La mummificazione, naturale o artificiale che sia, è un processo attraverso cui i tessuti di un cadavere subiscono un forte disidratazione e riescono a resistere alla decomposizione. Ovviamente, è indispensabile che all’esterno e all’interno del corpo si verifichino particolari condizioni perché ciò possa accadere. Nello specifico, è necessario che il clima sia caldo e ventilato in modo da contrastare la putrefazione; la sepoltura deve avvenire all’interno di terreni asciutti e dall’alto potere assorbente; sul corpo devono nascere particolari muffe che, unite agli altri elementi, coadiuvano l’assorbimento dei liquidi. Tutto ciò avviene in una media di sei-dodici mesi dal momento del decesso, anche se esistono casi in cui la mummificazione si è verificata in due o tre mesi o, addirittura, in due o tre settimane. Ad ogni modo, ritrovamenti come la mummia di Xin Shui, sepolta in una cella ipogea, o l’uomo di Tollund, gettato nelle torbiere e conservato grazie alla torba stessa, dimostrano che, a seguito di ciò, il corpo può mantenersi intatto anche per millenni.

Mummificazione e Antico Egitto

Una delle testimonianze più famose della storia in cui l’uomo è ricorso alla mummificazione per preservare i corpi dei propri cari è l’Antico Egitto: basta anche solo compiere i primi passi nel percorso espositivo del Museo Egizio di Torino, infatti, per entrare in contatto con mummie di migliaia di anni che ancora si presentano come se il tempo non fosse passato.

Nel caso dell’Egitto si deve comunque parlare di mummificazione artificiale e volontaria, seppur questa pratica sia partita osservando e studiando il decorso della natura. Non solo: iniziato come rito riservato esclusivamente alla casta nobile della società, il rituale si è poi esteso a chiunque disponesse della somma necessaria per pagare il procedimento.

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Come avveniva la mummificazione in Egitto

Gli antichi imbalsamatori, figure a metà strada tra medici con conoscenze di anatomia e guide spirituali, intervenivano sul corpo del defunto assai rapidamente per evitare che il caldo dell’Egitto potesse iniziare a decomporre il cadavere. I loro laboratori, poi, sorgevano a ridosso del Nilo in modo che la salma potesse essere pulita a più riprese durante il processo. Nello specifico, si partiva rimuovendo gli organi interni del morto facendo passare il cervello attraverso le narici e le viscere attraverso un taglio praticato sull’addome; il cuore, invece, veniva lasciato in loco poiché ritenuto sede dell’anima. Tutto ciò che era stato asportato, comunque, veniva conservato all’interno dei vasi canopi, anche loro inseriti nella tomba: in epoca tarda, tuttavia, il processo di mummificazione ha iniziato ad essere esteso anche agli organi interni che, una volta mummificati, venivano poi reintrodotti nel corpo. Svolta questa pratica, il cadavere veniva disidratato grazie al sale e lavato con vino di palma molto disinfettante: nell’addome, infatti, si inserivano delle bende impregnate di sale, applicate anche sulla superficie esterna del defunto. Dopo aver apposto sull’incisione addominale una placca metallica (l’occhio di Horo), il corpo veniva poi avvolto in spesse fasce di lino impregnate di resine, sulle quali erano scritte formule magiche e propiziatorie per il viaggio nell’aldilà, prima di essere riposto nel sarcofago.

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Il significato della mummificazione nell’Antico Egitto

A lungo ci si è interrogati sul perché gli antichi egizi mummificassero i defunti e, in realtà, la risposta è ancora oggi un’ipotesi. Sappiamo che era credenza comune la convinzione che dopo il passaggio della morte, l’anima del cadavere iniziasse un viaggio nel regno dell’oltretomba a cui doveva essere preparata. Secondo la religione egizia, infatti, la resurrezione era assolutamente possibile: l’uomo era governato da due spiriti (il Ba e il Ka) che, esalato l’ultimo respiro, abbandonavano il corpo per poi ripresentarsi dopo il funerale. Era indispensabile, allora, che le fattezze del defunto rimanessero il più possibile intatte per tornare ad ospitare entrambi. Una volta ricongiunti, l’anima del defunto veniva accompagnata da Anubi al cospetto di Osiride e, in questo momento, ne veniva pesato il cuore: qualora il suo peso fosse stato inferiore a quello di una piuma di Maat, dio della giustizia, il morto avrebbe potuto godere della vita eterna.

Sokushinbutsu: la mummificazione tra Giappone e Cina

Nonostante siano l’esempio più comune, non erano solo gli antichi egizi a mummificare i corpi: anche in Cina e in Giappone, infatti, molti religiosi si sono prestati (volontariamente e da vive) a questa pratica, solitamente svolta dai monaci buddhisti nel rituale denominato sokushinbutsu. Il rito, in voga a partire dall’XI secolo, prevedeva una lunga preparazione mentale e fisica attraverso cui si arrivava alla morte: nello specifico, chi decideva di sottoporsi a questa pratica non faceva altro che predisporre il proprio corpo a una automummificazione attraverso tre fasi della durata di mille giorni l’una. La prima prevedeva tanta meditazione e un’alimentazione a base di acqua, frutta secca e semi per perdere tutta la massa grassa; la seconda si basava su una dieta ancor più ristretta abbinata all’esercizio fisico e all’assunzione di un tè tossico di urushi per stimolare sudorazione e diuresi; la terza, infine, vedeva il volontario entrare in una cripta poi sigillata in attesa della morte. Ad oggi, sono stati ritrovati circa ventiquattro corpi conservati.