«Senti, ma di che parla “Ferito a morte”?». Una battuta-quesito, sicuramente pronunziata in «napoletanese», che solo lo sguardo illuminato, il genio soave e tormentato di Raffaele La Capria, spentosi quest’anno, il 26 giugno, a pochi mesi dal suo centesimo compleanno, poteva pensare di rivolgere ad Emanuele Trevi (Strega 2021 con “Due vite”), colto nel pieno del lavoro di adattamento teatrale, svolto «còr a còr» con Roberto Andò alla regia, dello splendido «romanzo di Napoli», Strega 1961: una delle pietre miliari della letteratura italiana secondo novecentesca.
Se La Capria l’avesse chiesto a noi, avremmo preso un tovagliolo di carta e vi avremmo disegnato un fondale marino screziato e surreale, poi stanco di bombe dopo la seconda guerra mondiale (la prima incrinatura), un pullover con foulard, una nuvoletta, specificamente atta ai flussi di coscienza, con dentro tante parole, monologanti e dialoganti, un occhio minaccioso che emerge e s’infoglia, soggetto a bradisismo, dalla e nella «Foresta Vergine», delle fiches, una macchina da scrivere, un cupo cerchio vuoto ed una sfuggente bionda coda di dea.
“Ferito a morte” non puoi irretirlo in una trama. È un piccolo “Ulysses” partenopeo. Una rara manifestazione di verità. La narrazione segue l’andirivieni dell’onda: tutto si svolge nel flusso proteiforme, estremamente rassomigliante al fondale marino, di ricordi e pensieri del protagonista Massimo De Luca, alla vigilia della sua partenza per Roma. Per gli amici, con accezione spregiativa, «il ragazzo De Luca», definizione che immediatamente riconduce a quel «Fabietto» tanto caro a Paolo Sorrentino. Massimo germoglia nel solco della buona borghesia napoletana ma, ben presto, ne rifiuta i meccanismi, comprendendone l’immobilità, il malvezzo, la vuotezza. In verità, la lacrimata frattura fra sé e il mondo napoletano, fra un prima abbagliante ed un dopo emunto, uguale eppure diversissimo, divelto, vano, si fa insanabile quando, pur avendolo a tiro, Massimo manca l’amore. La spigola, quell’immagine quasi extraterrestre con cui La Capria apre il suo romanzo più famoso, altro non è che Carla Boursier, la ragazza amata da Massimo, «la Grande Occasione». Massimo ha imbracciato il fucile, la sua pupilla segue un punto fra le branchie e le pinne dorsali del pesce ma «la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona». Massimo va in bianco con Carla. L’arpione «inutile» scintilla sul fondale. Dunque, «la Grande Occasione Mancata». Un’ossessione, una malattia, un repentino stravolgimento della percezione delle cose.
Fino al «millenovecentoquarantanove» le cose, tutte le cose, erano parse luminose, possibili, a portata di mano; dilagante menzogna, tra l’altro, della fine della guerra e del boom economico. Dopo, l’esistenza non pareva altro che una spiegazzata copia del passato, un crollare diffuso di miti e speranze proprie dell’epoca e, ancor più specificatamente, di quella classe sociale, spiccatamente borghese, in quell’epoca.

Una grande faglia degna di Napoli: tempesta splendida, bifronte, sbrecciata; madida roccia calcarea e buio caustico; immobile canterano intarlato, piroetta senza fine. È nella capitale del Sud che si stagliano i posti familiari: il Circolo Nautico, luogo d’azzardo e perdizione, vetrina di viveur annoiati e parvenu spigliati, di amanti e dive per un anno; Middleton, il caffè dei signori, in cui l’elegante dissertazione quotidiana, immutabile, s’imperniava sulla differenza fra «Veuve Clicquò e Pommerì» (due diverse etichette di champagne), intervallata da sproloqui, fesserie, pettegolezzi senza fare complimenti; la costa partenopea e Palazzo Donn’Anna, nel libro rinominato «Medina», dimora della famiglia De Luca (per lungo tempo di La Capria stesso, che v’era cresciuto), palco del pranzo della domenica, con i suoi cerimoniali, le sue retoriche inquisizioni, le ricorrenti affermazioni…

E i volti conosciuti: l’arguto ed eccezionale Sasà, il pagliaccesco Ninì, fratello di Massimo, Cocò Cutolo il pesce pilota, Glauco lupo di mare un po’ stolido ed iracondo ma essenzialmente buono (in “È stata la mano di Dio”, secondo noi, personaggio recuperato nel conoscente di Fabio, munito di motoscafo), Gaetano l’intellettuale comunista intenzionato ad eludere lo stagnare delle ore, a sottrarsi all’erosione a cui la «Foresta Vergine» (Napoli), un luogo avulso dalla storia, bighellonante per natura, tracotante per inclinazione, sottopone chi l’abita: «[…] avremmo messo una bella scritta al neon, grandissima, in cima al Vesuvio, così che ognuno potesse leggerla: CHI RESTA SARA’ SOPRAFFATTO.»; e via dicendo.

Luigi Compagnone, uno dei più grandi poeti campani, similmente aveva scritto: «Come l’alveo di un fiume nel quale corrano / a vortici incessanti rami secchi, / è questa strada. La vita è un moto perpetuo / di membra e urla e voci, che mai riesce a fermarsi: / senza sbocchi, a cerchio; senza centro; animale. […]».
Le altre voci, il vocìo, questo tripudio musicale attorniante, opprimente, poi, caratterizza la scena. Un’accozzaglia di affermazioni giunge a Massimo, sdraiato sulla terrazza del Circolo Nautico, distorta: figlio della natura, amante delle immersioni, rovinato dalla natura stessa e dall’amarezza personale. Il suo timpano è sensibilmente danneggiato, dolorante; un orecchio vessato dal chiasso taciuto della borghesia meridionale.
Ogni armonia è perduta: la guerra ha mutato l’intorno, il contesto si è fatto insopportabile, la preclusione allo sguardo di Carla, «mattino tutto luce in fondo al mare», infrange irreparabilmente «La bella giornata» (la giovinezza: la pressione, ancor prima che la voglia, di vivere questa «dolce vita» ricca di sfarzo, vuota di sforzo e di senso). Massimo deve andar via. E qui, l’ultima ferita, il colpo di grazia: lasciare casa, lasciare Napoli. Una condizione che richiama alla mente Sorrentino (evidente discepolo di La Capria) e le scene conclusive di due dei suoi film più sentiti e riusciti: l’oscar alla regia “La grande bellezza” ed “È stata la mano di Dio”. Il legame della narrazione con “I vitelloni” di Fellini è palese, ma più calzante è quello con “La dolce vita”, capolavoro del regista riminese che pure, come La Capria con Napoli, fu costretto a lasciare Rimini alla volta di Roma. Anche Massimo va a Roma, scisso, convinto a metà, meno idiosincratico di Gaetano nei confronti di «madre Napoli», molto più nostalgico; convinto solo dal dolore e dalla volontà d’essere un individuo pensante, libero di vivere tutte le stagioni, di costruire un’esistenza non fittizia, non oziante, anche se impiegatizia.

Ma “Munasterio ‘e Santa Chiara” e “Maria Marì” (meravigliose canzoni napoletane) echeggiano nelle sue orecchie. Massimo parte come Fabio nell’ultimo film di Sorrentino (la storia dei primi sette capitoli è collocata temporalmente fra il ’43 e il ’54) e torna, negli anni a seguire, come Jep Gambardella. Anche lui, come l’istrionesco intellettuale dei salotti romani, continua ad inseguire una donna. Massimo rincorre Carla o il suo spirito, fra Napoli e Capri; Jep, una donna bionda come Carla, o meglio, il suo fantasma, perché quella, l’unica amata, non c’è, fisicamente, più.
Il ritorno è possibile, dunque, solo nella materia: non si può tornare indietro, realmente, alla «Bella giornata», alla vita di prima, all’unico amore. Anche Napoli è cambiata sotto i colpi impietosi della corruzione e della speculazione edilizia dell’imprenditore e politico Achille Lauro, ulteriormente denunziati dallo stesso La Capria nella sceneggiatura di “Le mani sulla città” per la regia di Francesco Rosi.

Dunque, il titolo dello scritto che mutuiamo da quello della raccolta poetica, Collana Bianca Einaudi 1981, di Compagnone: tornando, Massimo ritrova quasi tutti i volti amici della giovinezza, sfigurati da una vita vivacchiata, maturi solo nella buccia, incartapecoriti dalla loro perenne gozzoviglia, addormentati. Ma anche Massimo è perduto, ferito; ingrigito da una vita senza azzurro, costruita ma pallida, amore negato, sogni perduti.

Lo spettacolo teatrale di Trevi e Andò, dal 19 al 30 ottobre di quest’anno in scena al Mercadante di Napoli e ora in tournée in giro per l’Italia (anche se nella programmazione mancano date al Sud, oltre quelle di partenza partenopee, e bisogna che ci si pensi), è riuscito, finalmente, laddove il cinema con “Leoni al sole” (mutuato da “Leoni di giugno”, titolo iniziale di “Ferito a morte”) e il teatro non erano riusciti appieno fino ad ora.

Magnifica scenografia, cast splendido (con un’ulteriore nota di merito per Giovanni Ludeno nei panni di Ninì) e scene dinamiche, in movimento, quasi ondivaghe, come quelle del romanzo, con una chiarezza narrativa che solo due «artigiani» del calibro dei due «demiurghi», potevano rendere sul palcoscenico. La scena meglio riuscita: il pranzo a casa De Luca, con i suoi cambi di prospettiva, il monologo interiore, imbarazzato e riluttante, di Gaetano e i dialoghi perfettamente credibili, forti, amari di ironia e tenerezza.
Splendide le arie, da melodramma, del cameriere del Circolo, Filuccio (nome che ricorda “Bene mio e core mio” di Eduardo), pregne di tutta la malinconia della canzone napoletana. Ma, gusti a parte, è il congegno tutto ad aver funzionato a meraviglia.
Leggendo il libro, dalla prosa inghiottente, e guardando lo spettacolo, immedesimandoci in Massimo, come un ronzio zuccherino a ridosso dei timpani, risuonava forte Liberato, cantautore moderno partenopeo: “Tu sî 'a voglia 'e turnà / 'o silenzio â cuntrora / comm'è brutto 'a cantà / cu n'eclisse 'int'ô core”.

Ecco Napoli e tutta la sua ridente malinconia. Ecco l’incantesimo che non svanisce. Una faccia della città. L’impossibilità di una vita.


Tournée dello spettacolo 2022-2023: Perugia, Teatro Morlacchi, 16-20 novembre 2022; Roma, Teatro Argentina, 10-15 gennaio 2023; Milano, Teatro Strehler, 17-22 gennaio 2023; Cesena, Teatro Bonci, 26-29 gennaio 2023; Genova Teatro Ivo Chiesa, 8-11 febbraio 2023.

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