“Quella mano parlante”: un saggio di Gianni Morelli che getta nuova luce sull’iconologia mariana

Pubblichiamo un abstract con cui Gianni Morelli ha condensato i temi del suo nuovo saggio - che alleghiamo - dedicato all'interpretazione della Vergine parlante di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna

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Questo saggio è poco più di un flash sul sentimento religioso di Teodorico e riguarda la sua chiesa prediletta di Ravenna. In Sant’’Apollinare Nuovo, infatti, si affacciano due sorprese iconografiche impossibili da risolvere: 1) il volto del Cristo in trono, praticamente gemello del Cristo nel Monastero di Santa Caterina al Sinai, laddove Chiara Frugoni ci rammenta: il gesto famoso delle tre dita levate di Cristo non è solo per benedire, ma può significare anche semplicemente parlare e, se affidato ad altri personaggi e situazioni, legiferare, detenere il potere”…. 

2) E poi ecco la prima immagine al mondo della Vergine in trono nel gesto della mano parlante. A chi sta parlando la Madonna? E perché attendere più di cinque secoli di era cristiana per consentire alla Madre del Cristo il gesto dell’’oratore?

È difficile stabilire cosa l’’arianesimo significasse per gli Ostrogoti, in senso religioso, sociale, politico. Per i Goti di Teodorico aveva –- a parte qualsiasi altra cosa –- un importante significato d’identità nazionale. Si può sostenere –- scrive lo storico John Moorhead –- che l’’enorme programma edilizio intrapreso da cattolici e ariani a Ravenna durante e dopo il regno di Teodorico fosse in parte mosso da rivalità e si può avere il sospetto che, per i Goti, una caratteristica essenziale del proprio arianesimo fosse semplicemente il fatto che non era la fede dei Romani. Chiaramente, non possiamo conoscere la relazione dello stesso Teodorico con la religione. Era un Goto ariano, anche se fu istruito nella cattolica Costantinopoli. La sua identità come Re dei Goti era forte ed importante e, per questa ragione, era di massimo interesse nazionale che le chiese gotiche in Italia, specialmente a Ravenna, fossero altrettanto magnifiche e prestigiose di quelle cattoliche. Non si trattava solo di una questione di manifestazione religiosa, ma soprattutto di una questione di potere gotico.

Sotto Teodorico il regno ostrogoto in Italia era divenuto la principale potenza territoriale d’’Europa. I privilegi concessi a Teodorico ne facevano una sorta di vice-imperatore per la parte occidentale, al punto che il sovrano seguiva un cerimoniale delle apparizioni pubbliche non dissimile da quello dell’’imperatore d’Oriente; una volta viene perfino definito “augustus”. Allo stesso tempo, però, Teodorico era attento a non tralasciare la cura della parte germanica del suo regno. Come ebbero a scrivere Cassiodoro e Giordane “Non vi fu razza tra i regni occidentali con cui Teodorico non avesse stretto amicizia o rispetto alla quale non avesse imposto supremazia durante la loro vita.”

 

La Vergine parlante in Sant’Apollinare Nuovo (sotto, il Cristo, sempre da Sant’Apollinare Nuovo)

 

LE MANI DICONO TUTTO

La descrizione più felice della mano parlante ce l’’ha offerta Apuleio nel suo Asino d’’oro, all’’inizio del secondo secolo. Telifrone, prima di mettersi a narrare la sua straordinaria avventura di guardiano di cadaveri (per impedire alle streghe di appropriarsene), accomodatosi sul cuscino, “distese la mano destra in avanti atteggiandola come fanno gli oratori, con le ultime due dita chiuse, le altre invece sporgevano verso l’’alto e il pollice teso in avanti”. La mano parlante era dunque il gesto più tipico dell’’oratore nell’’Antichità: era soprannominato “adlocutio” ed era utilizzato per ottenere l’’attenzione del pubblico. Nel corso dell’’orazione, la mano si sarebbe mossa frequentemente e con ampia gestualità. Gesticolare, in età romana, non era affatto disdicevole (invece lo diventerà in età bizantina); la gestualità è connessa con l’’istintività e la spontaneità, elementi che i romani non giudicavano inopportuni pur rispettando rigide convenzioni civili o un severo iter per le cariche pubbliche. Lasciarsi andare non impediva il compimento dei propri doveri. “

Senza la mano l’’actio diviene trunca” sentenzierà la tarda retorica. Il movimento delle dita è un linguaggio compreso da tutti, anche da forestieri parlanti lingue diverse e diversi dialetti. Questa forma di comunicazione venne prediletta dagli artisti proprio per far parlare i personaggi rappresentati che, altrimenti, sarebbero risultati statici e muti.

Nel contesto cristiano occidentale il gesto delle due dita sporgenti verso l’’alto apparteneva, esclusivamente e senza riserve, al Cristo. La sua mano destra testimonia ancora oggi il significato teologico e la diffusione geografica del suo messaggio. Punto di riferimento è il Concilio di Calcedonia del 453. In questo Concilio venne sconfitto il credo monofisita che sosteneva la sola natura divina del Cristo: solamente per un istante, al momento della nascita, sarebbe stata presente la natura umana, subito sopraffatta da quella divina. A Calcedonia venne invece ribadita la doppia natura, umana e divina, del Cristo, entrambe compresenti e conviventi per tutta l’’esistenza terrena di Gesù.

Le due dita indicano, appunto, le due nature di Cristo. Nella variante orientale (bizantina), assistiamo ad una nuova postura: l’’anulare si unisce al pollice a formare un anello, mentre le tre dita libere risultano leggermente piegate. La ripresa in ambito cristiano di questo tratto della iconografia imperiale testimonia una volta di più il desiderio di sottolineare la potenza e la maestà del Signore. La chiesa orientale ha come momento culminante il Concilio di Nicea del 325. In questo Concilio il culto ariano, che sosteneva un rapporto gerarchico nella Trinità, viene condannato come eretico. Ario infatti sosteneva la superiorità del Padre rispetto al Figlio, comunque Dio “minore”, in contrasto col Credo cristiano secondo cui le tre Persone sono distinte, ma “consustanziali”.

Le tre dita lasciate libere dall’’anello formato da pollice e anulare proclamano dunque la Trinità divina e conseguentemente la credenza di questa verità di fede. La mano parlante del Cristo nelle due declinazioni, greca dalle tre dita e latina dalle due dita, è stata fatta propria, ovviamente, da altri personaggi della storia sacra i quali tuttavia, per potersi esprimere, debbono possedere autorità di magistero. Lo troviamo in san Paolo, nei santi vescovi, nel Battista che annuncia “preparate le vie del Signore” e mai nei santi martiri. Né mai è attribuito alle grandi sante in forza del divieto pronunciato da san Paolo “nel Tempio le donne tacciano”.

Persino alla Vergine quel segno fu sempre rifiutato, fino ai giorni dell’ariano Teodorico. Nel Basso Medioevo, con la crescente attenzione al Cristo evangelico, povero e sofferente, con il diffondersi della venerazione per la Madonna e in generale l’affermarsi di nuovi e più umili modelli di santità – ad esempio di San Francesco – l’immagine severa ed autoritaria della divinità andò modificandosi e, di pari passo, il gesto imperioso di Cristo passò a significare semplicemente quello, rassicurante, della benedizione. 

 

 

I TRONI DELLE MANI PARLANTI

Restiamo a Ravenna, in Sant’’Apollinare Nuovo, e raccogliamoci per guardare le figure di Cristo e della Vergine in trono a riascoltarne il suono, diciamo così, bizantino e, forse ancor meglio, ariano – costantinopolitano. È come se partecipassimo ad una cerimonia di liturgia paraimperiale, presieduta dallo stesso Teodorico, che il taglio compositivo dei mosaici tende ad evocare. E proviamo a stringere maggiormente la trama di queste suggestioni.

Ho già accennato alla Vergine in trono con la mano destra sollevata nel gesto dell’’oratore e ho osservato che si tratta della prima figura femminile al mondo a rivolgersi direttamente ad una platea precisa di ascoltatori. Dono sconvolgente per tutta la cristianità quel gesto e, a ben pensarci, se non fosse stato un cristiano davvero “speciale” come Teodorico a progettarlo, l’’unica Madonna conosciuta dalla mano parlante resterebbe quella glorificata a metà del dodicesimo secolo in Santa Maria in Trastevere. Magnifica stesura senza dubbio, nella quale però Maria intreccia il suo dialogo d’’amore esclusivamente col proprio figlio.

Dal suo trono nella basilica palatina di re Teodorico la Madonna parla ad alta voce. Ma a chi si rivolge la Vergine? Nella basilica erano presenti altre immagini sostituite, dopo il rescritto giustinianeo del 561 che confiscava i beni della Chiesa ariana a vantaggio di quella cattolica, dai due cortei di santi martiri e sante vergini, ancora oggi visibili. Le immagini eliminate collegavano le figure maiestatiche di Cristo e della Vergine, in prossimità dell’’abside, con raffigurazioni del palatium ravennate e della civitas Classis.

Sono state fatte diverse ipotesi su quali fossero i soggetti “epurati” da Agnello al momento della riconsacrazione della basilica al culto cattolico e tutti gli studiosi accolgono l’’idea che si trattasse di un corteo. Quale però ne fosse la natura non è chiaro: alcuni hanno pensato a processioni capeggiate rispettivamente da Teodorico e dalla sua sposa, in atto di offrire doni a Cristo e alla Vergine in trono, altri a un corteo di carattere profano e trionfalistico, capeggiato dallo stesso Teodorico. Ultimamente Rita Zanotto ha precisato quest’’ultima ipotesi, collegando la presenza delle immagini di Classe e di Ravenna con i drammatici eventi che accompagnarono la presa di potere di Teoderico su Odoacre, recuperando quindi l’’idea di una grande liturgia di ringraziamento per la vittoria, legata a quel preciso momento storico. Inoltre la scritta “Ego sum Rex Gloriae” sul codex retto da Cristo in trono (come leggibile prima dei restauri del XlX secolo) ben si riconnette al concetto della regalità di Cristo, caro sia all’arianesimo che ai suoi avversari.

 

IL CRISTO NEL MONASTERO DI SANTA CATERINA AL SINAI

Del Cristo in trono nella parete sud numerosi studiosi hanno osservato la sua speciale vicinanza all’’icona custodita nel Monastero del Sinai ed invitato a valutare quest’’ultima con fiducia, quale vivida espressione dell’’arte bizantina del Vl secolo. Personalmente giudico l’’icona del Sinai non immediatamente costantinopolitana, quanto piuttosto di pittura greco-romana e di area alessandrina e in ogni caso indipendente e da valutare come arte “altra” ed esterna al clima figurativo della capitale. Sono colpito in particolare dall’’arte greco-egizia dei ritratti nel Fayyum, che paiono meglio guidarci verso l’’icona del Sinai.

In quella icona, di particolare interesse sono le mani sottili, rese con poche ed essenziali linee: la destra nel gesto oratorio e l’altra che sostiene un Vangelo rilegato e impreziosito con gemme. Ho già sostenuto che le mani dicono tutto e nel corso della nostra riflessione sui troni teodoriciani siamo stati quasi travolti dalla profusione di mani parlanti nella Vergine, nel Cristo e in alcuni angeli del seguito. La stessa mano del Cristo del Sinai e di Sant’Apollinare Nuovo comparirà, tale e quale, cinque secoli dopo, nella figura del Cristo imperiale più famosa al mondo, in Santa Sofia ad Istanbul e, a seguire, nelle tre grandi basiliche arabo-normanne di Cefalù, Monreale e Palermo.

 

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