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Certe vertigini a cui si è rassegnati - Estratto da "Le Porte dell'Immaginazione"

Certe vertigini a cui si è rassegnati - Estratto da "Le Porte dell'Immaginazione"
Igor Sibaldi

Pubblicato 5 anni fa
Igor Sibaldi

Leggi in anteprima l'introduzione del libro di Igor Sibaldi

Fino agli ultimi anni del XIX secolo, la psicologia occidentale era convinta che i sogni fossero soltanto un disturbo del sonno. Freud smise di crederlo; provò a pensarla come gli antichi, che ai sogni davano molta importanza, e di lì a poco tutti si accorsero che l’esplorazione della psiche era appena incominciata.

Così avviene spesso, nei grandi balzi in avanti della conoscenza, e in generale nei cambiamenti in meglio: ci si volta indietro, si dà più credito a idee remote, che non alle convinzioni dei contemporanei, e d’un tratto si apre un orizzonte nuovo. Mosè riscoprì un Dio dimenticato da quattrocento anni. Gesù riscoprì certe teorie di Mosè, vissuto almeno un millennio prima di lui. Francesco d’Assisi riscoprì certe idee di Gesù, che per almeno un millennio erano state dimenticate o fraintese.

E che Freud avesse capito quanto lo sguardo indietro dia impulsi ad andare avanti, lo si vide in tutta la sua carriera di studioso: con le sue idee sul complesso di Edipo, che fu il ritrovamento di una traumatologia psichica elaborata dai greci già nel V secolo a.C.; con i suoi studi sui totem e sui tabù; con le sue ipotesi sui traumi ancestrali dell’umanità, sull’origine delle religioni, sulla decifrazione psicoanalitica del Mosè di Michelangelo e via dicendo. Jung procedette alla stessa stregua, attingendo a piene mani dall’alchimia, dallo gnosticismo, dalla mitologia occidentale e orientale.

Ma in quel voltarsi indietro, i due fondatori della nuova psicologia non riuscirono a staccarsi dalla convinzione - tipica della seconda metà dell’Ottocento, in cui entrambi si erano formati - che la mente cosciente fosse lo strumento e il fondamento sia della psicologia, sia di ogni altra conoscenza valida. E con “mente cosciente” intendo quella parte della psiche, che è in grado di descrivere se stessa in una qualsiasi lingua attuale: in pratica, ciò che l’io sa di sapere di sé.

Di là dalla mente cosciente si aprivano, secondo la nuova psicologia, le profondità del cosiddetto inconscio, cioè di quel che l’io non sa della propria psiche - o non sa di saperlo. Freud e Jung stabilirono che l’inconscio andasse studiato dal punto di vista del conscio. Oggi questa convinzione è talmente famigliare, che, a dirla così, non suscita alcuna meraviglia: esperti e dilettanti di psicologia si sentirebbero in diritto di esclamare: «Ma certo, e come altro si dovrebbe fare? Come può una conoscenza non essere cosciente?»

Gli antichi la vedevano diversamente: accanto alla mente cosciente ponevano un altro strumento, un altro fondamento, un altro luogo della conoscenza. Per lo più lo chiamavano Dio.

Così, quando Giuseppe egizio, nell’accingersi a interpretare il sogno del faraone, dichiarò che «le interpretazioni appartengono a ’Elohiym» (Genesi 40,8), intendeva dire che chi indaga un sogno lascia da parte, appunto, la propria mente cosciente, e lascia che si attivino nella psiche sensori e processi di cui non sa nulla di preciso, se non che funzionano. E i filosofi greci, nel v secolo a.G. (suppergiù milleduecento anni dopo Giuseppe egizio) e gli eretici gnostici, nel ii secolo d.C., e Tommaso d’Aquino, e Dante, ponevano, accanto alla mente - più in là, e tutt’intorno ad essa - il noùs, o intellectus, che era un principio di conoscenza più grande di qualsiasi io e tuttavia accessibile all’io, in certe condizioni supreme: quando la mente cosciente rimane indietro, e proprio perciò si accede a rivelazioni.

Trasumanar significar per verba non si poria

avverte Dante nel Paradiso (1,70), narrando di ciò che si scopre quando ci si lascia alle spalle la mente cosciente: per verta, cioè con le parole, non c’è verso di riuscire a comunicarlo. E pochi versi prima. Dante spiega:

Molto è licito là, che qui non lece a le nostre virtù, mercé del loco fatto per proprio de l’umana spece.

Cioè: molte cose sono impossibili alla nostra mente cosciente, e diventano possibili quando ne usciamo; eppure la mente è il “loco” della psiche in cui vuole consistere l'“umana spece” - cioè la sottospecie chiamata giustappunto sapiens sapiens: suggestiva e deprimente definizione, che fa pensare a un sapere di sapere, più limitato del semplice sapere, che a sua volta è una limitazione dello scoprire. Perciò, per indicare quell’impossibilità mentale. Dante dice qui “non lece”, cioè: non è permesso. E non: non ne avremmo in nessun caso la capacità. In pratica, l’“umana spece” si autolimita, si autopreclude l’utilizzo di certe “nostre virtù”, di certe nostre forze.

Dell'intellectus, Freud e Jung e i loro continuatori non si curarono affatto, come se non ne avessero mai sentito parlare - il che è impossibile, dato che entrambi, e Jung soprattutto, sapevano di filosofia. In realtà, non volevano curarsene.

L'intellectus presentava lo svantaggio di essere una via alla rivelazione di dimensioni sempre ritenute divine; e Dio, i nuovi psicologi si guardavano bene dal ritenerlo un punto di riferimento della conoscenza, per timore di venire accusati di adoperare un linguaggio non scientifico. In tal modo, imponendosi di rimanere aggrappati alla mente cosciente, andarono incontro a una grave contraddizione, di cui evidentemente non vollero accorgersi, o peggio (nel caso di Jung) non vollero accorgersi di essersene accorti.

Studiare il cosiddetto inconscio dal punto di vista della mente cosciente era come studiare il mare dal punto di vista dell’agricoltura, o i Testi delle piramidi da un punto di vista cattolico: un tentativo inutile e improduttivo di adattare, di ridurre l’ignoto a ciò che si sa già. Operazione sempre losca, e particolarmente riprovevole in campo scientifico. La mente cosciente era, d’altronde, anche il preincipale oggetto di studio della psicologia, e in che modo la mente cosciente poteva sperare di studiare se stessa?

Teli me, good Brutus, can you see your face?

- domanda Cassio, nel Giulio Cesare di Shakespeare (1,2): dimmi, la tua faccia puoi vederla? Bruto risponde, ragionevolmente:

No, Cassius; for the eye sees noi itsef but by reflection, by some other things.

- l’occhio non vede se stesso se non in immagini riflesse da qualche altra cosa. Tanto meno potrà vedere se stessa la mente cosciente, la quale, a differenza dell’occhio, non può contare su nessun’ultra cosa in cui riflettersi, dato che la mente cosciente ha la caratteristica di inglobare in sé tutto ciò di cui riesce a parlare.

Qualunque cosa sappia la mente cosciente, ciò che ne sa conferma ed esprime soltanto ciò che sa di sé e, qualunque cosa ne dirà, starà parlando soltanto del fatto che lei ne parli.

È un simbolo di questo limite della mente cosciente il dono che Dioniso fece al re di Frigia, Mida: il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava con una qualsiasi parte del suo corpo - e perciò Mida moriva di fame. Così anche la mia conoscenza langue, quando si affida soltanto alla mente cosciente. La mente cosciente, magari, non se ne accorgerà mai, perché non potrà mai darsi veramente torto: dando torto a se stessa avrà comunque ragione. Non potendo smentirsi, non potendo superarsi, non potrà mai progredire. Non conoscerà mai i propri confini, perché, ovunque giungerà il suo sguardo, ci sarà sempre essa stessa, e mai un altrove di cui poter dire: «Ecco, qui io non ci sono più» — e da cui osservarsi dal di fuori.

Per la stessa ragione, non saprà mai quale sia il suo centro, perché ovunque giungesse il suo sguardo sarebbe ancor sempre al centro di se stessa, cioè nel pieno possesso delle sue facoltà: non potrebbe sapere nulla, se no. Non a Dio, come tanti ritengono, o all’universo, o al tempo, come ritengono altri, ma alla mente cosciente sembra riferirsi quell’immagine, quella specie di incubo concettuale, concepito nel xil secolo, da chi scrisse il Liber XXIV philosophorum, e poi rimbalzato da Cusano a Giordano Bruno e a tanti altri, fino a Borges: una sfera che ha una circonferenza infinita e il centro in ogni luogo} Chi vi vide Dio, o l’universo, o il tempo, non fece che dimostrare, involontariamente, che anche parlando di Dio, o dell’universo, o del tempo, la mente cosciente può soltanto parlare di se stessa.

Nel caso dei due fondatori della psicologia novecentesca, l’adesione alla mente fece sì che, malauguratamente, proprio nel loro sforzo di essere il più possibile scientifici, precludessero alla loro psicologia di essere una vera e propria scienza: perché diventava impossibile determinare i confini del suo oggetto di studio - come sarebbe stato possibile solo a condizione di osservarlo da fuori, ovvero da fuori della mente stessa.

La psicologia novecentesca rimase, così, solo un’espressione del periodo di civiltà in cui i suoi due fondatori si erano laureati. Come l’Europa di fine Ottocento era persuasa di essere il più alto prodotto dell’evoluzione della vita sul pianeta, e considerava inferiore ogni altra cultura, presente o passata, privandosi della possibilità di criticarsi davvero, allo stesso modo la psicologia novecentesca - tutta centroeuropea - negò che esistesse una dimensione più alta, più ampia, dalla quale osservare la mente cosciente: ammetteva che una qualche altra zona ci fosse, nella psiche, più ampia sì, ma più alta certamente no, bensì torbida, pericolosa, da tenere sotto controllo, e di cui non fidarsi in nessun caso.

La psicologia novecentesca si immaginava questa zona, l’inconscio, come un mare smisurato, dove vanno alla deriva detriti di processi psichici rifiutati, rimossi dalla mente cosciente; e al contempo come un insieme di forze oscure che continuamente tentano di agire sull’io cosciente, e spesso ci riescono:

Abbiamo tutti provato tale impressione, anche se quelle forze non ci hanno sopraffatto.

- sosteneva Freud nel 1922, senza peraltro precisare chi intendesse con la parola “tutti”; e aggiungeva che queste forze insidiose sono talmente vicine, da impedire alla mente cosciente di «sentirsi padrona in casa propria».^ Jung provò ogni tanto a descrivere l’inconscio in termini più ottimistici: 

L’inconscio non è ciò che è semplicemente ignoto; da un lato, è l’elemento psichico ignoto, ossia tutto ciò che presupponiamo non si distinguerebbe in nulla dai contenuti psichici a noi noti, qualora pervenisse alla coscienza; d’altro lato, dobbiamo aggiungervi anche il sistema psicoide, sulla cui natura non siamo in grado di fare affermazioni dirette. Il termine «inconscio», così definito, descrive un dato di fatto estremamente fluido: tutto ciò che io so, ma a cui momentaneamente non penso; tutto ciò che per me una volta è stato cosciente, ma che ora è dimenticato; tutto ciò che viene percepito dai miei sensi, ma non viene notato dalla mia coscienza; tutto ciò che io avverto, penso, ricordo, voglio e faccio senza intenzione e senza attenzione, cioè appunto inconsciamente; ogni cosa futura che si sta preparando in me e che affiorerà alla coscienza solo più tardi; tutto questo è contenuto dell’inconscio. Questi contenuti sono tutti, per così dire, più o meno suscettibili di assurgere alla coscienza.

Così la prospettiva restava un po’ più aperta: l’inconscio, diceva qui Jung, è ciò che non è conscio, e nulla esclude che ne possa venire fuori qualcosa di buono. Ma notiamo come emerge, in questa descrizione, la paura che la mente cosciente ne ha (paura del proibito, di ciò che “non lece”): nel descrivere l’inconscio, Jung non fa che elencare negazioni, senza alcuna frase affermativa. In più, leggiamo qui che i contenuti dell’inconscio possono “assurgere” alla coscienza - come a una superiore regione, da molto in basso. L’impressione che se ne ha, è di un uomo che soffra di vertìgini e che, guardando giù da una piattaforma, e cercando di tenersi indietro, allunghi un po’ il collo.

A leggerle oggi, queste frasi suscitano irresistibili domande demolitrici.

Innanzitutto, come si può, da quella piattaforma, essere tanto sicuri che l’inconscio abbia dei “contenuti”, che cioè sia una specie di scatola? Dove finisce questa scatola? E cosa c’è oltre?

E quel livello inferiore, da cui gli elementi inconsci “assurgono”, era una metafora, e dunque qualcosa di non scientifico, oppure Jung credeva veramente che la psiche fosse una realtà spaziale, con luoghi alti e luoghi bassi? Se lo credeva, perché non lo dimostrò?

Se invece era una metafora, da dove la trasse? Dall’idea di un luogo sotterraneo, come il regno dei morti? E probabile: Jung in gioventù si era interessato di spiritismo. Oppure dall’idea delle classi sociali, che vengono dette alte o basse a seconda del potere d’acquisto? Anche questo è probabile: Jung visse sempre nell’agiatezza. Dunque, se fosse stato di origine umile, venuto dal basso, la sua concezione della psiche sarebbe stata diversa?

Altrove Jung abbandona l’immagine di un inconscio come d’uno scatolone posto più in basso dell’io cosciente, e capovolge la situazione:

L’inconscio dispone di un patrimonio enorme, costituito dai sedimenti di tutte le vite dei progenitori, i quali, già per il solo fatto di aver vissuto, hanno contribuito alla differenziazione della specie. Se si potesse personificare l’inconscio, esso apparirebbe come un uomo collettivo, al di là della giovinezza e della vecchiaia, della nascita e della morte: con l’esperienza umana, pressoché immortale, di uno o due milioni di anni. Quell’uomo sarebbe senza dubbio superiore al mutare dei tempi.

Ecco che l’inconscio cessa di “assurgere” e diventa “superiore”. Cessa di essere il contenitore di ciò che l’io dimentica o non nota, e diventa un emanatore di sapienza accumulata in “uno o due milioni di anni” (un milione o due milioni?). Forse a questo punto sarebbe stato opportuno trovare due sostantivi diversi per indicare i due tipi di inconscio, dato che non erano la stessa cosa; ma Jung non lo fece, e li distinse solo con aggettivi: inconscio personale e inconscio collettivo - che è un po’ come chiamare “pianura bassa” un territorio pianeggiante e “pianura alta” le catene montane circostanti. Perché?

Si direbbe che la ragione fosse sempre la stessa: quell’altra dimensione psichica chiamata “inconscio” veniva vista, nell’uno e nell’altro aspetto, solo e sempre dal punto di vista della mente cosciente, che non la conosceva, e perciò poteva cambiare continuamente opinione al riguardo.

E il termine “inconscio” era comunque mal scelto.

Trattandosi di una scienza, cioè di un’attività volta a conoscere, non le era vantaggioso bollare fin da principio un suo oggetto con un termine che ne indicasse l’inconoscibilità. Tutto nella scienza è Unbewusste (così suona “inconscio” in tedesco, e letteralmente significa: ciò che è sconosciuto) prima che lo si studi e lo si scopra. Ma la biologia o la fisica avrebbero sicuramente faticato a progredire, se l’una avesse stabilito di chiamare “la sconosciuta” la fotosintesi clorofilliana, e l’altra di chiamare “gli sconosciuti” i protoni.

Le parole hanno un loro peso psicologico, come Freud e Jung avrebbero dovuto sapere. Chiamare Unbewusste un’area della psiche era porre un tabù. Nel migliore dei casi, nel caso cioè che dopo qualche anno di studi quell'Unbewusste si fosse conosciuto meglio, la psicologia avrebbe dovuto cambiargli nome, e chiamarlo Bewusste, il “conosciuto”, obbligandosi a liquidare come preliminari tutti i propri lavori precedenti - oltre che a cambiare nome anche al “conscio”, per evitare confusione.

A dieci, venti, trent’anni dalla pubblicazione dell'Interpretazione dei sogni, questo miglioramento della situazione continuava a non avvenire: Freud e Jung invecchiavano e avevano scritto opere fondamentali sullo “Sconosciuto”, fondando due scuole contrapposte; chi avrebbe avuto l’ardire, allora, di compiere scoperte che trasformassero l'Unbewusste in un Bewusste, facendo così apparire superati i due capiscuola? Né, tantomeno, erano disponibili ad autodichiararsi superati né Freud né Jung, che abbondavano entrambi d’amor proprio.

Così, compito sia della psicoanalisi, sia della psicologia analitica junghiana fu sempre, fin dal principio, preservare il conscio (e le loro teorie) dall’inconscio, lasciando che quest’ultimo rimanesse ignoto.

Non per nulla, Jung decise di tenere solo per sé le proprie visioni, e le affettuose, illuminanti conversazioni con gli Spiriti Guida - a cui si era dedicato intensamente dopo il 1913. Ne scrisse in segreto, nell’autobiografia Ricordi, sogni, riflessioni, che volle fosse pubblicata postuma. «Temeva la reazione del pubblico», notò con devota benevolenza, nell’introduzione al volume, la curatrice e discepola Aniela Jaffé.

Cosa temeva Jung precisamente? Che migliaia di pazienti e un numero ben maggiore di colleghi, e un numero ancor maggiore di lettori, si sentissero ingannati? Era possibile: per sessant’anni la psicologia aveva eretto linee fortificate contro l’inconscio, mentre Jung intratteneva con quello stesso inconscio cordiali rapporti di collaborazione. «Se si potesse personificare l’inconscio»! Jung lo personificava eccome: in Elia, Salomé, Ka, Filemone e molti altri suoi Spiriti Guida.

Filemone rappresentava un’intelligenza superiore. Per me era una figura misteriosa. A volte mi sembrava reale proprio come se fosse una persona viva. Passeggiavo con lui su e giù per il giardino, ed era per me ciò che gli hindu chiamano un guru. Filemone e le altre figure della mia immaginazione mi diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dall’io, ma che si producono da sé e hanno una vita propria. Filemone rappresentava una forza che non ero io. Mi diceva cose che io non avevo coscientemente pensato, e osservai chiaramente che era lui a parlare, e non io. Diceva che mi comportavo con i pensieri come se fossi io a produrli, mentre, secondo lui, i pensieri erano dotati di vita autonoma, come animali nella foresta, o uomini in una stanza, o uccelli nell’aria: «Se tu vedi della gente in una stanza, non dici certo di averla prodotta tu!» Così egli, un po’ alla volta, mi insegnava l’obiettività psicologica.

Jung la imparava, ma non la insegnava a sua volta ai pazienti. Come sarebbero cambiate le sue terapie, se, di tutti gli insegnamenti di Filemone, avesse applicato anche soltanto quell’osservazione dei pensieri che passano per la mente come uccelli nell’aria?

Ma quel “timore della reazione del pubblico”, che Jung nutrì per decenni, si rivelò infondato. La pubblicazione della sua autobiografia nel 1960 non determinò alcuno sconvolgimento nella psicologia analitica. I pazienti continuarono a voler essere difesi delle intrusioni dell’inconscio nella loro vita quotidiana, e gli analisti continuarono a curarli nello stesso modo di prima, sostenendo la necessità assoluta di questa difesa. Una volta stabilito un tabù, è difficile abolirlo; e il tabù che la psicologia aveva posto sull'Unbewusste non fa eccezione.

Proviamo a immaginare quel che sarebbe avvenuto se Jung avesse cominciato a pubblicare i risultati della sua cooperazione con Filemone fin dagli anni Venti.

La psicologia novecentesca avrebbe cessato di farsi passare per una scienza medica, perché un medico è tenuto a sapere ciò che fa nel suo ambulatorio, e Jung non lo sapeva: non aveva"; come dicevano i suoi Spiriti Guida, la necessaria “obiettività psicologica”. Invece di porsi come una specie di odontoiatria della coscienza, la psicologia sarebbe stata un’esplorazione di realtà che la mente cosciente non può conoscere, e un’analisi critica della mente cosciente, per scorgervi ciò che ostacolava tale esplorazione.

Così, sarebbe cambiato radicalmente il concetto di malattia psichica: invece di un ostacolo all’adattamento degli individui al mondo adulto, la si sarebbe intesa come un segnale degli ostacoli che la mente cosciente oppone alla scoperta della psiche.

Soprattutto, si sarebbe stabilita, nel linguaggio psicologico prima, e poi nel linguaggio comune, una differenza netta tra la mente e l'Io. Oggi - anche dopo che la neuropsicologia ha dichiarato che sia Freud sia Jung sono superati - si continua a credere che la mente sia il centro e al tempo stesso il vertice della psiche, e che l’io si debba trovare nella mente. Se cent’anni fa la separazione tra conscio e inconscio non fosse diventata una condizione necessaria alla psicologia, ci si sarebbe accorti che la mente è solo una modalità dell’io, e che non lo contiene affatto, così come un mio malumore non contiene tutte le mie capacità conoscitive.

Sarebbe risultato chiaro che l’io è più grande della mente cosciente, e che quanto più scopre di esserlo, tanto più trova nella psiche vie lungo le quali può imparare cose utilissime, attraverso altre sue modalità - che l’immaginazione ha descritto, nel corso dei millenni, come figure benevole, guide, maestri, più grandi, anch’essi, di quel “loco” mentale troppo piccolo in cui la specie Sapiens sapiens si è rinchiusa. Proprio perché inspiegabili in questo “loco”, quelle figure avrebbero dato alla psicologia il modo di studiare e spiegare come e perché e quando la specie umana vi si fosse chiusa.

Questa maggiore ampiezza dell’io si sarebbe riconosciuta come la ragione principale di tante forme di infelicità, di angoscia, di paura. Infatti, si può soltanto essere più infelici, più angosciati, più impauriti, se ci si sente attorniati da forze ignote, di cui gli esperti mettono in guardia come da un pericoloso Unbewusste - così come ci sentiremmo male in casa nostra, se ci avessero convinti che non bisogna assolutamente entrare in una stanza o aprire alcune ante dell’armadio. Quante nevrosi derivano proprio da simili divieti, quante ossessioni servono soltanto a giustificarli?

La psicoanalisi e la psicologia analitica curavano e hanno continuato a curare questi disagi, aiutando i pazienti ad accettare ciò li aveva prodotti, cioè a evitare alcune stanze e alcune ante. Ma perché guarire a questo modo un occidentale infelice? Perché ritenere che la sua infelicità sia sbagliata?

C’è un passo, nei Vangeli, che sotto questo rapporto acquista un grande valore psicologico:

Si fa più festa in cielo per un peccatore che sia accorto, che non per novantanove giusti che non sentano il bisogno di accorgersi di nulla. Luca 15,7

Di solito viene tradotto «per un peccatore che si pente» o «che si converte», ma è una svista: nel testo è usato qui il verbo metanoein, cioè “pensare (noein) più in là (meta) di prima”, ovvero accorgersi. Se si sostituisce “peccatore” con “infelice”, o con “nevrotico”, il passo fa proprio al caso nostro.

Un occidentale infelice o nevrotico ha tutte le ragioni di esserlo: è il suo mondo che non va; e il suo mondo, altro non è se non il modo in cui la sua mente cosciente capisce, descrive e giudica il mondo. Perciò la notizia di qualcuno che si sia accorto delle ragioni della propria infelicità, cioè dei difetti del mondo, rallegra gli Angeli più del sapere che in quel mondo novantanove benpensanti si trovano a loro agio. Ne viene che l’infelicità, le nevrosi sono da considerarsi indicatori di salute mentale (come la nausea dopo aver ingerito cibo avariato è indicatore di salute fisiologica); dunque perché curarle?

La psicologia nata nel Novecento difendeva non tanto l’io, quanto la mente che teme l’ignoto, perché sa che perderebbe, se lo si conoscesse, la possibilità di controllare e limitare l’io. In tal senso, questa disciplina svolgeva una potente funzione sedativa - in apparente concorrenza, e in realtà in parallelo con l’altra grande sedatrice, la religione.

Così facendo, la psicologia novecentesca sopprimeva, rimuoveva proprio ciò che nei primi decenni del Novecento aveva determinato il suo successo; mai disciplina con pretese scientifiche era giunta a contare in così breve tempo un tale numero di appassionati, che imparavano a usarne la terminologia come, in quello stesso periodo, si imparava a usare l’automobile. Era perché ridestava il desiderio antico di scoprire proprio ciò che nella psiche è ignoto all’io.

La psicologia novecentesca proclamava l’esistenza di malattie nuove: faceva, cioè, scorgere fenomeni morbosi là dove prima si vedevano soltanto gradi di normalità - così come l’automobile faceva apparire insopportabilmente lente le carrozze o i cavalli, di cui prima ci si accontentava. Dunque puntava a una nuova salute: una salute - sembrò allora - per un soggetto diverso dalla mente cosciente, più grande del “conscio”, cioè di ciò che si sapeva già di se stessi. Così la intesero, per esempio, i surrealisti, e André Breton, nel 1921, cercò invano di spiegarlo allo stesso Freud.

Se Breton fosse stato più convincente, e Freud meno timoroso, la psicologia avrebbe permesso di see your face, cioè di formare un nuovo concetto di individuo, e di diventare individui nuovi: se io so qualcosa di me e, sapendola, non mi basto più, io sono due — uno che non basta e un altro a cui non basto. Questo piaceva immensamente, negli anni Dieci, negli anni Venti. Ed era precisamente ciò che gli antichi cercavano nelle iniziazioni eroiche: superamenti di limiti mentali che solo l’iniziazione stessa avrebbe insegnato a riconoscere.

Ma la psicologia ne ebbe paura, e richiuse la porta che stava per varcare. Così, a chi si inoltra nell’aldilà, cioè nell’ignoto psichico, né gli schemi, né la terminologia, né tantomeno i “non lece” della psicologia attuale sono d’aiuto: conviene dimenticarsene, come se non fossero ancora stati inventati, o come se fossero già da molto tempo caduti in disuso.

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