Il Napoli campione e i suoi supereroi

È stata la vittoria di tutti. Ma ci sono cinque giocatori che, con i loro superpoteri, hanno cambiato il destino di questo squadra
I migliori giocatori del Napoli campione d'Italia
Photos: Getty Images; Illustration: Federigo Gabellieri

Il terzo scudetto del Napoli ha un’anima completamente diversa rispetto a quello del 1987 e a quello del 1990, quindi verrà ricordato in modo differente: la narrazione individualista e inevitabilmente messianica del “Napoli di Maradona” deve lasciare spazio a un racconto necessariamente più vasto, più collettivista, in cui i meriti del trionfo sono da attribuire in modo diffuso e trasversale. Così tra tanti anni potremmo ritrovarci a parlare del “Napoli di De Laurentiis”, del “Napoli di Giuntoli” o anche del “Napoli di Spalletti”, e in ogni caso non si tratterebbe di un errore. È un segno del tempo che passa e che cambia le cose: nel calcio contemporaneo c’è pochissimo spazio per le vittorie improvvise, per gli exploit inattesi, tutto deve essere progettato e organizzato per tempo, col tempo, nel tempo. Anche lo scudetto del Napoli non fa eccezione, lo dice la storia: negli ultimi anni la squadra azzurra ha spesso accarezzato – a volte ha anche sfiorato – il successo più importante, è sempre stata competitiva e ha saputo dare continuità al suo modello virtuoso fatto di bilanci sani, cessioni rare e oculate, grandi intuizioni sul mercato degli allenatori e dei giocatori. Ecco, appunto: i giocatori. Anche in una società come quella gestita da De Laurentiis, anche in un club cresciuto in modo lineare e programmato, ce ne sono alcuni che hanno assunto sembianze e hanno compiuto imprese da supereroi, nel senso che sono arrivati a Napoli e hanno cambiato la squadra, il suo destino, trascinandola fino alla vittoria del campionato dopo anni di tentativi falliti. Ne abbiamo scelti cinque, tutti acquistati dopo l’ultima lotta-scudetto finita male, quella della stagione 2017/18. Anche questo, pensandoci bene, non può essere un caso.

Giovanni Di Lorenzo

Jonathan Moscrop/Getty Images

Giovanni Di Lorenzo dà la sensazione di essere indistruttibile. Di poter giocare sempre. E, soprattutto, di poter giocare sempre bene. Si tratta di un superpotere che non è proprio comune, e sono i numeri a dirlo: se escludiamo i portieri, Di Lorenzo è il calciatore di Serie A che ha saltato meno minuti di gioco, solamente 11 su 2890 complessivi. Questo dato è già abbastanza incredibile, ma il punto è che diventa addirittura spaventoso se facciamo qualche passo indietro nel tempo: da quando è arrivato a Napoli, nell’estate 2019, Di Lorenzo ha saltato – cioè non è stato schierato da titolare e non è subentrato dalla panchina – appena 13 partite su 191 complessive. Nello stesso periodo, giusto per dare una definizione anche qualitativa del suo gioco, della sua crescita, ha esordito in Nazionale, è diventato Campione d’Europa da titolare e poi anche capitano del Napoli.

Ecco, un percorso del genere lo puoi fare solo se sei un grandissimo giocatore. Oppure, al massimo, se lavori così tanto da poterlo diventare. Il caso di Di Lorenzo è proprio questo: un terzino con discrete qualità si è trasformato in uno stantuffo inesauribile sulla fascia destra, in un difensore aggressivo e puntuale, in un raffinato crossatore, persino in una mezzala d’appoggio – la sovrapposizione interna dell’esterno basso è uno dei feticismi tattici di Luciano Spalletti – piuttosto creativa nel penultimo e nell’ultimo passaggio. E poi Di Lorenzo ha mostrato una leadership tutta nuova per il mondo-Napoli: è stato scelto come capitano per la sua capacità di essere un esempio di forza e professionalità ma anche di abnegazione assoluta, per questo è il perfetto uomo-simbolo di un gruppo che soltanto un anno fa ha perso elementi importanti ma ha saputo credere nelle proprie possibilità, nella propria crescita, fino a esplodere in una supernova di talento, ambizione, consapevolezza, risultati.

Stanislav Lobotka

Nicolò Campo/Getty Images

La storia di Stanislav Lobotka si potrebbe sovrapporre perfettamente a quella di tutti i supereroi: la sua esplosione, in realtà, è una redenzione fondata sul cervello prima ancora che sul fisico, su doti che sembravano perdute e poi sono venute fuori in modo accecante. Tutto comincia – male, molto male – a gennaio 2020: il Napoli ha preso Gattuso al posto di Ancelotti e ha bisogno di un regista per il 4-3-3; arrivano Demme e Lobotka, solo che lo slovacco ex Celta si presenta come un calciatore evidentemente fuori forma, è lento, impacciato, imbolsito. Gioca pochissimo, incide ancora meno, resta sempre fuori dai radar di Gattuso.

Questa sensazione di inadeguatezza si trascina fino all’estate 2021, poi arriva Luciano Spalletti e le cose cambiano. O meglio: si ribaltano. È questo il termine più giusto. Perché all’improvviso, cioè da un mese all’altro, Lobotka diventa l’anima e il cervello e il cuore pulsante del Napoli: la sua regia – complice una condizione fisica tornata all’altezza – è fluida, dinamica, bella da vedere, Lobo alterna intelligenti tocchi ravvicinati a finte di corpo che ricordano i movimenti di uno sciatore tra i paletti dello slalom. Anche in fase difensiva è una certezza assoluta: l’efficacia con cui cui riesce a mettere il corpo tra la palla e l’avversario ha del paranormale, la precisione e la continuità con cui guida il pressing in avanti farebbero felice qualsiasi allenatore. Quest’anno la stragrande maggioranza dei tecnici avversari ha predisposto una marcatura a uomo su Lobotka; i più visionari hanno costruito delle gabbie di segugi intorno a lui. Qualche volta ha funzionato e il Napoli ne ha risentito, ma si è trattato di episodi isolati: per gran parte del a stagione, infatti, Spalletti ha potuto contare su un regista dotato di un’intelligenza superiore, di una forza straripante anche se dal fisico non si direbbe, insomma su un supereroe formato tascabile. Che ha preso la squadra per mano e l’ha condotta allo scudetto.

Victor Osimhen

Nicolò Campo/Getty Images

La verità è che non eravamo ancora pronti per Victor Osimhen. Nel 2020, quando l’attaccante nigeriano sbarca in Italia come potenziale erede di di Cavani e Higuaín e Mertens, dei grandi centravanti che hanno indossato la maglia del Napoli negli anni Dieci, la squadra azzurra è ancora un po’ ferma, prigioniera del suo passato: i molti reduci del triennio di Sarri e anche il nuovo tecnico Gattuso vogliono continuare a praticare un gioco di possesso, a verticalizzare solo a un certo punto dell’azione, non certo il modo migliore per innescare il nuovo numero nove. Allo stesso tempo, però, nessuna difesa italiana sembra avere la forza necessaria per sostenere il confronto con Osimhen, una punta dal fisico fuori scala: alla terza partita in Serie A persino i centrali dell’Atalanta di Gasperini si fanno travolgere in modo netto, in modo clamoroso. Ne viene fuori un Napoli ibrido, perennemente in bilico tra calcio orizzontale e verticale, anche a causa di un infortunio che ritarda l’inserimento definitivo di Osimhen, e quindi la transizione tattica. Stessa musica nel primo anno con Spalletti: Victor inizia alla grande e poi salta diverse partite a causa di un grave incidente al viso: è lì, in quel segmento di stagione, che gli azzurri perdono dei punti decisivi per lo scudetto.

Quest’anno neanche gli infortuni sono riusciti a contenere Osimhen. O meglio: un primo stop, in autunno, è stato superato brillantemente grazie a Raspadori, Simeone, all’apporto strepitoso di Kvaratskhelia, un esterno perfetto per una squadra ormai a suo agio nell’attacco in campo lungo. Prima e dopo, anche in virtù di questa avvenuta trasformazione tattica, Osimhen è stato semplicemente ingiocabile: ha segnato in ogni modo, ha vinto i duelli fisici con qualunque difensore avversario, ha attaccato la profondità milioni di volte e i suoi compagni l’hanno servito con continuità, forse perché hanno cominciato a vedere in lui un leader tecnico prima ancora che un trascinatore emotivo. Oltre i numeri grezzi, una rete ogni 101 minuti di gioco in tutte le competizioni, restano negli occhi i due splendidi gol contro la Roma, uno all’andata e uno al ritorno, le doppiette alla Juve e all’Eintracht in Champions League, la tripletta al Sassuolo, ma soprattutto le corse a perdifiato che hanno allungato e allargato e fatto stancare le difese avversarie, gli imperiosi stacchi di testa, l’immenso lavoro sporco fatto per permettere al Napoli di diventare la squadra che è oggi, sempre eccellente palla al piede ma capace di giocare in modo diretto, di essere letale in transizione, in ripartenza, a volte anche con un semplicissimo lancio lungo. Per qualcuno il secondo infortunio stagionale di Osimhen, accusato a marzo in Nazionale, ha impedito al Napoli di presentarsi nelle migliori condizioni possibili al primo quarto di Champions League della sua storia: un altro segnale evidente di come il centravanti nigeriano abbia cambiato il dna, l’anima, la percezione e quindi il destino della squadra azzurra. Di quanto sia stato decisivo per vincere lo scudetto.

Khvicha Kvaratskhelia

Nicolò Campo/Getty Images

Un’evidenza su tutte: Giuntoli e De Laurentiis e Spalletti hanno scelto Khvicha Kvaratskhelia come sostituto di Lorenzo Insigne e l’hanno fato senza manifestare dubbi, senza pensare a un apprendistato, a un tutoring. Non gli hanno affiancato nessun giocatore d’esperienza con cui si sarebbe potuto alternare, le sue riserve erano – e sono – Elmas, Lozano, Zerbin e (al massimo) Raspadori. Forse sapevano già di aver preso un calciatore di livello superiore, di certo hanno investito tanto su di lui, non tanto in termini economici – i dieci milioni versati per il suo cartellino potrebbero decuplicare se e quando arriverà la cessione – quanto dal punto di vista emotivo e di progettazione.

La risposta è stata fragorosa: Kvaratskhelia si è preso subito la scena con un gol di testa e un assist a Verona, seguiti da una doppietta accecante nel match casalingo contro il Monza. Prima e (soprattutto) dopo, l’esterno georgiano ha mostrato di essere praticamente immarcabile, velocissimo in campo aperto ed estremamente creativo negli spazi stretti, di essere il perfetto partner laterale per Victor Osimhen. Tra i due si è stabilita una connection mentale che ha trovato il suo apice nell’azione del quarto gol alla Juventus, quando Kvaratskhelia ha depositato un cross perfetto sulla testa del nigeriano, e poi anche quando Kvara, servito sulla corsa da Osimhen, si è bevuto la difesa dell’Atalanta e ha realizzato uno dei gol più belli dell’anno, sotto la Curva B dello stadio Maradona. Ecco, proprio la rete all’Atalanta – concettualmente simile a tante altre azioni esibite quest’anno da Kvara, per esempio gli slalom giganti contro il Sassuolo e la Cremonese – racconta il dominio di Kvaratskhelia e del Napoli, la forza dirompente di un giocatore e di una squadra imprevedibili, rapidissimi eppure raffinati e sofisticati, capaci di travolgere l’avversario ma anche di avvolgerlo e poi stordirlo con giocate di grande classe, quelle che non si possono dimenticare facilmente.

Kim Min-jae

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L’operazione fatta del Napoli con Kim Min-jae potrebbe – dovrebbe? – essere scritta nei manuali di calciomercato: tra tutte le cose da fare nell’estate 2022, la sostituzione di Koulibaly era tra quelle più difficili, se non la più difficile in assoluto, eppure Giuntoli e il suo staff hanno trovato e acquistato un calciatore in grado di non fare rimpiangere il suo predecessore. Certo, parliamo di un centrale che aveva e ha caratteristiche diverse: probabilmente Kim Min-jae ha un portamento meno imperiale rispetto a Koulibaly, forse anche la sua tecnica di base è leggermente inferiore, ma il suo rendimento puramente difensivo, la sua concentrazione e il suo strapotere atletico sono pari se non addirittura superiori rispetto al capitano del Senegal.

In alcune partite, può sembrare un’esagerazione ma non lo è, Kim Min-jae ha dato e dà l’impressione di essere un muro invalicabile e indistruttibile, di saper attrarre e poi respingere non solo i calciatori avversari, ma anche il pallone; oltre a queste doti che inevitabilmente si esaltano nelle fasi di difesa posizionale, il sudcoreano è bravissimo anche a rompere la linea, a braccare gli avversari in pressing, così il Napoli ha potuto difendere in modo ancora più aggressivo rispetto al passato. Questo è un aspetto importante, anzi fondamentale: con Kim Min-jae, grazie a Kim Min-jae, Spalletti ha potuto progettare e costruire e sostenere per tutto l’anno una fase di non possesso intensa, ambiziosa e al tempo stesso solido, attenta, consapevole della propria forza. Forse Kim Min-jae può e deve perfezionarsi nella primissima costruzione e nella frequenza delle puntate offensive, è stato proprio Spalletti a dirlo più volte. L’ha fatto per pungolare il suo luogotenente difensivo, perché secondo lui questi miglioramenti lo porteranno a diventare il miglior centrale del mondo. Anche questa può sembrare un’esagerazione, anche questa non lo è. E ora c’è uno scudetto che sta lì a dimostrarlo.