Chiaviche, l'amarcord dei terroni del Nord

di FABIO ZANCHI*

Le Chiaviche. Sì, lo so che suona male per voi di cultura centromeridionale. Ma per noi, terroni del Nord, cresciuti – chi più, chi meno – nelle terre alla confluenza dell’Oglio con il Po, le Chiaviche sono sinonimo positivo di cose e storie altrettanto positive, che è bello scoprire o riscoprire in questa stagione, di luci radenti, di prime nebbie che addolciscono il paesaggio, di tramonti così infuocati da levare il fiato tanto sono potenti.

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(foto di Agnese Rossi)

Le Chiaviche, da queste parti, danno il nome a paesi e frazioni: San Matteo delle Chiaviche, per esempio, oppure Bocca Chiavica. 

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(foto di Fabio Zanchi)

Paesi immersi in una natura pianeggiante che non ha eguali, né per bellezza né per fertilità. D’altra parte, queste sono terre che l’uomo ha strappato alle frequenti piene del Po e dei suoi più generosi fratelli minori, costruendo argini possenti e idrovore (le chiaviche, per l’appunto) in grado di regolare il livello dell’acqua in tutta la fitta rete di canali che lega un fiume all’altro, abbeverando campi e terre di golena.

Per gli antichi è qui che cadde Fetonte che aveva rubato il carro infuocato del Sole e costretto Zeus a fulminarlo facendolo precipitare nell’Eridano: il Po. Le sorelle del malcapitato – le Eliadi – versarono fiumi di lacrime. E quelle lacrime furono trasformate nelle migliaia di pioppi che crescono soprattutto nelle anse del Po.

Per noi ragazzini, prima ancora di versare le nostre lacrime sui banchi di scuola, le chiaviche  hanno rappresentato più felicemente la grande piscina dove, nei giorni più caldi delle nostre estati, andavamo a sguazzare sfidando le rampogne degli adulti e le nostre paure. Sì, perché quelle acque, le acque dei due bacini di raccolta, erano tutto tranne che rassicuranti. Andava così: ci si trovava tutti a una certa ora del pomeriggio, raggruppandoci vicino alle spallette del ponte del primo bacino. Poi, tutti in costume, o in mutande, come capitava. Si montava sul parapetto e ci si tuffava. Detta così è semplice. La realtà non era tanto liscia, almeno la prima volta. Soprattutto per chi, come me, veniva da Mantova, dalla città. I miei amici di San Matteo erano piuttosto svegli –in dialetto si dice “sgnalà”, come di chi ha finalmente lasciato il nido. Loro salivano sul muretto e giù, in acqua. Il salto era di almeno sei, sette metri. E le acque, verdastre, quasi nere. Impenetrabili alla vista, così che non se ne poteva intuire la profondità. In piedi sul ponte, il dilemma: tuffarsi, come avevo visto fare, oppure rinunciare? La posta in gioco, altissima: entrare a far parte del gruppo, essere uno di loro, oppure bollato per sempre come cittadino. Scelsi naturalmente la prima opzione, chiudendo gli occhi. E mi andò bene, perché ancora oggi tornare da quelle parti significa essere uno di casa. Ritrovare le radici.

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Le Chiaviche sono sempre state, per me, un punto di riferimento. Nel mio privatissimo paesaggio interiore quei lucernari assomigliavano alla maschera di Batman. Le acque che ribollivano, quando le idrovore le succhiavano dai campi per riversarle in Oglio, erano una manifestazione di potenza estrema. Solo tanti anni dopo ho scoperto che quelle costruzioni in mattoni rossi e marmi bianchi avevano un’eleganza per niente casuale. La mano che le aveva progettate era quella di Piero Portaluppi, l’architetto autore di alcuni dei monumenti più belli di Milano, come la Casa degli Atellani in corso Magenta, davanti al Cenacolo di Leonardo, Villa Necchi Campiglio, il Planetario Hoepli, il palazzo della Banca commerciale in piazza della Scala, l’Arengario di piazza del Duomo e il Cimitero Monumentale. L’impianto idrovoro di San Matteo delle Chiaviche è figlio della impostazione razionalista di Portaluppi, chiamato negli anni dal 1930 al 1939 a collaborare con l’ingegner Giulio Chiodarelli. Il risultato è ancora oggi in grado di stupire e interessare. Dentro la costruzione principale, infatti, è possibile ripercorrere la storia industriale del nostro Paese.

Ci sono le apparecchiature di comando dell’impianto realizzate dalla Ercole Marelli di Sesto San Giovanni: sembra la tolda di comando di un transatlantico. Poi la sala macchine, con i motori Ercole Marelli del 1936, e le turbine del 1937. Come andare al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Con la differenza che qui, nelle terre alla confluenza dell’Oglio con il Po, c’è il preciso punto di convergenza e contatto tra un’industria all’avanguardia e un’agricoltura tra le più avanzate. (Per chi lo voglia, immagini dei macchinari si trovano in http://www.lombardiabeniculturali.it/blog/percorsi/pompe-e-motori-lindustria-italiana-per-gli-impianti-idrovori-nel-mantovano/viadana-mn/  ).

 Dite che manca la poesia? Provate a proseguire, per un chilometro scarso verso il Po, seguendo il corso del suo affluente. Arrivate a Torre d’Oglio, uno dei punti più suggestivi di queste campagne. Lì c’è il ponte in chiatte che permette di proseguire verso Mantova

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(foto di Dino Rasini)

Vale la pena di andarci, perché la strada è immersa, da una parte e dall’altra, nei pioppeti. Un bosco ininterrotto, con alberi di varie altezze, a seconda dell’età

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(foto di Davide Prandini)

 D’estate, a Torre d’Oglio si faceva il bagno, approfittando della spiaggia che la secca regalava, facendo emergere una sabbia fine e gradevole sotto i piedi. I vecchi raccontavano che proprio da queste parti, una volta, c’era una sorgente d’acqua che si poteva bere, tanto era pura. Non ho mai capito se fosse vero, ma non mi sono mai azzardato a mettere in dubbio la parola di quegli anziani che passavano la giornata a riva, all’ombra dei pioppi, guardando le auto passare sulle assi incatramate del ponte e bevendo calici di bianco tenuto al fresco nell’acqua corrente.

Da queste parti si arriva comodamente in macchina. Il viaggio permette, soprattutto in questa stagione, di gustare la bellezza della natura. Per il foliage, innanzitutto. Ma anche perché la terra, liberata dalle colture estive e in attesa delle nuove, rivela la propria natura. Rossa e ricca di argilla se si scende dalle colline moreniche del Garda, bruna e grassa al confine delle province di Cremona e Mantova, sempre più bionda e sabbiosa man mano che ci si avvicina al Po, che ogni tanto quei territori sommerge, allagandoli e fertilizzandoli di piena in piena.

Se si preferisce un turismo più tranquillo, si può fare un’esperienza senza dubbio suggestiva, seguendo gli amici di L.E.N.T.O. ( https://lentosaraitu.it ) che quest’estate hanno realizzato numerose passeggiate e biciclettate nella Bassa, godendosi il paesaggio e recuperando storie, tradizioni, valori del territorio.

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(foto di Dino Rasini)

Che si vada in auto o a piedi o in bicicletta, occorre avere qualche punto di riferimento per il pranzo o la cena. E allora: se si punta verso Viadana (paesone che prende il nome dall’imperatore romano Vitellio), l’aperitivo è d’obbligo al Caffè Centrale, aperto con gusto e fantasia da Nicolas Lombardi. Una tappa molto raccomandabile è l’osteria di Bortolino, al di là dell’argine maestro, proprio sotto il ponte che unisce le sponde mantovana e reggiana del Po. In origine Bortolino era un casotto dove si nutrivano cacciatori e pescatori. Abbandonato per anni, usato solo come magazzino per le Feste dell’Unità, è stato trasformato da Roberto Naldini in un ristorante  che ha un’ottima cucina di territorio. Ha anche un pregio da non sottovalutare: a fianco del ristorante c’è un comodo e accogliente ostello, dove si può passare la notte dopo aver scandagliato la fornitissima cantina di Bortolino ( www.locandabortolino.it ). Un’altra particolarità di Bortolino è che va completamente sott’acqua ad ogni piena del Po. In queste occasioni la cucina e i suoi locali vengono completamente svuotati: quando le acque si ritirano, si ricomincia. In allegria.

 Nel caso si prosegua per Mantova, proprio alle porte della città c’è il ristorante di Franco Panza, Frank per gli amici. Si chiama Porta Pradella, Osteria con cucina. Frank è un grande professionista, che, a partire da una profonda conoscenza della cucina tradizionale mantovana, confeziona piatti memorabili per qualità. Lo si trova in corso Vittorio Emanuele 144 (tel. 0376 221786). L’auto si può parcheggiare alle spalle del ristorante, nel bel parcheggio pubblico realizzato dal Comune nel tentativo di arginare dall’assalto del traffico una città a misura d’uomo come poche altre.

 


*FABIO ZANCHI (Da piccolo guidava trattori e mietitrebbie. Da giornalista, prima all’Unità e poi a Repubblica, ha guidato qualche redazione. Per non annoiarsi si è anche inventato, con Nando dalla Chiesa e altri spericolati, il Controfestival di Sanremo, a Mantova)

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