13 dicembre 2020 - 00:12

Jean-Luc Nancy: «Sì, il tempo scorre in un modo diverso»

Il filosofo francese e il «disordine» in cui ci costringe a vivere la pandemia. «Ci siamo dovuti ricredere: non sempre il nuovo è meglio. Vedo nel virus il rivelarsi di qualcosa che stava già accadendo»

di Ilaria Gaspari

Jean-Luc Nancy: «Sì, il tempo scorre in un modo diverso» Il filosofo Jean-Luc Nancy, ora in libreria in Francia con «Un trop humain virus»
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Questa intervista è parte di una serie che declina, nel modo più largo possibile, il tema delle ri- Generazioni come è stato interpretato dalla settima edizione del Tempo delle Donne: storie di chi sperimenta nuovi equilibri. Tutte le puntate precedenti sono raggiungibili attraverso i link pubblicati qui sotto. La prossima settimana uscirà l’intervista a Lidia Maggi

Fra le molte conseguenze della pandemia, credo che un giorno annovereremo anche il cambiamento della nostra percezione del tempo. Abituati a proiettarci con disinvoltura nel futuro o nel passato, che - forse per illusione ottica - ci parevano tutto sommato familiari, commensurabili al presente, a partire dal marzo scorso siamo prigionieri di un qui e ora traballante, in cui l’unica certezza è l’incertezza. Non è facile imparare a controllare speranze e timori - non a caso, in filosofia, si sono cimentate nell’impresa le scuole dell’Ellenismo, altro grande periodo storico di crisi, con risultati che per fortuna sono arrivati fino a noi, gli stoici con il monito di Epitteto a distinguere fra quello che possiamo controllare, e dunque cambiare, e quel che non dipende da noi e che ci tocca accettare, Epicuro con la sua medicina logica escogitata per liberare gli uomini dal ricatto della paura. E oggi, qual è il ruolo della filosofia in questa nuova crisi? Via Skype ne discuto con il filosofo Jean-Luc Nancy, da poco in libreria in Francia con Un trop humain virus (Bayard) raccolta di saggi sul virus «troppo umano» che rivela le contraddizioni della nostra epoca. Per cercare di capire come possiamo pensare di trovare un nuovo orientamento all’interno dei limiti dell’incertezza.

Lo psichiatra Piero Cipriano, in un libro appena uscito per Milieu, Il libro bolañiano dei morti , mette in luce il modo in cui con l’avvento del Covid, restringendosi lo spazio della vita quotidiana, è cambiata anche la nostra percezione del tempo. Ha anche lei la sensazione di qualcosa di diverso nel modo in cui scorre il tempo ultimamente?
«Sì: il tempo scorre in una maniera diversa. All’inizio sembrava solo che fosse successo qualcosa di inatteso; poi è stato il momento di prendere delle misure. Ed è diventato un tempo di attesa. In seguito è venuto il tempo dell’incertezza: ricomincerà, ci sarà il vaccino, come sarà il futuro? È stato un fenomeno sorprendente, ma adesso le cose si complicano ancora: siamo entrati in una fase di crisi economica. È un imprevisto prolungato, non sappiamo quanto durerà. È il momento dell’incertezza: da un lato il tempo vissuto, quotidiano, è tutto immobile, in casa o fra casa e lavoro; dall’altro, però, questa è un’epoca di disordine. L’altra notte ho fatto un incubo in cui Trump faceva scoppiare la guerra civile».

« Il disordine del tempo lo sentiamo in profondità perché abbiamo vissuto a lungo in un tempo continuato, progressivo. In realtà si era già innescata da un pezzo una successione di fenomeni imprevisti: a partire dalla caduta del Muro siamo entrati in una sorta di sconvolgimento dei grandi equilibri mondiali e, in un certo senso, della storia. Mi colpisce il pensiero che ho vissuto più della metà della mia vita in una grande idea di socialismo progressista: andrà meglio, pensavamo. Ma ci siamo dovuti rendere conto che non sempre il nuovo è meglio. Lo svilupparsi della coscienza ecologica ce l’ha provato: i dati ci dicono che la temperatura cresce di anno in anno, che troppe specie animali si estinguono. Io vedo nel virus il rivelarsi di qualcosa che stava già accadendo».

Un suo libro del ‘93, Il senso del mondo , parlava della contingenza come orizzonte e sfida dell’esistenza moderna. Oggi come si concilia la contingenza con un futuro imprevisibile?

 La copertina di «Un trop humain virus», l’ultimo lavoro di Jean-Luc Nancy uscito in Francia in ottobre
La copertina di «Un trop humain virus», l’ultimo lavoro di Jean-Luc Nancy uscito in Francia in ottobre

«È vero, ma nel ‘93 il senso di contingenza, per quanto importante, rimaneva sullo sfondo. Quello che è successo dopo è che è scomparsa ogni traccia del senso della storia. Sono molto colpito dalla somiglianza tra la nostra epoca e l’epoca romana. Dopo un periodo di progresso e di espansione, territoriale ma anche tecnica, culturale, giuridica, le cose iniziano a diventare incerte, si diffondono le filosofie ellenistiche: stoicismo, cinismo, scetticismo, che prendono atto dell’impossibilità di immaginare il futuro. Non ci sono mai state così tante religioni insieme come a Roma nel secolo che precede la nascita di Cristo, né tanti filosofi a proporre condotte di vita. A un certo punto, nel mondo antico è arrivato il cristianesimo, che è il prodotto di tutto questo: è anche una risposta all’incertezza. Adesso, qui, non sappiamo cosa ci aspetta».

Questa situazione ci costringe a sentire la nostra vita come una sopravvivenza? Mi viene in mente spesso la proposizione 67 della IV parte dell’ Etica di Spinoza: l’uomo libero non pensa niente meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione non della morte ma della vita.
«La nostra società non si occupa della morte. Naturalmente quando qualcuno muore lo seppelliamo, mettiamo fiori sulla tomba, ma non c’è una meditazione sulla morte come succedeva per esempio nel Rinascimento. Con il razionalismo del Sei-Settecento inizia la tendenza a cancellare la morte; quello che mi colpisce in Spinoza è che, in un certo senso, anche lui la cancella - e questo è il suo lato razionalista; ma allo stesso tempo pretende che la morte individuale sia assorbita in qualche cosa di più grande: il Tutto, la Sostanza. Le più antiche civiltà hanno tutte un senso della vita con la morte: i morti parlano, sono presenti. Noi invece non sappiamo bene cosa farcene dei morti, a parte ricordarli. È un atteggiamento legato alla nostra idea di storia: pensiamo - anzi, pensavamo, fino a poco tempo fa - che le generazioni future se la passeranno meglio. Non credo che nessuna civiltà abbia coltivato mai così a lungo un’idea di progresso».

«LA PARTECIPAZIONE A UNA LOTTA DÀ SENSO ALLA VITA, MA OGGI LA MILITANZA È QUASI SCOMPARSA: NON ABBIAMO L’IDEA DEL PROGRESSO FUTURO DELL’UMANITÀ, E SOPRAVVIVERE È TRISTE, È LA MISERIA»

«Quelli della mia età, me compreso, sono stati tutti militanti. E che cos’è un militante? È qualcuno che si vota a una causa. C’è chi è partito dalla Francia per andare a combattere con Che Guevara. Io a vent’anni pensavo che sarebbe stata una buona idea andare in Africa, anche se poi non l’ho fatto - forse non ero abbastanza militante. La partecipazione a una lotta dà senso alla vita, ma oggi la militanza è quasi scomparsa: manca la proiezione sull’avvenire. La vita somiglia sempre più a un progetto di realizzazione personale, è il modello individualista. Tornando a Spinoza, non è che lui ci chieda di dimenticare la morte, sarebbe sciocco. Ci chiede di capire che la nostra vita fa parte di qualcosa di più grande, che non possiamo comprendere appieno; non con una comprensione razionale, almeno, ma solo attraverso un’operazione esistenziale, spirituale: esattamente quello che ci manca oggi. Non abbiamo l’idea del progresso futuro dell’umanità, e sopravvivere è triste, è la miseria».

Non crede che l’idea della responsabilità di proteggere non solo noi stessi ma anche gli altri dalla trasmissione della malattia ci possa aiutare a sentirci davvero parte di una comunità, a fondere l’io nel noi?
«C’è una tendenza, rappresentata da alcuni filosofi, in particolare Agamben e in Francia Comte-Sponville, a dire: non dobbiamo lasciarci gabbare dalla preoccupazione di proteggere tutti, prolungare la vita, e così via. È vero che il prolungamento della vita non è per forza una buona idea di per sé, proprio perché ci porta verso la mera sopravvivenza. Io ho subito un trapianto di cuore quasi 30 anni fa: sono sempre stato colpito dal fatto che per i medici la sola questione importante era la durata, lo facciamo durare di più. Ma siamo sicuri che durare di più sia sempre un bene? All’epoca proprio Agamben mi aveva detto non farlo. Senza il trapianto sarei morto: sarebbe stata una vita diversa, ma comunque una vita completa. Sono e resto d’accordo con lui che nella nostra società la durata della vita è divenuta un valore di per sé: un valore solo quantitativo. E il virus ci costringe a riconoscerlo».

«È SCOMPARSA OGNI TRACCIA DEL SENSO DELLA STORIA: MI COLPISCE LA SOMIGLIANZA FRA LA NOSTRA E L’EPOCA ROMANA»

«Per me Spinoza è soprattutto la penultima proposizione dell’ Etica : la beatitudine non è la ricompensa della virtù ma il suo esercizio stesso. È una frase di una potenza straordinaria. Noi ci muoviamo sempre nell’idea della ricompensa: lui ci dice che la beatitudine è l’esercizio stesso della virtù (che non significa virtù morale, ma la forza che anima il conatus , l’impulso a perseverare nell’esistenza). Quest’idea a noi manca. Essere singolare plurale , il mio saggio del ‘96, penso di averlo scritto proprio per affermare che, come dice Heidegger, anche la solitudine è un modo di essere-con, che non siamo atomi isolati. Quello che colpisce è che in un certo senso questo lo sanno tutti, a livello di esperienza: contro le misure anti-Covid c’è una protesta generale della vita comune, l’idea di bere un bicchiere al bistrot, uscire, ballare. Non è che voglia giustificare le proteste; ma non abbiamo niente da replicare, in effetti. Se non nella direzione dell’esercizio spirituale, nel senso foucaultiano della cura di sé; ma penso che nessun esercizio spirituale possa funzionare se non è supportato dalla comunità, se resta isolato».

La primavera scorsa ha chiuso il suo intervento alla maratona P rendiamola con filosofia , organizzata da Tlon, con un’esortazione a “essere bambini”. Come si può fare propria la postura dell’infanzia?
«Quando siamo bambini non abbiamo nessuna proiezione sul futuro: stiamo dentro il presente. Questo non vuol dire che siamo statici, anzi, i bambini sono sempre in attività. Spesso si pongono domande metafisiche: da dove vengono i bambini? E dove si va dopo la morte? Si meravigliano molto, sono ricettivi. Ho un ricordo d’infanzia a cui penso spesso: dovevo avere quattro anni, è morta la mia bisnonna, che viveva con noi. I miei genitori e i nonni hanno pensato di doverlo nascondere a me e alla mia sorellina. Ma noi capivamo. Forse non avevamo la parola morte per dirlo, ma sono sicuro che sentivamo che era morta; ci portarono in una stanza mentre venivano i becchini a prendere il corpo. È un ricordo angosciante e rabbioso: mi faceva rabbia essere chiuso in una stanza mentre succedeva qualcosa di importante».

«OGGI LA FILOSOFIA È DI FRONTE ALL’URGENZA DI AMMETTERE, CON UMILTÀ, CHE NON PADRONEGGIAMO IL REALE»

«Mia sorella e io avremmo potuto avere un rapporto molto più semplice con la morte della bisnonna, se gli adulti non avessero pensato che era meglio nascondercela. Penso che questa cosa del tornare bambini abbia a che vedere con la pratica filosofica: bisognerebbe trovare un modo di tornare allo stupore da cui è nata la filosofia. Oggi è difficile perché tendiamo a prevedere tutto in anticipo. Il fatto è che lo stupore non lo possiamo evocare volontariamente: potrei anche aprire una scuola e dire venite a imparare a essere bambini, ma sarebbe una truffa, si perderebbe la spontaneità della meraviglia. Bisogna liberarsi della domanda: che cosa fare? Si tratta di lasciar accadere qualcosa che accadrà, ma che ora è difficile vedere e prevedere».

Siamo nell’occhio del ciclone, forse. Qual è il ruolo della filosofia in questa situazione?
«Penso che la filosofia sia in una posizione in cui non può fare altro che interrogarsi su sé stessa, su cos’è e cosa fa. Hegel parla della nottola di Minerva che si invola quando finisce il giorno: c’è sempre un ritardo della filosofia sulla civiltà, e questo vuol dire che la filosofia non può predire niente. È molto difficile parlare di fine della filosofia; oggi io direi semplicemente che è di fronte all’urgenza di ammettere, con umiltà, che non padroneggiamo il reale. Penso che un personaggio notevole del pensiero moderno sia il Bataille dell’esperienza interiore del nonsapere. L’esperienza del non-sapere non è veramente un’esperienza, non è come se io salissi su una barca a vela per dire poi ho fatto questa esperienza; non si entra nel non sapere, anzi, la stessa maniera di scrivere di Bataille, il fatto che non sia mai riuscito a costruire un libro di filosofia, ci mostra come questa cosa sfugga, anche se ne ritroviamo degli aspetti in Deleuze e Derrida. E allora siamo davanti a un paradosso: come pensare qualcosa, senza sapere niente? È l’esperienza dell’ascetismo. Qua si tratta di incontrare la morte: non un incontro amoroso, ma un incontro amichevole. L’unica preparazione che possiamo avere nasce da come ci siamo sentiti davanti alle opere d’arte, o alla lettura di certi poeti: ogni incontro con il bello, con il vero, è un lasciare la presa, come se ci accadesse qualcosa che non riusciamo a dominare, ma che in fondo non è importante dominare».

CARTA D’IDENTITÀ


La vita — Nato a Bordeaux il 26 luglio 1940, Jean-Luc Nancy ha insegnato filosofia alle università di Strasburgo, Berkeley, Berlino, Irvine, San Diego. Dopo aver subìto un trapianto cardiaco, ha continuato a vivere grazie al cuore donato da una donna, ossia l’Intruso di cui parla nell’omonimo saggio autobiografico pubblicato nel 2000 (tradotto in italiano da Cronopio)
Il pensiero — Derrida gli ha dedicato il libro Le toucher. Jean-Luc Nancy, uscito nel 2000 e proposto in Italia lo scorso anno da Marietti. Nel 2002 il Collège International de Filosofie ha organizzato in suo onore un convegno intitolato Sens en tous sens, Il senso in tutti i sensi

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