Piccolo inchino, sguardo aperto, sempre un po’ stupito e sempre così cortese. Il premio Oscar per il film Drive my car Ryusuke Hamaguchi riassume dolcezza e curiosità in tre sole parole in italiano: «Come stai?» e «Tintoretto!», una grande passione che sta per scoprire dal vero all’Accademia di Venezia. Il resto, all’ultima Mostra del cinema in cui l'abbiamo incontrato per Elle, erano frasi, sorrisi e smozzichi in equilibrio imperfetto tra l’inglese, che lui parla poco, e il giapponese, che io non parlo affatto, conditi di domande sui nostri registi classici di cui è fan, da Visconti ad Amelio.

Pur maestro celebrato, Hamaguchi alla Mostra pare arrivato per caso con un piccolissimo film Evil does not exist – Il male non esiste (in sala con Tucker e Teodora) giunto all’ultimo istante ad Alberto Barbera e rivelatosi un capolavoro, al punto di aggiudicarsi il Gran premio della giuria. Una conferma del suo stile musicale e poetico, pieno di compassione e di dettagli, una ricerca di libertà contro ogni restrizione, il paradosso, il sesso e il lutto scomposti in labirintici plot, ma stavolta in levare. In Evil sceglie la semplicità per un apologo limpido sul rapporto tra noi e il pianeta.

La storia sulla carta pare bizzarra: un’agenzia di spettacolo vuole costruire un glamping, uno degli hotel-campeggio alla moda e glam, in un villaggio boschivo del Giappone, Mizubiki, i cui abitanti vivono nel culto dell’armonia con la natura, assecondandone i ritmi. I locali sbarreranno il passo agli inesperti funzionari mandati a trattare e a un’impresa che si rivelerebbe nociva per l’acqua e la sostenibilità del luogo. Impigliati nella storia resteranno Takumi (Hitoshi Omika), il tuttofare custode delle tradizioni, e la figlia Hana, la giovanissima Ryo Nishikawa. Il film è un piccolo gioiello di sentimenti, silenzi, dialoghi.

Nitido e dritto al cuore delle cose, minimale eppure crudele, con tracce del suo autore prediletto, l’Antonioni di Blow Up e le musiche sottili di Eiko Ishibashi, polistrumentista e performer, già autrice della colonna sonora di Drive my car.

Pare tutto nasca dalla collaborazione con Ishibashi, anche l’idea di Evil does not exist.

Eiko mi ha chiesto di girare alcune immagini per una sua live perfomance ispirata al nostro comune interesse per la land art e l’impegno per un equilibrio diverso del pianeta. Entrambi conoscevamo il lavoro di Robert Smithson, autore della famosa installazione Spiral Jetty, la sua teoria secondo cui la storia della Terra è come un grande libro di cui ogni pagina è stata fatta a pezzetti e molti di questi frammenti sono andati persi per sempre. È nato così il corto Gift che accompagnava la performance e ho poi pensato che da quelle sequenze poteva nascere un film. È andata così.

Il male non esiste. Ê davvero così?

Non passo il tempo a interrogarmi su Male e Bene. L’idea del titolo mi è venuta quando abbiamo fatto i sopralluoghi in quel villaggio dove tutti sembrano vivere in armonia con la natura e abbiamo cominciato a “rubare” immagini del territorio. La sensazione è stata precisa: nella natura non esiste il male, siamo noi a crearlo, siamo gli invasori. Il titolo è una provocazione per indurre lo spettatore a immaginare questa poetica, brutale, lotta per la sopravvivenza del pianeta.

Quel villaggio così resistente nei confronti delle idee anti-ecologiche dei commissari inviati dalla città esiste davvero?

Esiste, anche se naturalmente ho mischiato un po’ le carte e cambiato il nome, ma tanti degli interpreti sono del luogo, tranne i due sprovveduti inviati a spiegare l’idea del glamping, Takahashi e Mayuzumi, interpretati da attori.

Come nasce l’idea del glamping?

Me ne hanno parlato amici e la storia del film è realmente accaduta, un’agenzia è davvero andata a fare una sessione esplicativa sull’imminente costruzione in zona di un glamping e la popolazione locale ha risposto evidenziando con veemenza tutte le problematiche, al punto che i funzionari sono ripartiti senza nulla di fatto. Esistono le registrazioni audio di quell’incontro, della resistenza di un’intera comunità e io le ho ascoltate e utilizzate: tutto ciò che si vede nel film ha radici nella realtà.

Ma lei in uno di questi famosi glamping ci ha mai passato una vacanza?

No (ride), non ci penso proprio, con il green non ha nulla a che vedere, è solo un investimento economico, pensato esclusivamente per persone che arrivano dalla città e vogliono un contatto con la natura, senza però i disagi, il freddo, la scomodità. Trasportano nel glamping la mentalità cittadina: si può definire quest’esperienza un contatto vero con la natura? È davvero questo che vogliamo? E non è forse lecito che la natura a questo abuso si ribelli?

Nel suo film è centrale una riflessione molto contemporanea, non didascalica, sull’interazione malata fra natura e progresso. Era ciò che voleva comunicare?

Volevo parlare di un equilibrio possibile che sappia superare la nostra concezione solo distruttiva. Il personaggio di Takumi esiste davvero, è stato un modello, sa fare tutto, sa cos’è il wasabi selvatico, distingue ogni pianta e lavora il legno, costruisce le case seguendo le regole tradizionali. È molto diverso da me e mi affascina, porta con sé un mistero antico. Da lui i due funzionari imparano in modo assai brusco a conoscere il villaggio, in particolare Takashi ne rimane coinvolto, la sua visione del mondo cambia, la prima volta che riesce a rompere un tronco con un colpo d’accetta scopre in sé una libertà che non si aspettava. Ma tutto è instabile: «Perché stai facendo questo?», urla a Takumi quando d’improvviso scopre che è diventato pericolosamente aggressivo.

Il finale sorprende, nulla lascia presagire la svolta drammatica.

L’ho pensato così fin all’inizio. Noi sottovalutiamo la ribellione e la rabbia che le persone covano. Non conosciamo davvero uno come Takumi, vive secondo regole e principi che non sono i nostri, gli è più facile comunicare con la natura che con gli esseri umani. Per lui chiunque attenti all’equilibrio naturale è un nemico.

Il finale è girato mirabilmente, in visione aerea o da lontano intuiamo il dibattersi dei personaggi, la fuga nei campi ai margini del bosco. Alla fine tutti si chiedono se è un happy end, se c’è stato un assassinio, chi è morto e se davvero è successo. So che è la domanda a cui non vuol rispondere, ma farebbe un’eccezione per me?

Ma certo (sorride stavolta, con nipponica gentilezza e crudeltà), le rispondo volentieri: scriva pure che nel finale del film non si capisce se, e chi, muore.