Tra Calabria e Basilicata

Il Parco del Pollino e il caso della centrale a biomasse

Inquinamento in area protetta - L'impianto del Mercure da molti Comuni è visto come fonte di lavoro, ma si ripropone la questione dei danni alla salute dell'uomo e della fauna. La giunta calabrese ha approvato il Piano che si attendeva da 30 anni, ora tocca a quella lucana, per evitare che la struttura prosegua l'attività

Di Mountain Wilderness Italia
22 Agosto 2023

Pare chiudersi la storia della centrale a biomasse nel Parco Nazionale del Pollino. Istituito nel 1993 e compreso tra Basilicata e Calabria, con i suoi oltre 190.000 ettari è per estensione la più grande area protetta d’Italia; nel 2007 l’UE ha istituito due Zone di Protezione Speciale (ZPS) che la comprendono completamente, nel 2015 è entrata nella rete europea dei Geoparchi UNESCO e due sue faggete vetuste fanno parte, rispettivamente dal 2017 e dal 2021, del Sito transnazionale delle “Antiche Faggete Primordiali dei Carpazi e di altre Regioni d’Europa” patrimonio mondiale dell’Umanità. La Comunità del Parco conta 56 Comuni (24 in Basilicata e 32 in Calabria), nove Comunità Montane, tre Province (Cosenza, Potenza e Matera) e due Regioni, ospitando circa 138.000 abitanti. Come mai una centrale a biomasse sul territorio di un parco nazionale? Al momento dell’istituzione dell’area protetta, la centrale esisteva già. È stata infatti realizzata negli anni ’60 nei pressi di una miniera di lignite a cielo aperto, poi convertita ad olio combustibile ed infine chiusa verso la fine degli anni ’90 per ragioni tecnico-economiche. Nel 2001 l’Enel ne ha proposto la trasformazione in centrale a biomasse, avviando un iter che si è concluso a colpi di carte bollate solo nel 2016 quando ha ripreso ad immettere energia nella rete elettrica nazionale. Nel 2019 l’impianto è stato acquisito da Sorgenia, gruppo F2i. Il riavvio della centrale ha incontrato la ferma opposizione degli ambientalisti e di alcune amministrazioni locali, per diversi motivi. L’impianto, uno dei più grandi d’Europa (una superficie di 11 ettari con una capacità produttiva di 41 MW elettrici, 35 effettivi), ha bisogno di essere alimentato con circa 350.000 tonnellate/anno di biomasse, una quantità enorme di materia organica che Enel pensava di raccogliere attingendo al “naturale bacino locale di approvvigionamento”; peccato che in Calabria siano attivi altri quattro impianti a biomasse solide per una richiesta totale di oltre 1 milione di tonnellate annue. Di qui la necessità di utilizzare biomasse provenienti da altre zone oltre al concreto rischio di infiltrazioni mafiose per lo smaltimento di legname illegale e di rifiuti di altra natura, infiltrazioni testimoniate da numerose indagini e processi tuttora in corso. Dal punto di vista energetico, le biomasse sono comunemente considerate una fonte rinnovabile ad emissioni zero in quanto la combustione delle biomasse rilascia una quantità di anidride carbonica in atmosfera pari a quella assorbita dalle piante nel corso della loro vita; se però consideriamo le operazioni di raccolta del legname, di trasporto e quant’altro ecco che il bilancio si discosta dalla parità (alcune fonti affermano che a parità di produzione energetica le biomasse legnose emettono maggiore CO2 rispetto al carbone ed ancor più rispetto al gas naturale). Quello che preoccupa maggiormente sono le conseguenze delle emissioni inquinanti generate, dannose non solamente per i terreni agricoli (nell’area della centrale sono presenti diverse coltivazioni a Denominazione di Origine Protetta) ma soprattutto per la salute di uomini e animali. Gli impianti a biomasse, infatti, sono responsabili di liberare nell’atmosfera sostanze inorganiche e fumi a temperature che raggiungono gli 800°C; le stesse, dopo che volatilizzano, si ricombinano sotto forma di particolato, ossia di polveri sottili, solide o liquide, che restano sospese in aria per un periodo di tempo variabile consentendo alle particelle di penetrare, in misura diversa a seconda del diametro, nell’apparato respiratorio degli esseri umani, oltre che degli animali, fino ad arrivare direttamente nel sangue quando il particolato diventa estremamente fine. A questo si aggiunga l’inquinamento dovuto all’alto numero di automezzi pesanti (circa un centinaio al giorno) che circolano attraverso la viabilità del Parco per trasportare le biomasse da bruciare; la valle del fiume Mercure-Lao, in cui si trova la centrale, gode di un particolare microclima che presenta il fenomeno dell’inversione termica, con ristagno dell’aria e conseguente accumulo delle polveri sottili. Ricordiamo che l’Italia detiene il triste primato in Europa per morti premature derivate dalla cattiva qualità dell’aria. Si attendeva l’approvazione del Piano del Parco da trent’anni, l’attuale proposta era stata adottata fin dal 2011; la Giunta della Regione Calabria ha deliberato in via definitiva lo scorso 27 luglio acquisendo l’intesa dei Comuni del versante calabrese territorialmente interessati, ora si attende la Regione Basilicata per dare operatività ai suoi contenuti che vietano ad un impianto così potente come la centrale a biomasse del Mercure di proseguire l’attività all’interno dell’area protetta. I sindacati, le imprese e i lavoratori coinvolti, stimati in alcune centinaia compreso l’indotto, vedono l’impianto come una risorsa per l’economia del territorio e chiedono di aprire un tavolo di incontro sulla questione; con loro perfino alcuni sindaci, che pure hanno condiviso il percorso di approvazione del Piano senza forse rendersi conto delle conseguenze, o forse confidando nel perpetuarsi delle deroghe sempre ottenute negli anni precedenti. Abbiamo già visto queste contrapposizioni tra lavoro, salute ed ambiente: dall’Ilva di Taranto all’Acna di Cengio in Valle Bormida fino alle cave di Marmo sulle Alpi Apuane, dalle industrie chimiche del secolo scorso a quelle più moderne e green sospinte dalla transizione ecologica. Una guerra tra poveri dove la paura di perdere posti di lavoro e le crescenti difficoltà economiche dei piccoli Comuni portano a non tener conto del valore della perdita nel tempo del capitale naturale, relegando in secondo piano le finalità primarie di conservazione delle aree naturali protette; altrimenti la colpa sarà dei cattivi ambientalisti che comandano occultamente le stanze del potere dai loro comodi loft. Ma chi ci guadagna sono altri, quasi sempre a scapito dell’ambiente.

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