Paolo Mossetti è napoletano come me, come tutti. E come me, come (quasi) tutti, a un certo punto è andato via da Napoli. Ma poi, per una serie di coincidenze che poco hanno di casuale, è tornato. E ha iniziato a guardare la città - svuotata dal lockdown del 2020 - con l’occhio privilegiato dell’insider che è anche osservatore esterno. Appugrundrisse. Tornare a Napoli (sulla prima parte del titolo ci arriviamo tra un attimo) è un’analisi socio-economica, è un’inchiesta giornalistica, ed è un’autobiografia intellettuale, ora intima ora impegnata, sempre passionale. L’uso della prima persona è inevitabile, quando l’analista è parte del tessuto che analizza, e volente o nolente modifica il paesaggio mentre lo osserva, o lo osserva mentre prova a modificarlo: Mossetti è antropologo economico ma anche attivista, commentatore politico ma anche brevemente candidato. Questo per dire, tra le altre cose, che dato il grado di coinvolgimento, non posso evitare di parlare in prima persona anch’io.

Minimum Fax Appugrundrisse. Tornare a Napoli

Appugrundrisse. Tornare a Napoli

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Chiacchiero in chat con Paolo mentre sono in treno, sto tornando a Napoli. Ma il mio non è un ritorno come il suo, anzi ci sto andando forse per l’ultima volta, o almeno per l’ultima volta da figlio: a differenza dei ritornanti e dei precari culturali di cui parla Mossetti, che hanno messo a reddito gli appartamenti di famiglia (con un’operazione che ha a che fare più col poraccismo di cui parla Sarah Gainsforth che con la gentrificazione come tratto comune delle metropoli europee contemporanee - Napoli pure in questo deve distinguersi) io la casa dei miei l’ho venduta, e sto andando a recidere questo cordone che ancora, dopo due decenni e più di emigrazione, mi legava alla città-mamma. Si capirà bene allora il momento delicato, venato di un’invidia forse ingiustificata per quelli come Paolo (crepa mmiria!), e pertanto mi si perdonerà una punta di cazzimma nelle domande.

Mossetti, c’era proprio bisogno di un altro libro su Napoli?

Direi proprio di sì. In questi ultimi anni mi è capitata davanti una letteratura sterminata con Napoli protagonista o sullo sfondo, ma non mi pare ci siano stati esempi di testi che provassero a mettere insieme i cambiamenti della città sotto vari punti di vista, dall'antropologico all'economico, in modo coerente, organico. Parlo degli ultimi dieci anni. Sono apparsi racconti e saggi intimisti, o anche prodotti dell'audiovisivo in cui forse si poteva capire cos'era diventata Napoli, com'era evoluta, ma senza enunciati che cercassero di tirare le fila. Poi è chiaro che ogni autore vuole bene ai propri libri come figli e li reputa necessari anche quando non lo sono. Ma, come sempre, ho cercato di scrivere quello che avrei voluto trovare già come lettore.

Appugrundrisse, che titolo assurdo, complimenti per il coraggio a te e all’editore, minimum fax. È la crasi tra appuncundria (me scoppia ogni minuto ‘mpietto, perché passann’ forte m’haje scuncecato ‘o lietto) e Grundrisse, la più avanzata, e incompiuta opera del padre del comunismo. È questo che è il libro, un po’ Pino Daniele un po’ Karl Marx? È questo che è Napoli? È questo che - soprattutto, mi pare - sei tu?

Grazie, volevo vincere il premio per titolo più incomprensibile e impronunciabile dell'anno, e ci sto riuscendo. Ma forse è anche un modo per far sedimentare lo sforzo creativo dell'opera in chi la cerca. Poi no, per carità, l'idea di sentirmi un ibrido tra le due figure che citi sarebbe una bestemmia. La presenza di Daniele e di Marx nel testo in realtà è solo accennata, sfuggevole soprattutto nel primo caso perché non è mai stato tra i miei autori di riferimento. E neppure Marx, se devo essere sincero. Non sono un competente specialista di nessuno dei due. Li vedo come due intellettuali-scugnizzi, connessi sentimentalmente col proprio tempo, capaci di raccontare l'alienazione con una straordinaria sensibilità, anche nella scelta delle parole. Appucundria (o appocundria, gli esperti litigano su questo) è una parola che appartiene ai meandri più enigmatici del nostro dialetto, Daniele l'ha resa popolare in quel titolo ma prescinde da lui: è un sentimento di mancanza, che qualcuno paragona alla "saudade" ma non è riferibile a un luogo preciso, quanto a una stabilità, a un'armonia perdute. Grundrisse si rifà al testo di Marx ma più in generale alla necessità di trasformare la malinconia, il bisogno di vivere la propria città come cuccia o presepe, la contemplazione di sé in uno studio attento delle trasformazioni tecnologiche e capitalistiche, per incidere nella realtà che ci circonda. È una presenza duale, se vogliamo, quella di questi due concetti che nel libro si incontrano e si scontrano, tra osservazione e desiderio di trasformazione.

Basta non ti piace Pino, intervista finita.

Mi piace, ma Pino si impara e si ama da adolescenti, e io ero un adolescente che rifiutava testardamente e con arroganza qualunque radicamento, e le canzoni in dialetto non mi prendevano.

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Luciano Viti//Getty Images
Il pubblico a un concerto di Pino Daniele in Piazza Plebiscito a Napoli nel 2008

Ci sta. Il libro va avanti e indietro nel tempo, passa e ripassa sull’ultimo mezzo secolo (raramente vai più indietro del 68 mi pare) guardando Napoli a ogni capitolo da un punto di vista diverso: le case, il lavoro, il cibo, la politica, la camorra…

La storia su cui mi concentro è essenzialmente quella del XXI secolo, gli ultimi vent'anni dall'ingresso in Europa, la fine dei partiti novecenteschi, l'inizio del dominio del centrosinistra, con un particolare focus sul "post-Gomorra", cioè dagli anni in cui era esplosa una certa narrazione sensazionalistica a quelli dell'"essere napoletano è meraviglioso" trasformato in sticker pacchiano per il turismo low-cost e l'auto-convincimento di chi a Napoli è rimasto.

Descrivi molto bene l’altalena tra periodi di repressione securitaria e far west dove la delinquenza domina. Possibile che non sia immaginabile una terza via?

Sull'alternanza di cui parli credo di aver descritto in alcuni capitoli la fascinazione per quella "terza via possibile", in cui possono convivere l'emancipazione da certi vincoli securitari, l'apprezzamento per alcuni aspetti anarcoidi della città e la consapevolezza che a patire le conseguenze di quell'anarchia sono spesso gli strati sociali più svantaggiati. Con gli anni impari a capire che "l'anomalia Napoli", come talvolta è stata descritta, si regge anche sulla sofferenza di chi vive nel precariato dei quartieri abbandonati al capitalismo del "food", di chi perde punti di riferimento e vive alla giornata, senza servizi decenti e senza possibilità di costruire un'esistenza degna. Uno slogan che ho usato da candidato politico è stato "né ossessione sul decoro né esaltazione del degrado". Credo che la democratizzazione delle forze dell'ordine e il rifiuto della repressione ottusa possano convivere con una cura degli spazi e delle persone.

Sì, la parabola del savianesimo e del gomorrismo è descritta molto bene, si vede che è stata vissuta live (l'ho vissuta anche io). Come pure si percepisce una certa simpatia (ed è un'eccezione perché “fai una pezza” quasi a tutti) per i centri sociali di ultima generazione.

C'è una certa simpatia perché ho fatto parte di quell'esperienza, seppure come collaboratore spesso saltuario ed esterno, come "amico" più che come militante o "compagno", e percepisco la differenza tra questi spazi e quelli della mia infanzia, degli anni Novanta, che erano invece molto più rigidi e chiusi, più ostili diciamo ai borghesi come me. Ma questo non è un voler mettere gli uni contro gli altri: ci sono aspetti negativi e positivi per la socializzazione in entrambi. In ogni caso se parli con gli animatori degli "spazi liberati" del decennio demagistriano (Luigi De Magistris è stato sindaco dal 2011 al 2021) non è che siano così contenti di come li ho descritti, eh. Perché oltre a raccontare l'importanza del loro lavoro di cura parlo anche dei coni d'ombra che si creano attraverso questo modello di "sovranità" e "liberazione", sulla vittimizzazione di sé che si può innescare e dei nuovi muri che si possono innalzare verso l'esterno.

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Marco Cantile//Getty Images
I murales di Jorit nel quartiere di San Giovanni a Teduccio

Come mai, invece, si parla poco o niente di pallone? Che mi pare uno degli aspetti più caratterizzanti della rappresentazione, e autorappresentazione, di Napoli e dei suoi abitanti.

Una premessa: guardo il calcio e adoro andare allo stadio. Ma mi dà vergogna parlarne, mi dà vergogna quel cantarsela e suonarsela dello scrittore sbracato di turno che usa il calcio per trasformare temi seri in un salottino, con la stratagemma del "tema popolare". E poi perché sono la peggiore categoria di tifo possibile: quello che è arrivato tardi al tifo, e sproloquia di una cosa che conosce malissimo. Ho vissuto gli anni dell'inferno, della serie B e del fallimento distrattamente, da ragazzo, senza alcun legame sentimentale. Mi sono appassionato solo quando le cose hanno iniziato a girare bene. Ma mi piace la storia del calcio e sono fissato con i numeri e le statistiche più inutili. Questa cosa già fa imbestialire i miei amici e non credevo fosse utile metterla pure nel libro, e non avrebbe aggiunto nulla al discorso. Volevo lasciarlo un fatto privato.

Il libro ha avuto una gestazione lunga, e capisco anche perché: è come cercare di scattare una foto a un gruppo di persone che si muovono. Per quanto Napoli paia da certi punti di vista una città immobile, o comunque caratterizzata da peculiarità ricorrenti, da simboli atemporali, è anche vero che molti aspetti cambiano in continuazione. Ora però il libro è chiuso, e le cose già stanno andando avanti. Per esempio: la pandemia ha bloccato la gentrification, dici. E mò che la pandemia è "finita"?

Ha avuto una gestazione lunga perché appunto il mondo che volevo raccontare stava cambiando sotto i miei occhi. Ho iniziato a scrivere raccontando una città che con la pandemia era diventata qualcos'altro, di mai visto in tempi di pace. Chi ci garantiva che Napoli sarebbe stata la stessa? Sembra facile dirlo ora, quando tutto o quasi ha riaperto e la gente si è abituata a un livello minimo di restrizioni, ma due anni fa i posti che volevo raccontare stavano chiudendo. Alcune persone che dovevo intervistare sono morte. Non era così scontato che il turismo sarebbe tornato con i numeri di prima, e così quando è successo ho raccontato il sospiro di sollievo di chi si reggeva grazie a certe attività effimere. La pandemia ha in effetti congelato per qualche mese una gentrificazione che comunque aveva tratti molto peculiari, diversi da quelle delle grandi metropoli occidentali. In cosa ha lasciato il segno? Nel desiderio di recuperare nel minor tempo possibile il guadagno perduto, arraffare quanto più possibile, nella consapevolezza che col governo dell'emergenza si potrà convivere ancora a lungo. C'è un sovrappiù di ansia e di volontà di dominio sul proprio tempo che molti affaristi mettono in quello che fanno, dovuta al grande spavento pandemico.

Ne siamo usciti peggiori.

Non so se ne siamo usciti peggiori in tutto, di sicuro è stata una fase vissuta in modo diverso dai vari segmenti sociali. Ci sono anche quanti ne hanno approfittato per fare riflessioni e rimettere in discussione il modo in cui vivevano passivamente la città e le relazione. Un esempio emblematico sono alcuni tipi creativi un po' agée del centro storico, ex contestatori, "originaloni" che per anni celebravano lo stare a casa come "ribellione" contro la dittatura degli spritz, e con la pandemia hanno rinfacciato ai giovani di non aver scassato tutto pur di uscire dal lockdown. Esistono a Napoli segmenti non comunicanti, come in ogni città. Come la platea di lavoratori del pubblico o da remoto che rischiano di perdere sempre più contatto con il popolo schiacciato nel metrò e in attesa di autobus in strade che d'inverno diventano fiumane.

Tieni un poco di cazzimma pure tu, certe volte. Tipo quando accenni con nonchalance al fatto che il cantate dei 99 Posse, il gruppo più anti sistema degli anni 90, abbia frequentato il liceo classico più noto del centro storico, dov’era “autore di apprezzati temi di italiano”. O quando tratteggi la figura dell’amico medico - ce l’abbiamo tutti - che ce l’ha fatta e ti guarda con un misto di commiserazione e sollievo. Cos’è, la famosa ironia partenopea, di cui non riusciamo a fare a meno?

L'ironia che tu vedi nel testo forse serve a mascherare bene l'appucundria di cui sopra, che io chiamo "democratica" perché riguarda la percezione di una realtà in cui non si riesce a "svoltare" come si vorrebbe, e tuttavia neppure ci si riesce a fuggire fino in fondo, sradicandosi, accettando di essere pesci piccoli in uno stagno. La commiserazione dell'amico di cui parli - che, per chiarire, è anche un po' romanzata - in fondo nasconde un tratto peculiare, cioè di mondi che non comunicano ma che neppure riescono a darsele di santa ragione. Si vive addosso l'uno all'altro osservando la condizione del vicino senza che questa osservazione porti a un'effettiva voglia di riscatto. Anche se con il capitalismo di piattaforma, più atomizzato di quello novecentesco, l'illusione di mettere a frutto diversi talenti e quindi di vendicarsi delle proprie scelte sbagliate sembra alla portata di tutti. Anche del napoletano che si crede per definizione furbo, e invece molto spesso è un poveraccio: per condizione mentale più che per condizione di ceto.

Da assiduo lettore dei tuoi articoli, ho notato che al di là dei temi specifici e diversi toccati ogni volta, le cose che scrivi hanno una certa continuità, costituiscono una sorta di corpus unico ancorché disperso. Viceversa, il libro ha un andamento un po’ frammentario, o perlomeno se una griglia, un’organizzazione c’è, non è palesata. È la solita questione dell’oggetto dell’indagine che contamina con le sue caratteristiche l’analisi stessa?

È interessante che tu dica questo, perché sebbene io non abbia scritto un libro disposto su una griglia rigida ero curioso di vedere come lo avrebbero percepito gli altri. Non voleva essere per niente una raccolta di saggi o di quadretti bozzettistici, però al tempo stesso neppure un saggio accademico classico.

È un mosaico sulla "nuova" Napoli, su come la città sia diventata, forse paradossalmente, la capitale del neoliberismo avanzato, quello del cosiddetto "capitalismo di piattaforma", dalle case e delle vocazioni messe in vendita, del food porn mediato da Instagram. Capitale non tanto in termini di volumi quanto di pervasività mentale del fenomeno. Le mie impressioni sono raccontate con varie sfaccettature che non portano a una conclusione troppo univoca. È la fotografia di un nuova connessione con la città, e di un mutamento con caratteristiche che forse riguardano con particolare forza quest'oggetto di indagine, ma generate da domande che non nascono solo nei napoletani che "tornano" in città. Toccano chiunque dopo anni di esperienze diverse, a volte velleitarie e disordinate cerca un nuovo radicamento. Il lettore potrà usarlo come libro-game per giungere alle sue conclusioni.

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KONTROLAB//Getty Images
10 settembre 2022: i 99 Posse in concerto all’Arena Flegrea in occasione dei 30 anni di carriera

Abbiamo passato una vita, diciamo metà vita, a cercare di costruire un’immagine anti-retorica di Napoli, sulla scia di Massimo Troisi e dei meridionalisti più irregolari. Almeno questo merito possiamo attribuircelo, possiamo dire di essere riusciti, o no? (dico "noi" mettendomi un po' di forza tra gli intellettuali millennial anche se non sono né l'uno né l’altro)

Non so se ci sono riuscito, anche perché che questo compito prevedeva una rimessa in discussione, non di uno ma di almeno altri due o tre strati di retorica. Non andava solo dato il giusto peso alle storielle che Luciano De Crescenzo e Massimo Troisi hanno fissato per sempre in alcune opere, facendole diventare modi di parlare, ma andavano rimessi in discussione dei classici della chiacchiera da bar. A suo tempo ci siamo divertiti a leggerle e ascoltarle, ma andava disarticolata anche una contro-retorica, apparentemente più complessa ma in realtà superficiale e sensazionalistica, che è stata il tremendismo gomorrista, e poi ancora la contro-contro-retorica della "rivoluzione arancione", del "sii turista della tua città" che nasconde i sogni di dominio economico che tutti noi sviluppiamo in certe circostanze. Quindi c'è un continuo rompere le scatole a chi cerca di reinventarsi e di trovare un'immagine identitaria pacificata, nel bene e nel male. Probabilmente sono riuscito a farmi ancora più nemici di quanti ne avessi prima del libro.

Finito. Quale domanda pensavi che ti avrei fatto e invece no?

“Ho letto che hai fatto parte di un gruppo di street-art anti camorra che faceva azioni notturne: a conoscerti sembra un po' improbabile".
La mia risposta: La cosa più divertente che ho fatto a Napoli quando, da studente fuorisede, tornavo dal Nord. Eravamo inizialmente una mezza dozzina, poco più che ventenni, e la notte andavamo in giro per le strade del centro e della periferia a incollare sui muri slogan feroci contro i boss di quartiere, a volte stampando i loro faccioni su fogli A1 concessi gentilmente dalla ditta Bellomunno (quella di pompe funebri menzionata nel libro). Non so quanto abbiamo rischiato, ma sentivamo questo "richiamo" fortissimo a fare qualcosa per la nostra terra che non fosse lamentarsi e basta. Col senno di poi eravamo dei proto-grillini, con tutti questi discorsi sulla "legalità", "lo Stato", "noi" - la maggioranza - contro "loro". Però per un paio d'anni è stato un modo per riappropriarci di Napoli.

Ps: senti, da qualche anno ho questa idea un po’ malsana che mi gira in testa, di tornare a Napoli prima o poi. Eduardo diceva fujitavenne, però lui restava. Tu da ritornante (definitivo?) che dici.

Se hai un piano di vita vagamente definito e non devi dipendere dal caso e dalle nuove reti di relazioni che dovrai farti, tornare potrebbe essere un esperimento interessante. Non me la sentirei altrimenti, in tutta onestà, di consigliarti l'avventura, anche perché la borghesia napoletana è molto più chiusa e diffidente di quanto si creda. Amaramente, ma con realismo, mi sentirei di dirti di trovare una via di mezzo tra due esigenze: fare parte di una rete economica cosmopolita senza vivere in una capitale cosmopolita, e vivere in una capitale mediterranea senza dipendere da una rete economica mediterranea.

Lettermark
Dario De Marco

Si occupa principalmente di letteratura fantastica e pizze fritte. Giornalista, ha co-fondato il mensile Giudizio Universale e collaborato con testate troppo numerose per poter stare in questo margine. Ha pubblicato due autobiografie, una travestita da romanzo (Non siamo mai abbastanza, 66thand2nd) e una da saggio (Mia figlia spiegata a mia figlia, LiberAria); la terza sarà in forma di racconti.