Viaggio tra le vetrine dell'arte contemporanea, minuscoli spazi espositivi dedicati ai passanti, curati e allestiti come le grandi mostre

Un diorama. Sì, quelli dei musei di storia naturale capace di dare un assaggio al pubblico di panorami e paesaggi - preistorici o meno - in cui ambientare la vita quotidiana di un animale. Vetrine magiche che catturano l’attenzione in una visione frontale della storia. E se nella teca ci finisce l’arte contemporanea?

Fuori dai musei e dalle gallerie d’arte nascono sempre di più vetrine su strada ad accesso libero che ospitano progetti artistici con curatela e allestimento in “pronta fruizione” per chi ci passa davanti.

Sono come dei diorami dell’arte, degli incidenti sul percorso di chi semplicemente ci sta passando davanti, delle occasione per artisti e curatori di mostrare un lavoro in un modo inedito, sicuramente altro rispetto agli spazi classicamente adibiti alle esposizioni.

A Reggio Emilia in un cortile intimo e ben curato una coppia di collezionisti ha dato vita a un sistema di mostre da vetrina, dove oltre alle opere è possibile conoscere brevemente la biografia dell’artista e leggere qualche testo critico. È Spazio C21, non una galleria d’arte ma un luogo sempre fruibile e gratuito che vuole raccontare prima di tutto un amore.

«Io e mio marito siamo molto appassionati di arte urbana», racconta Sandra Varisco, vulcanica organizzatrice e promotrice di esposizioni, residenze artistiche e incontri sul tema nel suo SpazioC21, «e da 20 anni collezioniamo opere, ma anche pubblicazioni, fanzine, cataloghi sul tema. Quando abbiamo cominciato, si andava ai festival e nei centri sociali a cercare artisti e opere d’arte: ci interessava la subcultura.

Poi succede che ci troviamo a vivere a Roma per un po’ di anni e lì abbiamo cominciato a ospitare artisti in residenza a casa nostra, dove avrebbero creato un’opera che noi avremmo comprato. L’idea ha avuto grande successo, ma è stata anche un’occasione di incontro da cui nascevano nuove curiosità».

La vita li ha portati poi a Reggio Emilia, città natale di lui e dove avevano già preso questo spazio da utilizzare come deposito delle loro opere, fino a trasformarlo in un luogo di produzione: «È un luogo che cambia a seconda del lavoro dell’artista in residenza, che produce le opere che mettiamo in mostra nelle vetrine, sempre fruibili da fuori in un’idea molto democratica che rispetta la provenienza di questa arte che viene dai muri e nasce in strada per essere libera e fruibile».

L’obiettivo è di promuovere i giovani, ma anche divulgare il sapere sull’arte urbana attraverso talk che si tengono in cortile e un progetto, per ora solo pensato, di dare vita a un centro studi.

SpazioC21 ha in mostra attualmente My Rug, Your Arms di Antwan Horfee (fino all’11 febbraio), mentre il 24/2 inaugurerà una collettiva. Le vetrine sono visibili dalle 9 alle 19,30 (poi chiude il portone), ma su strada ce ne sono due in miniatura, a fare da sentinelle… o a rassicurare i ritardatari.

Small Small Space è a Milano, una piccola ex edicola di 7 metri quadrati con vetrine su strada, rilevata da Michele Foti e la sua compagna per trasformarlo in un luogo di grandi progetti.

«La mia compagna è coreana», spiega Foti, «e in Asia ci sono moltissimi spazi come questo in cui fare tante cose. Perché se è vero che lo spazio non è mai abbastanza, è vero anche che quello piccolo consente di fare tante cose diverse. Così dopo il covid lo abbiamo rilevato e abbiamo cominciato a utilizzarlo per mostre di fotografia o di piccoli oggetti di design, insieme a libri che accompagnano le esposizioni».

Fotografo lui e art director lei, hanno trasformato Small Small nel loro spazio di gioco, come un piccolo incubatore della creatività. Che ha però un impatto sul quartiere, forse smussando quella diffidenza che il pubblico ha per le gallerie d’arte: qui non occorre entrare, si fa tutto dalla strada.

«Avere una vetrina su strada significa diventare parte del quartiere e fare i conti con le persone che lo abitano, tra timore verso il nuovo e la curiosità di conoscerlo. Si da e si riceve», conclude Foti, dopo aver spiegato il progetto curatoriale del suo spazio: una collaborazione con gli artisti.

La prima mostra del 2024 inaugura il 29 febbraio (fino al 10/3) con Giacomo Colombo.

Sempre a Milano, c’è BuildingBox, una vetrina della galleria Building aperta nel settembre 2018 con l’idea di ospitare progetti annuali vicini all’arte e al design: le opere presentate mensilmente sono legate fra loro da un fil rouge che si sviluppa nel tempo, invece che nello spazio.

Lo spiegano bene i curatori Roberto Lacarbonara e Gaspare Luigi Marcone: «Queste teche visibili in ogni ora del giorno e della notte sono dei filtri, delle cortine trasparenti che consentono di accedere alla fruizione dell’opera in ogni momento, gratuitamente, senza orari di apertura o altri vincoli.

Altro aspetto interessante è la temporalità dell’evento: si tratta di una mostra collettiva in cui i 12 artisti invitati espongono singolarmente il proprio lavoro nei 12 mesi dell’anno, generando, di volta in volta, continue connessioni. In questo modo, è possibile esplorare una traccia, percorrere un percorso con lentezza, alimentando la curiosità del prossimo intervento, della prossima presenza».

Diorami dell’arte sempre fruibili, ad altezza strada, vere e proprie vetrine che si contendono il nome con quelle dei negozi.

«La vetrina è un dispositivo commerciale, è uno strumento di cattura dell’attenzione e del desiderio, è il luogo della merce. Ogni allestimento, quindi, cerca un equilibrio tra il sacro e lo spettacolo, tra la singolarità di un incontro imprevisto – con l’opera d’arte – e la messa in scena di una visione organizzata, capace di arrestare il passo e, in un certo senso, distrarre dalla realtà», continuano i curatori.

Che poi mettono l’accento sul proprio compito: «BuildingBox definisce un modello di fruizione molto differente rispetto a quanto accade nello spazio interno, definito e, in qualche modo, protetto della galleria. Di qua c’è la strada, le auto, i passanti, il caos di flussi indiscriminati; al di là del vetro c’è, invece, un pensiero che assume forma plastica e agisce dirottando l’attenzione, si immette nei circuiti della quotidianità come un corpo estraneo, quasi indifeso».

Come quello della ceramica, previsto per quest’anno con il progetto Faventia, che porta in scena il distretto ceramico di Faenza e il suo rapporto con l’arte, a un anno dall’alluvione che lo ha duramente colpito: «La programmazione del 2024 è dedicata all’impiego della ceramica nell’ambito dell’arte contemporanea, con particolare riferimento al distretto di Faenza, sede di due musei prestigiosi – MIC e Museo Carlo Zauli (ne abbiamo parlato qui) – e dell’antico Premio Internazionale Faenza», dicono i curatori.

«La ragione di questa scelta è doppia. Da un lato il lavoro con l’argilla, la terracotta, le smaltature, rievoca una primordialità del gesto artistico, la volontà di plasmare e manipolare la terra. Dall’altro, con il gallerista Moshe Tabibnia e lo staff di Building, abbiamo voluto omaggiare una città che, nel maggio del 2023, ha subito enormi danni a causa dell’alluvione e dell’esondazione del fiume Lamone, lo stesso fiume che, con le sue acque e con i terreni argillosi che ne caratterizzano la riviera, alimenta da sempre l’intero comparto manifatturiero della ceramica.».

Tutto questo in un piccolo spazio, a fruizione frontale…

«Lavorare su un singolo intervento, significa addentrarsi nella profondità dell’opera, riconoscere la sua assoluta compiutezza e singolarità, entrare in una sorta di intersoggettività con il corpo della scultura che ci sta di fronte. Non si tratta di maggiore o minore stimolo, né di spazio disponibile. Si tratta di scoprire il testo che alimenta quel singolo pensiero, le sue connessioni invisibili, le allegorie meno esplicite. È un invito a dedicarsi tempo», concludono. Il primo artista di Faventia, Gianni Caravaggio, è in mostra fino all’11 febbraio.

A pochi chilometri da Milano c’è anche Platea, una vetrina di Palazzo Galeano nel centro storico di Lodi. A crearla, gestirla e animarla della loro debordante passione sono Claudia Ferrari e Carlo Orsini.

Da appassionati d’arte e visitatori seriali di mostre, con questo progetto sono passati dall’altra parte e coltivano il loro diorama con grandissima cura e creatività. E così hanno fatto di uno rettangolo di 3,5 x 2,5 metri un «dispositivo visivo dedicato alla città e sempre aperto», spiega Orsini, «in un punto di grande passaggio perché Platea si trova sulla trada che porta alla posta e al mercato, vicino a una fermata che abbiamo sponsorizzato (ed è diventata la fermata Platea).

Dunque ci si passa davanti e la sua presenza crea un incidente dello sguardo. Così si è creato un rapporto con la città».

Magari non sempre facile, all’inizio guardato con un certo sospetto in un luogo non avvezzo all’arte contemporanea e ora punto di riferimento e di curiosità. Il progetto nasce con l’idea di promuovere i giovani ed è stato supportato dalla galleria Raffaella Cortese, «madrina e magistra» come la definiscono i fondatori di Platea.

Perché Orsini e Ferrari vengono da altri mondi professionali e Cortese è stata la loro guida per entrare in quello dell’arte. E ci sono riusciti benissimo. Artisti e curatori ora trasformano lo spazio in modi inconsueti, da chi ha scelto di usare solo la superficie del vetro trasformandolo in uno specchio a variazione cromatica (Valerio D’Angelo), a chi ha scelto di farne un ufficio in cui vivere per 30 giorni, in una performance live sulle condizioni di lavoro attuali (Camilla Gurgone).

C’è anche chi ne ha fatto un vero e proprio diorama per raccontare l’antica storia del lago che sorgeva vicino a Lodi e del suo drago (Martina Cioffi)… tantissime le storie di questi tre anni di lavoro, iniziati con Marcello Maloberti che ha anche inaugurato l’idea di riempire la città di manifesti d’artista per segnalare l’inaugurazione imminente di un’esposizione.

Ma non è tutto. Quello che succede a Platea è la cessione di autorialità dell’artista: «Ci siamo occupati del rapporto natura e artificio», spiega Orsini, «coinvolgendo gli artisti a lavorare sul nostro paesaggio pensato in chiave antropologica. Così per esempio Luca Boffi alias Albero Nero che dalla street art si è spostato all’arte ambientale, ha ricreato nella vetrina un ambiente padano con la nebbia che cambiava a seconda degli orari e delle luci, in una cessione di autorialità alla nebbia.

Ecco, questo il senso, ben raccolto anche da Fabio Roncato che versa un mastello di cera liquida nel fiume per prendere il calco della corrente e poi fare una scultura a cera persa di alluminio: l’autore è il fiume, che determina la forma. Anche Maria Teresa Sartori, in mostra fino al 10 marzo, ha fatto disegnare il vento».

E poi? Il 2024 inaugurerà un lavoro sui collettivi, saranno 5 e verranno accompagnati anche dal primo progetto editoriale, un’opera d’arte in forma di libro, stampato in 250 copie.

A Bologna c’è un luogo speciale perché, pur essendo in pieno centro, non ha a ripararlo un portico. È Garage Bentivoglio, vetrina su strada di Palazzo Bentivoglio nata per esporre pezzi della collezione che non sono previsti nelle esposizioni.

Dopo la camera di Ico Parisi e Luisia Aiani aprirà un progetto nato in occasione di Arte Fiera a Bologna che poi sarà visibile per un mese con un’installazione site specific di Agostino Iacurci.

Ma come si allestisce uno spazio così ridotto? «Prima di tutto Garage impone una visione frontale, ben diversa da spazi consueti in cui si entra e ci si muove intorno alle opere», spiega il curatore Davide Trabucco. «Inoltre, a Garage mettiamo solo il nome dell’artista, il titolo dell’opera e l’anno di realizzazione, senza testi critici: non abbiamo volontà didattiche perché chi passa vede l’opera ma poi continua la sua strada, magari con uno spunto di riflessione in più», continua Trabucco, «Lo spazio ridotto permette di concentrarsi sull’opera nella sua totalità, al punto che è l’opera a raccontare lo spazio».

Garage Bentivoglio è aperto solo la sera, da mercoledì a sabato in orario 19 - 23, per una ragione specifica: «Il Garage è quasi una lanterna, è in un punto non troppo buio ma nemmeno troppo illuminato e non avendo il portico, si nota molto dalla strada. Così anche gli abitanti del quartiere sono affascinanti da questa vetrina e aspettano il cambio delle opere.

Quanto alla curatela, siamo obbligati a essere secchi: l’idea è capire se le opere in se stesse, senza nessuna aggiunta, funzionano e hanno il giusto risalto in quello spazio». E pare proprio di sì. La camera di Parisi e Aiani è piaciuta molto e la magia di essere illuminata unicamente dall’applique progettata da Parisi stesso crea un’atmosfera irripetibile. Less is more…