La Gazzetta del Mezzogiorno.it
La Gazzetta del Mezzogiorno.it
Iscriviti al canale WhatsApp

Giovedì 02 Maggio 2024 | 12:56

Il focus

Viaggio tra le minoranze linguistiche di Puglia e Basilicata

Griko, Arbëreshë e Francoprovenzale: ecco tutte le identità del nostro territorio

09 Novembre 2023

Petrocelli, Lanzo, Ancora, Brancati, De Cesare

Reporter:

Petrocelli, Lanzo, Ancora, Brancati, De Cesare

Viaggio tra le minoranze linguistiche di Puglia e Basilicata

«In un mondo che si affida sempre di più all’intelligenza artificiale ha un grande valore riscoprire le radici secolari della nostra terra. È un viaggio nel nostro essere umani». Muove da qui il ragionamento di Sebastiano Leo, assessore regionale all’Istruzione e promotore della seconda edizione del progetto «Matria», dedicato proprio alla riscoperta e alla valorizzazione delle minoranze linguistiche. Tre, in particolare. Le stesse illustrate in queste pagine: l’arbëreshë, il griko salentino e il francoprovenzale dauno.

Il programma è stato approvato dalla giunta pugliese e finanziato con un esborso di 100mila euro. Un segno tangibile, dunque, di attenzione a realtà tutt’altro che periferiche. «Se ci si addentra - prosegue Leo - si scopre un mondo strutturato di ricerche, studi e associazioni che si muovono con iniziative di grande respiro. Un vero tesoro da tutelare e rilanciare». Il progetto ha una finalità dichiarata: coinvolgere e stimolare gli studenti appartenenti alle minoranze linguistiche affinché non lascino morire il patrimonio di cui sono portatori ma, al contrario, ne possano diventare convinti ambasciatori. Per raggiungere lo scopo era necessario rompere il cerchio dell’autoreferenzialità, permettendo alle iniziative di evadere dal circuito delle comunità coinvolte e raggiungere quegli stessi pugliesi che spesso ignorano le ricchezze identitarie del proprio territorio. Sono state così «attivate» tre agenzie regionali per dare ulteriore profondità ai progetti e fungere da «amplificatori culturali» del programma. Ognuna si è vista assegnare una minoranza: il grico e l’Apulia Film Commission, il francoprovenziale e il Teatro Pubblico (con laboratori a Faeto e Celle San Vito), l’arbëreshë e la Fondazione Notte della Taranta che, già nell’edizione del 2023 dell’evento, si era mobilitata sul tema in modo incisivo con esibizioni dedicate. In quest’ultimo caso, in particolare, si lavorerà sul riarrangiamento dei canti tipici in chiave contemporanea con sonorità trap e hip hop.

Ancora, le novità rispetto alla precedente edizione di «Matria» prevedono l’ulteriore allargamento delle realtà territoriali coinvolte con interscambi con le scuole calabresi (nella zona della Bovesia, lì dove sopravvive l’unica comunità grika fuori dal Salento), con il Piemonte «francofono» e infine con quel segmento dell’Arbëria radicata in Molise. Chiude il cerchio il coinvolgimento delle accademie per dare sostanza scientifica, nonché densità storica, al percorso di valorizzazione delle minoranze. Lo scorso 6 novembre l’auditorium del Museo Sigismondo Castromediano è stato teatro di un convegno, primo atto di «Matria», che ha visto le università pugliesi a dialogo con docenti provenienti da tutta Italia, dal Trentino alla Calabria. Un’occasione, certo, per fare il punto sulla situazione nel Tacco ma anche per ricostruire, sul piano narrativo, le vicissitudini delle diverse comunità.
Tutto il reticolato di iniziative, posto sotto il cappello di «Matria», oltre la segnalare la Puglia come regione pilota su questo fronte, guarda anche a un’idea diversa di turismo. Meno appiattito sul dualismo mare-cibo e più aperto alla complessità del territorio.

«Questo genere di iniziative - spiega Leo - concorre a incentivare un capovolgimento culturale già in atto da anni: prima appartenere a una minoranza era quasi una deminutio, oggi è giustamente motivo di orgoglio. Ed è per tutti una occasione preziosa per viaggiare nella storia e nelle radici della Puglia. In fondo - conclude -, sono stati proprio gli anni del Covid a spingerci a tornare a riflettere su noi stessi. Una riflessione che passa anche da qui». (di Leonardo Petrocelli)

L’epopea degli arbëreshë gli albanesi del Sud Italia - di Cosimo Lanzo

Chieuti, Casalvecchio di Puglia e San Marzano di San Giuseppe, tre cittadine con soli 12mila abitanti ma con un senso delle tradizioni come poche in Puglia. Parliamo delle comunità arbëreshë, gli albanesi d’Italia, che si trasferirono in Puglia e nelle sette regioni del Mezzogiorno per sfuggire alla persecuzione ottomana a partire dalla metà del 1400. Una diaspora che portò alla dislocazione di un centinaio di comunità, la cosiddetta Arbëria, ridotte alle attuali cinquanta tra città e frazioni. Una minoranza linguistica che per popolazione coinvolta in Puglia è seconda solo alla Grika della Grecia salentina e precede quella franco-provenzale presente a Celle San Vito e Faeto.

La minoranza albanofona d’Italia non può essere raccontata prescindendo dalla sua travagliata e lunga storia. La fuga dal Paese delle Aquile riversò sulle coste pugliesi migliaia di famiglie con costumi e usi differenti, anche di origine macedoni e greche, con elemento comune il rito religioso greco-bizantino. Una figura centrale, divenuto poi eroe nazionale albanese, fu Giorgio Castriota da Croia, meglio noto come «Scanderberg», soprannominato dall’allora papa Callisto III «Athleta Christi» e «defensor fidei», ovvero atleta di Cristo e difensore della fede. Fu lui a garantire la fuga alle popolazioni albanesi grazie a un patto militare con l’allora Re Alfonso V d’Aragona: Castriota ottenne un rifugio per le prime famiglie con insediamenti nella provincia di Catanzaro, in cambio il Re ottenne l’appoggio per sconfiggere militarmente la congiura dei Baroni.

Le comunità arbëreshë giunsero nel Mezzogiorno in almeno altre cinque ondate migratorie fino alla metà del 1742, con l’ultima comunità fondata in Abruzzo, a Villa Badessa.

Tuttavia attorno alle comunità arbëreshë pugliesi, al pari delle altre presenti nel Sud Italia, dopo i primi anni di concessioni e privilegi, riconosciuti per l’enorme costo in vite umane pagato dai soldati di Giorgio Castriota, il clima nei loro confronti cambiò. Il vulnus non era la loro presenza, bensì la loro fede e l’orientamento del clero locale a rispondere al patriarca di Costantinopoli e non al papa. Così il rito greco-bizantino fu osteggiato sin dalla sua pratica: bolle papali, denunce e minacce si susseguirono nel tempo e sfociarono nella persecuzione dei preti bizantini, come nel caso di Nicola Basta di Spezzano Albanese, rinchiuso in carcere e morto di stenti nel 1666. Anche a San Marzano di San Giuseppe in provincia di Taranto, oggi il comune più grande di tutta l’Arbëria, agli inizi del 1600 la popolazione si rifiutò di passare dal rito greco-bizantino al rito latino, ritirando due chierici pronti a essere ordinati sacerdoti presso la Curia di Taranto. Alla luce dalla forte resistenza la Curia romana evitò uno scontro frontale con le comunità arbëreshë, arrivando nel tempo ad un compromesso: la concessione di professare la loro fede in cambio della nomina del clero da parte di Roma.

Tuttavia lo scorrere del tempo, lo stigmatismo verso le comunità albanofone, l’oralità dei riti e i processi di emigrazione tra Ottocento e Novecento hanno avuto come conseguenza una lenta e costante perdita sia della lingua arbëreshë che dei riti. E a poco è valso il riconoscimento di minoranza linguistica da parte dello Stato nel 1999, anche se non tutte le comunità si sono arrese alla perdita della propria identità: «Devo dire che negli ultimi quindici anni, con la creazione dello sportello linguistico e con i progetti della scuola Casalini, si sono fatte tante iniziative - spiega l’assessore al Turismo e alle tradizioni popolari di San Marzano Lorenzo Lonoce, autore anche di una tesi universitaria su Scanderberg nei suoi studi in Beni archeologici -. La scuola ancora oggi tiene dei laboratori in lingua arbëreshë grazie ai finanziamenti regionali e molte associazioni coltivano la lingua in vari modi: abbiamo più di un gruppo folk che canta in arbëreshë e la Pro Loco ha organizzato matrimoni con il rito arbëreshë. Certo, manca lo step successivo, ovvero coinvolgere gli adulti dai 40 anni in giù e far capire loro che l’arbëreshë non è solo folklore ma una vera e propria seconda lingua». Chissà che la recente approvazione di un canale Rai dedicato alle comunità arbëreshë non possa far da traino e permettere di coltivare quel patrimonio storico e culturale che le stesse rappresentano per la Puglia e l’intero Paese.

Grecìa Salentina, il popolo «cu ddoi lingue»

Negli ultimi vent’anni tantissime le iniziative per recuperare e valorizzare il griko (di Antonio Ancora)


Erano chiamati «gente cu ddoi lingue», gli abitanti della Grecìa Salentina, malcelando disprezzo ed invidia. «Ai tempi – racconta il professore Salvatore Tommasi, esperto di lingua grika, sul sito www.ghetonia.it - si parlavano il dialetto e il greco. Da secoli le due lingue coesistono non solo nel linguaggio corrente, ma anche nella produzione letteraria anonima e d’Autore».
La tradizione orale della lingua grika si è andata spegnendo, come in diverse altre zone a lingua minoritaria, dopo la seconda guerra mondiale e in concomitanza con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa come la tv e la radio. Un certosino lavoro di recupero della lingua e delle tradizioni grike è stato avviato verso la fine degli anni ‘80, con la consapevolezza crescente da parte di studiosi e istituzioni della ricchezza culturale che si stava perdendo. Nel 1990 viene istituito il Consorzio dei Comuni della Grecìa Salentina, che nel 2001 diventa definitivamente l’Unione conosciuta oggi in tutta Italia e oltre grazie a iniziative di caratura internazionale come la celeberrima Notte della Taranta.

In questi vent’anni, i Comuni di Calimera, Carpignano, Castrignano de’Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Sogliano Cavour, Soleto, Sternatia e Zollino, hanno messo in piedi tantissime iniziative per recuperare, valorizzare e promuovere la cultura grika. Oltre alla Notte della Taranta, festival di musica popolare che ha visto la partecipazione di colossi della musica come Piero Milesi e Stewart Copeland, i periodi pasquali ad esempio, hanno rivisto nascere il rito dei Canti della Passione in lingua grika ai crocicchi delle strade di ogni paese, mentre il giorno del solstizio d’estate, il 21 giugno l’antica e originalissima Festa dei Lampioni illumina le strade di Calimera che in greco vol dire «Buongiorno».

Tanta attenzione è stata data all’insegnamento dell’antico idioma nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, che hanno permesso ai più piccoli di scoprire le proprie radici. Le lezioni non mancano nemmeno per i più grandi, che possono imparare la lingua dei loro genitori in una delle tante associazioni del territorio che hanno lanciato corsi di griko, come ad esempio l’associazione Kalimeriti Ambrò Pedia. A Calimera, nell’antica stretta via Costantini, sorge il Museo della Cultura Grika di Silvano Palamà e Vito Bergamo, che racconta gli ultimi secoli di tradizione della Grecìa. Il rapporto millenario fra questo spicchio di Salento e la Grecia, è palpabile nella toponomastica di alcuni Comuni, come nei piatti prelibati della tradizione contadina dalle Sceblasti di Zollino, realizzate con i resti di impasto della madia e tanti pezzetti di verdure, alle carteddhrate, strisce di pasta accartocciate su sé stesse per creare una corona e poi fritte e intrise di miele che si fanno a Natale.
Uno scrigno di gioielli tutti da scoprire in un territorio che oggi, sta cercando di proporsi come alternativa al classico turismo salentino estivo balneare.

Il francoprovenzale, orgoglio di Faeto e Celle

Il Museo etnografico unisce idealmente le due comunità: un tuffo nella storia e nelle tradizioni (di Dino De Cesare)

Le tradizioni e la cultura delle minoranze linguistiche vanno recuperate e salvaguardate se si vuole evitare la loro graduale e inesorabile scomparsa. Questo l’appello che da anni viene lanciato dalle comunità della Capitanata di origine francoprovenzale, Faeto e Celle San Vito, e arbereshe, Chieuti e Casalvecchio di Puglia. A distanza di sette secoli e nonostante le tante «contaminazioni», queste comunità riescono ancora a conservare tradizioni e lingua della madre-patria, in questo supportate dall’attività degli sportelli linguistici istituiti con la legge nazionale 482 del 1999 che ha dato attuazione all’art. 6 della Costituzione sulla tutela delle minoranze linguistiche.

In particolare i due Comuni di Faeto e Celle San Vito, nei Monti dauni meridionali ai piedi del monte Cornacchia, sono oggi al centro dell’attenzione grazie ai tanti progetti e iniziative messe in campo negli anni: l’ultima è stata la partecipazione di Faeto sabato 4 novembre al programma tv di Rai3 «Mezzogiorno Italia» per far conoscere la lingua e le tradizioni locali.

Stessa finalità ha il progetto «Matria» della Regione Puglia, tramite Apulia Film Commission, protagonisti gli studenti del posto in un documentario di Luciano Toriello alla scoperta delle proprie radici. Fiore all’occhiello del paese è la sede universitaria francofona, la prima del Sud Italia, inaugurata l’8 luglio 2022: «Un motivo in più per valorizzare e promuovere il francoprovenzale identificato dall’Unesco come lingua a rischio di estinzione e pertanto inserita nell’Atlante Atlas come patrimonio culturale immateriale da tutelare», afferma il sindaco Michele Pavia. Le origini di Faeto, 600 abitanti, si fanno risalire alla seconda metà del XIII secolo legate all’editto dell’8 luglio 1269 di Carlo I d’Angiò in occasione dell’assedio di Lucera.

Con i suoi 145 abitanti Celle San Vito è il Comune più piccolo della Puglia, la cui sua nascita si fa risalire al 1300, ma già nel 1440 perse la sua autonomia venendo annessa alla baronìa della Val Maggiore. Solo all’inizio dell’800, abolito il feudalesimo, riacquistò la piena autonomia. Negli ultimi tempi Celle San Vito è diventato un «caso» di studio dell’Università francese di Tours, un interesse cresciuto dopo la lettera-invito a visitare il paese, a gennaio 2022, della sindaca Maria Giannini al presidente Emmanuel Macron. Un autentico tuffo nella storia e nelle tradizioni francoprovenzali è il Museo etnografico fondato da Vincenzo Rubino che unisce idealmente le comunità di Celle e Faeto, borghi autentici d’Italia, in una narrazione temporale dalla seconda metà dell’800 ai primi 50 anni del ‘900, con una preziosa collezione di oggetti e attrezzi della cultura contadina francoprovenzale.

«La lingua francoprovenzale è stata orgogliosamente custodita ed è ancora oggi parlata correttamente dalla comunità cellese, anche dai bambini nelle scuole - sottolinea la sindaca di Celle, Maria Giannini - Una lingua tramandata dalle vecchie alle nuove generazioni per sette lunghi secoli. L’identità francoprovenzale è ben radicata nella nostra comunità e bisogna coinvolgere soprattutto i giovani affinché continuino a tramandare questa eredità che i nostri antenati hanno conservato».

Basilicata, una miniera d’oro per gli studiosi di linguistica (di Massimo Brancati)

Vere e proprie isole linguistiche territoriali in cui viene mantenuto l’uso della lingua madre, della religione cattolica di rito greco-bizantino, dell’utilizzo dei costumi che affondano le radici nel Paese delle Aquile.

In Basilicata sono cinque i Comuni di origini arbereshe: San Paolo Albanese (278 abitanti), San Costantino Albanese (695), Maschito (1.637), Barile (2.617) e Ginestra (748). Qui arrivano spesso studenti universitari albanesi che vogliono approfondire lo studio della lingua dei loro avi: «È vero – conferma Patrizia Del Puente, docente di Glottologia all'Università degli Studi della Basilicata e ideatrice del progetto Alba per la realizzazione di un Atlante linguistico lucano - la lingua che si parla oggi in Albania è relativamente moderna, nata nella prima metà del ‘900. L’arbereshe che sentiamo nei dialoghi all’interno dei nostri comuni risale al ‘400 e non ha mai avuto contatti con la lingua standard. È rimasta intatta». Chi parla arbereshe viene comunque compreso da un albanese: «Sì, anche se si tratta di una lingua arcaica. È come se oggi venisse da noi Dante e parlasse il suo fiorentino. Non usa la nostra lingua, ma non avremmo difficoltà a capirlo».

Non solo tracce albanesi. La Basilicata è una miniera d’oro per gli studiosi di linguistica di tutto il mondo che considerano il territorio lucano un'area di grande interesse dove poter svolgere studi scientifici sulla salvaguardia dei dialetti. Ognuno dei 131 Comuni della regione ha un suo dialetto, «frutto del passaggio nei secoli - spiega Del Puente - di popolazioni parlanti lingue diverse fin dall’epoca prelatina che hanno lasciato segni di cui noi stessi siamo inconsapevoli. Elementi che iscrivono sicuramente i nostri dialetti nell’area meridionale anche se non mancano quelli di provenienza settentrionale (un esempio è Avigliano)». Oltre agli influssi delle lingue romanze, significative sono le varietà alloglotte presenti e non mancano i cosiddetti «sistemi di transizione» tra un’area e l’altra della regione: «Ogni paese lucano – aggiunge Del Puente - costituisce un modello linguistico differenziato. Un patrimonio culturale, di valore pari a quello di qualsiasi emergenza architettonica o ambientale, che come tale va riconosciuto e tutelato». Un crogiuolo di culture, fra Europa e Mediterraneo, che ha lasciato il segno nei linguaggi custoditi e tramandati, inseriti in un Atlante linguistico oggetto di interesse da parte di studiosi di tutto il mondo: «Qui - conclude Del Puente - ci sono dialetti diversi anche in paesi ubicati a pochi chilometri di distanza tra loro. Un patrimonio culturale ed espressivo che merita di essere portato all’attenzione della comunità scientifica internazionale».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)
Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - Impostazioni Privacy)