Quando, nel giro di pochi giorni al massimo, la proposta di riforma costituzionale di Giorgia Meloni sarà definita, quando cioè saranno presentati gli emendamenti di FdI sui quali la maggioranza sta discutendo e litigando in questi giorni, il cosiddetto premierato sarà certamente diverso e forse molto diverso da quello originale. Il nuovo testo è quasi pronto, parola della ministra Casellati. Oggi una riunione ristretta lavorerà di cesello, poi tutto passerà ai leader per il “visto si stampi” e lunedì gli emendamenti della maggioranza saranno l'elemento centrale è quello sul quale lo scontro con la Lega in maggioranza è stato più aspro: la modifica della norma antiribaltone, quella che nel primo testo consentiva un cambio di premier, purché il successore a quello direttamente eletto, provenisse dalla stessa maggioranza del primo. Era una norma folle perché calibrata solo sull'esigenza di sbarrare la strada ai Monti o ai Draghi di domani, senza considerare una quantità di altri elementi. Il “secondo premier”, pur se scelto dai partiti e non dagli elettori, sarebbe infatti più forte del primo, avendo la possibilità di ricattare il Parlamento con la minaccia del ritorno alle urne. È un nodo ( scorsoio) già segnalato più volte ma non è l'unico. La sola vera norma che limita i poteri del capo dello Stato è questa: i presidenti della Repubblica si trovano infatti in posizione determinante, e lo si è visto più volte, quando, dopo una crisi, si prospetta il bivio tra lo scioglimento della legislatura e una soluzione alternativa, cioè un asso nella manica del presidente. La soluzione trovata, ancora da limare, è cervellotica: il “secondo premier” ci sarà in caso di dimissioni per impedimento oggettivo oppure volontarie del premier eletto. In caso di sfiducia parlamentare esplicita, con tanto di mozione, si tornerà automaticamente alle urne. Se invece il governo metterà la fiducia su un provvedimento senza incassarla, sarà possibile passare la palla al “secondo premier”. La vituperata norma antiribaltone restituiva in realtà al Parlamento alcuni poteri. Nella nuova versione alle Camere resta solo una prerogativa fondamentale, quella di esprimere la fiducia non sul premier ma sul governo. Il rischio di confusione, però, è così massimo, dal momento che il disegno prospetta una doppia fonte di legittimazione: gli elettori scelgono il premier ma è il Parlamento ad approvare o bocciare il governo. Che fare nell'eventualità, remota ma non inesistente, di un conflitto tra le due fonti di legittimazione è oscuro e tale resterà per quanto si provi a stabilire una casistica precisa, data la contraddittorietà della norma.

Il problema del capo dello Stato si è sempre più ingigantito da quando la prima versione della riforma è stata presentata e per un motivo chiaro: l'opposizione è convinta che solo la popolarità di cui gode il Colle tra gli elettori possa impedire la vittoria di Meloni al referendum. Dunque martella solo ed esclusivamente su questo tasto, anche se in realtà a essere spogliato di poteri e facoltà è più il Parlamento che non il presidente. Proprio per ovviare a questa prevedibile campagna del fronte del no la riforma lascia nelle mani del capo dello Stato la nomina dei ministri e nella nuova versione anche quello di revoca degli stessi, in entrambi i casi su proposta, ma solo su proposta, del premier eletto. Quanto a rischi di confusione non c'è male neppure qui.

Le altre due modifiche in discussione sembravano inevitabili. La prima era un tetto per i mandati dei premier, necessario a meno che non si togliesse a il tetto anche per le altre cariche istituzionali, cioè i sindaci e i governatori, cosa che FdI vuole a tutti i costi evitare. L'espediente studiato da FdI nei suoi emendamenti è noto: i mandati sarebbero stati due ma in caso di scioglimento anticipato della seconda legislatura il premier poteva candidarsi per la terza volta, arrivando così a un massimo di 14 anni di mandato e non è che siano pochi. La Lega si è opposta per un motivo semplice: per questa via il premier ha di fatto un tetto di tre mandati ( meno un anno), i governatori, cioè quel che più importa per il Carroccio restano a 2. Che fare? Al momento l'ipotesi più accreditata è affidare tutto agli emendamenti dell'opposizione: «Vediamo quelli, poi decidiamo». È possibile che oggi il vertice ristretto ci ripensi. Sarebbe auspicabile.

Infine c'è il premio di maggioranza, che negli emendamenti tricolori non era più del 55 per cento ma di «almeno la maggioranza assoluta», cioè i vincitori sarebbero portati “almeno” al 51 per cento dei seggi e solo dopo aver varcato una soglia, anch'essa ancora da definire anche se la ministra Casellati proponeva il 40 per cento. Alla fine si è deciso di lavarsene le mani e delegare tutto alla legge elettorale, cioè al Parlamento, soprassedendo anche sulla richiesta tricolore di scrivere in Costituzione che un premio per arrivare alla maggioranza assoluta comunque doveva esserci. Tenendo conto di quanto difficile e doloroso sia per il Parlamento misurarsi con le leggi elettorali, questione di vita o di morte per i partiti, non sarà una passeggiata.