Come fare se il bambino vuole sempre stare in braccio?
Vuole sempre stare in braccio, possibilmente attaccato alla sua mamma. Solo così sembra tranquillo e sereno e, paradossalmente, anche la mamma è più rilassata. Nei primi mesi di vita del neonato, le donne sono preoccupate di non essere all’altezza del ruolo: temono di non rispondere adeguatamente ai bisogni del loro piccolo e si sento sotto pressione per i giudizi altrui. Il più classico dei rimproveri è: “Non tenerlo troppo in braccio, così lo vizi”.
Non c’è mamma che non abbia dovuto ascoltare almeno una volta questa frase e non c’è mamma che si sia interrogata sulla probabilità di questo rischio. È davvero così? È un pregiudizio culturale. Secondo la psicologa Alessandra Bortolotti, i bambini nascono già viziati, ovvero alcuni atteggiamenti – come il desiderio di stare in braccio o di attaccarsi al seno della loro mamma – non sono abitudini acquisite ma è la norma biologica.
Quanto dura l’esogestazione?
Quando il bambino nasce non è realmente pronto per affrontare la vita extrauterina. È ancora un tutt’uno con la propria mamma, dipende da lei fisicamente. Questa fase della vita viene chiamata esogestazione, termine con cui si identificano i primi nove mesi del piccolo dopo il parto. Stare in braccio quindi è un bisogno fisico e fisiologico, è la necessità di sentirsi protetto, rassicurato e al sicuro in un mondo così grande, che deve – con tranquillità – imparare a conoscere. Consideriamo poi un altro aspetto importante: il tatto (le carezze della mamma e del papà) e l’olfatto (il profumo del proprio genitore) sono i primi sensi che il piccolo impara a utilizzare.
E dopo i nove mesi?
L’esogestazione è una finestra temporale identificata come i primi nove mesi, in realtà non esiste un parto che ne delimiti la durata. Il piccolo impara a prendere fiducia in sé e a staccarsi dalla propria mamma un po’ alla volta. Di solito tra l’ottavo e il nono mese subentra l’ansia da separazione. Il bambino capisce di essere un’entità distinta dal proprio genitore, soprattutto perché di solito questa fase coincide con il periodo in cui la mamma rientra al lavoro e il piccolo deve imparare a stare con le altre persone (dai nonni agli insegnanti del nido). È normale quindi che entri un po’ in crisi e che cerchi maggiormente il contatto con la mamma. I momenti più difficili, a livello psicologico, sono verso i 18 mesi, per poi risolversi intorno ai due anni, quando ormai ha imparato a staccarsi per brevi periodi da mamma e papà.
Come gestire l’ansia da separazione?
Prima di tutto ci vuole molta pazienza. Se in questa fase il bambino dovesse aver bisogno di un abbraccio in più, tenetelo stretto a voi. Non fategli mai mancare le vostre braccia. Può essere faticoso, soprattutto dopo una giornata di lavoro, ma si tratta di un bisogno primario e dovete considerarla una fase passeggera. Un’altra cosa importante è non forzare il piccolo: lasciatelo con le persone che conosce e che preferisce, selezionando anche i nonni. Gli adulti si possono offendere, ma in questa fase ciò che conta è il benessere del bambino. E questo atteggiamento non ha nulla a che vedere con l’affetto, ma solo con la necessità di sentirsi sicuro.
Cercate poi di organizzare un distacco graduale (docile) e magari aiutatevi con un oggetto di transizione (i famosi pupazzetti o Doudou). Non siate mai troppo severi. È vero che lasciar piangere ogni tanto il bambino può essere educativo, soprattutto quando esagera con i capricci. Ma è quello che volete veramente? Quando il piccolo urla, magari anche in modo prolungato, il suo corpo libera cortisolo, il famigerato ormone dello stress, sostanza che resta in circolo anche per 24 ore, disturbando per esempio il sonno. Non è meglio abbracciarlo, coccolarlo e fargli capire le stesse cose con dolcezza? Inoltre, secondo gli esperti, i bimbi cresciuti ad alto contatto saranno, un domani, adulti maggiormente indipendenti, perché più sicuri di sé e meno bisognosi di ricercare nell’altro l’amore che non hanno avuto da piccoli.
Valentina Rorato