I MIGLIORI ANNI

Federico Moccia: «Tre metri sopra il cielo ho imparato che il successo richiede testardaggine»

di Gian Paolo Laffranchi
Lo scrittore, sceneggiatore e regista sarà a Villa Mazzucchelli il 12 novembre per l'evento «La grande bellezza»
Federico Moccia sarà a Villa Mazzucchelli il 12 novembre
Federico Moccia sarà a Villa Mazzucchelli il 12 novembre
Federico Moccia sarà a Villa Mazzucchelli il 12 novembre
Federico Moccia sarà a Villa Mazzucchelli il 12 novembre

È cresciuto con il mestiere in casa. Figlio di Pipolo (quello di Castellano & Pipolo, indimenticata coppia di registi e sceneggiatori), al secolo Giuseppe Moccia.

Lui è Federico Moccia e anziché darsi uno pseudonimo è diventato una definizione: il moccismo esiste e lotta insieme a noi ormai da quasi vent’anni. Un fenomeno nato fra la gente, sinonimo di un mondo letterario e filmico che perfettamente s’inquadra nell’appuntamento in calendario il 12 novembre a Villa Mazzucchelli di Ciliverghe di Mazzano. «La grande bellezza», evento promosso da Cristian Raggi: una parata di vip dello spettacolo, della politica e dell’imprenditoria per accendere i riflettori italiani sul Made in Brescia, tra opere in esposizione e sfilate di abiti. Già confermati (fra gli altri) Valeria Marini e Garrison Rochelle.

La grande bellezza è un’espressione-tormentone ormai nell’immaginario comune del linguaggio. Un meccanismo che lei conosce bene, da «Tre metri sopra il cielo» alla moda dei lucchetti.
Sì. I lucchetti sono diventati di prepotenza un simbolo degli anni 2000 senza che io nemmeno l’immaginassi possibile. Nei vestiti, nei gioielli: mi hanno stupito e sono finiti ovunque. E mi pare che il termine «mocciano» sia sull’enciclopedia Treccani.

Quando ti citano e ti imitano vuol dire che hai sfondato. L’imitazione lei l’ha avuta da Fiorello.
E ne sono lieto.

Arriva da Roma nel Bresciano nell’anno della Capitale della Cultura. Cosa ne pensa?
Brescia mi è sempre piaciuta molto. Ho fatto spesso le mie presentazioni nella zona di Milano e dintorni, incontri anche divertenti con un’invasione di giovanissimi, e questa provincia era una tappa costante. Manco da un po’ di tempo, un piacere quest’invito che mi dà l’occasione di tornare. Questa iniziativa, in particolare, mi fa nascere una curiosità: di quale bellezza si tratterà?

Dipende sempre tanto dai punti di vista, dai treni che passano. Nel suo caso si è fatto aspettare, ma non è arrivato fuori tempo massimo.
Verissimo. Avevo scritto «Tre metri sopra il cielo» nel 1990. Immaginavo che mi sarebbe piaciuto leggerlo, ragionavo da lettore perché quello che conta alla fine è il giudizio del pubblico. Ricevendo le risposte più diverse delle case editrici, tutte negative, ero sinceramente stupito. Per questo decisi di pubblicarlo a spese mie con una piccola casa editrice. Il libro ha iniziato a girare fra gli studenti sotto forma di fotocopia, circolava in forma pirata tra i banchi delle scuole romane, e 10 anni dopo l’ha trovato per caso un produttore, Riccardo Tozzi, mentre aspettava di fare le fotocopie per il figlio.

La storia d’amore tra Step, biker 19enne bello e dannato, e Babi, figlia modello dell’alta borghesia. Si incontrano e si innamorano tra corse clandestine su due ruote e castelli con vista sul mare. Perfetta per i sogni degli adolescenti.
Difatti, colpito dagli occhi umidi della nipote Margherita che gli confessa di scambiare citazioni del libro al cellulare con le amiche, Tozzi lo legge, decide di farne un film, coinvolge alla regìa Lucini e affida la sceneggiatura a me e alla scrittrice Teresa Ciabatti.

Il resto è storia di un successo letteralmente sconfinato: solo il libro si aggira sui 2 milioni di copie vendute ed è stato tradotto in 15 Paesi nel mondo. La morale?
A volte bisogna essere testardi: se trovi la grande bellezza in un’opera devi saper aspettare, il momento arriverà.

Un po’ quello che è capitato con «Attila flagello di Dio», che vedeva suo padre regista con l’inseparabile Castellano?
Sì. Quand’era uscito aveva segnato un momento-no nella carriera di Diego Abatantuono, ma il tempo gli ha restituito tutto: piano piano, col passaparola, i ragazzi l’hanno scoperto, si sono affezionati, citano le battute a memoria. Una grande gioia anche per me, che in quel film ero assistente alla regìa.

Quanto è stato importante avere un padre come Pipolo?
Una fortuna eccezionale. La mia infanzia è piena di ricordi felici. Enrico Montesano veniva a casa per provare le scene, una volta andammo in Sardegna dove Celentano andava in vacanza per leggergli il copione del Bisbetico Domato: Adriano voleva sentire le battute da Pipolo piuttosto di leggersi il copione. Lo sento con me grazie all’amore che mi ha sempre dato. Il padre ideale: molto spiritoso, sempre curioso. Figlio della guerra, quando i giochi non c’erano e bisognava costruirseli, s’inventò un fumetto, «Ciclamino», che gli fece guadagnare in una settimana quanto un mese nel classico posto in banca: così convinse i suoi genitori a lasciargli fare quello che gli piaceva. La creatività lo ha fatto diventare adulto, non vecchio. Quando conservi la curiosità nei confronti della vita è tutta un’altra cosa. Viviamo sempre nella tensione di realizzare un sogno, un progetto. Bello così. 

Cosa le disse quando sfondò?

«Sai, ho visto sul giornale cosa stai facendo e ho provato invidia. Poi però mi sono detto che non posso essere invidioso: questo sono io». La fragilità dell'artista che si risolve rendendosi conto di essere padre di un successo, di chi l'ha ottenuto.

Tanta televisione come gavetta: serie come «I ragazzi della terza C» e «College» con l'amico figlio d'arte Lorenzo Castellano; programmi come «I cervelloni», «Chi ha incastrato Peter Pan?» e «Ciao Darwin» che l'hanno vista collaborare a lungo con Paolo Bonolis. Un incontro fondamentale?
Quando lo hanno mandato via da Mediaset, pensai subito che era perfetto per il mio primo programma da autore televisivo insieme a Marco Luci e Ugo Porcelli. Avevano detto a Bonolis che avrebbe fatto meglio a fare teatro; dopo il nostro accordo, il suo agente Lucio Presta scrisse a Mediaset dicendo che avrebbe fatto teatro sì, ma quello Delle Vittorie, dove realizzavamo «I cervelloni» per Raiuno. L'ironia di Bonolis è venuta fuori a contatto con la gente comune, potendosi confrontare con personaggi strampalati del popolo.

«Mamma qui comando io» è il suo ultimo film, un family movie uscito quest'anno. Rivedendolo, è soddisfatto?

Molto. È una ripartenza dal punto di vista di un bambino di 7 anni che vede i genitori separati alternarsi in casa sua, sperando che si rimettano insieme. Ho visto il pubblico ridere e commuoversi.

Ha anticipato la pubblicità dell'Esselunga sul tema.
Una strana quasi-concomitanza, figlia dei tempi. La conferma di quanto sia importante la famiglia, l'amore.

Cos'è per lei l'amore?
Una cicatrice permanente, quando va male. Se vivi, giochi, cadi e ti rialzi. Conta il sorriso con cui accogli la magìa, questo bellissimo regalo.

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