Alla fine di qualsiasi pranzo in cui antipasto, primo, secondo e contorno sembrano aver riempito ogni anfratto del nostro stomaco, gli indomiti camerieri giungono a noi con un sorriso beffardo e tentatore sulle labbra. Giungono le mani e chiedono, senza pudore: «I signori gradiscono il dolce?».

A parte qualche raro diniego innescato da sensi di colpa nei confronti di diete da rispettare, la risposta è sempre la stessa: un folle, incomprensibile «sì». Come se ci fosse un secondo stomaco dentro di noi dedicato al dessert, sempre pronto a incamerare portate zuccherine. Inspiegabile? Non proprio. Il dilemma ha appassionato diversi studiosi, che hanno messo a punto studi per dare una spiegazione scientifica al perché nei nostri corpi c’è sempre spazio per il dolce.

La “fame di zuccheri”

Il rapporto che abbiamo col cibo è molto complesso. Si è strutturato nel tempo, combinando tre fattori: il cibo, i geni e l’ambiente circostante.

Questa interazione ha influenzato la nostra continua ricerca di cibi dolci (ma anche salati), radicando la nostra diffidenza verso l’amaro. Ma se alcuni gusti possono essere divisivi, come accade per l’acido, al dolce siamo abituati sin da piccoli, quando ricerchiamo energia per far funzionare i nostri corpi. Proprio come la frutta, i primi “dessert” dell’uomo, i dolci forniscono energia immediata. La stessa cosa accade con i carboidrati.

Dietro la voglia di dolce contro ogni ragionevole sazietà c’è prima di tutto l’evoluzione umana. Lo stesso accade per il salato. Infatti, il cloruro di sodio serve al nostro organismo, che non può stoccarlo, per mantenere il corretto livello di pressione sanguigna. Quindi non è vero che esistono “tipi da dolce” – o, come li chiamano gli anglosassoni, i sweet tooth – e “tipi da salato”. È più che altro una questione di sopravvivenza.

Ci sono voluti migliaia di anni per modellare questi meccanismi fisiologici e oggi, anche se il mondo è cambiato offrendo mille tentazioni gastronomiche facili da afferrare, questi impulsi sono rimasti. «Basta uscire di casa per essere sommersi dal cibo. Prima si doveva mettere a rischio la vita per sfamarsi», spiegano Carol Coricelli e Sofia Enrica Rossi, autrici del libro Guida per cervelli affamati (Il Saggiatore). A livello organico, a regolare il senso di sazietà è la corteccia insulare e quella orbito-frontale, regioni chiave per attivare i meccanismi di ricompensa. Sono queste le zone del cervello che si riattivano se, dopo aver mangiato, ci viene offerto un dolce.

«Ma l’evoluzione ci ha insegnato a seguire una dieta variegata. Quindi, quando arriviamo a fine pasto e ci presentano un dolce con caratteristiche sensoriali diverse da quello che abbiamo appena mangiato, i meccanismi di fame e sazietà si azzerano. Il nostro cervello percepisce di avere davanti qualcosa di completamente diverso a livello organolettico e nutrizionale e ci invia un messaggio chiaro: dobbiamo mangiarlo perché ci serve per sopravvivere. Funziona per il dolce, ma anche per altri cibi. È quello che accade quando siamo davanti ai tanti vassoi di un buffet».

Sazietà sensoriale

In realtà, il nostro corpo ha messo a punto un meccanismo per impedirci di mangiare sempre gli stessi cibi, spingendoci ad adottare una dieta varia e salutare.

Barbara Rolls, docente di Scienze della Nutrizione alla Pennsylvania State University, ha studiato il fenomeno, elaborando la teoria della sazietà sensoriale specifica o sensory-specific satiety (Sss). Secondo la studiosa in alcune situazioni possiamo effettivamente contare su una sorta di spazio supplementare, creato dal nostro cervello.

Prima di lei, ci aveva provato il neurofisiologo francese Jacques Le Magnen nel 1956, ma è stata Rolls ad approfondire il meccanismo con un esperimento condotto su un gruppo di volontari nel 1981.

Nello studio Variety in a Meal Enhances Food Intake in Man l’équipe di ricerca ha sottoposto tre gruppi di volontari, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, maschi e femmine, a svariate prove di assaggio con l’intento di analizzare diversi aspetti della sazietà sensoriale specifica. Nel primo esperimento furono preparati quattro sandwich con quattro differenti farciture per ciascuna delle 36 volontarie coinvolte. Nella prima settimana, però, fu servito loro solo un panino, lo stesso per ciascuna delle quattro portate del test. Mentre, nella seconda, si susseguirono tutti e quattro i gusti, uno dopo l’altro.

Il secondo esperimento coinvolse 24 persone ambosessi a cui, come con i panini, furono offerti tre tipi di yogurt (noci, ribes nero e arancio), diversi per sapore e consistenza. Come per il primo test, anche in questo caso la somministrazione fu mono-gusto per i primi giorni e variata negli ultimi.
Infine, 24 infermiere parteciparono all’ultimo esperimento in cui, con le medesime modalità dei primi due, furono presentati loro tre yogurt (fragola, ciliegia e lampone) diversi per sapore, ma resi molto simili tra loro per colore e consistenza.

Da tutte le prove è emerso che i soggetti mangiavano di più quando veniva presentato un piatto nuovo. Analoga perdita di interesse si è registrata anche nell’ultimo esperimento, in cui l’apparenza pressoché identica dei tre yogurt ha finito per omologarli agli occhi dei volontari: un’ulteriore prova della correlazione tra la sazietà sensoriale specifica e la varietà, anche superficiale, del cibo.
Ma di fatto, anche se sazie, le persone hanno sempre continuato a mangiare dimostrando che, in presenza di cibi diversi, l’organismo ci spinge a non rinunciare a ciò che viene offerto proprio perché differente.

Il declino del piacere che proviamo per ciò che abbiamo mangiato è chiamata “noia papillare”, ma ha a che fare anche con l’aspetto del cibo. Per questo alimenti con caratteristiche differenti di aroma e gusto risulteranno più attraenti. A liberare spazio per il dolce, dunque, è la radicale variazione del tipo di alimento, del suo aspetto, odore e consistenza. La sazietà sensoriale specifica si applica ai cibi con proprietà percettive simili a quelli che abbiamo appena consumato.

Anche per questo i buffet, con l’ampia varietà di proposte gastronomiche offerta, invitano a consumare quantità eccessive di cibo, ben oltre il limite della sazietà, spinti dal nostro cervello ad approfittare dell’offerta differenziata.

L’evoluzione del dessert

Proprio perché c’è sempre spazio per il dolce, soprattutto nelle realtà fine dining il momento del fine pasto è diventato cruciale. In cucina è sempre più frequente trovare una figura dedicata, che si occupa di sviluppare in modo puntuale la carta dolci.
Obiettivo: non deludere il cliente nell’ultimo miglio. Fabrizio Fiorani, pastry chef e consulente per diverse realtà tra cui il bistellato Duomo di Ciccio Sultano, a Ragusa, si definisce dreamer, un sognatore.

Attraverso il suo lavoro dà forma ai desideri di chi a tavola cerca il piacere consapevole. «Chi siede nei nostri ristoranti non vuole più il cabaret di dolci infinito ed è attento alla qualità. La mia misura? È nel cucchiaio: in 20 grammi deve esserci tutto. Abitiamo quella parte di mondo in cui non si mangia per fame. Quindi perché offrire qualcosa che non lascia lo spazio per respirare?».

Inoltre, anche nei dessert l’ingrediente di qualità resta al centro, proposto senza troppi voli pindarici e con coscienza, preferendo produzioni etiche e rispettose dei lavoratori.

Per rendere il dessert compatibile con un percorso lungo e articolato Fiorani si siede a tavola con Sultano e insieme fanno i clienti. «Sono loro che pagano i nostri stipendi, quindi faccio ciò che mangerei se fossi al posto di chi siede alle nostre tavole.
Il mio imperativo? Portare in tavola sapori iperriconoscibili. Quello che sembra deve essere anche nel piatto». Ma tra un dessert mangiato per gola e uno indimenticabile c’è una differenza e la fa l’interazione. «Dobbiamo sentirci partecipi di ciò che stiamo mangiando».

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