Reality - la recensione del film di Matteo Garrone

18 maggio 2012
3.5 di 5
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Il detto vuole che lo stolto guardi il dito mentre indica la luna. In Reality di Matteo Garrone sembra quasi il contrario. Sembra quasi che il regista sogghigni di chi, stolto, fissa la luna rappresentata dal richiamo al Grande Fratello, mentre bisognerebbe guardare tutto quello che circonda.



Il detto vuole che lo stolto guardi il dito mentre indica la luna.
In Reality di Matteo Garrone sembra quasi il contrario. Sembra quasi che il regista sogghigni di chi, stolto, fissa la luna rappresentata dal richiamo al Grande Fratello, mentre bisognerebbe guardare tutto quello che circonda e comprende quella sirena mediatica e cinematografica. Compreso il suo lato nascosto.
Per comprendere un film intenso e complesso come Reality è necessario fare lo sforzo di spogliarsi dai pregiudizi e avere il piacere di deviare lo sguardo dall’ovvio: proprio come più di una volta fa il regista attraverso la sua macchina da presa.

Inizia folgorante, il film di Garrone, calandosi dall’alto all’interno del mondo ultrakitsh dei ceti napoletani più popolari (ma un'altra città d’Italia non avrebbe fatto una grande differenza), portandoci lentamente e sempre più inesorabilmente alla scoperta di un protagonista la cui ingenuità e la cui ossessione patologica (quella appunto dell’entrare a fare parte del Grande Fratello, al cui provino ha partecipato quasi per caso) è figlia del contesto culturale in cui è nato.

Se fosse solo una favoletta morale e neorealista sulle grandi distorsioni provocate da certi miti televisivi, Reality sarebbe un film stanco e fuori tempo massimo, benché girato con una consapevolezza stilistica impressionante, recitato benissimo e in generale impeccabile in tutti i reparti tecnici (dalla fotografia di Marco Onorato fino alla colonna sonora di Alexandre Desplat).
Garrone, invece, ha rifuggito la sociologia spicciola: in primo luogo cercando di rendere più amplio e articolato il discorso, e secondariamente traslandolo su un piano quasi filosofico.

Nella loro apparente polarità, la casa televisiva dove Luciano sogna di entrare è direttamente speculare al palazzetto diroccato che abita assieme all’onnipresente famiglia, alla piazza napoletana dove gestisce una pescheria. L’ossessione paranoide di essere sempre sotto esame da parte di “quelli della tv” è il negativo esatto dello sguardo costante (e giudicante) di parenti, amici e conoscenti nel contesto di una vita pubblica, in più di un senso.
E che il protagonista poi tenti la via di una conversione quasi letteralmente francescana per riscattare i suoi peccati e ottenere la misericordia del piccolo schermo, che in un finale palpitante prenda parte alla grande rappresentazione della Via Crucis prima di confrontarsi definitivamente col grande sogno del Grande Fratello, appare uno sferzante commento di Garrone su un altro palcoscenico, oltre a quelli coincidenti della vita e della tv: quello della Chiesa.

Garrone, che nel pressbook del suo film dichiara di aver voluto indagare la storia di un uomo che esce dalla realtà per entrare in una sua personale dimensione fantastica, sembra in realtà aver descritto un universo dove la distinzione in questione non ha più senso, dove tutto è unificato, tutto è livellato.
Dove persino il sogno che si trasforma in incubo psicotico è destinato a realizzarsi e concludersi con l’amara, folle realizzazione di un circolo che si chiude e riporta al punto di partenza.
E l’unica cosa da fare, allora, è ridere istericamente e uscire di senno, e di sé.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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