Luigi Lo Cascio, 52 anni, già David di Donatello nel 2001 come miglior attore protagonista per I cento passi, è ora candidato tra i non protagonisti per Il traditore di Marco Bellocchio, in cui interpreta il ruolo del pentito Totuccio Contorno. Mi annuncia, prima di iniziare l'intervista, che il suo contributo è destinato a deludermi.

In che senso?

Nel senso che qui siamo convocati dall’evento delle candidature a dire qualcosa sul futuro, ma ora la mia posizione è di grande sospensione, non si è attivata in me la riflessione, sono nel pieno di un’esperienza imprevedibile e a suo modo anche scioccante e talmente breve da scoraggiare in me l'urgenza di mettermi in moto per contribuire a immaginare scenari possibili. È durata un paio di mesi e la sensazione è che durerà ancora molto a lungo, dobbiamo ancora capire in quale prospettiva metterci.

Luigi Lo Cascio e il cinema ai tempi della pandemia

Qual è la sua prospettiva in questo momento?

In questo momento sono ottimisticamente nella condizione di immaginare che questa crisi è un’eccezione. O entriamo nell’epoca delle pandemie e allora va ristrutturata la vita, la mente, oppure si ritornerà in un modo naturale alle cose di sempre, cercando magari di portarci dietro acquisti ed emozioni nuove. Ma in linea di massima ritornando all'idea che il cinema si fa in un certo modo e che si ritornerà a vederlo in sala o in televisione. Non capisco perché dobbiamo costringerci a pensare che questa sia una calamità a cui bisogna per forza rispondere con delle invenzioni. Ci sono altre cose che mi turbano.

Che cosa?

Il fatto che in un momento in cui i set sono chiusi, le sale sono chiuse, noi possiamo continuare tranquillamente a vedere dei film. Questo mi dispiace, io avrei vietato la visione da casa in questo periodo.

Perché?

Come si fa a sapere se il cinema è un bene primario? Certo, non ci manca come il cibo o l’acqua, ma a un certo punto la vita ha bisogno delle storie, lo abbiamo visto anche in questi giorni, ha bisogno del racconto, che restituisce il senso delle cose, l’arte ci permette di articolare meglio queste domande, ci dà conforto. Ma in questa fruizione solitaria ad appagare le persone è solo l'esperienza del racconto: una storia mi interessa, perché mi riguarda, perché parla di me. Per godere di quell'aspetto, molto parziale, di un film, ci basta un telefonino. Questa fruizione ci impedisce di comprendere il senso vero dell'interruzione di questi giorni. Se uno è radicale e onesto deve dire che il cinema ha bisogno della socialità, della comunanza e della compagnia quando si fa, uno spettatore può anche negare questo, ma il cinema è di per sé un’arte sociale nel suo farsi. E la società deve sapere che c’è bisogno de contributo di tutti perché il cinema possa riprendere nella sua dimensione corale.

Che cosa si perde chi fruisce del cinema dal divano di casa?

L'esperienza dell’immensità dello schermo, del suono che ti travolge, del respiro delle persone sedute accanto a te, non c'è niente di più totalizzante e travolgente.