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Blue Kids: Matteo Garrone presenta il deserto morale del primo film di Andrea Tagliaferri

Al Nuovo Cinema Aquila di Roma, nella serata del 20 giugno, il regista Matteo Garrone, introdotto da Mimmo Calopresti, ha presentato Blue Kids (uscito il 14 giugno), opera prima di Andrea Tagliaferri, da dieci anni aiuto regista di Garrone il quale ha prodotto il film con il contributo di Rai Cinema. Blue Kids è “un film che nasce da un vuoto e dal bisogno di dare voce a questo disagio”, ha sostenuto Tagliaferri, il cui progetto ha trovato la totale fiducia del Maestro Garrone che ha concesso al collaboratore totale carta bianca.
Proprio intorno a un vuoto morale e umano si dipana l’agghiacciante vicenda dei fratelli Gianmaria (Fabrizio Falco) e Claire (Agnese Claisse), coppia psicotica votata alla distruzione, il cui obiettivo, - appropriarsi dell’eredità familiare lasciata al padre dalla madre defunta -, li porta a una sequela di orrori tanto atroci quanto avvertiti con estraneità. Ciò che sconvolge di più in Blue Kids è infatti il totale distacco con cui i giovani criminali attraversano l’inferno della propria barbarie, in un baratro senza fondo in cui la parola “umano” sembra essere stata debellata (quasi) per sempre. Sguardo vacuo quello di lui, colmo di un infantile e demoniaco sadismo quello di lei, pressoché inconsapevoli di sé come di ciò che li circonda, i due menano un’esistenza sospesa, i cui unici riferimenti familiari sono un padre distante e probabilmente fedifrago - più simile a una figura astratta - e una candida nonnina aliena alla violenza dei nipoti, che sui titoli di coda non mancano di intrecciare i loro passi in un’inquietante danza di morte e spensieratezza. Blue Kids 2
Un deserto dell’animo che acquista i toni algidi e brumosi delle campagne tra Comacchio e Faenza (città natale di Tagliaferri), trasfigurate dalla preziosa fotografia di Sara Purgatorio (presente in sala) in una palude senza fine e senza speranza, mentre gli interni urbani - lontanissimi da un’identità nazionale o locale - si susseguono in una ridda di lividi neon destabilizzanti - di cui ormai si fa largo abuso nel cinema - o in ville postmoderne simili a prigioni di vetro in cui covare l’agguato. Se da un lato la natura, muta testimone dell’orrore, si mostra nella sua sconfortante mestizia, dall’altro tutto ciò che dovrebbe veicolare gioia e divertimento è svuotato di queste emozioni e restituito con altrettanta freddezza. Così Claire, fingendosi una novella diva, canta a un karaoke dell’amore che va cercato in tutte le cose, ma i tagli di luce violacei, i glitter sul viso, i movimenti meccanici ne trasfigurano la presenza in quella di un vicario di disperazione e angoscia. Le musiche di Leonardo Milani, invece, acquistano una componente drammatica che sembra in un qualche modo sopperire al gelido distacco dei protagonisti - eccezion fatta per quelle lacrime finali che certo non accennano a un pentimento, quanto piuttosto alla nostalgia per tempi più liberi e sereni.
Tagliaferri ci conduce così in un viaggio al cardiopalma dal ritmo travolgente che beneficia di una componente tecnica di indubbio livello, unita all’ottimo lavoro degli attori, ma si avverte la mancanza di uno spessore analitico o introspettivo a tutto il male che il regista ci mostra e con cui ci coinvolge. C’è sì un padre tratteggiato nel suo fallimento, nella sua siderale distanza dai figli, ma questo non basta e certo non spiega sufficientemente le cause di un malessere probabilmente radicato nel nostro tempo.

Riccardo Bellini 21/06/2018

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