Al momento dell’incarico come costumista per la nuova pellicola del regista Yorgos Lanthimos Povere Creature!, la designer Holly Waddington aveva a disposizione una moodboard pressoché vuota. Lanthimos le aveva dato un’unica immagine di riferimento: un paio di “pantaloni gonfiabili” in latex della giovane Maison britannica Harri. Da qui è scaturita l’idea dell’aria come elemento di costruzione degli abiti – la stessa che, introducendosi nel tessuto dei pantaloni di Harri, ne determina la forma dilatata – e della sperimentazione come corpo narrativo del guardaroba di Bella Baxter (Emma Stone), la protagonista di Povere Creature!. La pellicola – riadattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Alasdair Gray (1992) – è ambientata in un’età non precisata degli anni Ottanta del Milleottocento. D’altro canto, per ammissione dello stesso regista, non si tratta di un film d’epoca né di un dramma storico, quanto di un racconto fantascientifico. Un’ulteriore indicazione di Lanthimos sarebbe stata la volontà di un film “non troppo fashion”. Eppure, dei costumi di Povere Creature! si sta parlando moltissimo. I termini sono quelli di un’Età dell’Innocenza in versione sci-fi, con tratti di surrealismo e di couture, dove i “pantaloni gonfiabili” di Harri sono diventati maniche a sbuffo di proporzioni scultoree. Quaranta centimetri di diametro che rimbalzano come mongolfiere da braccio in quasi ogni scena del film. Non si tratta, tuttavia, solo di couture: le maniche di Bella sono un simbolo culturale, oltre che di moda.

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Courtesy of Searchlight Pictures

La trama, in estrema sintesi, descrive la crescita psicologica e sessuale di Bella, una giovane donna ritrovata morta nelle acque del fiume Clyde, sullo sfondo goticheggiante della Galsgow tardo vittoriana, e riportata alla vita dallo scienziato Godwin Baxter. Quello che segue è il passaggio dall’infanzia – Godwin ha infatti immesso nel corpo di Bella il cervello di un bambino – ad una giovinezza consapevole e, infine, ad una maturità ribelle – o almeno così è percepita dai più – perché libera. Dunque, un racconto femminista, di libertà sociale e sessuale, in cui la stessa narrazione è supportata dai costumi. I volant, i tessuti a righe e quadretti – i cosiddetti seersucker – gli abiti bon ton da bella statuina e i pesantissimi abiti in moiré vengono sostituiti, man mano che la narrazione procede, da abiti delicati, della stessa consistenza della biancheria intima. Ci sono omaggi ad André Courrèges, agli anni Sessanta e alla space age. Ad un certo punto Bella indossa un cappotto che ricorda un preservativo: a questo punto la liberazione sessuale è completata. Unica costante dell’armadio di Bella sono le maniche a sbuffo. Interrogato su quale fosse il clou degli abiti di Bella, lo stesso Lanthimos avrebbe affermato “Si tratta delle maniche”. E, in effetti, è proprio così. Lo spiega bene Waddington quando racconta: “C’è stata una breve parentesi intorno al 1890 in cui le donne erano solite indossare queste maniche enormi, e quando abbiamo iniziato a girare il film, la dimensione delle maniche oscurava gli angoli della camera. Le maniche così grandi trasmettevano un’immagine di autorità, erano come polmoni pieni del respiro e dell’aria che ha acceso e rianimato Bella”.

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Courtesy of Searchlight Pictures

L’effetto subliminale che le maniche di Bella hanno sullo spettatore è, dunque, di forza, di emancipazione – la stessa che Bella guadagna a sé stessa sul finale. La scelta di un dettaglio tanto evidente è il frutto di una profonda ricerca d’archivio, a partire da quando, negli anni Quaranta del secolo scorso, le maniche hanno incominciato a gonfiarsi su impulso di Adrian, il couturier della Golden Age hollywoodiana. Precursore delle spalline imbottite, le maniche a sbuffo hanno fatto ritorno negli anni Ottanta – e in questo c’entrano anche le maniche dell’abito da sposa della principessa Diana. Oggi pare essere nuovamente il loro momento. In parte, sostiene Waddington, si deve all’intromissione della videocamera nel quotidiano, per cui le informazioni devono concentrarsi nello spazio maggiormente ripreso, ovvero quello tra il viso e la vita, dove si posizionano anche le maniche. Se voluminose, la loro massa scolpisce lo spazio circostante la parte alta del corpo, dando un senso di sicurezza. È uno strumento, insomma, per enfatizzare la propria presenza nello spazio. Tali sono i significati che possono nascondersi dietro la banalità – apparente – di una manica a sbuffo.

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Victor Virgile//Getty Images
Simone Rocha, Primavera/Estate 2024

Lo conferma la mostra Statement Sleeves, la rassegna del Fashion Institute of Technology inaugurata questo gennaio e dedicata alla storia delle maniche in quanto “significatori di status, gusto e personalità”. E lo confermano anche le ultime sfilate. La Primavera/Estate 2024 di Antonio Marras, Chloè, Louis Vuitton e Schiaparelli ne sono esempi. E poi, in fatto di maniche non si può non citare Simone Rocha, una stilista che ha fatto di volant, fiocchi e maniche a sbuffo una firma. A ben guardare, gli abiti di Simone Rocha condividono diverse influenze con la pellicola di Lanthimos: l’età vittoriana, il surrealismo, il sesso, la morte e il tradizionalmente femminile. E poi una certa pomposità data da tasche sporgenti, fiocchi, imbottiture e maniche extra-large che, tuttavia, sono sinonimo di pesantezza dell’abito ma, piuttosto, di autoaffermazione. L’abito di corte viene così astratto e riadattato allo zeitgest dei nostri tempi, maniche comprese.

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Estrop//Getty Images
Schiaparelli, Autunno/Inverno 2023/2024
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