La guerra di Hemingway
Nel giugno 1918 lo scrittore americano, giovanissimo, era sul Piave come autista della Croce rossa. Ferito e ricoverato a Milano, raccontò quel periodo nel suo primo romanzo, "Addio alle armi"
Il titolo del libro è Addio alle armi ed eccetto per tre anni c’è stata sempre una guerra di qualche tipo da quando è stato scritto. Alcuni erano soliti dire: perché quest’uomo è così preoccupato e ossessionato dalla guerra? E ora, dal 1933, forse è chiaro perché uno scrittore dovrebbe essere interessato al costante, prepotente, omicida, sciatto crimine della guerra.
Ernest Hemingway scriveva queste righe nel 1948 nella prefazione ad Addio alle armi, il suo primo romanzo, uscito originariamente nel 1929 e ispirato alle esperienze vissute in prima persona in Italia, durante la Prima guerra mondiale. Ma Addio alle armi è un romanzo, appunto, mentre da qualche anno abbiamo accesso alle lettere che Hemingway scrisse nel 1918, dal Piave e poi dall’ospedale di Milano dove fu ricoverato dopo essere stato ferito al fronte. Le lettere, scritte da un giovanissimo Hemingway, offrono un punto di vista molto diverso rispetto a quello che troviamo nel romanzo.
Lo scrittore americano era arrivato sul fronte italiano a 19 anni, con l’idea che la guerra fosse una grande avventura che non doveva assolutamente perdersi: “Non potrei guardare nessuno in faccia dopo la guerra senza averne fatto parte”, scriveva prima di partire, nel 1917, alla sorella Marcelline. Al suo arrivo in Italia, lo spirito che lo animava era di totale incoscienza, allegria e spensieratezza: “Mi sto divertendo moltissimo!!!”, scriveva in una cartolina a un amico mentre andava verso il Piave. Mi ricorda molto il modo in cui Stendhal, anche lui giovanissimo, aveva vissuto il suo arrivo in Italia con le armate di Napoleone: evidentemente dal 1800 fino alla Prima guerra mondiale l’idea che un ragazzo poteva avere della guerra non era cambiata di molto.
Hemingway aveva tentato varie strade per farsi mandare in Europa, ma era troppo miope per arruolarsi nell’esercito, così si era offerto come volontario per la Croce rossa americana: fu preso come autista di ambulanze e all’inizio del giugno 1918 arrivò a Milano. Ebbe il suo battesimo del fuoco come volontario della Croce rossa a Bollate, in provincia di Milano, dove una bomba austriaca aveva fatto esplodere una fabbrica di munizioni e ucciso molte operaie. Hemingway poi prese spunto da questo episodio per scrivere il racconto Morte nel pomeriggio (1923).
Inizialmente assegnato a un posto di ricovero a Schio (Vicenza)1, Hemingway voleva vedere il fronte più da vicino. Il desiderio fu esaudito dall’esercito italiano, che lo spedì sul Piave, a portare in bicicletta cioccolata, sigarette e posta ai soldati in trincea.
Se qualcuno mi avesse detto […] l’anno scorso che nel giro di un anno mi sarei trovato seduto davanti a una ridotta in una bella trincea a 20 yard dal fiume Piave e a 40 yard dalle linee austriache, ad ascoltare le bombe piccole piagnucolare nell’aria e quelle grandi fare scheeeeeeeeek Boom e ogni tanto una mitragliatrice fare tick a tack a tock, avrei detto “Prendi un altro sorso”.
Durante una di queste spedizioni, l’8 luglio del 1918, un colpo di mortaio esplose proprio vicino a dove lo scrittore stava distribuendo cioccolata e sigarette. Hemingway fu scaraventato al suolo dall’esplosione e ricoperto di terra; un soldato vicino a lui morì sul colpo; a un altro furono tranciate entrambe le gambe. Un terzo soldato italiano fu ferito gravemente, ma quando lo scrittore riprese conoscenza se lo caricò sulle spalle e lo portò al primo posto di soccorso, sotto il fuoco delle mitragliatrici austriache, guadagnandosi una medaglia al valore d’argento da parte dell’esercito italiano.
Anche Hemingway però era stato colpito: ben 227 ferite provocate dall’esplosione, ma anche due proiettili di mitragliatrice conficcati nel ginocchio e nel piede destro. Così lo scrittore venne trasportato a Milano, all’ospedale della Croce rossa americana2.
Milano è un tesoro di città. Direi che è la più moderna e vivace città d’Europa. Di certo diventa molto calda però. Abbiamo un sacco di bevande fresche però e spostano il mio letto fuori, sulla veranda, sotto il tendone. Dal nostro portico qui si riesce a vedere la cupola della cattedrale. È molto bella. Come l’interno di una grande foresta. […] Comunque preferisco Notre Dame.
Inizialmente avevo deciso di non inserire Hemingway tra i viaggiatori di cui mi sto occupando nel mio fumetto. Un po’ perché le sue opere sono ancora coperte da diritti d’autore e un po’ per fissare un limite: i viaggi in Italia degli artisti, volendo, continuano anche oggi. Però il mio fumetto è tutto costruito su associazioni, e quelle tra Stendhal ed Hemingway sono troppo perfette per poterle ignorare. Entrambi ebbero in Italia il proprio battesimo del fuoco, ed entrambi si innamorarono a Milano. I disegni che trovate qui intorno vengono dalle tavole che sto disegnando su Hemingway.
A Milano, inizialmente, il morale di Hemingway rimase alto, o almeno nelle lettere alla famiglia minimizzava quanto accaduto, scrivendo che le ferite stavano guarendo bene e che si trovava in “un fiore di ospedale”, dove c’erano circa 18 infermiere americane a prendersi cura di quattro pazienti. Scriveva anche di non ricordare quasi nulla. Difficile sapere se mentisse a fin di bene, anche perché il suo caso era per così dire “pubblico” - “sono il primo americano ferito in Italia”, scriveva - e se ne stavano occupando giornali americani come il Kansas City Star o l’Oak Leaves.
Poco a poco però il trauma subito cominciò a manifestarsi nelle lettere; in alcune Hemingway descrive in dettaglio l’episodio del suo ferimento.
Nelle trincee durante un attacco, quando una bomba va a segno i tuoi compagni vengono spiaccicati tutti sopra di te. Spiaccicati è letterale.
Le 227 ferite che ho ricevuto dal mortaio sul momento non mi facevano male per niente, solo il mio piede sembrava che fosse in uno stivale di gomma pieno d’acqua. Acqua calda. E il mio ginocchio si comportava in modo strano. Il proiettile di mitragliatrice mi faceva sentire come se una palla di neve ghiacciata avesse colpito la mia gamba. Ma mi rialzai e portai il mio ferito al rifugio. Lì sono in pratica svenuto. L’italiano che avevo con me aveva sanguinato sopra tutto il mio cappotto e i miei pantaloni sembravano come se qualcuno ci avesse fatto dentro della gelatina e poi avesse fatto dei buchi per farla uscire.
In una lettera alla madre Hemingway diceva di parlare italiano “come un milanese nato” e che faceva spesso da interprete per l’ospedale. Nel frattempo cominciava ad affiorare una certa maturità: “Sono immensamente più vecchio”, “Sono circa 100 anni più vecchio”, scriveva ad esempio alla sorella.
Questa guerra ci rende molto meno sciocchi di quanto eravamo. Per esempio italiani e polacchi. Penso che gli ufficiali di queste due nazioni siano gli uomini migliori che abbia mai conosciuto. Non ci sarà più una parola come “stranieri” dopo questa guerra per me.
In altri passi emerge invece la sensazione di sentirsi invulnerabile.
Non preoccuparti per me perché è stato definitivamente provato che non posso essere ucciso. E andrò sempre dove posso fare del bene, sai.
L’epidemia di influenza [la spagnola] è finita qui. Sono morti a migliaia - ma io non l’ho avuta.
Nell’ospedale milanese Hemingway si innamorò di un’infermiera, Agnes von Kurowsky, che fu poi il modello per la Catherine Barkley di Addio alle armi. Nonostante l’episodio che l’aveva coinvolto, Hemingway continuava a desiderare di tornare al fronte, ma non fece in tempo perché l’11 novembre 1918 la guerra finì.
Be’ è tutto finito! E immagino che tutti siano pieni di gioia. Mi sarebbe piaciuto vedere la festa negli States ma l’esercito italiano ha mostrato di che meravigliosa pasta è fatto in quell’ultima offensiva. Sono grandi soldati e li amo!
La convalescenza di Hemingway invece non era ancora finita: lui cominciava ad annoiarsi e a sognare un viaggio verso il sud dell’Italia, invece passò solo un breve periodo di convalescenza a Stresa, sul lago Maggiore. Già a settembre lo scrittore aveva ricominciato ad alzarsi e a camminare usando una stampella, ma la riabilitazione era lenta.
Il dottore dice che sono a pezzi, figurativamente e letteralmente. Vedi i miei organi interni sono tutti malconci e lui dice che non starò bene per un anno. […] E non riesco a lavorare. Sono troppo bucherellato [shot up nell’originale] e i miei nervi sono tutti intrecciati.
La mia gamba difettosa è peggio di un barometro, fa male a ogni cambio di temperatura e posso sentire la neve con due giorni di anticipo.
Nel frattempo Agnes era partita per Treviso e lui si sentiva solo a Milano. Andava a La Scala a vedere l’opera, tra cui Il barbiere di Siviglia diretto da Arturo Toscanini, anche se non davano quelle che lui avrebbe voluto vedere (Carmen e La Bohème).
A inizio dicembre fece un’ultima gita al fronte, passando da Padova a Treviso, dove si trovava Agnes. Fece un tour al chiaro di luna sull’ormai ex fronte, a Nervesa della Battaglia. Come finì tra lui e Agnes? Hemingway raccontò la fine della loro relazione, compreso questo ultimo incontro a Treviso, nel brevissimo racconto A very short story (1924). Lasciò l’Italia sulla nave Giuseppe Verdi (non ho capito se da Genova o da Napoli) il 4 gennaio 1919. Dieci anni dopo, da maggio a settembre del 1929, Hemingway cominciò a pubblicare a puntate Addio alle armi, il suo primo romanzo3.
In Italia, però, il libro non uscì fino al 1946. In parte perché in Addio alle armi è descritta la ritirata di Caporetto (anche se Hemingway non l’aveva vissuta), e certo non in toni gloriosi. Inoltre nel 1929 l’Italia era in pieno fascismo, ed Hemingway si era inimicato immediatamente Mussolini: l’aveva incontrato a Losanna nel gennaio 1923 come inviato del Toronto Daily Star, e il pezzo che aveva scritto si intitolava “Mussolini, il più grande bluff d’Europa”4! E proprio dopo quell’incontro Hemingway aveva scritto all'amico Ezra Pound: “Sai, a Losanna Mussolini mi ha detto che non potrò mai vivere di nuovo in Italia”.
Profezia sbagliatissima! Dopo la Seconda guerra mondiale Hemingway tornò varie volte in Italia, in particolare a Cortina e a Venezia, e da questi viaggi trasse ispirazione per scrivere ancora un romanzo ambientato in Italia: Di là dal fiume tra gli alberi (1950).
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Hemingway tornò a visitare Schio nel 1922 e scrisse un articolo per il Toronto Daily Star intitolato “Un veterano visita il vecchio fronte - Vorrebbe non averlo fatto”.
Dove fosse realmente questo ospedale per me è un mistero. A Milano una targa lo mette in un edificio in via Cesare Cantù, ma nelle lettere spedite allora da Hemingway l’indirizzo della Croce rossa americana è via Manzoni 10. In Addio alle armi in effetti il protagonista racconta di passeggiate in via Manzoni… mah! Veramente si vede il Duomo da via Manzoni 10?
Come già accennato, l’esperienza di Hemingway sul fronte italiano è la base anche per diversi racconti. Li metto tutti qui: Morte nel pomeriggio (1923), sul bombardamento della fabbrica di munizioni a Bollate; Una storia molto breve (1924, ne I quarantanove racconti), sulla storia d’amore Agnes von Kurowsky; In un altro paese (1926, ne I quarantanove racconti), sulla convalescenza a Milano. Anche in Di là dal fiume e tra gli alberi (1950), ambientato fra Trieste e Venezia, il protagonista Richard Cantwell è un militare che ha combattuto ed è stato ferito nella Prima guerra mondiale in Italia.
Una accurata ricostruzione del tempo passato in Italia, da Hemingway. "Addio alle Armi" dovrebbe essere letto, o riletto, in questo specifico momento in cui la guerra sembra bussare alle nostre porte!
J.C.