David Sedaris e Franz Kafka (elaborazione grafica di Enrico Cicchetti) 

Alla fine, il comico in letteratura è sempre una tristezza

Edoardo Rialti

L'ultima raccolta di racconti di David Sedaris, “Cuor contento il ciel l’aiuta”, è una passeggiata nelle follie dell’America ossessionata dalla political correctness liberale e dalla brutalità repubblicana à la Trump

Dichiariamo il nostro amore e ci prende un attacco di singhiozzo per il bere nervoso. Corriamo al primo volo per la morte di una persona cara, piangiamo curvi e la poltrona del nostro posto risponde a scatti e ci fa dondolare avanti e indietro mentre il passeggero accanto ci lancia uno sguardo infastidito. Il comico è sempre il minuzioso, come notava Roberto Calasso. Lo sanno bene Boccaccio, Austen, Beckett, Dickens per cui “usa sul palcoscenico, in tutti i melodrammi bene architettati e sufficientemente truci, avvicendare regolarmente le scene tragiche con le comiche, come gli strati di rosso e di bianco nel taglio d’un prosciutto ben screziato”. E’ l’improvvisa riduzione dei nostri impulsi e aneliti più intensi alle leggi della meccanica, alla gravità universale. Si resta ammirati dall’inesorabile senso di realtà perché l’essenza delle vicende umane è lirica, ma la sua esistenza è comica, come intuì Santayana. Franz Kafka, che leggeva i suoi orrori agli amici sbellicandosi, paragonò la scrittura – ossia la vita consapevole – a una danza cosacca tra le due case incompiute, avanti e indietro, “durante la quale il cosacco con i tacchi dei suoi stivali raschia e svelle la terra finché sotto di lui so forma la sua fossa”. Pare uno sketch di Buster Keaton.

 

Un buon modo di leggere “La Metamorfosi” o “Emma” è accompagnarli alle risatine maliziose dell’elettronica di Charlotte Adigery. Provare per credere. Per questo il comico è quasi sempre una tristezza, vedere le cose improvvisamente da fuori, “prendere in giro” qualcosa dentro o fuori di noi è una partecipazione al moto di rotazione della Terra. Lo sa bene David Sedaris, che è scrittore, ebreo, omosessuale, tutte condizioni d’esilio ed estraneità, in diversa misura.

 

“Un tempo credevo che a possedere le armi fossero in particolare gli uomini con la barba. Poi però ho capito, indagando un po’, che sono i padri degli uomini con la barba quelli che possiedono le armi. E’ incredibile quanto sia precisa questa teoria”. La sua ultima raccolta di racconti – “Cuor contento il ciel l’aiuta”, Mondadori, nella traduzione di Gianni Pannofino – è una passeggiata nelle follie dell’America ossessionata dalla political correctness liberale e dalla brutalità repubblicana à la Trump. Dal culto delle armi che contagia pure la sorella animalista – “‘Ho sempre pensato che, se dovessi decidere di suicidarmi, prima ucciderei Henry’”. Si riferiva al suo pappagallo, che poteva tranquillamente campare fino a settant’anni.

 

“‘Non fraintendermi: gli voglio bene da morire, ma non mi andrebbe di affidarlo a gente che poi lo maltratterebbe’” – ai discorsi tenuti alle accademie da artisti che si masturbano sottopalco: “‘Be’, questa è una cosa che potresti fare tu’ disse mia madre…‘Insomma, non è questo l’obiettivo? Fare qualcosa che ti piace e ricavarne dei soldi!’”. Si partecipa alle manifestazioni per Black Lives Matter e si scopre che gran parte della gente è occupata coi selfie: “So che c’è gente che si fotografa ai funerali, perché una volta cercai su Google “selfie a…” e vidi che “… un funerale” era il terzo suggerimento che usciva”. Si fa una pausa nella lettura, quasi ci si scosta dalla pagina. Abbiamo compiuto anche noi il giro della Terra, nel lampo istantaneo d’una immagine. Si ride per non piangere, si ride e piange assieme, in fondo. “Chi è versato nella tragedia dovrebbe scrivere anche commedie”. E’ il misterioso vaticinio di Socrate, sobrio da par suo in mezzo ai compagni avvinazzati che biascicano alla fine del Simposio.
 

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