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in #ita4 years ago

Questo racconto è stato scritto per partecipare a Theneverendingcontest n° 57 S2-P2-I2 di @storychain sulla base delle indicazioni del vincitore precedente @kork75

Tema: Birra
Ambientazione: Deserto

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Immobilità


Non c’era più un solo maledetto ossicino che non gli facesse un male cane.

Uno, dico io. Nemmeno la punta del mignolo.
“Il miracolato” lo chiamavano. Ma miracolato cosa?!? che sarebbe stato molto meglio morire! Quando un camion ti tira di sotto devi finire all’altro mondo e basta, non in coma per quattro giorni e poi fasciato e ingessato come una mummia dalla testa ai piedi per mesi.


Immobilizzato, ecco cos’era.
Che voglia di farsi una maledetta doccia, o anche solo accendersi una calda, voluttuosa sigaretta, aspirare fino in fondo quella deliziosa nube tossica, godere di quel segreto microrgasmo e poi buttar fuori tutto il fumo, per farsi avvolgere fra le sue braccia profumate di amante pericoloso. Una sigaretta, Cristo Santo! Mica chiedeva la luna.

Erano già quasi due mesi che fissava solo l’orologio a parete, lo schermo della televisione, (comandata dalle dita della mano sinistra ammaccate e indolenzite ma non fratturate), e quel brutto muro giallo come il deserto: appena si fosse ripreso avrebbe subito chiamato l’imbianchino e cambiato quel colore che ormai gli dava solo la nausea.
Nella sua immobilità aveva imparato ogni rumore del palazzo e conosceva a memoria le abitudini e gli orari di tutti i suoi vicini di casa: quando rientravano da lavoro quelli dell’appartamento accanto; quando andavano in bagno quelli del piano di sopra e anche quando mettevano i bambini a letto gli abitanti della casa di fronte, che a volte spiava distrattamente guardando fuori dalla finestra dentro al loro balcone.

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Tutto il suo mondo si era ridotto a una stanza, una stanza vuota in cui lui era solo e inerte, bloccato in quella dannata immobilità per quasi tutto il giorno a cercare di far scorrere il tempo e far ricrescere pezzi di osso alla meno peggio. A volte provava a concentrarsi sui punti dove gli avevano spiegato esserci state le fratture più gravi e si sforzava di accelerarne la guarigione col potere della mente. Purtroppo, nonostante gli sforzi, pare che questo metodo non avesse funzionato e i calli ossei si stavano formando alla stessa velocità di quelli di qualunque altro essere umano. Cioè troppo stramaledettamente lenti.
Non gli restava che aspettare che i dannati camici bianchi dessero l’ok per segare via i gessi, uno dopo l’altro, poi riprendere possesso dei propri arti e provare a rimettersi in piedi, ma chissà quanto sarebbe ancora passato fra riabilitazione e altre stronzate. Si sarebbe di sicuro concluso l’anno scolastico senza che lui potesse tornare a lavoro e rivedere “i suoi ragazzi”, quelli che quest’anno si sarebbero diplomati oltre a quegli altri che invece sperava di ritrovare l’anno prossimo. Gli mancavano, quei marmocchi brufolosi e puzzolenti. Durante le lezioni passeggiava per i corridoi aspettando che sbattessero qualcuno fuori o che l’alunno giusto “andasse in bagno” per proporgli una bella partita a scopa o a tressette. I suoi diavoletti più affezionati condividevano con lui anche un po’ della merenda, dei loro problemi di cuore e a volte anche di famiglia, oppure ridevano insieme arricchendo di aneddoti l’intramontabile rubrica da loro soprannominata “Gli oscuri segreti dei professori”. Li aveva anche aiutati, quei ragazzi, di tanto in tanto, con un buon consiglio o recapitando sul banco giusto il biglietto giusto senza che nessuno se ne accorgesse, o passando il compito da uno all’altro. Chi poteva mai notare un bidello che girava per le classi?! In cambio, quei marmocchi lo chiamavano “il figo”. Niente lo gratificava di più di sentirsi “figo” a quasi cinquantasette anni: i ragazzi della scuola davano un senso alla sua vita solitaria.

Oltre a Minny ovviamente.

Solo lui la chiamava così, perché aveva una voce stridula ma seducente e indossava sempre strane gonne da cartone animato che la facevano sembrare proprio la fidanzata di Topolino. In realtà si chiamava Margherita, e faceva le pulizie a scuola, e ogni tanto si incontravano nell’armadio delle scope, così, senza impegno. Quando era stato investito, lei si era offerta di andare da lui almeno una volta al giorno, alternandosi a sua sorella per dargli da mangiare, da bere, provvedere ai suoi bisogni e fargli le pulizie in cambio di pochi soldi. Di tanto in tanto quella santa donna provvedeva davvero a tutti i suoi bisogni, e con la delicatezza di una fata dalla mano di velluto faceva resuscitare l’unico “osso” che non era stato rotto e che avendo mantenuto la sua funzionalità intatta reclamava di essere usato. All’insaputa dei dottori e di sua sorella, ovviamente.

Che ora era, a proposito? Quanto mancava ancora prima che arrivasse Minny?

… be’, tanto, un paio di minuti o un paio d’ore, che differenza faceva? In quella dannata immobilità a cui era condannato, tutto sembrava un’insopportabile eternità, l’infinito sconfinato come la steppa.

Eppure non doveva mancare molto al suo arrivo, perché la sete già lo attanagliava: quella sete insopportabile, puntuale come un orologio, che tutti i pomeriggi gli prosciugava la bocca rendendola amara e appiccicosa, dovuta forse ai farmaci che prendeva, o forse alla cattiva digestione e alla mancanza di movimento fisico, vai a sapere.
Fatto sta che l’arsura se lo mangiava vivo, e non ne poteva più.


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Quanto desiderava una bella birra ghiacciata in quei momenti! Fredda, amara, schiumosa: l’unico vero rimedio alla sua sete cocente. Iniziò a pensare intensamente a quella bella bottiglia che riposava sola e triste di là in frigo da prima dell’incidente, e mentre il respiro gli si faceva affannoso per il desiderio, immaginava di alzarsi, aprire lo sportello, tirarla fuori dal suo scomparto e appoggiarla sul tavolo della cucina mentre si voltava ad aprire il cassetto per prendere l’apribottiglie. Riusciva a vedere il vetro scuro che si riempiva di migliaia di goccioline di condensa, gli sembrava quasi di sentire sul palmo della mano quella sensazione fredda e bagnata di impugnare la bottiglia e stapparla, mentre un filo di fumo fuoriusciva da sotto il tappo invitandolo a baciare con ardore la sua bionda. Se la sarebbe scolata in pochi sorsi, quella birra. O forse no, forse se la sarebbe gustata, assaporandola lentamente fino all’ultima goccia.
Dannata immaginazione, la sete gli stava solo aumentando, e Minny non accennava ad arrivare. E quelle maledette pareti, gialle come il deserto, sembravano trasudare calore, teletrasportandolo in mezzo a un inferno di dune di sabbia, mentre mezzo morto si arrendeva accasciandosi al suolo e arrancando alla ricerca di ombra e di acqua. O di una birra.
In mezzo agli spietati granelli incandescenti, mentre con le sue ultime forze strisciava nella sabbia bollente, e prima di svenire nel bel mezzo dell’inferno, allungando una mano all’orizzonte dove gli sembrava di aver intravisto la sagoma di un’oasi, sentì infine un tintinnio familiare.
Di colpo si svegliò da quell’assopimento malefico, riconoscendo le chiavi che giravano nella toppa e la voce allegra e stridula di Minny esclamare: <<Gianni, tesoro! Sono Margherita!>>.
Finalmente.
<<Come stai oggi?>> Chiese allegra lei. <<Guarda, ti ho portato una sorpresa>> gli disse sventolando d’avanti alla sua faccia immobilizzata un sacchetto di plastica da supermercato. <<Lo so che prendi medicine e tutto il resto, ma per oggi faremo un’eccezione segreta, ok? perché oggi è il mio compleanno e dobbiamo festeggiare!>> proseguì tutto d’un fiato, facendogli l’occhiolino, con un sorriso aperto e rumoroso, mentre dalla busta tirava fuori due meravigliose birre ghiacciate e delle cannucce.
<<Sto ancora sognando?>> sussurrò Gianni con la bocca impastata.
<<Non lo so, tesoro,>> gli rispose Minny, stappando una bottiglia e aspirandone l’aroma direttamente dalla nebbiolina fumosa che ne era fuoriuscita, <<bevi questa e poi mi dici se ti sembra ancora un sogno!>> concluse allegra lei mentre gli metteva in bocca la cannuccia che affondava nella birra tanto agognata.

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