Alexey Molchanov, i segreti del miglior freediver del mondo

Con un solo respiro (che può durare anche 9 minuti), Alexey Molchanov, il più audace freediver al mondo, raggiunge profondità improbabili e scopre un nuovo tipo di luce
Alexey Molchanov su GQ ottobre 2021

1. Rapsodia in blu

Nonostante la complessità delle tecniche necessarie, l’obiettivo da conseguire è estremamente semplice: raggiungere la massima profondità possibile con un solo respiro e tornare in superficie senza svenire o addirittura morire.

È questo lo scopo dell’apnea, per lo meno di quella competitiva. E qui nelle Bahamas 42 apneisti di tutto il mondo si sono riuniti, come pezzetti di ferro attirati da una calamita, presso quella meraviglia geologica che è una dolina marina, in questo caso un pozzo di acqua oceanica di circa 200 metri, per vedere fino a dove sono in grado di immergersi.

La gara, Vertical Blue, è la Wimbledon dell’apnea e riunisce i migliori atleti del mondo, i quali lottano in quelle che forse sono le acque più adatte del mondo per questa pratica sportiva. Come mi spiega il fondatore dell’evento, William Trubridge, che ha trascorso una vita a scandagliare la superficie della Terra per trovare dei luoghi che permettessero di andare alla massima profondità: «Non si potrebbe progettare un luogo migliore per l’apnea neppure mettendosi alla scrivania con carta e penna».

Ma questa è più di una gara sportiva di vertice. Sì, i tuffatori presenti trascorrono la vita a inseguire profondità record, ma si dedicano anche a un nuovo modo di interagire con il mondo e gli oceani, di essere vivi, di respirare. Vengono dall’Italia, dal Giappone, dalla Nuova Zelanda e dal Perù. Vivono e si allenano in Sardegna, a Okinawa, Cipro e Tulum. Gareggiano nelle meravigliose profondità di Egitto, Turchia, Honduras e Grecia. Si preparano insieme, affittano case in comune, spesso finiscono a letto e a volte si sposano. Sono dei professionisti specializzati ma non guadagnano denaro: il loro sport non ha ancora raggiunto i vertici della popolarità. Ma pazienza: passare del tempo con loro significa iniziare a comprendere che sono all’inseguimento di qualcosa di più grande, qualcosa di sublime.

Dopo tutto, l’apnea è la continua possibilità di riconfigurare totalmente il proprio corpo e la propria mente. Per andare sempre più in profondità, gli esseri umani devono allenare i polmoni e il cervello, in modo da sbloccare fonti segrete di chiarezza, forza e ossigeno e il potenziale nascosto all’interno del corpo. Sono segreti che, una volta portati alla luce, rendono gli apneisti non solo più bravi nella loro disciplina, sostengono, ma anche più efficaci, consapevoli, abili e attenti in quanto esseri umani. Si verifica un cambiamento di prospettiva, un riallineamento globale della propria consapevolezza. Lo sguardo nei loro occhi quando ne parlano... ogni tuffatore che è veramente andato in profondità sembra un individuo raro, uno che ha visto la Terra dalla luna, o che è morto e resuscitato.

Le tecniche, apparentemente uniche, dell’apnea, si possono applicare anche al di là dei confini di questa attività sportiva. Ad altri sport, al lavoro, ai rapporti con colleghi e amici e in famiglia. Scopro i benefici di una migliore respirazione, di un magistrale controllo del corpo, e del tendere allo stato di mindfulness necessario per immergersi a profondità insondabili senza perdere il controllo e uccidersi per sbaglio. «C’è una parte del freediving», spiega il miglior apneista del mondo, Alexey Molchanov, «che può risultare di grande utilità per chiunque».

Come altre attività in cui si va alla ricerca del sublime, il pericolo è stimolante. I blackout sono frequenti, in particolare a profondità non elevate, anche per la maggior parte dei tuffatori più abili. La pressione, che aumenta a mano a mano che si scende, può rompere i tessuti molli delle orecchie, della gola e dei polmoni se non viene gestita correttamente. Alcuni rischi sono ingannevoli. C’è la tentazione di andare più a fondo prima di essere davvero pronti, perciò anche i migliori al mondo tendono ad avanzare centimetro dopo centimetro in profondità. Nell’apnea non esistono scorciatoie; non esiste modo per ingannare la pressione dell’acqua, la spinta a galleggiare e la gravità. In superficie, dopo essersi riabituati all’aria, si possono perdere le capacità motorie, avere tremori incontrollati, blackout, sanguinamenti. La morte è rara, ma è sempre presente. Proprio in questa stessa gara svoltasi alle Bahamas otto anni fa, un giovane americano di Brooklyn che stava rapidamente scalando le classifiche dei migliori tuffatori del mondo (secondo qualcuno forse troppo rapidamente) è morto esattamente in questa baia, al di sopra di questo blue hole. I protocolli di sicurezza migliorano costantemente, ma lo spettro aleggia. Non si esagera dicendo che se noi, esseri umani, rinunciamo volontariamente ad accedere all’ossigeno, e poi ci produciamo in una prestazione atletica, stiamo favorendo il disastro, o per lo meno tentando il destino. Eppure proprio di questo si tratta. Quando tentiamo il destino in questo modo, il nostro corpo e la nostra mente ci sorprendono. Questo è il fascino della pratica dell’apnea.

Esiste però anche il fascino dei record. Il numero nudo e crudo. Che profondità può raggiungere la nostra specie? C’è oggi un tuffatore che arriva più in basso, che unisce fisica e metafisica come nessun altro sportivo. Osservare il 34enne russo Alexey Molchanov immergersi può essere pericolosamente disorientante. Chiunque tentasse quello che fa lui probabilmente morirebbe. È come guardare il miglior rocciatore al mondo scalare con facilità una parete a strapiombo, solo al contrario. Questo è un modo di pensare a quello che sta facendo: un free solo ma immergendosi. Un free solo ma all’ingiù. E nessun essere vivente va giù come Alexey Molchanov.

2. Giù

Dall’alto, Long Island, nelle Bahamas, assomiglia a un gabbiano nel cielo del disegno di un bambino. È lunga, bassa, rustica e remota. È circondata da un’acqua così azzurra che il colore sembra esser stato preso a prestito dalla bandiera bahamense. Ci sono alcuni ristoranti, chiese intonacate, capre che passeggiano lungo la strada e danni risalenti a diversi uragani fa. Fa caldo. Qui passa il Tropico del Cancro. Provando a immaginare l’uccello nel cielo, proprio dove le ali si incontrano c’è una strada sterrata piena di buche che conduce verso un’insenatura nascosta e, al suo interno, un blue hole.

Il Dean’s Blue Hole si trova dentro un anfiteatro naturale di macchia e roccia, a una quindicina di metri da una spiaggia nascosta. Oggi la gente assiste allo spettacolo dalle rocce, dalla superficie dell’acqua, e da parecchio più sotto, giù nella dolina. È la quarta giornata di Vertical Blue e Alexey sta tentando di battere uno dei suoi record mondiali – nella disciplina definita Assetto Costante – con un’immersione di 131 metri (circa 43 piani). In Assetto Costante, i concorrenti possono immergersi con l’ausilio di una zavorra e le pinne ai piedi. Si tratta della maggior profondità che qualcuno cercherà di raggiungere nei nove giorni di Vertical Blue. Si tratta della maggior profondità che un uomo abbia mai tentato di raggiungere nella storia della gara.

Alexey si getta in acqua verticalmente. Non ha la maschera, solo la clip al naso. La muta dorata aderisce strettamente alla testa e al corpo. Anche se è più conosciuto per le capacità dei suoi polmoni e del suo cervello, il suo corpo è diverso da molti altri, anche tra gli apneisti. È alto circa un metro e ottanta, calvo e sembra tarchiato come un pugile sovietico. Non esiste una forma ideale per l’apnea, ma molti tuffatori che partecipano a Vertical Blue sono alti e flessuosi come i mezzofondisti. Le gambe di Alexey sono come idranti antincendio. In più di un’occasione sento altri tuffatori che descrivono il suo fondoschiena come «carnoso». È un pezzo unico. Si distingue.

Tifosi e concorrenti sono appesi al tubo galleggiante in PVC che separa le acque pubbliche dalla «zona gara» sopra il blue hole. Tutto intorno si vedono petti abbronzati, braccia tese e natiche che spuntano in superficie. Regna il silenzio. Non c’è corrente, non c’è vento. Tutto intorno si avverte un mormorio palpabile. Il responsabile sicurezza chiede al pubblico di fare silenzio. Ma Alexey non si accorge comunque di noi – di noi o dei commentatori sulla piattaforma galleggiante, o delle telecamere puntate sul suo volto o del significato del suo tentativo. Sta già viaggiando verso un altro regno.

Quando Alexey era un bambino sua madre, Natalia Molchanova, era la migliore apneista del mondo, un titolo che ha conservato per molti anni. Fu una pioniera in questo sport e mise a punto una tecnica di controllo della mente e del corpo chiamata «deconcentrazione dell’attenzione». Ha trasmesso i segreti al figlio, il quale ha perfezionato questa tecnica e la utilizza per raggiungere uno stato di profonda calma. Nel farlo, riesce a rallentare battito cardiaco e attività metabolica, riducendo allo stesso tempo l’attività del cervello e del corpo. La concentrazione aumenta. Si rilassa tanto da sembrare assopito. Fa dei respiri profondi, insonnoliti, come un vento estivo che gonfia una vela.

I giudici contano il tempo che manca all’inizio dell’immersione: un minuto...

La mascella è rilassata. Gli occhi sono a mezz’asta. C’è ma non è lì. I respiri riempiono gli enormi polmoni, che ha lavorato per adeguare nel corso degli anni aumentando la flessibilità della cassa toracica e del petto. Si sa che tendere un palloncino rende più facile romperlo… Alexey ha fatto qualcosa di simile negli ultimi 20 anni, tendendo i palloncini dei suoi polmoni per aumentarne al massimo la capacità di trattenere aria.

Stringe con una mano il cavo guida, una lunga fune che segna il percorso dentro il blue hole. Il cavo ha due scopi: condurre l’apneista in profondità e tirarlo verso l’alto con un verricello, come se fosse un pesce all’amo, se dovesse avere un blackout mentre è in fase di discesa o di risalita. Quando i giudici arrivano a zero, Alexey riempie i polmoni inspirando profondamente, poi inizia a prendere piccoli bocconi d’aria che comprime sopra i polmoni, già pieni. Un po’ come mettere l’ennesima camicia in una valigia già piena, poi un’altra e poi, sempre sopra, altre 30 camicie. Questo metodo avanzato si chiama packing. Quando Alexey raggiunge il massimo è ora di gettarsi. Fa una capriola e si tuffa come un delfino, il capo scompare sotto la superficie e la grande pinna che indossa ai piedi spara in aria, schizzando leggermente gli spettatori.

Chi si trova al bordo della zona gara adesso può immergersi e osservare la forma slanciata nella muta dorata immergersi verso l’abisso. Alexey fa numerosi calci a delfino, con le potenti gambe che lavorano come il primo stadio di un razzo. Combatte la tendenza positiva al galleggiamento in superficie, la forza che ci tiene a galla in mare e che ci fa tornare in superficie dopo un tuffo in acque poco profonde. Alexey divora rapidamente lo spazio poi, a circa 20 metri, scompare completamente dalla vista.

A 22 metri, un piccolo allarme dell’orologio di Alexey gli segnala che è il momento di trasferire riserve d’aria dai polmoni alla bocca e al collo in modo da compensare le orecchie a mano a mano che scende. Alexey compie questa azione a pochi secondi di distanza nei primi 20 metri, prevenendo il cambio di pressione, che arriva rapidamente. Nei primi 10 metri la pressione raddoppia. A 20 metri triplica. Per combattere l’aumento di pressione Alexey ascolta l’allarme e sposta l’aria nel collo e nella bocca e spinge la lingua verso i timpani. Mentre fa tutto ciò resta assolutamente calmo, presente, agisce meccanicamente, è praticamente catatonico.

Esiste un momento durante l’immersione, non a grandi profondità, in cui il corpo si rende conto di non ricevere ossigeno come al solito. Ciò è in parte dovuto all’elevato livello di anidride carbonica nel sistema. I corpi reagiscono in modo diverso, ma tra gli apneisti principianti si insinua spesso un panico involontario, con convulsioni o contrazioni, spasmi interni delle celle e degli alveoli, che chiedono a gran voce aria. Ma se si supera questa fase traumatica, dall’altra parte si scopre uno dei segreti del corpo: più ossigeno. Quando viene spinto al limite in questo modo, il corpo inverte l’interruttore, nell’ambito del riflesso a immergersi dei mammiferi, come se passasse a un altro serbatoio di gas. Si tratta solo di uno dei molti meccanismi automatici del corpo per scongiurare la morte – annegamento, asfissia, danno cerebrale, qualunque – ed è uno dei meccanismi che gli apneisti si allenano a sfruttare. Il sangue inizia ad affluire dalle estremità al centro, verso i polmoni e gli organi vitali, togliendo una parte dell’ossigeno presente nelle parti meno critiche del corpo per portarlo verso quelle necessarie a mantenere la vita. Alexey può sentire i capillari dei polmoni espandersi e quelli delle estremità stringersi. Avverte una sensazione generale di riscaldamento. Un grosso abbraccio dal profondo.

A circa 30 metri, la forza di galleggiamento esercitata su Alexey diventa negativa e lui inizia a procedere in caduta libera, rilassando ulteriormente il corpo. Porta le braccia lungo i fianchi per ridurre la resistenza e inizia a precipitare verso il fondo dell’oceano. C’è un abbraccio caldo e lungo e una deriva verso il nulla in una specie di gravità zero. Si tratta della manifestazione fisica del suo stato mentale. Calma. Silenzio. Quasi assenza. L’immersione ha i profili di un sogno.

A 45 metri: un secondo allarme. Alexey può sentirlo chiaramente, come se fosse una campana, grazie all’acustica delle profondità marine. La notifica significa che la sua caduta libera ha raggiunto la velocità massima e che i suoi polmoni sono compressi e occupano quasi un sesto dello spazio che hanno in superficie. L’ossigeno non è inferiore a quanto fosse di sopra. Occupa solo molto meno spazio, una proprietà dei gas. Corre verso il fondo, senza accelerare né rallentare. Compensa continuamente, ma la mente è vuota. La pinna funziona come un remo, si muove impercettibilmente per mantenere la verticale della sua posizione. Non indossa occhialini e gli occhi sono a mezz’asta. C’è ma non c’è.

Suona un terzo allarme quando si avvicina alla profondità da raggiungere, segnata da una piastra all’estremità del cavo guida. Tre metri prima della piastra la fune passa da bianca a tratteggiata, facendo sapere ad Alexey che manca poco. Tutto intorno a lui la luce manca da un po’ di tempo, eccetto quella della torcia sul capo. Se dovesse spegnersi, non riuscirebbe a vedere la mano davanti al volto. Dato che non sta respirando, non vi sono neppure dei veri e propri suoni. Solo un oblio sensoriale. Roba da paura.

Una volta raggiunta la piastra sul fondo, prende un talloncino – un gesto simbolico per dire che è arrivato –, si gira verso l’alto eseguendo una semplice rotazione e, tirando la fune, si spinge verso la superficie. Al di sopra, immersi nella luce bahamense, i giudici hanno seguito la discesa di Alexey, contando la profondità come la sala comandi mentre il modulo lunare si avvicina alla luna. 110... 120... touchdown! Il pubblico applaude, sorride, schizza l’acqua. Alla fine della fune si è a metà del viaggio, quello è sempre il punto più lontano dalla possibilità di respirare.

3. La madre

Nei cinque giorni che trascorro insieme ad Alexey nelle Bahamas, la domanda che lo mette maggiormente a disagio non è se si è mai preoccupato di bloccarsi a 120 metri dalla possibilità di respirare aria, ma se un giorno finirà la vita vagabonda che ha condotto, trasferendosi ogni volta nei luoghi di immersione per settimane o mesi. «Non penso di sistemarmi davvero da qualche parte...», replica, sul portico della casa che ha affittato per qualche settimana qui con la moglie, il figlio appena nato e alcuni altri tuffatori. «Posso andare ovunque e viverci per un mese». Proprio come fa qui. «Da quando ho finito l’università, non ho trascorso più di cinque mesi a casa a Mosca».

Che le vite di questi atleti orbitino intorno agli oceani, ai migliori posti sulla Terra per immergersi, a queste lunghe gare è qualcosa di ovvio. Viaggiano per il mondo affrontando costi significativi e con pochi sponsor e premi in denaro. Sono semplicemente alla ricerca di queste esperienze pure: è come fare surf su alcune onde specifiche, o conquistare una vetta speciale, una cornice a cui dedicare la propria vita. A cena, una sera, Alexey mi mostra una app di navigazione che utilizza per cercare nuovi siti dove andare a caccia di profondità. Sembra aver visitato la maggior parte dei luoghi della Terra che vediamo. Era questo il suo sogno: vedere il mondo, incontrare le ricchezze dell’oceano, provare cose diverse da ogni altro essere umano – è quello che ha portato Alexey all’apnea fin da subito.

Alexey è cresciuto nella Russia meridionale, a Volgograd («prima si chiamava Stalingrado»), e, come molti attivissimi bambini degli anni Novanta, il suo programma era sempre pieno. Nuoto, violino, scacchi e taekwondo. Si stupisce di come i suoi genitori si sforzassero di trovargli un equilibrio in quella vita, senza spingerlo troppo verso una cosa specifica. Scelse il nuoto e, da adolescente, si recò a San Pietroburgo per frequentare un collegio specializzato in nuoto, un primo assaggio emozionante e importante della vita fuori casa, seguito dall’università a Mosca, dove Alexey passò dal nuoto competitivo all’apnea. È tutta la vita che fa qualcosa di simile, anche se lui non lo definisce così – nuotare e immergersi già a tre anni, trattenendo il respiro durante le vacanze sul Mar Nero non molto tempo dopo. Non aveva pensato che avrebbe potuto costruirsi una vita intorno alle immersioni. «Poi un giorno», racconta, «ho letto degli articoli sulle gare di apnea su alcune riviste. I viaggi. Non si presentava solo come uno sport, era già questo stile di vita. Viaggi e avventure. Con i delfini e i leoni marini, le balene e gli squali». Si trattava di un modo grandioso e particolare di vivere il mondo, di costruire la propria vita intorno a questa novità in cui lui avrebbe potuto essere straordinario.

Sua madre aveva ripreso solo poco prima. Natalia, come Alexey, era una nuotatrice competitiva, e iniziò le immersioni in apnea solo all’età di 40 anni, dopo un difficile divorzio dal padre di Alexey. Al suo 50° compleanno aveva stabilito numerosi record mondiali in diverse discipline. «Molte persone a 50 anni pensano che la vita sia finita», diceva. «Io voglio dimostrare loro che possono fare tante altre cose». L’anno successivo, nel 2013, stabilì il record del mondo in cinque discipline. Parallelamente alla sua carriera, Natalia istituì una scuola di freediving a Mosca. Quando Alexey si laureò all’università e si lanciò in questo sport, lavorò fianco a fianco con la madre, prima a scuola, poi in azienda, Molchanovs, che vendeva soprattutto mute e pinne. (Il logo, una pinna disegnata da Alexey, ha la forma di due M: «La M grande è mia madre e la m piccola sono io»).

Natalia era considerata una specie di saggia di questa pratica. «L’immersione in apnea non è solo sport», disse una volta, «è un modo per capire chi siamo. Quando ci immergiamo, se non pensiamo, capiamo che siamo completi. Siamo tutt’uno con il mondo». Attraverso la deconcentrazione, una forma di meditazione avanzata che diceva di aver sviluppato dalle tecniche utilizzate dagli antichi guerrieri, poteva resettare la mente e sentirsi pronta ad affrontare il mondo. Ma nel 2015, durante un’immersione di allenamento, presumibilmente di routine nei pressi dell’isola di Formentera, nel Mediterraneo, scomparve. Non tornò mai a galla, svanì nel mare. La sua presenza aleggia sul freediving e sugli apneisti e, ovviamente, la sua eredità prosegue attraverso Alexey, che resta a capo della scuola e dell’azienda, e funge da portavoce dei suoi dogmi sull’immersione e la deconcentrazione. Tecniche che permettono a chiunque di respirare meglio, andare più in profondità con maggior sicurezza e aumentare la capacità di muoversi senz’aria. Da un punto di vista più ampio, forniscono anche gli strumenti per guardare in faccia le sfide più difficili della vita senza distogliere lo sguardo.

Quando Alexey insegna queste tecniche non fa solo teoria. Sono tecniche che, dopo tutto, vengono da un uomo la cui madre è scomparsa proprio mentre faceva ciò a cui ha dedicato la vita. A un certo punto, come alludevo, ho chiesto ad Alexey se si faccia mai travolgere dai rischi, dalle implicazioni potenziali, di una immersione finita male. «Statisticamente», risponde, «è uno sport molto sicuro. Se hai la forza e un legame tra la mente e il corpo, hai questa consapevolezza, riesci a capire quando arrivi al limite». Ma non c’è mai stato un momento, in seguito a quanto è avvenuto a sua madre, gli chiedo, in cui ha esitato a continuare? «A volte, quando mi sono capitati dei blackout o altri traumi, lei si preoccupava per me e voleva che io smettessi», prosegue. «Ma io non volevo. Volevo andare avanti». Voleva andare più a fondo.

4. Su

Alexey non sa che cosa sta accadendo in superficie mentre tenta di battere il record mondiale a Vertical Blue. Non è consapevole di nulla, eccetto l’abbraccio del profondo. La mente si è ritirata e il corpo prende il sopravvento. Vola nello spazio in direzione opposta, ma che direzioni ci sono al buio?

Risalendo, le braccia sono in posizione aerodinamica sopra il capo. Muove con calma la monopinna, concentrando tutti i suoi sforzi per procedere in modo efficiente ed economico. Adesso combatte contro la forza di galleggiamento negativa. Qualsiasi tensione ulteriore può consumare energia e prezioso ossigeno. Tutto sta nell’equilibrio tra azione e inazione. Nel movimento ottimale.

È sott’acqua da due minuti e mezzo. Non è affatto al suo limite. Ha un record personale ufficiale di Apnea Statica (trattenere il respiro in piscina) di 8’33”, in allenamento di nove minuti. Ma in movimento la capacità di trattenere il respiro è solitamente la metà di quella che si ha stando fermi e seduti e, comunque, dalla superficie sembra che sia sotto da un’eternità. Risale e risale, e i giudici iniziano a contare quanto manca per raggiungere la superficie. 50 metri... 40 metri...

È qui che i freediver possono avere dei problemi. Risalgono e iniziano ad avvertire gli effetti della mancanza di ossigeno. Quando si sente mancare l’ossigeno, si può iniziare ad avvertire la stanchezza, si inizia ad accumulare acido lattico nelle gambe, ed è naturale voler accelerare o aumentare la tensione. Ma aumentare la tensione, in particolare nelle spalle e nel collo, può ridurre il flusso del sangue, e proprio in questo momento Alexey ha bisogno che il flusso di sangue verso i polmoni e il cervello sia ottimale. Questa è disciplina: resistere alle reazioni eccessive, sopprimere la mossa disperata, equilibrare la necessità di correre verso la superficie con la calma che trattiene dall’andare al di là di quanto programmato. Alexey controlla totalmente mente e corpo.

A 40 metri, una persona del team di sicurezza incontra Alexey nel blue hole. A 30 metri ne arriva una seconda. Si immergono fino al punto in cui si trova, gli si avvicinano ma non troppo, non vogliono fargli perdere concentrazione. Osservano il volto di Alexey per vedere eventuali segni di sofferenza, poi si muovono al suo fianco verso la superficie.

A 20 metri gli spettatori che guardano da sopra con i volti immersi in acqua iniziano a vedere la forma di Alexey che risale dall’abisso, affiancata dall’indistinto movimento del personale di sicurezza. La forza di galleggiamento è tornata positiva e inizia a sollevarlo. Rallenta ma erompe in superficie con una forza tremenda, saltando per aria come una palla di gomma tenuta sott’acqua. Afferra la fune e si muove, riempie i polmoni d’aria con respiri intensi, le «inalazioni attive». Se un apneista ha un blackout, di solito capita adesso.

Una volta a galla, Alexey ha 15 secondi per eseguire il protocollo di superficie. Deve mostrare ai giudici che sta bene (facendo un segno di ok). Deve tenere le vie aeree al di sopra dell’acqua. Deve mostrare il talloncino che ha preso in profondità. E non deve svenire. Può tossire sangue dal polmone lacerato. Può produrre una schiuma rosa e le sue labbra possono diventare violacee. Ma se rispetta il protocollo l’immersione è valida.

Alexey sembra star bene. Controllo totale. I giudici mostrano i cartellini bianchi. L’immersione è valida. Un altro record mondiale. Il numeroso pubblico, al quale si è dovuto chiedere di non mettere troppo peso sul tubo di PVC nella zona gare per non farlo affondare, prorompe in applausi e schizzi.

Alexey si allontana nuotando verso la piattaforma di recupero, e il responsabile della sicurezza gli urla sorridendo: «Alexey, qual è il tuo segreto?».

Alexey sta ancora cercando di respirare e non riesce a parlare.

«Non ce lo vuoi rivelare!».

Alexey respira e sorride. «Non ve lo dico...».

5. Il segreto o la fisicità dell’adesso

In realtà è felice di rivelarcelo. Proprio come Denzel Washington è disposto a dirti come recita senza preoccuparsi che tu gli ruberai le parti. È facile condividere dei segreti quando sai che nessuno può fare quello che sai fare tu con le stesse informazioni.

Imparare a controllare il respiro è importante, ma lo è altrettanto imparare a controllare la mente. La privazione dell’ossigeno, spiega Alexey, è uno degli eventi fisiologicamente più stressanti che si possono provare in vita. Quando ogni parte del corpo inizia a chiedere aria, tutte le nostre paure vengono a galla. Ci mostra quanto siamo vicini alla morte. Il battito aumenta. Arriva il panico. Ogni reazione che cerchiamo di sopprimere spunta facendoci ancora più paura. La prova è come ci comportiamo in un momento così.

Per Alexey, l’obiettivo è gettarsi nella sfida, nel panico, conservando  la concentrazione, il silenzio, la meditazione, anche se farlo diventa sempre difficile. Il tutto è una prova di fede: credo che ci sia più ossigeno dall’altra parte di questo stress? Credo che starò bene? La nostra mente si affina quando affronta questa prova di fede e infine passa dall’altra parte, dove ci sono, come si vede, riserve di ossigeno e uno stato di concentrazione, silenzio e calma ancora più profondi. «Imparare come affrontarlo», prosegue Alexey, «ci dà la forza mentale e la concentrazione di fronte alle altre sfide delle nostre vite, che ci appaiono meno importanti e meno stuzzicanti». Alexey ha scoperto un modo di giocare con la prospettiva. Come spiega: «Posso rendere l’immersione superdifficile o ultraperfetta, semplicemente avendo una prospettiva diversa». Il segreto sta nel riportare l’attenzione al presente, allenare il cervello con la stessa intensità con cui si allena il corpo a superare quasi fisicamente i propri pensieri e tenere la mente in uno stato di nulla e di adesso. «Sento che la mia attenzione può espandersi nel tempo e nello spazio», ripete. «Posso pensare al futuro, posso pensare al passato. Tutti questi pensieri ovunque. Ci capita molto spesso nella vita. Ma se io dovessi solo spingerli indietro nell’adesso, spingere indietro i miei pensieri, fisicamente, questa tecnica si potrebbe imparare. Quando la pratico spesso, è come muovere il braccio. Fisica. La devi solo trattenere. E rivolgere l’attenzione ai momenti più brevi possibili».

Il passato scompare. Il futuro non esiste (perché non esiste). Solo l’ora, solo il qui. Non esiste nulla oltre il corpo, il respiro, l’intensa concentrazione sul metro, centimetro, millimetro di profondità successivo. La lunghezza focale di tempo e spazio si abbrevia diventando praticamente nulla. Dopo migliaia di immersioni di allenamento, il corpo sa quello che deve fare, ma la mente minaccia sempre di divagare. Il segreto, afferma, consiste nello spingerla via fisicamente. Adesso. Ora. Piattezza. Monodimensionalità. Neppure una linea, un punto. Nulla davanti o dietro, sopra, sotto o di lato. Solo questo. Tutti possiamo gestire solo questo.

Ecco come si scende in profondità, si rallenta il battito cardiaco, sembra praticamente di addormentarsi in fondo a un’immersione da record mondiale, mentre si fa in acqua ciò che porta la maggior parte del nostro corpo a una rivolta violenta. Se si può imparare a gestire questa prova, si può imparare a concentrarsi al momento di battere un rigore o prima di una presentazione ai soci o di apparire in televisione dal vivo o di affrontare un colloquio di lavoro. Possiamo ricordarci che ci siamo messi noi in quella posizione, siamo noi ad aver colto l’occasione, a esserci spinti ai limiti della zona di comfort, e lo abbiamo fatto volontariamente.

Gli domando se ha mai paura, se si sente mai nervoso, se gli vengono le farfalle allo stomaco prima di una gara importante. «No. Si tratta di qualcosa che ho imparato a gestire con gli anni», risponde. «L’idea di non volerlo fare. Perché questo momento importantissimo arriva. Può essere qualsiasi cosa, un’immersione, una presentazione. Ti senti male per via del tuo processo mentale, non vuoi farlo a causa della pressione. Ce la farà? Sarà all’altezza delle attese? È una mancanza di sicurezza nelle tue capacità. Ma a quel punto dovrebbe esserci un passaggio: questa è la mia specialità. Questo è quello che voglio fare. Ho le capacità, mi sono preparato il più possibile e farò del mio meglio. Ma lo faccio perché è una mia scelta. Puoi realizzare il tuo massimo potenziale solo se sei rilassato, se sei calmo».

«In occasione di un grande evento», prosegue, «invece di concentrarmi sull’importanza dell’avvenimento, passo a concentrarmi su quanto mi piaccia immergermi, e quanto mi piaccia tutto l’insieme. Lo faccio perché mi piace, e so farlo davvero bene. Mi immergo con questa motivazione in testa. Lo faccio perché lo voglio. Se so di essere capace, allora posso davvero concentrare tutta la mia attenzione sul piacere che tutto questo mi dà».

6. Famiglia 

Il piacere che tutto questo mi dà. Si tratta della versione della storia di Alexey, comune a tutti i concorrenti di Vertical Blue. Questi apneisti, alla ricerca della profondità, scrutano la superficie di questo pianeta fatto d’acqua alla ricerca di paesaggi marini miracolosi, dei blue hole. All’inizio i tuffatori escono a coppie o in piccoli gruppi. Imparano a volare e tolgono la polvere dai passaporti. Ma una gara come Vertical Blue è un grande pellegrinaggio per tutti gli atleti più seri. Raduna questo gruppo di 42 diver in un’isola scarsamente popolata (3.000 abitanti, il paese più vicino a Dean’s Blue Hole ne ha 86) per questa competizione della durata di nove giorni. Non c’è molto al di là del fatto di stare insieme. Vi sono giusto un paio di ristoranti in zona. Ci sono più chiese dove recarsi per la messa domenicale che luoghi dove acquistare acqua potabile. Le cose possono diventare difficili e ci si sente un po’ soli se non ci si trova con gli altri. Ma poi finiscono sempre col farlo e formano una comunità. È un po’ una dipendenza. Le immersioni sono un piacere. La famiglia un altro.

Durante il mio soggiorno nelle Bahamas, ho sfiorato i margini di questa famiglia. Per esempio, mentre aspettavo che Alexey si svegliasse dal pisolino pomeridiano, il suo coinquilino Arnaud Jerald (nuovo detentore del record mondiale in Assetto Costante con pinna doppia fino a quando Alexey lo batte cinque giorni dopo) insiste per prepararmi una omelette con insalata. Viene da Marsiglia, è in questa casa nei pressi del blue hole da un mese, per allenarsi e scattare fotografie. Ha grandi progetti per la sua vita sportiva, un piano per attirare sponsor di livello più alto a sostegno del freediving. Ha appena firmato per Richard Mille, per cui è uno dei pochi apneisti ad aver sottoscritto un contratto con un’azienda di orologi di lusso. Mi mostra alcune foto subacquee che la sua partner Charlotte gli ha appena scattato mentre indossa una polo e cammina sul bordo del blue hole, come se fosse la superficie di un pianeta lontano. Vuole che i possibili sponsor vedano che cosa si può fare con gli apneisti.

In un ristorante del lungomare una sera, mentre sono seduto al bar e sto leggendo un libro, mi trovo circondato da un terzo dei concorrenti. Mi diverto a scrutare i diversi raggruppamenti. Per nazionalità. Per età. Una coppia sposata. Una coppia che potrebbe sposarsi. Conto i Paesi rappresentati intorno a me: Giappone, Corea, Taiwan, Cile, Turchia, Italia, Slovenia, Francia, Tunisia e Messico. In spiaggia ogni giorno sono concorrenti, ma ci sono anche madri e padri e figli e figlie. Mentre un’apneista ceca insegue i record, la sua piccola figlia fa snorkeling nelle acque più basse. Il figlio di un italiano detentore del record nazionale cerca di abbronzarsi tanto quanto il padre. In acqua vi sono anche dei bambini piccolissimi. Se vieni così lontano e ci resti così tanto tempo, tutti vengono con te.

Al ristorante, aiuto la più brava apneista turca, Sahika Ercumen, a trovare sul menu del pesce che non sia fritto. Conosce Alexey da quando erano adolescenti. Lo scorso anno Sahika ha preso il Covid, si è spaventata molto per le possibili reazioni con la sua asma, per le possibili conseguenze sui suoi polmoni. Durante le sue sei immersioni, ha stabilito cinque nuovi record turchi.

Tutti i ringraziamenti per questa riunione annuale di famiglia vanno a William Trubridge, fondatore di Vertical Blue e uno degli apneisti più anziani. Alexey alla fine ha battuto tre dei quattro record mondiali delle discipline competitive di profondità del Vertical Blue di quest’anno, ma il quarto è ancora nelle mani di Trubridge, nella sua specialità, Assetto Costante senza pinne. Quella senza pinne è considerata l’immersione più pura, dato che è quella più vicina alle immersioni che gli esseri umani fanno per uno scopo preciso da migliaia di anni, per andare a pesca subacquea, raccogliere spugne e perle, per esplorare l’oceano.

Cresciuto in Nuova Zelanda, nel 2006 Trubridge si è trasferito a Long Island, non lontano da Dean’s Blue Hole, per allenarsi. Da allora il freediving e Vertical Blue hanno vissuto un rapido sviluppo. Nel 2010 la gara da lui creata era diventata di livello mondiale. Poi nel 2013, alla sesta edizione, fu colpita dalla tragedia. Un apneista americano di nome Nicholas Mevoli ebbe un’emorragia polmonare provocata dalla pressione barometrica e morì in un centro medico nei pressi del blue hole. Quando chiedo a Trubridge che cosa può andare male nel freediving, ci pensa per un momento e poi risponde: «Alcuni si concentrano solo sul fatto di sputare sangue, sul blackout. Fa parte di questo sport, certo, ed è un rischio che esiste. Ma è come gli sport del motore: se ti concentrassi solo sugli incidenti, non racconteresti tutto».

Ma gli effetti delle immersioni in profondità compiute giorno dopo giorno sono cumulativi. Nei polmoni, nelle gambe, nella testa. Questo è uno dei motivi per cui la situazione diventa più imprevedibile negli ultimi giorni di gara. Anche Alexey, all’ottavo giorno, impiega più tempo del previsto per la sua immersione con doppia pinna. E sebbene finisca col battere il record mondiale detenuto per pochissimo tempo da Arnaud, guardare qualcuno che non emerge dal profondo anche solo per qualche secondo oltre il tempo previsto è sufficiente per far star male ogni spettatore. Il nono giorno, sette atleti non riescono a raggiungere la profondità prevista e cinque hanno un blackout. Alexey, che non ha più nulla da dimostrare, esegue una specie di immersione d’onore con le pinne per il tempo libero. Prima dell’immersione, Trubridge si trova nella cabina dei commentatori e aggiunge un po’ di colore al livecast di YouTube dell’evento. «Alexey è stato in forma durante tutta la gara», nota. «In questo momento è davvero irraggiungibile praticamente in tutte le discipline».

7. Adesso

Pur essendo il miglior apneista del mondo, la maggior parte dei guadagni di Alexey proviene dall’azienda di famiglia. Finora ha rifiutato tutte le offerte di sponsorizzazione, tenendo duro per quando il profilo di questo sport crescerà ancora. Ogni tanto partecipa a un’esibizione a Dubai dove il vincitore riceve un’automobile, e poi la vende per avere i contanti. È davvero possibile che uno sponsor del lusso si interessi a questo sport, sostiene, ma le cose procedono con lentezza. E quindi per ora ognuno fa per sé. Alexey sa che il futuro sarà definito lungo alcune possibili direttrici.

In primo luogo un tour mondiale. Come la Formula 1 o l’Atp. Te lo immagini? Bellissime baie, coste e spiagge di isole in tutto il mondo, dove c’è una profondità appena sufficiente per alcuni tentativi di record mondiali e dove si possono ancorare gli yacht? Sembra che questo sport sia a un passo da un miliardario ossessionato dalla respirazione, da un tour di Gran Premi totalmente finanziato da uno sponsor di auto di lusso per una stagione con 10 eventi nel Mediterraneo, da un documentario virale di Netflix che lo porterà a diventare lo sport che cresce più rapidamente nel mondo. Secondo: gli eventi per dilettanti. «Perché la gente corre la maratona e partecipa ai triathlon?», si chiede. «Non per diventare campione nazionale o campione mondiale. Lo fanno per crescere, stare bene, strutturare la loro vita e fare progressi». I luoghi esotici. Gli effetti sul corpo e sulla mente. Basta ascoltare un apneista descrivere il fatto di vedere il sole e il cielo e le diverse tonalità di blu da cento metri al di sotto della superficie ed è facile immaginare dei novizi che si allenano partendo da zero per viaggiare in tutto il mondo inseguendo il loro nuovo hobby.

Terzo: le scuole e gli studi di freediving. In passato, racconta Alexey, le scuole di immersione si trovavano in prevalenza nelle località costiere dove si pratica questa attività. Ma Alexey vuole che le sue nuove scuole siano soprattutto in città. «Mi piace tanto l’idea di avere una scuola in una città caotica, dove è necessaria per aiutare le persone a calmarsi e a trovare l’equilibrio». La scuola di Mosca è un successo tra dirigenti aziendali, imprenditori e persone comuni. Il suo prossimo obiettivo? New York. Immagina, allora, accanto allo studio di yoga e alla palestra di arrampicata, un luogo dove allenarsi a praticare le tecniche di respirazione del freediving. Mi ricorda qualcosa che un giovane apneista mi ha confidato sulla spiaggia di Dean’s Blue Hole un pomeriggio: «È difficile resistere e non farsi coinvolgere. Scendi per quattro minuti e poi torni su e ti senti come se fossi stato seduto su un cuscino zafu per due ore». Se Trubridge è stato il custode dello spirito del freediving per tutti questi anni, forse Alexey potrebbe essere il custode della sua fattibilità economica. Entrambi sono necessari. Trubridge ha fatto cose straordinarie per far crescere questo sport, che tuttavia è rimasto di nicchia. Alexey vorrebbe rendere il freediving abbastanza famoso da far guadagnare bene i suoi amici e colleghi. Costruirlo per la prossima generazione. Rendere il freediving non solo adatto a un tour globale ma anche per il tuo vicino borghese. Ma nonostante l’attenzione che riserva al potenziale economico di questo sport, non è meno affascinato dalla sua bellezza. Da quando sono arrivato alle Bahamas, mi sono recato diverse volte al blue hole. La prima sera, al tramonto, ho incontrato per caso il nostro eroe, con la muta Speedo, che camminava nel parcheggio di sabbia verso la spiagggia. Non avevo previsto di vedere Alexey quella sera, ma nel caso mi sarei aspettato di trovarlo in una fase di profonda preparazione, quasi monastica, per la prossima immersione da record. Con lui c’erano invece anche la moglie e il figlio, e nuotavano semplicemente nel blue hole. Eccolo lì Alexey, il terrore di tutti i freediver, che si sbracciava. Sono rimasto a bocca aperta. Era come incontrare per caso Roger Federer che palleggia con i figli nel campo centrale la sera prima della finale. Non c’era ansia, né paura.

Sua madre era morta immergendosi in acque molto meno profonde di queste, dall’altra parte del mondo. Un uomo era deceduto tuffandosi proprio in questo punto non molto tempo prima. Anche Alexey si era già immerso qui. Ma tutto quel rumore di sottofondo non contava. Quelle cose non erano adesso. Alexey aveva grandi idee per questo sport ed era qui per portarle avanti, ma in questo istante non gli interessavano. Quando era necessario, lui era più bravo di chiunque altro a ridurre la lunghezza focale praticamente a zero. Questo era il suo grande dono. La cosa che gli aveva permesso di andare più a fondo di chiunque altro con un solo respiro. Quando voleva, poteva far sì che tutto quello che contava nel mondo fosse davanti a lui. E quella sera il mondo era solo: Marito. Moglie. Figlio. Blue hole.