di ALBERTO SELVAGGI 

Non c’è dubbio, ha ragione il collega che mi ha ispirato: «Uno non è barese se, quando va al mare, non si porta il coltello, pesca i ricci e li mangia». Non sei un barese se non unisci l’utile al dilettevole. Non sei un barese se non levantinizzi finanche lo svago. Non sei barese davvero se non sgrosci di brutto succhiando il nettare che offre il fondale. Il torinese, il milanese nevrotizzato vanno al mare come prevedibili umani: il costume, il lettino, la crema abbronzante. Il barese, avvezzo a commutare in convenienza pure l’amicizia datata, a massimizzare il profitto sul suo percepire squallido in qualsivoglia situazione esistenziale, applica al mare la regola aurea: nello zainetto cela sempre coltellino, retina, o un secchiello, o la busta di «blastica» (mai pronunciare con la pi, ché si perde la cittadinanza). 

Si trovi a Trinidad, in Kuwait come a Fesca, San Giorgio o Torre a Mare, si accomoda sulle natiche: «Aah, sì!». Prende un poco di sole, si sciacquetta qua e là: pla-plaplà, pla-plaplà. Dopo di che, brandendo la lama da sub, da bragiuola o da cozza gratinata si ammena e incomincia la caccia. Le prede più ambite sono i ricci, pur se smagriti in agosto, che – generoso - passa ai bambini talvolta: «Pigliate... Pigli!». Sia perché ne è ghiotto, sia perché alla Lanza ‘ngostano assai, mentre la prateria subacquea li smolla gratis. 

Il barese, in quanto tale, non si spinge mai in immersione oltre i due metri. Ma se avvista putacaso una costellazione di gusci aculei calcarei, può toccare anche i 470 metri in apnea tenendo la bocca aperta per afferrarli alla maniera dei cani. Tornato sopra lo scoglio insozzato dalla rimmata che egli per primo ha depositato, li acciaffa con la manotta prensile, li sfracana con l’arma e slurpa le leccornie con lingua di lama. Ne sorchia orribilmente l’apparato buccale e le labbra si tingono di sbaffi corallo in un face-painting da sessantottesco indiano metropolitano. 

A questo punto pronuncia la frase: «Nèh, ci è ssò bell’ ‘l rizz! So’ chijn chijn!». Dalla quale echeggia la meditatio degli astanti: «Moh, ha pigghiàt’ ‘l rizz’, kudd figgh’ d’ sfessat’...».
Per tale consuetudine il barese è molto apprezzato sulle coste del Ghana. Ottuso com’è suddivide questi echinodermi in «femmine» polpose e «maschi» esangui. Non sa che quelli vacanti sono semplicemente Arbacia lixula, altra specie dal Para centrotus lividus, delle cui gonadi di ambo i sessi ci ingozziamo, o dallo Sphaerechinus granularis, il «regina» violaceo. Ma allu baràis non basta il riccio per sentirsi veramente d’ Bbàr. Il suo istinto ladro preme a 360 gradi. Gli insaziabili non si fermano davanti alla gozza selvatica che cresce a ridosso dei depuratori affogati. È gente già appestata da epatiti A, B, B³, X e M (M sta per Mutante). Per questo può ben vantarsi, prima di crepare: «A me queste mi fanno solo la sciacquatura».

Tanti, considerando taratuffi e musci leccornie insperate, si incanagliscono sulle patelle, indifese come pecore davanti a branchi ungolati. Bella forza a frecarti la patella, barese che non sei altro. Di qua ai cozzilli, all’erba marina all’amianto, al granchietto stecchito con una zoccolata, è breve il passo. Quanti ne vediamo sul Lungomare sgranocchiare contenti le zampucce elettrizzate, affondare gli incisivi nei carapaci: cra- cracrack! La pelosa, è noto, si cuoce, non si mangia, offrendo al sugo un prodigioso concentrato aromatico. Il polpo invece, se si auanda per puro miracolo, si crepa sulla roccia seduta stante, si arriccia spandendo scivolose trappole per gli altri bagnanti, e si mangia con laceranti scotimenti del capo o risucchiando cirri come il formichiere nelle praterie africane. A questo punto il barese, se è davvero tale, può pure suicidarsi o consumare rapporti impuri con un leccese ed è lo stesso. Esulta come mai avrebbe sperato: «Mudù, mudù, cci è bell’ ‘u pulp!». E il giubilo genera l’eco dei vicini su canone inverso bachiano: «Ma vid a cudd kittemmurt: pur ‘u pulp s’ha frecat’».
© RIPRODUZIONE RISERVATA