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L’eredità degli indiani d’America

Three Horses by Edward S.Curtis,1905
Three Horses by Edward S.Curtis,1905

«Il nostro mondo, violento e feroce come vuole la lotta per la sopravvivenza e il dominio, venera il successo, e i suoi eroi sono gli uomini e le donne che hanno fatto trionfare la loro causa. [...] Esiste però un altro tipo di eroe, la cui carriera rappresenta l’antitesi assoluta del successo. È l’uomo al quale la profonda onestà vieta le manovre e i compromessi. Da giovane il coraggio e l’energia lo spingeranno in alto, ma questo eroe è per natura votato alla causa perdente e conoscerà ineluttabilmente la sconfitta». Lo scrive Ivan Morris riferendosi ai giapponesi, ma l’assunto è valido per chiunque privilegi i principi agli interessi, l’orgoglio al profitto.

Un popolo fierissimo, diviso in tribù, viveva nomade nell’America precolombiana spostandosi di continuo nelle sconfinate praterie del nord, come le mandrie dei bisonti che gli fornivano di che vivere e coprirsi.

I primi grandi navigatori europei, convinti di essere approdati alle spalle dell’India, chiamarono indiani i nativi e come "indiani" entrarono e continuano a vivere nei nostri ricordi alimentati dalla letteratura e dal cinema.

La conoscenza di questo popolo e delle loro gesta interessò l’Europa particolarmente nell’Ottocento, quando l’ineluttabilità della loro fine come popolo libero assunse toni drammatici. I piumati pellerossa concludevano la loro esistenza facendo assurgere a epopea la dignità della sconfitta. Una sconfitta per annientamento perpetrato dai conquistatori bianchi, i "visi pallidi" giunti da ogni dove in quelle terre ricche di tutto: dai terreni coltivabili alle foreste di legnami pregiati, dagli animali ai minerali, l’oro, il petrolio .... C’era di che accendere la bramosia di possesso del vecchio mondo.

Un fotografo avventuroso, di notevoli capacità e di felice intuizione, dedicò trent’anni della propria vita alla generosa idea di documentare ciò che restava dei personaggi, degli usi e dei costumi di questa gente ottenendo ben 40 mila negativi, e perfino, grazie ai rudimentali registratori, i canti, le preghiere e le invocazioni dei diversi popoli pellerossa. Si chiamava Edward Sheriff Curtis.

Self portrait photogravure collection Edward S. Curtis Los 1899
Self portrait photogravure collection Edward S.Curtis Los, 1899

Centocinquanta fotografie di eccezionale valore documentario e di affascinante bellezza; stampate in seppia e quindi foriere di atmosfere da sogno, di ricordi, di gesta che inizialmente credevamo solo fantasie dei racconti, dei fumetti, del cinema o del Wild West Show organizzato dal Colonnello Bill Cody, l’intraprendente avventuriero detto Buffalo Bill.

Come le grandi civiltà stanziali del Sud America, neppure i nomadi del nord conoscevano la ruota; il cavallo, che sarebbe divenuto la loro esclusiva, inseparabile cavalcatura, gli arrivò portato dai conquistatori europei. Le mandrie, fuggite o lasciate libere, popolarono le praterie e divennero preda di chiunque.

Dai racconti, i fumetti e i primi film, sembrò che le gesta dei pellerossa, con gli scontri, gli agguati e l’immancabile ferocia da "selvaggi", fossero avventure per ragazzi, viste e interpretate dai vincitori. Poi, a poco a poco, la verità che ogni tanto pur filtrava da una visione stereotipa, passò la mano alla volontà di sapere come stessero le cose, e le avventure divennero storia, fatta, come sempre di tanti aspetti, tante ragioni e tantissime colpe che cambiavano drasticamente l’interessata e semplicistica prima versione dei fatti.

La tribù pellerossa era impostata secondo un ordine tradizionale: un capo, delle regole non scritte ma osservate o fatte osservare, un’idea religiosa sulla quale veniva ritmata la vita sociale, comprendente anche una naturale, necessaria ecologia. Il pellerossa rappresentava un esempio sopravvissuto del cacciatore primordiale.

Con le stupende fotografie di Curtis, iniziarono anche a circolare le testimonianze raccolte da storici, etnografi e antropologi che poterono interrogare gli ultimi capi, i sacerdoti, gli uomini di medicina e i vecchi saggi ... Nacque così una nuova letteratura che fece scoprire una cultura arcaica ricca di sapienza e di fierezza.

Alfredo Cattabiani, lo scrittore di miti e di simbologie, da direttore editoriale, prima con Borla eppoi con Rusconi, fece pubblicare in Italia i primi libri che raccolgono i ricordi, il dolore e l’epopea dei grandi indiani delle pianure. Altre case editrici continuarono e potemmo conoscere le varie tribù e i loro capi, esempio di valore e di abnegazione per i propri popoli.

I nomi di Cavallo Pazzo, Gambe di Legno, Alce Nero, Molti Trofei, Nuvola Rossa o Geronimo, uscirono così dalle avventure folcloristiche per acquistare una loro stupefacente realtà, un carattere che poteva andare dal valore alla saggezza, dalla fierezza alla nobiltà.

Da capi guerrieri, quasi sempre scelsero la lotta a una pace umiliante, la morte alla vita nelle riserve, la fine in battaglia per la quale si presentavano con le vesti e gli ornamenti migliori scambiandosi l’impegno: «È una bella giornata per morire».

Due diversissime concezioni dell’esistenza si scontravano per un risultato scontato, già scritto e, tra i capi pellerossa, chi non lo comprese subito ne prese atto una volta invitato a Washinton dal Grande Capo Bianco. Quando poterono vedere armi e armati, città e fabbriche, capirono che lo scontro, per loro significava unicamente morire degnamente. E fecero quasi sempre questa scelta d’onore.

Erano dei guerrieri abituati, nelle controversie, a far decidere in ultimo la forza e non avevano difficoltà a riconoscere il diritto del più forte. Ciò che invece non comprendevano e non accettavano da parte degli europei, era l’irrisione dei trattati già considerati cinicamente «fogli di carta» e da loro invece solennemente sottoscritti pensandone la durata secondo la formula: «finché l’erba cresce e l’acqua scorre», vale a dire eterna.

Les Indiens di E.Curtis
Les Indiens di E.Curtis

Guerrieri, per i quali contava solo l’onore, si scontravano con l’idea del profitto: mentalità contabile ormai in uso anche da chi indossava una divisa: il fine era in grado di giustificare ogni mezzo.

Quello che era successo al sud con il saggio re Montezuma e l’impero atzeco, si ripeteva al nord con i grandi capi di piccole tribù nomadi delle praterie, i quali poterono soltanto accusare inascoltati: «il paese appartiene alla gente che state uccidendo».

Il fotografo Edward Sheriff Curtis (1869-1952) comprese l’importanza di fermare volti e costumi, villaggi, cavalcate, o marce interminabili in paesaggi da dai cieli epici, i deserti, le praterie dell’Ovest, i massicci delle Montagne rocciose o la Regione dei Grandi Laghi.

Curtis seppe vincere la ritrosia dei nativi e farli posare davanti alla macchina fotografica; lo chiamarono Cacciatore di ombre, Colui che acchiappa le ombre o, semplicemente, Acchiappaombre. Chissà se pensarono che per i secoli a venire li avremmo ricordati guardandoli in quelle foto scattate dallo strano wasichu, il viso pallido dalla magica cassetta.

"Libero" - Milano 4 giugno 2004