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Alla scoperta della Valsecca di Roncobello (seconda parte)

Articolo. La Valsecca di Roncobello è quella ramificazione della valle Brembana percorsa dall’omonimo torrente che nasce nella conca di Mezzeno e si unisce al Brembo poco sotto l’abitato di Bordogna. Un angolo di Dolomiti nel cuore della nostra provincia

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Gigli in Valsecca

Lo scorso mese di settembre ci eravamo lasciati con la promessa di tornare in Valsecca per proseguire l’esplorazione del territorio, proponendo un itinerario attraverso la zona calcarea che caratterizza il versante sinistro della vallata.

Consiglio di intraprendere questa escursione di pomeriggio, quando il sole illumina le rocce bianche rendendole luccicanti. Sempre in compagnia di Guido, profondo conoscitore della zona, partiamo da dove eravamo rimasti: il rifugio escursionistico Valle del Drago (890m), in cima alla frazione di Baresi, prezioso punto di appoggio per le passeggiate in Valsecca.

Ci incamminiamo lungo la strada in direzione della chiesa fino ad una fontanella dove si diparte la scaletta che conduce alla sottostante contrada Oro. Al termine della contrada la mulattiera scende repentina verso il torrente, approdando nel prato che ospita il Mulino di Baresi (830m), gioiello di architettura rurale. Una trave di legno all’interno riporta la data del 1672, ma esistono testimonianze storiche che fanno risalire la sua costruzione almeno al 1550. Il mulino ha funzionato ininterrottamente fino al secondo dopoguerra quando ha ridotto la sua attività fino a chiuderla definitivamente negli anni ’90 del secolo scorso.

Il mulino è stato oggetto di una sapiente opera di restauro promossa dal F.A.I. che ha ridato vita all’antico opificio. Qui si macinavano frumento, avena, miglio, mais e noci per produrre olio, ma il mulino ha svolto anche la funzione di maglio. I valligiani portavano i cereali a macinare e lasciavano in pagamento al mugnaio la decima, cioè la decima parte del macinato che il mugnaio utilizzava per il proprio sostentamento o per rivenderla. Frumento e granoturco giungevano a Baresi a dorso di mulo dalla bassa valle Brembana, ma a volte anche dalla media valle Seriana, attraverso il passo del Branchino. Per visite ed approfondimenti consiglio di visitare il sito.

Oggi pomeriggio il mulino è chiuso ma uno sguardo d’insieme è d’obbligo. Scendiamo nel prato fino al ponte a schiena d’asino che attraversa il torrente. Il corso d’acqua delimita il confine tra il versante destro della valle, dominato dal verrucano lombardo, e quello opposto, dove regna il calcare. Percorrendo la mulattiera in prossimità del torrente si può notare che il selciato è composto prevalentemente da ciottoli rossastri (verrucano). Man mano che si sale verso la contrada Valsecca (860m) i sassi chiari di dolomia prendono progressivamente il posto di quelli rossi a testimoniare il cambiamento del contesto geologico. Anche le pietre con cui sono costruite le abitazioni presentano la medesima caratteristica. La contrada Valsecca è raggiungibile solo a piedi e nell’attraversarla si respira un’atmosfera di tranquillità totale. I prati soprastanti, un tempo preziosi pascoli, oggi sono brucati solo dalle pecore, di mucche nemmeno l’ombra. Oggi anche i residenti sono solo temporanei.

Risaliamo la traccia nel prato che, dopo aver sfiorato alcune cascine, entra nel bosco. Guadagniamo quota fino a raggiungere la splendida conca di Fopagà (950m), invidiabile angolo di verde alle pendici del monte Menna.

La prima meta escursionistica della giornata è la Corna Büsa, toponimo molto frequente in bergamasca, da non confondere con il rinomato roccione scalvino o con il celeberrimo Santuario mariano della valle Imagna. Nel margine prativo di Fopagà corre un sentiero che, in pochi minuti, sale all’anello per lo sci da fondo di Roncobello. Percorriamo in senso antiorario la pista fino ad intercettare il sentiero CAI n° 235 (diretto alla cima di Menna) che seguiamo.

Le pendenze significative ci fanno guadagnare quota velocemente e, superata una piccola pozza d’acqua (sconsigliato bere) posta al termine del tratto ripido, arriviamo a sfiorare la Corna Lunga. Si tratta di un’imponente faglia calcarea dalla caratteristica forma ad ali di rapace. Basta abbassarsi di pochi metri dal sentiero per ammirarne il maestoso sviluppo. Un altro minuto sul sentiero 235 e finalmente raggiungiamo la Corna Büsa (1280m), una cavità rocciosa ampia e articolata, con due statue della Madonna a vegliare sugli escursionisti. All’interno, nella parte alta, una corda stuzzica la nostra curiosità. Alcuni appassionati del luogo hanno attrezzato una serie di divertenti passaggi di roccia che si intrufolano nel cuore della cavità per fuoriuscirne sul fianco. Interessanti scorci sulla piana di Lenna e il lago di Bernigolo accompagnano la breve arrampicata. Trattandosi di passaggi su roccia sono indispensabili assenza di vertigini e un minimo di esperienza.

Riprendiamo il cammino lungo il sentiero n°235 che ora presenta pendenze meno impegnative. Nel bel mezzo di una zona di bosco rado appare un pietrone giunto lì chissà da dove: la Corna della Merenda (1355m). Si tratta di un monolite squadrato con la sommità piatta che pare fatta apposta per una sosta ristoratrice. Ancora qualche minuto ed eccoci nei pressi della radura che ospita la Cassina di Bàres (1383m) (sulle cartine è riportata come baita dello Zoppo). Il colpo d’occhio è meraviglioso: la baita di legno è immersa nel verde del prato e degli abeti ed è sovrastata dalle bianche rocce del Menna. Sembra un angolo di Dolomiti!

Guido racconta: «fino al secondo dopoguerra molta parte di questi boschi era tenuta a pascolo e gli abitanti della valle, per ottenere acqua sufficiente per loro e per l’abbeveraggio del bestiame, ogni estate, installavano per centinaia di metri una canalizzazione di tronchi di abete, scavati a grondaia, fino ad una piccola sorgente detta Fontana del Torosél. A fine estate le “canále” venivano raccolte e accatastate al riparo in una fenditura tra le rocce e lì, tuttora, ne esistono alcuni resti. Per recuperare ulteriore acqua di superficie in questa zona carsica dal nome inequivocabile (Valsecca), gli abitanti avevano picchiettato la roccia convogliando nella gronda gli sgocciolamenti residui quando la sorgente non gettava».

Guido non manca di sorprenderci: «vi faccio vedere un’altra chicca!» e ci conduce nel bosco a 100m in linea d’aria dalla baita in direzione nordovest. Un’area delimitata da un nastro segnalatore protegge l’ingresso di una voragine assai minacciosa. Ci avviciniamo con grande circospezione: scivolarci dentro sarebbe tragico! È una dolina, in zona ne esistono altre, persino sulla cresta del Menna. In gioventù, in compagnia di un amico, si calarono nel buco per 15 metri e sul fondo rinvennero frammenti di scheletri delle vacche uccise dalla peste bovina nel decennio 1920-30, bruciate e ricoperte di calce viva. L’atmosfera e il racconto di Guido ci lasciano un senso di inquietudine… torniamo volentieri alla baita!

Poco oltre la baita un cartello di legno indica la deviazione per la baita dei Muffi. Abbandoniamo il sentiero n° 235 per seguire il nuovo percorso. Anche se non sono presenti i bolli segnalatori il tracciato è evidente. Attraversato il Canàl di Èdei (canale dei vitelli) raggiungiamo un capanno a quota 1410m. Non saliamo verso la baita dei Muffi ma deviamo in discesa e, in breve, perveniamo alla Cassina di Bordogna (1333m), altro gioiellino posto su una collinetta panoramica.

Continuiamo ad abbassarci fino a un bivio, indicato da un ometto di sassi a quota 1120m. Una brevissima deviazione per una traccia guidata da altri ometti ci porta al cospetto della Corna del Cò, un caratteristico masso a forma di testa umana, in bilico su un piedistallo di conglomerato calcareo che l’erosione delle acque sta lentamente assottigliando. È facile immaginare il destino di questo pietrone nel corso del tempo.

Torniamo sul sentiero principale e proseguiamo la discesa. Al bivio seguente teniamo la sinistra e, a quota 980m, incontriamo un’altra curiosità carsica: il Cornèl, una roccia con un grande buco, sovrastata da alberi e vegetazione. Ancora pochi minuti e ci ritroviamo nuovamente sui pascoli della contrada Valsecca. Nel mezzo del prato, Guido mi suggerisce di scattare una foto verso Baresi. A casa possiede una fotografia della frazione dei primi anni del ‘900 probabilmente scattata da quel punto. Sarà interessante fare il confronto tra i due scatti.

Non ci resta che raggiungere nuovamente il Mulino, ormai in ombra, e risalire a Baresi. È quasi sera e il sole del tramonto conferisce al Menna e alla Corna Lunga un incantevole colore rosato. Giusto il tempo di scattare un’altra foto. Guido ci fa notare una chiazza di prato sopra la Corna Busa, quasi in cima al Pizzo: «vedete quello è il prato del Pizzo. Nel secondo dopoguerra il papà di Claudio (un amico comune) nei mesi estivi, saliva più volte a piedi con la falce, riempiva la gerla di erba e se ne tornava a valle». Non che mancasse erba nei prati di Baresi, anzi, ma ogni famiglia cercava di procurarsi ulteriore foraggio dai prati in cui non era possibile condurre le bestie a pascolare. Faccio un rapido calcolo: il prato del Pizzo si trova a quota 1800m, il torrente a 800m quindi il papà di Claudio copriva più di 1000m di dislivello (perché poi doveva risalire in paese) per procurarsi una gerla di erba… altri tempi!

Entriamo in casa di Guido per confrontare le due foto di Baresi: le nuove abitazioni non hanno modificato la fisionomia della contrada ma la cosa più evidente è che il bosco si è impossessato quasi interamente del versante. Si nota anche che, a quei tempi, gran parte dei terreni vicini alle case erano coltivati (prevalentemente avena e patate) mentre oggi sono solo prati da sfalcio.

P.S. L’escursione è lunga poco più di 7 km con 750m di dislivello positivo. Calcolare tre ore abbondanti (soste comprese) per completare l’anello e… portatevi l’acqua!

Trattandosi di un itinerario su sentieri secondari fornisco anche una traccia del percorso al seguente link.

(Tutte le foto sono di Camillo Fumagalli, eccetto ove indicato)

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