Salvarsi quando tutto chiede salvezza: la vita in sette giorni di Daniele, tra poesia e riflessione del sé

Scritto da

Salvarsi in sette giorni: “Tutto chiede salvezza”

Uscita da qualche settimana, la nuova serie Netflix “Tutto chiede salvezza” riporta nel piccolissimo schermo, e con estrema fedeltà, il libro di Daniele Mencarelli, vincitore del Premio Strega Giovani 2020. Un cast variegato popola gli asfittici corridoi di un ospedale psichiatrico, lo stesso in cui Daniele, il protagonista della serie tv, si risveglia un sabato di agosto per un TSO. Daniele ha solo 20 anni e il suo ultimo ricordo è una serata in discoteca con gli amici: lì la vita scorre veloce, adattandosi a quell’unico ritmo che siamo capaci di darle. Daniele, però, deve salvarsi: il ragazzo, seppur giovanissimo, ha già conosciuto la depressione, la diagnosi di bipolarismo e una serie sterminata di sostanze stupefacenti. Ora, invece, a essere stupefacente sarà solo la verità che scoprirà al termine della settimana in clinica: “Tutto chiede salvezza”. Lo affermò già Heidegger in “Essere e tempo” (1923-1926): Ognuno di noi, nel momento in cui viene gettato nel mondo, si ritrova a essere-nel-mondo, cioè a esserci. Qui l’uomo percepisce il senso di “gettatezza” (Geworfenheit) e si ritrova a dover vivere una vita che non ha voluto, in un luogo oscuro e senza appigli per salvarsi. Solo attraverso il “progetto del sé” (Sichentwerfen), egli può adattarsi a questa landa inospitale, entro la quale si percepisce come naufrago, esiliato e folle. 

La serie tv: tra poesia e disincanto

Dalle finestre dell’ospedale si vede il mare. E poi si vedono gli alberi. I letti più vicini alla finestra sono quelli di Mario e Madonnina, due dei cinque compagni di stanza di Daniele. Tutti – Daniele, Giorgio, Alessandro, Gianluca, Madonnina e Mario – hanno una cosa in comune: non possono salvarsi da soli e tutti si ritrovano a condividere, per forza di cose, un tempo infinito e dilatato che sembra non lasciare scampo al pensiero di sé e dell’Altro. Tra queste mura contornate dagli alberi, dal mare, da una barca di passaggio – la “Nave dei Pazzi”, come è stata battezzata dai sei amici, ma sulla quale tutti siamo saliti almeno una volta – non c’è tempo per perdere tempo, poiché nulla rimane incompiuto. La colonna sonora e le musiche sono accompagnate da gesti scenici lievi e cortesi, che sfuggono tra uno sguardo e l’altro, tra una lacrima e quella successiva. Alle spalle del letto di Daniele si legge, scritto a penna sul muro, “APNEA” e antistante al letto di Mario, in piccolo e in corsivo, “Je est un autre”. Ironia della sorte, questo vecchio maestro di lettere si ritrova, ormai ultrasessantenne, ricoverato per l’ennesimo TSO della sua vita e vorrebbe davvero essere un Altro. Daniele, in ospedale e sotto consiglio della psichiatra, riprenderà invece a scrivere poesie. Era stato costretto dalla vita ad abbandonare questa passione, così come gli studi umanistici, per dedicarsi alla vendita porta a porta di condizionatori, perché «oggi non c’è più scelta». Tuttavia, alla fine, dovrà e dovremo ricrederci: possiamo ancora scegliere quotidianamente cosa essere e «la vera follia è fuori». Ne è consapevole anche Nina che, mentre si guarda nello specchio della sua stanza d’ospedale, dichiara di sentirsi una «bambola», i cui fili sono manovrati da una cascata di likes su Instagram e dalla sua futura – e indesiderata – carriera da attrice. I due ragazzi, qui, scopriranno davvero un “Another love” e durissima sarà la separazione quando, il sabato successivo, Daniele terminerà il TSO. Ma la storia non finisce qui; dentro una singola narrazione si rivelano, come in una matrioska, milioni di anime e spiriti, modi di vivere e immensità. E l’Amore tornerà a girare…

«Che cura c’è per come è la vita? Che cura c’è?». Esistenzialismo e Nichilismo nel ‘900: alla ricerca di una scelta

Questa sembra essere la domanda cardine attorno alla quale gravitano i grandi temi della serie tv, che riesce magistralmente a riprodurre i toni emotivi e saturi del romanzo. «È tutto senza senso (…), però se è tutto senza senso io voglio morì», sentenzia il giovane Daniele durante la prima seduta terapeutica del suo TSO. Si chiude il cerchio – che pure continuerà per sempre a girare – e che, alla metà del secolo scorso, ha ispirato le straordinarie pagine di filosofi e pensatori che si rifanno a quella sottile linea stagliata tra Esistenzialismo e Nichilismo. Entrambi partono da un pensiero comune: l’uomo, gettato contro la sua volontà sulla terra, si ritrova a inseguire costantemente uno stendardo mai fisso, corrispondente all’idea di una qualche felicità salvifica e tutta terrena. Se l’Esistenzialismo si concentra sui temi dell’angoscia e dell’inazione contemplativa, il Nichilismo risponde con la totale assenza di senso. L’eco classica di una corsa senza meta va ricercata tra le terzine del Sommo Poeta: nell’Antinferno gli ignavi – coloro che furono incapaci di prendere una decisione – sono condannati, per la legge del contrappasso, a inseguire senza sosta un’insegna bianca, mentre si azzuffano e affannano completamenti nudi. Ecco, dunque, l’anello ultimo di congiunzione: nella vita, la ricerca di senso si esplica nella misura in cui si è capaci di compiere una scelta. Daniele, alla fine, sceglie di curarsi; ha imparato una grande lezione di Vita, suggeritagli dal saggio compagno di stanza, Mario (che, forse per un caso, lamenta di non riuscire a mettere vestiti leggeri da tanti anni, poiché senza il suo pigiama invernale, persino in agosto, si sente nudo): «Curati, chiedi aiuto quando hai bisogno, ma non lasciare che nessuno ti racconti il mondo, tieni il tuo sguardo aperto, libero». Scegliere, quindi, di avere uno sguardo orientato sul mondo costituisce una scelta ontologica a cui tutti, prima o poi, siamo chiamati. Lo stesso Mario si convince di un potere attivo, intrinseco e comune a «poeti, artisti e matti»: la capacità di osservare il “nostro” mondo al suo stadio precedente, al fine di riconnettersi a quell’angolo di Paradiso a cui l’uomo era destinato, per volontà di Dio, prima di incappare nell’antico peccato. Poi, la chiave di volta: all’uomo peccatore spettano, come suggerisce Mario, la morte e il tempo che, suo malgrado, ne accompagneranno i passi per la durata dell’intera esistenza. Solo alcuni uomini «hanno dentro un ricordo sgranato» che permette loro di osservare la realtà come era veramente. Campeggia, in queste parole, quello che è lo “scacco esistenziale” più volte nominato da Kierkegaard – il più grande degli esistenzialisti – come momento di passaggio dalla Vita Etica a quella Religiosa e ravvisabile, per il filosofo, nel pentimento. L’uomo, pentito, si apre alla Fede, riuscendo così a superare lo stato di angoscia consustanziale alla vita terrena e pratica. Di diversa matrice è il pensiero espresso da un altro grande pensatore: fu Sartre in “L'existentialisme est un humanisme” (1945) ad affermare che niente può salvare l’uomo, neppure se questo potesse un giorno avere contezza dell’esistenza di Dio. In questa rassegnazione, tuttavia, l’uomo deve essere capace di ritrovare sé stesso. 

La strada per ritrovarsi: liberarsi dal dolore del vivere

«I miei fratelli li chiamano pazzi, squilibrati; piangono quando amano e ridono quando soffrono. Ma la vera pazzia (…) è un’altra: la vera pazzia è non cedere mai, non inginocchiarsi mai». Con queste parole un commosso Daniele si rivolge al suo uditorio, in chiesa, durante la celebrazione funebre in onore di Mario. Ancora una volta a serbare il ricordo di lui saranno dei versi poetici che il giovane ha scelto di dedicargli (con la sua poesia, Daniele-Orazio fa una dichiarazione di fede che ricalca il celebre Exegi monumentum aere perennius): «Dall’alto, dalla punta estrema dell’universo, passando per il cranio e giù fino ai talloni, alla velocità della luce e oltre, attraverso ogni atomo di materia…Tutto mi chiede salvezza (…), per i vivi e i morti,  salvezza. Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina, per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia:  salvezza». Questi uomini siamo tutti noi, dilaniati da una vita che ci passa dinnanzi e che, spesso, ci soverchia con arroganza e strafottenza, riducendo le nostre carni in brandelli. A risolvere l’enigma saranno le parole sincere del dottor Mancino, psichiatra della clinica con il quale Daniele ha  avuto un rapporto di conflittuale collisione. Ora, il medico, presente al funerale, si rivolge al giovane: «Noi, voi…Che differenza vuoi che faccia? Ognuno ha la sua storia e dentro ogni storia c’è un dolore». Solo facendo quotidianamente i conti con la nostra comune gettatezza, dunque, possiamo trovare la via per salvarci, ognuno come può, ma con la mano ben tesa verso i nostri compagni di naufragio. «Nessuno si salva da solo. Possono sentire l’eco di quelle parole cadere davanti ai loro passi. Una condanna o un conforto», scriveva Margaret Mazzantini nell’omonimo romanzo.