Où suis je?" nella seconda scena, o al termine di quello accompagnato "A travers les
Halliers", sempre in Perséphone aux enfers. Stravinsky inserì poi in Perséphone degli spunti tratti
da un suo lavoro mai ultimato, Dialogue between reason and Joy del 1917, per esempio nell'aria di
Eumolpo in mi bemolle minore "Pauvres ombres désésperées" nella seconda scena; sempre
riguardo il riutilizzo di materiale preesistente, il coro "Sur ce lit elle repose" riprende il tema di una
Berceuse composta da Stravinsky per l'amica parigina Vera de Bosset, un semplice ma espressivo
tema diatonico che trova facile collocazione nel tessuto melodico di Perséphone. Il diatonismo
scelto da Stravinsky come una delle caratteristiche della partitura è riscontrabile con evidenza nel
coro "Venez à nous, enfants des hommes" all'inizio della terza scena, in cui il modello stravinskiano
è senz'altro il canto popolare slavo, tant'è che egli stesso definì il coro una sorta di «musica
pasquale russa». Il senso della rinascita pagana ed al contempo cristiana, secondo l'interpretazione
data da Gide al mito omerico, viene dunque accentuato dalle scelte stravinskiane che sottolineano il
momento della risurrezione di Persefone grazie ad uno stilema melodico della chiesa ortodossa fuso
con il gusto, proprio della musica popolare slava, della struttura ritmica irregolare. Questo lungo
brano si arricchisce inoltre di uno spunto interessante, l'introduzione del coro di fanciulli alle parole
"L'ombre ancore t'envir orine", in un momento di pausa meditativa del testo e del discorso
musicale; l'idea di tale inserimento venne a Stravinsky nell'ascoltare nella chiesa di Saint-Louis-
des-Invalides l'esibizione di un coro di voci bianche di Amsterdam, coro che poi il compositore
volle scritturato per la prima di Perséphone del 1934.

Giancarlo Moretti

77 1944

Babel

https://www.youtube.com/watch?v=TFsGUeLiHig

https://www.youtube.com/watch?v=EbmFmWB3DNk

Cantata per voce recitante, coro maschile e orchestra


Testo: Genesi 11,1-9
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Babel77.html

Organico: voce narrante, coro maschile, 3 flauti, 2 oboi, 3 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3
tromboni, timpani, arpa, archi
Composizione: Hollywood, 12 aprile 1944
Prima esecuzione: Los Angeles, 18 novembre 1945
Edizione: Schott, Magonza, 1953

Guida all'ascolto (nota 1)

La scarsa notorietà di Babel deriva dal fatto d'essere nata, opera di piccole proporzioni, nell'ambito
quantitativamente scarso ma altamente significativo della produzione sacra strawinskiana.

Babel venne commissionata nel 1944 dal compositore e mecenate americano Nathanael Shilkret,
come parte di un'opera collettiva su testi del Genesi alla quale presero parte Schönberg (Prologo), lo
stesso Shilkret (Creazione), Tansman (Caduta dell'uomo), Milhaud (Caino e Abele), Castelnuovo
Tedesco (Diluvio), Bloch (Il messaggio): la prima esecuzione ebbe luogo a Los Angeles nell'ottobre
1946.

Claudio Casini

Testo

NARRATORE
E tutta la terra aveva una unica lingua e le stesse parole.
Ed avvenne che mentre migravano dall'Oriente, trovarono una pianura nel paese di Sennaar e vi si
stabilirono.
E dissero tra di loro: Su! Prepariamo dei mattoni e facciamoli cuocere. Così si servirono di mattoni
al posto delle pietre e di bitume al posto della malta.
E dissero: Costruiamoci una città e una torre la cui cima arrivi fino al cielo facendoci così un nome
perché altrimenti saremo dispersi sulla terra.
E discese il Signore per vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. E disse il
Signore:

CORO
Osserva, il popolo è uno, tutti han la stessa lingua. Questo cominciano a fare ed or nulla sarà lor
vietato di quel ch'essi immaginarono. Giù andìam e confondiam la loro lingua si che l'uno non
comprenda ciò che dice l'altro.

NARRATORE
E così il Signore lì disperse da lì sulla faccia della terra perché desistessero dal costruire la città.
Si chiama perciò Babele perché lì il Signore confuse la lingua di tutta la terra e disperse da lì gli
uomini su tutta la terra.

(Genesi - I Libro di Mose, Cap, 11, versi 1-9)

87 1944 - 1948

Messa

https://www.youtube.com/watch?v=oURb5h6pP4w
https://www.youtube.com/watch?v=vjn4-kal2ZI

https://www.youtube.com/watch?v=iRi_MDy_ks0

per coro e strumenti a fiato

Kyrie
Gloria
Credo
Sanctus
Benedictus
Agnus Dei

https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Messa87.html

Organico: coro misto, 2 oboi, corno inglese, 2 fagotti, 2 trombe, 3 tromboni


Composizione: 1944 (Kyrie e Gloria), 1947 - Hollywood, 15 marzo 1948
Prima esecuzione: Milano, Teatro alla Scala, 27 ottobre 1948
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1948

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Stravinsky aveva pensato di scrivere una Messa sin dal 1926, quando si era avvicinato di nuovo alla
Chiesa greco-ortodossa dalla quale era uscito prima ancora di terminare gli studi liceali. Ma questo
progetto si realizzò soltanto nel 1948, dopo aver composto tra il 1926 e il 1934 i Tre cori sacri e nel
1930 la Symphonie de Psaumes, considerata uno dei suoi capolavori non solo nel campo della
musica religiosa. Però la Messa, che è stata eseguita per la prima volta il 27 ottobre 1948 al teatro
alla Scala di Milano sotto la direzione di Ernest Ansermet, si richiama ai modi della liturgia della
Chiesa cattolica romana e la ragione l'ha spiegata lo stesso Stravinsky nel libro di ricordi del
musicista, curato da Robert Craft. «Perché ho composto una Messa cattolico-romana? - afferma
Stravinsky - Semplicemente perché volevo che la mia Messa fosse usata liturgicamente, il che era
francamente impossibile nella Chiesa russa, dal momento che la tradizione ortodossa bandisce
qualsiasi strumento musicale dai propri servizi religiosi, e dal momento che io posso sopportare il
canto senza accompagnamento solo nella musica armonicamente più primitiva. La mia Messa è
stata sinora usata piuttosto raramente nelle chiese cattoliche, ma ciò nonostante lo è stata.

La mia Messa - continua Stravinsky - fu sollecitata in parte dalla lettura di alcune messe di Mozart
che avevo trovato in un negozio di musica usata di Los Angeles nel 1942 o nel 1943. Appena mi
misi a suonare queste dolcezze peccaminose del periodo operistico rococò, seppi che avrei dovuto
scrivere una messa, una vera messa. Tra parentesi, sentii per la prima volta la Messa di Guillaume
de Machault un anno dopo che la mia era stata composta, per cui non fui influenzato nella mia
Messa da alcuna musica "antica", né fui guidato da alcun esempio».

Lo stile della Messa è sobrio e asciutto, improntato ad un primitivismo di gusto volutamente


medioevale, nel pieno rispetto dell'Ordinarium della messa cattolica. Le stesse dissonanze, tipiche
delle opere del periodo neo-classico dell'autore, non determinano toni drammatici e neutralizzano
qualsiasi tensione armonica, quasi a sottolineare maggiormente il carattere della composizione. Il
discorso corale è rigorosamente sillabico e di colore ascetico: i solisti di canto, secondo le
indicazioni della partitura stravinskiana sono esclusi e gli a solo sono affidati a singole voci che,
solo a tratti, emergono dall'anonimato della massa corale. Il coro è sorretto da uno scarno
complesso strumentale, formato da due oboi, corno inglese, due fagotti, due trombe e tre tromboni,
che producono sonorità arcaiche.

Il Kyrie si articola in una diecina di episodi corali, cantati in modo piano e tranquillo e
inframmezzati dall'accompagnamento degli strumenti. Nel Gloria due voci si distaccano dal coro
per intonare dei melismi, ai quali pochi lievissimi spostamenti degli accenti metrici e qualche lieve
inflessione delle curve melodiche servono ad imprimere un'atmosfera di giubilo. Il Credo
costituisce la base architettonica della Messa: la ieratica sillabazione corale viene sostenuta dal
grave incedere di misurati accordi che soltanto nella parte centrale acquistano un accento ritmico.
Un Amen non accompagnato conclude questo brano centrale della composizione. Il Sanctus si apre
con melismi fioriti di due tenori punteggiati da alleluiatici interventi del coro. Quindi quattro voci
sole svolgono una fuga sulle parole «plaeni sunt coeli». Il Benedictus è inserito tra l'Hosanna e la
sua ripresa finale che il coro intona in movimento più mosso. L'Agnus Dei poggia su tre episodi
corali a cappella introdotti e poi separati da un ritornello strumentale. La Messa si conclude in un
clima di decantata purificazione, massima indicazione espressiva dell'ultimo Stravinsky.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nel 1942 o '43 a Los Angeles Strawinsky trovò in un negozio di libri usati alcune Messe di Mozart:
Racconta lui stesso, spiritosamente compiaciuto: «Appena mi misi a suonare queste dolcezze
peccaminose del periodo operistico rococò, seppi che avrei dovuto scrivere una Messa, una Messa
vera però» (in I. Strawinsky e R. Craft, Colloqui con Strawinsky, trad. ital. Torino, Einaudi, 1977, p.
266). Noi non possiamo dire che cosa in realtà sia una 'Messa vera', certo è che questo
originalissimo lavoro di Strawinsky non è né operistico né, Dio liberi!, peccaminoso. Ed è 'vero'
forse nel senso che bene si adatta, per consistenza fonica e durata, ad accompagnare realmente il
servizio cattolico-romano: l'impressione, poi, sarebbe perfetta se il rito, nel nobile latino della
tradizione ecclesiastica, si svolgesse in una piccola chiesa romanica, intatta e rude. Austerità, infatti,
e pietrosa solidità dei suoni e del canto sillabato del coro sono i caratteri espressivi primari della
Messa. Nella partitura il titolo è in inglese, Mass, ma lo spirito di questa musica non potrebbe
essere più arcaicamente latino, quasi catacombale. L'architettura si fonda sul 'Credo' centrale, la
parte più estesa, e più scarna, a cui fanno da cornice, in prudente contrasto, il 'Kyrie' (si noti il breve
respiro nella ripetizione ascendente del 'Christe eleison'), la delicatezza pastorale del 'Gloria', e,
dopo, il 'Sanctus' (con un efficace disegno in ampliamento sonoro su 'Pieni sunt') e il breve, delicato
'Agnus Dei'.

Franco Serpa

Testo

KYRIE

Kyrie eleison.
Christe eleison.
Kyrie eleison.

GLORIA

Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis.


Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te.
Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam.
Domine Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens.
Domine, Fili Unigenite, Jesu Christe, Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris.
Qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Qui tollis peccata mundi, suscipe deprecationem nostram.
Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis.
Qoniam Tu solus sanctus, Tu solus altissimus, Tu solus Dominus.
Cum Sancto Spiritu, in gloria Dei Patris. Amen.

CREDO

Credo in unum Deum, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium; et in unum
Dominum Jesum Christum, Filium Dei Unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula, Deum
de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero, genitum, non factum, consubstantialem Patri,
per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis.
Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine et homo factus est. Crucifixus etiam prò nobis
sub Pontio Pilato, passus et sepultus est.
Et resurrexit tertia die, secundum scripturas, et ascendit in coelum, sedet ad dexteram Patris; et
iterum venturus est cum gloria, judicare vivos et mortuos, cujus regni non erit finis.
Credo in Spiritum Sanctum Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit, qui cum Patre
et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per Prophetas.
Confiteor unum baptisma, in remissionem peccatorum. Et expecto resurrectionem mortuorum, et
vitam venturi saeculi. Amen.

SANCTUS

Sanctus, Sanctus, Sanctus


Dominus Deus Sabaoth.
Pieni sunt coeli et terra gloria tua.
Osanna in excelsis Deo.

BENEDICTUS

Benedictus qui venit


in nomine Domini.
Osanna in excelsis Deo.

AGNUS DEI

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi,


miserere nobis.
Dona nobis pacem!

94 1955

Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis

https://www.youtube.com/watch?v=8nwgeeuefeY

https://www.youtube.com/watch?v=sbAUUvl-TY0

per tenore, baritono, coro e orchestra


Testo: latino

https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Marco94.html#Testo

Dedicatio
Euntes in mundum
Surge, aquilo
Ad Tres Virtutes Horationes
Caritas
Spes
Fides
Brevis Motus Cantilenae
"Illi autem profecti"

Organico: tenore, baritono, coro misto, flauto, 2 oboi, corno inglese, 2 fagotti, controfagotto, 4
trombe, 4 tromboni, organo, viole, contrabbassi
Composizione: 1955
Prima esecuzione: Venezia, Cattedrale di San Marco, 13 settembre 1956
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1956

Guida all'ascolto (nota 1)

Terminata, nel 1951, «La carriera di un libertino», Stravinsky pareva aver ribadito con decisione
una scelta non ritrattabile, affermando, esasperando, quasi, uno stile e un atteggiamento
compositivo, quello neoclassico, che approfondiva e rendeva agli occhi di molti invalicabile il
fossato che lo divideva dal radicalismo di Schönberg e dei suoi continuatori. Poteva sembrare
addirittura un rispondere, rincarando di molto la dose, al ritratto che pochissimo tempo prima ne
aveva tracciato Adorno, contrapponendo, nei due saggi simmetrici della «Filosofia della musica
moderna», «Schönberg e il progresso» a «Stravinsky e la restaurazione». E invece, immediatamente
dopo la conclusione dell'opera, ecco Stravinsky imboccare con una di quelle svolte stilistiche in
apparenza incoerenti ed inspiegabili, una via del tutto diversa, che nell'arco di sei soli anni, con una
gradualità tanto precisa da sembrar preordinata, l'avrebbe portato ad abbracciare la tecnica
dodecafonica, impiegata per la prima volta integralmente con «Threni», nel 1958. Già la «Cantata»
(1952) adotta in parte il principio della costruzione seriale, esteso integralmente nel «Settimino» e
negli «Shakespeare songs» subito successivi; la medesima tecnica è applicata ancor più
rigorosamente nel 1954 con «In Memoriam Dylan Thomas», dove la sovrapposizione delle diverse
serie arriva a coprire il totale dei dodici suoni. Prima di giungere all'adozione integrale della
dodecafonia si rendeva necessaria, a completare l'organicità di questo cammino, un'altra tappa,
quella dell'utilizzazione parziale di tale tecnica: e fu il «Canticum sacrum», frapposto al
completamento con sezioni dodecafoniche del balletto «Agon», già in parte steso in uno stile
definibile come «diatonico-modale» (Vlad).

Il significato della svolta dodecafonica di Stravinsky è a tutt'oggi ancora «sub judice»: e ci si chiede
se si è trattato di una conversione, dove gli omaggi tributati a Webern «pulitore di lucenti diamanti»
posson essere un modo disinvolto di sottrarsi ad una palinodia imposta dal «fallimento morale»
rappresentato (son parole di Rognoni) dalla «Carriera di un libertino»; se era invece una
conversione ambigua, quasi un «foris ut moribus, intus ut lubet», e via dicendo. Un'altra
interpretazione, più tranquillamente, può guardare alla svolta dodecafonica di Stravinsky
inquadrandola nella storia della dodecafonia stessa; e constatare il fatto che tale svolta si è
verificata, in fondo, quando la dodecafonia era divenuta, se non certo un fatto storicamente
concluso e superato, altrettanto certamente un qualcosa di assimilato alla cultura musicale
mondiale, almeno nelle sue fasce più evolute. Essa dunque si proponeva a uno Stravinsky negli
stessi termini, o quasi, in cui gli si erano proposti altri stili ed altre tecniche: uscito dalla sua fase
«barbara», quella grosso modo della «Sagra», Stravinsky si era impossessato della cultura musicale
occidentale, assimilandola e ricreandola, lasciandoci sopra l'impronta della propria personalità
originale, ma anche con la coscienza di una diversità storica che gli impediva il ricalco, lasciandogli
solo la strada della «parodia». E quanto aveva fatto alle prese col Settecento di Pergolesi poteva
fare anche con la dodecafonia di Schönberg; se questa gli pareva magari troppo legata ad una lunga
storia di inevitabile rivalità e di insanabile contrasto, poteva comunque sempre trovare un terreno
più neutro nell'arte, meno satura di ideologia, di un Webern, e il gioco era fatto.

Un'analisi di questo tipo può esser fatta valere anche per le tre sezioni dodecafoniche del
«Canticum sacrum». Roman Vlad, che dell'opera di Stravinsky è uno dei più accurati ed acuti
commentatori, non ha mancato di rilevare quello che del «Canticum Sacrum» è uno degli aspetti
più vistosi; vale a dire l'estrema complessità e varietà dei motivi stilistici che vi convivono,
talmente numerosi e diffusi da parer citazioni, riferite a «tutto l'arco della storia musicale europea».
Le ha puntualmente identificate ed enumerate, anche: «Dalla melopea gregoriana alla scrittura
weberniana ad amplissimi intervalli; dai procedimenti medievali dell''organum' e del falso bordone
alla strutturazione seriale; dalla modalità bizantina, alla polimodalità, alla politonalità, all'atonalità;
dall'arcaico diatonicismo, al moderno polidiatonicismo, al cromatismo integrale; da frasi che
ricordano l'antico effetto del 'hochetus', da inflessioni che riportano alla rinascimentale scuola
veneziana alle tese curve dodecafoniche; dalla barocca compattezza di volumi armonici al
puntilismo contrappuntistico delle più recenti avanguardie; dalla compagine strumentale di antico
stampo veneziano a disposizioni strumentali che testimoniano dell'esperienza delle variazioni per
orchestra di Webern: l'orizzonte formale dell'opera spazia da uno all'altro di questi elementi ed
aspetti».

E si può, indubbiamente, sostenere con Vlad che la sintesi di tale coacervo stilistico avvenga sotto il
segno della dodecafonia, «la quale, una volta di più, dimostra la sua essenziale virtù unificatrice».
Ma si può altrettanto legittimamente avanzare l'ipotesi che sia proprio la dodecafonia, al pari degli
stilemi rinascimentali e medievali e barocchi a porsi sotto il segno unificatore del «modus
operandi» di Stravinsky; a subire la manipolazione a l'appropriazione abituali ad un musicista che
ha sempre preferito al fare dell'avanguardia nel senso normale del termine il trasformare, col
proprio apporto originale, delle tecniche e degli stili ufficialmente adibiti a far cultura. Basterebbe,
a questo proposito, la semplice analisi delle serie fondamentali impiegate nel «Canticum», con
l'insopprimibile diatonismo della loro intervallica, a chiarire quanto si voleva affermare.

Composto nel 1955, il «Canticum Sacrum ad Honorem Sancti Marci Nominis», coerentemente alla
dedica a Venezia e al suo santo patrono, ebbe la sua prima esecuzione in S. Marco il 13 settembre
1956, nell'ambito del diciannovesimo festival di musica contemporanea. Esso prevede l'impiego di
due solisti di canto (tenore e baritono), coro misto, e di un organico orchestrale abbastanza
anomalo: flauto, due oboi e corno inglese, due fagotti e controfagotto, quattro trombe, quattro
tromboni, arpa, organo, viole e contrabbassi.

La scelta dei testi (tratti dalla Vulgata) e la loro trasposizione musicale concorrono a creare una
struttura architettonicamente saldissima: le cinque sezioni che fanno seguito alla «dedicatio»
intonata dai due solisti accompagnati da tre tromboni stanno fra di loro, nota Robert Craft, come le
cinque cupole di S. Marco, delle quali «la centrale è la maggiore, mentre le altre rispondono ad un
equilibrio rispettivo». Il gioco dei rimandi fra l'una e l'altra parte è quanto mai complesso e sottile, e
si estende allo stesso significato teologico dei testi con precisa rispondenza sul piano musicale. Tre
sezioni (la seconda, la terza e la quarta) sono dodecafoniche; la prima e l'ultima non ricorrono a tale
tecnica, ma ne sfruttano uno degli artifici più caratteristici, essendo l'una il retrogrado dell'altra
(ossia, se si legge la prima tornando dalla fine verso il principio, si ha l'esatta stesura musicale della
seconda). La giustificazione di tale simmetria è data dal rapporto reciproco dei testi, oltre che da
un'esigenza costruttiva fortissimamente sentita: se la prima sezione del «Canticum», «Euntes in
mundum», riprende dal Vangelo secondo Matteo il comandamento della predicazione, l'ultima, «Illi
autem profecti», ne rappresenta l'attuazione secondo il racconto di Marco. La seconda e la quarta
sezione si corrispondono soprattutto sul piano musicale, dedicate come sono rispettivamente agli
assoli del tenore («Surge aquilo») e del baritono («Brevi motus canti lena» sulle parole «Jesus
autem» dal Vangelo di Marco) affiancato al coro. La sezione centrale è la più imponente, sia per il
peso sonoro, che si affida all'intero organico strumentale e vocale, che per la struttura, a sua volta
divisa in tre parti intitolate alle tre virtù teologali.

La robusta scrittura corale e orchestrale di «Euntes in mundum» viene interrotta due volte da brevi
interludi sostenuti da organo e fagotti. Si crea cosi all'interno di questo brano una struttura ternaria
(le parti cantate dal coro) inquadrata in una quinaria (quelle più gli interludi); fin dall'inizio si
avverte un continuo incastro di forme, una costruzione di simmetrie puntualmente sottolineata dalla
strumentazione, ohe si articola in formazioni spesso contrapposte. «Surge aquilo» vede il tenore
dipanare la sua serie di dodici suoni nelle varie forme su uno scarno contrappunto di flauto, corno
inglese e arpa, e qualche sporadico intervento di tre contrabbassi. La terza sezione, «Ad Tres
Virtutes hortationes» si distende come una piccola cantata in tre parti, aperta da poche battute
dell'organo: «Charitas» e «Fides» sono canoni corali; «Spes», che si pone al centro di questa terza
parte come di tutto il «Canticum Sacrum», è invece un episodio antifonale diviso fra i due solisti e
soprani e contralti del coro. Le tre «Virtutes» sono collegate l'una all'altra dalla ripresa
dell'introduzione, ancora affidata all'organo; la conclusione spetta invece alle viole e ai contrabbassi
che ricapitolano la serie originaria di questa sezione. Il quarto episodio segna forse il momento più
importante del «Canticum Sacrum»: il dialogo del baritono col coro si increspa quasi
drammaticamente sulle parole dell'incredulità, fino a calmarsi su un «Credo» ripetuto più volte. La
scrittura dodecafonica è anche qui rigorosa, e consegue una densità melodica e polifonica carica di
tensione espressiva. La sezione finale è, si è detto, il retrogrado della prima: il materiale musicale è
pressoché lo stesso anche quanto a strumentazione: muta invece la dinamica. La conclusione giunge
smorzata, su accordi affidati a blocchi contrapposti di voci e strumenti.

Daniele Spini

Testo

DEDICATIO
Urbi Venetiae, in laude Sancti sui Presidìs, Beati Marci Apostoli.

I
Euntes in mundum universum, praedicate evangelium omni creaturae.
(Vulgata, Evang. secundum Marcum, XVI.7)

II
Surge, aquilo; et veni, auster; perfla hortum meum, et fluant aromata illius.
Veniat dilectus meus in hortum suum, et comedat fructum pomorum suorum.
Veni in hortum meum, soror mea, sponsa; messui mhyrrham meam cum aromatibus meis; comedi
favum meum cum melle meo; bibi vinum meum cum lacte meo.
Comedite, amici, et bibite; et inebriamini, carissimi.
(Vulg., Canticum Canticorum, IV, 16, V)

III
Charitas
Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex tota fortitudina tua.
(Vulg., Deuter., VI, 5)
Diligamus nos invicem, quia charitas ex Deo est; et omnis qui diligit ex Deo natus est, et cognoscit
Deum.
(Vulg., Prima Epistola Beati Joannis Apostoli, IV, 7)
Spes
Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion; non com-movebitur in aeternum, qui habitat in
Jerusalem.
Sustinuit anima mea in verbo ejus; speravit anima mea in Domino, a custodia matutina usque ad
noctem.
(Vulg., Libr. Psalm., CXXV, I. CXXIX, 4-5 CXXIV, I)
Fides
Credidi, propter quod locutus sum; ego autem humiliatus sum nimis.
(Vulg., Libr. Psalm., CXV, 10)

IV
Jesus autem ait illi: Si potes credere, omnia possibilia sunt credenti. Et continuo exclamans pater
pueri, cum lacrimis aiebat: Credo, Domine; adjuva incredulitatem meam.
(Vulg., Ev. secundum Marcum, IX, 22-23)

V
Mie autem profecti praedicaverunt ubique, Domino cooperante et sermonem confirmante,
sequentibus signis.
Amen.
(Vulg., Ev. secundum Marcum, XVI, 20)

96 1957 - 1958

Threni: id est Lamentationes Jeremiae prophetae

https://www.youtube.com/watch?v=8pj1WeJWE-8

https://www.youtube.com/watch?v=_RpOOgOeab0

per soli, coro, e orchestra


Testo: latino dal Libro delle lamentazioni
https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Threni96-testo.html

De Elegia Prima
De Elegia Tertia:
Querimonia
Sensus Spei
Solacium
De Elegia Quinta

Organico: soprano, contralto, 2 tenori, 2 bassi, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2
clarinetti, clarinetto basso, sarrusophone, 4 corni, bugle, 3 tromboni, basso tuba, flicorno, tam-tam,
arpa, celesta, pianoforte, archi
Composizione: 1957 - Venezia, 21 marzo 1958
Prima esecuzione: Venezia, Sala della Scuola Grande di S. Rocco, 23 settembre 1958
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1958
Dedica: Norddeutscher Rundfunk, Amburgo

Guida all'ascolto (nota 1)

I THRENI, id est LAMENTATIONES JEREMIAE PROPHETAE, concepiti come un nuovo


«Ufficio delle tenebre», furono composti fra l'estate del 1957 e la primavera del 1958. La prima
esecuzione ebbe luogo nel settembre dello stesso anno, al Festival di Venezia e fu dedicata alla
memoria di Alessandro Piovesan, che per molti anni del Festival Veneziano era stato l'infaticabile
animatore.

Anche questo lavoro continua quell'atteggiamento di ascetica rinuncia che il compositore persegue
da alcuni anni, nonché l'adozione del metodo di composizione dodecafonico-seriale (in questo
lavoro assoluta e rigorosa). Vale a dire che il lavoro è tutto costruito sopra una sola serie di dodici
suoni, i quali vengono sottoposti al consueto lavoro di inversione, di riflessione a specchio, di
retroversione ecc.: con (nell'ultima parte) alcune lievi e controllatissime «licenze» le quali
permettono al compositore di evadere per qualche momento dallo schema originale della «serie».
L'insieme vocale è costituito dai sei solisti (Soprano, Contralto, Tenore I e II, Basso I e II) e da un
nutrito coro misto. L'organico strumentale elimina i fagotti e le trombe, e richiama in servizio il
clarinetto contralto, il bugle (flicorno in si bemolle) e il sarrusofono; oltre a questi, due flauti, due
oboi, il corno inglese, due clarinetti e il clarinetto basso, quattro corni, tre tromboni, tuba,
pianoforte, arpa, celesta, tam-tam, timpani, violini I e II, viole, violoncelli e contrabassi. Un insieme
al quale Strawinski non ricorreva più da molto tempo. Però questa orchestra numerosa non è
impiegata per raggiungere sonorità possenti o aggressive come nei lavori giovanili. Il musicista
impiega questi strumenti negli impasti più svariati per ottenere una grande varietà di zone
timbriche, omogenee o contrastanti, ma in tutta la partitura si trova una sola indicazione di ff.
L'insieme è usato con grande sobrietà, quasi con un criterio di ocorchestra da camera».

Delle cinque Elegie in cui si dividono le Lamentazioni di Geremia, Strawinski ha scelto frammenti
della prima, della terza e della quinta, nella versione latina della Vulgata, ed ha creato una
composizione che si avvicina ai procedimenti di un rituale, intenzione confermata anche
dall'architettura generale del lavoro fondata su una implacabile chiarezza di simmetrie e di richiami.
Delle tre Elegie di cui si compone il lavoro, la prima è costituita da cinque «episodi»: il primo, il
terzo e il quinto presentano tutti l'identica struttura - dopo l'enunciazione del versetto, fatta dal coro
parlato, la strofa viene ripresa dal tenore in una specie di «discanto» col flicorno sopra il fondo del
coro che dal «parlato» è passato a una sorta di «sillabazione» intonata. Una Diphona (cioè un
«contrappunto» di due tenori soli) costisce il secondo e il quarto episodio. La seconda Elegia si
divide in tre parti: Querimonia, Sensus spei e Solacium. La prima e la terza parte sono costituite da
dodici versetti, trattati a tre per volta con un criterio quasi aritmetico di crescente complessità
contrappuntistica; la seconda parte, Sensus spei (dove si esprimono sentimenti di speranza) è di
dimensioni più vaste: esattamente il doppio. Coro e solisti si alternano nel canto dei versetti «su una
serie di triplici pedali su dodici note diverse, riproducenti una delle forme della fondamentale
costellazione dodecafonica» (Vlad). Nell'ultima Elegia il testo non presenta suddivisioni; i due
bassi cantano a guisa d'introduzione il titolo: Oratio Jeremias Prophetae: il primo e il secondo
gruppo di versetti - il testo è suddiviso fra il coro parlato sottovoce e il canto dei solisti - sono
preceduti da un inciso strumentale. Poi tutte le voci si uniscono per cantare, accompagnate dai
corni, le ultime parole che concludono il lavoro nel tono di una sommessa preghiera.

Domenico De Paoli

100 1960 - 1961

A sermon, a narrative and a prayer

https://www.youtube.com/watch?v=d6enhkUhaeg

https://www.youtube.com/watch?v=0qW0Nlr-xhw

https://www.youtube.com/watch?v=u1TZAfKAs28

Cantata per soli, voce narrante, coro e orchestra

A Sermon: We are saved by hope


Testo: dalle Epistole di San Paolo
A Narrative: Then the twelve called the multitude unto them
Testo: dagli Atti degli Apostoli
A Prayer: Oh my God
Testo: Thomas Dekker

Organico: contralto, tenore, coro misto, voce narrante, 2 flauti. 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni,
3 trombe, 2 tromboni, basso tuba, 3 tam-tam, pianoforte, arpa, archi
Composizione: 1960 - Hollywood, 31 gennaio 1961
Prima esecuzione: Basilea, Stadttheater, 23 febbraio 1962
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1961
Dedica: Paul Sacher

103 1962 - 1963

Abraham and Isaac

https://www.youtube.com/watch?v=jfDsVi1RM5Y

https://www.youtube.com/watch?v=aKx6BaS6b9Y

https://www.youtube.com/watch?v=ErqX04oR9as

Ballata sacra per baritono e orchestra


https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Abramo.html#Testo

Organico: baritono, 2 flauti, flauto contralto, oboe, corno inglese, clarinetto, clarinetto basso, 2
fagotti, corno, 2 trombe, 2 tromboni, basso tuba, archi
Composizione: 1962 - 3 marzo 1963
Prima esecuzione: Gerusalemme, He'Ooma, 23 agosto 1964
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1965
Dedica: Stato d'Israele

Guida all'ascolto (nota 1)

Abramo e Isacco è una ballata sacra per baritono e piccola orchestra composta sul testo ebraico
della Genesi, capitolo XXII. E' stata eseguita a Israele (Gerusalemme, 23 agosto 1964, e Cesarea) e
successivamente al Festival di Berlino.

Riportiamo le dichiarazioni rese da Strawinsky. «In Abramo e Isacco vi sono cinque parti
contrassegnate da cambiamenti di tempo ed eseguite senza interruzioni; e 19 versetti comprendenti
dieci unità musicali. Sebbene nella Bibbia i versetti siano in forma dialogata, la mia composizione
non personifica i protagonisti, ma racconta l'intera storia per mezzo del baritono-narratore,
sottolineando i cambiamenti del personaggio con cambiamenti nella dinamica.

Non si dovrebbe mai cercare di tradurre l'ebraico dal momento che le sillabe, per accenti e timbro,
sono un elemento esattamente fissato ed essenziale della musica. L'accentazione verbale e musicale
è identica, incidentalmente, che è cosa rara nella mia musica. E sebbene vi siano delle ripetizioni di
parole, queste non sono mai accompagnate da esatte ripetizioni musicali. "Abramo", la parola
ripetuta più di frequente, è cantata per la prima volta senza strumenti. La linea vocale è in parte bel
canto-melismatico ed in parte un canto sillabico.

Non auguro all'ascoltatore di scoprire descrizioni musicali od illustrazioni del testo. Che io sappia
non ne sono state composte. Ignoro i simbolismi musicali nel mio uso di canoni o mezzi ritmici
"espressivi", e chiunque pretende di sentirli, per esempio, nel passo che tratta di Isacco e dei due
ragazzi, tiene troppo conto di quello che per me non potrebbe essere più che una coincidenza.

E' usata una serie di 12 note, ma unità esacordali ed unità minori sono più accentuate delle
successioni di note complete. Si possono trovare intervalli di ottave, quinte e raddoppi che non sono
in contraddizione con la base seriale della composizione, essendo il risultato di concordanze di
diverse forme seriali o quello che io chiamo serie verticali. Delle diverse origini di ogni opera
probabilmente la più importante non può essere determinata. Posso dire, tuttavia, che ho cominciato
a comporre Abramo e Isacco a causa del fascino della lingua ebraica come suono, a causa del
soggetto e, non ultimo, perché volevo lasciare un segno della mia gratitudine al popolo d'Israele, al
quale è dedicata la musica, per la sua generosità ed ospitalità durante il mio viaggio nel paese nel
1962 ».

Come è stato scritto, con Abramo e Isacco Strawinsky ha quadrato il circolo in quanto l'antico canto
ebraico, che qui ha fortemente suggestionato il compositore, a sua volta esercitò grande influenza in
tutta la musica popolare dell'Europa orientale e dunque nello stesso stile melodico dello Strawinsky
«russo» di Nozze, dei Pribautki, delle Berceuses, ecc.

Nell'orchestra sono rappresentati quasi tutti gli strumenti; manca l'arpa e la percussione, è presente
la tuba. La voce procede quasi sempre insieme a pochissimi strumenti, in coppie «pure» (oboe e
corno ingl.; 2 fagotti; ecc.) o «a contrasto » (flauto e tuba, ecc.); altre volte, come all'inizio e alla
fine della ballata, è un solo strumento, la viola, che rabesca o incide sulla linea del canto.

Giorgio Graziosi

Testo

Dopo questi fatti, Dio mise alla prova Abramo, lo chiamô: «Abramo!». Ed egli rispose: «Eccomi
qui». Gli disse: «Prendi il tuo amato unico figlio, Isacco, va alla terra di Moryia e là offrilo in
olocausto su uno dei monti che ti dirò».

Al mattino presto, Abramo mise il basto all'asino, prese con sé due schiavi e suo figlio Isacco,
spaccò della legna per l'olocausto e partì per recarsi al luogo che Dio gli aveva detto. Al terzo
giorno, alzati gli occhi, vide in lontananza quel luogo. Disse Abramo ai suoi schiavi: «Voi rimanete
qui con l'asino mentre io e il ragazzo andremo fin là, faremo atto di adorazione a Dio e poi
torneremo da voi». Prese la legna per l'olocausto e la caricò addosso a suo figlio Isacco, egli stesso
tenne il fuoco e il coltello e insieme proseguirono il cammino. Isacco, rivolto al padre disse:
«Padre!», ed egli: «Eccomi qua, figlio mio». E disse: « Qui c'è il fuoco e la legna, ma l'agnello per
l'olocausto dov'è?». Rispose Abramo: «Figlio mio, Dio provvederà l'agnello per l'olocausto». E
proseguirono tutti e due insieme il cammino. Giunto al luogo che Dio gli aveva detto, Abramo vi
costruì un altare, preparò la legna, legò il figlio Isacco e lo mise sull'altare sopra la legna. Un messo
divino dal cielo lo chiamò: «Abramo, Abramo!». Egli rispose: «Sono qui». E quegli: «Non mettere
la mano addosso al ragazzo, non fargli niente, perché ora so che tu hai timor di Dio, non mi hai
negato il tuo unico figlio. Abramo alzò gli occhi e scorse un montone che rimase poi impigliato con
le corna ad un cespuglio; andò, lo prese e lo offrì in olocausto invece del proprio figlio. Abramo
dette nome a quel luogo Adonai Irè, il Signore Provvede, perciò oggi si dice: nel monte del Signore
c'è chi provvede. Il messo del Signore chiamò dal cielo Abramo una seconda volta e gli disse:
«Giuro per Me stesso, parola del Signore, che essendoti così comportato e non avendomi negato il
tuo unico figlio, ti benedirò, renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e come la
sabbia che è sulla riva del mare; i tuoi discendenti possederanno le città dei loro nemici e nella tua
stirpe saranno benedette tutte le nazioni della terra poiché hai ascoltato la mia parola». Abramo
tornò dai suoi servi insieme con i quali si recò in Beer-Sceva, dove si stabilì.

108 1965 - 1966


Requiem canticles

https://www.youtube.com/watch?v=UAsLaf-7Of4

https://www.youtube.com/watch?v=2TCAY-Fg3SU

https://www.youtube.com/watch?v=mApPmE2Kvec

per contralto, basso, coro e orchestra


Testo: dalla Missa pro Defunctis

Prelude
Exaudi
Dies Irae
Tuba Mirum
Interlude
Rex Tremendae
Lacrimosa
Libera me
Postlude

Organico: contralto, basso, coro misto, 3 flauti (3 anche ottavino), flauto contralto, 2 fagotti, 4
corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, campane tubolari, vibrafono, xilofono, arpa, celesta,
pianoforte, archi
Composizione: 1965 - Hollywood, 13 agosto 1966
Prima esecuzione: Princeton University, 8 ottobre 1966
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1967
Dedica: Helen Buchanan-Seeger

Composizioni vocali con strumenti

10 1907

Pastorale
https://www.youtube.com/watch?v=S7lIwVyQIrc

Romanza senza parole per soprano e pianoforte

Larghetto (fa diesis maggiore)

Organico: soprano, pianoforte


Composizione: Ustilug, 1907
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1910
Dedica: Nadejda Rimskaja-Korsakov

Guida all'ascolto (nota 1)

Scritta immediatamente dopo lo Scherzo fantastico, la Pastorale fu l'ultimo pezzo di Strawinski che
conobbe Rimski-Korsakov. E' una pagina molto semplice, di una squisita freschezza. E quale
differenza nella realizzazione di questa composizione rispetto alle prime!

Una voce di soprano modula una melodia senza parole, un vocalizzo che sarà arricchito, dal punto
di vista espressivo, dall'armonia e da un contrappunto di carattere agreste che non cessa di dialogare
con essa nel modo più vivo e delicato.

I due canti sono condotti da una linea melodica che sembra imitare il suono di una cornamusa,
mentre il fondamento tonale si fa sentire come un pedale ostinato; il loro procedere è stabilito in
modo da insistere sulle note più sensibili dell'armonia, ritardando maliziosamente le soluzioni
desiderate, senza tuttavia ingannarci con ambigue conclusioni. Ne risultano. contemporaneamente
due effetti in apparenza contraddittori: la melodia si culla semplicemente, indifferente, come se
fosse disinteressata a ciò che dice. L'armonia, al contrario, si tende come una molla. La
combinazione di questi due effetti è sorprendente; ogni volta che si ascolta la Pastorale si ha
l'impressione di gustare del ghiaccio deliziosamente aromatizzato.

Paul Collaer

10a 1923

Pastorale

https://www.youtube.com/watch?v=n1Bh1d70d3E

https://www.youtube.com/watch?v=UKm_0E2ZHzM

Romanza senza parole - Versione per soprano e orchestra

Larghetto (fa diesis maggiore)

Organico: soprano, oboe, corno, inglese, clarinetto, fagotto


Composizione: Biarritz, dicembre 1923
Edizione: Schott, Magonza, 1924
11 1907 - 1908

Deux melodies op. 6


per mezzosoprano e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=rHUwriAhyoA

11 n. 1 1908

1. La primavera
per mezzosoprano e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=L1ZBWzFwUzI

Testo: Sergej Gorodetskij

La primavera (La novizia) - Allegro alla breve

Organico: mezzosoprano, pianoforte


Composizione: Ustilug, dicembre 1907
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1911
Dedica: Lizaveta Teodorovna Petrenko

11 n. 2 1907 - 1908

2. La santa rugiada

https://www.youtube.com/watch?v=h2qnrlAL83w

Canto mistico dei vecchi credenti russi flagellanti per mezzosoprano e pianoforte
Testo: Sergej Gorodetskij

La santa rugiada (Canto mistico dei vecchi credenti russi flagellanti) - Larghetto

Organico: mezzosoprano, pianoforte


Composizione: Ustilug, 1908
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1911
Dedica: Sergej Gorodetskij

17 1910

Deux Poèmes de Paul Verlaine op. 9

https://www.youtube.com/watch?v=wmNftxKTmsc
https://www.youtube.com/watch?v=G-zn_VR_pp0

per baritono e pianoforte - Prima versione

Testo: Paul Verlaine

Sagesse - Largo assai


La bonne chanson - Tranquillo assai

Organico: baritono, pianoforte


Composizione: La Baule, luglio 1910
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1911
Dedica: al fratello Gurij

Testi (nota 1)

SAGESSE

Un grand sommeil noir


Tombe sur ma vie:
Dormez, tout espoir,
Dormez tout envie!
Je ne vois plus rien,
Je perds la mémoire,
Du mal et du bien...
O la triste histoire!
Je suis un berceau...
Qu'une main balance
Au creux d'un caveau...
Silence, silence.

SAGGEZZA

Un grande sonno nero


Cade sulla mia vita:
Dorme ogni speranza
Dorme ogni desio.
Io non vedo più nulla
Io perdo la memoria
Del male e del bene.
Oh che triste storia!
Io sono una culla
Che una mano fa dondolare
Dal cavo di una tomba.
Silenzio, silenzio.

LA BONNE CHANSON
La lune blanche
Luit dans le bois;
De chaque branche
Part une voix
Sous la ramée...
O bien aimée.
L'étang reflète
Profond miroir
La silhouette
Du saule noir,
Où le vent pleure.
Rêvons: c'est l'heure.
Un vaste et tendre
Apaisement
Semble descendre
Du firmament,
Que l'astre irise.
C'est l'heure exquise.

LA DOLCE CANZONE

La luna bianca
Illumina i boschi;
Da ogni ramo
Giunge una voce
Fin sotto le fronde
O beneamata.
Specchio profondo
Lo stagno riflette
L'agile ombra
Del salice nero.
E il vento piange.
Sognamo: è l'ora.
Un grande e tenero
appagamento
Sembra discendere
dal firmamento
iridato dall'astro.
E' l'ora squisita.

17a 1951

Deux Poèmes de Paul Verlaine op. 9

https://www.youtube.com/watch?v=JKF2gCcTPfw
https://www.youtube.com/watch?v=vnNKqUAPmOg

per baritono e orchestra - Seconda versione


Testo: Paul Verlaine

Un grand sommeil noir - Largo assai


La lune blanche - Tranquillo assai

Organico: baritono, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 corni, archi


Composizione: 1951
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1953
Dedica: al fratello Gurij

19 1911

Due poesie di Konstantin Balmont

https://www.youtube.com/watch?v=-gdOpSNzev4

Prima versione per voce e pianoforte


Testo: Konstantin Balmont

Il fiore - Lento lento


Dedica: a mia madre
La colomba - Molto sostenuto
Dedica: a mia cognata Ljudmila Beljankina

Organico: voce, pianoforte


Composizione: Ustilug, 1911
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1912

Testo (nota 1)

IL FIORE

Fiorisce il non-ti-scordar-di-me,
tutto per te, mio amore, tutto per te,
presso un ruscello, con i petali che nel crescere
schiudono il loro azzurro fondo.
Poi, a notte, quando la luce delle stelle
t'illumina col suo riverbero,
e quando l'alba infrange l'ultima stella della notte
scolorando sembra dire: «Sarai tu mia?».
Il non-ti-scordar-di-me è ora tutto in fiore,
coi suoi teneri occhi così dolci ed azzurri,
mi ascolti tu, o fiore d'amore?
Ascolta la voce del fiore!
LA COLOMBA

Sul davanzale della finestra vi è la rosa


e là sul tetto la colomba,
le vedi entrambe, ora, oh guarda
La colomba vola verso la rosa?
Rosso il fiore, bianca la colomba,
rosso e bianco avvinti assieme,
bianco e rosso in stretto amore,
ma poi la colomba vola via.
O mia meravigliosa bianca colomba,
ti sei scordata del mio davanzale,
o mia meravigliosa bianca colomba
ritorna volando all'amore che t'aspetta.

19a 1954

Due poesie di Konstantin Balmont

https://www.youtube.com/watch?v=Tropa_5030g

https://youtu.be/VbpoxL9o430

Seconda versione per voce e orchestra da camera


Testo: Konstantin Balmont

Il fiore
La colomba

Organico: voce, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 violini, viola, violoncello, pianoforte


Composizione: 1954
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, s. a.

22 1912 - 1913

Trois Lyriques japonaises

https://www.youtube.com/watch?v=AVrYIZ44Xh0

https://www.youtube.com/watch?v=PnXleyeTync

Versione per soprano e pianoforte


Testo: testo russo di A. Brandta, traduzione in francese doi Maurice Delage

Akahito - Moderato
Composizione: Ustilug, 6 - 19 ottobre 1912
Dedica: Maurice Delage
Mazatsumi - Vivo
Composizione: Clarens, 5 - 18 dicembre 1912
Dedica: Florent Schmitt
Tsaraïuki - Tranquillo
Composizione: Clarens, 9 - 22 gennaio 1913
Dedica: Maurice Ravel

Organico: soprano, pianoforte


Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1913

Testo (nota 1)

AKAHITO

Scendiamo in giardino;
volevo mostrarti i fiori bianchi.
Cade la neve...
Son tutti fiori o neve bianca?

MAZATSUMI

Arriva aprile.
Spezzando il ghiaccio
della loro scorza saltellano
gioiose nel ruscelletto
le onde schiumose.
Esse vogliono essere i primi fiori bianchi
della gioiosa primavera.

TSARAIUKI

Cosa si intravede così bianco in lontananza?


Si direbbero nubi, ovunque tra le colline:
i ciliegi in fiore festeggiano finalmente
l'arrivo della primavera.

23 1913

Tre Piccole canzoni (Ricordi della mia infanzia)

Versione per voce e pianoforte


Testo: testi popolari russi, tradotti da Charles-Ferdinand Ramuz

La gazza - Ma non troppo


Composizione: Clarens, 6 - 19 ottobre 1913
Dedica: Svjatoslav Soulima
Il corvo - Allegro
Dedica: alla figlia Ljudmila
La taccola - Festoyant
Composizione: Clarens, ottobre - novembre 1913
Dedica: al figlio Teodor

Organico: voce, pianoforte


Composizione: Clarens, 1913
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1914
Vedi al n. 23a del 1929 - 1930 la versione per voce e orchestra

26 1914

Pribautki

https://www.youtube.com/watch?v=CML_l_2z6e8

https://www.youtube.com/watch?v=HUqdVei9TRE

Canzoni scherzose per voce e orchestra da camera


Testo: popolare russo

Lo zio Armand - Moderato


Il forno - Allegro
Il colonnello - Allegretto
Il vecchio e la lepre - Lento

Organico: voce, flauto, oboe, corno inglese, clarinetto, violino, viola, violoncello, contrabbasso
Composizione: 1914
Prima esecuzione: Parigi, Salle Gaveau, maggio 1919
Edizione: A. Henn, Ginevra, 1917
Dedica: alla moglie

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il primo frutto del viaggio in Russia furono i Pribautki, quattro «canzoni piacevoli» come li
definisce il sottotitolo. Sono quattro brevi pezzi per una voce e otto strumenti, cioè flauto, oboe,
clarinetto, fagotto e quartetto d'archi, improntati a un umorismo di forte sentore rusticano.

Giorgio Graziosi
Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Pribautki, raccolta di filastrocche per soprano con accompagnamento di flauto, oboe, clarinetto,
fagotto, violino, viola, violoncello e contrabbasso, fu composta nel 1914 e dedicata dal compositore
alla moglie.
E' ovvio che in questa composizione il rapporto fra la musica e il testo comporti circostanze
particolari. Le parole «insensate» delle filastrocche non richiedono nessuna caratterizzazione
musicale; adattandosi, piuttosto, a fare da supporto vocale al libero discorso delle strutture sonore.
Rispetto alla Pastorale per soprano e quattro strumenti - dove la voce affidava la propria melodia al
suono inarticolato del vocalizzo - nel caso di Pribautki il compositore vuole garantirsi mezzi vocali
a suono articolato: e questo è appunto il compito del testo verbale.

Da questa circostanza, alcuni studiosi dell'opera di Strawinski (Paul Collaer e Boris de Schlozer in
particolare) hanno teorizzato una presunta indifferenza del compositore nei confronti di una
qualsivoglia drammatizzazione del rapporto parola-musica. Il che è vero nel caso specifico di
Pribautki (ed era inevitabile che lo fosse). Non lo è, invece, se l'esame si estende ad altri lavori con
testo di Strawinski: Perséphone, Oedipus rex e The Rake's Progress stanno appunto a dimostrare
come al compositore - sia pure con le soluzioni più imprevedibili - stia a cuore la necessità di far
coincidere la componente musicale con quella poetica.

Giovanni Ugolini
Testo

L'oncle Armand

Console-toi, vieil oncle Armand;


tu te fais bien trop de mauvais sang,
laisse aller tout droit ta jument
à l'auberge du Cheval Blanc:
là est un joli vin clair,
qui fait soleil dans le verre;
le joli vin rend le coeur content:
noie ton chagrin dedans.

Lo zio Armando

Consolati, vecchio zio Armando;


ti fai troppo cattivo sangue,
lascia che la tua cavalla ti porti, dritto dritto,
all'Albergo del Cavallo Bianco:
la c'è un buon vinello,
raggio di luce nel bicchiere;
è il buon vino che fa felice il cuore:
annegaci il tuo malumore.

Le four

Louise, viens vite,


viens vite, ma fille:
la pâte est levée...
cours à la cuisine
chercher la farine...
Les canards commencent
à souffler dans leurs mirlitons crevés.
Voilà le coq qui leur répond
et les poules qui tournent en rond.

Il forno

Luisa, vieni, presto,


fa' presto, piccola mia:
la pasta lievita...
corri in cucina
a prendere la farina...
Le anatre cominciano a soffiare
dai loro zufoli forati.
Ecco il galletto che risponde
e i pulcini che fanno girotondo.

Le colonel

Le colonel part pour la chasse,


tire sur une bécasse, manque sa bécasse,
tire sur une perdrix, la perdrix s'en fuit,
tombe et casse son fusil;
il appelle son chien
son chien ne répond rien;
sa femme l'a reçu, sa femme l'a battu...
Chassera jamais plus.

Il colonnello

Il colonnello parte per la caccia,


spara a una beccaccia, manca la beccaccia,
spara a una pernice, la pernice fugge,
cade e rompe il suo fucile;
chiama il suo cane
ma il cane non risponde;
sua moglie l'ha preso, sua moglie l'ha picchiato.
Non andrà più a caccia.

Le vieux et le lièvre

Dans une ville en l'air,


un vieux assis par terre.
Et puis voilà que le vieux
fait cuire sa soupe sans feu.
Un lièvre sur la route
lui demande sa soupe.
Et le vieux a dit comme ça,
au bossu de se tenir droit,
au manchot d'étendre les bras,
et au muet de parler plus bas.

Il vecchio e la lepre

In una città sospesa in aria


un vecchio, seduto per terra.
E poi ecco che il vecchio
fa cuocere la sua zuppa senza fuoco.
Una lepre, per la strada,
gli chiede la zuppa.
E il vecchio allora ha detto
al gobbo di tenersi dritto
al monco di stendere le braccia
e al muto di parlare più piano.
(versione francese di C. F. Ramuz)

30 1915 - 1916

Berceuses du chat

https://www.youtube.com/watch?v=J8oENwCQlPc

https://www.youtube.com/watch?v=rvfBIAtIRPQ

per contralto e tre clarinetti


Testo: Stravinskij da testi popolari russi

Sulla stufa
Interno
Dodo
Che cos'ha il gatto

Organico: contralto, clarinetto piccolo, clarinetto, clarinetto basso


Composizione: 1915 - 1916
Prima esecuzione: Vienna, Großer Musikvereinsaal, 6 giugno 1919
Edizione: A. Henn, Ginevra, 1917
Dedica: Natal'ja Goncarova e Mikhail Larënov

Guida all'ascolto (nota 1)

Le Berceuses du chat sono scritte per voce di donna e tre clarinetti (in mi bemolle, in la, basso in si
bemolle). Alcuni studiosi considerano questi canti come uno studio preparatorio a Renard; e quindi,
insieme ai Pribautkj, ai Quatres chants russe, alle Trois histoires pour enfants, esse costituiscono il
periodo di transizione tra le grandi opere russe (Petruska, Sagra, e, se vogliamo, anche Nozze) e il
nuovo periodo dell'oggettivismo e dell'europeismo inaugurato con Histoire du soldat (1918).

Giorgio Graziosi
Testo

Sur le poêle

Dors sur le poêle


bien au chaud, chat;
la pendule bat;
elle bat, mais pas pour toi.

Sulla stufa

Dormi sulla stufa,


ben al caldo, gattino;
il pendolo batte;
batte, ma non per te.

Intérieur

Le chat, dans un coin,


casse des noisettes;
la chatte, sur le foyer,
fait sa toilette
et les petits chats
ont mis des lunettes...
Guignent, guignent les petits,
si le vieux n'a pas fini:
pas encore, mais tant pis.

Interno

Il gatto, in un angolo,
rompe le nocciole;
la gatta, al focolare,
fa la sua toilette
e i piccoli gattini
hanno messo gli occhiali...
Sbirciano, guardano i piccini
se il vecchio abbia finito:
non ancora, tanto peggio.

Dodo

Dodo, l'enfant do
l'enfant dormira bientôt...
Aujourd'hui le chat a mis
son bel habit gris,
pour faire la chasse,
la chasse au souris...
Otera son bel habit
si l'enfant n'est pas gentil.

Dodo

Dodo, bimbo do
il bimbo dormirà presto...
Oggi il gatto ha indossato
il suo bell'abito grigio,
per dare la caccia,
la caccia ai topi...
Toglierà il suo bell'abito
se il bambino non sarà buono.

Ce qu'il a, le chat

Ce qu'il a le chat
c'est un beau berceau qu'il a
mon enfant à moi en a
un bien plus beau que ça.
Ce qu'il a le chat
c'est un coussin blanc qu'il a
mon enfant à moi en a
un bien plus blanc que ça.
Ce qu'il a le chat
c'est un tout fin drap qu'il a
mon enfant à moi en a
un bien plus fin que ça.
Ce qu'il a le chat
c'est un chaud bonnet qu'il a
mon enfant à moi en a
un bien plus chaud que ça.

Quello che ha il gatto

Quello che ha il gatto


è una bella cuccia che lui ha
ma il mio bambino ne ha
una ancora più bella.
Quello che ha il gatto
è un cuscino bianco che lui ha
ma il mio bambino ne ha
uno ancora più bianco.
Quello che ha il gatto
è una bella stoffa che lui ha
ma il mio bambino ne ha
una ancora più fina.
Quello che ha il gatto
è una calda cuffia che lui ha
ma il mio bambino ne ha
una ancora più calda.

(versione francese di C. F. Ramuz)

33 1915 - 1917

Trois Histoires pour enfants


per voce e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=CbMostwG3XE

Testo: Stravinskij da testi popolari russi tradotti in francese da Charles-Ferdinand Ramuz

Tilimbom
Orchestrato nel 1923; vedi 33a
Les canards, les cygnes, les oies...
Chanson de l'ours

Organico: voce, pianoforte


Composizione: 1915 - 1917
Edizione: J. &. W. Chester, Londra, 1920
Dedica: al figlio Svjatoslav Soulima

Testi (nota 1)

TlLIMBOM

La casa della capra è in fiamme: il gallo, la gallina e il gatto accorrono per spegnere l'incendio
mentre il caprone se ne sta in disparte seccato da tanto frastuono.

LES CANARDS, LES CYGNES, LES OIES

Le anatre, i cigni e le oche giungono dalla Savoia accolti con molta ospitalità dalla cìmice e dal
pidocchio.

CHANSON DE L'OURS

Il y avait dans le temps


un vieux et une vieille qui n'avaient pas d'enfants.
La vieille a dit au vieux: «Va me chercher du bois».
«On y va», dit le vieux, le vieux dit qu'il y va.
Et en effet il y va, rencontre l'ours, «Tiens, c'est toi!
On te connaît. Veux-tu lutter avec moi?»
Le vieux a pris une hache, lui a coupé la patte.
Voilà que le vieux s'en revient et il tient la patte à la main:
«C'est un bon dîner pour demain».
La vieille racle, frotte, nettoie,
l'ours n'est pas content,
il a été se laver dans le ruisseau,
il s'est fait une patte en bouleau.
Puis il est venu devant chez le vieux,
et il chante à la vieille au vieux:
Grince, grince, grince patte en bouleau.
Dedans, dehors gens et choses, tout dort.
Gens et choses, tout qui repose...
Seule, sans vergogne dort pas,
racle, grogne, est à sa besogne,
la vieille charogne.
Sous le pétrin renversé
le vieux s'est ensauvé;
sous les chemises sales la vieille a été se cacher;
dans la maison l'ours est entré.
Sous le pétrin renversé
les dents du vieux se sont mises à claquer;
Sous les chemises sales la vieille s'est mise a tousser.
L'ours les a trouvés,
L'ours les a mangés.

LA CANZONE DELL'ORSO

C'era una volta un vecchio e una vecchia


senza figli.
La vecchia disse al vecchio
«va a raccogliere legna».
«Ci vado» disse il vecchio.
Il vecchio disse che ci andava.
E alla fine ci andò
e incontrò l'orso.
L'orso disse: «Guarda chi si vede!
Ti conosco bene! Vuoi fare la
lotta con me?»
Il vecchio prese un'ascia, e gli
tagliò una zampa.
Ecco il vecchio ritorna
con la zampa dell'orso fra le mani
dice: «Sarà un buon pranzo, per domani!»
La vecchia raschia, stropiccia, pulisce,
Ma l'orso è inquieto.
Si è lavato nel ruscello,
con un ramo di betulla
si è arrangiato una zampa.
Poi è andato dal vecchio
e ora canta alla vecchia e al vecchio
Cigola, cigola, cigola, zampa di betulla.
Dentro, fuori, genti e cose, tutto dorme.
Tutto riposa.
Sola, la vecchia carogna non dorme.
Raschia, brontola e senza rimorso
va a fare il suo lavoretto!
Il vecchio si è nascosto
sotto la madia rovesciata;
la vecchia si è cacciata
sotto le camicie sporche:
l'orso è entrato in casa.
Sotto la madia rovesciata
i denti del vecchio si sono messi a battere
Sotto le camicie sporche
la vecchia si e messa a tossire.
L'orso li ha trovati
l'orso li ha mangiati.

35 1917

Quattro Canzoni popolari russe (Piattini)


per voci femminili a cappella - Prima versione

https://www.youtube.com/watch?v=div6nU5JlAA

Testo: da Aleksandr Afanas'ev

Il giorno dei Santi a Cigisach


Ovsen
Il luccio
Puzisce

Organico: voci femminili senza accompagnamento


Composizione: 1917
Edizione: J. &. W. Chester, Londra, 1932

35a 1954

Quattro Canzoni popolari russe (Piattini)


per voci femminili e quattro corni - Seconda versione

https://www.youtube.com/watch?v=div6nU5JlAA

https://www.youtube.com/watch?v=-zh92kRx0z8

Testo: da Aleksandr Afanas'ev

Il giorno dei Santi a Cigisach


Ovsen
Il luccio
Puzisce

Organico: voci femminili, 4 corni


Composizione: 1954
Prima esecuzione: 11 ottobre 1954
Edizione: J. &. W. Chester, Londra, 1958

39 1917

Berceuse per voce e pianoforte

Testo: proprio, tradotto in francese da Charles-Ferdinand Ramuz


Organico: voce, pianoforte
Composizione: Morges, 10 dicembre 1917
Edizione: Faber & Faber, Londra, 1962
Dedica: à ma fillette Ljudmila

43 1918 - 1919

Quattro Canzoni russe per voce e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=Nz_Xx7sRMjU

Testo: popolare russo tradotto in francese da Charles-Ferdinand Ramuz

Canard (Ronde)
Composizione: Morges, 28 dicembre 1918
Chanson pour compter
Composizione: Morges, 16 marzo 1919
Le Moineau est assis...
Composizione: Morges, 23 ottobre 1919
Chant dissident
Composizione: Morges, marzo 1919

Organico: voce, pianoforte


Edizione: J. &. W. Chester, Londra, 1920
Dedica: Maja e Bela Strozzi-Pecic

43A 1953 - 1954

Quattro Canzoni per voce e strumenti

https://www.youtube.com/watch?v=-zh92kRx0z8

Testo: popolare russo

Il drago
arrangiamento del n. 1 delle Quattro Canzoni russe
Composizione: 1953
Uno Spiritual russo
arrangiamento del n. 4 delle Quattro Canzoni russe
Composizione: 1954
Oche e cigni
arrangiamento del n. 2 delle Trois Histoires pour enfants
Composizione: 1954
Tilimbom
arrangiamento del n. 1 delle Trois Histoires pour enfants
Composizione: 1954

Organico : voce, flauto, arpa, chitarra


Prima esecuzione: Los Angeles, 21 febbraio 1955
Edizione: J. & W. Chester, Londra, 1955

89 1951 - 1952

Cantata
per soli, coro femminile e strumenti

https://www.youtube.com/watch?v=LUCN5WN5PI4

https://www.youtube.com/watch?v=cORBsM6ShWs

Testo: anonimo inglese tardo-medievale


https://www.flaminioonline.it/Guide/Stravinskij/Stravinskij-Cantata89-testo.html

Versus I: A Lyke-Wake Dirge: this night - coro


Ricercar I: The Maidens came - soprano
Versus II: If ever thou gavest - coro
Ricercar II: Tomorrow shall be my dancing day - tenore
Versus III: Fromm Whinny Muir - coro
Westron wind - soprano e tenore
Versus IV - coro
Organico: soprano, tenore, coro femminile, 2 flauti, oboe, corno inglese, violoncello
Composizione: aprile 1951 - agosto 1952
Prima esecuzione: Los Angeles, Philarmonic Auditorium, 11 novembre 1952
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1952
Dedica: Los Ancgeles Symphony Soiety

Guida all'ascolto (nota 1)

Nello stesso clima espressivo, anche se più articolato sotto il profilo della scrittura, va collocata la
Cantata per soprano, tenore, coro femminile e quintetto strumentale, diretta da Stravinsky per la
prima volta l'11 novembre 1952 in un concerto della Los Angeles Chamber Symphony Society alla
quale è dedicato il lavoro. Così l'autore ne scrisse nella presentazione del programma: «La mia
Cantata per soprano e tenore soli, coro femminile e quintetto strumentale di due flauti, due oboi (il
secondo intercambiabile con il corno inglese) e violoncello è stata composta tra l'aprile 1951 e
l'agosto 1952. Dopo aver finito il Rake's Progress sono stato spinto da un forte desiderio a comporre
un altro lavoro nel quale il problema di mettere in musica parole inglesi si ponesse di nuovo, ma
questa volta in una forma più pura, non drammatica. Ho scelto quattro anonime liriche popolari del
XV e XVI secolo. Questi versi mi attirarono non solo per la loro grande bellezza e la loro serrata
sillabazione, ma per la loro costruzione che suggerisce la costruzione musicale. Tre dei poemi sono
semisacri. Il quarto, Vento dell'Ovest, è un canto d'amore. La Cantata è dunque secolare».

Per l'uso di modi e procedimenti antichi la Cantata ha un sapore arcaico e di gusto


prerinascimentale. Sui versi, di un canto funebre («A like-wake dirge») si modellano un Preludio,
due Interludi e un Postludio, scritti in una forma strofica libera, pur nel rispetto della stessa frase
musicale, leggermente variata nel contesto armonico. Tra una nenia corale e l'altra si inseriscono un
Primo Ricercare per soprano e quintetto strumentale seguito da un recitativo, un Secondo Ricercare
per tenore, violoncello, flauti e oboi nello stile canonico e un'Aria (Vento dell'Ovest) per soprano e
tenore accompagnata dal quintetto strumentale e ricca di intenso lirismo. Nel Primo Ricercare
intitolato «The maiden's came» una fanciulla sacrifica se stessa all'amore di Cristo, nella completa
rinuncia ai beni materiali e trovando consolazione nella fede che apre la via alla pace eterna. Il
Secondo Ricercare intonato dal tenore («Tomorrow shall be») vuole essere una breve storia sacra
cantata nei modi di un giullare medioevale: Cristo racconta le vicende della propria vita, dai giorni
della Natività e della Passione, fino alla Resurrezione e all'Ascensione alla destra di Dio.
Formalmente questa Sacred History è articolata in una introduzione e in nove canoni, seguiti
ognuno da un ritornello puramente strumentale.

91 1953

Three Songs from William Shakespeare


per mezzosoprano e strumenti

https://www.youtube.com/watch?v=Qm8IkylMIxE

https://www.youtube.com/watch?v=gFlC8wcAEu4

Testo: William Shakespeare


Music to heare
Full Fadom five
When Dasies pied

Organico: mezzosoprano, flauto, clarinetto, viola


Composizione: autunno 1953
Prima esecuzione: Hollywood, Philarmonic Auditorium, 8 marzo 1954
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1954
Dedica: Società Evenings-on-the-Roof

92 1954

In memoriam Dylan Thomas, «dirge canons and song»


per tenore e strumenti

https://www.youtube.com/watch?v=Fb2sSAWT2Cc

https://www.youtube.com/watch?v=9fA87UOZfIM

Testo: Dylan Thomas


Organico: tenore, 2 violini, viola, violoncello, 4 tromboni
Composizione: febbraio - marzo 1954
Prima esecuzione: Hollywood, Philarmonic Auditorium, 20 settembre 1954
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1954

Guida all'ascolto (nota 1)

La breve composizione In memoriam Dylan Thomas fu scritta nel 1954 per onorare la memoria del
poeta Dylan Thomas, il quale morì tragicamente mentre era in viaggio per incontrare Stravinsky e
sottoporgli il progetto di un libretto d'opera. Come è indicato nel sottotitolo, il lavoro comprende
due canoni funebri che inquadrano un canto su parole ricavate dai Collected Poems dello stesso
Dylan Thomas. Stravinsky si avvale dei due gruppi di quattro strumenti in modo organistico, come
di due registri ì cui timbri si alternano senza mai mescolarsi fra di loro. Dal punto di vista tecnico, il
brano, articolato nel Preludio, nel Postludio e nel Canto, ubbidisce al procedimento dodecafonico (è
una cellula cromatica di cinque note diverse), che verrà poi adottato completamente nel lavoro
successivo, il Canticum Sacrum ad honorem Sanctì Marci Nominis, composto nel 1955 ed eseguito
per la prima volta il 13 settembre 1956 nella Basilica di San Marco a Venezia, nel quadro del XIX
Festival internazionale di musica contemporanea.
Testo

Do not go gentle into that good night,


Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.
Though wise men at their end know dark is right,
Because their words had forked no lightning, they
Do not go gentle into that good night.
Good men, the last wave by, crying how bright
Their frail deeds might have danced in a green bay,
Rage, rage against the dying of the light.
Wild men who caught and sang the sun in flight,
And learn, too late, they grieved it on its way,
Do not go gentle into that good night.
Grave men, near death, who see with blinding sight
Blind eyes could blaze like meteors and be gay,
Rage, rage against the dying of the light -
And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless, me now with your fierce tears, I pray
Do not go gentle into that good night.
Rage, rage against the dying of the light.

(Dylan Thomas)

Non entrare mansueto in quella notte buona,


La vecchiezza dovrebbe ardere ribelle al finire del giorno;
Lotta, lotta contro il morire della luce.
Sebbene uomini saggi, al termine, sanno che le tenebre sono giuste,
Poiché le loro parole non avevano suscitato alcun bagliore,
Pure non entrano mansueti in quella notte buona.
Uomini buoni, passata l'ultima onda, rimpiangendo quanto splendide
Le loro fragili azioni avrebbero potuto danzare in una verde baia,
Lottano, lottano contro il morire della luce.
Gli uomini rudi che afferrarono e cantarono il sole in volo,
E comprendono, troppo tardi, che lo patirono nel suo corso,
Non entrano mansueti in quella notte buona.
Uomini austeri, presso la morte, che con sguardo offuscato
Vedono che occhi ciechi potrebbero ardere come meteore ed essere gai,
Lottano, lottano contro il morire della luce -
E tu, padre mio, là sulla triste vetta,
Maledici, benedici me ora con le tue fiere lacrime, ti prego,
Non entrare mansueto in quella notte buona
Lotta, lotta, contro il morire della luce.

104 1964

Elegy for J. F. K.

https://www.youtube.com/watch?v=geFHRj51Efk

https://www.youtube.com/watch?v=h63IoaYBh1U

Testo: Wystan Hugh Auden


Organico: baritono o mezzo soprano, 3 clarinetti
Composizione: Hollywood, marzo 1964
Prima esecuzione: Hollywood, Philarmonic Auditorium, 6 aprile 1964
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1964
Dedica: alla memoria di John F. Kennedy

Guida all'ascolto (nota 1)

L'Elegia per Kennedy, esattamente Elegy for J. F. K., fu eseguita il 6 dicembre 1964 alla
Philarmonic Hall di New York nel corso delle manifestazioni indette per il primo anniversario della
morte del Presidente statunitense; il concerto, che comprendeva tra l'altro Pribautky e Berceuses du
chat, fu replicato a Washington e Boston.

Il testo «Quando muore un giusto» è tratto dal poema Haiku di W. H. Auden, il poeta che preparò
insieme a Ch. Kallman il libretto per The Rake's Progress. La musica riprende una combinazione
strumentale che fu cara al primo Strawinsky e cioè voce (nell'Elegia specificata di mezzo soprano),
e tre clarinetti. Consta di una frase iniziale (voce e clarinetto alto), di una parte centrale e della
esatta ripresa della frase iniziale sia musicale che poetica («When a just man dies / Lamentation and
praise / Sorrow and joy are one»).

La fusione tra la voce e le linee timbriche dei tre clarinetti è perfetta e l'impressione è di trovarci di
fronte a un piccolo capolavoro di semplicità e di lirismo; peccato, come ha scritto un critico
americano, che «questa semplice lirica di pace sia scivolata via, sia finita prima che abbiate la
fortuna di abituarvi al suo sapore, come la vita dell'uomo che celebra».

Giorgio Graziosi

Testo

When a just man dies,


Lamentation and praise,
Sorrow and joy are one.
Why then? Why there?
Why thus, we cry, did he die?
The Heavens are silent.
What he was, he was;
What he is fated to become
Depends on us.
Remembering his death
How we choose to live
Will decide its meaning.
When a just man dies,
Lamentation and praise,
Sorrow and joy are one.

Allorché un giusto muore,


E' compianto e dolore,
Letizia e gloria a un tempo.
E perché fu in quel luogo?
E in quell'ora? E così?
Noi chiediamo piangendo.
I cieli son silenti.
Quel ch'egli è stato, è stato;
E quel che è destinato
Ad essere, ormai solo
Solo da noi dipende.
Ricordando sua morte
Noi vivremo, e ogni scelta
Nostra deciderà
Quale il suo senso è stato.
Allorché un giusto muore,
E' compianto e dolore,
Letìzia e gloria a un tempo.
Testo di W. H. Auden
Traduzione di Natalia Ginzburg

107 1965

Introitus (Requiem aeternam)


per coro maschile e strumenti

https://www.youtube.com/watch?v=iznJt0_VuQQ

Testo: da T. S. Eliot
Organico: coro maschile, arpa, pianoforte, timpani, 2 tam-tam, viola, contrabbasso
Composizione: Hollywood, 17 febbraio 1965
Prima esecuzione: Chicago, Orchestra Hall, 17 aprile 1965
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1965
Dedica: alla memoria di T. S. Eliot

109 1965 - 1966

The Owl and the Pussycat


per soprano e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=W2AJzjASkZQ

https://www.youtube.com/watch?v=y4g1NYHBDSU

Testo: Edward Lear


Organico: soprano, pianoforte
Composizione: 1965 - 1966
Prima esecuzione: Los Angeles, Dorothy Chandler Pavilion, 31 ottobre 1966
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1967
Dedica: a Ver

Composizioni per orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=eTtvCQ_NBmg

9 1905 - 1907

Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 1

https://www.youtube.com/watch?v=xaQSff7CKCc

https://www.youtube.com/watch?v=sk1VkSz8h6Q

Allegro moderato
Scherzo: Allegretto
Largo
Finale: Allegro molto

Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi, 3 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni,
basso tuba, timpani, piatti, grancassa, archi
Composizione: Ustilug, 1905 - 1907 (revisione 1914)
Prima esecuzione: San Pietroburgo, Sala Grande del Conservatorio, 22 gennaio 1908
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1914
Dedica: Nikolaj Rimskij-Korsakov

12 1907 - 1908

Scherzo fantastique op. 3

https://www.youtube.com/watch?v=UBJzDhoZrWI

https://www.youtube.com/watch?v=8ADibypYvS0

Con moto (mi bemolle maggiore)

Organico: ottavino, 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti,
controfagotto, 4 corni, 2 trombe, tromba contralto, piatti, celesta, 3 arpe, archi
Composizione: Ustilug, giugno 1907 - marzo 1908
Prima esecuzione: San Pietroburgo, Sala Grande del Conservatorio, 6 febbraio 1909; Prima
esecuzione come balletto: con il titolo "Les abeilles": Parigi, Théâtre de l'Opéra, 10 gennaio 1917
(versione non autorizzata dal compositore)
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1914
Dedica: Aleksandr Siloti

Guida all'ascolto (nota 1)


Lo Scherzo fantastique appartiene alla prima attività compositiva di Stravinsky, tanto è vero che
reca in calce alla partitura il numero 3 di opus, venendo dopo la Sinfonia in mi bemolle maggiore
op. 1, dedicata a Rimskij-Korsakov, e la suite per canto e orchestra Le faune e la bergère, ambedue
le partiture eseguite il 27 aprile 1907 a Pietroburgo con un certo successo e tra gli elogi, ben più
importanti, dello stesso Rimskij. Poco dopo Stravinsky cominciò a comporre, esattamente nel
giugno del 1907, lo Scherzo fantastique, terminato nel marzo dell'anno successivo e presentato per
la prima volta a Pietroburgo il 6 febbraio 1909. Lo Scherzo può definirsi un pezzo di musica a
programma, ispirato al poema La vie des abeilles (La vita delle api) di Maurice Maeterlinck, un
poeta che esercitò notevole fascino su tanti musicisti nei primi anni del Novecento per quel senso di
simbolismo e di esotismo racchiuso nei suoi versi. La descrizione della vita di un alveare fornì a
Stravinsky la possibilità di avvicinarsi alla grande orchestra e percorrere i primi passi verso quella
pulsante dimensione ritmica che esploderà di lì a qualche anno nello straordinario Sacre du
printemps, partitura originale nella struttura e geniale nei risultati espressivi. Come è stato
giustamente avvertito, lo Scherzo fantastique risente in maniera fin troppo evidente dell'influenza di
Cajkovskij, Debussy e Dukas, ma nello stesso tempo preannuncia certe morbidezze melodiche e
certi squarci lirici che troveranno una più precisa definizione nella berceuse dell'Oiseau de feu, il
balletto con cui Stravinsky si impose all'attenzione della cultura musicale europea.

Armonie dolci e suadenti e melodie carezzevoli e insinuanti caratterizzano la musica dello Scherzo
fantastique dal principio alla fine, con un gusto orchestrale di squisita eleganza timbrica, specie
nelle trovate e negli impasti degli strumentini e degli archi. Si colgono passaggi di sonorità
impressionistiche e non mancano fremiti di raffinata poesia descrittiva, in cui germoglia e si
espande con chiarezza di linguaggio la personalità stravinskyana, pur senza toccare tuttavia, quella
graffiante e incisiva forza di rappresentazione, tipica dei successivi e celebri capolavori orchestrali
di questo multiforme compositore, il quale, a proposito del pezzo che viene riproposto oggi
all'ascolto, disse qualche anno più tardi: «Mi rendo conto adesso di aver preso qualcosa del "Volo
del calabrone" di Rimskij-Korsakov, ma lo Scherzo fantastique deve più a Mendelssohn, mediato
da Cajkovskij, di quanto non debba a Rimskij-Korsakov». Una affermazione di umiltà, sincera e
insolita, da parte di un artista orgoglioso di se stesso e delle proprie qualità di musicista
"rivoluzionario" e controcorrente in un lungo arco di tempo del nostro secolo.

L'organico orchestrale dello Scherzo fantastique è formato dal flauto piccolo, tre flauti grandi, 2
oboi, corno inglese, 3 clarinetti e clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe e
tromba contralto, piatti, celesta, 3 arpe e archi.

13 1908

Feu d'artifice, fantasia op. 4

https://www.youtube.com/watch?v=C6KvUon3x1g

https://www.youtube.com/watch?v=hJUcBFL2nRU

Con fuoco (mi maggiore)


Organico: 3 flauti, 2 oboi, 3 clarinetti, 2 fagotti, 6 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
triangolo, piatti, grancassa, celesta, campanelli, 2 arpe, archi
Composizione: Ustilug, maggio - giugno 1908
Prima esecuzione: San Pietroburgo, Sala Grande del Conservatorio, 6 febbraio 1909
Edizione: Schott, Magonza, 1910
Dedica: Nadja e Maksimilijan Stejnberg

Guida all'ascolto (nota 1)

Francis Poulenc scrisse nel 1964 un profilo di Stravinsky che vale la pena di rileggere in alcune sue
parti, perché fissa sinteticamente il giudizio su un grande compositore di cui si è celebrato
quest'anno (ma i concerti celebrativi continuano ancora) il centenario della nascita. « Come Picasso
- ha annotato Poulenc, colpito soprattutto dal genio proteiforme del musicista di Oranienbaum -
Stravinsky si è incessantemente rinnovato, inanellando ogni volta un riccio perfetto, si tratti del
periodo russo che va dall'Oiseau de feu a Noces, di quello assai più breve dell'Histoire du soldat e
di Mavra, oppure della lunga fase detta neoclassica, che nasce con l'Ottetto per concludersi con The
Rake's Progess. Ma qualunque siano le sue metamorfosi, Stravinsky, in ogni dove uguale a se
stesso, ha sempre risolto felicemente, da vincitore, i problemi che si era proposto. Se affermo che la
sua personalità ha dominato per lunghi anni la quasi totalità della musica mondiale, nessuno vorrà
certamente contraddirmi. Questo 'sole' era così accecante tra il 1912 e il 1940 che per trent'anni
offuscò la scuola viennese, la cui influenza invece oggi si è sostituita alla sua (...). In avvenire, a
seconda del gusto del momento, si preferirà l'una o l'altra delle sue 'maniere'; ma tutte
indistintamente hanno la certezza di soppravvivere e, fin d'ora, il Sacre du printemps può essere
considerato come, la IX Sinfonia del nostro tempo». Ma se la fama e la fortuna di Stravinsky
esplosero e si consolidarono con il Sacre e con i capolavori del periodo russo (Oiseau de feu,
Petruska e Les Noces), dove è racchiusa con netta evidenza stilistica la sigla espressiva
personalissima e innovatrice del musicista, non si può sottovalutare l'importanza di due
composizioni che appartengono al momento dell'esordio dell'artista, fresco delle lezioni di
strumentazione, di armonia e di orchestrazione ricevute dall'autorevole e insostituibile Rimskij-
Korsakov. Tali lavori sono lo Scherzo fantastico op. 3 e Feu d'artifice op. 4, ambedue scritti per
orchestra nel 1908, in cui si possono cogliere certe scelte ben precise nel gusto ritmico e nella
ricchezza armonica e timbrica del tessuto strumentale. Anche se lo Scherzo fantastico è ispirato ad
un episodio tratto dal poema «La vita delle api» di Maeterlinck non è esatto affermare che la musica
abbia un carattere impressionistico, in quanto essa è sorretta da una vivacità e brillantezza di accenti
precorritori degli accordi politonali di Petruska; a maggior ragione nel Feu d'artifice, composto in
occasione del matrimonio della figlia di Rimskij-Korsakov con il musicista russo Maksimilian
Steinberg (1883-1946), emerge per la prima volta nelle sue linee distintive la fisionomia inventiva
di Stravinsky, nonostante l'influenza di Debussy, Ravel e dell'Apprendista stregone di Dukas.

Il taglio chiaro e perentorio della frase musicale; l'incisivo intervento degli ottoni; la mutevole
disposizione dei ritmi e la travolgente tensione sonora si uniscono e si scontrano in un un gioco
pirotecnico, che appartiene al migliore Stravinsky preannunciante già la Danza infernale di
Katschei dell'Oiseau de feu e le battute asimetriche di Petruska.

16a 1911

L'oiseau de feu Prima Suite


https://www.youtube.com/watch?v=GCme_GWUWMo

Introduzione - Giardino incantato di Kascej - Danza dell'Uccello di fuoco


Supplica dell'Uccello di fuoco
Il gioco della Principessa con le mele d'oro - Scherzo
Il Khorovod della Principessa
Danza infernale di tutti i sudditi di Kascej

Organico: 4 flauti (3 e 4 anche ottavino), 3 oboi, corno inglese, 3 clarinetti (3 anche clarinetto
piccolo), clarinetto basso, 3 fagotti (2 anche controfagotto), controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3
tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, triangolo, tamburo basco, tam-tam, campane
tubolari, glockenspiel, xilofono, celesta, 3 arpe, pianoforte, archi
Composizione: 1911
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1912

16b 1919

L'oiseau de feu Seconda Suite

https://www.youtube.com/watch?v=T8dCrcBbRUs

https://www.youtube.com/watch?v=exAbqL79DVU

https://www.youtube.com/watch?v=MEWU04W6J9A

Introduzione
L'Uccello di fuoco e la sua danza
Variazioni dell'Uccello di fuoco
Ronda delle Principesse
Danza infernale del re Kascej
Berceuse e Finale

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3
tromboni, basso tuba, timpani, xilofono, pianoforte, arpa, archi
Composizione: Morges, 1919
Edizione: J. W. Chester, Londra, s. a.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

L'oiseau de feu rappresenta un'opera cardine nell'esperienza creativa di Igor Stravinkij, l'opera che
trasformò il compositore ventottenne da semisconosciuto discepolo di Rimskij-Korsakov a grande
autore internazionale. Non a caso si tratta anche dell'opera che segnò l'inizio della lunga
collaborazione fra Stravinskij e la compagnia dei Ballets Russes di Sergej Djagilev. Djagilev aveva
conosciuto Stravinskij nel gennaio 1909 a Pietroburgo e, colpito dalla musica della fantasia
orchestrale Feu d'artifice, aveva immediatamente pensato di aggregare il compositore al gruppo dei
suoi collaboratori - composto da personaggi prestigiosi come il coreografo e danzatore Michail
Fokin, i pittori Leon Bakst e Alexandre Benois - in vista del trasferimento a Parigi della sua
compagnia.

Così Stravinskij in un primo momento venne incaricato dall'impresario di orchestrare alcune pagine
di Chopin per il balletto Les Sylphides, ma ben presto la defezione di un altro compositore, Ljadov,
si tradusse nel coinvolgimento in un altro e ben più ambizioso progetto: un intero nuovo balletto,
basato sulla fiaba popolare russa dell'Uccello di fuoco. Stravinskij abbandonò la stesura dell'opera
Le rossignol, e si dedicò alla nuova partitura, che venne stesa fra il novembre 1909 e il maggio
1910. A fine maggio raggiunse i Ballets Russes a Parigi - dove si recava per la prima volta - e potè
così assistere, il 25 giugno, alla prima del balletto - che si avvaleva della coreografia di Fokin -
accolto con grande successo. Sembra che nel corso delle prove Djagilev avesse detto, riferendosi al
giovane maestro: "Guardatelo bene, è un uomo prossimo alla celebrità"; e furono parole profetiche.

L'oiseau de feu doveva rimanere una delle partiture più popolari del compositore, tanto che ben tre
furono le suites pubblicate, con la revisione dell'autore, nell'arco di oltre trent'anni. La prima vide la
luce immediatamente, nel 1911, e consiste nell'estrapolazione di cinque momenti musicali; la
seconda suite, del 1919 - la più diffusa, prescelta anche per la presente esecuzione - è basata su una
orchestrazione ritoccata e su una selezione di pagine quasi interamente differente; mentre la terza
suite, del 1945, si basa su dieci numeri complessivi, cinque dei quali sono quelli della suite del
1919.

Non stupisce che, in questa partitura rivelatrice, come anche in tutti i suoi lavori scritti prima del
1910, Stravinskij mostrasse il suo debito verso l'insegnamento di Rimskij-Korsakov. Lo stesso
soggetto del balletto affondava le sue radici in quella favolistica russa che era stata l'humus
fertilissimo della maggior parte dei lavori teatrali del vecchio compositore, scomparso nel giugno
1909, pochi mesi prima che Stravinskij cominciasse ad applicarsi al suo balletto. L'argomento
sfrutta una variante della fiaba sulla fine del genio malefico Katschej - lo stesso Rimskij aveva
scritto nel 1902 l'opera Katschej l'immortale - la cui morte è impossibile in quanto la sua anima è
serrata in un luogo inaccessibile - uno scrigno a forma di uovo, nel balletto di Stravinskij, le
lagrime della perfida figlia, nell'opera di Rimskij - che viene però raggiunto da un principe straniero
grazie a un sortilegio - la penna dell'uccello di fuoco, creatura fantastica, nel balletto,
l'innamoramento della figlia del genio, nell'opera - consentendogli così di liberare una amata
principessa, prigioniera del genio malvagio, oltre ad altri prigionieri.

Nel mettere in musica questa vicenda archetipica Stravinskij guardò direttamente al modello
rimskiano, e soprattutto all'ultima opera del maestro, Il gallo d'oro, che, nelle sue scelte musicali,
contrapponeva il mondo degli uomini - realizzato in musica attraverso melodie diatoniche di
impronta popolare - a quello degli esseri fantastici, restituito con materiale cromatico e con
arabeschi di tipo orientaleggiante. E tuttavia, al di là di questi rapporti con il passato, L'oiseau de
feu è indubbiamente l'opera che dischiude a Stravinskij le porte della sua poetica. Nonostante le
infinite sfumature espressive indicate in partitura, e taluni momenti debitori a Cajkovskij, infatti,
nessun vero sentimentalismo fa breccia nella musica, nessun descrittivismo, ma piuttosto un uso
oggettivo del materiale musicale, in cui gli elementi di base vengono usati con ferrea coerenza, e il
ritmo diviene a tratti il vero veicolo del discorso musicale.

Già all'inizio della Suite troviamo, nel motivo insinuante degli strumenti gravi, quell'intervallo di
quarta aumentata che è strutturale nella partitura; i colori lividi e i cromatismi dei fiati restituiscono
l'ambiente "magico" dell'Uccello di fuoco, e magico è anche il glissando sugli armonici degli archi,
che lasciò ammirato Richard Strauss; questa Introduzione lascia il passo alla Danza dell'Uccello di
fuoco, giocata sui ritmi irregolari degli archi e sulle volate dei fiati. Un motivo popolare esposto da
strumenti solisti apre e pervade la Danza delle principesse, che rappresenta uno dei momenti più
legati al passato della partitura. Forte è il contrasto con la Danza infernale del re Katschej, che è
invece il momento forse più avveniristico, dove troviamo quei contrasti dinamici, quell'impulso
ritmico e quel gioco di intarsio di schemi ritmici che prefigurano il Sacre du printernps. Segue la
Berceuse - il momento in cui l'uccello di fuoco addormenta tutti gli sgherri malvagi e spiega al
principe il segreto dell'immortalità del principe Katschej - basata sull'inquieto tappeto sonoro degli
archi e sulle cantilene incantatorie dei fiati; e lo stesso motivo di base, trasformato ma
riconoscibilissimo, è alla base del grandioso Finale, una pagina che muove dal suono del corno
solista per costruire un climax, in cui gli strumenti si aggregano progressivamente in una
conclusione liberatoria, che deve qualcosa ai Quadri di una esposizione di Musorgskij. Non è solo
la realizzazione musicale del lieto fine coreografico: posto sul discrimine fra l'uso esotico ed
estetizzante del materiale popolare e la riflessione critica e distaccata su questo materiale, il finale
di L'oiseau de feu pende a favore della seconda, rivelando le strategie tecniche ed estetiche che,
attraverso le più impensate capriole stilistiche, non verranno mai rinnegate dal compositore.

Arrigo Quattrocchi
Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Rappresentato all'Opera il 25 giugno 1910, L'uccello di fuoco inaugurò una serie di collaborazioni
tra Diaghilev e Stravinsky, prepotentemente iscrittasi fra gli eventi radicali della musica del nostro
secolo. Il segaligno giovanotto di Oranienbaum ne aveva avviato la stesura, avanti che Diaghilev gli
comunicasse l'ufficiale commissione parigina (in un primo tempo ideata in favore di Liadov), verso
il finire del 1909, in una dacia nei pressi di Pietroburgo di proprietà della famiglia Rimski-
Korsakov; e s'era risolto di dedicare l'opera ad Andrei, figlio di Nikolai, scomparso l'anno
precedente. Fra il dicembre e il marzo dell'anno successivo la composizione era stata ultimata e la
partitura d'orchestra spedita a Parigi intorno alla metà d'aprile. Quantunque la partitura stessa rechi
la data del 18 maggio, il musicista ebbe a precisare che a quella data s'era trattato, semplicemente,
di siglare taluni dettagli di un lavoro a tutti gli effetti già compiuto.

Stravinsky ha offerto, nelle memorie, più d'un gustoso particolare sulla preparazione e sul battesimo
dell'Uccello di fuoco, indugiando sin nell'evocare i frizzi, tutt'altro che arguti, del direttore
d'orchestra Pierné e il profumatissimo tout-Paris della «prima»: al cui cospetto l'eleganza sobria
dell'analogo londinese dovette fare un effetto quasi di deodorante. E stuzzicante, come sempre,
appare il catalogo dei personaggi via via incontrati lungo il percorso di quel primo, fortunato
approccio parigino: da Proust a Paul Morand, da Giraudoux a St-Leger, a Sarah Bernhardt. Pure
l'accenno stravinskiano, dovizioso di fair play, a una battuta immortale di Debussy, finisce col
connotare assai meglio d'ogni autobiografia, il senso da attribuire al famoso Esordio: qualche anno
più tardi era stato Igor, nel corso di una rappresentazione del Pelléas et Mélisande, a domandare
all'illustre collega cosa in realtà ne pensasse di quell'Uccello di fuoco allora pubblicamente elogiato.
«Que voulez-vous, il fallait bien commencer par quelque chose», era stata la risposta. «Leale ma
non proprio lusinghiera», la commentava Stravinsky (aggiungendo, cattiveria per cattiveria, che
quel Pelléas lì, sciccherie fatte salve, gli pareva proprio una gran seccatura).
A distanza di circa settantanni da quegli storici agretti, l'ingenerosità debussiana non riesce, per noi,
a svilire il fondo di giustezza che si celava in quell'insinuazione, per malefica che fosse. Il fascino
rutilante dell'Uccello di fuoco (e delle Suites orchestrali, rinomatissime, che Stravinsky ne trasse,
nel 1911, nel 1919 e nel 1945, in una con le versioni per violino e piano di taluni episodi) non è
tuttora spento e, in tempi di vacche magre, continuiamo opportunamente a dilettarcene; ma, al di là
della sapienza (mostruosa per un ventottenne) del colore e della giustezza dell'armonia, memori,
secondo nota tesi, degli insegnamenti del maestro di Tikhvin, quel che di autenticamente
stravinskiano ci si può limitare a riconoscere in questo caleidoscopio di stregonerie sono, più che
altro, illuminazioni frammentarie del decorso ritmico, brusche impennate della percussione buttate
lì, fra coltri di glissandi e volate cromatiche di strumentini ed arpe, a presagire la violentissima
interruzione del concetto motorio e di tempo-durata che il prossimo boato sismico del Sacre stava
accingendosi a sancire, insieme con l'affermazione vera del suo autore sommo.

Si narra, nell'Uccello di fuoco, dello zarevic Ivan, il quale, con l'aiuto di una penna d'oro
dell'Uccello di fuoco da lui catturato e poi rimesso in libertà, si industria di strappare dalle grinfie
del mago Katscei l'amata principessa prigioniera. Irretito dai demoni, Ivan si salva dai sortilegi del
mago prima agitando la penna d'oro e poi schiacciando un gigantesco uovo in cui è racchiusa
l'anima del malvagio Katscei. Infine egli sposa la principessa, mentre l'Uccello di fuoco vola via
verso la libertà. La Suite che Stravinsky ne approntò nel 1919 comprende un'Introduzione, in tempo
lento, caliginosa pagina di andamento cromatico descrivente il giardino incantato del mago Katscei,
la notissima Danza dell'uccello di fuoco, in cui evidenti paiono, nel lussuoso tratto timbrico, i debiti
contratti (e pagati) verso Rimski, il Rondò delle principesse, di stampo finemente elegiaco, la
Danza infernale di Katscei, episodio ribollente di irregolarità ritmiche, stravinskiano e felice come
nessun altro della partitura, la celebre Berceuse e il festoso Finale, sigillo strepitoso d'una
composizione che altre, e assai più destabilizzanti, era destinata a presagire.

Aldo Nicastro

16c 1945

L'oiseau de feu Terza Suite

https://www.youtube.com/watch?v=PBAarFCS1RI

Introduzione - Preludio e danza dell'Uccello di fuoco - Variazioni (Uccello di fuoco)


Pantomima I
Pas de deux: L'Uccello di fuoco e lo Zarevic Ivan
Pantomima II
Scherzo: Danza delle Principesse
Pantomima III
Rondò (Khorovod)
Danza infernale
Ninna-nanna (Uccello di fuoco)
Inno finale

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
tamburo militare, xilofono, pianoforte, arpa, archi
Composizione: 1945
Edizione: Leeds Music Corporation

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La personalità di Igor Stravinskij esplose nel volgere di pochi anni, trasformando in un batter
d'occhio l'oscuro musicista di San Pietroburgo nella celebrità del giorno a Parigi. Tra il 1910 e il
1914 Stravinskij compose i tre grandi balletti (L'oiseau de feu, 1910; Petruska, 1911; Le Sacre du
Printemps, 1912), attorno ai quali stanno a corona una serie di lavori meno vistosi ma altrettanto
geniali (Due poesie di Konstantin Bal'mont, 1911; Zvezdolikij, 1912; Trois Poèmes de la lyrique
japonaise, 1913; Pribautki, 1914). Il "caso Stravinskij" non è tuttavia un fenomeno isolato. Il
quinquennio 1909-1914 ha rappresentato una sorta di big bang per la musica del Novecento. La
serie di capolavori nati in quel periodo è impressionante, dai Drei Klavierstücke (1909) e Pierrot
lunaire (1912) di Schönberg a Il castello del principe Barbablù (1911) di Bartók, dalle due serie di
Préludes (1909/1913) di Debussy agli Altenberg-Lieder (1911/12) di Berg e le Sechs Bagatellen
(1913) di Webern. Questo vertiginoso ammasso di opere ha infatti configurato un nuovo canone
estetico e linguistico, come la musica del Novecento ha in seguito ampiamente testimoniato. Oggi,
quando le prospettive culturali del nostro tempo sono mutate in maniera radicale, anche quel
periodo straordinario ha bisogno di essere valutato con altre misure e nuovi strumenti interpretativi.

I veri eredi della civiltà musicale ottocentesca sembrarono ai loro contemporanei un'orda di barbari.
Essi suscitavano scandalo perché rifiutavano di parlare la lingua dell'accademia. Debussy e Ravel si
erano seduti sui banchi del Conservatorio ostentando il broncio. Schönberg era un autodidatta,
considerato dal mondo musicale viennese con disprezzo come un guru pericoloso. Anche
Stravinskij fu a suo modo un irregolare. Il suo maestro Rimskij-Korsakov gli consigliò di non
entrare nel Conservatorio di San Pietroburgo. "Studiavo con lui in questa maniera - ricordava il
compositore -. Mi dava alcune pagine di una nuova opera che aveva appena terminata (Pan
Vojevoda) nella prima stesura per pianoforte: e io dovevo orchestrarla. Allorché ne avevo
orchestrata una sezione egli mi mostrava la sua propria orchestrazione del medesimo passo. Dopo
averle confrontate mi avrebbe chiesto di spiegare perché egli avesse fatto in maniera differente. Se
non ne fossi stato capace, sarebbe stato lui allora a darmi la spiegazione". Non sembra che Rimskij-
Korsakov fosse particolarmente colpito dal talento di Stravinskij, ed è probabile che, pur
ammirandone l'originalità, non lo ritenesse adatto a una vera carriera professionale. Dal canto suo
Stravinskij non era molto tenero verso i compositori da Conservatorio come Max Steinberg, per
esempio, il marito della figlia di Rimskij-Korsakov: "Steinberg è uno di quei tipi effimeri vincitori
di premi e da prima pagina di giornale nei cui occhi brucia eternamente la presunzione, come una
lampadina elettrica in pieno giorno".

Il genio di Stravinskij crebbe libero dai pregiudizi e dai formalismi accademici, e alimentato da una
costante curiosità intellettuale verso tutto ciò che lo circondava. Il pittore Alexandre Benois lo
descrive così, all'epoca dei Ballets Russes: "Contrariamente alla maggior parte dei musicisti, che
sono in genere completamente indifferenti a tutto ciò che non rientra nella loro sfera, Stravinskij era
profondamente interessato alla pittura, alla scultura, all'architettura. Benché non avesse una vera
preparazione in questo campo, discutere con lui ci era sempre prezioso, perché 'reagiva' a tutto ciò
che costituiva la nostra ragione di vita. A quei tempi era un 'allievo' incantevole e colmo di buona
volontà. Aveva sete di chiarezza e aspirava senza tregua ad allargare le sue conoscenze. Ma ciò che
era più prezioso in lui era l'assenza di ogni dogmatismo".
Stravinskij, come Schönberg del resto, non si riteneva affatto un sovversivo. "S'è fatto di me un
rivoluzionario mio malgrado", si lamentava il compositore nella Poétique musicale. Stravinskij non
combatteva per la libertà, se la prendeva senza chiedere il permesso. Era un artista privo di catene,
di tabù, di pregiudizi. La sua dimensione temporale era il presente, e non aveva alcuna
predisposizione a proiettarsi nel futuro; il suo essere "selvaggio" dipendeva in sostanza dall'essere
alieno a qualunque poetica precostituita, compresa la propria. "Bacia la mano alle signore nel
momento stesso in cui calpesta loro i piedi", come diceva Debussy. I due musicisti si conobbero alla
prima dell'Oiseau de feu sul palcoscenico dell'Opera, il 25 giugno 1910. Debussy manifestò per la
prima volta a Stravinskij la propria "sympathie artistique", anche se un po' di ruggine affiorava in
qualche commento privato. La musica di Debussy fu una delle fonti dell'Uccello dì fuoco, ma le
radici di Stravinskij affondavano soprattutto nelle tre principali correnti della musica russa: il
mondo filo-occidentale del Conservatorio, il nazionalismo del Gruppo dei Cinque e la figura di
Cajkovskij. La morte di Rimskij-Korsakov, nel 1908, sembrò aver liberato Stravinskij da ogni sorta
di pudore nei confronti dello stile del maestro. L'Uccello di fuoco è anche un affettuoso congedo
dalla musica di Rimskij-Korsakov, di cui sviluppa in maniera ancor più efficace e libera il gusto del
colore e il senso del fantastico.

La vicenda fiabesca della lotta tra il mago Katscei e lo zarevic Ivan, incarnazioni rispettivamente
del male e del bene, ha largamente oltrepassato la soglia del teatro. L'Uccello di fuoco è diventato
popolare anche in sala di concerto, attraverso varie Suite trascritte dallo stesso autore. La più
conosciuta è la seconda, del 1919, preparata allo scopo di assicurare i diritti d'autore fuori dalla
Russia sovietica e rendere l'orchestra più snella per la sala da concerto. In essa Stravinskij concentra
in cinque numeri la musica del balletto, eliminando tutte le parti mimate e di raccordo. Nel 1945,
l'autore mise a punto negli Usa una nuova versione, sempre per motivi di diritti d'autore. Questa
volta però la revisione fu più profonda, non solo per quanto riguarda l'impiego di un'orchestra
ancora più leggera della precedente, ma soprattutto per quanto concerne il profilo della vicenda, con
il recupero di parte del materiale originario fino a formare una sequenza di dodici numeri. Il
coregrafo Balanchine impiegò per l'appunto questa Suite per la sua nuova versione del balletto, in
uno spettacolo del New York City Ballet nel 1949.

Il successo dell'Uccello di fuoco in sala da concerto rappresenta una perfetta testimonianza


dell'eccezionale capacità della musica di Stravinskij di fondere la funzione narrativa con
l'autonomia del linguaggio. Lo scontro tra il mago e il giovane zar, per esempio, è raffigurato
attraverso la contrapposizione tra lo stile cromatico, che esprime il mondo malvagio di Katscei, e lo
stile diatonico della figura magica dell'Uccello di fuoco e delle principesse prigioniere. Un'idea di
questo tipo era già stata sperimentata da Wagner in Parsifal, con il quale l'Oiseau de feu ha più d'un
punto di contatto. All'interno di questo quadro generale, la forza espressiva della musica di
Stravinskij nasce da un potente impulso ritmico, che solo in parte deriva dalla tradizione "popolare"
delle danze russe. Le parti più spettacolari dell'Uccello di fuoco, come la Danza infernale, mostrano
un'idea nuova del movimento, spezzato in una sequenza irregolare di segmenti ritmici, che
acquistano a ogni ripetizione un dinamismo sempre nuovo e un carattere differente. Questa forma
ritmica variabile, ancora allo stadio germinale nell'Uccello di fuoco, diventerà un paio d'anni dopo
l'elemento esplosivo del Sacre du printemps e costituisce il nucleo più originale del balletto di
Stravinskij.

Oreste Bossini
16A 1965

Canon (on an russian popular tune) sul tema del Finale de "L'oiseau de feu

https://www.youtube.com/watch?v=5mxvEkjnPrM

https://www.youtube.com/watch?v=4_EQKCRANyo

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti,
controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, pianoforte, arpa, archi
Composizione: 1965
Prima esecuzione: Toronto, 16 dicembre 1965
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1973

24a 1917

Le chant du rossignol

https://www.youtube.com/watch?v=mMK5kue-NGg

https://www.youtube.com/watch?v=3eDAgO--N3k

Poema sinfonico in tre parti

Introduzione: Festa nel palazzo dell'imperatore della Cina - Presto


Canto dell'usignolo: I due usignoli
L'usignolo meccanico: Malattia e guarigione dell'imperatore della Cina

Organico: 2 flauti, 2 oboi (2 anche corno inglese), 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3
tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, tamburo basco, tamburo militare, grancassa, piatti, tam-
tam, celesta, pianoforte, 2 arpe, archi
Composizione: Morges, 4 aprile 1917
Prima esecuzione: Ginevra, Victoria Hall, 6 dicembre 1919
Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1921
Utilizza parti dell'opera "Le rossignol"

Guida all'ascolto (nota 1)

Nel 1908 Stravinsky cominciò a comporre la sua prima opera, Le Rossignol, tratta dalla celebre
novella sull'usignolo e l'imperatore della Cina di Hans Andersen e verseggiata in tre atti da S.N.
Mitusov. Nel 1909 era pronto il primo atto, ma il lavoro si interruppe perché Diaghilew
commissionò al musicista di scrivere L'uccello di fuoco per la stagione parigina dei Balletti Russi
(25 giugno 1910). Seguirono poi Petruska (13 giugno 1911) e Le Sacre du printemps (29 maggio
1913), che impedirono al compositore di occuparsi del progetto del Rossignol, la cui partitura
venne ripresa e completata del secondo e terzo atto tra il 1913 e il 1914. In questa versione Le
Rossignol, dopo il fallimento del Teatro Libero di Mosca, al quale inizialmente era destinato, venne
presentato all'Opera di Parigi il 26 maggio 1914 sotto la direzione d'orchestra di Pierre Monteux e
con la scenografia di Alexandre Benois, che tentò di evocare il paesaggio sontuosamente coloristico
di una Cina leggendaria. L'autore non mancò di rendersi conto della diversità stilistica esistente fra
il primo e gli altri atti: questi ultimi più vicini alla tecnica orchestrale già adottata nel Sacre. Allora
egli pensò bene di ricavarne nel 1917 un poema sinfonico in tre parti, Le chant du rossignol, e
successivamente, su consiglio di Diaghilew, un balletto, che andò in scena il 2 febbraio 1920
all'Opera di Parigi con la coreografia di Massine, i costumi di Matisse e la direzione d'orchestra di
Ansermet. Pure in questo caso ci fu un freddo successo di stima, che non si modificò poco dopo,
nell'estate dello stesso anno, al Covent Garden di Londra.

Anche se la struttura dell'opera lirica Le Rossignol viene considerata più riuscita e attraente rispetto
alla successiva trasposizione sul piano puramente strumentale, va detto che il poema sinfonico,
realizzato utilizzando specialmente temi e invenzioni strumentali del secondo e del terzo atto, pone
in evidenza i pregi della variopinta scrittura orchestrale stravinskiana, improntata ad un clima ricco
di taglienti effetti sonori e dagli accenti di delicata féerie, con toni e impasti timbrici di sapore più
slavo che cinese. Nel primo quadro (Marche chinoìse) è descritto il fastoso ambiente della corte
imperiale cinese, dove ci si prepara a ricevere degnamente l'usignolo vero, in carne e ossa. Un ritmo
di marcia cinese sottolinea l'arrivo del vecchio imperatore. Nel secondo quadro (Chant du
rossignol) l'usignolo canta stupendamente tanto da conquistare il cuore dell'imperatore, al quale
però viene portato in dono dal Giappone uno stupefacente usignolo meccanico, che si slancia in una
serie di trilli eleganti e virtuosi. L'imperatore mostra di preferire il cinguettante automa e licenzia il
vero usignolo. Nel terzo quadro (Jeu du rossignol mécanique) è raffigurato l'imperatore agonizzante
sul suo letto: ogni cura è inutile. Forse il canto dell'usignolo può compiere il miracolo, laddove non
arriva la scienza: l'usignolo meccanico però resta muto, mentre quello vero con la sua melodiosa
voce allontana la morte e rianima l'imperatore. Questi accoglie ironicamente con il saluto di
«Buongiorno!» i cortigiani frastornati e già preparati al peggio.

Per gustare meglio il simbolismo magico di questa favola orientale, resa più preziosa e suggestiva
dalla musica stravinskiana con i suoi ammiccamenti alla tessitura ritmica del Sacre, ci sembra
opportuno riportare il testo della novella di Andersen, che dice così: «Dovete sapere che nella Cina
l'imperatore è cinese e che i cinesi sono tutti quelli che gli stanno d'intorno. Il palazzo
dell'imperatore era il più splendido palazzo del mondo; era fatto tutto di porcellana preziosissima,
ma così delicata, così fragile, che bisognava badar bene a quel che si faceva, anche soltanto
nell'accostarvisi. Il giardino era pieno di magnifici fiori, e ai più preziosi il giardiniere aveva
attaccato certi campanellini d'argento, per modo che nessuno potesse passare senza osservarli. Sì,
nel giardino dell'imperatore tutto era mirabilmente combinato; ed era un giardino immenso:
nemmeno il giardiniere sapeva dove terminasse. Cammina, cammina, cammina, si arrivava ad una
superba foresta, con alberi alti alti, e limpidi laghi; e la foresta si stendeva avanti avanti sino al
mare, azzurro e profondo, sì che i bastimenti, costeggiando, potevano passare sotto ai rami dei
grandi alberi, che sporgevano sull'acqua. Tra quegli alberi, viveva un usignolo, il quale cantava così
meravigliosamente, che persino il povero pescatore, con tante altre cose che aveva per il capo,
quando usciva la notte a gettar le reti, non poteva fare a meno di fermarsi, immobile ad ascoltarlo.
L'imperatore però non sapeva di questo prodigio che viveva nel suo giardino; lo apprese da un libro
che parlava della sua reggia.

Fu ordinato al Cavaliere d'Onore di cercare l'usignolo, ma dopo tante inutili ricerche ci si affidò ad
una giovane sguattera che lo aveva ascoltato.

Guidati da lei, i cortigiani si recarono in pomposo corteo all'albero dell'usignolo. Per via udirono
muggire una mucca.

"Oh - gridarono i paggi di corte. - Eccolo finalmente! E spiega una potenza meravigliosa davvero in
così piccolo animale. Certo debbo averlo sentito un'altra volta".

Chiarito l'equivoco il cammino riprese. Ma ecco che si udirono le rane.

"Magnifico! - esclamò il Predicatore della Corte cinese. - Ora che lo sento, somiglia ad un
campanellino di chiesa".

Ma finalmente l'usignolo incominciò a cantare tra la meraviglia dei dignitari che lo invitarono
immediatamente a corte.

L'esibizione dell'uccellino ottenne il più grande successo e fu scritturato stabilmente. Ma un giorno


l'Imperatore ricevette un pacco con la scritta "Usignuolo". Era un usignuolo meccanico dono
dell'Imperatore del Giappone. La nuova meraviglia fece dimenticare l'uccello vivo che tornò alla
sua foresta. Ma il meccanismo si guastò e non fu possibile ripararlo completamente. Dopo cinque
anni l'Imperatore si ammalò gravemente, la Morte stava già seduta sul suo petto e oscuri fantasmi,
simboli delle sue azioni buone e cattive, apparvero tra le cortine dell'alcova. Ma dalla finestra
aperta l'usignuolo vivo incominciò a cantare. La Morte, che si era impossessata della corona, della
spada e della bandiera dell'Imperatore, pur di far proseguire il canto dell'usignuolo, restituì uno alla
volta tutti gli oggetti e scomparve.

"Devi rimanere sempre con me! - disse l'Imperatore. - Canterai come ti piace ed io farò a pezzi
l'uccello meccanico".

"No davvero! - rispose l'usignuolo. - Esso ha fatto del suo meglio sin che ha potuto; conservalo
come solevi fino ad ora. Io non posso fare il mio nido nel palazzo, per viverci sempre; lascia che ci
venga quando ne sento desiderio: allora, la sera, mi poserò sul ramo accanto alla tua finestra e ti
canterò qualche cosa, che ti farà lieto e pensoso insieme. Ti canterò di quelli che sono felici e di
quelli che soffrono: ti canterò del bene e del male, ch'è intorno a te e ti rimane celato.

Il piccolo cantore vola per ogni dove, presso la capanna del povero pescatore e sul tetto del
contadino, e conosce tutti coloro che vivono lontani da te e dalla Corte... ma mi devi promettere una
cosa".

"Tutto quello che vuoi!" disse l'imperatore.

"Di una cosa ti prego: non dire ad alcuno che hai un uccellino, il quale ti tiene informato di tutto: e
a questo modo le cose andranno molto meglio".
E l'usignuolo volò via.

I valletti entrarono per dare un'occhiata all'Imperatore morto, e sì... altro che morto! L'Imperatore
era là tranquillo, che li saluta: "Buongiorno, ragazzi!"».

32A 1917 - 1925

Prima Suite

https://www.youtube.com/watch?v=d7IsdIumUMQ

https://www.youtube.com/watch?v=Z91FdT6QEj4

Andante
Napolitana
Espanola
Balalaika

Organico: 2 flauti, oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, corno, tromba, trombone, basso tuba, tamburo basso,
archi
Composizione: 1917 - 31 dicembre 1925
Edizione: J. W. Chester, Londra, s. a.
Arrangiamento per orchestra di quattro brani dai "Cinque Pezzi facili per pianoforte"

32B 1921

Seconda Suite

https://www.youtube.com/watch?v=385KhKIR-Gg

https://www.youtube.com/watch?v=ynSwsfuynNo

Marcia
Valzer
Polka
Galop

Organico: 2 flauti, oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, corno, 2 trombe, trombone, basso tuba, percussioni,
pianoforte, archi
Composizione: 1921
Edizione: J. W. Chester, Londra, s. a.
Arrangiamento per orchestra dei "Tre pezzi facili per pianoforte" e del Galop dai "Cinque Pezzi
facili per pianoforte"

38A 1928
Quattro Studi per orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=2bNDEtxuV7o

https://www.youtube.com/watch?v=-3D8NWUj8z8

Danza
Stravagante
Cantico
Madrid

Organico: 3 flauti, 3 oboi, 4 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 2 tromboni, baso tuba, timpani,
pianoforte, arpa, archi
Composizione: 2 ottobre 1928
Prima esecuzione: Berlino, 7 novembre 1930
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, s. a.
I numeri 1, 2 e 3 sono l'orchestrazione dei "Tre pezzi per quartetto d'archi", 25 mentre il numero 4 è
l'orchestrazione dello "Studio per pianola", 38

Guida all'ascolto (nota 1)

I Quatre études sono la trascrizione per orchestra dei Tre pezzi per quartetto d'archi, compiuta a
Morges nel 1918, durante il periodo svizzero (1909-1919); a questi fu aggiunto un quarto pezzo,
Madrid, originariamente per pianola, dieci anni dopo. La prima esecuzione dell'orchestrazione si
ascoltò il 7 novembre 1930, a Berlino.

Gli originali Tre pezzi per quartetto d'archi, composti a Salvan nel 1914, erano stati dedicati a
Ernest Ansermet e pubblicati senza titolo; identificati solo dalle indicazioni metronomiche,
sembrano indulgere all'astratto, suggerendo atmosfere diverse, dalla popolare alla liturgica, e
portano il quartetto d'archi oltre i consueti canoni strumentali. Stravinskij costella la partitura di
inusuali indicazioni, ai fini di una corretta esecuzione, come quando, in francese, chiede al secondo
violino e alla viola di «ruotare rapidamente lo strumento (tenendolo come un violoncello) al fine di
poter eseguire il pizzicato come un arpeggio in senso contrario». L'esecuzione non mancò di
sconcertare i critici: «Se questo tipo di passaggio ha diritto di cittadinanza nell'arte del Quartetto,
allora la fine è vicina», scrisse George Dyson su The New Music.

Alla successiva esecuzione Amy Lowell (poi Premio Pulitzer) scrisse una poesia per tentare di
riprodurre in altro ambito espressivo il suono e il movimento della musica; rispetto al primo
movimento si legge: «Bang! Bump! Tong! Petticoats, Stockings, Sabots, Delirium flapping its
thigh-bones; Red, blue, yellow, Drunkennes steaming in colours; Red, yellow, blue, Colours and
flesh weaving together, In and Out with the dance, Coarse stuffs and hot flesh weaving together».

Al momento di usarli come base per l'orchestrazione nei Quattro studi per orchestra, Stravinskij
diede ai brani i titoli che conosciamo: Danza, Stravagante, Cantico, Madrid.

Noi primo movimento, la Danza, una melodia di quattro note, comprese nell'ambito di una quarta,
rimanda alle arie popolari russe di cui l'autore fece gran uso negli anni attorno alla composizione
dei Tre pezzi; l'orchestrazione gli consente poi di sottolineare gli effetti di zampogna e bordone.
Stravagante, che ci ricorda Petruska, rinvia per l'autore allo spettacolo dell'attore acrobata Little
Tich, visto a Londra nel 1914, di cui Stravinskij parla nelle Memories: «il movimento a scatti,
spasmodico, e i su e giù, il ritmo, perfino il modo o il tono scherzoso della musica furono suggeriti
dall'arte del grande pagliaccio». Del mistico Cantico invece, nelle Expositions Stravinskij scrisse:
«le ultime venti battute fanno parte della musica migliore che io abbia mai scritto in quel periodo».

Il quarto brano, Madrid, originariamente intitolato Studio, come già detto, era per pianola.
Composto anch'esso a Morges, nel 1917, e pubblicato dalla Aeolian appunto come rullo di pianola
n. T967B, rinvia alla visita madrilena nel 1916. Come si legge nelle Chroniques stravinskijane, «fu
ispirato dai sorprendenti risultati che si ottenevano dalla mescolanza di melodie prodotte da
pianoforti meccanici e orchestrine nelle strade e nelle piccole taverne notturne di Madrid». La
scrittura da una parte allude alle fioriture del canto spagnolo, con annessa cadenza terzinata, d'altra
parte è limitata dalla scarsa persistenza del suono nella pianola, di cui sfrutta al massimo tutti i
registri. Nella trascrizione per orchestra, la composizione fiorisce nella sua natura cubista, e sfrutta
sapientemente il colore del pianoforte. Non a caso, della versione orchestrale di Madrid esiste anche
una stesura per due pianoforti, realizzata dal figlio Soulima Stravinskij.

Roberto Giuliani

42 1918

Ragtime

https://www.youtube.com/watch?v=QLwqVJ-owtg

https://www.youtube.com/watch?v=9y8XRsLxuro

Organico: flauto, clarinetto, corno, cornetta, trombone, basso tuba, grancassa, 2 casse chiare, piatti,
cymbalom, 2 violini, viola, contrabbasso
Composizione: Morges, 1918
Prima esecuzione: Londra, Aeolian Hall, 27 aprile 1920
Edizione: Sirène, Parigi, 1919
Dedica: Eugenia Errazuriz
46a 1922
Pulcinella
Suite da concerto

Sinfonia
Serenata
Scherzino - Allegretto - Andantino
Tarantella
Toccata
Gavotta (con due variazioni)
Vivo
Minuetto - Finale
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, tromba, trombone, 2 violini, viola, violoncello e
ripieno d'archi
Composizione: 1922
Prima esecuzione: Boston, Symphony Hall, 22 dicembre 1922
Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1922

48 1920

Sinfonie per strumenti a fiato

https://www.youtube.com/watch?v=YiAWGWfWUHs

https://www.youtube.com/watch?v=2w3uzZAG1YQ

Prima versione

Due melodie popolari russe


Pastorale
Danza selvaggia
Corale

Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), flauto contralto, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti contralti, 3
fagotti, (3 anche controfagotto), 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba
Composizione: Garches 20 novembre 1920
Prima esecuzione: Londra, Queen's Hall, 10 giugno 1921
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1952
Dedica: Claude Debussy

Guida all'ascolto (nota 1)

È comunemente noto come le opere di Igor Stravinsky possano essere suddivise in periodi tra loro
differenti in base allo stile compositivo adottato per la loro composizione. Al primo periodo detto
"russo" (1909-1918) ne segue infatti uno definito "neoclassico" (1919-1950 circa), ed a questo
infine un terzo, quello "seriale" tra gli anni Cinquanta e Sessanta che conclude il cammino del
maestro russo scomparso nel 1971. Se le composizioni che cadono all'interno di questi periodi
incarnano in modo compiuto lo spirito della scelta stilistica fatta dall'autore, quelle invece scritte in
un momento di transizione e che fungono da cerniera fra due distinti momenti del percorso
stravinskyano sono spesso caratterizzate da fenomeni di ibridazione in cui si vede il nuovo e
contemporaneamente si ascolta il vecchio. Ciò accade, per esempio, nelle Symphonies
d'instruments à vent (Sinfonie di strumenti a fiato) in cui coesistono alcuni aspetti del linguaggio
neoclassico con altri provenienti da quello russo.

Scritte nel 1920 in memoria di Claude Debussy (e poi riviste in piccoli aspetti marginali nel 1947),
le Symphonies elaborano materiali musicali precedenti a quella data, materiali che Stravinsky aveva
solo appuntato, ma ai quali non era mai riuscito a dare una struttura organica e compiuta. La
richiesta da parte della "Revue musicale" di avere dal compositore un brano che commemorasse
Debussy, scomparso nel 1918, fornì l'occasione a Stravinsky di metter ordine fra i suoi schizzi
musicali. L'opera che ne nacque risentì comunque di questa sua origine frammentaria dovuta alla
provenienza da brevi suggestioni melodiche, da idee musicali allo stato di abbozzo; ciò che però
permise all'autore di trasformarle in un lavoro nel complesso equilibrato e significativo fu proprio il
sistema unitario con il quale le trattò in fase realizzativa.

Cosa c'è dunque di "russo" nelle Symphonies? Possiamo individuarlo nell'andamento diatonico dei
temi, nel loro ondeggiare in una bitonalità modale; nella semplice brevità degli incisi melodici, nel
loro riproporsi identici a se stessi o variati con parsimonia, senza un vero sviluppo, quasi come dei
non sense, dei giochi, dei rompicapo sonori. Ed ancora nella ritmica fatta di ghirigori metrici su
misure complesse separate spesso da larghe pause. Eredità queste di un gusto popolare e liturgico
russo che Stravinsky aveva rivisitato in Renard del 1916, nelle Noces del 1917, ed in alcune brevi
liriche come Pribaoutki del 1914 e le Quattro canzoni russe del 1919, eredità mai dimenticate dal
compositore, e che in tanti modi, più o meno evidenti e diretti, riappaiono in molti dei suoi lavori
successivi.

Cosa c'è allora di "neoclassico"? Sicuramente già il titolo. Il termine Symphonies non ha
assolutamente nulla a che vedere con la sinfonia intesa quale genere musicale (per intenderci dalla
scuola di Mannheim in poi), bensì si riallaccia alla definizione di "fare musica insieme" nella cui
accezione in età rinascimentale si usava la parola "sinfonia" (per esempio a Venezia con Giovanni
Gabrieli nella seconda metà del 1500). Una rivisitazione quindi dell'antico in chiave moderna
caratteristica dello stile "neoclassico", ed a cui si affianca la scelta anti-ottocentesca, anti-romantica,
e da qui anti-espressiva di escludere dall'organico gli archi per far posto ad un'ampia famiglia di
fiati che va dal flauto alla tuba. Una ricerca quindi di timbri, di sonorità che altre volte riapparirà
nel periodo neoclassico dell'autore - per esempio nell'Ottetto per strumenti a fiato del 1923, o nella
Messa del 1948 - e che nelle Symphonies d'instruments à vent troviamo per la prima volta, non
senza debito nei confronti comunque del "russo" Sacre du printemps del 1913.

Articolate in quattro episodi - Due melodie popolari russe, Pastorale, Danza selvaggia, Corale - le
Symphonies non diedero a Stravinsky delle grandi soddisfazioni in termini di consenso di pubblico,
ma il compositore se lo aspettava, tanto che ebbe a scrivere: «Io non contavo, e infatti non ne avevo
la possibilità, su un successo immediato di questo lavoro. Manca di quegli elementi che senza
ombra di dubbio soddisfano l'ascoltatore abituale, o ai quali è avvezzo. È inutile cercare in esso un
tono appassionato o una brillantezza dinamica. È un rituale austero che si dispiega come una serie
di brevi litanie tra differenti gruppi di strumenti omogenei. [...] Questa musica non mira a "piacere"
a un uditorio, né a suscitare le sue passioni. Nondimeno, speravo che sarebbe stato gradito ad
alcune persone nelle quali una ricettività puramente musicale superasse il desiderio di soddisfare le
loro brame sentimentali».

Giancarlo Moretti

48a 1945 - 1947

Sinfonie per strumenti a fiato

https://www.youtube.com/watch?v=VyKTujyLie4

https://www.youtube.com/watch?v=IiJyrnVuJs4
Seconda versione

Due melodie popolari russe


Pastorale
Danza selvaggia
Corale

Organico: 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 3
trombe, 3 tromboni, basso tuba
Composizione: 1945 - 1947
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1952

49a 1962 circa

Otto Miniature strumentali


Arrangiamento di "Les cinq doigts" per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=kpY0R5d19Ow

https://www.youtube.com/watch?v=eHaaV7YVy5U

Andantino (do maggiore)


Vivace (la maggiore)
Lento (re maggiore - minore)
Allegretto (do maggiore)
Moderato alla breve (mi minore)
Tempo di marcia (si maggiore)
Larghetto (mi minore)
Tempo di tango (do maggiore)

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, corno, 2 violini, 2 viole, 2 violoncelli


Composizione: 1962 circa
Prima esecuzione: Toronto, Massey Hall, 29 aprile 1962
Edizione: J. W. Chester, Londra, 1963
Dedica: Lawrence Morton
Vedi la versione originale per pianoforte al n. 49

Guida all'ascolto (nota 1)

Le Eight Instrumental Miniatures sono una trascrizione di Les Cinq Doigts, otto pezzi pacili per
pianoforte composti da Strawinsky nel 1921. I pezzi si collocano agli esordi dello stile neoclassico,
permeati ora di nostalgie settecentesche (siamo nell'area del Pulcinella) o ballettistiche franco-russe.
Nel 1962 Strawinsky ne trasse una versione per 15 strumenti ad uso delle sue apparizioni come
direttore d'orchestra assieme a Robert Craft. La versione orchestrale stuzzica l'estro combinatorio
del compositore con brevi accenni a sviluppi canonici del materiale. Mutata anche la successione
dei pezzi, conclusi in ogni caso da una meccanizzazione di un ritmo di tango, una danza ridotta
nella citazione strawinskiana ad objet trouvé, detrito di quotidianità contro i cui luoghi comuni la
versione orchestrale si profonde in vari sberleffi.

Gioacchino Lanza Tomasi

58a 1934

Divertissement
Suite sinfonica dal balletto "Le baiser de la fée"

https://www.youtube.com/watch?v=I1YWL8IX_W4

https://www.youtube.com/watch?v=UJpcUFzL2w8

Sinfonia
Danses suisses
Scherzo
Pas de deux:
Adagio
Variazione
Coda

Organico: 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
percussioni, arpa, archi
Composizione: 1934 (revisione 1949)
Prima esecuzione: 4 novembre 1934
Edizione: Edition russe de Musique, Parigi, 1938
Edizione della revisione: Boosey & Hawkes, New York, 1950

Guida all'ascolto (nota 1)

Tutti sappiamo che Igor Stravinskij, massimo esponente della modernità barbarica (si diceva fauve)
e fiabesco-esotica fino al 1920 circa, cambiò da quel momento il carattere del suo stile per adottare
forme e modi musicali che erano legati al passato della musica europea. Si iniziò allora nella sua
arte un lungo periodo creativo definito da subito, e tuttora così chiamato, neo-classico. La
definizione riassuntiva è comoda, ma fuorviarne. Non solo perché essa, trasportata com'è dalla
critica letteraria e dalla storia della pittura e della scultura, ci fa immaginare, a torto del tutto in
questo caso, lavori guidati da modelli accademici ellenizzanti, da scuole di alta retorica o da ateliers
di scultura; ma soprattutto perché il vero classicismo musicale è quello dei grandi viennesi tra Sette
e Ottocento, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, che non sono, se non occasionalmente, gli
antecedenti dei modi espressivi di Stravinskij (quale che fosse la sua ammirazione per loro, alta e
costante almeno per i primi due). Nella sua cosiddetta trasformazione, da genio esotico a genio
europeo, Stravinskij non lasciò cadere un carattere essenziale del suo genio, la diffidenza per il
Romanticismo e la musica di sentimenti e di pensieri (il sinfonismo tedesco e il dramma
wagneriano), che ne è componente primaria e che il classicismo viennese ha preparato. Sì che per la
musica che Stravinskij creò dal 1920 al 1950 circa si dovrebbe dire meglio, se proprio si deve dire
in sintesi, pre-classicismo (o neo-barocco o altra formula qualsiasi) che neo-classicismo (la verità è
che ogni "pre-" e ogni "neo-" mal convengono a un artista della sua statura e originalità).

Egli diffidava, dunque, della musica strumentale romantica e soprattutto tardo-romantica, che
guardava all'emancipazione dalle tradizioni e non più alla disciplina oggettiva delle regole: proprio
questa, invece, lo Stravinskij parigino intese tutelare, aristocratico forestiero che tentava di mettere
in salvo dall'anarchia i beni degli ospiti. Sì che non era contraddittorio che l'autore di Petrouscka e
del Sacre, cioè delle partiture maggiori del balletto novecentesco, ammirasse il balletto ottocentesco
come genere fondato sulle forme chiuse, sulle regole e sulle tradizioni: e l'ammirasse non solo in
Cajkovskij, come dirò tra poco, dunque nel genio massimo del balletto tradizionale, ma anche negli
elegantissimi autori francesi quali Adam e l'incantevole Delibes. Poi, alla conversione, diciamo
così, neo-classica non fu estranea l'ostilità che egli provava, per nascita, educazione, carattere
personale, verso lutti i sovvertimenti risolutivi, o annunciatisi per tali, nella politica e nell'arte -
sovvertimenti di cui quegli anni intorno al 1920 non furono, certo, avari.

Inoltre per lui la musica europea non fu mai una storia di opere e di artisti, in una successione di
società diverse, di stili, di poetiche, di mutamenti e sviluppi secondo un prima e un poi; fu bensì
un'eredità intera e compiuta di forme, di invenzioni, di consuetudini tra loro equivalenti, di cui egli
si sentì felicemente beneficiario, per meriti incontestabili di genio, e che egli si appropriò secondo
le sue esigigenze artistiche nate di momento in momento, o secondo le sue simpatie, le scoperte o
gli altrui suggerimenti, senza alcun timore di contraddizioni e di anacronismi (che non esistono,
almeno per chi, come lui, non crede nella storia). E se in lui il gusto per l'essenziale, la precisione
dei pensieri, la riluttanza agli eccessi sentimentali, l'ammirazione per la competenza artigianale,
erano una seconda natura, avranno agito poi sulle sue scelte e sui giudizi anche le eleganti
ricercatezze, le caustiche intolleranze, i paradossi brillanti della mondanità cosmopolita di cui era
uno dei protagonisti. Solo che in lui l'antiromanticismo era una necessità, autentica e fermissima,
dell'intelligenza e delle energie creative.

Noi possiamo immaginare lo stupore generale, di amici e di ammiratori, quando si seppe che
Stravinskij preparava un balletto elaborando musiche di Cajkovskij. Si trattò davvero di sconcerto e
di fastidio (contro la produzione neo-classica successiva questo si accrebbe con gli anni,
specialmente dopo che Stravinskij si trasferì negli Stati Uniti). Bach e Pergolesi, va bene! Ma
Cajkovskij, il sentimentale, romantico Cajkoivskij?

Nella realtà la svolta di Stravinskij era meno sensazionale di quel che appariva. Infatti, da
Cajkovskij in persona, nientemeno, il piccolo Igor decenne aveva avuto la certezza della propria
vocazione alla musica. L'episodio è noto (e l'ha narrato con poetica memoria Stravinskij stesso nel
libro di riflessioni e ricordi Expositions and Developments). Nell'autunno del 1893 egli andò con la
madre al Mariinskij per vedere Russlan e Ludmila di Glinka (vi cantava suo padre Fiodor, celebre
basso, ed era serata di gala). Nel primo intervallo la madre l'accompagnò nel foyer già affollato e
d'un tratto esclamò: "Igor, guarda, ecco Cajkovskij". «Guardai e vidi un uomo con capelli bianchi,
grandi spalle e retro corpulento, e questa immagine è rimasta nella retina della mia memoria per
tutta la vita». Cajkovskij morì quindici giorni dopo, il 6 novembre.

Ma è più di un legame autobiografico ciò su cui si fondava l'ammirazione di Stravinskij per


Cajkovskij, è qualcosa che riguarda la cultura e la creazione. Egli vedeva, infatti, in Cajkovskij, e
con ragione, l'artista russo che in gran parte della sua produzione, e certamente nei balletti, aveva
avviato l'innesto della cultura europea, col suo linguaggio musicale e con le idee, nella tradizione
musicale colta della Russia, l'innesto che aveva orientato e nutrito, in Stravinskij, lo sviluppo delle
enormi energie creative: che, pur enormi, non nascondevano una lieta affinità con l'aristocratica
leggerezza dei modi e degli affetti del grande antecedente. Dunque, Stravinskij sapeva che almeno
in questo egli era, più che ogni altro musicista russo fattosi europeo, il continuatore dell'opera di
Cajkovskij, pur nelle evidenti diversità di carattere e di linguaggio - le diversità che, tuttavia, per
una volta sono meno evidenti nella musica del Baiser de la fée, che è nata da Cajkovskij e in
omaggio a lui. E infatti: «Je dédie ce ballet à la memoire de Pierre Tchaìkovsky en apparentant sa
Muse à cette fée et c'est en cela qu'il devient une allégorie. Cette Muse l'a égalemant marqué de son
baiser fatal dont la mystérieuse empreinte se fait ressentir sur toute l'oeuvre du grand artiste». Tale è
la dedica sulla prima pagina della partitura.

Ma proprio Le baiser de la fée segnò una rottura nel sodalizio artistico e intellettuale, che durava da
20 anni, tra Stravinskij e Diaghilev. Nel 1928 la celeberrima diva Ida Rubinstein, ballerina, mima,
attrice, formò a Parigi una sua compagnia, abbandonando quella di Diaghilev, il quale, despota e
geloso di tutto com'era, si infuriò. E il suo sdegno naturalmente si accrebbe quando egli seppe che
Stravinskij aveva accettato la commissione per una balletto della Rubinstein, sì che interruppe i
rapporti col suo musicista più grande.

Il balletto andò in scena il 27 novembre 1928 all'Opera di Parigi, coreografia della Nijinska, scene e
costumi di Alexander Benois, con un tiepido successo. Ebbe una sola replica a Parigi e poche altre
nei due anni successivi a Bruxelles, a Monte Carlo, alla Scala; fu poi rimesso in scena da altri
coreografi (tra cui Balanchine a New York nel 1937), ma non godette mai del favore delle altre
partiture per balletto di Stravinskij. Nel 1931 Stravinskij permise che si eseguisse in concerto una
scelta di episodi dal balletto fatta da Ansermet, e tre anni dopo elaborò egli stesso una suite col
titolo Divertimento (revisione del 1949, che è la partitura in commercio). Delle quattro scene del
balletto il Divertimento contiene quasi tutta la prima (Sinfonia), quasi tutta la seconda (Danses
suisses), l'inizio della terza scena (Scherzo), e il Pas de deux sempre dalla terza scena (Pas de deux,
appunto, con una nuova chiusa per la versione da concerto).

Il soggetto del balletto, che si può seguire, almeno con la fantasia, anche nella musica del
Divertimento, è tratto da un racconto di Hans Christian Andersen, La fanciulla dei ghiacci (noto
anche come La vergine dei ghiacci o La regina delle nevi), di sconsolata malinconia, che la
riduzione e le poche modifiche, apportate da Stravinskij, accrebbero. Eppure dalla musica si
effonde un delicato lirismo, affatto insolito in Stravinskij, un lirismo che è davvero una
«mistérieuse empreinte» lasciata da Cajkovskij. «Col suo bacio misterioso una fata segna un
bambino fin dalla nascita e lo sottrae alla madre; vent'anni dopo, allorché il giovane sta
raggiungendo il momento della massima felicità, torna a dargli il bacio fatale e con ciò lo rapisce
alla terra per possederlo eternamente, nella gioia suprema» (Chroniques de ma vie). Si è creduto in
un primo momento che tutti i temi musicali del balletto (e quindi del Divertimento) risalissero a
invenzioni di Cajkovskij, il che era vero solo in parte. In seguito Stravinskij ha rivendicato a se
stesso almeno quindici temi: ma di due, addirittura, non ricordava se si trattasse di musica sua o di
Cajkovskj., Tale era stata la fellice immedesimazione del suo con l'altro stile! Per non intervenire
sulla tecnica strumentale di Cajkovskij e per non subirne, lavorando, l'autorità e il sortilegio,
Stravinskij adoperò, o disse di aver adoperato, solo melodie tratte dalle musiche per pianoforte e
dalle romanze per voce e pianoforte (ma compaiono anche occasionali reminiscenze di musica
strumentale).
Nulla importa che Le baiser del fée, e il Divertimento trattone, non siano tra le partiture celebri e
celebrate di Stravinskij. Se a creare pregiudizi hanno operato il diffuso sospetto per lo stile
cosiddetto neo-classico e soprattutto l'ispirazione da Cajkovskij, resta che l'eleganza, la grazia, la
sorprendente schiettezza di questa musica costituiscano un caso unico nell'arte di Stravinskij e ne
facciano, in poche parole, un capolavoro di intelligenza, di sensibilità, di tenerezza (e nel
Divertimento, la cui durata è circa la metà di quella dell'intero balletto, quasi nulla si perde delle
qualità stilistiche ed emotive dell'originale teatrale). Stravinskij, senza alcuna ironia stilistica, in cui
egli era maestro insuperato (pensiamo al Pulcinella o a Jeu des cartes), senza arcaismi, senza
ermetismi allusivi, raccontando con arte e discrezione la favola di un destino infelice (un ragazzo
non può avere la sua felicità d'amore, solo perché una creatura gelida e demoniaca lo ha destinato
ad altra felicità, sovrumana), ci ha parlato di sé, dei suoi affetti, della sua nostalgia e gratitudine per
un irrepetibile passato, forse più che in qualunque altro dei suoi lavori, sia pure più compiuti e
profondi di questo.

Franco Serpa

68 1936 - 1937

Preludium
per orchestra jazz

https://www.youtube.com/watch?v=kGst_-SmFIY

https://www.youtube.com/watch?v=r0uv-L9DdiY

Organico: orchestra jazz


Composizione: Parigi, 1936 - New York, 1937 (revisione 1953)
Prima esecuzione: Los Angeles, Philarmonic Auditorium, 18 ottobre 1953
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1968

70 1937 - 1938

Concerto in mi bemolle maggiore (Dumbarton Oaks)

https://www.youtube.com/watch?v=0MNgkqXrLEA

https://www.youtube.com/watch?v=jX6Fd5B5lbQ

https://www.youtube.com/watch?v=hKJZ9WW329s

Tempo giusto
Allegretto
Con moto

Organico: clarinetto, fagotto, 2 corni, 3 violini, 3 viole, 2 violoncelli, 2 contrabbassi


Composizione: Château de Montoux, primavera 1937 - Parigi, 29 marzo 1938
Prima esecuzione: Dumbarton Oaks, tenuta di Robert Woods, 8 maggio 1938
Edizione: Schott, Magonza, 1938

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il programma di stasera si conclude con un lavoro appartenente alla stagione neoclassica di Igor
Stravinsky, il Concerto in mi bemolle maggiore per orchestra da camera, detto Dumbarton Oaks,
dal nome di una tenuta nel distretto americano di Columbia, il cui proprietario Robert Woods Bliss,
aveva commissionato al compositore tale musica, eseguita per la prima volta nella stessa località l'8
maggio 1938. Il brano fu scritto in origine per orchestra da camera, così come viene eseguito
stasera, ma l'autore si preoccupò di trascriverlo nella versione per due pianoforti, raccontando poi di
aver composto su commissione tale partitura, allo scopo di pagare le cure mediche cui dovette
sottoporsi in quel periodo insieme alla moglie Caterina Nosenko e alle due figlie, Ludmila e Milena
(una di queste ultime, insieme alla prima moglie, sarebbero morte a breve distanza l'una dall'altra
nel 1939). Confessa ancora il musicista che, mentre scriveva il suo Concerto, studiava e suonava
regolarmente Bach e l'attraevano i Concerti brandeburghesi, specialmente il terzo, alla cui struttura
strumentale si richiama, utilizzando tre violini e tre viole. Di questa scelta si avverte la presenza nel
Dumbarton Oaks, anche se, specifica Stravinsky, «non credo che Bach mi avrebbe lesinato il
prestito di queste idee e di questi materiali, dal momento che imprestare in tal modo era qualcosa
che anche a lui stesso piaceva fare». Naturalmente Stravinsky utilizza i temi bachiani in modo
personale e in un gioco contrappuntistico di sonorità asciutte e taglienti, in cui riaffiorano le
cadenze ritmiche del Sacre e delle Noces. Il primo movimento (Tempo giusto) è punteggiato da una
spigliata e fresca serenità di accenti strumentali, dove non mancano momenti di pensosa riflessione.
Particolarmente piacevole e spiritoso è l'Allegretto centrale, intonato ad un fosforescente
divertimento, qua e là increspato di leggera malinconia. Secondo Casella il tema di questo
movimento fa pensare al Falstaff di Verdi e precisamente alla frase del primo atto corrispondente
alle parole «Se Falstaff s'assottiglia». Il finale (Con moto) è psicologicamente ambivalente, cioè
gaio e triste, con rimembranze di sapore ciaikovskiano, ma comunque sorretto da un battito
cardiaco ritmicamente pulsante e di indubbia sigla stravinskiana. Il brano, della durata di 12 minuti,
prevede il seguente organico strumentale: clarinetto in si bemolle, fagotto, due corni, tre violini, tre
viole, due violoncelli e due contrabbassi.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il corpo generoso del Concerto grosso, antico ma palpitante ancora nell'Europa dei Trenta, è il calco
al quale, con dichiarata evidenza, si ispira il Concerto in mi bemolle maggiore di Stravinskij, noto
col nome della proprietà - Dumbarton Oaks, nel distretto di Washington - dei coniugi statunitensi
Bliss, che per festeggiare il loro trentesimo anniversario chiedono al maestro una nuova opera,
creata nella loro dimora nel maggio del 1938 (sessant'anni fa, esattamente), per la direzione di
Nadia Boulanger.

Un flauto, un clarinetto, un fagotto, due corni, tre violini, tre viole, due violoncelli, due
contrabbassi: a questo organico il maestro chiede di riprodurre i bachiani Concerti brandeburghesi,
nell'alternanza tra il tutti dell'orchestra, un concertino di solisti affidato ai dieci strumenti ad arco,
l'emersiome frequente di alcuni passaggi dove unico è il protagonista. Un gioco, naturalmente; quel
genere di passatempi nei quali il grande prestigiatore sapeva far eccellere le proprie arti imitative,
fregolesche.
Il periodo neo-classico dura ormai da tempo, ma l'invenzione lieve e divertita sa ancora nascondere
l'usura del meccanismo. Citazioni contrappuntistiche, economia di mezzi orchestrali: l'imitazione
bachiana rispetta questi parametri, e questi soltanto. Se ne stacca nella varietà timbrica, e soprattutto
nella mobilità del ritmo, vero motore del concerto, anima inconfondibile del maestro anche nei
travestimenti più ricercati.

Se l'armonia resta ferma, il tempo del racconto pulsa, invece e sempre, a la Stravinskij. Ma Bach
serve come una scialuppa al naufrago, come orizzonte di simmetria, rigore e numero in una cultura
che queste certezze aveva perduto. Nella sua età di mezzo, il principe Igor, padrone del mondo dei
suoni, ha bisogno di credere a un ordo: Johann Sebastian è la benedizione invocata, la retta via che
conviene seguire.

Altre decadi dovranno passare e l'appiglio neo-classico sfrangiarsi, prima che, nella lunghissima sua
esistenza creatrice, Stravinskij scopra un ordine diverso, quello dei dodici suoni e della serie.
Allora, si poserà lì lo sguardo bulimico e il suo metabolismo invidiabile potrà assimilare anche
questo corpo nuovo, senza perdersi.

Nei tre movimenti delle Oaks - Tempo giusto, Allegretto, Con moto - si riaffacciano le ombre, più o
meno corpose, di tutti i pergolesini, da Pulcinella in avanti; e anche il passo strascicato di un tango,
l'impettito procedere di una marcia scandita dai corni, il ghiribizzo clownesco del finale.

Pierre Boulez è persuaso che il grande problema di Stravinskij sia stato «non rifare il Sacre», la
bomba atomica della musica scoppiata quando l'artificiere aveva soltanto trentun anni. Poi, per non
restare imprigionato dall'onda d'urto di quella eruzione sconvolgente, il suo problema è diventato
cercare vie di fuga, veri o falsi o tutti e due che siano quei fogli settecenteschi dissepolti nelle
generose e misteriose (tuttora) biblioteche di musica napoletane e poi portati a lungo con sé. Ma, e
questo è il pregio mirabile, il creatore è sempre riconoscibile, anche all'ombra di queste amichevoli
querce americane.

Sandro Cappelletto

71 1938 - 1940

Sinfonia in do

https://www.youtube.com/watch?v=LzYs-2BUKbs

https://www.youtube.com/watch?v=_jsZWCqiK2I

https://www.youtube.com/watch?v=VEoV9H0edxY

Moderato alla breve


Larghetto concertante
Allegretto
Largo. Tempo giusto, alla breve
Organico: 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
archi
Composizione: Parigi, autunno 1838 - Bedford, 19 agosto 1940
Prima esecuzione: Chicago, Orchestra Hall, 7 novembre 1940
Edizione: Schott, Magonza, 1948
Dedica: Orchestra Sinfonica di Chicago

Guida all'ascolto (nota 1)

Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, Igor Stravinskij divenne l'alfiere principale di un
movimento musicale di natura, secondo alcuni, conservativa e restaurativa, che non si limitava a
contestare i capisaldi del Romanticismo ottocentesco ma anche le contemporanee tendenze
avanguardiste di origine viennese, quali l'atonalismo e la dodecafonia di Arnold Schönberg e dei
suoi allievi Berg e Webern. Il "neoclassicismo" del compositore russo, ormai definitivamente
occidentalizzato, prese rapidamente piede in Europa suscitando consensi e imitazioni soprattutto in
area francese ma finendo per influenzare compositori dalle tendenze più disparate (Hindemith e
Bartók, Britten e Ravel), tutti - più o meno - sensibili a un qualche aspetto della nuova estetica
stravinskiana. La quale, in ultima analisi, comportava: un ripristino della tonalità che attenuasse, del
tutto o in parte, gli "eccessi" di gioventù, come il politonalismo e il polimodalismo dei grandi
balletti russi degli anni Dieci; un ritorno alle forme della musica classica e barocca (Sonata, Rondo,
Tema con variazioni, Fuga, eccetera) nonché ai generi praticati in quei periodi (Concerti solistici,
Concerti grossi, Sinfonie, eccetera); un ripescaggio, addirittura, della mitologia greca nelle
composizioni a soggetto (Opere, Balletti, Oratori) riallacciandosi con ciò a una pratica ormai
abbandonata da tempo incalcolabile...

Ma, se questi - e solo questi - rimasero per lunghi anni i punti caratterizzanti delle strategie
compositive di un vasto numero di epigoni "neoclassici", Stravinskij, dal canto suo, non si era mai
limitato alla pura e semplice riproposta del passato preromantico. Egli aveva, piuttosto, riconiugato
i vecchi stilemi con le proprie, irriducibili asimmetrie di compositore moderno, scomponendo i
materiali più innocui e "regolari" della tradizione e passandoli al vaglio della grottesca lente
deformante costituita dalla sua ritmica incessante e imprevedibile nella posizione degli accenti e
nella durata dei raggruppamenti. Così, la Sinfonia in do, scritta fra l'Europa e gli Stati Uniti, nuova
patria del compositore, a ridosso della Seconda Guerra Mondiale (1938-40), più di trent'anni dopo
l'accademica Sinfonia in mi bemolle che l'autore aveva dedicato in Russia al suo maestro Rimskij-
Korsakov, appare a prima vista una struttura tradizionalissima in quattro movimenti, con la durata e
l'organico (tuba a parte) di un'analoga pagina del primo Ottocento. Eppure, l'anima stravinskiana si
infiltra di continuo fra gli stilemi à la Haydn e à la Beethoven di cui la pagina è totalmente pervasa,
sotto forma per esempio di un fraseggio irregolare, caratteristico dei movimenti estremi in forma
sonata (Moderato alla breve/I e Largo-Tempo giusto, alla breve/IV) ma, soprattutto, dello Scherzo
(Allegretto/III) che, secondo l'autore, conteneva alcune complessità di ordine metrico fra le più
estreme di tutte la sua carriera compositiva... Mentre nel secondo movimento, Larghetto
concertante, che sempre Stravinskij descriveva come «simple, clear and tranquil», l'orchestra, priva
di tromboni, tuba, timpani, uno dei corni e trombe, si presta a graziose e costanti ornamentazioni
cui fa da contrasto la sezione di mezzo (Doppio movimento) decisamente più agitata. Questo
Larghetto e il successivo Allegretto, già menzionato, si susseguono senza soluzione di continuità
come avviene, a volte, fra i movimenti interni delle composizioni di Beethoven, e un ulteriore
criterio di collegamento fra i vari tempi della Sinfonia è dato da un identico "motto" che compare
nel primo e nell'ultimo movimento conferendo un senso di "ciclicità" che richiama, piuttosto,
pagine come la grande Sinfonia D. 944 di Schubert.

L'amico di Stravinskij e direttore d'orchestra Ernest Ansermet non amava alla follia questa Sinfonia
in do, che reputava alquanto statica a livello di idee musicali, eppure sembra innegabile l'impronta
personale che il compositore russo, ormai naturalizzato francese, seppe imprimere sul terreno
conosciuto della forma più acclamata in tutta la storia della musica strumentale...

Neoclassicismo, certo, ma soprattutto nel senso di una libera e geniale rivisitazione del passato
(condizione questa assai diffusa nell'arte del XX secolo), senza accademismi e senza velleitari
progetti di restaurazione fine a se stessi.

Marco Ravasini

72a 1953

Tango
Versione per orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=IenY-i6vVdk

https://www.youtube.com/watch?v=jvgU_ymquJQ

https://www.youtube.com/watch?v=qbzksRnKOtk

Organico: 4 clarinetti, clarinetto basso, 4 trombe, 3 tromboni, chitarra, 3 violini, viola, violoncello,
contrabbasso
Composizione: 1953
Prima esecuzione: Los Angeles, Philarmonic Auditorium, 18 ottobre 1953
Edizione: Mercury Music Co., New York, 1954
Vedi a 72 la versione originale per pianoforte

Guida all'ascolto (nota 1)

La dimensione ritmica è il Dna di ogni invenzione stravinskiana, il che rende il suo modello anche
estetico decisamente nostro, nel tempo in cui il Tempo modella e quasi ossessiona la musica
insieme alla vita.

E ritmo come splendido esercizio di stile è anche il Tango che venne composto nel 1940 a
Hollywood, poco dopo aver scelto l'America come patria. «Alcuni compongono al pianoforte, altri
direttamente sulla pagina. Lei comporrà al pianoforte», aveva predetto il maestro Rimskij-Korsakov
in Russia. E in ogni musica di Stravinskij ritroviamo la tastiera in controluce. Se di Petruska lo
stesso Igor produsse una trascrizione per pianoforte, Tango nacque come pezzo pianistico poi
strumentato. La prima versione è di Felix Gunther e debutta nel luglio del '41 diretta da Benny
Goodman. La seconda - Stravinskij non lasciò mai nulla di intentato per i suoi diritti d'autore -
viene stesa nel 1953 allargando ulteriormente lo strumentale in zona fiati: tre violini, chitarra, viola,
violoncello, contrabbasso, quattro clarinetti, clarinetto basso, quattro trombe, tre tromboni. In
questa versione, eseguita per la prima volta da Robert Craft il 18 ottobre 1953, la pulsazione è
ancora più netta, inquieta e sexy.

Ritmicamente, Tango è anche un piccolo grande virtuosismo: il quattro/quarti pulsa inalterato


dall'inizio alla fine. Il tempo è isocrono, eppure, "dentro", tutto si muove, nulla è uguale. Un unico
motivo di otto battute viene riproposto cinque volte con poche varianti. Un trio centrale fa da
turning point per una ripresa alla breve del tema. Il gioco delle irregolarità è tutto di sincopi, ritardi,
pause, altezze, emissioni diverse. La scuola? Il jazz, naturalmente.

Tango s'intreccia cronologicamente alle Danses Concertantes e al delizioso Circus Polka "per un
giovane elefante" (1942), all'Ebony Concerto cucito nel '45 a misura di Woody Herman, alla
Carriera di un libertino e alla nuova strumentazione di Petruska (1947). Come in Ragtime,
Dumbarton Oaks (1938), le stesse Danses Concertantes e Circus Polka, suona la corda giocosa di
Stravinskij. Tango è il lungo naso di Igor che sente salire dalla California il vento caldo e profumato
del Sudamerica.

Carlo Maria Cella

73 1941 - 1942

Danses concertantes

https://www.youtube.com/watch?v=bReT8zyX3VM

https://www.youtube.com/watch?v=rm5IF3Q0Ll4+

https://www.youtube.com/watch?v=Lx37B2ec7i4

Marche, Introduction
Pas d'action - Con moto
Thème varié - Lento
Variazione I - Allegretto
Variazione II - Scherzando
Variazione III - Andantino
Variazione IV - Tempo giusto
Pas de deux - Risoluto. Andante sostenuto
Marche, Conclusion

Organico: flauto, oboe, clarinetto, fagotto, 2 corni, tromba, trombone, timpani, archi
Composizione: Hollywood, 1941 - 13 gennaio 1942
Prima esecuzione: Hollywood, Philarmonic Auditorium, 8 febbraio 1942; in forma di balletto: New
York, City Center Theater of Music and Drama, 10 settembre 1944
Edizione: Associated Music Publishers, New York, 1942

Guida all'ascolto (nota 1)


Marche. Introduction / Pas d'action / Thème varie / Pas de deux / Marche. Conclusion sono i cinque
movimenti di questa suite per balletto, che Stravinsky concepì "astratta", ma che Balanchine non si
astenne dal trasformare, due anni dopo la prima esecuzione, in coreografia. Non sfuggirà, in
apertura, il richiamo all'inizio di "Dumbarton". Davvero, soltanto Stravinsky poteva rimproverare a
Vivaldi di aver composto «seicento volte lo stesso concerto». Un'attitudine che all'autore doveva
suonare familiare, come ammette nelle note anteposte alle Danses: «le sorgenti riattivate dalle mie
opere passate hanno continuamente nutrito il presente: ed è questa una delle ragioni per cui la mia
attività dovrebbe essere considerata nella sua interezza». Gioco, capriccio, enigmatica leggerezza
sono alcune delle definizioni più comuni applicate a questo "Concerto per piccola orchestra", come
l'autore aveva specificato nel manoscritto originale. Le due Marce segnano l'inizio e la fine
dell'opera; il secondo movimento è in forma di Rondò, nel terzo un tema si articola in quattro
variazioni (Allegretto, Scherzando, Andantino, Tempo giusto), il quarto si presenta col carattere di
una cadenza solistica e prepara il ritorno della Marcia iniziale.

Gli anti-stravinskiani, di fronte ad un'opera così densa di auto-citazioni, affilano le armi,


denunciando il «carattere profondamente parassitario di questa musica» (Hans Ferdinand Redlich) e
rimpiangendo, come già Malipiero, quella data-simbolo dell'ottobre del 1913. Ma questo Stravinsky
americano, così devoto alla formula della parodia e dell'assimilazione vorace dei linguaggi musicali
più diversi, strappati al loro contesto originale, trasformati e stilizzati nella sua personalissima
bottega di artigiano e giocoliere, non riesce a rinnegare se stesso. E nello schiaffo ritmico che apre
le "Dances" si svela subito - dopo trent'anni - discendente diretto del "barbarico primitivo" che col
"Rito della primavera" aveva sconvolto il pubblico del Théàtre des Champs Elysées. Ma ora è
soltanto un gioco, senza "spiegamento della verità?".

Sandro Cappelletto

74 1942

Circus Polka, per un giovane elefante

https://www.youtube.com/watch?v=1o0t3C6IoRo

https://www.youtube.com/watch?v=BnMkb9sWrf

https://www.youtube.com/watch?v=9rk91a6AH8Q

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba,
percussioni, archi
Composizione: 5 ottobre 1942
Prima esecuzione: Cambridge, Sanders Theatre, 13 gennaio 1944
Edizione: Associated Music Publishers, New York, 1944
Dedica: Circo Barnum

Guida all'ascolto 1 (nota 1)


Nel 1939 Igor Strawinsky fu invitato negli Stati Uniti dalla Harvard University di Boston per un
ciclo di lezioni; lo scoppio della seconda guerra mondiale sorprese oltre oceano il compositore che
si stabilì definitivamente nel nuovo paese divenendo nel 1945 cittadino americano.

Circus Polka, «composed for a young elephant» è un delizioso scherzo sinfonico scritto nel 1942,
appartenente al gruppo delle prime brevi composizioni del periodo americano. Lo spunto del lavoro
fu un'idea del coreografo George Balanchine e una commissione del famoso circo americano
Barnum and Bailey che richiese a Strawinsky un breve pezzo per un balletto di elefanti, uno dei
quali doveva trasportare Vera Zorina; la prima esecuzione pubblica avvenne tuttavia ad opera di
un'altra compagine, la Ringling Brothers' Circus Band. L'organico orchestrale comprende, oltre il
consueto gruppo degli archi, un ottavino, un flauto, due oboi, due fagotti, quattro corni, due trombe,
tre tromboni, un basso tuba e percussioni; come si vede, la tavolozza timbrica è soprattutto carica
nelle carnose sonorità degli ottoni.

A questi, e in modo particolare alle pachidermiche movenze del basso tuba e della grancassa, resta
affidato il nocciolo dell'invenzione timbrica del lavoro, resa comica dal paradossale accostamento
con le voci acutissime e filiformi di flauto e ottavino o con il fraseggio carezzevole degli archi.
Dopo il sussulto iniziale (quasi teatrale captatio benevolentiae) che alterna metri pari e dispari, la
composizione imbocca risoluta il binario del passo di marcia in capo al quale, trionfante e
spumeggiante, risuonerà il tema della celebre Marcia militare di Schubert. Il compositore ha
assicurato che il riferimento gli è sorto spontaneo mentre attendeva al lavoro, senza cioè nessuna
intenzione parodistica; possiamo credergli pienamente, così come è vero che l'estetica del circo e
del music-hall che tanti scandali sollevò intorno agli anni venti ha perso qui ogni carica
intenzionale per dissolversi in un festoso e magistrale gioco sonoro.

Giorgio Pestelli

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Circus Polka» fu commissionato a Stravinsky da George Balanchine. Il coreografo era stato


incaricato dagli organizzatori del circo Barnum and Bailey di allestire un balletto di elefanti:
cinquanta pachidermi montati da altrettante belle fanciulle si sarebbero presentati al Madison
Square Garden di New York nella primavera del 1942.

Il sottotitolo che il musicista appone alla partitura dopo aver accettato l'incarico, suona questa volta
veritiero, senza ombra di provocazione: «composto per un giovane elefante».

Stravinsky che pur non assistette allo spettacolo, ebbe modo di congratularsi a Los Angeles con
«Modoc», il bravissimo e festeggiatissimo animale che durante le 425 repliche dello spettacolo
aveva esibito con ostentata soddisfazione la bella Vera Zorina, allora moglie di Balanchine.

Si racconta di un primo disorientamento degli animali abituati ai valzer tradizionali e alle marcette
in voga; le numerose prove comunque portarono i loro frutti e il balletto ebbe un enorme successo.

La versione per fiati e percussione (il primo adattamento per il circo era opera di David Reksin) fu
diretta la prima volta a Boston dallo stesso autore con la Boston Symphony Orchestra nel 1944.
Il ritmo ternario tipico della polka si alterna ai 2/4, ben scanditi dalla percussione, sortendo effetti
spigliatamente bandistici. Nel finale compare la citazione della Marcia militare di Schubert che
Vlad consiglia di interpretare alla luce di una naturale spontaneità, «senza alcun intento caricaturale
e satirico».

Fiamma Nicolodi

75 1942

Four Norwegian Moods

https://www.youtube.com/watch?v=1uRaj7oDkgI

https://www.youtube.com/watch?v=QthArUVSJZ4

https://www.youtube.com/watch?v=snKQs1uBw78

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba,
percussioni, archi
Composizione: 5 ottobre 1942
Prima esecuzione: Cambridge, Sanders Theatre, 13 gennaio 1944
Edizione: Associated Music Publishers, New York, 1944
Dedica: Circo Barnum

Guida all'ascolto (nota 1)

Stravinsky si stabilì negli Stati Uniti nel 1939, dopo aver svolto un corso di poetica musicale alla
Harvard University di Boston. Nel 1945 egli diventò cittadino americano e in quei primi anni di
residenza nella nuova patria d'elezione scrisse varie composizioni di maggiore o minore qualità
musicale, tra cui la trascrizione per coro misto e orchestra dell'inno nazionale americano La
bandiera stellata, le Danze concertanti commissionategli dall'orchestra Werner Janssen di Los
Angeles, l'ironico pezzo pianistico Circus Polka, le Scènes de ballet, un lavoro adattato all'orchestra
jazz Ebony Concert, la Sonata per due pianoforti e i Four Norwegian Moods, che risalgono al 1942.
Quest'ultima composizione era stata concepita originariamente come musica di commento per un
film sull'invasione nazista della Norvegia. Pur accettando di scrivere la musica per il film,
Stravinsky rifiutò ogni compromesso con i sistemi dell'industria cinematografica, opponendosi a
qualsiasi manomissione e arrangiamento della partitura. Egli stesso ricordando questo episodio nei
«Colloqui» di Robert Craft così commentò: «Vogliono il mio nome, non la mia musica: mi sono
stati offerti persino centomila dollari per imbottire di musica un film, e quando rifiutai, mi si disse
che avrei potuto ricevere la stessa somma se ero disposto a permettere che qualcun'altro
componesse la musica a nome mio».

Per questa ragione Stravinsky ritirò la sua musica e ne fece un pezzo autonomo, conosciuto anche
come Quatre pièces à la norvegienne intitolati: Introduzione, Canzone, Danza nuziale, Corteo. Il
musicista si servì di motivi popolari norvegesi, tratti da una raccolta di musica folclorica della
Norvegia trovata in un negozio di libri usati a Los Angeles: son pagine piacevolmente melodiche,
che segnano oltre tutto il ritorno dopo due decenni, del compositore alla grande tematica del
folclore, questa volta non di estrazione russa.

76 1943

Ode
Canto elegiaco in tre parti

https://www.youtube.com/watch?v=rjtfyVMQls4

https://www.youtube.com/watch?v=tRyngk1GZH8

https://www.youtube.com/watch?v=lYn_3xjHmqc

Eulogy - Lento
Eclogue - Con moto
Epitaph - Lento

Organico: 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, archi


Composizione: Hollywood, 25 giugno 1943
Prima esecuzione: Boston, Symphony Hall, 8 ottobre 1943
Edizione: Schott, Magonza, 1947
Dedica: in memoria di Natalia Kussevitzky

78 1943 - 1944

Scherzo à la russe

https://www.youtube.com/watch?v=BM99BzmWWYU

https://www.youtube.com/watch?v=wg9vP8yaDl4

https://www.youtube.com/watch?v=q3lGqWjZDF4

Organico: 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, xilofono,
timpani, tamburello, triangolo, piatti, tamburi, tamburo basso, pianoforte, arpa, archi
Composizione: Hollywood, 1943 - 1944
Prima esecuzione: San Francisco, War Memorial Opera House, 22 marzo 1946
Edizione: Chappel, New York, 1945

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Lo «Scherzo alla russa» è stato composto nel '44 per invito di Paul Witheman, il famoso direttore di
jazz-sinfonico. Il carattere russo di questa piacevole pagina, sobria nel colore e pur tratteggiata da
passi mordenti, non ha nulla in comune con quello della «Sagra della Primavera», ma è amabile e
brillante.
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
«Scherzo alla russa» — della durata di 4 minuti — appartiene al filone della musica per film, un
genere che Stravinsky detestava sinceramente, non arrivando a concepire né la sopraffazione del
fatto visivo sull'autonomia musicale, né i cosiddetti «arrangiatori» che condiva spesso di battute
sarcastiche.

Come «Quatre Pièces à la norvegienne» era — almeno all'inizio — destinato a un film


sull'invasione della Norvegia da parte dei nazisti, anche lo «Scherzo» avrebbe dovuto essere la
colonna sonora di un film sulla guerra sovietica.

Fallito il progetto del 1943-44 con i produttori hollywoodiani, il compositore adattò lo «Scherzo
alla russa» per la banda di «jazz sinfonico» di Paul Whiteman. (La prima esecuzione fu trasmessa
nel 1944 dal programma radiofonico Blue Network).

In seguito si ebbe la versione sinfonica che l'autore diresse nel marzo del 1946 a San Francisco.

La struttura è classica col «da capo» alla fine del secondo trio; il sapore della terra natale è presente
nei riferimenti alla danza russa di «Petrushka» e alla «Sonata per due pianoforti» (Vlad).

Fiamma Nicolodi

79 1944

Scènes de ballet

https://www.youtube.com/watch?v=BAxwNrWk2GY

https://www.youtube.com/watch?v=eSOltQ_kGjk

https://www.youtube.com/watch?v=yeln7N_pxWo

Introduction - Andante
Danses - Moderato
Variation - Con moto
Pantomime - Lento
Pas de deux - Adagio
Pantomime - Agitato ma tempo giusto
Variation - Risoluto
Variation - Andantino
Pantomime - Andantino
Danses - Con moto
Apothéose - Poco meno mosso

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, fagotto, 2 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
pianoforte, archi
Composizione: Hollywood, 23 agosto 1944
Prima esecuzione: Filadelfia, Forest Theater, 24 novembre 1944
Edizione: Chappel, New York, 1945

82 1942 - 1945

Sinfonia in tre movimenti

https://www.youtube.com/watch?v=YTDW079nKZo

https://www.youtube.com/watch?v=Dk0ppHkzJok

https://www.youtube.com/watch?v=n9oY_cikDl0

Metronomo = 160
Andante. Interlude: L'istesso tempo
Con moto

Organico: 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
grancassa, pianoforte, arpa, archi
Composizione: 1942 - 1945
Prima esecuzione: New York, Philharmonic Symphony Society, 24 gennaio 1946
Edizione: Associated Music Publishers, New York, 1946
Dedica: New York Philharmonic Symphony Society

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Sulla denominazione di questa partitura lo stesso Stravinsky ebbe ad osservare: «Forse "Tre
movimenti sinfonici" sarebbe un titolo più esatto» (Dialogues). Dedicata alla New York
Philharmonic Symphony Society, la Sinfonia fu composta tra il 1942 e il 1945 e pubblicata dagli
Associated Music Publishers di New York nel 1946. È il primo lavoro stravinskiano, fra quelli
iniziati nel periodo bellico, la cui composizione sia andata oltre la durata della guerra. Esiste anche
la tendenza a chiamarla "Sinfonia di guerra", ciò che accosterebbe questo lavoro, almeno sotto tale
aspetto, ad alcune grandi partiture sinfoniche di Sostakovic. Lo stesso Stravinsky ha dato qualche
conforto, pur con molte reticenze, agli sforzi dei commentatori che hanno voluto individuare in
questo o quel passo della Sinfonia echi degli eventi bellici. Così Stravinsky nei Dialogues: «Questo
esprime e contemporaneamente non esprime i miei sentimenti [...] Ogni episodio della Sinfonia è
legato nella mia immaginazione a un'impressione reale della guerra, per lo più di origine
cinematografica». André Boucourechliev ritiene che Stravinsky, con quelle parole, alluda a film e a
documentati d'attualità ma anche al progetto cinematografico di Franz Werfel per il film su
Lourdes, The Song of Bernadette di Henry King, dal momento che il compositore utilizzò nella
Sinfonia alcune idee musicali adottate, nel film, per la musica che accompagna l'apparizione della
Vergine, l'unica che egli abbia composto per quel progetto. Il proposito, infatti, fallì, come ogni
altro suo progetto di musica per film. Nel citato passo dei Dialogues, Stravinsky conclude: «La
Sinfonia non è "a programma". I compositori combinano delle note. Tutto qui. Come e in quale
misura le cose del mondo ispirino la musica, non tocca a loro dirlo».
Tuttavia, alcuni passi dei Dialogues riescono a cavare di bocca all'autore alcune ammissioni relative
all'incidenza di varie immagini cinematografiche di soggetto bellico sulla sua immaginazione
musicale. Il primo movimento, che non reca in occhiello alcuna indicazione di tempo ma soltanto il
metronomo di 160 per il valore di un quarto, fu ispirato da un documentario sulla tattica della terra
bruciata nella Cina invasa dai giapponesi; in particolare, l'episodio centrale, per clarinetto,
pianoforte e archi, «fu concepito come una serie di conversazioni strumentali accompagnanti una
scena in cui si mostrava il popolo cinese che raspava e scavava nei campi» (Dialogues). Il secondo
movimento (Andante; Interlude, l'istesso tempo) utilizza il già ricordato progetto di musica
d'accompagnamento per la scena dell'apparizione nel film di Werfel e King. L'incipit del terzo
movimento (Con moto) fu, almeno negli intenti iniziali, «una reazione musicale ai documentari e ai
cinegiornali sui soldati marcianti al passo dell'oca»; l'ultima parte del movimento, dall'esposizione
della fuga alla coda della Sinfonia, nacque «dal sorgere della forza degli Alleati» dopo aver
abbattuto la macchina di guerra dei nazisti (Dialogues).

E tanto basta circa la questione, sempre difficile, dei rapporti tra l'ispirazione musicale e una
"materia" esterna alla musica. Quanto al tono della composizione, inteso soprattutto come spirito
animatore - ed è questo un aspetto molto più importante -, valga una notizia curiosa, ricordata da
Eric Walter White nella sua monografia del 1966, sul compositore russo. Quando Stravinsky, nel
1957, compì settantacinque anni, Robert Craft lo intervisto ponendogli trentacinque domande. Esse
furono poi inserite nel primo volume delle celebri Conversations, fatta eccezione, ed è strano, per
una sola domanda, edita invece, come n. 19 nelle Antworten auf 35 Fragen riprodotte nel volume
Igor Stravinsky, Leben und Werk, Atlantis Verlag, Zürich, ed. Schott, Mainz 1957. La questione
posta da Craft era collegata al giudizio di Wystan Hugh Auden (il grande poeta anglo-americano
autore, insieme con Chester Kallman, del libretto per The Rake's Progress), il quale aveva definito
Stravinsky, con scelta di campo, un artista apollineo. La domanda estromessa dalle Conversations
era se Stravinsky riconoscesse nella propria natura l'altro aspetto "nietzschiano", il dionisiaco. Craft
stesso, da "intellettuale", suggerì al compositore una distribuzione di ruoli, esponendo che, ad
esempio, Apollo prevalga in Perséphone e nella Sinfonia in do, Dioniso nel Concerto per due
pianoforti e, appunto, nella Sinfonia in tre movimenti. La risposta di Stravinsky fu tipica del suo
modo di reagire: egli riconobbe la presenza simultanea di Apollo e di Dioniso in tutte le sue opere.
Per esempio, la prima parte di Orpheus la riteneva apollinea, l'ultima dionisiaca. Sappiamo che
Stravinsky non potè mai leggere il penetrante libro di Giannotto Bastianelli scritto nel 1925-1927
ma pubblicato soltanto nel 1978, in cui il nostro geniale filosofo della musica aveva ascritto la
musica stravinskiana al dominio di un altra divinità tutelare, l'ironico e mercuriale Hermes (Il
nuovo dio della musica, a cura di Marcello de Angelis, Einaudi, Torino 1978, pp. 134 e 168).

La Sinfonia in tre movimenti muove da una con-ezione politonale, ed è arduo stabilire la tonalità di
partenza: i motivi, del resto potentemente plastici, non sono però colorati, come altrove in
Stravinsky, dalla fausse note obligée, ma devono la loro prevalenza tonale a un'architettonica
sovrapposizione di blocchi. Il primo movimento si apre con un gesto amplissimo: prima una scala
ascendente, fortissimo, e poi un disegno, sempre ascendente, a gradini. In questa sezione di apertura
a piena orchestra, il pianoforte è trattato come uno strumento orchestrale, ma assume funzione
solistica nella sezione successiva (doppio movimento), mentre l'orchestra si ripartisce in piccoli
gruppi dialoganti secondo lo stile del concertino. Nella scrittura politonale emergono due linee
contrastanti (per cui si può parlare, a un certo punto, di bitonalità) che si combattono con asprezza
anche sotto l'aspetto timbrico, e il contrasto vede protagonisti soprattutto gli ottoni e gli archi. La
battaglia, che assume una fisionomia concertante, ci fa ricordare un passo delle Expositions, in cui
Stravinsky dichiara che nel 1942, anno iniziale del lavoro compositivo, egli progettava questo
lavoro come un Concerto per orchestra. Il termine assume rilievo se osserviamo che la parola latina
"concertare" ha il significato originario di "combattere", "gareggiare".

Nel secondo movimento, l'arpa subentra al pianoforte come strumento concertante. L'orchestra,
dopo l'esuberanza barbarica di suono che ha connotato il movimento precedente, si alleggerisce,
lasciando tacere tutti gli ottoni (tranne tre corni) e la percussione. Boucourechliev definisce questo
Andante «una pura delizia coreografica, dolcemente italianizzante nelle fioriture del [primo]
flauto». Qui l'autore abbandona la concezione politonale o bitonale, e lascia dilatare la propria
musica in un rasserenato re maggiore/minore. Dopo un esitante interludio di 7 battute, il fulminante
incipit del terzo movimento parte con un motivo in do maggiore campato su un'armonia di mi
bemolle maggiore; l'energia incontenibile e il ritorno alla bitonalità è come un omaggio ricordo al
Sacre du printemps. Centro di gravita del movimento è una fuga, che passando attraverso un climax
di nodi armonici sempre più complessi si chiude in fortissimo nella tonalità di re bemolle maggiore.
È stato scritto che in questa fuga e attraverso le reminiscenze del Sacre Stravinsky ha inteso affidare
alla propria musica il compito di narrare se stessa e la propria avventura di provocazione e di libertà
creativa.

Quirino Principe

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La Sinfonia in tre movimenti fu composta tra il 1942 e il 1945 ed eseguita per la prima volta a New
York dalla New York Philharmonic Orchestra, cui è dedicata, sotto la direzione dell'autore. Come
per altre composizioni del periodo americano (Stravinskij si era trasferito dalla Francia negli Stati
Uniti nel 1939 e si era naturalizzato cittadino americano nel 1945) anche per questo lavoro ci sono
rimaste numerose note esplicative dell'autore. Nel programma di sala per la prima esecuzione
Stravinskij afferma che sebbene questa Sinfonia sia musica assoluta e non debba essere considerata
espressione di un "programma" pure in essa si trovano tracce di impressioni ed esperienze segnate
da "questo nostro difficile tempo di avvenimenti crudi e mutevoli, di disperazione e speranza, di
continui tormenti, di tensione, e alla fine di sollievo". Nei Dialogues il compositore è ancora più
esplicito e spiega che la partitura - soprattutto il primo movimento e l'ultimo movimento - fu scritta
sotto il segno delle impressioni suscitate in lui dai filmati sulla guerra. Il primo movimento fu
ispirato da un documentario "sulla tattica della terra bruciata in Cina, nella quale si mostrava il
popolo cinese che raspava e scavava il terreno nei campi". Sempre dai Dialogues si apprende che
l'inizio del terzo movimento in parte fu "una reazione musicale ai documentari e ai cinegiornali sui
soldati marcianti al passo dell'oca"; così come l'ultima parte del movimento nasceva dal "sorgere
della forza degli Alleati" dopo aver abbattuto la macchina da guerra tedesca. A tutto ciò va aggiunto
che il secondo movimento derivò da un progetto mai realizzato di musica di accompagnamento per
la scena dell'apparizione della Vergine nel film di Franz Werfel The Song of Bernadette.

Questi riferimenti, posto che se ne accetti l'intenzione evidentemente calcolata sul momento, non
vanno presi alla lettera. Piuttosto si tratta di suggestioni esterne che possono avere accompagnato la
nascita della Sinfonia, ma che non lasciano tracce concrete nella realizzazione musicale. Non
almeno in un senso programmatico e descrittivo. D'altra parte la rielaborazione di progetti
precedenti (non solo la musica da film dell'Andante centrale, ma anche quella di un Concerto per
pianoforte e orchestra nel primo movimento) dà una conformazione speciale al lavoro, che
Stravinskij avrebbe preferito intitolare "Tre movimenti sinfonici". L'organico stesso, nel quale
hanno un ruolo di primo piano il pianoforte e l'arpa, si richiama al genere concertante più che a
quello puramente sinfonico: e ciò spiega il motivo per il quale la partitura è costruita nel suo
splendore timbrico più sulla tensione di contrasti immediati che sullo sviluppo tematico ad ampio
raggio proprio della forma sinfonica.

La tecnica dell'ostinato, il cui uso ricorda per lunghi tratti l'ebbrezza dionisiaca della Sagra della
primavera, si basa essenzialmente sulla iterazione di punti e linee che accumulano la tensione senza
aggregarsi in figure e disegni compiuti: e ogni volta al culmine della tensione il discorso si
rapprende sospendendosi e arrestandosi, per tornare poi a costruirsi tumultuosamente da capo. Se i
punti determinano in senso verticale una sorta di vertigine cromatica che la dinamica sottolinea con
forza, le linee si dispongono orizzontalmente a creare intrecci polifonici che sfociano in passi
apertamente bitonali. Il materiale così accumulato nel primo movimento si condensa. dopo la
parentesi elegiaca dell'Andante, nel centro di gravità della Fuga dell'ultimo. da cui si origina la
magnificenza della liberazione conclusiva. Ed è una liberazione che cristallizza l'energia motoria in
un gesto di classicità vigorosa e fiorita, che impone perentoriamente un ordine. Solo da ultimo ci
accorgiamo che quell'ordine era intrinseco agli elementi, legge fin dal principio.

Sergio Sablich

84 1946

Concerto in re per archi (Basle)

https://www.youtube.com/watch?v=-awdJwNTY8U

https://www.youtube.com/watch?v=mJBUDo31mMM

https://www.youtube.com/watch?v=VkkFNXhUNAU

Vivace
Arioso - Andantino
Rondò - Allegro

Organico: archi
Composizione: Hollywood, 8 agosto 1946
Prima esecuzione: Basilea, Stadttheater, 27 gennaio 1947
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1947
Dedica: Orchestra da Camera di Basilea e P. Sacher

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il Concerto in re per archi nasce nei primi mesi del 1945 su committenza dell'Orchestra da Camera
di Basilea e del suo fondatore e direttore Paul Sacher. E il primo invito che il Maestro riceve
dall'Europa, dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti nel 1938. Il Concerto quindi appartiene alla
fase finale del tanto discusso, e da alcuni deplorato, "neo-classicismo" stravinskiano, iniziato venti
anni addietro; di tale fase è comunque prova significativa per alcuni versi e limitativa per altri.
Classico è il taglio tripartitico del componimento (Vivace-Arioso-Rondò); a la manière classica è il
gioco strumentale tra gli episodi caratterizzati da intrecci contrappuntistici imitativi e quelli
improntati allo "stile concertante", nell'alternanza soli - tutti. Ma nella dinamica, nella metrica
costellata di asimmetrie e di reiterazioni e nell'agogica, il classico cede i suoi connotati (generici,
d'altronde) al prefisso "neo". L'intervallo di seconda minore, scandito su vari contrattempi e
divaricato tra gli estremi livelli sonori dell'organico orchestrale è, fin dall'inizio del primo
movimento, l'intervallo-base di tutti e tre i tempi del Concerto.

Rispetto alle manifestazioni più prestigiose di questa lunga fase stilistica, che conta pagine come
l'Apollon Musagète, l'Oedipus Rex o il vertice della Sinfonia di Salmi, si può dire che in questo
Concerto Stravinskij sia più propenso a rivisitare gli stereotipi del proprio "neo-classicismo" che
tentare nuove soluzioni (cui, poniamo, provvederanno le fascinose allusività ottocentesche di Jeu de
Cartes). Sotto codesto profilo assume un particolare significato la versione per balletto che Jerome
Robbins trasse da questo Concerto nel 1951. Con il suo balletto, intitolato The Cage, Robbins
impresse violenza e fredda crudeltà all'imperturbabile nitore delle linee geometriche degli stilemi
classicheggianti di Stravinskij.

Guido Turchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Concerto in re per orchestra d'archi appartiene al periodo americano di Stravinskij. Fu infatti


composto a Hollywood tra l'inizio del 1946 e l'8 agosto 1946 su commissione di Paul Sacher, che
aveva chiesto al compositore di scrivere un pezzo per celebrare il ventesimo anniversario della
Orchestra da Camera di Basilea. Con questa orchestra, della quale era fondatore e direttore, Sacher
svolgeva una intensa opera di diffusione in favore della musica contemporanea, distinguendosi non
soltanto come esecutore di qualità (era stato allievo di Felix Weingartner) ma anche come sensibile
mecenate. Fra l'altro, questa commissione del direttore svizzero era la prima che provenisse a
Stravinskij dall'Europa dopo oltre dodici anni. La prima esecuzione della partitura, nella cui dedica
manoscritta in francese si legge "Dedié à la Basler Kammerorchester et son chef Paul Sacher",
avvenne a Basilea il 27 gennaio 1947, diretta da Sacher. Il Concerto in re, noto per queste
circostanze anche con il titolo Concerto di Basilea, venne pubblicato nel 1947 da Boosey &
Hawkes: era la prima composizione nuova di Stravinskij a essere data alle stampe dalla casa
londinese, che aveva appena acquistato tutte le opere precedentemente edite dall'Édition Russe de
Musique.

Il Concerto per archi in re si iscrive nello stile neoclassico di Stravinskij ma ha un carattere


alquanto diverso per esempio dal balletto Apollon Musagète (del 1928, anch'esso per orchestra
d'archi) o dal Concerto in mi bemolle Dumbarton Oaks per orchestra da camera (1938), che pure gli
si avvicina per brevità (dodici minuti circa) e struttura tripartita. Si tratta qui di un neoclassicismo
più astratto, più disseccato ritmicamente e armonicamente spigoloso. Tutto il pezzo si basa sulla
cellula, ossessivamente presente, dell'intervallo di seconda minore. Il discorso procede per
progressiva espansione melodica di questa cellula, fino a coprire il totale cromatico. Il semitono si
sposta all'interno della scala cromatica generando tensioni armoniche e modali fra i gradi ed
evidenziando polarità che arricchiscono la tonalità d'impianto senza negarla (l'armatura in chiave
non è mai abbandonata).
Nel primo movimento Vivace in re maggiore il tema in 6/8, che nasce da una nota ripetuta (fa
diesis) dalla quale si genera il semitono (mi diesis), si muove con leggerezza su un
accompagnamento spigliato e lussureggiante. Nella sezione mediana Moderato il tono si abbassa di
una seconda minore a re bemolle maggiore, e l'intervallo ossessionante riappare nella nuova
tonalità. Nell'Arioso centrale gli archi si effondono in un lirismo più spiegato, di marca "apollinea"
e "cantabile", alla cui base sta una variante della cellula tematica semitonale realizzata con lo
scambio insistito a distanza d'ottava tra le note la bequadro e si bemolle, rispettivamente sensibile e
tonica della tonalità di questo movimento. Nel Rondò finale, che ritorna a re maggiore, la cellula in
espansione è una successione di note cromatiche dominata da un pulsare ritmico sferzante: nel moto
incessante delle quartine di semicrome l'urto semitonale che l'accompagna produce un che di ispido,
di spinto, se non di dissonante.

La scrittura per soli archi è un capolavoro di cesello. Stravinskij fa uso di distinzioni esecutive
precisate con la massima cura. Le indicazioni variano fra staccato, spiccato e ben articolato. Frasi
legato sono accompagnate all'unisono o all'ottava da note staccato o pizzicato. A episodi compatti di
ripieno si alternano momenti in cui gli archi sono usati, come nel "concerto grosso" barocco, in
piccoli gruppi di esecutori solisti. L'effetto complessivo è di nitida limpidezza, non di parodia o di
evasione. Eppure dietro la maschera del supremo gusto artigianale emergono, come sovente accade
nelle composizioni stravinskiane di apparente "puro divertimento", inquietanti ambiguità e ombre,
che celano a tratti anche una terribile ferocia. Da questo punto di vista il Concerto in re è un'opera
di confine, che introduce per via sinfonica alle ultime grandi realizzazioni della stagione
neoclassica di Stravinskij in ambito teatrale (il balletto Orpheus, The Rake's Progress) e vocale
(Messa, Cantata).

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Un divertimento può essere considerato il Concerto in re per orchestra d'archi scritto da Strawinsky
nel 1946, per invito dell'Orchestra da Camera di Basilea, allora diretta da Paul Sacher. Nato in un
periodo in cui il compositore si dimostrò particolarmente attratto dalle forme sinfoniche tradizonali,
e in cui era ancora sotto l'influsso della corrente neoclassica, il concerto non rappresenta soltanto un
omaggio alla vecchia musica spensierata, ma dimostra perfino parentele con l'operetta, parentele
messe ovviamente subito in discussione «armonicamente», ma pur sempre presenti. Ma si sa che
l'autore del Canticum Sacrum era anche un mago dell'intrattenimento e conosceva, non essendo da
meno di Händel o di Telemann, non soltanto l'arte di sedurre, ma anche quella di lasciarsi a sua
volta graziosamente affascinare dalle musiche e dai generi cosiddetti minori. Né è un caso che il
concerto sìa stato scritto subito dopo la guerra, quando Strawinsky si era ormai stabilmente
sistemato negli Stati Uniti a contatto con i grandi canali della diffusione musicale. E quei canali
esercitarono su di lui un notevole fascino peraltro ottimamente secondato e risolto.

93 1955

Greeting Prelude

https://www.youtube.com/watch?v=0z815Kqiy1Q
https://www.youtube.com/watch?v=prj10ppAMec

su Happy birthday di Clayton F. Summy


Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3
tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, pianoforte, archi
Composizione: 1955
Prima esecuzione: Boston, Symphony Hall, 4 aprile 1955
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1956
Dedica: Pierre Monteux (per l'80° compleanno)

106 1963 - 1964

Variations

https://www.youtube.com/watch?v=WsFf9JWZspQ

https://www.youtube.com/watch?v=8aQ8Qu6yp0E

Organico: 2 flauti, flauto contralto, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 4
corni, 3 trombe, 3 tromboni, arpa, pianoforte, archi
Composizione: Santa Fe, luglio 1963 - Hollywood, 28 ottobre 1964
Prima esecuzione: Chicago, Orchestra Hall, 17 aprile 1965
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1965
Dedica: in memoriam Aldous Huxley

Composizioni per strumento solista e orchestra

52 1923 - 1924

Concerto per pianoforte e fiati

https://www.youtube.com/watch?v=kyctf16jn2M

https://www.youtube.com/watch?v=uZR5Fh3ZCoI

https://www.youtube.com/watch?v=00ThRQkCQ8g

Lento. Allegro. Lento


Larghissimo
Allegro. Larghissimo. Lento. Allegro

Organico: pianoforte solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti (2 anche
controfagotto), 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, contrabbassi
Composizione: Biarritz, 1923 - 21 aprile 1924
Prima esecuzione: Parigi, Opera, 22 maggio 1924
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1924
Dedica: Natalia Kussevitzky
Vedi a 52a la riduzione per due pianoforti

Guida all'ascolto (nota 1)

Igor Stravinskij è stato paragonato a Pablo Picasso per la sua capacità di rigenerarsi
periodicamente, spiazzando sempre chi pensava di poter identificare la sua personalità e invece si
trovava di fronte a una svolta improvvisa, a un nuovo percorso, a uno stile diverso. Dopo le prime
affermazioni in Russia, si impose sulla scena musicale internazionale negli anni immediatamente
precedenti la Grande Guerra con tre esplosivi balletti (L'oiseau de feu, Petruska e Le sacre du
printemps), che con la loro timbrica sfavillante ma aspra e cruda, il taglio netto e breve dei loro
motivi e l'esplosività dei loro ritmi avevano dappirma sconcertato e poi conquistato un pubblico che
aveva appena digerito, con molta difficoltà, il postwagnerismo dei poemi sinfonici di Richard
Strauss e le delicate nuances timbriche e armoniche di Debussy. Ma pochi anni dopo, subito dopo la
guerra, con una sorprendente metamorfosi Stravinskij si presentò in abiti neoclassici col balletto
Pulcinella su musiche del Settecento.

Il periodo neoclassico di Stravinskij, che sarebbe durato più di trent'anni, fino alla metà del secolo e
oltre, era tutt'altro che monolitico e immutabile: se una volta riproponeva musiche del passato
apportandovi solamente pochi ma fondamentali ritocchi, come nel citato Pulcinella, un'altra volta
inseriva in un contesto completamente originale alcune citazioni di temi di autori precedenti come
Cajkovskij (ne Le baiser de lafée) o Johann Strauss, Ravel, Rossini e lo sconosciuto Soroni (in Jeu
de cartes), oppure riprendeva gli schemi formali della tradizione classica (nella Sinfonia in do),
oppure rievocava il gusto del ballet blanc ottocentesco (in Apollon musagète e Orpheus). E si
potrebbe continuare in questo catalogo dei modi del neoclassicimo stravinskiano.

Il Concerto per pianoforte e orchestra a fiati (per la precisione, l'orchestra include anche
contrabbassi e timpani) è stato composto tra l'estate del 1923 e la primavera del 1924 ed eseguito a
Parigi il 22 maggio dello stesso 1924, con l'autore al pianoforte e Sergej Koussevitzky sul podio.

Con le altre opere di quei primi anni del periodo neoclassico ha in comune i ritmi rigidi e angolosi,
le melodie fredde ed essenziali e l'armonia acida e secca ma non i rimandi precisi a autori o stili del
passato. È vero che nel Lento, che introduce il primo movimento, si può riconoscere una solennità
cerimoniosa ricollegabile a Händel (ma anche alle ouvertures francesi) e che l'inarrestabile
motorietà dell'Allegro fa pensare ai Preludi e alle Toccate di Bach (ma anche alle Sonate di
Domenico Scarlatti) ma quei modelli sembrano ridotti a fossili di epoche lontanissime, di cui
rimane il solo scheletro. In questa musica, che ritorna al passato solo per scoprire che quel passato
non esiste più ed è ormai un reperto privo di vita, c'è qualcosa di inquietante, se non addirittura di
sinistro, che può far pensare alle piazze metafisiche e ai manichini senza volto dipinti da Giorgio de
Chirico in quegli stessi anni.

All'inizio del Larghissimo il pianoforte espone un tema delicato ed enigmatico, simile alla crisalide
disseccata di una melodia, che viene amplificato da un compatto intervento orchestrale. Il
pianoforte ritorna presto protagonista e gli sono riservate anche due cadenze solistiche, in cui
qualche spunto di virtuosismo compare a vivacizzare la scrittura melodica molto essenziale e scarna
di questo movimento, che si conclude con la riproposta del tema iniziale.

L'Allegro conclusivo è il più scapestrato dei tre movimenti e alterna atteggiamenti neobarocchi (il
fugato iniziale) e spunti jazzistici (sincopi, glissandi). La coda riprende il Largo del primo
movimento, fermandosi su una pausa di sospensione, da cui scatta un beffardo e breve stringendo.

Mauro Mariani

59 1929

Capriccio per pianoforte e orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=k0c3lAZy0pA

https://www.youtube.com/watch?v=lTsl7QPsX0M

https://www.youtube.com/watch?v=q28eT0tX9CU

https://www.youtube.com/watch?v=ErW7lmdG8fQ

Presto. Doppio movimento


Ardente rapsodico
Allegro capriccioso, ma tempo giusto

Organico: pianoforte solista, 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 2 tromboni,
basso tuba, archi
Composizione: Nizza, 9 novembre 1929 (revisione 1949)
Prima esecuzione: Parigi, Salle Pleyel, 6 dicembre 1929
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1930

Guida all'ascolto (nota 1)

Il confronto tra strumento solista e orchestra, in altra occasione concepito da Stravinsky sotto forma
di Concerto pour piano suivi d'orchestre d'harmonie (vale a dire con complesso di strumenti a
flato), fornì l'occasione del Capriccio, composto nel 1929. Se per il Concerto, risalente al 1924,
composto a Biarritz e presentato a Parigi, ebbe corso il riconoscimento di un ritorno a Bach, per il
Capriccio all'epistemologia critica del neoclassicismo stravinskiano furono autorevolmente
suggeriti, dall'autore stesso nella Chroniques de ma vie, il ritorno a Weber e l'allusione al fortunato
Konzerstück del compositore ottocentesco.

L'indicazione di Capriccio si riferisce infatti all'articolazione virtuosistica e brillante del pezzo,


diviso in tre parti distinte secondo i canoni della contrapposizione pragmaticamente estroversa in
certo concertismo ottocentesco; il riferimento a Weber corrisponde ad uno dei tanti «gouts réunis»
stravinskiani avanzati negli scritti, e confermati soprattutto nelle composizioni del periodo
cosiddetto neoclassico: dove sarebbe più giusto riconoscere, anziché il recupero della letteratura
musicale sette-ottocentesca che affanna gli esegeti sulle tracce di troppo maneggevoli guide offerte
dall'autore, deliberate, provocatorie postille all'eventuale scandalo moralistico previsto e già messo
in conto. La composizione, in casi come quelli del Capriccio, include da parte dell'autore la
previsione dell'esito e anche la perfida premura nel guidare l'ascoltatore, eventualmente l'esegeta,
sulle tracce dell'ostensibile riferimento; una volta espletata l'appropriazione del modello, la
disarmante sincerità nell'esibirlo, la consumata sapienza nel renderlo corresponsabile
dell'inevitabile successo (il Capriccio è una delle composizioni «popolari» stravinskiane), rivela la
caratteristica facoltà del maestro russo: quella di presentarsi contemporaneamente come autore,
come ascoltatore e, all'epoca, come esecutore del testo musicale. In altre parole, di adottare un
atteggiamento intrinseco ed estrinseco nei confronti dell'opera, nel quale la posizione soggettiva ed
oggettiva si confondono in una dialettica squisitamente bizantina.

Claudio Casini

61 1931

Concerto in re maggiore per violino e orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=UQn6NG9CTn4

https://www.youtube.com/watch?v=k-zdCSdy3Yo

https://www.youtube.com/watch?v=Wn6K53W_Nu0

Toccata
Aria I
Aria II
Capriccio

Organico: violino solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, 3 fagotti,
controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, archi
Composizione: Isère 20 maggio - 10 giugno 1931
Prima esecuzione: Berlino, Neues Schauspielhaus im Gendarmenmarkt, 23 ottobre 1931; in forma
di balletto con il titolo "The Cage": New York, City Center Theater of Music and Drama, 14 giugno
1951
Edizione: Schott, Magonza, 1931
Scritto in collaborazione con Samud Duskin

Guida all'ascolto (nota 1)

Nella seconda delle tre Satiren per coro misto op. 28, scritta nel 1925, Arnold Schönberg derideva il
cosiddetto "neoclassicismo" di Stravinskij con questi versi:
Sono degli autentici capelli falsi!
Una parrucca!
Proprio (come s'immagina il piccolo Moderninsky),
proprio come papa Bach!
Lo slogan del "retour a Bach" era stato coniato nel 1923 in occasione dell'Ottetto per strumenti a
fiato, che prendeva spunto dal modello dei Concerti Brandeburghesi. Era quasi Inevitabile che
Stravinskij rendesse esplicito il carattere "storico" del lavoro attraverso l'uso delle forme
concertanti, che avevano connotato la musica strumentale del Settecento prima della svolta in
direzione drammaturgica del classicismo e dell'avvento della sonata. In questo senso l'uso
dell'etichetta "neoclassico" è piuttosto ambigua e si presta a numerosi equivoci, che rispecchiano le
contraddizioni della musica europea tra le due guerre. Il nome di Bach ritorna, sia pur in maniera
implicita, in uno dei lavori più equilibrati e maturi della fase neoclassica di Stravinskij, il Concerto
per violino in re maggiore. In Memories and Commentaries l'autore ne ricordava la genesi: «Il
Concerto fu commissionato per Samuel Dushkin dal suo patrono, l'americano Blair Fairchild, che
aveva scoperto il talento violinistico di Dushkin fin da quando questi era un bambino e aveva da
allora finanziato la sua educazione e la sua carriera. Il direttore della casa editrice Schott, Willy
Strecker, amico di vecchia data di Dushkin, mi persuase ad accettare la commissione. I primi due
movimenti e parte del terzo furono composti a Nizza, ma la partitura fu completata a La Vironnière,
un castello vicino a Voreppe preso in affitto da un avvocato campagnolo che somigliava a
Flaubert».

Tutto questo avveniva agli inizi del 1931 e prese forma in maniera molto rapida, grazie alla buona
collaborazione tra compositore e violinista, tanto che il 23 ottobre il Concerto poteva essere
presentato a Berlino con Dushkin e l'Orchestra della Radio diretta dall'autore. Alla prima era
presente anche Paul Hindemith, che lodò il solista ma rimase sdegnato per la prestazione sciatta e
approssimativa dell'orchestra.

I titoli dei movimenti (Toccata, Aria I, Aria II e Caprìccio) conferiscono in maniera evidente anche
a questo lavoro il marchio di "ritorno a Bach", ma la maggior parte dei commentatori, come hanno
messo in rilievo Roman Vlad e Donald Mitchell già negli anni Sessanta, avevano mostrato una
certa difficoltà ad attribuire un modello preciso alle influenze sul Concerto. C'era chi parlava di
Bach, naturalmente, ma anche chi ha reagito, come Alfredo Casella, evocando il nome di Weber,
mentre qualcuno, forse suggestionato dal precedente balletto Le baiser de la fée, avvertiva
addirittura l'influsso di Cajkovskij.

La Toccata si apre con una delle più geniali invenzioni timbriche della letteratura violinistica, una
triade re - mi - la dilatata su uno spazio di due ottave e mezzo, che rappresenta una sorta di marchio
di fabbrica dell'intero Concerto, o per meglio dire, usando l'espressione dell'autore, il suo
passaporto. Oltre a inventare una sonorità del tutto nuova per il violino, l'accordo mette in luce
infatti un carattere armonico aperto, più che dissonante, perché la sovrapposizione di un intervallo
di nona e uno di undicesima ne contiene in realtà altri tre, cruciali nel linguaggio contrappuntistico,
di seconda, quarta e quinta. Subito dopo questo celebre motto, che apre in varie forme tutte le parti
del lavoro, l'orchestra introduce il motivo principale, un semplice gruppetto di evidente ascendenza
bachiana, esposto all'inizio a terze da una coppia di trombe e in seguito ripreso e sviluppato dal
solista e dagli altri strumenti dell'orchestra. Anche in questo caso si tratta di un elemento germinale,
perché da questo tema di povertà francescana si sviluppano le varie forme dell'intero lavoro. Il
violino dialoga in maniera quasi esclusiva con gli strumenti a fiato, secondo una tendenza che
Stravinskij aveva già manifestato nel precedente Concerto pour piano suivi d'orchestre d'harmonie
appuyé de contrebasses et de timbales, per riprendere la definizione precisa dell'autore. Gli archi
offrono più che altro un sostegno alle parti dei fiati e tacciono quasi sempre, soprattutto violini e
viole, durante gli interventi del solista. Il carattere monotematico del primo movimento si ritrova
anche nella prima delle due Arie centrali, che formano due immagini parallele e complementari
dello stesso soggetto poetico.

L'Aria I si sviluppa come una virtuosistica invenzione a due voci di forma tripartita, con al centro
un episodio contrastante dal punto di vista armonico ed espressivo. La melanconica cantilena in re
minore dell'inizio, infatti, si trasforma in un dialogo più piccante e concitato tra il solista e
l'orchestra, nella più aspra tonalità di la minore, prima di ritornare, dopo un accenno di cadenza, al
clima mesto e introverso dell'inizio. L'Aria II invece rappresenta il movimento più interessante e
drammatico del Concerto. Il motto del violino non si limita questa volta a introdurre il nuovo
pannello, ma articola alla maniera teatrale la forma di questa sorta di Passacaglia ricca di pathos. Il
motto infatti divide in tre parti l'Aria, che rovescia in modo radicale i rapporti sonori della Toccata
iniziale. In questo caso infatti sono gli strumenti ad arco a dialogare con il violino, che esprime il
suo canto dolente sullo sfondo della cupa tonalità di fa diesis minore. Le diminuzioni e le colorature
del solista ricordano le improvvisazioni sulla tastiera dello stile barocco, con spettacolari salti e
passaggi d'intensa espressione. Gli strumenti a fiato si limitano a rafforzare la sonorità del motto
violinistico, con una significativa eccezione. Nella coda dell'Aria, una volta spento l'eco del motto,
il violino rimane da solo con due flauti che intrecciano un contrappunto doloroso, un ricordo forse
delle arie più patetiche delle Passioni di Bach.

Il Capriccio conclusivo riporta il Concerto al clima brillante dell'inizio e alla tonalità di re


maggiore. Il virtuosismo del solista è compensato da una scrittura magistrale per l'orchestra, che è
strumentata in maniera quasi cameristica e con elegante freschezza. Il titolo si giustifica non solo
per i guizzi imprendibili del violino, ma anche per gli scarti d'umore dei vari episodi in cui si
articola la forma. Non manca neanche una certa dose d'ironia, con cui l'autore sembra deridere lo
stile all'ungherese tanto in voga nel violinismo dell'epoca. Stravinskij ha dichiarato in maniera un
po' provocatoria di prediligere il Concerto per due violini, tra i lavori di Bach di questo genere. Il
corposo duetto tra il solista e il primo violino dell'orchestra, nel mezzo del Capriccio, prova la
sincerità delle sue affermazioni e forse anche il gusto di prendersi spasso dei critici e dei colleghi
mettendosi in testa la parrucca di papa Bach.

Oreste Bossini

83 1945

Concerto per clarinetto e jazz band (Ebony Concerto)

https://www.youtube.com/watch?v=ToYUCuUE9pk

https://www.youtube.com/watch?v=x_8TakHuxqE

https://www.youtube.com/watch?v=Gd6CKRiMa5E

Allegro moderato
Andante
Moderato
Organico: clarinetto solista, 5 sassofoni, clarinetto basso, corno, 5 trombe, 3 tromboni, pianoforte,
arpa, chitarra, contrabbasso, tam-tam, piatti, timpani
Composizione: Hollywood, 1 dicembre 1945
Prima esecuzione: New York, Carnegie Hall, 25 marzo 1946
Edizione: Charling, New York, 1946
Dedica: Woody Herman

Guida all'ascolto (nota 1)

«II capriccio individuale, l'anarchia intellettuale che tendono a regolare il mondo in cui viviamo
isolano l'artista dai suoi simili e lo condannano ad apparire agli occhi del pubblico come un mostro:
un mostro di originalità, inventore della propria lingua, del proprio vocabolario e dell'intero sistema
che regge la propria arte; l'uso di materiali collaudati e di forme stabilite gli è comunemente vietato;
arriva a parlare un idioma senza relazioni con il mondo che lo ascolta; la sua arte diventa veramente
unica, nel senso che non può essere comunicata e che è chiusa in se stessa. Il masso erratico non è
più una curiosità eccezionale: è il solo modello che sia offerto all'emulazione dei neofiti».

Rabbia e sarcasmo rendono aspre queste parole di Stravinsky, pronunciate nella quarta - "Tipologia
della musica" - delle sei conferenze tenute tra il 1939 e 1940 alla Harvard University di New York.
Non si rivolge a se stesso, in questa invettiva: non è certo lui a «parlare un idioma senza relazioni
con il mondo», a praticare «un'arte chiusa in se stessa». Tantomeno negli anni americani.

Ebony Concerto (ebano, ma anche i tasti cromatici del pianoforte) viene eseguito per la prima volta
alla Carnegie Hall di New York nel marzo del 1946. Solista è Woody Herman, dedicatario
dell'opera. L'orchestra - 2 sax contralto, sax tenore, sax baritono, clarinetto basso, corno, 5 trombe,
tre tromboni, pianoforte, arpa, chitarra, contrabbasso, tam-tam, piatti, timpani - ribadisce l'omaggio
alle formazioni tipiche delle orchestre jazz.

Il Concerto è diviso in tre momenti, esemplare traduzione formale del desiderio onnivoro del
compositore che qui si esibisce in un concerto grosso per orchestra jazz con tempo lento centrale,
desunto dallo slow dei blues. Il grande assimilatore ha ormai metabolizzato il furore ritmico del
jazz, lo ripropone come maniera, naturalmente alla sua maniera, in un esempio illustre di
traduzione-invenzione. Nel desiderio, forse neppure troppo occulto, di dimostrare che anche il jazz
e il blues potrebbero essergli debitori, o perlomeno che esiste un modo stravinskyano di scrivere
jazz, di suonare blues. Controllato e clownesco, letterale e irriconoscibile, mentre Stravinsky è
sempre riconoscibile, quando si nasconde dietro una ruvida armonizzazione jazzistica, una fuga
bachiana, una melodia di Pergolesi, quando si diverte ad apparire, ad essere, un compositore
americano.

L'Andante centrale è un compianto, funebre e grottesco, nel quale c'è spazio anche per una
deformazione alla maniera di Mahler, in quel rendere solenni e inattendibili, perché estraniati dal
proprio contesto formale di origine, temi, melodie, popolari. "Il capriccio individuale", di cui in
quelle conferenze lamentava l'imprevedibilità, gli appartiene tutto intero, nucleo generatore del suo
polistilismo e, insieme, del suo personalissimo stile.

Sandro Cappelletto
97 1958 - 1959

Movements
per pianoforte e orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=EgiGj1KcZlc

https://www.youtube.com/watch?v=uPExIXkBOus

Organico: pianoforte solista, 2 flauti (2 anche ottavino), oboe, corno inglese, clarinetto, clarinetto
basso, fagotto, 2 trombe, 3 tromboni, arpa, celesta, archi
Composizione: 1858 - Los Angeles, 30 luglio 1959
Prima esecuzione: New York, Town Hall, 16 gennaio 1960
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1960
Dedica: Margrit Weber

Musica da camera

10b 1923

Pastorale
Romanza senza parole - Trascrizione per violino e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=ca8H-u4nnxw

https://www.youtube.com/watch?v=ca8H-u4nnxw+

Larghetto (fa diesis maggiore)

Organico: violino, pianoforte


Composizione: 1923
Edizione: Schott, Magonza, s. a.

10c 1923

Pastorale
Romanza senza parole - Trascrizione per violino e fiati

https://www.youtube.com/watch?v=X3191pkzp04

https://www.youtube.com/watch?v=0CgXIiGlEg8

Larghetto (fa diesis maggiore)

Organico: violino, oboe, corno inglese, clarinetto, fagotto


Composizione: 1923
Edizione: Schott, Magonza, s. a.

16d 1929

Prélude et Ronde de Princesses

https://www.youtube.com/watch?v=TVoPeaVryzQ

https://www.youtube.com/watch?v=ORlUL3XUjPg

Trascrizione per violino e pianoforte dal balletto "L'oiseau de feu"


Organico: violino, pianoforte
Composizione: 1929
Edizione: Schott, Magonza
Dedica: Paul Kochanski

16e 1929

Berceseu

https://www.youtube.com/watch?v=mJ1j8CkYH1A

Prima trascrizione per violino e pianoforte dal balletto "L'oiseau de feu"


Organico: violino, pianoforte
Composizione: 1929
Edizione: Schott, Magonza
Dedica: Paul Kochanski

16f 1933

Berceuse

Seconda trascrizione per violino e pianoforte dal balletto "L'oiseau de feu"


Organico: violino, pianoforte
Composizione: 1933
Edizione: Schott, Magonza
Scritta in collaborazione con Samuel Dushkin

16g 1933

Scherzo

https://www.youtube.com/watch?v=3FBZSQ_WZvE

https://www.youtube.com/watch?v=-3owBFXqZtU
Trascrizione per violino e pianoforte dal balletto "L'oiseau de feu"
Organico: violino, pianoforte
Composizione: 1933
Edizione: Schott, Magonza
Dedica: Paul Kochanski

25 1914

Tre Pezzi per quartetto d'archi

https://www.youtube.com/watch?v=AS0sBJDEDKY

https://www.youtube.com/watch?v=sXszhjromto

https://www.youtube.com/watch?v=O8Mh5m-_t_E

Danza
Stravagante
Cantico

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: 1914
Prima esecuzione: 8 novembre 1915
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1922
Dedica: Ernest Ansermet
Anche arrangiati per orchestra nei "Quattro studi per orchestra"

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Dopo l'esecuzione del Sacre du printemps (28 maggio 1913) Stravinsky abbandonò la scrittura per
orchestra, forse sentendo il bisogno di tornare all'elemento minimo, all'essenziale. Ecco allora una
serie di composizioni per strumenti solisti o per gruppi da camera tra cui spiccano questi Tre pezzi
per quartetto d'archi, esemplari per lo studio dello sviluppo stilistico del compositore.

Fuori dallo stordimento del totale orchestrale Stravinsky torna all'individualità dei timbri puri e
sembra così affascinato da questa "(ri)scoperta" che qui utilizza gli strumenti senza cercare nessun
impasto, sottolineando anzi le differenze; il dialogo, principio fondamentale della musica da
camera, viene estirpato e muore sotto i colpi della sperimentazione di nuovi modelli. L'insieme dei
quattro strumenti diventa il "luogo del possibile", tutto vi può accadere e così i «procedimenti
compositivi caratteristici del suo stile (la sovrapposizione poliritmica di ostinati, la strutturazione a
sezioni discordanti, la successione di sequenze omoritmiche dal carattere litanico)» impattano
violentemente sulla formazione cameristica, considerata da sempre omogenea ed equilibrata, dando
luogo ad una serie sterminata di effetti sonori. Per tagliare i rapporti con qualsiasi passato, inoltre,
Stravinsky rinuncia anche al termine "quartetto" (divenuto sinonimo di una forma) scegliendo
quello più freddo (ossia senza riferimenti) e generico di "pezzo per quartetto", inteso solo come
unione di quattro strumenti.
Impossibile riconoscere col semplice ascolto la vasta mole di materiale racchiusa nei Tre pezzi ed è
chiaro che in questo caso (ma è sempre così per i compositori) l'autore non lavora solo per ciò che
si sente ma anche per ciò che si vede sulla partitura. Sarà utile, allora, buttare un occhio sulla pagina
musicale anche per capire il difficile ruolo dell'esecutore nel rendere appieno la rigida volontà di
Stravinsky. Si comincia con le richieste più consuete:
- pizzicato,
- suonare sulla quarta corda (i suoni, qualunque essi siano, diventano cupi),
- uso dell'archetto in tutta la sua lunghezza (i suoni risultano aggressivi),
- eccessivamente secco,
- corde vuote (quindi un suono non vibrato),

per passare a quelle più particolari

- sul ponticello (il suono che risulta è abbastanza stridulo),


- sulla tastiera (il suono diventa sottile),
- glissati sul pizzicato,
- balzato (si fa rimbalzare l'archetto sulle corde),
- tenere lo strumento in una posizione non consueta,
- sul tasto (con poca vibrazione).

Risulta chiaro che l'uso massiccio dei diversi modi d'attacco della corda disgrega qualsiasi
omogeneità degli archi, obiettivo dichiarato dei Tre pezzi. Il lavoro di Stravinsky non fu certo il
primo né il più originale in questo senso, ma quello che stupisce è la determinatezza con la quale è
qui perseguito il progetto di revisione del quartetto per archi.

I Tre pezzi per quartetto d'archi restano comunque, pur se poco conosciuti, un punto di riferimento
tra le composizioni del Novecento, fruibili anche dal pubblico non esperto. Il motivo sta nella
grande mobilità ritmica: è il ritmo che salda e dà unità alle parti indipendenti, e il continuo
movimento dell'accentuazione rimette continuamente in gioco la fissità degli elementi armonici e
timbrici.

Nel primo dei Tre pezzi ogni strumento suona per sé e di conseguenza ogni motivo è confinato in
una rigida porzione dello spazio sonoro. Il violoncello ripete sempre le stesse note cambiando però
l'accento; la viola si sdoppia in due ruoli: un re tenuto per tutto il movimento ed un altro re
pizzicato di quando in quando. Il secondo violino espone una serie di quattro note, sempre le stesse,
secondo una rigida simmetria, ed il violino primo trasforma un semplice motivetto in un ostinato
singhiozzante.

Nel secondo pezzo diventa ossessivo il principio della rigidità strutturale, con moduli ritmici
ripetuti omoritmicamente, alternati a frammenti di recitativo strumentale.

Il terzo segna un'inversione di tendenza dato che gli strumenti sono utilizzati (in pianissimo) come
fascia sonora omogenea rotta però da lacerti di stridore espressionista.

Elementi che in passato si potevano giustapporre solo in successione di tempo, vengono riuniti da
Stravinsky (donde la nascita di termini come poliritmia, politonalità) in una contemporaneità
spaziale che nei Tre pezzi assume una presenza quasi "crudele" dato che nessun gioco di impasti
orchestrali, nessun dialogo polifonico viene a stemperare la solitudine degli strumenti.

Fabrizio Scipioni

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I Tre pezzi per quartetto d'archi, che segnano una tappa importante nel percorso creativo di
Stravinskij, risalgono agli anni del soggiorno nel cantone svizzero di Vaud, dove nacquero tra
l'aprile e il luglio del 1914. Stravinskij li lasciò senza titolo e senza indicazioni di movimento;
quando li pubblicò, nel 1922, annotò all'inizio di ciascuno di essi solo il numero di metronomo. Ma
già la stessa denominazione (Tre pezzi, anziché Quartetto) è sintomatica: l'autore voleva
evidentemente prendere le distanze da uno dei generi più saldamente ancorati nella tradizione
classico-romantica, distaccandosi anche dalle pratiche compositive - l'impianto sonatistico e
l'elaborazione motivico-tematica, in primo luogo - che si identificavano più intimamente con quel
genere e quel repertorio. Su questa linea, i Tre pezzi vanno anche oltre: del quartetto classico
rigettano infatti quei presupposti linguistici - la tonalità, il principio dell'identità tematica - che lo
stesso Stravinskij, almeno dal tempo di Petruska, aveva già fortemente contribuito a incrinare.

Anche dal punto di vista della semplice scrittura strumentale i Tre pezzi sono tutt'altro che
convenzionali. Il quartetto d'archi, nella tradizione classica, mira alla fusione timbrica e al rapporto
paritetico tra gli interlocutori. Nel primo pezzo il primo violino deve suonare con tutta la lunghezza
dell'arco, il secondo deve emettere suoni secchi al tallone, la viola produce un'unica nota pizzicata e
al ponticello, il violoncello è trattato come uno strumento a percussione: prescrizioni del genere,
che implicano diversi modi d'attacco e diversi modi di produrre il suono, fanno sì che ciascuno
strumento conservi una percepibile identità e che non si realizzi alcuna fusione timbrica. Anche
rispetto al principio dello scambio paritetico Stravinskij va in direzione opposta. Si ascolti ancora il
primo pezzo: il primo violino propone un motivo che utilizza solo quattro note, nello stile di una
danza popolare russa, e lo ripete identico quattro volte; gli altri tre strumenti ripetono ciascuno una
propria figura, senza che si realizzi alcuno scambio. L'incomunicabilità tra i membri del quartetto e
l'assenza completa di sviluppo sono dunque la cifra distintiva del pezzo, che comunica un senso di
caratteristica e simmetrica rigidità: l'esatto contrario dello spirito quartettistico, basato sulla
circolazione dei motivi tra le singole parti e sulla loro evoluzione nel tempo. Il principale
propulsore, qui, è invece il ritmo, mobilissimo per i continui spostamenti di accento: Stravinskij
applica, su più piccola scala, i procedimenti sperimentati con successo nel Sacre du printemps.

Il rapporto tra ì singoli movimenti è un altro aspetto che tradisce la presa di distanza dalla
tradizione. I movimenti di un quartetto classico sono uniti, oltre che da un legame tonale, da una
rete sottile di relazioni tematiche e di reminiscenze sotterranee; Stravinskij accosta invece i Tre
pezzi come tre quadri contrastanti e senza alcun rapporto reciproco (qualche anno dopo,
trascrivendoli per orchestra, darà loro i titoli Danse, Excentrique, Cantique). Il secondo pezzo,
cromatico e spiccatamente espressionista nell'atteggiamento, procede per strutture rigidamente
separate e contrastanti. Stando ai Memories il brano, con il suo movimento a scatti, sarebbe stato
ispirato dall'esibizione di un clown, Little Tich, che Stravinskij vide a Londra nell'estate del 1914. Il
terzo pezzo contrasta in modo ancora più netto con i precedenti. Gli archi, che determinano una
fascia sonora timbricamente fusa e omogenea, procedono rigidi nei modi di un corale, con un
ritornello e risposte salmodianti che ricordano le note iniziali di una celebre sequenza gregoriana, il
Dies irae. È uno stile severo e ieratico, del quale Stravinskij si ricorderà nelle composizioni
religiose degli anni a venire.

Claudio Toscani

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Composte nel 1914, dopo la formidabile eruzione del Sacre, le Trois Pieces per Quartetto aprono
una fase creativa strawinskiana prevalentemente dedicata alla musica da camera e sono, insieme
con il più tardo Concertino, del 1920, i soli contributi del musicista a una gloriosa letteratura
bisecolare, della quale in quegli anni Schoenberg, Bartok e Hlndemith si sentivano i continuatori
con opere di vasto respiro, profondamente nuove ma inconcepibili al di fuori delle coordinate di un
passato ineludibile. Ecco invece Strawinsky evitare deliberatamente ogni possibilità di riferimento a
qualsiasi modello remoto o recente, ideale o concreto, incominciando col togliere di mezzo lo
stesso termine di «quartetto», di per sé troppo gravido di ipoteche.

Null'altro che "tre pezzi" per due violini, viola e violoncello, quindi, concepiti nello spirito del più
audace sperimentalismo quanto al trattamento del materiale sonoro, dal quale l'autore sembra voler
spremere effetti non certo inediti (come i pizzicati, i suoni sul ponticello, sul tallone, sulla tastiera, i
glissandi ecc.) ma giammai utilizzati in un contesto che intende stravolgere violentemente ogni
tradizionale rapporto fonico e timbrico tra i quattro strumenti. Come spiega Roman Vlad «Ogni
motivo resta rigorosamente confinato in una rigida porzione dello spazio sonoro, in una invalicabile
zona timbrica. Strawinsky capovolge così uno dei postulati fondamentali della tradizionale musica
da camera e in genere della musica scritta per più voci o più parti, postulato che mirava alla
instaurazione di rapporti dialogici tra le singole parti. (...) Alla fissità degli elementi armonici,
melodici e timbrici si contrappone l'estrema mobilità delle strutture metriche. Gli accenti metrici si
spostano senza posa e il ritmo si costituisce a essenziale fattore propulsore della vicenda sonora».

Giovanni Carli Ballola

41a 1919

L'histoire du soldat

https://www.youtube.com/watch?v=MDHGBK4NWTw

https://www.youtube.com/watch?v=WVI5ZzUQkTg

https://www.youtube.com/watch?
v=MDHGBK4NWTw&list=RDMDHGBK4NWTw&start_radio=1

Suite da concerto

La marcia del Soldato


Il Violino del Soldato
Marcia reale
Piccolo concerto
Tre danze: Tango, Valzer, Ragtime
Danza del Diavolo
Corale
Marcia trionfale del Diavolo

Organico: violino, contrabbasso, clarinetto, fagotto, cornetta (o tromba), trombone, percussioni


Composizione: 1919
Prima esecuzione: Londra, Wigmore Hall, 20 luglio 1920
Edizione: J. & W. Chester, Londra, 1922

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il balletto L'histoire du soldat, "qui doit ètre lu, joué, dansé", fu composto nel 1918 in Svizzera su
un testo francese di C.F. Ramuz (ma il soggetto l'aveva scelto Strawinsky, liberamente traendolo da
una delle fiabe raccolte da Afanas'ev), con il proposito di creare uno spettacolo facile, vario,
attraente, e soprattutto semplice da allestire. Musicista e letterato, entrambi in difficoltà economiche
(dalla Russia sovietica Strawinsky non riceveva più i diritti d'autore), speravano di guadagnare bene
dalle molte repliche in teatri grandi e piccoli e perfino nei paesi! Non fu così, almeno per allora (e
forse nelle piazze dei paesi svizzeri questo soldato non è giunto mai) - ma era nato un capolavoro,
nel quale non ha piccola parte la fredda, beffarda presenza del demonio. Con ammirevole sicurezza
dell'effetto sonoro e simbolico Strawinsky ha adoperato gli strumenti più acuti e più bassi di ogni
settore, clarinetto e fagotto, cornetta a pistoni e trombone, violino e contrabbasso e, predominante,
una nutrita percussione (assegnata a un solo strumentista). La "Grande suite" da concerto, in otto
parti, include quasi tutta la musica del balletto e segue fedelmente lo svolgersi dell'azione scenica:
l'arrivo del soldato, l'incontro col diavolo, l'ingresso nel palazzo del re, il piccolo concerto, le danze
(tango, valzer, ragtime) con le quali guarisce la principessa malata, l'inganno che il diavolo subisce,
il grande corale, la marcia trionfale del diavolo violinista, che trascina via con sé il povero soldato.
Le voci degli strumenti scompaiono una dopo l'altra e dopo gli ultimi due accordi strappati del
violino il suono sinistramente si estingue su tredici battute della percussione.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La prima rappresentazione dell'Histoire du soldat avvenne il 28 settembre 1918 al Théàtre


Municipal di Losanna. Collaboratori di Stravinsky furono Charles Ferdinand Ramuz, autore del
testo tratto da un racconto di Afanas'ev, René Auberjonois che disegnò scene e costumi ed Ernest
Ansermet cui venne affidata la concertazione e la direzione dell'opera. L'intenzione era quella di
creare uno spettacolo di facile allestimento, adatto ad essere rappresentato anche nei più sperduti
villaggi svizzeri. Questo carattere "popolare" dell'Histoire - prodotto in verità della più raffinata
avanguardia - si riscontra, oltre che nel soggetto, nella presenza didascalica di un narratore, che
Stravinsky afferma aver preso in prestito da Pirandello, ma soprattutto nel largo uso di temi e ritmi
della musica d'intrattenimento più in voga (Ragtime, Tango, ecc.).

Mentre nel quasi coevo Renard e poi in Les Noces le parti cantate sono inserite nell'orchestra e non
hanno riferimenti diretti con i personaggi, nell'Histoire esse vengono del tutto abolite. La trama
narrativa è affidata alla recitazione, al mimo, alla danza e all'importante ruolo del narratore. Sulla
piccola scena mobile questi si viene a collocare di lato, seduto a un tavolino, mentre al lato opposto,
ben visibile al pubblico, è sistemato il piccolo gruppo strumentale. I personaggi sono solo tre: il
Soldato, il Diavolo - in una duplice veste recitante e danzante - e la Figlia del Re, parte solo
danzante.

Al centro dell'azione è l'eterno motivo faustiano del patto col diavolo: un soldato cede il suo violino
al diavolo in cambio di un libro magico, ma quando, sposata la principessa, vuole tornare a casa per
rivedere la madre il diavolo se lo porta via al suono di una marcia trionfale. Tema eterno e anche
sorprendentemente attuale, come notava lo stesso Stravinsky: «Il nostro soldato nel 1918 fu capito
in modo molto preciso come vittima del conflitto mondiale allora in atto, nonostante la neutralità
dello spettacolo per altri aspetti. L'Histoire du soldat resta il mio unico lavoro teatrale con un
riferimento al mondo contemporaneo».

Al di là della veste scenica, spiccatamente sperimentale, in cui i vari elementi appaiono dissociati
piuttosto che fusi, l'aspetto più originale e nuovo del lavoro è il timbro secco e tagliente
dell'ensemble strumentale: «Le ristrettezze economiche previste per l'allestimento dell''Histoire
originaria mi costrinsero a usare un gruppo ristretto di strumenti, ma questa restrizione non fu una
limitazione perché le mie idee musicali erano già orientate verso uno stile strumentale solistico [...].
Il gruppo strumentale dell'Histoire è simile a quello della jazz band perché ogni famiglia
strumentale - archi, legni, ottoni, percussione - è rappresentata da entrambi i componenti sia acuti
sia gravi». L'organico strumentale comprende infatti un violino, un contrabbasso, un clarinetto, un
fagotto, una cornetta a pistoni, un trombone, nonché un nutrito gruppo di strumenti a percussione
affidati a un unico esecutore.

Suoni caratteristici dell'Histoire sono, secondo Stravinsky, «lo stridore del violino e le interpunzioni
dei tamburi. Il violino è l'anima del soldato e i tamburi sono la diavoleria». Ma è chiaro che ogni
singolo strumento ha un ruolo ben evidenziato e spiccatamente solistico.

L'influenza della musica jazz è molto importante nella creazione del particolarissimo linguaggio di
quest'opera stravinskiana: «Il jazz significava un suono totalmente nuovo alla mia musica e
l'Histoire segna la mia rottura definitiva con la scuola orchestrale russa nella quale ero stato
allevato».

Nel 1919 Stravinsky approntò due Suites da concerto tratte da questo lavoro: la prima, che si
ascolterà stasera, comprende la quasi totalità delle musiche composte per la rappresentazione, è
articolata in nove parti e conserva l'organico originale; la seconda è invece una versione ridotta
(cinque brani) e cameristica (violino, clarinetto e pianoforte).

Nella iniziale Marche du soldat, che vede l'ingresso in scena del protagonista, la scansione ritmica
regolare del contrabbasso fa da contrappunto alla mobilissima scrittura delle altre parti con
frammenti melodici tratti da canzoni popolari, rapide figurazioni arpeggiate e incisi ritmici da
fanfara militare.

Un disegno ostinato a note doppie del violino caratterizza il brano successivo, Petits airs au bord du
ruissseau (Musiche al ruscello), che corrisponde alla prima scena: il soldato si riposa e si mette a
suonare. Il diavolo, in veste di cacciatore di farfalle, si avvicina di soppiatto accompagnato da una
melliflua melodia del clarinetto. La successiva Pastorale è un estatico duetto di clarinetto e fagotto
nei loro penetranti registri acuti, mentre la chiassosa Marche royale crea un netto contrasto col
brano precedente: il soldato entra baldanzoso nel palazzo del re e vi incontra il diavolo, travestito
questa volta da violinista. Nella Marche royale, che coinvolge tutti gli strumenti, la cornetta a
pistoni ha un ruolo solistico emergente con il suo motivetto bandistico di rutilanti quintine.

Il soldato, che abilmente ha sottratto il violino al diavolo, suona sul corpo del diavolo ubriaco nel
Petit concert. Qui compare, insieme al motivo principale della Marche du soldat, un motivo che lo
stesso Stravinsky ricollega al gregoriano Dies irae, pur riconoscendo la non intenzionalità del
riferimento.

Una volta recuperato il prezioso violino il soldato è in grado di risvegliare la principessa dal suo
languido sonno. Per lei suona tre danze: un tango, un valzer e un ragtime. L'effetto è quello di un
sorprendente crescendo: dalla sinuosa melodia del violino accompagnato dalla sola percussione nel
Tango, si passa alla più ricca strumentazione dell'ironico Valzer e infine alla sfrenata euforia del
Ragtime a cui partecipano tutti gli strumenti.

La Danse du diable vede il diavolo costretto a danzare fino allo sfinimento da un soldato
momentaneamente vittorioso. Il Grand choral segna il momento delle nozze fra il soldato e la
principessa. Nella rappresentazione i periodi musicali, di chiara ascendenza bachiana, vengono
intercalati da interventi didascalici del narratore che invita a non desiderare più di quello che si ha.

Uscito dai confini del regno per recarsi al suo villaggio il soldato è di nuovo preda del diavolo e
questa volta senza possibilità di appello. La Marche triomphale du diable è il trionfo della
percussione che, nel duello finale con il violino-soldato, rimane incontrastata a segnare la
supremazia dell'indeterminato, dell'insondabile nelle vicende umane.

Giulio D'Amore

41b 1919

L'histoire du soldat
Suite per violino, clarinetto e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=qLbKWKgJ9BQ

https://www.youtube.com/watch?v=AyUSlnmOH7k

La marcia del Soldato


Il Violino del Soldato
Piccolo concerto
Tre danze: Tango, Valzer, Ragtime
Danza del Diavolo

Organico: violino, clarinetto, pianoforte


Composizione: autunno 1919
Prima rappresentazione: Losanna, Teatro Municipale, 8 novembre 1919
Edizione: J. & W. Chester, Londra, 1924
Dedica: Werner Reinhart

Guida all'ascolto (nota 1)

Strawinsky fece la conoscenza dello scrittore C. F. Ramuz nell'autunno 1915 in Svizzera, dove il
compositore era riparato per le vicende belliche. L'amicizia che immediatamente nacque fra i due
artisti doveva sfociare anche in un rapporto di collaborazione. Per risolvere le difficoltà economiche
del momento Strawinsky e Ramuz pensarono, nel 1918, di creare uno spettacolo teatrale da camera,
che potesse essere facilmente allestito per la presenza di un limitato numero di strumentisti
(clarinetto, fagotto, cornetta a pistoni, trombone, violino, contrabbasso e percussione) e di attori; e
fu "L'Histoire du soldat" ispirata a un racconto di Afanaseev. La prima esecuzione avvenne a
Losanna il 28 settembre, sotto la direzione di Ernest Ansermet. Le spese dell'allestimento furono
sostenute dal mecenate Werner Reinhart di Winterthur.

In segno di ringraziamento a Reinhart Strawinsky non si limitò a dedicargli l'opera e a donargli il


manoscritto. Reinhart era infatti un buon dilettante di clarinetto, e dunque il compositore pensò di
realizzare appositamente per il mecenate una Suite dell'Histoire affidata a tre soli strumenti,
clarinetto, violino e pianoforte. La prima esecuzione di questa Suite (che precedette di pochi mesi
un'altra Suite da concerto, questa volta affidata all'organico originale) ebbe luogo l'8 novembre
1919 sempre a Losanna, con Edmond Allegra al clarinetto, José Porta al violino e José Iturbi al
pianoforte; ancora una volta la manifestazione era finanziata da Reinhart.

La Suite per clarinetto, violino e pianoforte è stata severamente criticata dagli studiosi di
Strawinsky, a causa della presenza dello strumento a tastiera, che il compositore aveva
deliberatamente evitato nella strumentazione originaria (l'idea è stata definita «sgradevole ed errata
dal punto di vista del gusto musicale» da Eric Walter White). In realtà la trascrizione è una
testimonianza della disponibilità artigianale di Strawinsky, aspetto che si ricollega all'immagine del
compositore-artigiano del Settecento, e vale da solo a mostrare il distacco dell'autore dalla prassi
musicale del tardo-romanticismo.

La Suite si compone di cinque brani (rispetto agli originari undici) e precisamente «La marcia del
soldato» (n. 1), «Il violino del soldato» (n. 2), «Il piccolo concerto» (n. 5), «Tango, Valzer,
Ragtime» (n. 6), «La danza del diavolo» (n. 7). Reciso ogni contatto con la loro destinazione
scenica, i brani conservano ugualmente l'intonazione parodistica dell'originale, e semplificano
adeguatamente la posizione, occupata dall'Histoire nella produzione strawinskiana, di una
transizione fra il materiale popolare russo e l'interesse verso altri generi musicali (in particolare il
Tango e il nuovo Ragtime).

Arrigo Quattrocchi

45 1919

Tre Pezzi
per clarinetto solo

https://www.youtube.com/watch?v=4tNWjh4s2qQ
https://www.youtube.com/watch?v=jByy6hntZ0Q

https://www.youtube.com/watch?v=7vFWtcPRWhc

Sempre piano e molto tranquillo


Metronomo = 168
Metronomo = 160

Organico: clarinetto
Composizione: Morges, 1919
Prima esecuzione: Losanna, Théâtre Municipal, 8 novembre 1919
Edizione: J. Chester, Londra, 1920
Dedica: Werner Reinhart

Guida all'ascolto (nota 1)

I Tre pezzi per clarinetto, della durata complessiva che non raggiunge i quattro minuti, sono da
ricollegarsi direttamente con l'Histoire du Soldat, perché il destinatario di questo lavoro fu la stessa
persona che aveva finanziato il primo allestimento dell'Histoire, Werner Reinhart, che era fra l'altro
un buon clarinettista dilettante. Ma per Strawinsky non si trattava di una vera scoperta dello
strumento, se pensiamo alle Berceuses du Chat (per contralto e tre clarinetti), composte poco prima,
fra il 1915 e il 1916. Siamo in ogni caso nel pieno di quel periodo creativo del compositore
orientato verso la musica da camera, che si potrebbe far partire dal 1914, anno di composizione dei
Tre pezzi per quartetto d'archi. E' anche il momento della scoperta del jazz, che porta i suoi primi e
più importanti frutti nel Rag-time per 11 strumenti e nella Piano-Rag-Music (fra il 1918 e il 1919),
ma i Tre Pezzi, scritti proprio nel 1919, non sembrano risentirne troppo, per la stessa concezione
che li anima, puramente melodica; sarebbero accostabili semmai alla mobilità delle Liriche
giapponesi. Ma, diciamolo solo per inciso, sarà proprio il clarinetto a riproporsi nel miglior clima
jazzistico che Strawinsky abbia saputo creare, quello dell'Ebony Concerto, scritto per Woody
Herman nel 1945.

I Tre pezzi, scritti, come si è detto, per un gesto di gratitudine nei confronti di Reinhart, vennero
eseguiti la prima volta a Losanna l'8 novembre 1919 da Edmond Allegra. Il clarinetto richiesto (in
la nei primi due, in si bemolle nel terzo) è il Bohm. L'esecuzione si inquadrava in un piano a largo
raggio, organizzato sempre da Reinhart, per una serie di concerti a Ginevra, Losanna e Zurigo, con
altri lavori di questi anni, la Suite dall'Histoire du Soldat, le Berceuses du Chat, Pribautki, Ragtime
per pianoforte solo, gli otto pezzi facili per pianoforte a quattro mani, Piano-Rag-Music, con
esecutori di spicco fra cui lo stesso Strawinsky, José Iturbi, il violinista José Porta e il clarinettista
Allegra.

Il primo dei Tre pezzi, da eseguirsi "sempre p e molto tranquillo", è una monodia che si muove
nella zona grave dello strumento in una atmosfera molto sommessa, senza urti, tranne la breve
accelerazione e l'aumento di intensità dell'ultima misura. Il secondo pezzo, di carattere brillante,
non porta alcuna sbarra di battuta e si propone come una improvvisazione ricca di volute e di
arabeschi; internamente è diviso in tre piccole sezioni, con una parte centrale più pacata, nella zona
bassa dello strumento. Il terzo pezzo è stato avvicinato, per il suo carattere, al Tango e al Ragtime
dell'Histoire, sia per il taglio ritmico continuamente variato sia per il carattere estroso e brillante
della linea melodica.

Renato Chiesa

46b 1925

Suite per violino e pianoforte, su temi, frammenti e pezzi di Giovanni Battista Pergolesi

https://www.youtube.com/watch?v=rl0YRwTr1kk

https://www.youtube.com/watch?v=yE8KtJU2cvk

Introduzione
Serenata
Tarantella
Gavotta co due variazioni
Minuetto e Finale

Organico: violino, pianoforte


Composizione: Nizza, 24 agosto 1925
Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1926
Dedica: Paul Kochanski

46c 1932

Suite italienne n. 1
Trascrizione per violoncello e pianoforte dal "Pulcinella"

https://www.youtube.com/watch?v=rl0YRwTr1kk

https://www.youtube.com/watch?v=gG1ULobLBTY

https://www.youtube.com/watch?v=e-_jVoXuQ-c

Introduzione
Serenata
Aria
Tarantella
Minuetto e Finale

Organico: violoncello, pianoforte


Composizione: 1932
Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1934
Scritto in collaborazione con G. Pjatigorkij

Guida all'ascolto 1 (nota 1)


La Suite italienne per violoncello e pianoforte deve indirettamente la propria origine all'incontro fra
Stravinskij e il violinista Samuel Dushkin. Avviata nel 1931, per la prima esecuzione del Concerto
per violino e orchestra, la collaborazione con Dushkin si protrasse ancora per vari anni, con esiti
felicissimi; lo strumentista ampliò sensibilmente le conoscenze del compositore sulla tecnica
violinistica, e i due artisti diedero origine a un duo che si esibì nelle principali sedi concertistiche
d'Europa e d'America. Proprio in vista di queste esibizioni Stravinskij si dedicò alla redazione di
diverse composizioni per violino e pianoforte, in massima parte rielaborazioni cameristiche di
lavori orchestrali preesistenti; alla stesura della parte violinistica collaborava direttamente lo stesso
Dushkin.

Una origine simile è quella della Suite italienne, che nacque nel 1932 dall'incontro di Stravinskij
con il violoncellista Gregor Piatigorskij il quale collaborò alla definizione della sua parte; non è
certamente un caso se l'anno seguente il compositore elaborò un'altra versione della stessa
composizione, per violino e pianoforte, destinata all'attività concertistica con Dushkin. Entrambe le
Suites erano tratte da un'opera orchestrale precedente, il balletto Pulcinella.

Composto a Morges fra il 1919 e il 20 aprile 1920, eseguito il 15 maggio 1920 all'Opera di Parigi
dalla compagnia dei Ballets Russes sotto la direzione di Ernest Ansermet, Pulcinella segna una
svolta nella produzione di Igor Stravinskij. Esso costituisce infatti - secondo una interpretazione
assai diffusa anche se un poco schematica - l'opera con cui Stravinskij voltò le spalle al proprio
periodo "russo", inaugurando il periodo "neoclassico". Era stato Diaghilev che, nel tentativo di far
tornare il compositore nell'orbita della compagnia dei Ballets Russes, a cui era stato molto vicino
prima della guerra, aveva proposto a Stravinskij di comporre un balletto rielaborando musiche di
Pergolesi. Dopo un iniziale scetticismo, Stravinskij era rimasto affascinato dalle partiture del
maestro italiano (o meglio: recenti ricerche hanno dimostrato come in realtà solo una parte delle
musiche impiegate fosse in realtà effettivamente attribuibile a Pergolesi). Come lo stesso autore
ebbe a scrivere in Expositions and Developments: «Pulcinella rappresenta la mia scoperta del
passato, l'apparizione tramite la quale divenne possibile tutto il mio lavoro successivo. Era uno
sguardo indietro, naturalmente - il primo dei miei amori in quella direzione - ma era anche uno
sguardo nello specchio». Nella musica di Pergolesi e dei suoi contemporanei, dunque, Stravinskij
trovò se stesso, individuando un rapporto, fra l'autore e la sua opera, oggettìvo, emotivamente
distaccato, lontano tanto dal sentimentalismo tardoromantico quanto dallo stile drammatico ed
allusivo del perìodo russo.

Dal grande ceppo di Pulcinella dovevano nascere, oltre alle due versioni della Suite italienne, anche
altre opere più dimesse, una Suite da concerto e una Suite per violino e pianoforte. Proprio
quest'ultimo fatto è significativo di una tendenza peculiare di Stravinskjj: la disponibilità
artigianale, aspetto che si ricollega all'immagine del compositore-artigiano del Settecento, e vale
dunque ad evidenziare maggiormente il distacco del compositore dalla prassi musicale
tardoromantica. La versione per violoncello della Suite italienne si compone di cinque movimenti:
una Introduzione, una Serenata (i primi due numeri del balletto), un'Aria (n. 9), una Tarantella (n.
12), e un Minuetto e Finale (nn. 17 e 18). Nella riduzione per violoncello e pianoforte i vari brani
perdono parte della loro innovativa veste sonora, nonché la loro peculiare definizione timbrica, ma
non il rapporto di "rigenerazione" rispetto all'originale pseudo-pergolesiano.

Arrigo Quattrocchi
Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Le origini della Suite italienne per violoncello e pianoforte, che porta la data del 1932, vanno
ricercate in un pomeriggio di primavera alle soglie degli anni venti, in Place de la Concorde a
Parigi, dove il musicista stava passeggiando in compagnia di Diaghilev. Quest'ultimo, decisissimo a
recuperarlo per i suoi Ballets dopo la parentesi della guerra, esordì a bruciapelo: «Non protestare
per ciò che sto per dirti. (...) Vorrei che tu dessi uno sguardo a una musica deliziosa del Settecento
pensando magari di orchestrarla per un balletto». Così rievoca, nei "Colloqui" con Craft, Igor
Strawinsky, che prosegue: «Quando disse che il compositore era Pergolesi, pensai che fosse
diventato matto. Conoscevo Pergolesi unicamente attraverso lo Stabat Mater e La serva padrona, e
benché avessi appena veduto una rappresentazione di quest'ultima a Barcellona, Diaghilev sapeva
che non ne ero stato affatto entusiasta. Gli promisi comunque di dare un'occhiata a quella musica e
di fargli sapere la mia opinione».

Come da copione già sperimentato (non accadde la stessa cosa a Verdi, se vogliamo credere alla
leggenda, con il Nabucco?), Strawinsky guardò la musica e se ne innamorò. E quanto
profondamente, si può leggere in "Exposition and Developments": «Pulcinella rappresenta la mia
scoperta del passato, l'epifania attraverso la quale divenne possibile tutto il mio lavoro successivo.
Era uno sguardo indietro, naturalmente - il primo dei miei amori in quella direzione - ma era anche
uno sguardo nello specchio».

Se però Pulcinella esce direttamente attraverso lo specchio di quelle musiche, non tutte
pergolesiane (è stato appurato in seguito che all'epoca ce ne erano molte false in circolazione), la
Suite italienne ne costituisce invece un'immagine speculare, in quanto fu da Pulcinella stesso che il
compositore vi attinse le musiche, in collaborazione - per la parte riguardante il violoncello - con
Gregor Piatigorsky, ventottenne suo connazionale da poco sbarcato in America. Del balletto, che
come si ricorderà Strawinsky scrisse anche per voci, la Suite si appropria inizialmente del motivo
che lo caratterizza; nella Serenata che segue l'Introduzione, il compositore si serve dell'aria del
tenore e successivamente di quella buffa del basso, resa ancora più comica dall'impiego grottesco
dei due strumenti; un tempo lento (6/8) confluisce in una Tarantella che lascia il posto a un
Minuetto d'insolita gravità, che a sua volta spiana la strada allo spiritoso Finale.

Evidentemente soddisfatto dell'operazione, Strawinsky la riprese di nuovo in mano: gli specchi non
finiscono mai di rimandare immagini, e a questo proposito va ricordato come già due anni dopo la
prima di Pulcinella avvenuta all'Opera di Parigi il 15 maggio 1920, il musicista ne ricavò una Suite
concertistica e, tre anni dopo ancora, una Suite per violino e pianoforte su temi, frammenti e brani
di Giovan Battista Pergolesi. Nel 1933, a un anno di distanza dalla Suite italienne, ne era già pronta
una seconda, con il violino al posto del violoncello, l'aggiunta di una Gavotta, alcuni numeri
cambiati e un ritmo meno vertiginoso. Sul frontespizio, vi appose il nome di Samuel Dushkin,
anche lui russo naturalizzato americano e già dedicatario del Concerto per violino, e con il quale si
mise in viaggio per una lunga tournée attraverso gli Stati Uniti, con un repertorio di trascrizioni per
violino e pianoforte che naturalmente comprendeva anche la nuova Suite.

Ivana Musiani

46d 1933 circa


Suite italienne n. 2

https://www.youtube.com/watch?v=Y9S0h6gGAHQ

https://www.youtube.com/watch?v=mAvYt3EVxc0

Trascrizione per violino e pianoforte dal "Pulcinella"

Introduzione
Serenata
Tarantella
Gavotta con due variazioni
Scherzino
Minuetto e Finale

Organico: violino, pianoforte


Composizione: 1933 circa
Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1934
Scritto in collaborazione con S. Dushkin

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Al loro ritrovarsi dopo la guerra mondiale nella primavera del 1919 a Parigi, inizialmente l'incontro
tra Djagilev e Stravinskij non era stato idilliaco. C'era il problema dei diritti d'autore non pagati dal
celebre impresario e il compositore s'era reso conto che, dopo l'armistizio di Brest-Litowsk e lo
scoppio della rivoluzione, sempre più flebili si facevano per lui le speranze di ricevere mezzi
finanziari dalla madrepatria russa. Da una parte e dall'altra a tale stato di tensione s'aggiungevano
nuove questioni. Djagilev s'era molto adirato per il successo arriso in Svizzera all'Histoire du Soldat
al di fuori dell'ambito organizzativo e contrattuale dei Balletti russi e, secondo le sue abitudini
autocratiche, alternava nella discussione le minacce ai ricatti sentimentali. Dal canto suo Stravinskij
da tempo si lamentava della scadente qualità delle esecuzioni orchestrali dei propri lavori. La
mediazione di Ansermet e di Misia Sert ebbe però ben presto un esito positivo e la collaborazione
artistica non tardò a riprender quota: Stravinskij suggerì di rappresentare a Parigi l'Histoire du
Soldat, Djagilev suggerì invece di allestire sotto forma di balletto il Chant du Rossignol,
coinvolgendo nell'iniziativa Massine e Matisse.

Il rischio d'una nuova impasse, fu evitato da Djagilev con un'improvvisa idea geniale durante una
passeggiata in Place de la Concorde. Nella prospettiva di rinnovare l'affermazione arrisa a Roma e a
Napoli alla trascrizione ballettistica di Tommasini delle scarlattiane Donne di buon umore, Djagilev
azzardò un'analoga proposta a Stravinskij, suggerendo l'ipotesi d'uno spettacolo basato sulle
musiche di Pergolesi rinvenute negli archivi di alcuni Conservatori italiani e di biblioteche
londinesi. Nelle Chroniques de ma vie (1936) Stravinskij scrisse al riguardo: «Djagilev mi mostrò
vario materiale inedito e insistette parecchio perché mi ispirassi a esso per comporre la musica di un
balletto il cui soggetto fosse tratto da una raccolta contenente numerose versioni delle avventure
amorose di Pulcinella. L'idea mi avvinse. La musica napoletana di Pergolesi mi aveva sempre
incantato per il suo carattere popolare e il suo esotismo spagnolo.... Vinsi la mia esitazione di fronte
al delicato compito di insufflare una nuova vita a dei frammenti sparsi e di costruire un insieme con
dei brani staccati di un musicista per il quale avevo sempre provato una propensione e un'emozione
particolari!».

Pulcinella: «musica di Pergolesi, trascritta e orchestrata da Igor Stravinskij» fu annotato in epigrafe


ad un album sul tavolo della mansarda della Maison Bornand di Morges, in Svizzera, ove il
compositore allora viveva. Fu predisposta una specie di sceneggiatura del soggetto, articolato su un
gioco "d'amore e di travestimenti" mentre vedeva gradualmente la luce una partitura assai differente
dalla strumentazione stilizzata che Djagilev si attendeva. Stravinskij riuscì ad imporre il proprio
punto di vista e la prima esecuzione assoluta di Pulcinella potè svolgersi il 15 maggio 1920
all'Opera di Parigi con Ansermet sul podio mentre Massine era il protagonista del balletto e la
Karsavina danzava nelle vesti di Pimpinella.

A quali fonti effettive Stravinskij aveva attinto? Ad alcune Sonate a tre, a pagine di due opere
comiche, Lo Frate 'nnamorato e Il Flaminio e di un'opera seria, Adriano in Siria e a qualche musica
clavicembalistica. Ancora Stravinskij commentò, qualche tempo dopo, in Expositions and
Developments (1962): «Pulcinella rappresenta la mia scoperta del passato, l'apparizione tramite la
quale divenne possibile tutto il mio lavoro successivo. Era uno sguardo indietro, naturalmente - il
primo dei miei amori in quella direzione - ma anche uno sguardo nello specchio».

Dall'originaria stesura orchestrale di Pulcinella, con il medesimo organico lo stesso Stravinskij


provvide nel 1922 a realizzare una Suite da concerto in 11 movimenti, con revisione nel 1949. E
attese anche ad alcune trascrizioni, la principale delle quali è la Suite italtenne per violino e
pianoforte, giovandosi dei consigli d'ordine tecnico fornitigli dal virtuoso all'arco Samuel Dushkin,
conosciuto nel 1931. Quel che particolarmente colpì l'immaginazione di Stravinskij nel modo di
suonare di Dushkin fu l'estro sorretto da un inarrivabile vigore d'espressione. Per Dushkin scrisse il
Concerto in re per violino nello stesso anno e, su suo suggerimento, si convinse a comporre il Duo
concertante e a realizzare la trascrizione della Suite italtenne (1933).

Come in Pulcinella, anche nella Suite italienne il carattere del linguaggio musicale è
inequivocabilmente stravinskijano nell'innocenza dell'aspetto timbrico, nella raffinata caratura
strumentale, nel risalto ritmico e nell'inconfondibile alchimia sonora dell'insieme. Rispetto
all'articolazione del balletto ed anche alla Suite da concerto, Stravinskij ha operato nella
trascrizione della Suite italienne qualche parziale modifica, non soltanto di termini, come la
Sinfonia che diventa Introduzione. Risultano altresì soppressi la Toccata e il Duetto, c'è qualche
inversione d'ordine nel susseguirsi degli episodi, mentre lo Scherzino fu sostituito con una stesura
del tutto differente. Infine nella parte del violino della Suite italienne può ritrovarsi qualche
atteggiamento strumentale originariamente affidato all'oboe, per lo più nelle linee melodiche.

Luigi Bellingardi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nel 1931 Willy Strecker, titolare della B. Schotts Soehne di Magonza, propose a Strawinsky di
comporre un concerto per violino, e gli suggerì come consulente tecnico Samuel Dushkin, un
giovane violinista di nazionalità americana, formatosi alla scuola di Léopold Auer. Dapprima
diffidente, sono note le tirate di Strawinsky contro i virtuosi e gli interpreti in genere, egli fu del
tutto rassicurato man mano che riconobbe in Dushkin un collaboratore devoto e di sicuro gusto
musicale. Dopo il «Concerto» portato a termine nello stesso 1931, Strawinsky e Dushkin formarono
un duo che negli anni 30 apparve nelle maggiori sale concertistiche del mondo. Il suo repertorio era
formato dal «Duo Concertante», composto appositamente nel 1931-32, e da trascrizioni di altre
opere di Strawinsky. Esse vennero redatte da Dushkin per quanto riguarda la parte violinistica,
dopodiché Strawinsky stendeva una parte pianistica che sovente è una rielaborazione, piuttosto che
una trascrizione, delle partiture originali. Questo repertorio di trascrizioni comprende la «Suite
Italienne» (dal «Pulcinella»); il «Divertimento» (dal «Baiser de la fée»); la giovanile «Pastorale»;
lo «Scherzo» e la «Berceuse» [dall'«Uccello di fuoco»); la «Danse Russe» (da «Petrushka») ; il
«Chant du rossignol» e la «Marche chinoise» (dal «Rossignol»); la «Chanson Russe» (da
«Mavra»).

La «Suite Italienne» fu redatta nel 1933. Essa comprende i seguenti pezzi del balletto originario su
musiche pergolesiane. Introduzione (dalla «Sonata a tre» n. 1, primo tempo). Serenata (aria di
Polidoro dal I atto del «Flaminio», in ritmo di siciliana). Tarantella (dalla «Sonata a tre» n. 7, terzo
tempo). Gavotta con due variazioni (dalle «Otto Sonate» per clavicembalo, sonata n. 2). Scherzino
(da «Lo Frate 'nnamurato», ouverture dell'atto III). Minuetto (da «Lo Frate 'nnamurato», canzone di
Don Pietro, atto I) e Finale (dalla «Sonata a tre» n. 12, terzo tempo). Anche se le melodie e le loro
armonizzazioni sono derivate di peso dagli originali settecenteschi, il tocco stravinskiano si osserva
nella alterazione delle simmetrie strofiche. (Ad esempio, i gruppi di quattro più quattro battute
possono essere presentati mozzi, o un gruppo incompleto può essere replicato). Ciò, unitamente alla
inserzione di alcuni ostinati che alterano il quadro armonico tradizionale, produce una sfasatura
stilistica che fa assumere ai passi pergolesiani l'aspetto di un collage, dove i materiali settecenteschi
hanno funzione di «readymade» o di «objets trouvés».

Gioacchino Lanza Tomasi

47 1920

Concertino

https://www.youtube.com/watch?v=HgTGNUUna9I

https://www.youtube.com/watch?v=FQ3zLl0UsMs

https://www.youtube.com/watch?v=4Xf-qLmacwQ

Prima versione per quartetto d'archi


Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: luglio - settembre 1920
Prima esecuzione: New York, 3 novembre 1920
Edizione: W. Hansen, Copenaghen, 1923
Dedica: Quartetto Flonzaley

Guida all'ascolto 1 (nota 1)


Scritto nell'estate del 1920 su invito di Alfred Pochon, primo violino del Quartetto ginevrino
Flonzaley, che voleva inserire un pezzo contemporaneo nel proprio repertorio, il Concertino di
Stravinskij reca questo nome per il ruolo nettamente solistico del primo violino, la cui parte è anche
arricchita da una cadenza. La composizione ha un carattere incisivo, a tratti graffiante, ben
esemplificato dal «motto» politonale d'esordio, che ricorre nei punti salienti: un motivo costituito
dalla sovrapposizione delle scale di do e di si maggiore, dall'effetto tagliente.

Il brano è in un solo movimento ed è, stando allo stesso Stravinskij, «realizzato in forma libera di
allegro di sonata». Le parole dell'autore sono da intendersi in senso molto lato. Elementi del
sonatismo classico sono da rintracciare, forse, nel principio del contrasto dialettico: dunque
nell'opposizione tra due zone contrastanti, una sezione fondata su motivi nervosi e ritmicamente
incisivi e quella successiva, basata su un motivo più disteso e cantabile. Per il resto, costituiscono
momenti rilevanti l'ampia cadenza del primo violino, tutta impostata sulle doppie corde; il climax
che coincide con una serie di accordi ribattuti «très mordant» con gli accenti continuamente
spostati, dall'effetto quasi brutale; il frammento melodico che emerge a un certo punto e che
riecheggia vagamente un'aria popolare russa.

Nel 1952 Stravinskij effettuò una trascrizione del Concertino, adattandolo a un complesso di dodici
strumenti, nel quale a dieci fiati si contrappongono un violino e un violoncello con funzione
concertante. In seguito la composizione fu ancora utilizzata da Stravinskij, assieme ai Tre pezzi per
quartetto d'archi, per un balletto intitolato The Antagonist, allestito all'American Danse Festival di
New London (Connecticut) nel 1955 con la coreografia di Ruth Currier.

Claudio Toscani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

A poche composizioni di Strawinski come questo Concertino si attaglia tanto bene il seguente
giudizio di Pierre Boulez: «Parlare anche di quella che è stata chiamata la assenza di melodia in
Strawinski? Senza neppur prendere un atteggiamento polemico, ma a seguito di una tradizione
melodica ereditata dall'Italia e dalla Germania (intendo naturalmente parlare degli italiani del
Seicento e del Settecento e dei tedeschi del Settecento e dell'Ottocento), si è constatato che
Strawinski non aveva il "dono melodico". Rimane da sapere se Strawinski non ha piuttosto
amplificato e divulgato una costruzione melodica derivata da una certa forma di canto popolare. E
forse precisamente in questo punto sorse il malinteso sui suoi temi "folcloristici" (non senza un po'
di cattiveria in questo epiteto impiegato così per indicare plagio e mancanza d'invenzione). La
tendenza di Strawinski alla fissità verticale del materiale sonoro, la ritroviamo in effetti sotto forma
orizzontale. Poiché le note di un modo sono inizialmente determinate a una data altezza, le note di
tutta la struttura melodica non usciranno dalla scala così stabilita. Come spesso non si utilizzano
tutte le note del modo o come, nel caso contrario, i punti di appoggio hanno il posto preponderante,
si coglie immediatamente l'aspetto statico rivestito da tale melodia sotto l'aspetto sonoro e crédo sia
proprio questo aspetto statico della scala a far denunciare una pretesa "assenza di melodia"».

Queste caratteristiche dello stile strawinskiano sono nettamente rilevabili anche a livello del
Concertino, in origine concepito per un quartetto d'archi.
Il componimento inizia con una semplice scala ascendente che va poi a fissarsi sopra la saldatura di
una struttura verticale; dopo di che il discorso musicale risulta caratterizzato dalla netta scansione
ritmica del disegno melodico dominante.

La parte centrale è un Andante costituito da poche battute di contenuta sonorità. Segue, sempre al
centro della composizione, una «Cadenza» dominata da una cantabile proposizione affidata al
primo violino. La mobile apertura della «Cadenza» conclude poi con una ripresa del tema iniziale
scandito quasi rigidamente; sopra questa scansione ritmica vanno a disporsi estrose invenzioni
melodiche. Chiude il tutto un altro brevissimo Andante («calmo e grave e senza crescere fino alla
fine» avverte una didascalia dell'autore) siglato da un sinuoso procedere della frase musicale dal
basso all'alto.

Giovanni Ugolini

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il Concertino, composto originariamente per un complesso da camera, il Quartetto Flonzaley, in


seguito fu rielaborato per dodici strumenti a fiato e ad arco (1952). I! ruolo prevalentemente
concertante affidato qui al primo violino, giustifica il titolo di un lavoro concepito in un solo
movimento, dove l'asperità della materia sonora, distribuita per fasce omoritmiche duramente
dissonanti o per petrosi contrappunti, determina quello «spinoso paesaggio emotivo» (l'espressione
è sempre di Vlad) che ha fatto parlare, a proposito di questa singolare opera, come di un momento
espressionistico incuneato nella stagione neoclassica strawinskiana.

Giovanni Carli Ballola

47a 1952

Concertino
Seconda versione per orchestra da camera

https://www.youtube.com/watch?v=7S7x0g29Gms

https://www.youtube.com/watch?v=k-aaVgHF0gM

https://www.youtube.com/watch?v=Qip3LC4pqQQ

Organico: flauto, oboe, corno inglese, clarinetto, 2 fagotti, 2 trombe, 2 tromboni, violino,
violoncello
Composizione: 1952
Prima esecuzione: Los Angeles, 11 novembre 1952
Edizione: W. Hansen, Copenaghen, 1953

Guida all'ascolto (nota 1)

Il Concertino per 12 strumenti di Igor Stravinsky viene al mondo sotto altra forma: nasce, in
Bretagna, nell'estate del 1920, come quartetto d'archi dedicato al Flonzaley Quartet. Arrangiato per
un nuovo organico, viene presentato a Los Angeles nel 1952. Nel programma stampato per
quell'occasione, il compositore specificava: «Le mie attuali concezioni di questo antico lavoro mi
hanno condotto a modificare considerevolmente la disposizione delle battute, a precisarne
l'armonia, a fraseggiarla con maggiore evidenza».

Il titolo implica un brano in un singolo movimento, liberamente trattato come un Allegro di sonata,
con la sezione concertante - un'autentica cadenza - riservata al violino solo. L'originale quartetto
d'archi, così debitore ancora al violino-saltimbanco dell'Histoire du Soldat, si moltiplica in una
numerosa, e radicalmente diversa, famiglia strumentale (violino, violoncello, flauto, oboe,
clarinetto, corno inglese, due fagotti, due trombe, trombone tenore, trombone basso).

L'abbrivio dell'inizio, i borbottii divertiti, la persistente ostinazione motorista, i richiami


esplicitamente ballabili, il gusto caricaturale, le invenzioni gratuite, la fantasia barocca, ancora
figlia della recente avventura del Libertino (Venezia, 1951). Barocco ancora, ma più algido nella
sua scienza, screziato di ironie che sono sempre la via di ragione all'impietoso Pierre Boulez: «Lui
come Picasso hanno raggiunto forse troppo presto la piena maturità, poi, quasi temendone la
potenza, hanno trascorso gran parte della successiva esistenza a renderla classica».

Il piacere dell'autocelebrazione non è dunque estraneo all'operina. Ma il principe Igor è generoso


anche nei fogli d'album. Il Concertino potrebbe risolversi prima della cadenza finale del violino,
plissettato dal pizzicato lieve del violoncello, e cantante come un malinconico richiamo dove nulla
più è popolare, febbrile, jazzato.

Ma proprio queste battute estreme sono il ponte immaginato, non ancora gettato, verso le
realizzazioni immediatamente successive. L'adesione neoclassica - scelta di "fede" nel momento
della barbarie, ancora per la civiltà minacciata? - e il piacere del puro divertissement cedono il
posto a suoni più radi, costruiti su una rigorosa successione degli intervalli, a quella "purezza" che
sarà la cornice entro la quale si anima, e si individua come personalissima, anche la sua imminente
svolta dodecafonica.

Sandro Cappelletto

51 1922 - 1923

Ottetto
per strumenti a fiato

https://www.youtube.com/watch?v=pm4AyP7F2fI

https://www.youtube.com/watch?v=Tu8xVySMPpk

https://www.youtube.com/watch?v=HgmiL0XotT8

Sinfonia - Lento
Tema con variazioni - Andantino
Finale - Tempo giusto
Organico: flauto, clarinetto, 2 fagotti, 2 trombe, 2 tromboni
Composizione: Biarritz, 1922 - Parigi, 20 maggio 1923 (revisione 1952)
Prima esecuzione: Parigi, Théâtre de l'Opéra, 18 ottobre 1923
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1924

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

E' stato lo stesso Stravinsky a raccontare nelle «Conversazioni con Craft», suo famulus e discepolo
fedele, come gli venne l'idea di scrivere l'Ottetto per strumenti a fiato, la cui composizione risale al
1922-'23. «L'Ottetto - dice Stravinsky - cominciò con un sogno. Mi trovavo (nel sogno, dico) in una
saletta, circondato da un ristretto numero di strumentisti che suonavano musica piacevolissima. Non
fui in grado di riconoscere la musica eseguita, né mi riuscì di rammentarne alcunché il giorno
seguente; ma mi ricordo bene della mia curiosità - in sogno - di sapere quanti erano con precisione
gli esecutori. Ricordo anche che dopo averli contati in numero di otto li osservai di nuovo, notando
che impiegavano fagotti, tromboni, trombe, un flauto e un clarinetto. Mi risvegliai da questo
concertino di sogno in uno stato di delizioso benessere, e il mattino dopo cominciai a scrivere
l'Ottetto; un'opera alla quale non avrei nemmeno minimamente pensato soltanto il giorno avanti,
per quanto avessi già da qualche tempo l'intenzione di fare un pezzo di musica da camera; non
musica su azione, come l'Histoire du soldat, bensì proprio una sonata strumentale ».

Nacque così una delle composizioni più caratteristiche dello stile neoclassico stravinskiano,
realizzata per un organico formato da un flauto, un clarinetto, due fagotti, due trombe e due
tromboni, ubbidienti ad un puro gioco di linee sonore e senza alcun riferimento ad uno status
psicologico o ad una idea narrativa. L'Ottetto è articolato in tre parti, di cui la prima è indicata come
Sinfonia, nel senso classico di ouverture. Infatti dopo una introduzione lenta giunge il luminoso e
sereno Allegro moderato, che costituisce il nucleo espressivo del primo movimento. Il secondo
tempo è un Tema con variazioni, con spunti ora elegiaci, ora divertenti e inframmezzati da citazioni
rossiniane, ora drammatici con una costruzione fugata. Il Finale si snoda in stile fugato a due, tre e
quattro voci e ricorda in alcuni momenti l'atmosfera festosa di Petruska. In proposito il musicista
disse che «le Invenzioni a due voci di Bach erano in qualche parte del fondo remoto della mia
mente mentre componevo l'ultimo movimento dell'Ottetto. Il nitore e la lucidità delle Invenzioni
costituivano in quel tempo un mio ideale e, in ogni caso, miravo a serbare tali qualità in massimo
grado nelle mie composizioni». L'Ottetto fu eseguito per la prima volta a Parigi il 18 ottobre 1923
sotto la direzione dell'autore: venne accolto complessivamente bene e considerato come una
rivisitazione dell'antico classicismo secondo lo spirito moderno.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

L'Ottetto per strumenti a fiato, terminato a Parigi nel maggio del 1923, è uno dei lavori più rigorosi
e più rigidi del periodo neoclassico. Anche in questo caso fu un sogno a suggerire al compositore
l'indole sonora del brano (è lui che lo ricorda in Dialogues and a Diary, Londra 1968), ma il
risultato non ha nulla di sognante, anzi l'asciuttezza fonica del complesso strumentale ha nettamente
predeterminato la forma. «Il mio Ottetto è un oggetto musicale. Questo oggetto ha una forma e
questa forma subisce l'influenza del materiale musicale con cui è composta. [...] Il mio Ottetto non
possiede alcuna 'emozionalità' ma è un'opera fondata su elementi oggettivi che sono autosufficienti.
[...] Ho escluso da quest'opera ogni genere di nuances tra il forte e il piano: ho lasciato soltanto il
forte e il piano.[...] La forma nella mia musica deriva dal contrappunto. Per me il contrappunto è il
solo mezzo col quale l'attenzione del compositore è concentrata su questioni puramente musicali.
[...]» (I. Strawinsky, Some ideas about my Octuor, in «The Arts», gennaio 1924, trad. ital. in E.W.
White, Strawinsky, Milano, Mondadori, 1983, pp. 699-702). Sono pensieri che si attagliano
perfettamente anche a musiche pensate e scritte circa trent'anni dopo, come la Missa o l'estremistico
Epitaphium: più oggettivi e antisentimentali di così non si può essere. L'Ottetto s'inizia con una
Sinfonia introdotta da poche battute di un 'Lento' cui si collega un 'Allegro' risoluto e animato, di
tipo barocco. Il secondo movimento è una costruzione ampia e articolata nella forma del tema
'Andantino' (le prime otto battute, re minore/maggiore) con cinque variazioni di straordinaria
ricchezza inventiva e eccezionalmente esigenti per i solisti, soprattutto per i due fagottisti. Un
'Moderato legatissimo' del flauto fa da transizione al 'Finale', una specie di rondò brillante con secca
perorazione conclusiva. Nell'Ottetto Casella vedeva "il modello più compiuto [...] di quello stile
universale, il quale fonda in un nuovo linguaggio, in nuove forme lo spirito dell'antica arte classica"
(citato in R. Vlad, Strawinsky, Torino, Einaudi, 1958, p.99).

Franco Serpa

62 1931 - 1932

Duo concertante
per violino e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=erKjuj0keV4

https://www.youtube.com/watch?v=jZXRCL3_Ads

https://www.youtube.com/watch?v=QR4I-xIvTs8

Cantilène
Eclogue I
Eclogue II
Gigue
Dithyrambe

Organico: violino, pianoforte


Composizione: Voreppe, dicembre 1931 - 15 luglio 1932
Prima esecuzione: Berlino, Neues Schauspielhaus im Gendarmenmarkt, 28 ottobre 1932
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1933

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

L'interesse destato ovunque e la soddisfazione del risultato conseguito dal Concerto per violino e
orchestra, scritto dietro sollecitazione del violinista Samuel Dushkin, decisero Strawinski a scrivere
subito dopo questo Duo concertante per il quale il maestro si valse, come per il Concerto, della
collaborazione tecnica dello stesso Dushkin. Il compositore e il violinista ne dettero la prima
esecuzione alla Radio di Berlino il 28 luglio 1932.
Almeno in quegli anni, Strawinski dichiarava la sua antipatia per i complessi da camera in cui si
combinassero le sonorità delle corde percosse del pianoforte e delle corde messe in vibrazione
dall'arco; preferibile, pensava, abbinare direttamente e coraggiosamente i due strumenti, piuttosto
che inserirli in forme ibride tipo Trio o Quartetto con pianoforte. Affermazioni personali, che
interessano in quanto presuppongono o comportano una modificata concezione della scrittura
violinistica che infatti, sia nel Concerto sia nel Duo, approda a risultati un po' diversi dallo stile
antiespressivo «legnoso» e «rugoso», com'ebbe a ben definirlo Casella, del Concertino per archi o
dell'Histoire du soldat.

Com'è noto, oltre che da questi motivi d'indole strettamente compositiva e strumentistica,
Strawinski fu ispirato dalla lettura del seguente passo del Pétrarque di Charles-Albert Cingria: «Il
lirismo non esiste senza regole, e bisogna che queste siano severe. Altrimenti non si ha che una
facoltà (generica) di lirismo, e questa esiste dappertutto. Ciò che non esiste dappertutto è una
espressione e una composizione liriche». Ci si riferisce al lirismo dei poeti bucolici dell'antichità e
alla loro tecnica sapiente. Ad essi il musicista volle spiritualmente accostarsi fin dai titoli di quasi
tutti i pezzi. Che vanno dalla rapsodica e malinconica Cantilena alle due Egloghe, di clima arcadico
e dolcemente contemplativo, alla Giga, pezzo di contrasto, con la sua brillante poliritmia e la secca
scrittura quasi sempre a due voci del pianoforte, e infine al Ditirambo che chiude entro un cielo
azzurrino questo remoto e quasi insospettato mondo bucolico creato dalla fantasia strawinskiana.

Giorgio Graziosi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nel 1931, per invito del violinista americano Samuel Dushkin, Strawinsky aveva scritto il concerto
per violino e orchestra. Durante la stesura del lavoro, Dushkin aveva collaborato con l'autore per la
realizzazione della parte violinistica. Il felice esito di questa collaborazione indusse Strawinsky a
scrivere subito dopo un secondo lavoro per Dushkin. Fu questo il «Duo concertante» che
rappresentò una ulteriore ricerca nel campo delle possibilità del violino e dei suoi rapporti con il
pianoforte. Stranamente, fino a quel momento Strawinsky non tollerava molto la combinazione
sonora che nasceva dalle corde percosse del pianoforte unita a quelle messe in vibrazione dall'arco.
Nella sua semplicità il Duo servì a superare questa ostilità di Strawinsky. Che l'opera si ricolleghi al
momento neoclassico dell'autore non è soltanto dimostrato dalla successione dei cinque movimenti,
una cantilena, due egloghe, una giga e un ditirambo conclusivo, ma soprattutto dalla rigorosa
scrittura per la quale Strawinsky parlò, citando un passo di un biografo del Petrarca, del fatto che il
«lirismo non esiste senza regole, e bisogna che queste siano severe». Dal Duo traspare anche un
gusto arcadico-pastorale che ne fa una composizione del tutto singolare nel catalogo strawinskiano;
La prima esecuzione del lavoro avvenne, il 28 luglio 1932, alla Radio di Berlino: esecutori Dushkin
e lo stesso Strawinsky.

Bruno Cagli

81 1944

Elegie

https://www.youtube.com/watch?v=q4pGbFwC1s0
https://www.youtube.com/watch?v=-vl7kdbDntc

https://www.youtube.com/watch?v=yFxv7zMHLxM

Organico: violino o viola

Composizione: 1944
Edizione: Chappell, New York, 1945
Dedica: alla memoria di Alphonse Onnou

Guida all'ascolto (nota 1)

L'Elegia per viola sola, di cui esiste anche la versione per violino solo scritta dallo stesso
Stravinsky, è uno dei tanti pezzi in memoriam che il musicista compose nel corso della sua lunga e
trionfale carriera artistica. L'Elegia è del 1944 ed è dedicata alla memoria di Alphonse Onnou,
membro e fondatore del Quartetto «Pro Arte» di Bruxelles, un complesso molto stimato specie per
le benemerenze acquisite nella diffusione della letteratura quartettistica moderna. Questa breve
pagina appartiene al primo periodo americano dell'autore (1943-1947), quello che vide nascere fra
l'altro la Sonata per due pianoforti, la Sinfonia in tre movimenti, l'Ebony concerto per orchestra jazz
e il balletto Orfeo realizzato coreograficamente da Balanchine. Questi aveva tentato di trasformare
in balletto a New York nel 1945 anche l'Elegia per viola sola, ma con scarso successo. Infatti la
composizione ha una intonazione classicheggiante e riflette un tono intimistico e particolarmente
concentrato dal punto di vista armonico.

L'aspetto più importante e originale del lavoro sta nell'abilità di Stravinsky di aver saputo realizzare
una trama polifonica con i soli mezzi di uno strumento monodico. Egli non utilizza la viola in tutte
le sue combinazioni tecniche, compresi gli accenti bruschi e gli accordi strappati, ma cerca di usare
le doppie corde per raggiungere una polifonia a due parti. Quindi l'Elegia può essere considerata,
sotto il profilo della forma, come una Invenzione a due voci, articolata con una esposizione, una
fuga e una ripresa, in cui il senso lirico che traspare in alcuni momenti sembra riflettere un
sentimento di meditazione sulla morte.

90 1852 - 1953

Settimino

https://www.youtube.com/watch?v=KDxDqabeqhE

https://www.youtube.com/watch?v=ijSmRoPzMaY

Allegro di sonata
Passacaglia
Gigue
Organico: clarinetto, corno, fagotto, pianoforte, violino, viola, violoncello
Composizione: luglio 1952 - febbraio 1953
Prima esecuzione: Washington, National Theatre, 23 gennaio 1954
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1953
Dedica: Dumbarton Oaks Reserarch Library

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

A partire dalla Cantata per soprano, tenore, coro femminile e cinque strumenti, completata nel
1952, Stravinsky inserisce nelle sue composizioni procedimenti seriali, avvicinandosi così al
metodo di composizione con dodici note ideato da Schönberg. La scrittura seriale dell'ultimo
Stravinsky non è certo ortodossa, né mai poteva esserlo, ma si orienta comunque verso un vigoroso
controllo delle altezze e dei procedimenti canonici che non nasconde l'influsso di Webern, il più
radicale dei Viennesi. Nonostante siano state notate significative tracce di un simile atteggiamento
compositivo in lavori precedenti, si tratta di una svolta nettissima e sorprendente nel percorso
artistico del compositore. Non bisogna dimenticare infatti che per oltre trent'anni Stravinsky aveva
sistematicamente ignorato le esperienze atonali e dodecafoniche dei Viennesi - di cui veniva non a
torto considerato l'antitesi - per sviluppare l'indirizzo cosiddetto "neoclassico". La lunga
elaborazione di questo linguaggio, che si pone come originalissima e ironica rilettura della
tradizione musicale europea, culmina e si conclude con la rappresentazione (Venezia, Teatro La
Fenice, 11 settembre 1951) di The Rake's Progress (La carriera di un libertino), una vera e propria
opera nello stile italiano settecentesco.

Il Settimino, composto fra il luglio 1952 e il febbraio dell'anno successivo, conferma, più ancora
della Cantata, la svolta verso la serialità.

Il lavoro è dedicato alla Dumbarton Oaks Research Library e presenta un organico perfettamente
simmetrico: tre strumenti a fiato - clarinetto, corno, fagotto -, tre archi - violino, viola, violoncello -
e pianoforte.

Dal punto di vista formale il Settimino rivela una esemplare chiarezza strutturale. I tre movimenti
fanno esplicito riferimento a tre forme della tradizione barocca e classica: la forma sonata per il
primo movimento, la passacaglia per il secondo, la giga per il terzo. Gli strumenti sono spesso
trattati per gruppi omogenei, in particolare nella Giga finale in cui i due settori degli archi e dei fiati
sono nettamente divisi. Dal punto di vista ritmico prevale il ritmo ternario, non di rado abilmente
occultato, mentre in una simile struttura neoclassicistica - e non "neoclassica"' - si viene a perdere
per forza di cose tutta quella multiforme e poliedrica varietà di cellule ritmiche e di accenti che
aveva caratterizzato i capolavori del periodo russo. La tonalità allargata compie significativi passi
verso la conquista dello spazio dodecafonico. Tutti questi elementi fanno del Settimino una delle
opere di Stravinsky più vicine allo Schönberg della dodecafonia classica (Quintetto op. 26, Suite
op. 29 ecc.).

Un'unica cellula seriale è alla base dell'intero lavoro. Essa è facilmente percepibile anche al primo
ascolto perché esposta con veemenza dal clarinetto all'inizio dell'opera. Nel primo movimento, che
porta solo l'indicazione metronomica - come nella Sonata per pianoforte e in altri lavori
stravinskiani - sono evidenti le tre sezioni della forma sonata - esposizione, sviluppo e ripresa -
trattate con estrema concisione e concluse da una breve coda Meno mosso.
La Passacaglia si apre con la serie esposta per frammenti da strumenti isolati: clarinetto,
violoncello, ancora clarinetto, viola, fagotto ecc. Le otto variazioni di cui è costituita hanno
carattere molto diverso l'una dall'altra, ma, con la ripresa del tipico ritmo puntato dell'ouverture
barocca in tre di esse (prima, quarta e settima), viene garantita un'impronta unitaria anche a livello
di ascolto. La conclusione della Passacaglia è un esempio significativo dell'influsso di Webern
sull'ultimo Stravinsky. In questo estatico e rarefatto episodio le quattro forme del contrappunto
canonico di ascendenza fiamminga vengono presentate simultaneamente dai sette strumenti.

Nella splendida Giga finale, scattante e nervosa, Stravinsky utilizza serie di otto suoni per ogni
strumento e lo indica espressamente nella partitura. Il brano è chiaramente diviso in quattro sezioni:

fuga a tre parti su un solo soggetto (archi)


fuga a sei parti su due soggetti (pianoforte e fiati)
fuga a tre parti sull'inversione del soggetto (archi)
fuga a sei parti sull'inversione del soggetto (pianoforte e fiati).

Giulio D' Amore

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Settimìno per clarinetto, corno, fagotto, pianoforte, violino, viola e violoncello di Strawinsky,
composto nel 1953 e dedicato alla Dumbarton Oaks Research Library and Collection, ci sembra
essere una di quelle opere la cui importanza si determina non solo in funzione dei loro assoluti,
intrinseci valori, ma si definisce anche in virtù dei significati mediati che esse sono destinate ad
acquistare sul relativo piano storico. Ed è appunto in tale duplice prospettiva che questo più recente
lavoro strawinskiano ci appare, tra tutti quelli composti in questi ultimi anni, come uno dei più
importanti, dei più gravidi di conseguenze per i futuri sviluppi della nostra musica.

Quale sia l'attuale situazione, della musica è noto: il problema centrale, alla cui soluzione sembra
condizionata la stessa sopravvivenza dell'arte dei suoni come espressione unitaria dello spirito, si
connette alla necessità di riconquistare ad essa quella unità di linguaggio che essa aveva smarrito al
crocevia postromantico. A partire da quel punto di discrepanza sembrava che il suo divenire
dovesse svolgersi sotto il segno d'una fatale, irrimediabile scissione dialettica, che non ammetteva
più alcuna sintesi, ma andava configurandosi secondo le direttrici sempre più divergenti segnate
dall'arte di Schönberg e Strawinsky.

A dire il vero, Berg e lo stesso Schönberg (a differenza di Webern e dei giovani avanguardisti
neododecafonici che ad esso si richiamano) avevano già dimostrato di tendere a quell'ideale punto
di ricongiungimento, in virtù d'una nuova polarizzazione tonale dello spazio dodecafonico e del
ricupero di tradizionali entità diatoniche nel suo stesso ambito. Da parte dei maggiori esponenti
della antitetica, corrente «polidiatonica», invece, nessun passo decisivo se si eccettuano i tentativi
di Frank Martin era stato compiuto fino a poco tempo fa per avvicinarsi nel senso opposto alla
stessa meta. Questo passo l'ha compiuto, forse, Strawinsky col Settimino. Già nella Cantata
composta nel 1952 erano comparsi dei sintomi che sembravano preannunciare un tale passo: ma in
quel lavoro l'adozione di stilemi seriali non arrivava ancora ad intaccare le strutture sostanzialmente
diatoniche della compagine sonora. Nel Settimino, invece, mentre, da una parte si accentua
l'elaborazione del discorso secondo concetti seriali, le fibre della trama sonora, sembrano sciogliersi
spesso in un moto centrifugo dai nuclei diatonici e distendersi nello spazio cromatico libero anche
se governato sempre da campi d'attrazione tonale. In un modo originalissimo qui Strawinsky fa suoi
alcuni tipici procedimenti dodecafonici, ed innova certi aspetti di questa tecnica che viene piegata
all'espressione dei motivi più personali del suo mondo espressivo. Basti accennare allo
sfaccettamento timbrico, di derivazione weberniana, attuato nella Passacaglia, il cui tema ostinato,
prima di venir esposto per intero dal pianoforte e dal violoncello, viene prospettato secondo la sua
membratura motivica in sette alternanze timbriche di strumenti diversi. Alla fine della Passacaglia
lo stesso tema si dispone in un complesso intreccio polifonico, secondo le sue varie forme «a
specchio». Nella Giga finale il compositore indica, passo per passo, la «serie» secondo la quale si
dispone la parte di ogni singolo strumento. Si tratta di serie di otto suoni, le quali più che una
funzione tematica hanno il valore di delimitare volta per volta l'ambito entro il quale si muove ogni
singola voce. Anche in questo tempo, i motivi compaiono in forme retrograde ed inverse, peraltro
indicate sulla partitura dall'autore.

La portata ed il consapevole significato che questo avvicinamento a posizioni che sembravano


antitetiche alle sue, assume per lo stesso compositore, viene, del resto, confermata e ribadita in
un'intervista da lui recentemente concessa al giornalista Igor Man e riprodotta alcune settimane fa
da un quotidiano romano. Ivi, dopo aver definito il Settimino come «Musica contrappuntistica in tre
parti» ed averne parlato come della sua creatura «la più cara, la preferita; appunto perché l'ultima»;
Strawinsky avrebbe esplicitamente affermato la superiorità della dodecafonia, in quanto tecnica.
Non sappiamo se l'intervistatore ha riferito esattamente il pensiero del compositore: ma ciò che ci
sembra essenziale di rilevare e di ribadire è il fatto che quest'opera di Strawinsky sta a dimostrare
una volta di più che i procedimenti seriali e dodecafonici non s'identificano necessariamente con
uno stile, ma costituiscono essenzialmente un metodo tecnico capace di facilitare il conseguimento
dell'unità stilistica della nostra musica.

Roman Vlad

98 1959

Epitaphium

https://www.youtube.com/watch?v=fhkAPFDCZAA

https://www.youtube.com/watch?v=rVd4R8lNdOQ

Organico: flauto, clarinetto, arpa


Composizione: 1959
Prima esecuzione: Donaueschingen, Stadttheater, 17 ottobre 1959
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1959
Dedica: «für das Grabmal des Prinzen Max Egon zu Fürstettberg»

Guida all'ascolto (nota 1)

Con la serenità e la gratitudine di chi ha una fede Strawinsky, nella sua lunga vita, ha visto morire
molte persone care e ad esse ha dedicato un ricordo (dopo il periodo russo uno dei suoi primi
capolavori furono le Symphonies pour instruments à vent in memoria di Debussy, 1920, e la sua
ultima composizione lunga sono stati i Requiem Canticles, 1966). Alla tomba del principe Max
Egon zu Fürstenberg, mecenate e pratico sostegno del festival di Donaueschingen (dedicato per
illustre tradizione all'avanguardia musicale), Strawinsky ha reso omaggio con un Epitaphium di
aforistica, quasi spettrale, brevità: sette battute per arpa, flauto e clarinetto, in tutto poco più di un
minuto di musica. Nelle battute dispari l'arpa suona, in ognuna, la serie di dodici note secondo le
quattro modifiche possibili di esposizione (la serie stessa, il suo retrogrado, l'inverso, il retrogrado
dell'inverso), nelle pari tocca al flauto e al clarinetto: la sesta battuta contiene un'esposizione
doppia, sì che le esposizioni con le modifiche tra arpa e duo di fiati sono otto in tutto. Si resta
sconcertati, non indifferenti, perché una così funerea essiccazione della musica evoca in noi un
senso di vuoto e di fine.

Franco Serpa

99 1959

Double canon per quartetto d'archi

https://www.youtube.com/watch?v=wGlDGTLcdbE

https://www.youtube.com/watch?v=kPS2LxqBOt4

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: 1959
Prima esecuzione: New York, Town Hall, 20 dicembre 1959
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1960
Dedica: alla memoria di Raoul Dufy

Guida all'ascolto (nota 1)

Doppio canone, una brevissima composizione scritta a Venezia nel 1959, fu dedicata da Stravinskij
alla memoria del pittore Raoul Dufy. La composizione, stando a Robert Craft, non nacque tuttavia a
quello scopo: alle sue origini sta la richiesta di un privato, che desiderava da Stravinskij un
autografo; solo in seguito l'autore la trasformò nel Doppio canone per quartetto d'archi e la dedicò
alla memoria di Dufy (che del resto non aveva mai conosciuto personalmente). Si tratta di un brano
dalla costruzione molto rigorosa e complessa. Vi si succedono canoni originati da una serie
dodecafonica (cioè da un «soggetto» costruito utilizzando le dodici note della scala cromatica) nelle
sue varie forme. Dapprima il soggetto origina un canone per moto retto, alla seconda inferiore, tra
primo e secondo violino; poi l'ingresso di viola e violoncello determina un doppio canone, per moto
retto e per moto retrogrado. Le possibilità combinatorie vengono ulteriormente esplorate con un
altro doppio canone, per moto retrogrado e per moto retrogrado contrario; infine i due violini
presentano, soli, un canone del soggetto per moto retrogrado contrario.

Eccone lo schema costruttivo:


violino I S S RC RC
violino II S S RC RC
viola R R
violoncello R R
S = soggetto R = soggetto per moto retrogrado
RC = soggetto per moto retrogrado contrario

Apparentemente, una composizione di questa natura ha più a che fare con l'enigmistica che con la
musica. Al di là del puro gioco combinatorio, in realtà, sono leggi di natura prettamente musicale
che la governano. La serie prescelta, innanzitutto, ha un carattere particolare: è simmetrica, presenta
una quinta centrale e intervalli dì terza, cosicché non manca di una certa cantabilità; il contrappunto
che origina, inoltre, determina frequenti incontri verticali consonanti. Lo stesso schema
architettonico è assolutamente familiare. Il brano inizia con due violini soli, ispessisce la scrittura e
la trama contrappuntistica nella parte centrale e torna alla tessitura leggera nella parte finale,
quando i due violini restano nuovamente soli: tutto ciò corrisponde a una forma ad arco, cioè a uno
schema costruttivo comune, particolarmente prediletto dalla tradizione della musica colta
occidentale.

Claudio Toscani

105 1964

Fanfare for a New Theatre


Organico: 2 trombe
Composizione: Hollywood, inverno 1964
Prima esecuzione: New York, State Theater at Lincoln Center for the Performing Arts, 19 aprile
1964
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1968
Dedica: Lincoln Kirstein e Georges Balanchine

Composizioni per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=SCl_xFdPu08+

3 1902

Scherzo
per pianoforte
Organico: pianoforte
Composizione: 1902
Edizione: Faber Music, Londra 1973
Dedica: Nikolaj Richter

4 1903 - 1904

Sonata in fa diesis minore


per pianoforte

Allegro
Scherzo
Andante
Finale

Organico: pianoforte
Composizione: Pietroburgo e Samara, 1903 - 1904
Prima esecuzione: Pietroburgo, Circolo Rimskij-Korsakov, 9 febbraio 1905
Edizione: Faber Music, Londra 1973
Dedica: Nicolas Richter

15 1908
Quatre Études op. 7
per pianoforte

Con moto (do minore)


Dedica: E. Mitusov
Allegro brillante (re minore)
Dedica: Nikolaj Richter
Andantino (mi minore)
Dedica: Andrej Rimskij-Korsakov
Vivo (sol maggiore)
Dedica: Vladimir Rimskij-Korsakov

Organico: pianoforte
Composizione: Ustilug, giugno - luglio 1908
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1910

Guida all'ascolto (nota 1)

Nelle "Cronache della mia vita" Stravinsky sostiene di non aver potuto mai comporre senza l'aiuto
del pianoforte e tante volte ha preferito stendere sul pentagramma le note a contatto diretto con la
materia sonora piuttosto che scrivere solo immaginando tale materia, in quanto, a suo giudizio,
«non bisogna disprezzare le dita: esse sono grandi ispiratrici, perché di fronte ai suoni suscitano in
noi delle idee subcoscienti che in altro modo forse non si rivelerebbero». Quindi per Stravinsky il
pianoforte fu lo strumento principale per dare forma alle proprie idee musicali. Ad esempio,
Petruska e Les Noces non avrebbero potuto concretizzarsi se non in funzione del linguaggio
specifico del pianoforte. È vero che la produzione pianistica stravinskiana non è molto estesa, ma
comunque è importante per capire l'evoluzione del suo itinerario musicale, alla ricerca di sempre
nuove possibilità timbriche e ritmiche del discorso sonoro, I primi pezzi pianistici di Stravinsky
sono i Quattro Studi op. 7, in quanto una Sonata per pianoforte in fa diesis minore del 1904 non fu
mai pubblicata. Essi furono composti in Russia nel 1908 e, gli ultimi due furono dedicati ad Andrea
e Vladimir, figli di Rimskij-Korsakov, maestro del creatore della Sagra della primavera. I quattro
pezzi risentono in un certo senso dello stile romantico con punte virtuosistiche e l'influenza
chopiniana è evidente, in particolare, nel primo Studio in do minore (Con moto) dove
l'accompagnamento in forma di arpeggio richiama alla lontana il "rivoluzionario" studio di Chopin
nella stessa tonalità. Il secondo Studio in re (Allegro brillante) rivela in nuce la scelta stravinskyana
ad usare ritmi diversi in contrapposizione e simultaneamente. Nel terzo Studio (Andantino) affiora
la scrittura cromatica di Skrjabin: una sinuosa linea melodica si sviluppa nella mano sinistra in
contrasto con il mormorio delle semicrome, su disegni decorativi espressi dalla mano destra. Il
quarto Studio in fa diesis (Vivo) è un perpetuum mobile, in cui una figurazione di semicrome,
sorretta da un accompagnamento staccato di crome, viene spezzata di tanto in tanto dall'inserimento
di accordi sincopati, tanto preferiti dall'intelligenza creatrice di Stravinsky.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Anche Strawinsky, come Skrjabin, era ferratissimo-pianista, oltre che compositore; e anche nel
nostro caso gli studi che vengono proposti non ci possono dare una visione adeguata del pianismo
successivo. E' il periodo dei "Fuochi d'artificio", all'inizio dell'estate del 1908: Strawinsky si trova a
Ustilug e pensa di mettere a frutto qui le sue ricerche cromatiche con un uso di appoggiature estese
che ci fa pensare in qualche caso anche alle soluzioni skrjabiniane. Al suo attivo il compositore nel
settore pianistico aveva poche cose: una Tarantella (1898) uno Scherzo (1902) e la Sonata in fa
diesis minore (1903-1904), ancora contraddistinta, a detta dello stesso autore, "da molte difficoltà,
soprattutto formali": un lavoro, quest'ultimo, che più avanti Strawinsky pensava fosse
"fortunatamente perduto", ma poi fu trovato nella Biblioteca Statale di Pietroburgo.

Se l'interesse di questi studi sta, come si è visto, nella ricerca cromatica, determinante
nell'evoluzione del suo linguaggio, tecnicamente vengono di volta in volta affrontati problemi che
nella sostanza non sono nuovi. Così lo Studio in do min. n. 1, dedicato a Mitusov, riprende il gioco
di sovrapposizioni fra quintine da un lato e duine e terzine dall'altro, ma l'accoppiamento non
conduce ad un equilibrio costante. E' lo stesso principio, ancor più articolato, che troviamo nello
Studio in re maggiore n. 2 (dedicato a Richter) con situazioni spigolose di 6 su 4 e 6 su 5. La
struttura è tripartita, con la zona centrale senza armatura in chiave; di sollecitante interesse è a tratti
lo spostamento di accentuazione creato dalla linea della mano sinistra, inequivocabilmente
Strawinskyano. La mancanza di una vera definizione metrica di cui è accusato questo studio va
intesa probabilmente come una presa di coscienza diversa in direzione futura: si pensi all' "Uccello
di fuoco" al quale Strawinsky comincerà a lavorare l'anno seguente.

Lo Studio in mi minore n. 3 (dedicato a Rimskij Korsakov come l'ultimo) è un Andantino molto


semplice in cui alla parte accordale e melodica della sinistra (che però l'autore vuole "sempre poco
marcato ed espressivo") si contrappone l'arabesco in sedicesimi della destra, con un procedimento
sostanzialmente tradizionale. Lo stacco è notevole nello Studio in fa diesis maggiore n. 4 che
propone una situazione fortemente contrastata fra il movimento di semicrome legate e quello
staccato nella zona bassa, con una inversione di ruoli (e di mani), nella parte centrale, nello spirito
più rispettoso dell'esercizio.

Renato Chiesa

18b 1921

Petruska
Burlesque in quattro scene - Trascrizione per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=AqwDDseeeGs

https://www.youtube.com/watch?v=6wI40oNpP6A
https://www.youtube.com/watch?v=-DD77HzhRB4

https://www.youtube.com/watch?v=AIOs3aS5vb8

Danza russa
Nella cella di Petruska
La Fiera dell'ultimo giorno di Carnevale

Organico: pianoforte
Composizione: Anglet, 1921
Edizione: inedita

Guida all'ascolto (nota 1)

"Pétrouchka" è il secondo grande balletto di Strawinsky. Esso nacque infatti dopo il successo
riportato dall' "Uccello di Fuoco" che i Ballets Russes avevano presentato a Parigi nel 1909. Fu lo
stesso Diaghilev, direttore della prestigiosa compagnia, a convincere Strawinsky a riadattare la
composizione, alla quale allora lavorava, in un nuovo balletto. Si trattava di un pezzo concertante
per pianoforte e orchestra, in cui lo strumento solista godeva di ampio spazio.

Questo materiale confluì senza sostanziali mutamenti nella partitura di "Pétrouchka", che fu
rappresentato a Parigi nel 1911 sempre dalla medesima compagnia di balletto. Vi si narra sullo
sfondo di una piazza in fiera in occasione della Pasqua russa, di una marionetta umanizzata dai
poteri magici del suo animatore. Pétrouchka si innamora di un'altra marionetta, la Ballerina, dalla
quale non è corrisposto, poiché questa è invaghita del bellissimo e animoso Moro.

Pétrouchka, nell'ultimo quadro del balletto, nell'estremo tentativo di opporsi all'amore che lega la
Ballerina e il Moro, viene da questo ucciso.

Nel corso della vicenda sulla piazza in festa sfilano in un inesauribile caleidoscopio di colori
diverse figure caratteristiche come ubriachi, giocolieri e un suonatore di organetto di cui Strawinsky
riproduce il suono e la banalità della melodia.

Dalla partitura orchestrale (ma con una larga presenza del pianoforte) Strawinsky ricavò dieci anni
più tardi, nel 1921, una riduzione per pianoforte solo, utilizzando tre dei quadri originali, appunto
quelli dove la presenza dello strumento era più marcata. Il primo brano, la Danse Russe è tratta dal
primo quadro, Chez Pétrouchka costituisce l'intero secondo quadro, la Seimane grasse è ricavata dal
quarto.

La trascrizione pianistica di Strawinsky nel caso di "Pétrouchka" non si può certo definire riduttiva
rispetto alla corrispondente partitura orchestrale, poiché proprio questa nasceva nel segno del
pianoforte e sull'impiego nuovo di questo strumento. La versione pianistica di "Pétrouchka" quindi
si può considerare una integrazione di quella orchestrale, oppure quantomeno una chiarificazione
degli intenti musicali di Strawinsky. E' proprio sul pianoforte che si sofferma l'indagine di
Strawinsky; egli intendeva attraverso inesplorate possibilità espressive riportare il pianoforte alla
sua peculiare costituzione percussiva. Il virtuosismo trascendentale che ne scaturisce è determinato
da una ritmica sconnessa e frastagliata alla quale non sono estranei elementi popolari come un
intento descrittivo. Il pianoforte è sottoposto ad un incessante procedere ritmico dalla inesauribile
vitalità alla quale si aggiunge una tavolozza coloristica che trova pochi paragoni. Con "Pétrouchka"
Strawinsky trasporta decisamente il pianoforte in pieno Novecento, allontanandolo dal cliché
romantico di strumento salottiero e sentimentale, configurando il nuovo ruolo che esso avrebbe
avuto nella storia della musica.

Umberto Nicoletti Altimari

28 1914 - 1915

Tre Pezzi facili per pianoforte a quattro mani

https://www.youtube.com/watch?v=nE6f7TOn9Uw

https://www.youtube.com/watch?v=jCdnidInuO0

https://www.youtube.com/watch?v=NoIokC7qJII

Marcia
Dedica: Alfredo Casella
Valzer
Dedica: Eric Satie
Polka
Dedica: Serge de Diaghilew

Organico: pianoforte
Composizione: Clarens, 1914 - 1915
Prima esecuzione: Losanna, 8 novembre 1919
Edizione: A. Henn, Ginevra, 1917
Anche arrangiati per orchestra nella "Suite n. 2"

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Ritiratosi nel 1914 per le vacanze a Clarens, Strawinsky compose nel 1914 una prima serie di pezzi
facili. La sinistra ha affidato da cima a fondo un ostinato formato da due accordi spezzati, che il
principiante esegue con le due mani, anche se ne basterebbe una sola. I tre pezzi sono degli studi
sulla musica commerciale, secondo un procedimento già adoperato in alcune scene di «Petrushka».
Nel febbraio 1915 Strawinsky si recò a Roma per incontrare Diaghilev, ed eseguì con lui i pezzi
facili. Giunto alla «Polka», disse a Diaghilev di averla composta raffigurandosi l'impresario in tuba
e marsina, con frusta alla mano che fa schioccare sulla schiena di un cavallo da circo. La «Marcia»,
il pezzo più cubista dei tre, è dedicata ad Alfredo Casella; il «Valzer», anch'esso musica meccanica,
ma lirica e casta, è dedicato ad Erik Satie.

Gioacchino Lanza Tomasi


Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Anche il pianoforte, considerato una volta lo strumento romantico per eccellenza, soprattutto con
l'esempio dato da Chopin e Liszt, veri geni dell'invenzione pianistica, ha subito una evoluzione per
così dire espressiva nella tecnica compositiva della musica moderna, realizzando la propria forza
comunicativa principalmente con le sonorità asciutte e ben ritmate, su un versante diverso quindi da
quelle morbide, estremamente sfumate e cantabili, puntualizzate nella grande letteratura
ottocentesca e impressionistica. Un valido e determinante contributo in tal senso è stato dato, con
maggiore o minore originalità, da un gruppo di musicisti di rilevante personalità del nostro secolo,
come Falla, Bartók, Prokof'ev, Hindemith e Stravinsky, che hanno riservato al pianoforte
composizioni spesso di indubbio valore e significato estetico.

Su questa scelta o indirizzo musicale in campo pianistico, che si richiama certamente al


neoclassicismo, Stravinsky diede un impulso costruttivo, dichiarando tra l'altro di non essere stato
capace in tutta la sua vita di compositore di scrivere musiche di qualsiasi genere senza avere a
portata di mano un pianoforte su cui provare immediatamente ciò che la sua fantasia gli offriva. Si
può dire quindi che Stravinsky avesse una particolare predilezione per lo strumento a tastiera, del
quale tesse un elogio quando così si esprime nelle autobiografiche «Croniques de ma vie»: «Non
bisogna disprezzare le dita, perché esse sono grandi ispiratrici; al contatto con la materia sonora
suscitano in voi delle idee subcoscienti che in altro modo forse non si rivelerebbero ». Del resto,
alcune sue famose partiture come Petruska e Les noces riservano al pianoforte, inteso come
strumento a martelli dal suono preciso e tagliente, una funzione importante e niente affatto
coreografica e aggiuntiva nell'ambito di una nuova poetica musicale.

I Tre pezzi facili furono scritti da Stravinsky nel 1915 e possono considerarsi degli schizzi musicali
o brevi ritratti su tre personaggi molto legati e spiritualmente vicini all'autore del Sacre du
printemps. In effetti, l'autore in origine pensò di tracciare una caricatura musicale di Serge
Diaghilev, il creatore e l'animatore dei celebri Balletti russi, e compose una polka di sole trentatré
battute. «Era un profilo di Diaghilev - disse il musicista - che io vedevo come un ammaestratore di
animali da circo, nel momento in cui agita una lunga frusta». Lo stesso autore, trovandosi a Milano
con Diaghilev e Alfredo Casella, eseguì la polka tra il divertimento degli amici. Casella commentò
il brano con parole lusinghiere, aggiungendo che si era aperta una nuova strada, quella del neo-
classicismo, almeno nei suoi aspetti più semplici e disincantati. A Casella il compositore dedicò la
piacevole marcia, mentre in omaggio a Erik Satie fu aggiunto in un secondo tempo il breve valzer
centrale. E' musica volutamente semplice e venata di sottile ironia, con qualche reminiscenza di
sapore petruskiano, come il grazioso e amabile valzer, abilmente incastonato fra due pagine più
vivaci ritmicamente, di cui si ricorderanno nella loro attività creatrice Poulenc, Auric e Sauguet.

29 1915

Souvenir d'une marche boche


per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=tA0yIkXdTnY

https://www.youtube.com/watch?v=XzjMhs89uy8
Organico: pianoforte
Composizione: 1 settembre 1915
Edizione: McMillan & Co., Londra, 1916

32 1916 - 1917

Cinque Pezzi facili per pianoforte a quattro mani

https://www.youtube.com/watch?v=Ch--EkmKxIY

https://www.youtube.com/watch?v=onYs9iYfI10

Andante
Espanola
Balalaika
Napolitatia
Galop

Organico: pianoforte
Composizione: Morges, 1916 - 1917
Prima esecuzione: 8 novembre 1919
Edizione: A. Henn, Ginevra, 1917
Dedica: Eugenia Errazuriz
I primi quattro numeri anche arrangiati per orchestra con il titolo "Suite n. 1"
Il numero 5 anche arrangiato per orchestra nella "Suite n. 2"

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La seconda serie di pezzi facili (Morges 1916-17) presenta una soluzione tecnica inversa a quella
della prima serie. Al principiante è affidato il canto anziché il basso. Strawinsky compose questa
seconda serie per i suoi primi figli, Teodoro e Mika. La «Espanola» reca le impressioni di un
viaggio in Spagna nel 1916, la «Napolitana» è un ricordo di Napoli dell'anno seguente, l'« Andante
» è una melodia russa, la « Balalaika » e specialmente il «Galop» sono satire della musica
commerciale. Il «Galop» conta fra le celebri sfasature strawinskiane fra basso e canto, quasi le mani
si scordassero di dover collaborare fra loro, ed il pasticcio politonale che ne segue pare il ritratto
musicale di un dialogo fra clowns.

Gioacchino Lanza Tomasi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Anche il pianoforte, considerato una volta lo strumento romantico per eccellenza, soprattutto con
l'esempio dato da Chopin e Liszt, veri geni dell'invenzione pianistica, ha subito una evoluzione per
così dire espressiva nella tecnica compositiva della musica moderna, realizzando la propria forza
comunicativa principalmente con le sonorità asciutte e ben ritmate, su un versante diverso quindi da
quelle morbide, estremamente sfumate e cantabili, puntualizzate nella grande letteratura
ottocentesca e impressionistica. Un valido e determinante contributo in tal senso è stato dato, con
maggiore o minore originalità, da un gruppo di musicisti di rilevante personalità del nostro secolo,
come Falla, Bartók, Prokof'ev, Hindemith e Stravinsky, che hanno riservato al pianoforte
composizioni spesso di indubbio valore e significato estetico.

Su questa scelta o indirizzo musicale in campo pianistico, che si richiama certamente al


neoclassicismo, Stravinsky diede un impulso costruttivo, dichiarando tra l'altro di non essere stato
capace in tutta la sua vita di compositore di scrivere musiche di qualsiasi genere senza avere a
portata di mano un pianoforte su cui provare immediatamente ciò che la sua fantasia gli offriva. Si
può dire quindi che Stravinsky avesse una particolare predilezione per lo strumento a tastiera, del
quale tesse un elogio quando così si esprime nelle autobiografiche «Croniques de ma vie»: «Non
bisogna disprezzare le dita, perché esse sono grandi ispiratrici; al contatto con la materia sonora
suscitano in voi delle idee subcoscienti che in altro modo forse non si rivelerebbero ». Del resto,
alcune sue famose partiture come Petruska e Les noces riservano al pianoforte, inteso come
strumento a martelli dal suono preciso e tagliente, una funzione importante e niente affatto
coreografica e aggiuntiva nell'ambito di una nuova poetica musicale.

I Cinque pezzi facili risalgono al 1917 e furono dettati al compositore da motivi didascalici e
pedagogici, mentre insegnava musica e pianoforte a due dei quattro figli, Teodoro e Mika. Essi sono
improntati a chiarezza e scorrevolezza melodica e si articolano in un Andante di delicata
evocazione sentimentale, in una Española di taglio brillante e danzante, in una Balalaika di
pungente gusto popolaresco russo con l'evidente richiamo al ben noto strumento slavo, in una
Napolitana intesa come souvenir di un viaggio in Italia (si ode il tema di una famosa canzone
partenopea) e alla fine in uno spiritoso Galop di fresca comunicativa, vagamente simile a certe
estrose «uscite» ritmiche alla Chabrier.

34 1917

Valse pour les enfants


per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=Ixs-bkT2_wU

https://www.youtube.com/watch?v=X1kUKQGFhkY

Organico: pianoforte
Composizione: 1917
Edizione: apparso in Le Figaro, 21 maggio 1922

Guida all'ascolto (nota 1)

La piccola «Valse pour les enfants» di Strawinsky che il quotidiano parigino «Le Figaro»
pubblicava nel suo numero di domenica 22 maggio 1922 portava ancora la precisazione
«Improvisée au Figaro» e la pagina riproduceva una frase manoscritta di Strawinsky: «Une Valse
pour fes petits lecteurs du Figaro». Sembra però che un abbozzo di questo Valzer «improvvisato»
risalga al 1916 o 1917, cioè all'epoca dei Pezzi facili per pianoforte a quattro mani. Col Valzer di
quella serie, il «Figaro Valse», come lo stesso Strawinsky lo chiamava, ha in comune Il fatto che
l'accompagnamento della mano sinistra ripete ostinatamente una formula immutabile di due battute.
Il flusso sonoro non vi si interrompe quasi mai: il pianoforte continua a macinarvi i suoni come un
meccanico, incantato organetto di barberia. Nella malinconica, disincantata melodia della destra
minuscole cellule sonore si specchiano in sé stesse, subiscono permutazioni e giuochi
caleidoscopici testimoniando della latente inclinazione di Strawinsky verso certe pratiche di tipo
seriale.

Il Valzerino di Strawinsky dura solo cinque o sei secondi più del «Kinderstück» di Webern. Mentre
quest'ultimo brano appare però in sé concluso e compiuto secondo una propria microscala
temporale, il pezzettino di Strawinsky si configura secondo una scala temporale, per così dire,
normale. La sua brevità potrebbe essere dovuta ad un virtuale taglio, per cui lo si potrebbe pensare
come un frammento di un brano di più ampie dimensioni. Lo stesso Strawinsky ebbe a confessare
che, a volte, scriveva pezzi lunghi e li tagliava poi «con le forbici».

Roman Vla

38 1917

Studio per pianola

https://www.youtube.com/watch?v=7hum6PgRk6k

https://www.youtube.com/watch?v=Sg8rMTIR7w0

Organico: pianola
Composizione: 1917
Prima esecuzione: Londra, Aeolian Hall, 13 ottobre 1921
Edizione: Aeolian Co., Londra, s. a.
Dedica: Eugenia Errazuriz
Orchestrato diventa il numero 4 dei "Quattro studi" 38A

44 1919

Piano-Rag-Music
per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=N1Eb56-9Z5c

https://www.youtube.com/watch?v=CQFnr65Yu3Q

https://www.youtube.com/watch?v=yE82a2YNyMM

Organico: pianoforte
Composizione: Morges, 28 giugno 1919
Prima esecuzione: Losanna, Théâtre Municipal, 8 novembre 1919
Edizione: J. W. Chester, Londra, 1920
Dedica: Arthur Rubinstein
Guida all'ascolto (nota 1)

Molto prima di stabilirsi negli Stati Uniti Stravinskij si era interessato a una musica tipicamente
americana come il jazz, in cui evidentemente trovava novità ritmiche molto stimolanti. Così
compose il Ragtime per 11 strumenti nel 1918 e la Piano-Rag-Music nel 1919 (quest'ultimo lavoro
è dedicato ad Artur Rubinstein, che però non l'incluse mai nel suo repertorio). I moduli ritmici del
jazz vengono qui scomposti e rimontati con la massima libertà da Stravinskij, che se ne serve come
di un lasciapassare verso l'uso di ritmi sincopati, spostamenti d'accento, cambiamenti di tempo
d'ogni genere. Come scrive Vlad, «sul mare mosso di ritmi che si urtano continuamente appare di
tanto in tanto una convulsa formuletta sincopata: come un relitto che scompare subito nel gorgo di
quei vortici inesorabili», con una violenza ritmica che porta la temperatura fino «al calor bianco».

Mauro Maria

49 1921

Les cinq doigts


Otto melodie molto facili su 5 note

https://www.youtube.com/watch?v=2Y9tFVTqPiE

https://www.youtube.com/watch?v=k0BIu9aWB0Q

https://www.youtube.com/watch?v=mobTf5LO2lE

Andantino (do maggiore)


Allegro (do maggiore)
Allegretto (do maggiore)
Larghetto (mi minore)
Moderato (sol maggiore)
Lento (re minore)
Vivo (fa maggiore)
Pesante (do maggiore)

Organico: pianoforte
Composizione: Garches, 18 febbraio 1921
Edizione: J. W. Chester, Londra, 1920
Anche strumentato con il titolo "Otto Miniature strumentali", vedi 49a

52a 1924

Concerto per pianoforte e fiati


Riduzione per due pianoforti

https://www.youtube.com/watch?v=XeJ1WtiMZs4
https://www.youtube.com/watch?v=XeJ1WtiMZs4

Largo. Allegro
Larghissimo
Allegro

Organico: 2 pianoforti
Composizione: aprile 1924
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1924
Vedi a 52 la versione originale per pianoforte e orchestra

53 1924

Sonata in tre movimenti


per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=DE_sSY8qEJY

https://www.youtube.com/watch?v=FB-NzpYwC3Y

Metronomo = 112
Adagietto
Metronomo = 112

Organico: pianoforte
Composizione: Biarritz, 21 agosto - Nizza, 21 ottobre 1924
Prima esecuzione: Donaueschingen, luglio 1925
Edizione: Edition Russe de Musique, Parigi, 1925
Dedica: principessa Edmond de Polignac

Guida all'ascolto (nota 1)

In Chroniques de ma vie, il compositore scrive: «Decisi di comporre un pezzo in più parti per
pianoforte solo. Questo fu la Sonata. L'ho chiamata così senza avere la menoma intenzione di darle
la forma classica quale la ritroviamo in Clementi, in Haydn e in Mozart: e che, come è noto, è
sempre condizionata dall'Allegro. Ho impiegato il termine Sonata nel suo significato originario,
derivato da "sonare" in opposizione a "cantare" dal quale verbo deriva "cantata". Per conseguenza,
accettando il termine, non mi sentivo affatto impegnato a seguire la forma consacrata a partire dalla
fine del sec. XVIII».

Il primo tempo, infatti, comincia con un disegno scuro, all'unisono (a due ottave di distanza), al
quale segue una melodia in do maggiore che si svolge quasi interamente a due voci che procedono
per terze, ed è accompagnata da arpeggi curiosamente sfasati, secondo un procedimento caro al
musicista (lo troviamo già in Petruska, e, più sistematicamente, in Mavra). Questo primo tempo non
ha affatto una «forma bitematica» però, al posto giusto, riappare la ripresa del tema iniziale; e il
tempo si conclude con un ritorno del disegno iniziale che sfocia in una «cadenza» piagale.
E' noto che Strawinski ha definito il carattere dell'Adagietto che segue, come un «Beethoven brisé».
E' un'ampia melodia in la bemolle accompagnata da un ribattere di accordi della musica, e che è
abbondantemente ornata e fiorita, ma senza nessun richiamo a fioriture tradizionali, classiche o
romantiche, qualsivoglia. V'è un episodio centrale dove appare una nuova melodia (in do maggiore
questa volta), di carattere piuttosto solenne, dopo di che v'è "una ripresa della melodia iniziale.

Il Finale ha il carattere di una Toccata in stile fugato (a due voci, come il tempo iniziale) ed è ricco
di ogni sorta di artifici scolastici: e comporta una parte centrale rude e violenta seguita da un breve
episodio che ha quasi il carattere di divertimento. Segue la ripresa del tema iniziale, ed alla fine
vediamo riapparire il disegno iniziale della Sonata, ma trasformato e reso quasi irriconoscibile dal
suo nuovo aspetto ritmico.

Domenico De Paoli

54 1925

Serenata in la
per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=bCR_1bMC-qk

https://www.youtube.com/watch?v=I6wLreAsgpQ

Hymne
Romanza
Rondoletto
Cadenza Finala [sic]

Organico: pianoforte
Composizione: Nizza, 1925
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1926
Dedica: alla moglie Ekaterina Nossenko

Guida all'ascolto (nota 1)

La Serenata in la appartiene al periodo cosiddetto neoclassico di Stravinsky e fu composta nel 1925


su sollecitazione di una casa discografica americana, così da contenere ogni tempo nella facciata di
un disco, per evitare fratture e dispersive interruzioni (in quel tempo i dischi erano a settantotto giri
e potevano durare dai tre ai quattro minuti). Lo stesso autore si preoccupò di spiegare la struttura
della Serenata in la in una nota esplicativa che dice: «I quattro tempi che costituiscono il mio lavoro
sono riuniti sotto il titolo di Serenata a guisa delle Nachtmusik del XVIII secolo, che, in genere,
venivano ordinate dai principi mecenati in occasione di svariate feste e che si componevano, come
d'altronde le suites, di un numero indeterminato di pezzi. Mentre tali composizioni erano scritte per
complessi strumentali più o meno importanti, volli condensare la mia in un solo strumento
polifonico e in un piccolo numero di tempi. In questi pezzi ho fissato alcuni fra i momenti più
caratteristici di questo tipo di feste musicali. Comincio con un'entrata solenne, una specie di inno;
lo faccio seguire da una parte di cerimonioso omaggio dell'artista agli ospiti; la terza parte, in un
tempo sostenuto e ritmato, sta al posto delle varie musiche danzanti intercalate, secondo la
tradizione, nelle serenate e nelle suites del tempo; finalmente chiudo con una sorta di epilogo che
equivale ad una firma, i cui numerosi caratteri sono segnati con diligente calligrafia. Ho chiamato
con un'intenzione particolare la mia composizione Sérénade en la; non si tratta qui della tonalità,
ma del fatto che faccio gravitare tutta la musica intorno ad un polo sonoro che, in questo caso, è il
la ».

I quattro tempi - Inno, Romanza, Rondoletto, Cadenza finale - vanno considerati come uno dei
migliori risultati della musica per pianoforte raggiunti da Stravinsky nella fase neoclassica,
precedente l'Oedipus Rex. Per alcuni critici e musicisti, tra cui Alfredo Casella, la Serenata in la va
ritenuta il capolavoro pianistico del creatore del Sacre du, printemps.

66 1931 - 1935

Concerto per due pianoforti

https://www.youtube.com/watch?v=V7B3sAz1xSw

https://www.youtube.com/watch?v=UEkhOUKXR9I

https://www.youtube.com/watch?v=AsKf5SewvsU

Con moto
Notturno. Adagietto
Quattro variazioni
Preludio e Fuga

Organico: 2 pianoforti
Composizione: 1931 - 9 novembre 1935
Prima esecuzione: Parigi, Salle Gaveau, 21 novembre 1935
Edizione: Schott, Magonza, 1936

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Era stato chiaro Rimsklj-Korsakov, il maestro "insolito" che gli aveva però fatto "dono delle sue
indimenticabili lezioni", l'uomo "pieno di arguzia" anche se "possedeva un gusto letterario
parrocchiale". "Qualcuno compone allo strumento - gli aveva detto - qualcuno direttamente sulla
pagina. Lei comporrà al pianoforte". Igor non venne mai sfiorato dalla tentazione di contraddirlo.
Tutti, attorno a Stravinskij, lo avevano capito presto. Il suo metodo era concreto, meticoloso e
"fisico": al pianoforte.

"È essenziale per lui il completo silenzio - raccontava il figlio Theodore, che l'aveva sotto gli occhi
-. Dopo essersi alzato presto, subito dopo colazione si chiude in quella parte della casa che funge da
studio e ufficio insieme. Compone sempre al pianoforte, poiché, non avendo confidenza con le
astrazioni, ha bisogno di un contatto diretto con i suoni e desidera, nonostante la sua esperienza
musicale e la sua memoria, sottoporre ogni accordo, ogni intervallo, ogni frase a una verifica
nuova. Lavora lentamente...e raramente compone più di due o tre pagine al giorno, alcune volte
anche meno...".

Ma è poco parlare di metodo e confinare tutto nella dimensione pratica. Il pianoforte fu il giardino
botanico di Stravinskij, la serra dei mille incroci, il laboratorio di ogni sperimentazione, la pista di
decollo e di atterraggio per ogni volo della fantasia, in qualunque direzione. Nella natura
intrinsecamente percussiva del pianoforte, che ogni maestro e ogni virtuoso s'impegna a far
dimenticare, stava il corredo genetico del pensiero di Stravinskij: non perché ne fosse volgarmente
condizionato, ma perché istintivamente a quel meccanismo di produzione del suono aderiva il suo
modo d'intendere la musica come linguaggio. Nel pianoforte, Stravinskij riconosceva il suo
interfaccia ideale, come tanti scrittori di oggi si riconoscono nella modularità del computer, e quelli
di ieri nel clicchettio di una Olivetti.

Stravinskij fu, nel Novecento, il vero cantore della macchina pianoforte, come i Futuristi, in
piccolo, della macchina tout court.

A quella identità logica tra pensiero e strumento si riconduce, ad esempio, l'incomprensione che
verso Igor nutrì un altro russo, di altra generazione, che con lui avrebbe dovuto avere, teoricamente,
solo confluenze. "In Stravinskij - diceva stizzito Sostakovic - la struttura aggetta come fosse
un'impalcatura. Manca la scorrevolezza, non ci sono ponti naturali. È una cosa che mi riesce
irritante, d'altro canto questa chiarezza architettonica rende più facile l'ascolto. Dev'essere questo
uno dei segreti della sua popolarità... Sciocco chi pensa che negli ultimi anni di vita la qualità della
sue composizioni sia peggiorata: pure calunnie dettate dall'invidia. A mio giudizio è avvenuto
proprio il contrario. A non andarmi giù sono proprio le prime opere, per esempio il Sacre: è
piuttosto rozza, in larga misura scientemente rivolta all'effetto esteriore e priva di sostanza vera. E
lo stesso devo dire dell'Uccello di fuoco, una pièce che considero francamente sgradevole...".

Non un giudizio di valore assoluto, questo di Sostakovic, che poco oltre ammetteva: "Pure,
Stravinskij è l'unico compositore del nostro secolo che oserei dire grande senza esitazioni...". Ma
una incomprensione di natura estetica profonda, radicale, con aggiunte "morali", quasi patriottiche:
"Tutt'altra questione è quanto russo egli fosse - sentenziava Sostakovic -. La sua concezione etica è
europea... Quando Stravinskij è venuto da noi, in Russia, lo ha fatto da straniero e sembrava
addirittura incredibile che fossimo nati a due passi di distanza, io a Pietroburgo e lui poco distante".

Radici comuni, stessa scuola, simili attrezzature tecniche, identici patrimoni di storia, possono
generare divergenze stellari.

L'incomprensione è appunto legata all'antitesi, ormai da considerarsi storica, fra pensiero modulare
e pensiero discorsivo. Origine anche dell'impossibilità a capirsi, prima con Debussy, poi con
Schöriberg e Berg. Al di là di ogni veleno da concorrenza.

Il Concerto per due pianofortì soli è una delle fotografie più netta dello Stravinskrj-pensiero, uno
scatto alla Man Ray sui tratti salienti di "...questo uomo mai sazio di inventare" - come scriveva di
lui il fan Savinio -, che come Gulliver "si trascina dietro l'intera armata di Lilliput legata per un
cordino... l'intero popolo musicale così tardo, così privo di movimenti autonomi, così bisognoso di
rimorchio".
Il Concerto per due pianoforti soli, prima opera di Stravinskij cittadino francese, fu composto tra
Voreppe e Parigi, nell'arco lungo che va dall'autunno del 1931 (primo movimento) al 9 novembre
1935. Lo eseguirono per la prima volta alla Salle Caveau, il 21 novembre, Igor e il figlio Soulima.

Il senso pratico di Stravinskrj - che i più spieiati, come Misia Sert, chiamavano con nomi più
volgari - non è estraneo alla nascita di una composizione che poteva garantire l'enorme vantaggio di
rinunciare a orchestra e direttore (e relative spese), riservando il cachet intero a due esecutori di
famiglia. Soulima era il più musicalmente dotato dei figli, e poteva vantarsi (ma non lo fece mai) di
essere stato l'allievo prediletto di Nadia Boulanger, che le rasoiate non le risparmiava a nessuno.

Igor, da parte sua, avrebbe sempre cercato di economizzare, proponendosi come interprete delle
proprie musiche, anche sul podio. Ma se come direttore aveva concorrenti forti e fortissimi, alla
tastiera poteva più facilmente mostrarsi all'altezza del sé compositore. Già nel 1908, a San
Pietroburgo, si era presentato in pubblico con i Quatre études pour piano. Il concertismo come
mestiere non era fra i suoi progetti, ma di fronte a nuove opportunità, verso il 1932 cominciò a
dedicare diverse ore al giorno per riguadagnare il tempo perduto. "Iniziai a sciogliere le dita,
suonando molti esercizi di Czerny, cosa non solo utilissima, ma anche piacevole".

In una breve introduzione a voce, alla Salle Caveau, Stravinskij aveva subito voluto sottolineare
quanto il suo Concerto fosse nuovo. "La storia - disse al pubblico in attesa - conosce, tutto
sommato, poche opere per due pianoforti senza orchestra. Quanto a concerti per due pianoforti, non
ne esistono, che io sappia*. (Ma Stravinskij, sostiene Casella, non conosceva i Concerti per due
tastiere di Bach). Sicuramente, due pianoforti in Concerto, senza orchestra, erano qualcosa di
originale nel 1935.

Nello stesso preambolo, Stravinskij, eseguiva l'inedito dopo la sua trascrizione di Petruska,
sviluppava in prima persona l'argomento chiave del suo rapporto col pianoforte. "Le idee musicali
possono nascere in una maniera per così dire astratta senza che il compositore abbia in mente,
all'inìzio, la loro espressione strumentale, ossia senza che egli pensi a uno strumento e a un
ensemble. Ma, in una composizione per uno strumento e un ensemble scelti da principio, quelle
idee sono il più delle volte suggerite dallo strumento stesso e sempre condizionate dalle possibilità
che offre. In questo caso, il pensiero del compositore lavora, oso dire, in presenza dello strumento".

Il Concerto per due pianoforti è la summa di questa concretezza. E anche di più. "Per tutta la vita ho
saggiato la mia musica mentre la componevo, sia che fosse orchestrale sia di altro genere, a quattro
mani su una tastiera. In questo modo sono in grado di provarla, mentre non riesco quando un altro
esecutore è seduto a un altro pianoforte". Accade infatti che, finito il primo movimento, nel 1931,
Stravinskij s'interrompe: non riesce a "sentire" la tastiera n. 2. Così, "...dopo aver completato il Duo
Concertante e Persephone, chiesi alla casa Pleyel di costruire per me un doppio pianoforte, sotto
forma di un piccolo cubo formato da due triangoli perfettamente incastrati l'uno nell'altro.
Completai allora il Concerto nel mio studio Pleyel saggiandone con l'orecchio il risultato passo
passo insieme a mio figlio Soulima all'altra tastiera".

Diviso in quattro, articolati movimenti - Con moto, Notturno-Adagietto, Quattro Variazìoni,


Preludio e Fuga -, il Concerto per due pianoforti ha nella compattezza il suo carattere. Appaia le
tastiere, le dispone sulla stessa linea di partenza, ma le muove poi in una libera forma concertante
che trapassa la struttura della Sonata, le sue proporzioni, il suo respiro. Concedendosi citazioni
barocche e tocchi di lirismo (Notturno), il Concerto dilata la voce del primo fra gli strumenti fino
agli strati "sinfonici" della polifonia, celebrando con rito puro ma evoluto quel pianoforte e quella
musica al quadrato che "sono" Stravinskij stesso, e potevano far dire a Ezra Pound: "è l'unico
musicista vivente dal quale io possa imparare qualcosa nel mio lavoro".

Carlo Maria Cella

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Per tutta la vita ho provato la mia musica mentre la componevo, sia che fosse orchestrale, sia di
altro genere, a quattro mani su una tastiera. In questo modo sono in grado di provarla, mentre non
posso quando un altro esecutore è seduto a un altro pianoforte. Quando ripresi il Concerto [...]
chiesi alla Casa Pleyel di costruire per me un doppio pianoforte, sotto forma di un piccolo cubo
formato da due triangoli strettamente incastrati. Completai il Concerto nel mio studio Pleyel,
saggiandone con l'orecchio il risultato passo per passo con mio figlio Soulima all'altra tastiera»:
così Igor Stravinskij, nei Dialogues, sulla genesi del suo Concerto per due pianoforti soli
completato nel 1935. Proprio dal desiderio di suonare con il figlio, valente pianista cresciuto alla
scuola di Nadia Boulanger, nacque l'idea di scriverlo. Per prepararlo Stravinskij si tuffò nella lettura
dei classici, «nelle variazioni di Beethoven e Brahms e nelle Fughe di Beethoven». La ricerca
dell'equilibrio e dell'ordine neoclassici sono un punto fermo; ad esempio spicca il riferimento alla
scrittura contrappuntistica rigorosa, o il controllo della forma e delle relazioni armoniche.
D'altronde lo stesso compositore durante alcune lezioni di analisi sul Concerto e sulla Pershéphone,
a Nadia Boulanger che sottolineava la raffinatezza delle relazioni armoniche e la bellezza del suono
di queste musiche, soleva rispondere, quasi minimizzando: «Mais c'est seulement de la musique
tonale». Il primo movimento, Con Moto «è un Allegro di sonata» e vive sul dualismo integrato dei
due temi, il primo incisivo e il secondo dal profilo cantabile, con un'estesa parte centrale d'impianto
sviluppativo che lascia trasparire una vena di barocca sentimentalità. Dopo una Ripresa parziale ma
testuale dell'esposizione, si apre una seconda sezione di Sviluppo e una Coda basata sulla formula
del primo tema. Anche il Notturno è in forma ternaria, e richiama nell'elegante incedere del tema di
ballabile, nello stile fiorito, negli iridescenti scenari armonici e vagheggiamenti della parte centrale,
«i pezzi del XVIII secolo chiamati Nachtmusik, o ancora meglio, le Cassazioni così frequentate dai
compositori dell'epoca». Le Quattro Variazioni erano state poste in prima battuta in conclusione di
Concerto. Stravinskij però decise per un finale più incisivo e mutò l'ordine primigenio, lasciando in
coda l'episodio del Preludio e Fuga. Dunque le variazioni sono sopra un tema ancora non sentito,
implicito, quello del Preludio, che coincide pure con il soggetto della Fuga. Dopo la prima
enunciazione, in forma di raffinata elaborazione del tema principale, su di un increspato,
ancheggiante accompagnamento, e la seconda variazione, che si presenta in tutta la sua icastica
frontalità, la terza scorre invece sopra un continuum ritmico di mulinanti semicrome cromatiche,
mentre emergono, sullo sfondo, puntillistiche sonorità riferite al tema. Nella quarta variazione il
soggetto principale è concentrato dentro pesanti accordi massivi e, nella ripetizione, finisce per
diventare una vera e propria formula fissa. Quando si apre il Preludio è già dunque nella memoria il
profilo del tema, che ora risuona dentro diafane risonanze che paiono lontani rintocchi. Così la
Fuga irrompe sopra la sua griglia di insistenti sestine di semicrome con una sempre più enfatizzata
citazione del tema, che poi torna pure per inversione prima delle ultime, solenni asserzioni del
Largo.

Marino Mora
Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Iniziato nel 1931, e completato quattro anni più tardi, il «Concerto» per due pianoforti soli fu scritto
per l'attività concertistica del compositore. Strawinsky aveva già formato un duo col violinista
Samuel Dushkin, ed il «Concerto» fu composto per un nuovo duo assieme al figlio Soulima. La
scrittura del «Concerto» individua un nuovo impiego del duo pianistico. Prima del «Concerto» il
duo pianistico era concepito come una riduzione dell'orchestra per uso domestico. Nel «Concerto»
invece Strawinsky adopera i due pianoforti come una unica tastiera, su cui sia possibile azionare
venti tasti contemporaneamente. Il risultato è di una densità accordale e ritmica che ricorda lo
«Studio» per pianola ed il suo pianismo ineseguibile.

E' interessante osservare come il medium solleciti Strawinsky a nuove soluzioni stilistiche, in
questo caso la densità della scrittura si muta in furore politonale.

Il «Con moto» si apre con una caustica fanfara alternata ad una seconda idea lirica, il «Notturno» è
delicatamente filigranato. Le «Variazioni» sono atematiche, ed il titolo si deve al ricordo delle
figurazioni proprie al genere variazione. Il «Preludio» è solenne ed accordale; la Fuga ha un tema
mordace che si dissolve nella retorica di una coda a valori distesi.

Gioacchino Lanza Tomasi

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Il «Concerto per due pianoforti soli» di Stravinsky fu composto fra gli anni 1931 e 1934 a Parigi,
patria d'elezione del musicista, che nel 1934 era divenuto cittadino francese. «Questo concerto -
annota di suo pugno Stravinsky sul retro del frontespizio - è stato eseguito da me e da mio figlio
Sviatoslav Soulima per la prima volta all'Università des Annales, a Parigi, Sala Gaveau, il 21
novembre 1935». L'epoca della composizione indica chiaramente che ci troviamo negli anni
centrali del cosiddetto neoclassicismo stravinskiano, in una fase che ne ha dilatato la primaria
nozione, intesa come imitazione-ripresa-rievocazione di modelli formali settecenteschi, con il caso-
limite di «Pulcinella», che utilizzava materiale desunto da Pergolesi. Dopo tale esperienza, ritenuta
forse esaustiva di un primitivo impulso intellettuale, Stravinsky si rivolge infatti al pianoforte,
strumento romantico e non-classico se mai ve ne furono; ed ora non per recuperare, ma per
stravolgere. Ci spieghiamo: quando Stravinsky scrive per la tastiera, è stimolato da un'esigenza
fondamentale: quella di fare 'diverso' dal pianismo romantico, rifuggire dal virtuosismo acrobatico e
fastoso di Liszt, dall'intimismo chopin-schumanniano, dalle liquescenze dell'impressionismo
debussiano. Il nuovo pianoforte è dunque tutto da inventare: di qui i recuperi dei materiali più
eterogenei, ma comunque non romantici: dalla pianola jazz all'organetto di barberia, dal
cembalismo bachiano fino al percussivismo di Bartók ed anche del collega-rivale Prokofiev. Ma la
pietrificazione e il contemporaneo ribaltamento 'significante' delle forme preesistenti - perseguiti
anche in composizioni di altra natura: «Oedipus Rex», (1927) oratorio in bilico fra Bach, Haendel e
l'opera italiana o «Jeux de cartes» (1937) con ie ironiche citazioni di Mozart e Rossini - giungono in
questo «Concerto per due pianoforti soli» ad approdi lievemente diversi, per una manifesta gioia di
suonare, far musica, che domina la partitura, e per l'attenuarsi di certe repressioni emotive cosi
tipiche del primitivo neoclassicismo. Il puro gioco stravinskiano cerca riferimenti in modelli
preclassici (l'articolazione in quattro movimenti, la presenza di un Preludio e Fuga) e in quell'ideale
campione che è la Sonata per due pianoforti K. 448 di Mozart: ma quando mai si era scritto cosi nel
Settecento, e con queste sonorità, con questa foga, con questa fastosa architettura? Siamo di fronte,
evidentemente, a una delle consuete parodie stravinskiane; parodia da non intendersi — lo ha
finemente rilevato Massimo Mila — come caricatura burlesca, bensì come travestimento con abiti
del passato, scoloriti, deformati, purché si tratti di una qualche appropriazione di una civiltà remota.

Si osservi il primo movimento, costruito secondo una tecnica tipica-mente aggiuntiva, antitesi
chiarissima alle strutture classiche della forma-sonata, con la precisa individuazione del materiale
tematico, il suo sviluppo e ricapitolazione. Fin dall'inizio, vengono enunciate varie figurazioni: una
scala ascendente, un disegno ritmico di ottavi puntati che si muovono per terze, un breve spunto
melodico spiccatamente diatonico; ma sono soltanto enunciazioni. Tutto questo materiale, ed altro
ancora, sarà come fagocitato da un'interrotta pulsazione ritmica che sembra tutto stravolgere,
secondo l'estetica stravinskiana che il ritmo è l'essenza stessa della musica; pulsazione che toglie ad
ogni spunto qualunque potenzialità di significazione sentimentale o psicologistica. L'irregolarità dei
ritorni, la spiccata asimmetria dei ritmi niente tolgono a questo ossessivo movimento, che sembra
non conoscere pause o respiri. Un puro gioco, sì, che può sfiorare il tragico, per il volontaristico
distacco dell'autore dalla materia posta in moto.

Impressione tragica che si attenua nel secondo tempo, che porta il titolo di Notturno: pagina
sostanzialmente lirica, in cui però la linearità della melodia cantabile è continuamente distorta
dall'inserzione di figurazioni asimmetriche e di altro materiale estraneo a quello fondamentale. Il
'canto' è affidato per lo più al primo pianoforte, mentre il secondo ha funzione di strano
accompagnamento, greve ed aspro: divisione dei ruoli che suggerisce un parziale straniamento,
anche in questo Notturno. Pagina di assoluto virtuosismo costruttivo sono le successive Variazioni:
Stravinsky scrive appunto Variazioni soltanto, perché, contrariamente allo schema classico, non
esiste un tema da variare. La prima evoca le sonorità della pianola disegnando l'andamento ritmico
di uno sbilenco valzer in 4/8 e 3/8; la seconda è caratterizzata da forti glissandi e rabbiose scale
discendenti per ottave; la terza è quasi un moto perpetuo sostenuto da un disegno di sestine di
sedicesimi; la quarta riprende il movimento di valzer (in 4/4!) approdando imprevedibilmente in un
perfetto accordo di re maggiore.

Infine un Preludio, vagamente raveliano, se non fosse per la dura sonorità di qualche accordo, cui
segue la Fuga a quattro voci (il tema viene desunto dalle Variazioni): chiaro omaggio alla
costruttività bachiana, nella quale Stravinsky impiega tutte le risorse della tecnica contrappuntistica,
compresa la inversione del tema: due pagine che concludono, in un'atmosfera più chiara e rarefatta,
questo «Concerto», scritto nel suo insieme come un vero e proprio certamen fra i due esecutori, in
cui tutte le risorse del linguaggio novecentesco — bitonalismo, cromatismo, enarmonia — e tutti i
moduli tipici del pianismo — martellamenti, arpeggi, note ribattute, scale — sono impiegati e
finalizzati al piacere della costruzione musicale 'in sé'.

Cesare Orselli

72 1940

Tango
per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=cExremBkRPU

https://www.youtube.com/watch?v=fjFZoTAT1N0

https://www.youtube.com/watch?v=fjFZoTAT1N0

Organico: pianoforte
Composizione: Hollywood, 1940
Edizione: Mercury Music Co., New York, 1941
Vedi a 72a la versione per orchestra

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Secondo un criterio storico-anagrafico ormai accettato da tutti i suoi esegeti, la produzione musicale
di Strawinsky viene suddivisa in più periodi, che presentano caratteristiche estetiche e stilistiche
ben precise, anche se diverse. C'è quindi un periodo russo, uno parigino, uno svizzero e un altro
americano che si concluderà con l'adesione ai principii compositivi degli atonali della scuola di
Vienna codificati da Schoenberg. Primo lavoro del periodo americano è il Tango per pianoforte; fu
scritto a Hollywood nel 1940, poco dopo ohe il musicista aveva ottenuto la cittadinanza statunitense
e alla versione originale seguirono due trascrizioni per orchestra. Vennero poi il discusso
arrangiamento dell'inno nazionale americano, «The star-spangled banner» (La bandiera stellata), le
Dances concertantes per orchestra da camera (1942), la gustosa e ironica Circus polka, «composta
per un giovane elefante» del circo Barnum (1942), le Ballet scenes (1944), nate prima per lo
spettacolo delle girls di Broadway e poi entrate nel repertorio sinfonico, l'Ebony concert dai ritmi
jazzistici (1945), oltre alla Sonata per due pianoforti, i Norwegian Moods per orchestra, la Sinfonia
in tre tempi, il Concerto in re per archi, l'Ode in memoria di Natalia Kussevitzki, moglie del
direttore d'orchestra, e una Elegia per viola sola, a ricordo di Alphonse Onnou.

Durante i primi anni del soggiorno americano Strawinsky, secondo Roman Vlad, continuò a
semplificare la sua musica, a renderla più spoglia e disadorna, rinunciando non solo all'uso
frequente della politonalità, ma spesso persino ai procedimenti poliarmonici che egli aveva
instaurato nei suoi primi capolavori. «Questa particolare fase di semplificazione diatonica e in
genere tutto il neoclassicismo strawinskiario trovano il loro culmine in The Rake's Progress».
Anche il Tango, pur nella sua condensata brevità, ubbidisce a questa nuova linea espressiva di tipo
Gebrauchsmusik e utilizza un ostinato e strascinante ritmo di danza di consumo (tempo 2/4) per
raggiungere effetti musicali di gusto popolaresco, che risentono indubbiamente di precedenti
modelli realizzati con successo da Kurt Weill.

Ennio Melchiorre
Guida all'ascolto 2 (nota 2)

L'impulso ritmico costituisce l'elemento primario della musica di Stravinskij, di conseguenza nel
suo catalogo i balletti, dall'Uccello di fuoco ad Agon, rappresentano il gruppo più importante,
accanto al quale troviamo varie piccole danze inserite all'interno di composizioni più vaste o
pubblicate isolatamente (come Tango). Ad esse si aggiungono ancora composizioni che, pur non
essendo delle vere e proprie danze, denunciano fin dal titolo d'essere organizzate intorno a un
preciso ritmo (come Piano-Rag-Music).

Tango fu la prima composizione scritta da Stravinskij al suo arrivo negli Stati Uniti nel 1940:
confrontandolo con i due tanghi da lui scritti una ventina d'anni prima - uno inserito nell'Histoire du
soldat, l'altro nei Pezzi facili per le cinque dita - Roman Vlad ha osservato come il nuovo ambiente
non mancò d'imprimere sulla musica di Stravinskij alcuni tratti tipicamente americani, e
precisamente «una punta di piacevolezza quasi gershwiniana [...] che ne fa forse il pezzo più
"leggero" che Stravinskij abbia mai composto», specificando però che «pur apparendo così leggero
nel contesto delle opere di Stravinskij, non è tuttavia "leggero" nel senso commerciale del termine e
non c'è dunque da meravigliarsi che le speranze finanziarie riposte in esso dal compositore non si
siano avverate interamente». Si tratta in effetti d'un pezzo molto semplice, perfino schematico con
le sue ripetizioni interne, la tripartizione con il consueto Trio al centro e la conclusione identica
all'inizio, che però rivela col suo nitore, la sua ironia e il suo senso ritmico la mano inconfondibile
dello Stravinskij maturo.

Mauro Mariani

80 1943 - 1944
Sonata per due pianoforti

Moderato
Tema con variazioni
Allegretto

Organico: 2 pianoforti
Composizione: Hollywood, 1943 - 1944
Prima esecuzione: Madison, Edgewood College of the Dominican Sisters, 2 agosto 1944
Edizione: Chappell, New York, 1945

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Questa Sonata, composta nel 1493-44, spicca nella produzione dell'ultimo Strawinski per la
trasparenza del tessuto musicale, per la sua eleganza, e per la semplicità della sua struttura.
Trasparenza e semplicità che, naturalmente, non sono sinonimo di indigenza o faciloneria: tutt'altro,
che sotto certi aspetti, senza avere l'importanza di opere maggiori, questo lavoro ci si presenta come
uno fra i più significativi dell'ultimo periodo strawinskiano.

Notiamo in esso la riapparizione di temi di sapore popolare russo: privi di quel tono pittoresco di
tanto folklore ai quali talvolta anche lo stesso Strawinski è ricorso - ma il carattere espressivo li
avvicina a quelli del modello popolare. Tali temi sono sensibili specialmente nel primo tempo,
Moderato, quasi interamente basato sopra una sovrapposizione di linee melodiche, le quali
evolvono simultaneamente sulla tonica e sulla dominante di fa maggiore, e le dominanti di fa e di
do maggiore, ciò che genera una polifonia a quattro voci, estremamente libera, senza che dia mai
luogo a una vera politonalità. Il secondo tempo è un Tema con variazioni: il tema, diatonico,
semplicissimo, di un vago sapore arcaico, è seguito da quattro variazioni: la prima oppone
all'austerità del tema un delizioso motivo in re maggiore ma armonizzato in sol; la seconda, che
offre l'esempio di una scrittura pianistica modellata su quella delle Toccate bachiane; la terza è una
fughetta a quattro voci di un movimento allegro e deciso; l'ultima, finalmente, snoda la austera
polifonia di due voci gravi sulla risonanza di ampie armonie affidate al primo pianoforte. Il finale,
Allegretto, combina curiosamente le forme di rondò e del Lied. Anche qui i temi generatori si
apparentano per il loro carattere espressivo al modello popolare, del quale hanno la stessa purezza
modale: va da sé che, inseriti in una trama contrappuntistica molto libera, ricca perciò di urti e
dissonanze, tali temi assumono un carattere alquanto diverso: non tale però da deformarne
l'immagine. La struttura contrappuntistica densa ma ariosa e trasparente sempre di questo ultimo
tempo mostra una curiosa e mobilissima concezione armonica, ma alla fine le quattro voci
risolvono su un aggregato armonico che combina gli elementi dell'accordo di tonica e di quello di
dominante, offrendo così all'ascoltatore la chiave dell'opera.

Domenico De Paoli

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La Sonata per due pianoforti appartiene al periodo americano di Stravinsky, essendo stata composta
a Hollywood nel 1943-44. Essa nacque senza una commissione o una sollecitazione esterna, per il
puro piacere di scrivere un pezzo dal carattere semplice e discorsivo, di tono quasi privato e
affettuosamente effusivo. Neppure l'organico era stabilito sin dall'inizio: Stravinsky cominciò la
composizione pensandola per un solo esecutore, ma la adattò poi a due pianoforti quando si rese
conto che la scrittura - prevalentemente a quattro voci - lo richiedeva per permettere di dare alle
quattro linee dell'articolazione sonora un carattere vocale più limpido e una più salda struttura
contrappuntistica.

Come nel caso della Sonata per pianoforte del 1924, il titolo va inteso nel suo significato originario
e non in quello limitato alla forma della tradizione classica. Nel primo movimento, «Moderato», lo
schema sonatistico è sottinteso ma per così dire distanziato sullo sfondo: i due temi principali,
rispettivamente in fa maggiore e in do maggiore, non danno origine ad alcun contrasto o sviluppo
culminante in decisive trasformazioni, quanto piuttosto a una elaborazione contrappuntistica di
taglio ora vigoroso, teso cioè a stringere le maglie dell'intreccio polifonico, ora disteso, in modo da
far uscire alla luce il puro disegno melodico; e conduce direttamente alla ricapitolazione dei due
temi in tonalità invertite, cioè do maggiore e fa maggiore.

Il secondo movimento è costituito da quattro Variazioni su un tema diatonico di sapore arcaico,


quasi modale, il cui carattere di fuga è immediatamente sottolineato dalla ripetizione in canone per
moto contrario. La ricchezza polifonica è qui subordinata a una compattezza sonora che sfrutta
l'intera estensione dei due pianoforti. Una figura di ostinato, che compare nel basso del secondo
pianoforte verso la metà del tema, costituisce l'elemento principale della prima Variazione;
l'intensificazione ritmica della seconda, sviluppata per mezzo del ritmo puntato, si scioglie nella
terza in una fughetta brillante e gioiosa: finché nella quarta Variazione il tema ritorna nel basso a
ristabilire la compattezza dell'insieme sotto il profilo della densità accordale.

L'«Allegretto» conclusivo, in forma ternaria, presenta una individualità tematica più marcata, nella
cui caratterizzazione si sente in modo distinto l'eco di motivi e accenti tipicamente russi. Anche se
non si tratta di citazioni riconoscibili di elementi propri della tradizione popolare russa, la qualità
espressiva di alcune figure melodiche, soprattutto di quella che nella sezione centrale emerge a
circoscrivere un canto teneramente malinconico, ha i tratti inconfondibili dell'evocazione di lontani
ricordi dell'infanzia. Come scrive Roman Vlad, «si capisce che inseriti in un'aspra trama
contrappuntistica questi temi acquistano un sapore alquanto diverso. Ma dissonanze come quelle
che risultano dal sovrapporsi dei vari strati polifonici, non valgono a deformarne l'immagine, ma la
dotano di una più profonda dimensione significativa. Alla soavità melodica si mescola l'amarezza
degli intervalli armonici conferendo all'evocazione del melos russo un senso di acuto rimpianto che
non ne distrugge la dolcezza, ma, al contrario, la rende più struggente». Ed è ancora Vlad a
suggerire la chiave di lettura della Sonata per due pianoforti: «uno di quei lavori di Stravinsky nei
quali la sua 'recherche du temps perdu' investe anche aspetti passati della sua propria arte».

Sergio Sablich

Composizioni vocali senza accompagnamento

55 1926

Pater noster
per coro a cappella - Prima versione con testo in russo

https://www.youtube.com/watch?v=92D2YsO8LH8

https://www.youtube.com/watch?v=WD5g38Eg5YI

Organico: coro misto senza accompagnamento


Composizione: 1926
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1932

55a 1949

Pater noster
per coro a cappella - Seconda versione con testo in latino

https://www.youtube.com/watch?v=gQWtMyXJR0c

Organico: coro misto senza accompagnamento


Composizione: 1949
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, s. a.

63 1932

Credo
per coro a cappella - Prima versione (testo slavonico)
Organico: coro misto senza accompagnamento
Composizione: 1932
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1933

63a 1949
Credo
per coro a cappella - Seconda versione (testo latino)

https://www.youtube.com/watch?v=A31ncOgroRQ

https://www.youtube.com/watch?v=b6UvHhnoglk

Organico: coro misto senza accompagnamento


Composizione: 1949
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, s. a.

63b 1964

Credo
per coro a cappella - Terza versione (testo slavo)

https://www.youtube.com/watch?v=3EXUIPjFeHU

https://www.youtube.com/watch?v=qRQEV4lWhso

Organico: coro misto senza accompagnamento


Composizione: maggio 1964
Edizione: Inedito

65 1934

Ave Maria
per coro a cappella - Prima versione

https://www.youtube.com/watch?v=Luh-UlFvxEk

Testo: slavonico
Organico: coro senza accompagnamento
Composizione: 4 aprile 1934
Edizione: Édition Russe de Musique, Parigi, 1934

65a 1949

Ave Maria
per coro a cappella - Seconda versione

https://www.youtube.com/watch?v=Ddho23VkBik
Testo: latino
Organico: coro senza accompagnamento
Composizione: marzo 1949
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, s.a.

69 1937

Petit Ramusianum harmonique


per voce sola

https://www.youtube.com/watch?v=TSBbf8D-b7M

Testo: proprio e Charles-Albert Cingria


Organico: voce sola o voci all'unisono
Composizione: Parigi, 11 ottobre 1937
Edizione: V. Porchet & Cie., Losanna, 1938
Dedica: per il 60° compleanno di Charles-Ferdinand Ramu

85 1947

Petit canon
per due tenori

Testo: Jean de Meung


Organico: 2 tenori
Composizione: Hollywood, 16 settembre 1947
Edizione: inedito
Dedica: per il compleanno di Nadia Boulanger

101 1962

Anthem: The Dove descending break the air


per coro a cappella

https://www.youtube.com/watch?v=Wp2uhUERfOU

https://www.youtube.com/watch?v=ZnuGEFeKptU

Testo: da Little Gidding di T. S. Eliot


Organico: coro misto senza accompagnamento
Composizione: Hollywood, 2 gennaio 1962
Prima esecuzione: Hollywood, Philarmonic Auditorium, 19 febbraio 1962
Edizione: Faber & Faber, Londra, s. a.
Dedica: T. S. Eliot

Trascrizioni e elaborazioni
I 1909

Edvard Grieg
Smatroold
Organico: orchestra
Composizione: 1909
Prima esecuzione: 19 maggio 1909
Edizione: inedito
Rielaborato per il "Festin" di Diaghilew

IIa 1909

Fryderyk Chopin
Notturno in la bemolle maggiore, op. 32 n. 2

https://www.youtube.com/watch?v=_Z3vm87sfok

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, grancassa, arpa, celesta, archi
Composizione: 1909
Prima esecuzione: Parigi, Théâtre Municipal du Châtelet 30 maggio 1909
Edizione: inedito
Inserito al n. 2 del balletto "Les Sylphides" su musiche di Chopin orchestrato da Serghjej Ivanovich
Tanejev, Anatolij Konstantinovich Ljadov, Nikolaj Nikolajevich Cjerepnin e Igor Stravinsky

IIb 1909

Fryderyk Chopin
Grande valse brillante in mi bemolle maggiore, op. 18

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 3 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba,
timpani, triangolo, piatti, tamburo militare, grancassa, campanelle, arpa, celesta, archi
Composizione: 1909
Prima esecuzione: Parigi, Théâtre Municipal du Châtelet 30 maggio 1909
Edizione: inedito
Inserito al n. 8 del balletto Les Sylphides su musiche di Chopin orchestrato da Serghjej Ivanovich
Tanejev, Anatolij Konstantinovich Ljadov, Nikolaj Nikolajevich Cjerepnin e Igor Stravinsky

IIIa 1910

Ludwig van Beethoven


Canzone della pulce op. 75 n. 3

Organico: basso, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, archi


Composizione: 1910
Edizione: W. Bessel & Cie., Parigi, s.a.

IIIb 1910

Modest Musorgskij
Canzone della pulce
Organico: baritono o basso, 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni,
basso tuba, timpani, arpa, archi
Composizione: 1910
Edizione: W. Bessel & Cie., Parigi, s.a.

IV 1913

Modest Musorgskij
La khovanscina

orchestrazione parziale (in collaborazione con Maurice Ravel)


Organico: orchestra
Composizione: 1913
Prima rappresentazione: Parigi, Grand Théâtre des Champs-Élysées, 5 giugno 1913
Edizione: W. Bessel & Cie., Parigi, 1914

V 1917

Anonimo (testo tradizionale)


Canto dei battellieri del Volga

https://www.youtube.com/watch?v=cJfRBE2EEMg

Organico: ottavino, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba,
timpani, grancassa
Composizione: 8 aprile 1917
Prima esecuzione: 9 aprile 1917
Edizione: J. Chester, Londra, 1920

VI 1918

Modest Musorgskij
Boris Godunov, coro del prologo

https://www.youtube.com/watch?v=FoiQb5G6yBg

Organico: pianoforte
Composizione: 1918
Edizione: inedito

VII 1919

Rouget de Lisle
La Marseillaise

https://www.youtube.com/watch?v=_Rzk1-Fs8fA
Organico: violino
Composizione: 1 gennaio 1919
Edizione: inedito

VIIIa 1921

Petr Il'ic Cajkovskij


La bella addormentata:

Variation d'Aurore
Entr'acte symphortique

Organico: orchestra
Composizione: 1921
Prima esecuzione: Londra, Alhambra, 2 novembre 1921
Edizione: inedito

VIIIb 1941

Petr Il'ic Cajkovskij


L'oiseau bleu

https://www.youtube.com/watch?v=LBtNjKS4mfs

Riduzione per piccola orchestra del Pas-de-deux da La bella addormentata

Adagio
Variazione I - Tempo di Valse
Variazione II - Andantino
Coda - Con moto

Organico: flauto, oboe, 2 clarinetti, fagotto, corno, 2 trombe, 2 tromboni, timpani, pianoforte, archi
Composizione: 1941

Guida all'ascolto (nota 1)

«Questa versione per orchestra da camera del Pas-de-deux dal balletto La bella addormentata di
Ciaikovski, danzata da diverse compagnie di balletto sotto il titolo L'uccello azzurro, è un mio
adattamento per il ristretto gruppo strumentale da esse impiegato. Per ottenere un normale
equilibrio consiglio un organico di cinque violini, quattro viole, tre violoncelli e due contrabbassi al
minimo». Così annota Stravinsky nell'edizione a stampa della partitura della sua riduzione del Pas-
de-deux ciai-kovskiano, che prevede oltre agli archi l'impiego di un flauto, un oboe, due clarinetti,
un fagotto, un corno, due trombe, due tromboni, timpani e pianoforte. Queste poche parole, a parte
il loro valore di indicazioni tecniche, anzi proprio perché di pure indicazioni tecniche si tratta,
lasciano comprendere come questo «arrangiamento», datato 1941, fosse stato compiuto da
Stravinsky per ragioni eminentemente pratiche, o al più come una cortesia professionale per una
compagnia di balletto. E infatti almeno esternamente questo Oiseau bleu non presenta caratteri tali
da poter essere ammesso fra le composizioni originali di Stravinsky, com'è invece il caso delle
«ricreazioni» di musiche altrui compiute durante il periodo neoclassico di Stravinsky: e fra queste
esempi clamorosi come il Pulcinella da Pergolesi (1919) e Il bacio della fata appunto da Ciaikovski
(1928). L'oiseau bleu è una ristrumentazione che lascia inalterato il tessuto compositivo
dell'originale, limitandosi a mutarne l'aspetto sonoro. Eppure è ovvio che l'attenzione
dell'ascoltatore si appunterà proprio su quest'ultimo, ossia sull'intervento operato da Stravinsky,
piuttosto che sulla musica di Ciakovski; che a prescindere dal suo valore compare qui come un
semplice estratto da un lavoro ben altrimenti ampio, e che difficilmente si offre alla valutazione se
separato dal suo contesto. La bella addormentata, del resto, pur essendo partitura più che pregevole,
resta il meno felice, o comunque il meno importante e fortunato dei tre grandi balletti composti da
Ciaikovski; fra i quali occupa, cronologicamente il secondo posto, essendo nato nel 1888-89, ossia
tredici anni dopo Il lago dei cigni (1875-76) e tre prima dello Schiaccianoci (1891-92). Due lavori,
questi, che sembrano sopravanzare alquanto La bella addormentata, che non eguaglia la fascinosa
proiezione fantastica del primo né presenta la stessa modernità di intuizioni timbriche dell'altro.

Il vero interesse di questa revisione sta nel fatto che essa segna l'ultima manifestazione concreta dei
rapporti di Stravinsky con la musica di Ciakovski, che ancora da vecchio avrebbe ricordato
affettuosamente come «l'eroe della mia infanzia», serbando vivissima la memoria della serata
pietroburghese in cui, undicenne, aveva avuto occasione di vedere di persona il celebre musicista,
che sarebbe morto di lì a due settimane. Per tutta la vita Stravinsky affermò la sua simpatia e la sua
stima - non priva ovviamente di riserve, per l'arte del maggiore fra i compositori russi
«occidentalizzati»; contrapponendola polemicamente all'«orientalismo da ufficio turistico del
Gruppo dei cinque». Non per nulla anche nel periodo cosiddetto «russo» il cosmopolita Stravinsky
aveva riaffermato questo aggancio ideale dedicando nel 1922 la partitura di Mavra «A la mémoire
de Pouchkine, Glinka et Tschaikovsky», quasi a proclamare che un genuino carattere russo non
poteva che manifestarsi sotto il segno di una cultura europea. Del resto già nel '21, Stravinsky si era
accostato direttamente alla musica di Ciaikovski, e proprio strumentando, per conto di Diaghilev,
due brani della Bella addormentata che Ciaikovski aveva espunto dalla partitura d'orchestra. Sicché
non stupisce che a quasi sessant'anni, e ormai saldamente affermato fra i più importanti compositori
viventi, Stravinsky abbia accettato di compiere un'altra volta un lavoro del genere. Solo che, com'è
ovvio, il suo intervento non rimase costretto nei limiti modesti di chi si sforza di adattare a un
piccolo complesso strumentale ciò che è scritto per un'orchestra nutrita, magari con l'intento di far
sì che nessuno se ne accorga, e dunque con lo scrupolo di recare il minor danno possibile alla
sostanza dell'originale: del resto, in questo caso, Stravinsky non lavorò sulla partitura d'orchestra di
Ciaikovski, che non aveva a disposizione, bensì «sulla base di una riduzione per pianoforte e della
mia povera memoria; dovetti inventare quello che non mi era possibile ricordare sulle scelte
strumentali proprie di Ciaikovski. Quella strumentazione era stata commissionata per un'orchestra
[quella del Ballet Theatre] che aveva dovuto ridurre il proprio organico a causa della guerra». Nella
sicurezza con la quale in questa revisione sono individuati e sfruttati i timbri strumentali e le
proporzioni sonore sta ben di più che l'abilità di un musicista esperto dei trucchi della professione
(anche se nella poetica di Stravinsky questo era aspetto tutt'altro che secondario): nella creazione di
nuove prospettive e nuovi rapporti di timbri e volumi Stravinsky compie, ancora una volta, una di
quelle operazioni di assimilazione, appropriazione e in ultima analisi creazione in parte nuova che
con assai maggior profondità d'intervento ha operato altre volte su un dato musicale preesistente,
esaltando, come nessun altro in questo secolo ha saputo fare, le possibilità poetiche di azioni
altrimenti riconducibili a semplici termini d'artigianato, se non di mero mestiere.
Daniele Spini

IX 1941

John Stafford Smith


The Star-spangled Banner

https://www.youtube.com/watch?v=xbHnDs8W36E

Arrangiamento per orchestra


Organico: 3 flauti, 3 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
archi
Composizione: 4 luglio 1941
Prima esecuzione: Boston, Opera House, 14 ottobre 1941
Edizione: Mercury Music Co., New York, s.a.

X 1955 - 1956

Johann Sebastian Bach

Choralvariationen über das Weihnachtslied «Vom Himmel hoch da komm ich her» (BWV
769)
Trascrizione per coro e orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=7biIpKLVELk

Organico: coro misto, 2 flauti, 3 oboi, 3 fagotti, 3 trombe, 3 tromboni, arpa, viole, contrabbassi
Composizione: New York, 29 dicembre 1955 - Hollywood, 9 febbraio 1956
Prima esecuzione: Ojai, 27 maggio 1956
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, s.a.

XI 1956 - 1959

Carlo Gesualdo di Venosa


Tres Sacrae cantiones

https://www.youtube.com/watch?v=7AJhZ0yptH0

https://www.youtube.com/watch?v=tS0dhTNqkMU

https://www.youtube.com/watch?v=hywFuXPeIVs

Da pacem Domine
Assumpta est Maria
Illumina nos

Organico: voce, orchestra


Composizione: 1956 - 1959
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1960
Sostituzione di parti perdute (sesto e basso)

Guida all'ascolto (nota 1)

Negli ultimi anni di vita, Igor Stravinskij fu affascinato da Carlo Gesualdo da Venosa, la cui
selezionatissima produzione di Madrigali profani e musica sacra veniva solo allora riscoperta come
uno dei punti di arrivo più originali e geniali della plurisecolare storia della polifonia, per il
cromatismo esasperato (è stato detto che non si troverà più nulla di simile nei
duecentocinquant'anni successivi, fino all'arrivo di Richard Wagner), per le audaci successioni di
accordi, per gli ampi e imprevedibili salti della scrittura melodica: uno stile personalissimo, che non
aveva eguali all'epoca, e che dava alla sua musica un'espressività tormentata, contorta, angosciata.
Stravinskij spinse la sua ammirazione fino a cimentarsi con due trascrizioni-ricreazioni direttamente
con Gesualdo: nacquero così il Monumentum pro Gesualdo da Venosa, consistente nella
rielaborazione per soli strumenti di tre Madrigali del compositore napoletano, e le Sacrae
Cantiones. Quest'ultima opera - cui mise mano nel 1956, portandola a termine solo dopo lunghe
pause nel settembre 1959 - consiste nel completamento di tre Sacrae Cantiones a sei voci di
Gesualdo, la cui originalità è evidenziata fin dal frontespizio della stampa del 1603, dove si legge
"singulari artificio compositae".

Il lavoro di Stravinskij consiste nella realizzazione delle parti del Bassus e del Sextus - quelle
originali erano infatti andate perdute - del Mottetto "pro pace" Da pacem Domine, dell'antifona per
la festa dell'Assunzione Assumpta est Maria e dell'antifona Illumina nos. Nel completare questi
pezzi sacri - che sono meno audaci e moderni dei suoi Madrigali profani e si concentrano
soprattutto su complessi procedimenti contrappuntistici - Stravinskij ha aggiunto alcune dissonanze,
indubbiamente giustificate dallo stile di Gesualdo, ma i suoi interventi non rispondono a criteri
meramente filologici: "Le mie parti - ha scritto - non sono un tentativo di ricostruzione. Vi sono
dentro io quanto Gesualdo".

Mauro Mariani
Testo

DA PACEM DOMINE

Da Pacem Domine
in diebus nostris
quia non est alius
qui pugnet prò nobis
nisi tu Deus noster.

ASSUMPTA EST MARIA

Assumpta est Maria in caelum:


gaudent angeli laudantes
benedicunt Dominum.
ILLUMINA NOS

Illumina nos, misericordiarum Deus,


septiformi paracliti gratia
ut per eam a delictorum tenebris,
liberati vitae gloria perfruamur.

XII 1960

Carlo Gesualdo di Venosa


Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum
Tre madigali ricomposti per strumenti

https://www.youtube.com/watch?v=stUmTP2u3Oo

https://www.youtube.com/watch?v=GJgMDG3i3Dc

Asciugate i begli occhi


Ma tu cagion
Beltà poi che t'assenti

Organico: 2 oboi, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, 2 violini, viola, violoncello


Composizione: marzo 1960
Prima esecuzione: Venezia, Palazzo Ducale, 27 settembre 1960
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1960

Guida all'ascolto (nota 1)

La scoperta di Gesualdo rimane, dell'itinerario intellettuale strawinskiano, uno dei più felici
approdi. A Strawinsky dobbiamo l'esempio di una lettura strutturale di impeccabile rigore. Inutile
aggiungere che il suo orecchio miracoloso è stato il veicolo primo ad intendere la concezione
armonica duttile (secondo un'intuizione straordinaria, legata all'uso di strumenti ad accordatura
naturale, non temperata: gli stessi che il musicista aveva sperato di ritrovare nel castello di
Gesualdo) di quell'inattualissima arte, postasi come sdegnoso baluardo della pratica antica contro le
vie aperte dal Rinascimento.

Ciò che Strawinsky ha ammirato nel Principe è la capacità di proseguire, in termini di violenza
impensabile prima, un ambito stilistico storicamente superato: esempio sublime, da accostare senza
tema alla tarda attenzione sul contrappunto di Bach, fra il pacato dileggio dei «galanti». Ovvio che,
in questa ferma costanza, nella fede a principi immutabili, Strawinsky vedesse, riflessa in cultura
diversa, la propria reazione ai «distruttori dell'intervallo», agli amati e avversi Stockhausen e
Boulez. Lodò in Gesualdo la sottigliezza dello scavo nel materiale canonico, e la fiamma della
passione mortale, schermata dall'impassibilità della meditazione. (Qualcosa di analogo aveva
segnalato un recensore antico, il padre Kircher.)
Di questo incontro, due sono i frutti: il completamento, per due voci, di testi pervenutici mutili, e il
Monumentum. (Più esattamente, Monumentum pro Gesualdo di Venosa ad CD annum, Three
Madrigals Recomposed for Instruments.)

Esso affida agli strumenti (e con quale scelta: archi; due oboi e due fagotti; quattro corni; due
trombe, due tromboni e un trombone basso) tre momenti sommi del madrigale: Asciugate i begli
occhi e Ma tu cagion, dal quinto libro, Beltà poi che t'assenti, dal sesto. Attraverso le modificazioni
strawinskiane (di registro, d'ottava) oltre le parche aggiunte, la civiltà del madrigale viene spostata
verso quella dell'hoquetus, Gesualdo si riconosce in Machault.

Non si pensi a un mero adattamento delle linee vocali ad altrettante voci strumentali. Le linee,
invece, vengono coraggiosamente spezzate, e migrano dall'uno all'altro pentagramma. Lo spazio
originale si sdoppia in una frantumazione che ne ripercuote gli echi in prospettive ingannevoli. La
premessa a questo operare (che secondo l'autore è stato uno dei suoi più sottili exploits) si ritrova
naturalmente nell'esempio carismatico di trascrizione moderna, la Fuga ricercata di Webern,
dall'Offerta musicale. Il divisionismo fonico, in Strawinsky, è meno scoperto, procede con cautela
accortissima, e, per contro, suona più tagliente.

Agiscono, in queste sue trasposizioni, antiche seduzioni cubiste. A grande distanza, sono i principi
dell'amico Picasso, applicati, oltreché in proprio, ad esercizi ammirati ed ironici d'après Velàsquez,
El Greco, Courbet.

Mario Bortolotto

XIII 1963

Jean Sibelius
Canzonetta op. 62a

https://www.youtube.com/watch?v=DYVWAnsGj1k

https://www.youtube.com/watch?v=pZNwN2cD1Q8

Organico: clarinetto, clarinetto basso, 4 corni, arpa, contrabbasso


Composizione: 1963
Edizione: Breitkopf & Hartel, Lipsia, 1964

XIV 1968

Hugo Wolf
Due canti sacri
dallo Spanisches Liederbuch

https://www.youtube.com/watch?v=djznXMInGp8

Organico: mezzosoprano, 3 clarinetti


Composizione: 15 maggio 1968
Prima esecuzione: 6 settembre 1968
Edizione: Boosey & Hawkes, New York, 1969

www,wikipedia.org

Biografia

Igor' Fëdorovič Stravinskij, anglicizzato e francesizzato in Igor Stravinsky (Lomonosov, 17 giugno


1882 – New York, 6 aprile 1971), è stato un compositore e direttore d'orchestra russo naturalizzato
francese nel 1934, poi divenuto statunitense nel 1945.

La maggior parte dei suoi lavori rientra nell'ambito del neoclassicismo prima e della serialità poi,
ma la sua popolarità presso il grande pubblico si deve ai tre balletti composti durante il suo primo
periodo e creati in collaborazione con i Balletti russi: L'uccello di fuoco (1910), Petruška (1911) e
La sagra della primavera (1913), opere che reinventarono il genere musicale del balletto. Stravinskij
scrisse per ogni tipo di organico, spesso riutilizzando forme classiche. La sua opera omnia include
composizioni d'ogni genere, dalle sinfonie alle miniature strumentali.

Ottenne anche grande fama come pianista e direttore d'orchestra, dirigendo spesso le prime delle
sue composizioni. Scrisse un'autobiografia, Chroniques de ma vie, e un saggio teorico che
racchiude una serie di lezioni tenute presso l'Università di Harvard nell'anno accademico 1939-1940
intitolato Poetica della musica. Fra i vari concetti espressi senza dubbio la frase "la musica è
incapace di esprimere niente altro che se stessa" è la più famosa e rappresentativa del compositore,
che si rifà allo slogan francese ottocentesco l'art pour l'art. In questa luce si può intendere il suo
radicale anti-wagnerismo.
Tipico russo cosmopolita, Stravinskij fu uno dei più apprezzati compositori del XX secolo, sia nel
mondo occidentale che nel suo paese d'origine.

Biografia

I primi anni

Stravinskij nacque a Oranienbaum (oggi Lomonosov), nelle vicinanze di San Pietroburgo, in


Russia, il 17 giugno 1882. La sua infanzia, dominata da un padre autoritario, fu la cosa più lontana
dall'artista cosmopolita che sarebbe poi divenuto. Terzo di quattro figli, ebbe sempre rapporti
difficili in famiglia. Trascorse i lunghi inverni nell'appartamento di città e le brevi estati in
campagna, a Ustyluh, riportandone felici ricordi tra cui i canti delle donne dei villaggi che rimasero
impressi indelebilmente nella sua memoria.

Anche se il padre, Fëdor Ignat'evič Stravinskij, era un celebre basso del Teatro Mariinskij, il
giovane Igor non si dedicò alla musica fino ai nove anni quando intraprese lo studio del pianoforte;
i suoi progressi furono rapidi, iniziò presto ad improvvisare e a leggere spartiti d'opera. Dopo il
liceo fu indirizzato a studi di giurisprudenza a cui si dedicò senza convinzione, laureandosi tuttavia
nel 1905; continuò comunque per proprio conto gli studi di armonia e contrappunto e di pianoforte
con Madame Khachperova, che era stata alunna di Anton Rubinstein. All'università conobbe il
figlio di Nikolaj Rimskij-Korsakov, Vladimir, che divenne suo buon amico e che, nel 1902, gli fece
conoscere il padre. Rimskij lo accolse inizialmente con riserva e gli sconsigliò di iscriversi al
Conservatorio; in seguito, però, accettò di dargli lezioni private e lo prese come allievo. Il legame
fra Stravinskij e il suo maestro durò fino alla morte di quest'ultimo nel 1908 e fu sempre
caratterizzato da un grande affetto reciproco, anche se Stravinskij stesso ammise di ritenerlo
piuttosto superficiale sia come uomo che come musicista. Stravinskij si considerò sempre
autodidatta in qualità di compositore; pur avendo avuto insegnamenti preziosi sull'armonia e
sull'orchestrazione, non ritenne mai Rimskij-Korsakov all'altezza in materia di composizione.
In giovane età, il 23 gennaio 1906, sposò la cugina Katerina Nossenko, che frequentava sin
dall'infanzia. I due ebbero quattro figli, Fëdor (detto Theodore) nel 1907, Ludmila nel 1908,
Svjatoslav (detto Soulima) nel 1910 e Milena (detta Mika) nel 1914.
I suoi primi studi ebbero come risultato la Sinfonia in mi bemolle nel 1907, opera convenzionale
che presenta ancora molte influenze della musica dì Rimskij Korsakov, e la suite di canzoni Le
faune et la bergère dedicata alla moglie.

L'incontro con Djagilev e i primi successi

Seguirono due lavori sinfonici, Feu d'artifice e lo Scherzo fantastique, entrambi del 1908; queste
ultime opere attirarono l'attenzione di Sergej Djagilev che le ascoltò ai Concerti Ziloti il 6 febbraio
1909 a San Pietroburgo. Alla morte del maestro, Stravinskij, sinceramente addolorato, compose in
sua memoria un Canto funebre per coro e orchestra. Nel 1909 Djagilev gli commissionò
l'orchestrazione di due brani di Chopin per il suo balletto Les Sylphides, ma subito dopo gli chiese
la composizione di un balletto originale, L'uccello di fuoco, tratto da una fiaba russa. Il
compositore, che aveva già iniziato la stesura di un'opera, Le rossignol, mise da parte questo lavoro
e si dedicò alla scrittura del balletto che terminò nel maggio 1910.
Stravinskij nel mese di giugno lasciò la Russia per recarsi a Parigi per la prima rappresentazione
della sua opera realizzata dai Balletti russi di Sergej Djagilev e con la coreografia di Michail Fokin.
Il successo fu notevole e Stravinskij divenne subito celebre ponendosi all'attenzione della vita
musicale europea; fu in questa occasione che conobbe Claude Debussy con cui rimase sempre
amico fino alla scomparsa del compositore francese avvenuta nel 1918.

Il musicista si trasferì in Svizzera con la famiglia e l'anno seguente, con Petruška, realizzato ancora
per Djagilev, compose un'opera in cui le sue caratteristiche musicali si delinearono nettamente. Sarà
però con La sagra della primavera che il musicista si porrà all'attenzione mondiale: la sua prima, il
29 maggio 1913 (coreografia di Vaslav Nijinskij), resterà famosa come La battaglia del Sacre,
ottenendo un successo clamoroso tra liti furibonde, insulti, denigrazioni ed entusiasmo delle
avanguardie.

Nel 1914 Stravinskij fece l'ultimo viaggio in Russia, dopo di che, a causa dello scoppio della guerra
e successiva Rivoluzione d'ottobre, fu costretto a stabilirsi in Svizzera, lasciando tutti i suoi beni in
patria, e ad affrontare notevoli difficoltà economiche. In questo difficile periodo fu aiutato da amici,
in seguito riuscì poi ad attirare i committenti e molte delle sue opere furono da allora scritte per
occasioni specifiche e generosamente retribuite.

Dopo la Sagra Stravinskij abbandonò le composizioni scritte per grandi compagini orchestrali e
realizzò opere per un numero ristretto di esecutori; questo era dovuto sia al fatto che con la guerra
l'attività dei Balletti russi si era interrotta, sia perché gli scarsissimi mezzi finanziari non
permettevano grosse realizzazioni. Con due amici, lo scrittore Charles-Ferdinand Ramuz e il
direttore d'orchestra Ernest Ansermet, realizzò allora uno spettacolo ambulante, un piccolo teatro da
spostare di paese in paese; nacque così l'Histoire du soldat nel 1918. Il progetto di girare attraverso
la Svizzera con lo spettacolo fu però bruscamente interrotto dall'epidemia di influenza spagnola che
colpì Stravinskij e gran parte dei suoi amici e collaboratori. Una volta guarito, durante un viaggio a
Parigi, il musicista riprese i contatti con Djagilev che si adoperò per farlo di nuovo collaborare con i
Balletti russi.

Il musicista mostrava un inesauribile desiderio di imparare ed esplorare l'arte e la letteratura ed era


sempre disponibile a lavorare con artisti e musicisti; questo desiderio si manifestò in molte delle
sue collaborazioni parigine. Djagilev gli propose di realizzare un nuovo balletto su musiche di
Pergolesi; per realizzarlo Stravinskiji collaborò con Pablo Picasso per l'allestimento delle scene e
per i costumi; la nuova opera, Pulcinella, terminata nel 1920, segnò l'inizio del suo periodo
neoclassico.

Vita in Francia

Dopo la prima di Pulcinella Stravinskij lasciò definitivamente la Svizzera per stabilirsi in Francia,
soggiornando inizialmente in Bretagna a Carantec. Questo avvenimento segnò notevolmente la sua
vita e la sua attività, aprendo un nuovo periodo più vasto per conoscenze, viaggi e interessi e
portandolo anche a essere interprete delle proprie composizioni in molti concerti.
Relativamente alto di statura, ma non certo un bell'uomo secondo le convenzioni comuni,
Stravinskij era tuttavia molto fotogenico, come dimostrano numerose sue fotografie; era
indubbiamente un "uomo di mondo" ed avendo innumerevoli conoscenze si chiacchierò molto su
sue presunte avventure con donne della buona società, tra cui anche Coco Chanel. Stravinskij era
però molto legato alla famiglia e devolveva gran parte del suo tempo e delle sue entrate alla moglie
e ai figli. Il musicista rimase sposato con Katerina fino al 1939 quando lei morì di tubercolosi, ma il
legame sentimentale più significativo fu quello con la seconda moglie Vera de Bosset con la quale
intrecciò una relazione già durante il primo matrimonio. Quando Stravinskij e Vera si conobbero,
nei primi anni venti, lei era sposata con il pittore e scenografo Serge Sudeikin; la loro relazione
divenne ben presto seria e Vera decise di abbandonare il marito. Quando Katerina ne venne a
conoscenza accettò la cosa come un fatto inevitabile. Dopo la sua morte, i due si sposarono a New
York nel 1940.

Nell'inverno del 1920 si trasferì con la famiglia a Garches dove terminò l'anno seguente le Sinfonie
di strumenti a fiato scritte in memoria di Debussy. Nell'estate del 1921 soggiornò per diverse
settimane a Londra dove fu rappresentata La sagra della primavera; qui con Djagilev progettò un
nuovo lavoro basato su una novella di Puškin che sarà l'opera buffa Mavra, ultima composizione di
ispirazione russa del musicista.
Alla fine dell'estate 1921 Stravinskij si trasferì di nuovo spostandosi ad Anglet presso Biarritz;
durante l'inverno lavorò ancora a Mavra e fece diversi viaggi a Parigi per impegni presi con la casa
musicale Pleyel e a Montecarlo dove si stavano facendo le prove di un altro suo balletto, Renard.
Nel 1923 vi fu la prima rappresentazione de Les noces, opera a cui lavorava già da alcuni anni. Il
clima oceanico di Biarritz non piaceva molto a Stravinskij e per questo motivo egli decise di
spostarsi ancora, a Nizza, nell'autunno del 1924.
Il 1925 fu l'anno del primo viaggio del compositore negli Stati uniti dove rimase due mesi per una
serie di concerti. Rientrato in Francia compose tra il 1926 e il 1927 l'opera-oratorio Oedipus Rex,
collaborando per il testo con Jean Cocteau.
Viaggiando moltissimo, Stravinskij divenne presto un cosmopolita, rivelando un notevole istinto
per le questioni di lavoro e dimostrando di sentirsi a proprio agio e rilassato in molte grandi città.
Parigi, Venezia, Berlino, Londra e New York: tutte ospitarono sue apparizioni con successo, sia
come pianista che come direttore d'orchestra. La maggior parte delle persone che lo conoscevano
per via delle sue performance pubbliche ne parlava come di una persona cortese, gentile e
servizievole. Otto Klemperer, che conosceva bene anche Schoenberg, diceva di aver sempre trovato
Stravinskij molto più cooperativo e più facile da trattare.
Il gusto di Stravinskij in campo letterario era ampio e rifletteva il suo costante desiderio di nuove
scoperte. I testi e le fonti per il suo lavoro partirono da un iniziale interesse nel folklore russo,
attraversarono gli autori classici e la liturgia latina, per fermarsi alla Francia contemporanea (André
Gide, con Perséphone), alla letteratura inglese: Auden, Thomas Stearns Eliot, la poesia medievale e
anche alle opere di Shakespeare.

Nel periodo fra le due guerre la sua attività fu molto intensa. Nel 1928 terminò la stesura di un
balletto neoclassico, Apollon Musagète che fu realizzato con la coreografia di George Balanchine.
Nel 1930 compose la Symphonie de Psaumes, una delle sue opere più conosciute. Dopo tre anni
passati a Voreppe nell'Isère, si stabilì definitivamente a Parigi nel 1934 e acquisì la cittadinanza
francese. In questo periodo scrisse Perséphone (1934), Jeu de cartes (1936), il Concerto in mi
bemolle "Dumbarton Oaks" (1938).
Gli anni fra il 1939 e il 1940 furono i più bui per il compositore: vennero infatti a mancare, a breve
distanza l'una dall'altra, la madre, la moglie e la figlia Mika; egli stesso fu a lungo ricoverato per
una grave tubercolosi. Le sue composizioni però non risentirono di queste vicende; le implicazioni
emotive delle sue esperienze umane non influenzarono mai la sua musica, infatti l'aspetto
sentimentale non ha mai fatto parte della sua concezione dell'arte.

Vita negli Stati Uniti

Nel 1939 partì per gli Stati Uniti dove fu chiamato per tenere un corso di poetica musicale ad
Harvard. Sorpreso dagli eventi bellici si stabilì prima a Los Angeles e poi ad Hollywood e divenne
cittadino naturalizzato nel 1945, vivendovi fino alla sua morte nel 1971. Nel luglio 1941 realizzò,
come aveva già fatto nel 1919 con La Marsigliese, un arrangiamento dell'inno americano The Star-
Spangled Banner eseguendolo in prima esecuzione a Boston il 14 ottobre di quell'anno; poiché le
leggi del Massachusetts proibivano qualsiasi trascrizione dell'inno, Stravinskij non poté più
eseguirlo, a seguito anche di un intervento della polizia locale. Pur essendo russo, s'era adeguato già
a vivere in Francia, ma traslocare ora così lontano all'età di cinquantotto anni dava una prospettiva
veramente diversa. Per un certo periodo conservò un circolo di amici e conoscenti emigrati russi,
ma infine si rese conto che questo suo comportamento non avrebbe favorito o sostenuto la sua vita
intellettuale e professionale in quel paese. Mentre progettava di scrivere un'opera con W.H.Auden,
il futuro The Rake's Progress, il bisogno di acquisire maggior familiarità con il mondo anglofono
coincise con il suo incontro con il direttore d'orchestra e musicologo Robert Craft. Craft visse con
Stravinskij fino alla sua morte, in qualità di interprete, cronista, assistente direttore e factotum per
infiniti compiti musicali e sociali. A differenza di molti altri compositori Stravinskij non si dedicò
mai all'insegnamento, per sua stessa ammissione riteneva di non avere alcuna inclinazione al
riguardo[7]. Nel 1951 con l'opera The Rake's Progress, Stravinskij giunse al culmine e al termine
del periodo neoclassico.
Reinventandosi ancora una volta egli si accostò alla tecnica dodecafonica, soprattutto dopo la
conoscenza dell'opera di Anton Webern, compiendo un cammino progressivo che, grado per grado,
lo portò a scrivere la Cantata (1952), il Settimino (1953), In memoriam Dylan Thomas (1954), il
Canticum Sacrum nel 1955, il balletto Agon del 1957 e Threni nel 1958. Questa sua "conversione"
suscitò molti clamori e polemiche; in realtà bisogna considerare l'esperienza seriale di Stravinskij
nell'ottica del suo bisogno di acquisire e ripensare modelli già storicizzati; appartenendo ormai al
passato, la dodecafonia fu per lui un esempio da cui attingere e ricreare, scrivendo ex novo, secondo
il suo personalissimo metro, brani musicali come aveva già fatto negli anni precedenti con musiche
di epoche e di autori del passato[8].

Viaggiò moltissimo, soprattutto in Europa, come direttore di concerti di sue composizioni. Nel 1958
diresse un concerto dedicato alle sue musiche al Teatro La Fenice con l'Orchestra Sinfonica ed il
Coro del Norddeutscher Rundfunk di Amburgo ripreso dalla RAI e Oedipus Rex alla Wiener
Staatsoper. Nel 1962 accettò un invito a ritornare in patria per una serie di sei concerti a Mosca e
Leningrado, ma rimase un emigrato con forti radici in Occidente. Si interessò anche alla scrittura
ebraica scrivendo tra il 1962 e il 1963 la ballata sacra Abramo e Isacco. Continuò a scrivere musica
fin quasi alla fine della sua vita, la sua ultima opera importante sono i Requiem Canticles del 1966;
dal 1967 in poi la sua salute andò man mano peggiorando e subì diversi ricoveri in clinica. Fu
ancora in grado di viaggiare a Parigi e a Zurigo, a dedicarsi a trascrizioni da Il clavicembalo ben
temperato e alla strumentazione di due lieder di Hugo Wolf. Nel 1969 si ammalò di una grave
forma di bronchite, riacutizzazione della vecchia tubercolosi.
Nel 1970, invitato in Italia, annunciò di voler tornare in Europa lasciando la California, facendo
prima tappa a New York in attesa di trasferirsi a Parigi. Un edema polmonare lo costringerà però a
rimanere a New York in un appartamento della Fifth Avenue, da lui appena acquistato, dove si
spegnerà a ottantotto anni nella notte fra il 6 e il 7 aprile 1971 per una crisi cardiaca.

Per sua espressa richiesta, la sua tomba è vicina a quella del suo collaboratore di vecchia data,
Sergej Djagilev a Venezia nel settore ortodosso del cimitero monumentale dell'isola di San Michele.
Secondo Robert Siohan il governo sovietico avrebbe offerto alla famiglia la possibilità di inumare il
corpo a Leningrado, ma la moglie del musicista rifiutò la proposta, certa di essere così fedele ai
desideri del marito.
La sua vita ha racchiuso buona parte del XX secolo, e anche molti degli stili musicali classico
moderni, influenzando altri compositori sia durante che dopo la sua vita. Fu sistemata una stella a
suo nome al numero 6340 di Hollywood Boulevard, all'interno della Hollywood Walk of Fame.

Periodi stilistici

Nella carriera di Stravinskij possono distinguersi a grandi linee tre periodi stilistici.

Il periodo russo
Il periodo neoclassico
Il periodo dodecafonico o seriale

Il periodo russo

Il primo periodo stilistico di Stravinskij prese avvio quando, a vent'anni, conobbe Rimskij-
Korsakov diventando suo allievo di composizione. Dopo una tradizionale Sonata per pianoforte e la
suite Le faune et la bergère, nella Sinfonia in mi bemolle, dedicata al suo maestro, Stravinskij
rivelò, in nuce, sia un'assimilazione del patrimonio musicale con cui era venuto a contatto, sia
alcune delle sue caratteristiche che si manifesteranno in maniera folgorante da lì a poco. Nel 1908
con lo Scherzo fantastique, che presenta ancora influenze dell'impressionismo francese, e con lo
scintillante Feu d'artifice, la personalità del musicista si fa finalmente strada. Nello stesso anno
scrive il Canto funebre per la morte di Rimskij-Korsakov, andato perduto e ritrovato solo nel 2015.
Nel 1909 i suoi lavori vengono notati da Djagilev che decide di affidargli la composizione di un
balletto sulla fiaba russa de L'uccello di fuoco, per la stagione dei Balletti Russi del 1910. L'uccello
di fuoco, presentato a Parigi all'Opéra nel 1910, ebbe un grande successo e rese immediatamente
celebre il compositore. I colori scintillanti devono ancora molto al Rimskij-Korsakov de Il gallo
d'oro, ma l'abilità nella strumentazione, la frenesia quasi "barbara" della musica, il sapiente uso di
combinazioni polifoniche sono tutte caratteristiche dello stile di Stravinskij.
È con il successivo balletto, Petruška del 1911, sempre commissionato da Djagilev, che il
compositore trova definitivamente la sua cifra stilistica. Il dinamismo della musica, l'uso marcato
del ritmo, che impressionò Debussy, l'utilizzo di temi tratti dal folclore popolare russo, la
politonalità ottenuta sovrapponendo due accordi di tonalità diverse, sono solo alcune delle
innovazioni fondamentali che Stravinskij introdusse nella sua partitura. Come già L'uccello di
fuoco, anche Petruška pone l'attenzione sulla tradizione russa.
Nello stesso anno il compositore scrisse una cantata, Le Roi des étoiles, uno dei suoi lavori più
complessi e problematici, di difficile esecuzione che restò per molto tempo misconosciuto.
Sarà però con il suo il terzo balletto, Le Sacre du Printemps del 1913, che Stravinskij otterrà una
fama universale raggiungendo l'apoteosi del suo "periodo russo". Con Le Sacre infatti il musicista
si accosta in maniera decisa alle sue radici russe, prendendo ispirazione da riti e melodie antiche
della sua terra[12]. Nel balletto il compositore mette in scena un rito pagano di inizio primavera
proprio della Russia antica: una giovinetta veniva scelta per ballare fino allo sfinimento e la sua
morte era un sacrificio offerto agli dei per renderli propizi in vista della nuova stagione. Molti i
passaggi famosi, ma due degni di particolare nota: le note d'apertura del pezzo, suonate da un
fagotto con note all'estremo del suo registro, quasi fuori estensione e l'accordo martellato e ripetuto
di otto note eseguito dagli archi e dai corni in controtempo.
La "rivoluzione del Sacre" fu veramente una battaglia a teatro, alla prima rappresentazione, e un
innovamento totale nella musica. La partitura sorprese e scandalizzò con la sua potenza di suono, il
suo ritmo implacabile, per l'allargamento della tonalità che giunge a numerosi passaggi politonali.
L'uso innovativo della dissonanza, le invenzioni timbriche, una partitura che procede per blocchi
sonori in cui non esiste sviluppo delle melodie, sempre solo espresse e ripetute, hanno fatto de Le
Sacre du printemps uno dei punti fermi della musica di ogni tempo.

Dopo alcune brevi composizioni di carattere vocale, tra cui le Berceuses du chat, Stravinskij nel
1914 terminò l'opera lirica Le rossignol di cui aveva già scritto il primo atto nel 1907; da questo
lavoro il musicista ricaverà il poema sinfonico Le chant du rossignol nel 1917.
Sempre nel 1914 il compositore iniziò a comporre Les Noces che terminerà in forma pianistica nel
1917 e definitiva nel 1923. Il lavoro, definito "scene coreografiche russe con canto e musica", ha
per argomento la celebrazione di sposalizi paesani secondo le antiche tradizioni.
Con Renard, storia burlesca cantata e rappresentata, nel 1917 Stravinskij inaugura un nuovo tipo di
rappresentazione, il teatro da camera, genere che troverà il suo esempio più rappresentativo ne
l'Histoire du soldat (1918). L'opera, che è "una storia da leggere, danzare e recitare in due parti",
riassume tutte le esperienze accumulate dal musicista fino ad allora, dall'impressionismo alla
politonalità, dal cabaret al jazz, genere a cui il compositore si stava interessando proprio in quegli
anni.
Alcune delle opere del Periodo russo sono state accostate da alcuni al cubismo; sono state trovate
analogie proprio tra l'evoluzione del linguaggio di Stravinskij e quello di Picasso, accostando
questo periodo del compositore ai periodi rosa e blu del pittore. È comunque difficile stabilire un
parallelismo tra i due artisti; in effetti Stravinskij modifica in una qualche maniera l'armonia
tradizionale con la politonalità, ugualmente Picasso crea un dislocamento dell'unità di un dipinto
con la tecnica cubista, ma l'impatto visivo risulta più forte di quello che può essere l'ascolto di
musica che comunque non rompe totalmente con l'armonia tradizionale.

Al contagio jazzistico non sfuggì Stravinskij che aveva manifestato senza riserve la sua attrazione
per il ragtime più autentico. L'influsso sul compositore si palesa maggiormente nella sua Histoire
du soldat, ancor di più nel suo Ragtime per 11 strumenti e in Piano rag music del 1919: brano -
quest'ultimo - che il grande pianista polacco Arthur Rubinstein rifiutò di suonare, anche se scritto e
pensato per lui dall'autore, perché troppo percussivo per la propria indole.

Il periodo russo stravinskiano termina con l'opera buffa Mavra composta fra il 1921 e il 1922 tratta
da un lavoro di Puškin; secondo le intenzioni del musicista Mavra fu concepita nella scia di una
tradizione russo-italiana, preannunciando alcuni elementi del suo accostamento alla musica
occidentale.

Il periodo neoclassico

La fase successiva dello stile compositivo dell'artista, brevemente sovrapposta alla precedente, è
inaugurata dal balletto Pulcinella (1920), su musiche di Giovanni Battista Pergolesi. Quest'opera
presenta il tratto distintivo di questo periodo: il ritorno di Stravinskij agli stilemi della musica
antica. Come già accaduto immediatamente dopo la realizzazione de La sagra della primavera, in
questa nuova fase il musicista non utilizza più le grandi orchestre impiegate per i primi balletti;
anche in queste nuove opere, scritte tra il 1920 e il 1951, Stravinskij infatti opta per organici
variamente ridotti, tali da conferire a ciascuna composizione una "tinta" caratteristica e unica.

Il Neoclassicismo di Stravinskij non è una rivisitazione del diatonismo come in Paul Hindemith, ma
è una contaminatio con il suo stile ritmico e politonale precedentemente affermato. Sarà in questa
fase che Stravinskij si opporrà all'atonalismo di Arnold Schönberg, che pure aveva già quasi
sfiorato nel 1913 con le Tre poesie della lirica giapponese per voce e strumenti. Erroneamente
Stravinskij viene spesso etichettato in maniera totale come neoclassico, ma ciò accade forse perché
il periodo neoclassico è uno dei più fertili per il compositore.

Dopo Pulcinella Stravinskij utilizzò, nella maggior parte dei suoi lavori, forme musicali largamente
note e consuete: sinfonie, concerti, oratori, balletti classici, opera lirica, ma sempre alla sua
maniera, senza rifarsi a esse con rigorosità, alludendo, se mai, all'idea che i titoli suggerivano,
rendendosi conto che nel XX secolo non sarebbe stato possibile per un musicista replicare
esattamente forme del passato[2]. Seguono anche altre composizioni che rievocano atmosfere russe
come Sinfonie di strumenti a fiato (1920), scritte in onore di Debussy e l'Ottetto per strumenti a
fiato (1923). Altre opere hanno per protagonista il pianoforte come il Concerto per pianoforte e fiati
terminato nel 1924, una Sonata e la Serenata in La del 1925.
Tra il 1926 e il 1927 Stravinskij scrisse l'opera-oratorio su testo in latino Oedipus Rex a cui seguì
l'anno seguente il balletto Apollon musagète. Quest'ultimo lavoro, basato solo su figure della danza
classica, dal Pas d'action al Pas de deux, riprende anche nella metrica il modello alessandrino e
nell'argomento la mitologia classica con Apollo e le Muse[18]; l'opera rispecchia la predilezione del
musicista, fra tutte le forme musicali del passato, per il balletto classico motivata soprattutto dalla
sua aspirazione all'ordine e a un'armonia superiore.
Queste motivazioni si ritrovano nel successivo balletto, Le baiser de la fée; l'amore del compositore
per Čajkovskij lo porta a ricreare temi e atmosfere in cui la nostalgia del passato è più evidente che
in qualsiasi altro lavoro.

Lavori importanti di questo periodo sono tre sinfonie: la Sinfonia di Salmi (1930) per coro e
orchestra in cui Stravinskij rivela un aspetto della sua personalità, quello religioso, a cui tornerà più
volte negli anni successivi. Il lavoro è particolare, con due pianoforti che fanno da scheletro
armonico di sostegno all'orchestra; la Sinfonia in do (1940) e la Sinfonia in tre movimenti (1945)
danno una nota di innovazione al genere classico della sinfonia. Perséphone (1934), melodramma
per recitante, tenore, coro e orchestra è un'opera particolare che per certi tratti prosegue il lavoro
delineato in Oedipus Rex.
Con Jeu de cartes nel 1936 Stravinskij ritorna al balletto e crea un'opera dove le rivisitazioni e le
allusioni a musiche altrui sono numerose, dal valzer viennese a Rossini a Čajkovskij. Seguirono
numerosi altri lavori, tra cui il Concerto in mi bemolle "Dumbarton Oaks", le Danses concertantes
(1941-1942), l'Ebony Concerto (1945]). Con il successivo balletto Orpheus (1948) Stravinskij
ritorna a motivi di ispirazione dal mondo classico e dai miti greci. Dello stesso anno la Messa, una
delle poche opere scritte senza commissione, esprime la profonda spiritualità del compositore.

Il vertice di questo periodo è l'opera La carriera di un libertino (The Rake's Progress) del 1951,
melodramma in tre atti messo in scena in prima rappresentazione assoluta al Teatro La Fenice di
Venezia dal Teatro alla Scala di Milano con Elisabeth Schwarzkopf e diretto dal compositore.
Quest'opera, scritta su un libretto di Auden e Chester Kallman, basata sugli schizzi di Hogarth,
racchiude tutto ciò che il compositore aveva perfezionato nei precedenti 30 anni del suo periodo
neoclassico. La musica è diretta ma al tempo stesso capricciosa; prende spunto dall'armonia tonale
classica che intervalla con sorprendenti dissonanze; contemporaneamente ritorna alle opere e ai
temi di Monteverdi, Gluck e Mozart. L'opera, oltre a cavatine e cabalette virtuosistiche e pezzi
d'insieme (duetti, terzetti e quartetti), ripropone anche il recitativo secco al clavicembalo.
Stravinskij con quest'opera raggiunse in modo assolutamente evidente il ritorno al passato nelle sue
forme musicali e difficilmente avrebbe potuto continuare su questa strada; egli stesso ammise,
mentre scriveva l'opera, che "il Rake's Progress era una fine" e concluse che la sua rivisitazione del
passato non poteva più progredire, avendo raggiunto il "limite consentito", considerazione che lo
portò a mutare radicalmente stile, avvicinandosi al serialismo weberniano.

Il periodo dodecafonico o seriale

Durante tutto il suo periodo neoclassico Stravinskij fu considerato come il portabandiera della
tonalità opponendosi in tal modo alla dissoluzione dell'armonia tradizionale attuata dai musicisti
della Scuola di Vienna[12]. Molte furono le polemiche che si scatenarono negli anni nel mondo
musicale fra i due gruppi di partigiani pro Stravinskij e pro Schönberg, creando un divario difficile
da colmare. Proprio per questo la "conversione" di Stravinskij suscitò grande scalpore. Il suo
avvicinamento alla musica seriale, e in particolare di Webern, avvenne gradualmente, grazie anche
all'influenza e ai consigli di Robert Craft.

Con la Cantata, scritta fra il 1951 e il 1952, il compositore fece il primo passo sulla strada della
nuova tecnica pur mantenendo l'uso di una tonalità "allargata". Questo procedimento si accentuò
nel Settimino terminato nel 1953. Nello stesso anno scrisse Three Songs from William Shakespeare
dove, in ogni canto, attua una vera strutturazione seriale. Con le opere successive, In memoriam
Dylan Thomas (1954) per tenore, archi e quattro tromboni, e Canticum Sacrum (1955) per tenore,
baritono, coro e orchestra proseguì sulla via intrapresa, come se stesse sperimentando e
perfezionando il sistema, senza abbandonare, tuttavia, l'armonia tradizionale. Sempre del 1955 è
Greeting Prelude scritta per gli 80 anni di Pierre Monteux.
Un'importante opera di transizione in questo periodo fu un ritorno al balletto: Agon, per dodici
ballerini, composto tra il 1953 e il 1957 in cui richiami modali legano questo lavoro a musiche del
passato. Agon è in un certo qual modo un compendio dell'arte di Stravinskij, contiene infatti molti
spunti che si ritrovano in gran parte dell'arco della sua attività compositiva: svolazzi ritmici e
sperimentazioni, ingenuità armoniche e un'orchestrazione decisa e raffinata. Queste caratteristiche
sono quelle che fanno la produzione di Stravinskij così unica se comparata con le opere di
compositori seriali a lui contemporanei.

Sarà con Threni, id est Lamentationes Jeremiae Prophetae per soli, coro misto e orchestra, che
Stravinskij realizzò il primo lavoro interamente dodecafonico. Altre opere importanti del periodo
sono Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD Annum (1960) e la cantata A Sermon, a
Narrative and a Prayer del 1961; il musicista scrisse anche una trascrizione del corale di Johann
Sebastian Bach Von Himmel Hoch. Con i Movimenti per pianoforte e orchestra Stravinskij creò una
delle sue composizioni più complesse che si può considerare un vero e proprio omaggio all'opera di
Anton Webern.
The Flood (1962) è il primo lavoro scritto da Stravinskij per la televisione ed è un'opera complessa
che comprende musica, canto, danza e recitazione e dove l'elemento seriale dialoga con musica più
tradizionale.
Dopo Anthem per coro a cappella (1962) e l'Introitus del 1965, il musicista scrisse, fra il 1965 e il
1966, la sua ultima opera importante, i Requiem Canticles per contralto, basso, coro e orchestra.
L'opera, tratta dalla Missa pro Defunctis, presenta un contrappunto rigorosissimo e urti di strutture
armoniche; con essa Stravinskij recupera richiami tonali ed elementi arcaici in una musica
altamente drammatica che testimonia la sua fede profonda.

Questo periodo compositivo di Stravinskij fu un importante punto di svolta, considerando che era
stato un oppositore della scuola schönberghiana; egli ora vedeva nell'utilizzo di questa tecnica un
formale e rigoroso recupero delle antiche forme contrappuntistiche rinascimentali, particolarmente
fiamminghe, a cui il serialismo è legato e che lo aveva portato a comporre il Monumentum pro
Gesualdo. Stravinskij si accostò alla musica seriale quando questa ormai era acquisita nell'ambito
musicale, era praticamente già "storica"; questa sua fase si può quindi vedere quasi come un
neoclassicismo indiretto.

Stile

La produzione di Stravinskij è quanto mai eterogenea. Egli impiegò stili diversi e si cimentò in tutti
i generi musicali. Reinventò la forma del balletto e incorporò nel suo linguaggio musicale culture e
tradizioni tra loro lontane, nel tempo e nello spazio. Stravinskij cominciò a ripensare il suo uso del
motivo e dell'ostinato già ai tempi del balletto L'Uccello di fuoco (L'Oiseau de feu), in cui si nota
anche un uso sapiente e innovativo del silenzio, anche se l'uso di questi elementi musicali raggiunse
l'apice nella Sagra della primavera (Le Sacre du printemps).

Lo sviluppo del motivo musicale, che usa una distinta frase musicale successivamente alterata e
sviluppata lungo un brano, ha le sue radici nelle sonate dell'era di Mozart. Il primo maggiore
innovatore in questo metodo fu Beethoven; il celebre motivo d'apertura della Quinta Sinfonia
riappare in tutta l'opera con sorprendenti e fresche variazioni. Ad ogni modo, l'uso da parte di
Stravinskij dello sviluppo dei motivi musicali fu unico; ne Le Sacre du printemps introduce
variazioni "additive" che aggiungono o sottraggono una nota a un motivo, ma per la maggior parte
le linee melodiche rimangono invariate, a cambiare sono invece i rapporti di armonia, ritmo e
strumentazione.

Lo stesso balletto è degno di nota per il suo uso massiccio dell'ostinato. Il passaggio più conosciuto
è formato da un ostinato di 8 note da parte degli archi accentato da 8 corni che si può ascoltare nella
sezione "Gli auguri primaverili". Questo è forse il primo caso in musica di un ostinato "allargato"
che non viene usato né per variazione né per accompagnamento della melodia. In altri momenti in
quest'opera Stravinskij "nasconde" altri ostinato opposti tra loro, senza riguardo all'armonia o al
tempo, creando uno zibaldone musicale, equivalente di un quadro cubista.

Questi passaggi sono da tenere in considerazione non solo per la loro qualità di pastiche ma anche
per la loro lunghezza, in quanto il Nostro li tratta come una sezione musicale completa e separata.
L'orchestrazione è postromantica e conta 5 flauti, 4 oboi, 1 corno inglese, 5 clarinetti, 4 fagotti, 1
controfagotto, 8 corni, 5 trombe, 3 tromboni, 2 tube e un organico vastissimo di percussioni (2
percussionisti ai timpani). Stravinskij non è paragonabile a nessun compositore russo del periodo
poiché da un punto di vista ritmico e armonico è più vicino a Béla Bartók, anche se c'è una
fondamentale differenza di carattere musicale, essendo Bartók un etnomusicologo. Queste tecniche
sopra citate anticipano di alcuni decenni i lavori minimalisti di compositori come Terry Riley e
Steve Reich.

Gli scritti

Stravinskij pubblicò sia le sue memorie dall'infanzia al 1935 in Chroniques de ma vie, dove viene
registrata una descrizione della sua vita, del suo percorso stilistico, creativo ed ideologico, sia le
sintesi delle lezioni che tenne alla Harvard University in Poétique musicale del 1942 in cui l'autore
affronta la genesi di un'opera musicale dissertando anche sull'evoluzione della musica russa e sui
problemi dell'esecuzione. Esistono inoltre alcuni brevi scritti, databili fra il 1921 e il 1940, che
Stravinskij non pubblicò, ma che sono stati ritrovati, raccolti e pubblicati da Eric Walter White nel
suo testo sul compositore, Strawinsky the composer and his works, in una appendice dal titolo
Various writings reprinted.

Robert Craft raccolse e pubblicò sei volumi di interviste con il compositore: Conversations with
Igor Stravinsky (1959), Memories and Commentaries (1960), Expositions and Developments
(1962), Dialogues and a Diary (1963), Themes and Episodes (1967) e Retrospectives and
Conclusions (1969); i primi tre sono stati pubblicati in italiano da Einaudi col titolo Colloqui con
Stravinsky (1977). A questi volumi di interviste va aggiunto quello pubblicato dopo la morte del
compositore, Themes and Conclusions (1972).

Citazioni e rivisitazioni

Stravinskij usò la tecnica, oggigiorno molto attuale, che possiamo considerare addirittura
postmoderna, della citazione musicale diretta e dell'imitazione già nel 1920 nel balletto Pulcinella.
Basandosi sulla musica di Pergolesi, alcune volte riproducendola direttamente e altre
semplicemente reinventandola, crea un'opera nuova e "fresca". Userà la stessa tecnica nel balletto Il
bacio della fata del 1928. Qui è la musica di Čajkovskij, nello specifico alcuni brani non orchestrali,
che Stravinskij utilizza citandoli o rivisitandoli unitamente ad altri suoi originali ispirati allo stile
del compositore che ammirava. Questo "prestito" compositivo sarà molto in voga negli anni
sessanta, come nella Sinfonia di Luciano Berio.

L'utilizzo del materiale popolare

Ci furono altri compositori nella prima metà del XX secolo che presero in prestito la musica
tradizionale della loro patria d'origine, usando questi temi nelle loro opere. Esempi degni di nota
sono Béla Bartók e Zoltán Kodály. Già in Le Sacre du Printemps Stravinskij riutilizza temi
popolari, in gran parte derivati da una sua memoria inconscia risalente al periodo giovanile passato
in Russia. Alcuni temi vengono spogliati fino ai loro elementi più basilari, sola melodia, spesso li
contorce e modifica oltre ogni possibile riconoscimento con note aggiuntive, inversioni,
diminuzioni e altre tecniche. Lo fa così magistralmente, in effetti, che solo con studi recenti, come
Stravinsky and the Russian Traditions: A Biography of the Works Through Mavra di Richard
Taruskin, gli studiosi sono riusciti a ricostruire il materiale originale dell'ispirazione di qualche
brano di Le Sacre.

Innovazioni orchestrali

Il periodo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo fu un tempo straripante di innovazioni
orchestrali. Compositori come Anton Bruckner e Gustav Mahler erano ben considerati per le loro
abilità nel comporre per questo mezzo. A loro volta, vennero influenzati dall'espansione
dell'orchestra tradizionale classica di Richard Wagner che promuoveva un uso di grandi masse di
strumenti, spesso di tipo inusuale.

Stravinskij continuò questa tendenza romantica di scrivere per orchestre enormi, solo nei suoi primi
balletti; ma fu quando cominciò ad allontanarsi da questa via che iniziò a innovare con
l'introduzione di combinazioni insolite di strumenti. Ad esempio, ne L'Histoire du Soldat gli
strumenti usati sono clarinetto, fagotto, trombone (basso e tenore), tromba, violino, contrabbasso e
percussioni, un insieme alquanto sorprendente per quel periodo (1918).

Tutto ciò diverrà praticamente uno stereotipo nella musica del dopoguerra. Un'altra modifica degna
di nota attribuibile in parte a Stravinskij è lo sfruttamento dei suoni estremi raggiungibili dagli
strumenti musicali. Il passaggio più famoso in questo campo è l'inizio de Le Sacre du Printemps,
dove il compositore usa le note sovracute del fagotto per simulare il risveglio di un mattino
primaverile.
Si deve anche notare che compositori come Anton Webern, Alban Berg e il succitato Schönberg
avevano già esplorato alcune di queste tecniche orchestrali e musicali all'inizio del XX secolo,
anche se la loro influenza sulle generazioni successive di musicisti fu eguagliata, se non superata,
da quella di Stravinskij.

La critica

"La musica di Le Sacre du Printemps oltrepassa ogni descrizione verbale. Dire che è un suono
orrendo è un eufemismo. Vi si può certamente riconoscere un ritmo incitante. Ma in pratica non ha
nessuna relazione con la musica come la maggior parte di noi la considera." Musical Times,
Londra, 1º agosto 1913 (Nicolas Slonimsky, 1953)

"Tutti i segni indicano una forte reazione contro l'incubo del rumore e dell'eccentricità che era tra i
lasciti della guerra....Cosa ne è stato delle opere che formavano il programma del concerto di
Stravinskij che ha creato tale agitazione, solo qualche anno fa? Praticamente la totalità sono già
archiviate, e lì rimarranno fino a quando qualche nevrotico sfinito e spossato sentirà nuovamente il
desiderio di mangiare cenere e riempirsi lo stomaco con un vento orientale" Musical Times, Londra,
ottobre 1923 (ibid.)

Il compositore Constant Lambert (nel 1936) descrisse opere come L'Histoire du Soldat come
contenenti "essenzialmente astrazione a sangue freddo". Inoltre, i "frammenti melodici (nella stessa
opera) sono loro stessi senza alcun significato. Sono puramente successioni di note che possono
essere divise in modo conveniente in gruppi di 3, 5 o 7 e sistemate contro altri gruppi matematici",
e la cadenza per l'assolo di percussioni è "purezza musicale...raggiunta attraverso una specie di
castrazione musicale". Paragona la scelta di Stravinskij "delle più monotone e meno significanti
frasi" a quelle di Gertrude Stein nel suo libro del 1922 Helen Furr e Georgine Skeene "Everday they
were gay there, they were regularly gay there everyday", "i cui effetti sarebbero ugualmente
apprezzabili da qualcuno con nessuna conoscenza dell'inglese",

Nel suo libro Philosophy of Modern Music (1948), Theodor Adorno definisce Stravinskij un
acrobata, un funzionario statale, un manichino da sarta, psicotico, infantile, fascista, e devoto solo
al denaro. Parte degli errori del compositore, nell'opinione di Adorno, era il suo neoclassicismo, ma
più importante era "lo pseudomorfismo della pittura" della sua musica, che riproduceva il tempo
spazio piuttosto che il tempo durata di Henri Bergson. "Un inganno caratterizza tutti gli sforzi
formali di Stravinskij: il tentativo della sua musica di ritrarre il tempo come in un dipinto di circo e
di presentare i complessi temporali come fossero spaziali. Questo inganno, comunque, presto si
esaurisce". (1948)

In anni recenti, Mario Baroni ha rivalutato la poetica stravinskijana attribuendole un fondo di


assoluto pessimismo, il pessimismo «di un grande artista che celebra la sua sfiducia nelle funzioni
della sua arte e lo dichiara a un pubblico che era ancora così ingenuo da credere a quelle romantiche
fandonie». Sostanzialmente, al di là delle intenzioni stesse del musicista, la musica di Stravinskij
costituisce uno sberleffo e una rottura quasi perfida del quadro culturale borghese del primo
Novecento.

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