Un castello in cima a una collina nell’Oltrepò pavese

A Cicognola, un piccolo paese nell’Oltrepò pavese, l’architettura severa di un castello nasconde un interno d’autore. Dove epoche, decori, storie e stili si sovrappongono in un horror vacui colto e leggero.
Un castello in cima a una collina nellOltrepò pavese

Cigognola è un piccolo paese in quella parte dell’Oltrepò pavese in cui il panorama, stanco di essere stato per centinaia di chilometri solo pianura, si increspa senza preavviso e diventa collinare. Il paese è in cima a un colle, e in cima al paese c’è un castello. Non si sa di preciso la data della sua costruzione: i primi documenti che ne parlano sono del 1200, ma le fondazioni sono certamente più antiche. In quella posizione domina la vallata sottostante e tutta la zona, e per questo per secoli è stato utilizzato come roccaforte difensiva.

«La sua funzione originaria si vede ancora oggi, basta osservarlo in pianta», spiega Gabriele Moratti, nuova generazione della famiglia che da più di quattro secoli possiede questo edificio e i vigneti che ha intorno. «Tutti quei corridoi ad angolo erano studiati perché, nel caso fosse riuscito a penetrare al suo interno, il nemico non riuscisse a scagliare frecce o colpi d’arma. Insomma, non è certo uno château francese con i saloni». O meglio: i saloni ci sono, ma incastonati in un’architettura complessa, labirintica, piena di scale e di passaggi.

Una camera decorata con un tessuto di Renzo Mongiardino. Foto di Carlo Piro/styling di Martina Lucatelli.

«Questa era una costruzione militare, e prima degli anni ’80 l’aspetto generale era ancora in linea con le sue radici», prosegue Moratti. A quell’epoca un incendio distrugge gran parte dell’edificio, e Gian Marco e Letizia Moratti, che nel frattempo ne sono diventati i proprietari (lui l’ha acquistato dal suocero, alla cui famiglia apparteneva da generazioni), affidano il progetto di ricostruzione a Renzo Mongiardino. È un nuovo inizio. Per i coniugi Moratti, Mongiardino è un amico di lunga data. La sua capacità di inventare spazi la conoscono bene: gli hanno già affidato i progetti della loro casa milanese e di un’altra, fuori Londra.

L’antica roccaforte così si riempie di colori, decori, tessuti, carte da parati (provenienti dal laboratorio di San Patrignano che Mongiardino, su invito dei Moratti, aveva contribuito a fondare: un centro d’eccellenza tuttora in piena attività), oggetti e opere d’arte. Il cantiere dura due anni e mezzo. Pochi anni dopo parte un’altra avventura: il vino. «Qui naturalmente si è sempre fatto vino, ma non di particolare bontà», prosegue il padrone di casa. «Mio nonno materno non era un grande appassionato. Mio padre però sì. Quando è mancato, nel 2018, ha passato a me il testimone del castello e dell’azienda vinicola. Una conferma del suo senso dell’umorismo: dei quattro figli sono l’unico che non beve. Ma forse era parte del suo ragionamento».

Ritratti cinesi su vetro in uno dei bagni al castello. Foto di Carlo Piro/styling di Martina Lucatelli.

Gabriele Moratti così ha iniziato a frequentare più spesso questo posto, portando molte idee – soprattutto nell’ambito della produzione vinicola, su cui ha progetti ambiziosi – e qualche cambiamento. Poi è arrivato il lockdown, che ha scelto di passare a Cigognola. E il rapporto col castello è diventato ancora più stretto. «A partire dai 18 anni ho studiato negli Stati Uniti, poi ho cambiato più volte città: la mia idea di arredamento non andava oltre a un materasso per terra, un divano e un televisore. Per me stare qui è come vivere in un museo, a diretto contatto con la bellezza. Ma non in un mausoleo, dove non si può toccare niente: questa casa è viva, aperta al nostro tempo. Ho installato il wi-fi e nessuno ha scagliato anatemi, e la stanza dove passo più tempo è quella dove ho messo la mia chitarra, la batteria e l’amplificatore. È abbastanza lontana da tutto, così il resto della popolazione del castello non deve subire le mie incompetenze».

La casa riserva infinite sorprese. La biblioteca-archivio, ospitata nella torre, dove sono conservati gli antichi libri contabili della tenuta. La magnifica sala da bagno dal doppio affaccio, forse la più spaziosa dell’edificio, tutta in verde e rosso, piena di antichi ritratti cinesi dipinti su vetro. La scala a chiocciola, una delle molte che collegano i vari livelli, lasciata nuda e bianca, con i gradini in pietra sottolineati da una fascia rosso scuro: sembra una scultura minimalista. E poi i manifesti primi ’900 della sala della musica, i bicchieri decorati a mano con lo stemma di famiglia, i pavimenti in maiolica dipinta della cucina, gli accostamenti disinvolti tra decori di provenienze ed epoche diverse. Un horror vacui che si risolve in leggerezza perché gestito da una mano esperta, quella di Mongiardino, che in queste cose è stato maestro. I corridoi sono rimasti ad angolo, ma le frecce non fischiano più. Al limite può arrivare un accordo strappato da una chitarra elettrica.

Ritrovate questo articolo con le fotografie di Carlo Piro, styling di Martina Lucatelli e testo di Ruben Modigliani a pagina 176 di AD di novembre.

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