Approfondimento

La storia di Diano San Pietro nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

Il borgo, risalente all’età romana, venne ceduto nel 1091 al marchese di Savona Bonifacio I del Vasto

Diano San Pietro

Diano San Pietro. Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata agli approfondimenti storici a cura dello storico di Sanremo Andrea Gandolfo, che oggi ha ricostruito, per i lettori di Riviera24.it, la storia di Diano San Pietro: borgo risalente all’età romana, che venne ceduto nel 1091 al marchese di Savona Bonifacio I del Vasto.

Antichissimo borgo, centro religioso e battesimale della valle, è formato da diversi nuclei abitati dislocati su un territorio distante circa due chilometri dal mare e con un’altitudine media che oscilla tra i settanta e novanta metri (con tratti che arrivano fino a ottocento). Lo stesso capoluogo, costituito da alcuni borghi che portano il nome di antichi casati locali, quali Glorio, Roggeri, Ughi, Giordano, Besta, Colla o Bonaveri, Seassaro, Patriglio, Filiberto e Saguato, è diviso in due parti distinte: quella inferiore, situata presso l’antica pieve matrice di San Pietro, attorno alla quale venne aggregandosi subito dopo il Mille il primitivo villaggio, e quella superiore, dove si formarono successivamente le altre borgate del paese, tra le quali Diano Roncagli, Diano Borganzo e Moltedo, sorte in funzione dell’utilizzo agricolo del suolo. Il toponimo del paese è probabilmente ricollegabile al nome dell’omonimo torrente che percorre la valle o forse anche all’intitolazione della pieve primitiva del borgo.

Nel corso della preistoria il territorio sampietrese era abitato con ogni probabilità da tribù dedite all’agricoltura, alla caccia e alla pastorizia, poi sostituite in età protostorica da gruppi di Liguri Ingauni, che adoravano il dio delle acque Borman, da cui avrebbe preso il nome la foresta locale, detta appunto «Lucus Bormani» (bosco di Bormano), citato tra l’altro nell’Itinerarium provinciarum, risalente al II secolo d.C. Dopo la romanizzazione della valle sembra inoltre che esistesse un tempio dedicato alla dea Diana, detto nella lingua del Lazio Dianium, appellativo che sarebbe stato alla base del toponimo Diano, anche se tale ipotesi e l’esistenza stessa del tempio pagano sono puramente leggendarie non potendo avvalersi del minimo riscontro documentale. Sul probabile insediamento di un vicus romano, che faceva parte del «Pagus Dianius», antica unità amministrativa del Dianese, sarebbe quindi sorta in età paleocristiana la «Villa Sancti Petri», un borgo cristiano che dipendeva dalla Diocesi di Albenga, a sua volta sorta sul territorio dell’antico municipium romano, nei pressi del quale sembra possibile che passasse la Via Giulia Augusta, l’importante arteria stradale che collegava Vado Ligure al fiume Varo rappresentando un indubbio e notevole incentivo per le attività economiche e commerciali dell’intero comprensorio dianese. Dopo la caduta dell’Impero romano la zona sampietrese fu interessata dalle incursioni barbariche, passando prima sotto il dominio longobardo e poi sotto quello carolingio, che istituì il Comitato di Albenga, nel quale venne inglobato anche il territorio dell’attuale Diano San Pietro. Le successive scorribande dei Saraceni tra il IX e il X secolo indussero gli abitanti della fascia costiera a rifugiarsi nell’entroterra, dove sorsero centri abitati di tipo fortificato nei pressi di castelli dei signori feudali, che garantivano protezione e difesa a coloro che si ponevano sotto la giurisdizione dei feudatari, e in particolare dei marchesi arduinici, i quali assunsero il controllo politico e amministrativo della valle dianese nel corso del X secolo. Intorno al Mille fu eretta la pieve di San Pietro, detta «delle due acque» per via dei due torrenti che la chiudono in un cuneo; essa rappresentò la chiesa matrice e battesimale al centro dell’organizzazione ecclesiastica di tutte le valli di Diano. Presso questa chiesa, sede di Pievania, convenivano infatti tutti gli abitanti dell’antica Podesteria nei sabati di Pasqua e di Pentecoste per ricevere il battesimo per immersione, facoltà che venne concessa dal vescovo di Albenga per le mutate esigenze dovute all’espansione delle borgate e all’incremento della popolazione.

Nel 1091 il dominio sulla valle dianese passò al marchese di Savona Bonifacio I del Vasto, il quale, per attribuire maggiore rilevanza e garantire la supremazia spirituale del Castrum Diani, fece pressioni in tal senso presso il vescovo di Albenga Adalberto, che l’11 dicembre 1129, accettate le rimostranze del marchese, trasferì alla nuova chiesa di San Nicola di Diano Castello i diritti, i privilegi e i beni di cui godevano le più antiche pievi di San Pietro, di San Siro e di San Nazario, lasciando alla chiesa di San Pietro, quale unico riconoscimento di priorità, soltanto il diritto, che avrebbe conservato fino al 1784, di tenere processioni solenni nei giorni della vigilia di Pasqua e di Pentecoste per la cerimonia della benedizione dell’acqua santa, alle quali erano tenuti a partecipare non solo i rettori delle chiese della valle di Diano, dei Faraldi, della Calderina e del Borgo della Marina, ma anche lo stesso preposito e i canonici della collegiata di Diano Castello. Il 12 novembre 1172 il marchese Bonifacio di Clavesana concesse ai rappresentanti della popolazione dianese il territorio compreso dalla costa della Capra alla costa di Oneglia e dalla colla del Merlo e Scortegabecco fino al mare eccetto il castello di Evigno, con la facoltà di eleggere propri consoli, amministrare la giustizia, usufruire della bandita, ossia del diritto al pascolo nelle terre riservate fino ad allora al marchese e che perciò diventavano da quel momento in poi di proprietà comunale, e la concessione della libertà di pesca e di tagliare alberi nei boschi, privilegi da sempre spettanti ai feudatari che riscuotevano denaro da chi desiderava partecipare a quei beni. Ventisette anni dopo i consoli dianesi stipularono quindi delle «convenzioni» con la Repubblica di Genova, in base alle quali la Serenissima estese il suo controllo non solo economico e commerciale, ma di fatto anche politico, sui territori della valle di Diano, i quali vennero infine ceduti definitivamente a Genova dai nipoti del marchese Bonifacio Ottone e Bonifacio II Tagliaferro con atto rogato l’8 giugno 1228 nella chiesa di San Nicola a Diano Castello alla presenza di tutto il Parlamento dianese che nell’occasione venne sciolto dal giuramento di fedeltà prestato ai marchesi di Clavesana. Secondo quanto stabilito dagli Statuti della «Communitas Diani» emanati nel 1363, gli abitanti di Diano San Pietro, insieme a quelli della Marina, di Porcili e di Moltedo con la porta di San Giovanni del Borgo, vennero inglobati nella seconda compagna o quartiere dei quattro che componevano il territorio sottoposto alla giurisdizione del Castello di Diano e amministrato secondo le norme fissate nello Statuto locale.

Al 1375 risale invece un documento che dichiarava la chiesa di San Pietro ancora capo e matrice di tutta la giurisdizione della valle dianese, tanto che il 10 ottobre 1499 il vescovo di Albenga Leonardo Marchese consacrò solennemente la chiesa, che ricevette così un privilegio cui avevano diritto soltanto le chiese parrocchiali. Dopo il saccheggio di Diano Marina da parte dei pirati barbareschi avvenuto nel 1508 e dopoché altri paesi della zona costiera furono a loro volta sottoposti ad una selvaggia devastazione che rendevano sempre più incombente e minaccioso il rischio di un’incursione barbaresca anche a Diano San Pietro, il 29 maggio 1564 i Sampietresi inviarono una lettera al vescovo ingauno Carlo Cicada, nella quale chiedevano al presule diocesano il permesso di fortificare a proprie spese la chiesa locale dove potersi rifugiare in caso di pericolo concreto, dato che le loro case erano sparse per le colline e quindi non facilmente difendibili dagli attacchi esterni. Fu allora concesso agli abitanti di San Pietro di circondare la chiesa con un muro che poteva appena riparare la popolazione in via peraltro del tutto provvisoria. I Sampietresi trovarono allora un’altra soluzione al problema fortificando il convento di Santa Caterina di Genova con bertesche, cioè ripari mobili in grado di alzarsi e abbassarsi a protezione dei difensori, e rivellini, ossia opere addizionali costruite allo scopo di proteggere la cortina, aumentando così la capacità di difesa della struttura, in qualità di avamposto ubicato alcune centinaia di metri più a sud della chiesa. Le spese di tali fortificazioni furono poi definitivamente coperte con un lascito di don Tommaso Bonfante, un agiato religioso di Diano Castello che fondò varie opere pie tra cui quella per la redenzione degli schiavi. Il controllo della fascia costiera portò anche ad una lite tra gli abitanti di San Pietro e quelli della Marina nel 1600, dovuta al fatto che i primi si erano rifiutati di montare la guardia sul bastione ubicato sulla spiaggia di Diano in quanto era stato costruito in alternativa un posto di guardia sulla collina dell’Angelo a circa un miglio dal mare, dove i Sampietresi avevano deciso di svolgere il loro turno di guardia per avvertire le popolazione di eventuali arrivi di vascelli barbareschi. Dopo le proteste dei Dianesi che insistevano sul fatto che la guardia si sarebbe dovuta montare vicino al mare dove era più facile avvistare le navi nemiche e quindi dare l’allarme ai paesi della vallata, i Sampietresi riuscirono a raggiungere un compromesso tramite la costruzione di un nuovo bastione nei pressi della riva, dove acconsentirono a montare la guardia in sostituzione del posto di guardia ubicata sulla collina dell’Angelo.

Nel corso del XVII secolo anche la zona di Diano San Pietro fu interessata dal nuovo fenomeno rappresentato dall’acquisto, da parte di note famiglie patrizie genovesi, di vaste proprietà agricole, che venivano coltivate da famiglie locali in qualità di fittavoli, massari, coloni e fattori in rapporti con il proprietario tramite un amministratore, un procuratore o un agente in genere e sovente anche tramite ecclesiastici i quali riscuotevano grande fiducia da coloro che a Genova erano impegnati in altre occupazioni. Dopo l’introduzione della coltivazione dell’ulivo nelle terre del litorale dianese nel primo Cinquecento (nel Trecento si estendeva infatti solo sulla collina), un tempo tenute a «bandita», i potenti di Genova, constatata la possibilità concreta di ricavare ingenti guadagni dalla monocoltura così pregiata ma poco estesa nel Genovesato, cercarono di introdurre nella zona la grande proprietà terriera, che tuttavia non si sarebbe affermata in quanto la diffusa tendenza alla piccola proprietà da parte dei contadini locali avrebbe alla fine avuto il sopravvento. Quando poi, nel settembre del 1746, il Dianese venne occupato dalle truppe austro-piemontesi, il re di Sardegna Carlo Emanuele III insediò un’amministrazione che si preoccupò di tassare in modo pesante le proprietà di questi Genovesi se si erano trattenuti in loco, o le confiscò se erano fuggiti nel capoluogo ligure, dimostrando così di essere nemici dei Savoia. Per tali motivi si procedette alla compilazione di elenchi con nominativi di proprietari e di località, da cui emerge la realtà contadina locale, dove i sovrani sabaudi avrebbero voluto introdurre la grande proprietà terriera; tale tentativo non sarebbe tuttavia riuscito ai marchesi di Clavesana, ma avrebbe ottenuto discreti risultati con questa inchiesta, in seguito alla quale la situazione tornò alla fase precedente caratterizzata dall’estrema frammentazione delle tenute agricole. A Diano San Pietro, in particolare, il patrizio Angelo Dominici possedeva parecchi terreni ulivati di cui era fattore Giacomo Andrea Seassaro e fittavoli Giobatta Giordano, Pietro Francesco Roggero e Giuseppe Bonavera, che pagavano la pigione il giorno di San Michele a Giobatta Bonavera. L’aumentata espansione degli uliveti grazie all’opera dei grandi proprietari genovesi portò anche ad un notevole incremento della produzione olearia in tutto il Dianese, dove si passò dai circa 20.000 barili d’olio prodotti nelle annate del XVI secolo ai circa 30.000 nel corso delle annate del Settecento. Il 17 aprile 1712 il governatore di Sanremo, che aveva giurisdizione pure sul territorio sampietrese, aveva intanto concesso una «bandita» agli abitanti di San Pietro, i quali, vista la povertà della loro chiesa parrocchiale, furono autorizzati a pascolare le pecore nei terreni gerbidi situati sulle montagne circostanti l’abitato, anche se in paese vigeva già una «bandita», che consisteva nel diritto di vendita da parte della Chiesa delle erbe selvatiche nel periodo compreso tra novembre e marzo.

Sempre alla chiesa di Diano San Pietro spettava anche il diritto sancito con atto rogato il 6 ottobre 1697 dal notaio Novaro, in forza del quale venne concesso a tutto il 10 marzo ad un certo Ramoino la facoltà di far pascolare un gregge di 160 pecore nelle zone gerbide del territorio della Villa di San Pietro; i contraenti dell’atto furono da una parte il pastore Ramoino e dall’altra i deputati dell’«Università» della Villa di Diano San Pietro insieme al curato e ai massari della chiesa parrocchiale. La chiesa continuò quindi ad esercitare simili diritti con l’approvazione dei proprietari dei terreni gerbidi tramite un atto rogato dal notaio Novaro del 19 ottobre 1711 per cui il massaro e il curato avrebbero venduto gli erbaggi d’inverno fino al primo marzo 1712 con l’autorizzazione dei contadini della zona. Tale situazione avrebbe tuttavia provocato un vivo malcontento tra i Sampietresi tanto che, con atto del 20 agosto 1770 il notaio Giacomo Francesco Bottino, il curato aveva portato la questione davanti a tutti gli abitanti del paese, riuniti nella chiesa, che però, alla specifica domanda del curato reverendo Angelo Maria Ugo se avessero dovuto vendere gli ortaggi della «bandita» secondo l’uso antico, la quasi totalità dei presenti rispose affermativamente. Dall’esame di tale atto si evince inoltre che i massari non solo avevano venduto gli erbaggi, ma avevano anche promesso al compratore di difenderlo e indennizzarlo da qualsiasi persona che avesse preteso di molestarlo nel possesso delle bandite per cagionargli del danno, garanzia questa che prova in modo inconfutabile come la chiesa di San Pietro avesse il diritto di alienare i pascoli nei terreni delle bandite senza che fosse concesso a chiunque di contravvenire a tali diritti che rappresentavano una prerogativa esclusiva delle autorità ecclesiastiche.

Dopo l’occupazione del territorio sampietrese da parte delle truppe austro-piemontesi tra il 1746 e il 1748, quando il comandante sabaudo De Gubernatis ordinò di provvedere ad un taglio di boschi sui territori di Diano Roncagli e Diano Arentino per un quantitativo di 3000 rubbi da assegnare alle truppe del comandante conte di Santa Croce, Diano San Pietro, in seguito alla proclamazione della Repubblica Ligure nel giugno del 1797, venne inserito nel Cantone di Diano, il sesto della Giurisdizione degli Ulivi, entrando quindi a far parte, a partire dal 1805, dell’Impero napoleonico sotto l’amministrazione del Dipartimento francese di Montenotte. Prima e durante il periodo napoleonico dalla piazza fiancheggiante l’Oratorio di Santa Croce, soprannominata «delle Armi», partivano le compagnie della Guardia Nazionale addette alla guardia costiera, dove i Sampietresi prestavano servizio ai posti di guardia della Torre di Sant’Erasmo a Sant’Anna e della masseria, detta «Lo Stagnone», situata in località Ponti Rossi. Caduto il regime imperiale, nel 1815 Diano San Pietro venne inglobato, in qualità di Comune autonomo, nel Mandamento dianese passato in quell’anno insieme al resto del territorio ligure sotto la giurisdizione del Regno di Sardegna. Durante la successiva età della Restaurazione il paese visse un periodo di notevole crescita economica grazie al consistente incremento della produzione agricola, nella quale spiccava quella di vino, cereali, legumi e soprattutto olio, poi commercializzato su larga scala dai porti delle località costiere, mentre era particolarmente rilevante anche l’apporto produttivo fornito dall’allevamento del bestiame, costituito da circa duemila capi, suddivisi in 550 bovini, 600 muli e 750 pecore, dal quale si ricavava pure una notevole quantità di latte, oltre all’utilizzo di buoi per l’aratura dei terreni ulivati.

Dopo la cessione del Nizzardo alla Francia nel 1860, Diano San Pietro entrò a far parte della neocostituita provincia di Porto Maurizio continuando il suo sviluppo economico e sociale fino al 23 febbraio 1887, quando il devastante terremoto del Ponente ligure, che tante vittime e danni avrebbe provocato nei vicini centri di Diano Marina e Diano Castello, non causò fortunatamente né morti né feriti a Diano San Pietro, dove tuttavia la popolazione rimase fortemente sconvolta dal gravissimo rischio corso, tanto che, ad esempio, una vecchia novantenne si adattò a vivere per mesi all’aria aperta al riparo di un lenzuolo. Nei mesi successivi al sisma ventiquattro sampietresi ricevettero un mutuo dallo Stato pari a 33.020 lire, mentre 1100 lire vennero destinate dalle autorità centrali a lavori urgenti di riparazione degli edifici comunali rimasti danneggiati a causa del terremoto. Alla vigilia della prima guerra mondiale il paese visse un periodo di notevole sviluppo delle attività sociali e delle opere pubbliche, come dimostrato dalle disposizioni adottate dal Consiglio comunale nel giugno 1914, con cui vennero approvati lavori addizionali relativamente alla costruzione di varie strade municipali, quali piazza d’Armi, strada Ughi, Glori e Rampa Multedo, mentre era stata effettuata anche una pulizia straordinaria della fonte detta «Borraccia» di proprietà comunale, con acqua di sorgente, in contrada Seassari. Nel settembre successivo il commissario prefettizio Di Cesare emanò un’ordinanza con la quale suggeriva la tempestiva deliberazione del regolamento locale di polizia urbana ed invitava le autorità locali a dotare al più presto il paese di un’adeguata illuminazione pubblica. Alla fine di settembre fu anche deliberato lo stanziamento di un fondo speciale di cento lire a favore del Patronato per le spese di esercizio e funzionamento delle scuole, mentre anche il settore commerciale veniva incentivato grazie alla stipulazione di un contratto per l’abbonamento del dazio governativo sulla carne e per la cessione di quello sul vino ed altre bevande alcooliche tra la Giunta Municipale e i rivenditori di carne e di vino del Comune per il quinquennio 1906-1910.

Conclusa la prima guerra mondiale, durante la quale caddero anche alcuni soldati sampietresi, nel 1919 il Comune avviò un’intensa attività imprenditoriale, che trasse notevole impulso da un atto, rogato il 9 marzo dal notaio Emilio Tassi nella sala delle adunanze della Fabbriceria della chiesa parrocchiale, con cui venne istituita la Cassa Rurale di Prestiti di Diano San Pietro sotto forma di società cooperativa in nome collettivo, che aveva lo scopo di far credito ai soci con deposito dei soci stessi e di terzi, di acquistare all’ingrosso e di distribuire ai soci i prodotti necessari all’agricoltura, oltre a produrre articoli semilavorati e lavorati e vendere le merci fornite dai soci per conto della cooperativa, la quale, in seguito all’ingente deficit accumulato, sarebbe stata alla fine sciolta su deliberazione dell’assemblea straordinaria dei soci riunita il 23 dicembre 1923 nell’Oratorio di Santa Croce, che assunse tale decisione per la perdita dei due terzi del capitale sociale della cooperativa stessa.

Dopo l’annuncio della stipulazione dell’armistizio con gli Alleati nel settembre 1943, la zona sampietrese divenne teatro di un’intensa attività partigiana, mentre i Tedeschi stazionavano spesso sulla piazza del paese minando anche il ponte sul torrente omonimo; nella primavera del ’44 i nazisti si insediarono nei baracconi della Cassa Rurale, mentre in agosto stesero un campo minato intorno alla frazione di Moltedo dove inviarono sovente truppe a riposo, che abitavano in casa di Giovanni Glorio e di altre famiglie, abbandonando poi la località in ottobre, ritornandovi però sporadicamente per compiere azioni antipartigiane. In paese operò il distaccamento «F. Agnese» della I Brigata d’Assalto Garibaldi «S. Bonfante», mentre la notte del 21 novembre ’44 il garibaldino Carlo Mosca, con alcuni compagni appartenenti al distaccamento «A. Viani», riuscì a sminare il campo minato di Moltedo, dove erano presenti numerosi Tedeschi, che il 2 agosto precedente avevano ucciso in località «Besta» il civile Nicola Saguato, colpevole di aver difeso la propria abitazione imbracciando un’accetta. Nel corso della guerra di Liberazione gli abitanti di Diano San Pietro fornirono anche numerosi muli ai partigiani della II Divisione «F. Cascione» e della VI Divisione «S. Bonfante», con i quali collaborò attivamente pure il CLN locale, formato dai comunisti Ercole Saguato, Giobatta Risso e Stefano Saguato, mentre, alla fine di dicembre del ’44, era stata costituita una giunta comunale, che risultò composta dal socialista Carlo Giordano in qualità di sindaco, dal democristiano Pantaleo Cavassa e dal comunista Giobatta Risso. Nel secondo dopoguerra l’economia sampietrese si sviluppò ulteriormente grazie al potenziamento della floricoltura, della viticoltura, con produzione limitata di Chiaretto di Diano San Pietro e Vermentino, dell’olivicoltura e, in tempi più recenti, del turismo, specialmente estivo, che appare in continua crescita e può avvalersi di una discreta offerta basata su due ristoranti ubicati in località Borganzo e a Diano Roncagli e su una pensione in grado di ospitare i turisti in un ambiente curato e accogliente.

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