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La mia voce è un albero: incontro con un gigante della regia, Bob Wilson

Un maestro assoluto, dal teatro alla videoarte, racconta che per costruire un capolavoro bastano tre ingredienti: fissità, luce e silenzio. E il rispetto della natura sopra tutto.

di Stefano Castelli

Tilman Hecker e Robert Wilson in “Lecture on Nothing”, di John Cage, diretto e progettato da Wilson (Ruhrtriennale, 2012), nell’interpretazione al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2016. © Lucie Jansch

6' di lettura

Susan Sontag disse che era «difficile pensare a un’opera più ampia e influente della sua». Louis Aragon, non certo morbido nei suoi giudizi, disse icasticamente: «È quello che noi Surrealisti sognavamo che venisse dopo di noi». Robert Wilson (Waco, Texas, 1941) è oggi un mito delle arti, molto oltre la definizione di regista teatrale. Lo incontriamo a Milano, all’Accademia di Brera, dove è l’ospite d’onore per l’inaugurazione dell’anno accademico e per la celebrazione dei cent’anni della Scuola di Scenografia. Anche la nostra intervista diventa una sorta di suggestiva lezione nella quale Wilson racconta, dà consigli e persino recita. Negli anni la sua gamma espressiva si è estesa dalla regia alle arti visive, alla coreografia, ma lo stile è sempre immediatamente identificabile, come se tutto facesse parte di un unico linguaggio coerente.

Bob Wilson. ©Lesley Leslie-Spinks

«Una volta, qualcuno chiese ad Albert Einstein: “Signor Einstein, può ripetere quello che ha appena detto?”», dice Wilson e anche la citazione di una frase, oppure una semplice esclamazione, diventa l’occasione di declamare con il suo stile recitativo unico. «Ed Einstein rispose: “Non c’è nessun motivo per cui io debba ripetere: quando parlo, è comunque sempre lo stesso pensiero, lo stesso discorso”. Per quanto riguarda gli artisti, funziona allo stesso modo: si tratta sempre dello stesso corpo. Come un albero: in un dato momento spunta un ramo, poi un ramo si spezza, poi cadono le foglie, poi spunta un altro ramo…». Se c’è un elemento che contraddistingue ogni forma espressiva di Wilson, quello è la luce.

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Un frame di “Video Portrait of Winona Ryder”. © Courtesy of RW Work Ltd.

Ne fa un uso talmente centrale da trasformarla in un vero e proprio personaggio, quasi un coprotagonista. «La luce è l’inizio, il primo pensiero. Troppo spesso chi dirige o chi scrive non ne tiene conto, invece è importantissimo non scadere nel decorativo. Il teatro dev’essere costruzione. Io ho studiato architettura e sono stato fortunato: appena entrato come matricola, il primo giorno, ho potuto ascoltare il grande Louis Kahn. Per questo penso alla luce ancora prima di scrivere la prima parola o la prima nota musicale. Non si tratta di illuminare la scena e gli attori, ma di un elemento di partecipazione attiva: senza la luce non ci sarebbe lo spazio».

Camilla Tilling interpreta Mélisande in“Pelléas and Mélisande”, di Claude Debussy, diretto e progettato da Wilson (Opéra di Parigi, 1997), in una performance al Teatro Real di Madrid nel 2011. ©Javier del Real / Teatro Real

Nell’assoluta coerenza, c’è stata in anni recenti una novità per certi versi sorprendente: i “videoritratti” nei quali immortala animali e star hollywoodiane trattando allo stesso modo i due tipi di soggetto. «Video e cinema sono mezzi completamente differenti dal teatro. Cambia il tempo e lo spazio. Supponiamo che sul palco ci sia una donna e che io le chieda di attraversarlo in quattro minuti. Se l’attrice è sufficientemente brava, riuscirà a calamitare l’attenzione del pubblico per tutto il tempo. Se invece facessi una registrazione video della stessa azione e la mostrassi su uno schermo, nessuno guarderebbe perché il tempo teatrale è completamente diverso rispetto a quello dell’immagine filmata. Se accendiamo la tv, per esempio in una soap opera, vediamo che le immagini si basano quasi esclusivamente sul movimento di un occhio e vediamo quei visi grandissimi, ingigantiti dalla ripresa ravvicinata…». Quel che si ritrova anche nei video, però, è la fissità dell’immagine, «un elemento che è stato sempre al centro del mio interesse.

Iréne Theorin è la protagonista della“Turandot”, di Giacomo Puccini, diretta e progettata da Wilson (Teatro Real, 2018). © Javier del Real / Teatro Real

Ezra Pound, quando si trovava in carcere, scrisse: “L’assenza di movimento è la forza delle bestie feroci”. Il drammaturgo Kleist disse che un bravo attore deve comportarsi come un orso: non fare mai il primo movimento, attendere le mosse altrui. A un regista che le chiedeva di muoversi un po’ di più, Greta Garbo rispose: “Se il mio viso è in primo piano, è inutile che io faccia qualsiasi movimento: nel mio viso c’è già tutto”. La fissità è quello che mi ha sempre interessato e dunque l’ho applicata anche nel video, sia con gli animali feroci sia con le star di Hollywood, ad esempio Brad Pitt». E quando la protagonista di un video è una pantera, qualche preoccupazione relativa alla sicurezza è inevitabile che insorga – almeno inizialmente. «La pantera nera si chiamava Ivory. Per ventitré minuti l’abbiamo filmata sdraiata su un tavolo. C’erano quarantacinque tecnici in quello studio di Los Angeles. E c’era ovviamente anche il suo proprietario, al quale ho chiesto: “Pensa che guarderà nella macchina da presa per tutto questo tempo?”. “Se io mi metto dietro la telecamera è probabile che fissi me, dunque penso di sì”, mi rispose. “E se le togliessimo il collare e la catena, salterebbe giù dal tavolo?”. “Questo non lo so proprio”, disse. Allora chiesi ai tecnici: “Se tolgo il collare alla pantera, quanti di voi hanno il coraggio di rimanere?”. Ne rimasero solo tre, quarantadue se ne andarono. Con questi tre tecnici abbiamo fatto il ritratto della pantera, nel silenzio assoluto che esigo quando realizzo i miei video. Senza fare alcun minimo movimento. Se la pantera avesse visto anche un solo movimento non ci avrebbe più fissati e ci avrebbe attaccati. Siamo diventati la pantera per ventitré minuti. Siamo diventati una singola entità».

Sheryl Sutton nel prologo di “Deafman Glance”, diretto, progettato e scritto da Wilson (Center for New Performing Arts, Iowa City,1970). Gli attori provenivano dalla Byrd Hoffman School of Byrds e la foto è tratta da una performance alla Brooklyn Academy of Music di New York nel 1971. © Peter Moore

Con un’esperienza come quella di Wilson, il passaggio all’insegnamento potrebbe sembrare naturale. Nel 1990, in effetti, ha dato vita al Watermill Center, una scuola che si occupa del pensiero creativo. Così la definisce, dichiarando subito la sua perplessità nei confronti dei canonici percorsi di studio. «Forse non dovrei dirlo qui a Milano, nel contesto dell’Accademia di Brera, ma se avessi studiato discipline teatrali, io non sarei in grado di fare il tipo di teatro che faccio oggi. Tutto quello che mi è successo è avvenuto casualmente. Era il 1967, camminavo per strada e vidi un poliziotto che picchiava con un manganello un ragazzo di colore: d’istinto, presi il poliziotto per il braccio per fermarlo. Gli chiesi perché lo stava picchiando, e lui mi disse di non immischiarmi. “M’immischio eccome, perché sono un cittadino responsabile”, fu la mia risposta. La tensione si allentò, accompagnai il ragazzino al commissariato e capii dai suoni che emetteva che era sordo. Lo riaccompagnai a casa: abitava in un bilocale con tredici persone. Volevano metterlo in un istituto. Frequentandolo, mi resi conto che era una persona estremamente intelligente. Lì capii che non si potevano usare i nostri parametri per comprendere quello che lui provava: non potendo sentire, interpretava la realtà usando segnali visivi e non le parole. Decisi di portarlo a vivere con me e divenni il suo tutore legale».

Un frame della pantera nera Ivory in “Video Portrait of Ivory” (2006). © Courtesy of RW Work Ltd.

Uno dei suoi capolavori teatrali, Deafman Glance, nacque dunque così, per quell’incontro estemporaneo e cruciale. «Partii dal concetto di silenzio nella testa. Osservai e interpretai i sogni e i disegni di questo ragazzo e misi in scena il mio primo lavoro importante. La prima si tenne a New York, ma non ebbe una grande accoglienza: durava sette ore che trascorrevano in un completo silenzio. Poi andammo in Francia e sorprendentemente mi offrirono di ripetere questo lavoro due volte. Iniziò ad avere un enorme successo. Pierre Cardin mi chiese se volessi replicarlo per due settimane, pensai: “I francesi sono così ciarlieri, non sopporteranno mai sette ore di silenzio”. Ma aveva ragione lui, vennero 2mila persone ogni sera per cinque mesi. Dunque ho iniziato a fare ciò che faccio per caso, perché camminavo per strada. Perché stavo vivendo. Questa è la ragione per cui al Watermill facciamo ciò che nessun altro fa. Non ha senso replicare quel che si conosce. Se già sai qualcosa, se sai di che si tratta, meglio non farla. Il Watermill è una scuola con le porte aperte».

Alice Generali, Eugenio Mastrandrea, Grazia Capraro, Adalgisa Manfrida, Paolo Marconi, Liliana Bottone, Camilla Tagliaferri, Angelo Galdi, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Francesco Cotroneo, Luca Vassos, Barbara Venturato e Michele Ragno in“Hamlet machine”, di Heiner Müller, diretto e progettato da Wilson (New York University, 1986). La foto è di una performance revival proposta al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2017. © Lucie Jansch

È difficile non cedere alla tentazione di chiedere consigli culturali a un artista-intellettuale come Wilson. Cediamo restringendo il campo a tre nomi (artisti, pensatori, registi…), tre stelle polari per orientarsi nella complessità odierna. «Direi di leggere la Conferenza sul nulla di John Cage. Iniziava così (e comincia a declamare, ndr): “Sono qui. Non ho nulla da dire e lo dico. Se qualcuno qui presente vuole andarsene, fatelo andare via quando vuole. Non ho niente da dire e lo sto dicendo”. Per me fu uno shock: venivo da un’istruzione improntata sulla filosofia greca, che cerca in tutto un significato, una ragione, cause ed effetti, mentre Cage abbracciava la filosofia orientale». Il secondo nome che cita, con altrettanto trasporto, è quello di George Balanchine, il grande ballerino e coreografo russo fondatore dell’American Ballet Theatre. «Avrebbe compiuto cento anni in questi giorni, per me all’epoca fu sconvolgente vedere i suoi lavori. Ha trasformato il balletto in un capolavoro, costruendo lo spazio e il tempo come i grandi artisti.

Johnny Depp in un frame di “Video Portrait of Johnny Depp” (2006). © Courtesy of RW Work Ltd.

Il suo Apollo è pensato in astratto, questa è la sua grande dote. Come ispirazione… che cosa posso dire: basta camminare per strada. Guardatevi intorno, osservate l’architettura classica (soprattutto qui in Italia potete farlo). I romantici verranno presto dimenticati, i classici rimangono. Riconsiderate l’Amleto di Shakespeare quando dice (e ancora non parla, recita l’inizio del soliloquio, ndr): “How all occasions do inform against me, and spur my dull revenge!” (Come mi accusa ogni occasione, e sprona la mia vendetta troppo lenta!). Bisognerebbe tornare a saper recitare i versi, dimenticando l’intonazione televisiva. Ora, dal canto mio, sto studiando il Messia di Mozart, per metterlo in scena. È pura architettura classica in musica. Questa è la cosa più importante che consiglio ai giovani: studiate e leggete i maestri. E ascoltate il canto degli uccelli, anche se non racconta una storia e non ha un significato preciso. Ma ascoltatelo».

Brad Pitt in un frame di “Video Portrait of Brad Pitt” (2004). © Courtesy of RW Work Ltd.

IN PROGRAMMA ROBERT WILSON. Tra i prossimi appuntamenti: “Pushkin’s Fairy Tales” al Theatre of Nations di Mosca fino al 24/3. “The Messiah” al Gran Teatre del Liceu di Barcellona fino al 26/3. “Jungle Book” al The Hall, Aviva Studios di Manchester dal 27 al 31/3.

 

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