da Dove non mi hai portata

Maria Grazia Calandrone

Artwork by Ehud Neuhaus

Si chiamava Lucia

Di mia madre, ho soltanto due foto in bianco e nero.
Oltre, naturalmente, alla mia stessa vita e a qualche memoria biologica, che non sono certa di saper distinguere dalla suggestione e dal mito.
Scrivo questo libro perché mia madre diventi reale.
Scrivo questo libro per strappare alla terra l’odore di mia madre. Esploro un metodo per chi ha perduto la sua origine, un sistema matematico di sentimento e pensiero, cosí intero da rianimare un corpo, caldo come la terra d’estate, e altrettanto coerente.

Comincio da quello che ho, le due fotografie che la ritraggono, nell’ordine in cui sono apparse nella mia vita.
La prima
          è stata scattata nel giorno del suo matrimonio, sabato 17 gennaio 1959. Lucia ha ventidue anni, veste in bianco integrale e non sorride.

Un giorno, guardando questa foto fino a far scomparire le immagini e apparire la realtà dietro le cose che chiamo poesia, ho appuntato su un ritaglio di giornale quattro frasi, che diventeranno chiare scrivendo questo libro: «Si chiamava Lucia. Pochi avevano a cuore la sua vita. Oggi è il giorno del suo matrimonio. Qualcosa di lei non esiste piú».

La seconda fotografia è il rettangolo di pochi centimetri incollato sulla carta d’identità, trovata nel giugno 1965 in una borsetta abbandonata in Roma. Mostra una giovane donna piuttosto bella e persuasa di sé, vestita con maglia e giacca nera, orecchini e collana d’oro. Un’eleganza semplice. Lo sguardo è sincero, aperto, e remoto. Nonostante Lucia sorrida appena, il labbro inferiore un po’ sporgente dà all’intero viso un’espressione infantile, lievemente imbronciata. Ricorda Claudia Cardinale nella Ragazza con la valigia di Valerio Zurlini. Non so quanti anni abbia in questa foto.

Nello scatto dove Lucia veste in nero l’espressione «fotografia», scrittura di luce, scrittura con la luce, appare corretta.
Nella fotografia in bianco, lo sguardo della sposa risucchia l’intera scena in una vitrea assenza di vita. Lucia fa gli occhi lisci della preda che finge di non esserci, arretra in uno sguardo impenetrabile, dove il mondo è un paesaggio di bestie aguzze e senza sogni, addormentate fuori dalla natura. E su quegli occhi aperti il mondo scivola, non posa piú.



Sabato 17 gennaio 1959. La sposa

La sposa ha il labbro spaccato.
La sposa continua a non volere. È costretta a ceffoni, ma la sua volontà non è piegata. Contro la sua determinazione, il contratto è comunque siglato: utilizzo della considerevole forza lavoro e riproduttiva di una giovane femmina, in cambio dell’aumento delle proprietà. Oltre al terreno confinante, i Greco hanno parecchie terre, anche qualche casetta in campagna. Corpo di vergine insorta in cambio di terreni. Si profilano nubi. Ma ovunque usa cosí. E si capisce: è la solidarietà degli affamati, la logica nella quale ogni singolo corpo, ogni singola vita, è affluente di un unico fiume: la scalata sociale della famiglia. Senza attacchi di nervi, concentràti a durare. Gettano ancora la loro ombra spettrale sul presente, i tempi nei quali a fine pasto si raccolgono le briciole di pane dalle tovaglie, per impastarle di nuovo, e le ragazzine di campagna devono vendere i propri capelli alle cittadine che possono permettersi una parrucca. Appena usciti dall’orrido della miseria, occorre consolidare un possesso durevole, una superficie economica liscia, piana, per camminare sereni verso la vecchiaia. Ogni singola azione della famiglia è un ponte strategico verso la meta.

Oggi è la festa di Sant’Antonio Abate, protettore dei maiali e di tutte le bestie, con figura del santo in processione accompagnato da animali domestici, falò e canti. Lo sposalizio muto di Lucia è circondato dal mugghio musicale delle celebrazioni. Forse, per risparmiare, profittano della festa grande del paese.
Nell’unica foto del matrimonio, la sposa è serrata fra padre e marito. Una fila compatta, un esercito contro l’angoscia. Padre poco piú alto di lei e roccioso alle spalle, la faccia come un pane di terra petrosa solcata da rivoli di sole asciutto. La figura del padre, in abito nero e cravatta, è una crepa di vento fermo, stirato come un’ombra della storia sopra la spalla destra di Lucia. Lucia ha la mano sinistra incastrata sotto il braccio destro dello sposo. Lo sposo, in doppiopetto grigio, posa la mano sinistra sulla spalla sinistra della suocera. Delicato, in punta di dita. La madre di Lucia è la figura piú avanzata verso l’obiettivo, eppure è marginale. Volto perplesso, sopracciglia alzate. Un digradare lento della forza, nel suo vestito nero col colletto tondo rifilato in merletto bianco e i bottoncini chiusi fino al collo. Un mese prima del ventitreesimo compleanno di Lucia, nessuno tocca Lucia. Nessuno prova a simulare gioia. La chiesa è quella del paese, che tornerà fra queste pagine alla fine.

Lucia indossa un abito di tulle avvitato: gonna coi veli e corpetto a manica lunga. Sotto, le scarpe décolleté bianche, col tacco alto. Per alto, s’intendano cinque centimetri. Le scarpe me le hanno raccontate, perché la foto s’interrompe poco sotto l’inguine, è un piano americano.
La sposa non ha un filo di trucco sul viso. Purtuttavia, ella è simile in tutto a un clown bianco dentro schiera animale. In quel momento perde l’equilibrio, non indovina. 



Racconta la vigna

La bambina è andata via, al suo posto c’è una ragazza bruna che zappa la vigna
          sotto gli ulivi, dove la luce dell’inverno fa una croce bianca.
Quando smuove la terra, Lucia indossa le centrelle, le scarpe da lavoro coi chiodi a testa quadra piantati a ferro di cavallo tutt’intorno alla suola. Scarpe che pesano, fanno rumore e fanno scivolare sui pavimenti, ma la suola cosí non si consuma e le scarpe attraversano indenni piú di una vita, decumani di fanga, col latrato dei venti sulla schiena.

Aria a raffiche ferme. Ventilazione tesa, improvvisi rovesci sui rilievi. Il vento sorge alle sue spalle, mentre lei libera i canali dalle foglie che ostruiscono il flusso dell’acqua. L’acqua scansa gli ostacoli. Lei no.

Vento accanito, assoluto. Spianate di vento. Vento sociale. E lei, in mezzo, vestita di nero mentre zappa la terra. È battuta dal vento. Lo sguardo è sovraccarico
          e minerale, quello di un sasso, di una bestia da soma.

Nel cuore di fantasma di gennaio, Lucia sgrana a mano le zolle come un rosario, per mettere a dimora il ciliegio regina. Guarda le radici, che vogliono stare nel nutrimento. Sente in faccia la polvere della sua terra, sente la nebbia che le circonda le spalle. Come un ramo, Lucia sta nelle cose della terra. È tutta vuota.

Corpi marinati dal sole di gennaio fra alberi di mele e trebbiatrici, che arrugginiscono nella solitudine della zona nord del paesaggio. Sono materia inerte.

Lucia guarda la vita muoversi sotto la forma infinitesimale di una mosca
          sul tronco, dove i secoli sono sovrapposti in anelli che partono dal centro. Sopra, la patina lamellare delle cortecce, la pellicola occidua
          del tempo. Lucia guarda la brace che si spegne, sente il tempo
          che passa. Un altro giorno inutile
          finito. Lucia
          respira. Inciso in una strana fissità, l’avorio delle betulle somiglia il mondo a una foresta d’ossa. Un paradigma.

Qui dove crescono
          le proverbiali rose, Lucia respira
          le note alte dell’odore di foglie invelenite. Il marcio inverno. Piogge scure cadute nei millenni. L’umido
          penetra l’osso. E le mormorazioni degli stormi.

Da quando se n’è andata, non lo vuole nessuno, quel pezzo di terra. Il terreno sul quale Lucia ha ittat lu sanghe è rimasto incolto. Quella è una terra che d’inverno scivola, terra senza gradoni, lasciata a se stessa e alle radici del grano.
Le radici del grano non tengono ferma la terra, le radici del grano sono sottili. Fanno massa, però. Tutte insieme tengono la zolla. Ma la zolla scivola a valle. E trascina il lavoro di Lucia.

Lucia è rimasta lí, dove il mondo finisce e l’impressione della valle è il suono di un respirare immenso.
          Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo,
          da una vita che forse hai immaginato per me.
          Adesso vengo a prenderti e ti porto via.
          Lucia, dammi la mano. 



Lucia e il mare

Che impressione deve averle fatto il mare, e che impressione la città di Termoli, alta sul mare, con la sua scala in calcestruzzo armato per entrare nel borgo e i vicoletti, coi lenzuoli messi a sbandierare sulla calma di mare, interrotto
          da trabocchi fenici, palafitte che suonano sull’acqua come archi: moli agili di corde, tavole e pali nei frangenti di costa, strutture a zampe altissime, montate con l’estetica delle libellule, a sorvolo sull’acqua iridescente
          tra efflorescenze di muschio, bave di alghe e un altorilievo
          di gusci di bivalvi. Anche per te, Lucia, scelgo le rime chiare che il poeta Giorgio Caproni ha dedicato alla madre Anna, Anna Picchi. E tu, Lucia Galante: una rima elegante. Perturbante.

Quattro anni di matrimonio senza figli, la colpa deve per forza essere della donna. Una donna che non è buona a fare figli non vale niente, è materia morta:
«Vai a Termoli a farti curare!»
Per aumentare la fecondità, la mutua passa rapidi trattamenti di acque termali, le cui proprietà – per cosí dire – fertilizzanti sono state scoperte a inizio secolo, forse registrando un’improvvisa impennata di presenze nei nuclei familiari di coloro che vi si bagnassero. Negli anni Sessanta del Novecento si ripone tanta fiducia nell’azione dell’acqua mineralizzata che Sophia Loren si avvale apertamente dei benefici di quella che sgorga in Salsomaggiore verso fine decennio.
Si tratta comunque di terapie dolci, non invasive: una settimana di insufflagioni di vapore, applicazioni di melma sul basso ventre, ivi spalmata in luogo di mutandina (fanghi pelvici) e immersioni in vasche di acque ricche di sali sulfurei o salsobromoiodici, che pare incoraggino la microcircolazione uterina e la funzionalità ovarica, oltre ad avere proprietà antinfiammatorie e riequilibranti dei valori ormonali. Ultima, la meccanica: una serie di irrigazioni profonde scolla aderenze e sblocca tube ipoteticamente occluse, attraverso l’azione della pura forza idraulica.

E Lucia parte, prende tre corriere e va a farsi infangare, spiccare l’umido delle membrane e investire da getti di condensa nelle piscine della riviera. Lucia compra un costume, per scivolare dentro l’acqua fossile, risalita dal buio sotto la terra. L’acqua attraversa le stratificazioni delle argille dov’è impressa la storia del pianeta ed emerge alla luce del sole, in questa storia minima di malmaritata. Viva come una bestia, l’acqua gira
          intorno al corpo vuoto di Lucia e alle rocce che portano il calco di felci preistoriche. Acqua chiara, ricuci la ferita banale e tragica del disamore. Acqua che tocca e acqua che guarisce dove tocca. La profezia di un’acqua che scioglie il male come un pugno di sale viperino. Lucia compra un costume da bagno. Questa ripetizione non è un errore, è una sottolineatura, che avrà senso alla fine, come molte cose.

Per adesso, alla semplice fine d’ogni giorno, poco prima di sera, Lucia scende a guardare, alla marina
          e mescola lo sguardo dei suoi occhi color bosco screziato da filacce di luce trasparente
          a un’acqua che non termina
          con segni naturali. Da terra verso il tramonto, brezza orizzontale. L’incidenza della luce del sole sulla scena. Piatta, schiacciata al suolo. Tutto quel movimento, quella culla a perdita d’occhio. Madonna, dammi un figlio, qualcosa da abbracciare, una creatura viva
          che mi consoli. L’aperto della vita davanti
          all’aperto dell’acqua. Gli storni in formazioni prolisse, o brevi, sulla piazza del porto, la vista che dilaga dagli uccelli al mare. Com’è lampante il mare, come cosparso dal sole di macchine del tempo, di un acume eccessivo.
Sei come le oleandre sul lungolago azzurre e generose
          come la festa delle luminarie
          e il nero che soccombe. Senti il cuore, Lucia, e i motori a scoppio, i tonfi a corpo morto delle ancore. Tra quei lenzuoli che non sono tuoi
          il tuo mondo scompare, ti addormenti nel battito del cuore tuo, finalmente solo.



Dove non mi hai portata

Il 30 dicembre telefono all’archivio della Procura della Repubblica di Roma. La gentilissima archivista mi spiega che, dopo quarant’anni, gli atti (anche quelli d’indagine) vengono mandati al macero, a meno che non si tratti di casi di rilevanza storica. Mi promette però di controllare se nei cosí detti libroni sia stato trascritto qualche dato, foss’anche il solo nome del medico che ha eseguito l’esame autoptico. Purtuttavia, mi segnala, i «reati contro se stessi» vengono conservati per tempi meno lunghi.

Realizzo che Lucia si è macchiata di tre reati: abbandono di minore e suicidio, delitti ai quali è stata in larga parte indotta dalla prima incriminazione, per adulterio.
Ovviamente, nei casi di suicidio con esito (per cosí dire) positivo, la portata dissuasiva del divieto penale, la cosí detta «funzione deterrente della pena» non ha piú alcuna ragionevolezza. Ma scoprirò ben presto in che modo la rea Lucia verrà punita per la sua scelta di porre fine a una vita che le è diventata insopportabile.

Inoltro intanto domanda all’Archivio centrale di Stato, per ottenere il permesso di verificare personalmente l’esistenza di un fascicolo a nome Lucia Galante, anno 1965. Mentre aspetto queste e molte altre risposte e fascicoli, con lo stato d’animo radioattivo di chi sente di compiere un dovere rimandato per decenni, vengo con te dove non mi hai portata: nella morte. Scendo a conoscere cos’hai sentito.

Nei caduti in acqua dolce, la vita cessa entro tre, massimo cinque minuti. Attraverso i capillari polmonari, l’acqua penetra nel torrente circolatorio, raddoppia il volume del sangue che ruota nel corpo e ne gonfia i globuli rossi, fino a farli esplodere. La carenza di ossigeno trasportato dall’emoglobina causa una fatale fibrillazione ventricolare.

Trascorsi i primi due minuti, nei quali si avvertono forte bruciore e peso al petto, la mancanza di ossigeno produce nell’animo di chi sta annegando un sentimento di pace, dovuto alla progressiva perdita di coscienza, che copre i tre o quattro minuti che separano dalla morte per arresto cardiocircolatorio.

          Sembra che la morte per acqua sia la piú dolce.
          Due minuti, ed è tutto oblio.
          Due minuti e sotto il fiume ci sono le stelle della tua campagna
          ci sono le mattine dell’infanzia, la Pasqua
          e mamma che ti lascia dormire
          col tuo cane,
          ci sono io che dal futuro ti guardo
          calarti piano in quello specchio atomico,
          in quella fine del mondo, e ti guardo
          e ti lascio
          libera, ti lascio
          cosí senza rimedio
          e, per me, prendo solo da chiarire
          la solitudine della tua materia
          disabitata.
          Siamo dentro una vasca di luce. Ogni passo che faccio verso di te fa un
          rumore subacqueo.
          Spero che mentre te ne vai, Lucia, risenti le campane della festa, che
          fanno piovere larghezza e fiori sulla campagna ancora addormentata.
          Spero che finalmente ti riposi.



Lunedí 28 giugno. Le cose lasciate sole

Alle ore 18 del pomeriggio Franco Mastrandrea, un portabagagli trentacinquenne della C.I.T. (Compagnia italiana turismo), avverte i carabinieri della presenza di «quattro colli» abbandonati da diversi giorni in Roma, sotto i portici di piazza Esedra, davanti alla sede della compagnia presso la quale lavora.
La pavimentazione dei portici di piazza Esedra sulla quale sono posati gli ingombri è a grandi scaglie di marmo policromo, singolarmente uguale a quello dell’ingresso del palazzo nel quale abiterò.

          Certe creature con la divisa da poliziotti mettono le nostre cose a contatto
          col tavolo della questura. Chissà se ne hanno pietà, se le toccano
          con amore, mentre le infilano nel sacchetto
          dove vanno le cose dei morti. Chi lo sa quante volte hanno già ricomposto
          le cose dei morti, questi corpi
          in divisa, che devono difendersi dall’urlo di dolore che sale dalle cose
          che non sono piú altro che cose. Magari scherzano fra loro, magari
          pensano alle loro madri, mentre aprono quella borsetta abbandonata.

Elenco delle cose lasciate sole:

una valigia in similpelle verde, all’interno della quale sono ripiegati dei vestiti da uomo e da donna, il certificato di nascita di Maria Grazia Greco, rilasciato il 16 giugno dal Comune di Milano, e un braccialetto d’oro;

una cartella nera da uomo in pelle di foca contenente la patente di Giuseppe Di Pietro, una penna stilografica, alcune fotocopie di costruzioni edilizie e qualche lettera, alla fine neanche spedita, dove Giuseppe chiede disperatamente un lavoro qualsiasi a ex colleghi imprenditori edili;

una borsetta nera da donna, a bauletto, coi manici, contenente la carta d’identità di Lucia Galante, di professione coltivatrice, e alcuni altri oggetti, che vengono esposti in una foto pubblicata a pagina 5 dal «Messaggero» del 29 giugno:
la collana d’oro e i due orecchini con castone a raggera e pietra scura indossati da Lucia nella fotografia incollata alla carta d’identità, un ciondolo con la medesima lavorazione, una catenina d’oro 750 a 18 carati con crocefisso, un anello, un orologio in acciaio, due orecchini a pendaglio nella relativa scatola da gioielliere, un anello in metallo con pietra rossa e due chiavi sfuse;

una rete in nylon rossa, contenente pannolini e indumenti per neonato, insieme a una bambola di plastica alta almeno quaranta centimetri, riproduzione in scala quasi reale della mia figurina di allora, coi capelli corti e le orecchie a vista.

Lucia si è spogliata di tutti gli oggetti di valore tranne della fede.
Nessuno, per un numero imprecisato di giorni, ha toccato quella borsetta abbandonata al suolo.

I carabinieri hanno fotografato solo gli oggetti di valore, ma, nel 1980, insieme alla borsetta che li contiene, mi sono pervenuti: un portamonete nero in finta pelle di coccodrillo con 20 lire del 1958, un tubetto «campione gratuito non commerciabile» di dentifricio Colgate, una confezione trapezoidale in plastica trasparente azzurra, con tappo bianco, di collirio Stilla, nella quale il liquido è stato trasformato dagli anni in una pietrolina ovoidale azzurra di circa due millimetri, il bugiardino ripiegato con cura del collutorio Forhans, i due guantini bianchi del matrimonio, un salvacolletto in plastica per camicia da uomo, un ditale di bronzo recante una macchia d’inchiostro blu e una confezione rotonda di crema Nivea dentro la quale, come ho già scritto nel 2010, quando condussi un primo rapidissimo tentativo di questo resoconto, «la stagnola riporta una leggera piegatura anomala e conserva l’impronta di un indice destro e la relativa strisciata a semicerchio sulla latta del fondo. Tutte le donne prendono la crema per le mani con lo stesso gesto».
Ma c’è di piú, c’è un regalo che viene dal tempo e allora mi era sfuggito: il tubetto di pasta dentifricia conserva, sulle due facce opposte, il calco metafisico delle dita da bambina di Lucia, pollice e indice. Le mani di mia madre.
Ordinata e precisa, lo ha spremuto una volta sola, tenendo la superficie dov’è stampigliato in rosso il nome Colgate rivolta
verso l’alto, dove ancora brillavano i suoi occhi.

Non riscontro, comunque, alcun segno d’indigenza terminale. Collirio, dentifricio e crema per le mani. Niente trucco, a Lucia piace stare pulita.

Ma quali porte aprono le due chiavi che Lucia ha lasciato sfuse nella borsa? A Roma, nonostante le affannose ricerche di carabinieri e polizia, Lucia e Giuseppe non risultano registrati in nessuna pensione, presso nessun affittacamere né ostello.
Sembrano arrivati fino a Roma solo per uccidersi.

Infine, nella foto degli oggetti rovesciati davanti agli obiettivi dei giornalisti dalla valigia aperta come una vongola lungo la cerniera perimetrale, si riconosce un reggiseno bianco. Esposto cosí, sui giornali. Le cose dopo di noi, le cose
          quando non siamo piú responsabili.
E la bambola nuda, di plastica. Una povera cosa che era tutto il possibile.
Nella foto, la bambola ha le gambine messe di traverso, a coprire la nudità interposta. Per caso, o per l’ammirevole pudore di un carabiniere.

Fra i bagagli abbandonati non è stata rinvenuta alcuna carrozzina, io stessa sono stata deposta su un plaid. Posso immaginare di aver fatto l’ultimo viaggio, da Milano a Roma, tra le braccia di Lucia, o in un marsupio leggero, poi abbandonato sulla sponda. Per esempio nel plaid, annodato a fascia trasversale alla spalla di lei, come io stessa ho portato i miei figli. Sempre addosso, al sicuro.



Intelletto d’amore 


L’amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nel non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo, della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti.

Infine, nell’aver sopportato, per quel suo pur brevissimo tratto di sopravvivenza, lo strazio di andarsene lasciandomi nel rischio al quale mi esponeva, abbandonandomi.

In quegli anni, però, si accorda piú fiducia ai bambini, e alla vita tutta. La vita fa una musica diversa, basso profondo con piccoli trilli di risate. Chi ha sopportato la guerra, riposa nella giusta convinzione che chi ha voglia di vivere sopravviva a quasi tutto. Che non esista vita senza ferita. Nessuno resta integro, se vive.

Malgrado questa diffusa saggezza, le ultime volontà di Lucia e Giuseppe sono, comunque, mettere al riparo la vita della figlia, nel miglior modo a loro disposizione e nel miglior mondo da loro immaginabile e, soprattutto, raggiungibile, attraverso un moto interiore che possiamo definire con una sequenza di espressioni d’uso ordinario, tutte improvvisamente vivificate e chiare: «forza della disperazione», «ingegno dei poveri», «arte di arrangiarsi».
Ma, sopra tutte, splende e riluce un faro: la definitiva formula alchemica dantesca «intelletto d’amore», quel sentire dell’intelligenza che permette a una contadina e un muratore di montare pezzo a pezzo un caso di cronaca, per salvare il salvabile, cioè me, vita lasciata vivere e che deve scampare allo sfacelo.
Una volta e per sempre, Dante ha trovato il nome
dell’amore immortale dei mortali.

Lucia s’è fatta il segno della croce, prima di immergersi. Anche se nei due anni con Giuseppe si è risolta a votare P.C.I., la sua fede politica ha certo convissuto col valore simbolico di un gesto che proviene dall’infanzia e lega al sacro della terra e dei cieli.
Poi, s’è affidata all’acqua, senza violenza. Sono certa—per quanto possibile—che sia andata cosí: un suicidio come questo non è un tuffo dal ponte, d’impulso, è un lasciarsi andare all’acqua, a un elemento simile alla vita prima della vita, simile al destino.



Portami a casa

Sorge il carro, lentissimo, dal fondo della campagna. È la prima mezzanotte di luglio, il corpo di Lucia viene da Roma, ha attraversato un’altra volta l’ombra e le montagne, ha sfiorato i paesi dei dintorni, è risalito dalla provinciale fino alla soglia di casa. Ma non la fanno entrare, neanche morta: metà degli abitanti del paese è radunata al bivio in fondo alla via principale, appena fuori dall’abitato. Anche il parroco è sceso alle porte del paese, per consegnare a un Padre benigno la vita breve di Lucia Galante, senza aprire le porte della chiesa alla cassa coi resti. Aspettano. Da quando hanno saputo, a Palata non si parla d’altro. Stanotte anche i piú piccoli sono svegli, s’intrufolano tra le gambe dei genitori, sentono il capannello mormorare:
«È la ragazza che s’è buttata . . .»
Molti adulti sono caratteristi, tristi ruminatori di disgrazie, alcuni invece sono davvero qui, a fare notte per dare l’ultimo saluto alla figlia di questa terra. I ragazzini grandi, contagiati dal turbamento degli adulti, corrono avanti e indietro:
«Sta arrivando, sta arrivando!»

Il carro ferma al bivio dove c’è la gente. Asperso il legno della bara con acqua benedetta, chiuso il portellone sulla riconfermata solitudine del proprio corpo, Lucia passa sola lungo la strada dove andava a scuola, s’inoltra nella notte senza luna. Prima di andarsene, Lucia mi ha insegnato la parola mamma. Per stanotte, la lasciano per la sepoltura.

L’indomani, la mettono in silenzio dentro la sua terra, a occhi bassi e in furia per la vergogna. Senza messa e senza funerale. Perché Lucia, che ha voluto a ogni costo scegliere la vita, ha infine rinunciato al dono della vita, come ultima libertà possibile.

Quarantasette anni dopo, la rimuovono dalla terra, per locarla in ossario comune, perché a qualcuno serve di passare dove lei dorme senza disturbare. Ecco il sole di un sabato di maggio toccare gentile
          la tua poca materia. Che la musica sia con te, figlia mia.