Storia locale

Castelvittorio nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

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Castelvittorio. Aurigo. Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata agli approfondimenti storici a cura dello storico sanremese Andrea Gandolfo che oggi ha ricostruito per i lettori di Riviera24.it la storia del borgo di Castelvittorio.

«Situato in posizione strategica a 420 metri di altitudine sulla sommità di un ripido colle calcareo marnoso eocenico di fronte a Pigna e al Monte Toraggio, che si protende all’interno della valle accerchiata dalla catena della prealpi liguri con i monti Ceppo, Oliveto, Cavanelle, Mela, Barreira e San Sebastiano. Il territorio comunale, confinante con i comuni di Triora, Molini di Triora, Baiardo, Apricale, Isolabona (limitatamente alla frazione Bonda) e Pigna, conserva al proprio interno un’isola amministrativa, cioè una porzione di territorio, appartenente al limitrofo comune di Pigna, e precisamente il bosco di Gordale, costituito in gran parte da castagni. L’antico borgo medievale, formato da un nucleo ellittico che raggiunge la parte sommitale con la chiesa (dove un tempo sorgeva anche il castello) e contornato da un anello di case occupanti la parte bassa e che si prolunga linearmente per un breve tratto lungo il crinale, appare dalla Colla di Pigna come un imprendibile bastione estremamente compatto. Da sud, ossia dal contrafforte che dal Monte Vetta a 734 metri di altitudine, seguendo una direzione da occidente ad oriente, fino al Monte Ceppo, vero e proprio nodo oro-idrografico di tutta l’area compresa tra i torrenti Argentina e Nervia, il centro del paese mostra con maggiore articolazione la sua pianta a cuneo, completata da un asse che risale brevemente il colle verso la chiesetta semidistrutta di San Luigi, mentre, sullo sfondo, verso settentrione, il paesaggio è dominato dalla mole imponente e massiccia del Monte Toraggio, che raggiunge l’altitudine di 1972 metri sul livello del mare, sulle cui pendici si distendono vasti uliveti, oggi in gran parte abbandonati.

Il paese presenta nel suo aspetto e nella sua configurazione topografica le caratteristiche tipiche dei borghi liguri montani, costituiti da un nucleo centrale medievale, cui fanno da corona edifici più moderni, compresi in una seconda cinta muraria di epoca secentesca. Il centro antico del borgo, formato da case di pietra non intonacate e addossate tra loro, è detto paraixu o astregu, dal latino astricum, e comprende la piccola piazza ai cui lati sorgevano l’antica sede comunale, la chiesa e le abitazioni più vetuste collegate con la piazza tramite i carruggi, talora coperti, in pendenza o costituiti da scalinate, mentre nel Seicento l’ingresso al borgo era garantito da quattro porte aperte nella cinta muraria, da cui fino all’inizio del XVI secolo si entrava invece da una sola porta che recava al centro lo stemma della Repubblica di Genova. Il toponimo, chiamato nel dialetto locale semplicemente kastè, era denominato originariamente Castrum Dodi, ossia Castel Dho o Castel Doy, ma anche, in forme derivate, Castel DooDoi o Do, con chiaro riferimento al nome Dodo, di sicura origine germanica, che allude evidentemente al feudatario proprietario del borgo e vassallo dei Conti di Ventimiglia o al comandante del presidio militare locale; l’appellativo Dodi venne poi sostituito dall’aggettivo franco, cioè libero, in seguito all’affrancamento del paese dai vincoli feudali, mentre la forma attuale fu deliberata dopo l’Unità d’Italia in omaggio a Vittorio Emanuele II di Savoia.

Il territorio di Castelvittorio risulta abitato fin dall’età del Ferro da popolazioni che erano dedite prevalentemente all’agricoltura e alla pastorizia e vivevano in grotte di cui sono rimasti resti in località Barma di Miuran, mentre, all’epoca dei celto-liguri la zona dell’alta Val Nervia venne occupata dalle tribù ligure degli Eburiati, facente parte dei Liguri Intemeli, la quale dovette presumibilmente costruire un castellaro sulla sommità del borgo attuale per fini difensivi, come attestato dal rinvenimento di un’antica pietra della lunghezza di circa due palmi su cui sono stati incisi solchi e coppelle da parte degli abitatori del castellaro preromano.

Dopo la conquista romana, che venne ottenuta soltanto in seguito alla vittoria sulle popolazioni locali alla fine di una lunga ed estenuante guerriglia, i Romani costruirono sulle rovine dell’antico castellaro un castrum o oppidum ben munito, su cui sarebbe poi stato eretto il castello medievale del feudatario dei conti di Ventimiglia. Nel primo secolo d.C. la tradizione colloca inoltre l’evangelizzazione dell’alta Val Nervia da parte dei santi Nazario e Celso e dei vescovi Frodonio e Fabiano, mentre nei pressi dell’attuale chiesa di Nostra Signora di Nogareto esisteva probabilmente un antico tempio pagano, dove si tramanda che gli Eburiati abitanti l’attuale territorio di Castelvittorio, scesi dalla Valle Gordale e dalle terre dei Doj, si riunissero per ascoltare la nuova parola cristiana e discutere insieme dei loro diritti e doveri, tanto che ancora oggi un’esigua pianura non lontana dalla chiesa di Nogareto è denominata l’«Astee», che indica il luogo sul quale i pastori prestavano giuramento dopo le riunioni religiose siglando ogni promessa – in base all’antica consuetudine barbarica – tramite il conficcamento in un cerchio descritto a terra delle loro aste da caccia.

Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente il borgo subì le pesanti conseguenze delle scorrerie barbariche passando prima sotto il dominio dei Goti e poi sotto quello dei Longobardi di Rotari, che nel 643 devastò molti paesi dell’estrema Liguria di Ponente, fino all’occupazione dei Franchi di Carlo Magno, il quale introdusse il regime feudale assegnando l’alta Val Nervia alla giurisdizione del Comitato di Ventimiglia. Nel X secolo la zona fu interessata dalle violente incursioni dei Saraceni, che seminarono morte e terrore soprattutto lungo la fascia costiera, da dove molti fuggiaschi si trasferirono nell’alta Val Nervia per sottrarsi al pericolo delle incursioni, incrementandovi l’agricoltura e la pastorizia, mentre i centri di Pigna e dello stesso Castel Dho vennero distrutti dai Saraceni costringendo i superstiti a rifugiarsi nelle campagne circostanti, dove fondarono dei piccoli agglomerati di case, quali Succa, Pomo, Valleggia e Morghe, che, a partire dal XVI secolo, sarebbero diventati frazioni di Castelfranco con proprie cappelle e luoghi di sepoltura.

Nei secoli XI e XII si assistette invece al graduale ripopolamento della zona con una sempre più diffusa azione di molti missionari, fioriti dal tronco dei Benedettini e di altri ordini, che, oltre a diffondere la fede cristiana, si impegnarono concretamente al fine di risollevare le sorti dell’umile condizione delle genti del tempo, alle quali insegnarono i metodi più proficui per l’irrigazione dei campi e il funzionamento dei frantoi anche tramite la costruzione dei primi due frantoi del paese e di lunghi bedali per la raccolta e l’incanalamento delle risorse idriche. Intanto, attorno alla primitiva chiesa, si cominciavano a raggruppare le prime compagne di pastori e agricoltori sparsi nelle varie terre ubicate nei dintorni del castello, dando origine a una vera e propria organizzazione comunale, che si consolidò definitivamente nel corso della seconda metà del XII secolo, mentre nell’alta Val Nervia andava progressivamente decadendo la potenza dei Conti di Ventimiglia e dei loro castellani, tanto che l’antico maniero comitale venne distrutto e sulle sue rovine furono costruite la nuova chiesa parrocchiale e la sede del Comune, cui tutt’intorno cominciarono ad essere edificate le prime case private del nuovo borgo, che venne cinto di mura e dotato di una torre fortificata.

Le successive profonde discordie sorte tra i vari componenti della famiglia comitale dei Ventimiglia, possessori dei vari lotti nei quali si trovava smembrato l’antico vasto dominio feudale, discordie alimentate ulteriormente dalla Repubblica di Genova da un lato e dai conti di Provenza dall’altro, finirono per esautorare completamente il potestà dei conti intemeli in tutta la Val Nervia nella seconda metà del Duecento. Infatti, dopo aver costretto i conti di Ventimiglia a cedere gradualmente molti loro possedimenti con una serie di convenzioni stipulate tra il 1146 e il 1218, il Comune di Genova mirò decisamente ad assumere il controllo delle principali valli dell’estrema Liguria occidentale acquisendo il 4 marzo 1261 dal conte di Badalucco Bonifacio il castello di Triora e la metà dei castelli e delle ville di Dho, Arma e Bussana per 2300 lire genovesi, mentre l’altra metà del castello di Dho faceva già parte del territorio triorese.

Pochi anni prima il conte Guglielmo e i conti Bonifacio e Giorgio avevano ceduto invece a Carlo d’Angiò, conte di Provenza, i loro diritti sulla Valle Lantosca e su vari paesi già appartenenti al Comitato di Ventimiglia, tra i quali Pigna e Rocchetta in Val Nervia (paesi che sarebbero passati nel 1388 sotto il dominio del conte Amedeo VII di Savoia insieme alla Contea di Nizza), mentre il capitano Oberto Doria, con atti del gennaio 1270 e aprile 1276, entrava in possesso del borgo di Dolceacqua, al quale si sarebbero aggiunti negli anni successivi Apricale, Isolabona e Perinaldo, in modo tale che, verso la fine del XIII secolo, il dominio dei conti intemeli sulla Val Nervia era definitivamente tramontato a vantaggio della Repubblica genovese e della Contea provenzale.

Dopo essersi liberato da quasi tutte le servitù che il paese doveva pagare al Comune di Triora in forza della convenzione stipulata con le autorità trioresi il 13 luglio 1280, a cui seguì un altro decreto, emanato l’8 dicembre 1282 dal capitano del popolo genovese Oberto Doria anche per conto del suo collega capitano Oberto Spinola, con il quale il borgo venne esentato dal pagamento delle decime che nei secoli scorsi era obbligato a corrispondere al feudatario, e in virtù dell’ottenimento del privilegio di poter giudicare nella Corte locale le cause civili, conseguito con decreto del 27 novembre 1279 emesso dai capitani del popolo della Repubblica Oberto Spinola e Oberto Doria, Castel Dho assunse quindi la denominazione di «Castelfranco», ossia castello liberoaffrancato dai gravami feudali, nome che avrebbe poi mantenuto per quasi sei secoli fino alla seconda metà dell’Ottocento. Nella convenzione con Triora, firmata nei pressi di Carmo Langan dal podestà triorese Federico Vezzano e dal sindaco di Castel Dho Guglielmo Tarenca, erano stati inoltre delineati i confini dei pascoli alpestri tra i due paesi, indicando con precisione i luoghi dove era consentito o vietato pascolare su un territorio comune, falciare il fieno, tagliare la legna, seminare e praticare la caccia nel territorio di Castel Dho, mentre circostanziati accordi regolavano minuziosamente anche il pascolo nelle alpi di Cignarea e la coltivazione dei terreni situati in Tenarda e in Langan e la reciproca tutela di persone e cose attraverso una dettagliata elencazione delle sanzioni pecuniarie a cui sarebbero andati incontro coloro che si fossero resi responsabili di furti, danneggiamenti o sconfinamenti di bestiame.

Lo stesso giorno della stipulazione della convenzione con Triora, la comunità di Castelfranco ne raggiunse un’altra con la vicina Pigna relativa alle modalità di lavoro e all’uso dei pascoli e delle acque nel territorio di Tenarda. L’atto, stipulato sul Carmo di Donforice alla presenza dei delegati castellesi Oberto Milo, Oberto Delpio, Guglielmo Orengo e Giovanni Lavina, puntualizzava nei dettagli le modalità e il tempo di lavoro nella zona interessata dall’accordo, che precisò inoltre la destinazione delle varie sorgenti situate nel territorio di Tenarda. Dopoché si era consolidato anche a Castelfranco l’istituto comunale con i suoi Statuti e il suo Parlamento sotto l’egida della Repubblica di Genova, la Val Nervia venne coinvolta nel corso del XIV secolo da una serie di guerre tra i Guelfi, capeggiati dalla Casa d’Angiò e dai Grimaldi, e i Ghibellini, guidati dai Doria di Dolceacqua.

Una breve tregua, firmata a Pigna il 9 febbraio 1331, non riuscì tuttavia a porre fine al lungo conflitto, che si riacutizzò quando Carlo Grimaldi, che comandava le truppe guelfe, si impossessò tra l’altro di Castelfranco, dove pose un suo presidio nella rocca del paese. Il doge Simon Boccanegra inviò allora all’assedio del borgo un forte contingente agli ordini del vicario nella Riviera di Ponente Gottifredo da Zoagli e del podestà di Triora Giovanni da Mangano, ai quali i Castellesi, fatti salvi i loro Statuti, le loro prerogative e i loro privilegi, alfine si arresero con atto firmato il 15 luglio 1344 in località Colletta alla presenza, tra gli altri, di Oliviero e Morruele Doria di Dolceacqua. A tale atto seguì quindi la solenne promessa di sottomissione alla Repubblica, formulata il 3 settembre successivo a Genova davanti al doge e all’intero Consiglio, presenti anche i due nunzi e ambasciatori Giacomo Rebaudi e Guglielmo Millo, che erano stati espressamente inviati dalla comunità castellese nella capitale. La definitiva pace tra Guelfi e Ghibellini nella tormentata Val Nervia venne infine stipulata al confine tra il territorio di Pigna e quello di Castelfranco sul ponte del Lago Pigo il 24 marzo 1365.

Nel frattempo i contrasti tra Castelfranco, Pigna, Triora e Buggio per la questione dei pascoli in zone contese sfociarono nell’arbitrato concluso il 5 aprile 1351 presso la chiesa di Santa Maria di Nogareto alla presenza del vicario generale della Riviera occidentale Seigobono, del signore di Salice e vicario del Capitanato della comunità di Ventimiglia e della Valle Lantosca e dei podestà trioresi Cristiano Grimaldi e Antonio de Falisana, nelle vesti di arbitri compositori amichevoli. L’importante accordo, la cui sentenza fu letta e pubblicata dal notaio Nicola de Marevi di Rapallo alla presenza di Pietro Giudice di Ventimiglia, Romolo Ascanio di San Romolo, Guglielmo Boerio di Sospello e Giovanni Boia e Bartolomeo Peirone di Penna in qualità di testimoni, riconfermando i vecchi confini tra le rispettive comunità, stabilì che i pastori dei quattro paesi potevano far liberamente abbeverare le loro bestie nel Rio Grande di Tenarda; inoltre decise che, qualora le greggi di un paese avessero invaso il territorio di un altro, i pastori sarebbero stati tenuti a pagare la sanzione di sedici soldi di Genova, e condannò infine i sindaci di Castelfranco e di Triora al pagamento di una multa di cinquecento lire genovesi per i danni e le ruberie fatte agli uomini di Pigna e Buggio da pastori castellesi e trioresi.

Non molti anni dopo venne stipulato invece un trattato di buon vicinato con Triora, siglato nei pressi di Carmo Langan il 20 giugno 1379 dal sindaco triorese Francesco Sardo e dai sindaci di Castelfranco Pietro Rebaudo e Giovanni Peverello, soprattutto al fine di trovare di comune accordo una soluzione per i pascoli di Langan, oggetto di quotidiani scontri per ottenerne il possesso. L’accordo, che tentava di risolvere l’annoso problema derivante dai contrasti sorti in merito alla stima di eventuali danni e all’applicazione delle relative sanzioni pecuniarie su un tratto di terreno di proprietà comune, stabilì delle norme precise in grado di garantire l’equità dei giudizi ed emanò disposizioni che fissavano l’ammontare delle multe per eventuali danni arrecati dal bestiame transitante nella zona di proprietà comune dei due paesi.

Nel corso dei successivi secoli XV e XVI il borgo seguì le sorti della Repubblica di Genova, alla quale si mantenne sempre fedele alle leggi e ai governi, soprattutto nei confronti della vicina Pigna, possedimento sabaudo, dalla quale era diviso amministrativamente dal confine del ponte di Lago Pigo sul Nervia e con la quale sostenne numerose vertenze soprattutto per via dell’uso delle acque del torrente e per il possesso e la giurisdizione del Monte Gordale, situato nel territorio di Castelfranco, ma sul quale i Pignesi vantavano antichi diritti in virtù della convenzione stipulata il 10 febbraio 1226 e della sentenza arbitrale siglata il 31 ottobre 1477, che precedeva un compromesso relativo al territorio conteso raggiunto il 5 aprile dello stesso anno.

Nei primi decenni del Cinquecento si verificò inoltre un ulteriore incremento del numero delle case che costituivano il centro del borgo, tanto che il 16 febbraio 1515 i consoli e i sindaci del paese scrissero al doge di Genova Ottaviano Campofregoso per ottenere l’autorizzazione ad aprire una seconda porta di accesso e di uscita dalla cinta muraria resasi necessaria per l’aumento della popolazione, ricevendone quindi parere favorevole dallo stesso Campofregoso e dal Consiglio il 5 marzo successivo. Nel 1579 il paese fu colpito invece da una devastante epidemia di peste, che indusse le autorità della Repubblica ad intimare al podestà di Triora di sorvegliare le strade della Podesteria per evitare che nessun forestiero entrasse nel territorio dello Stato, né che qualsiasi cittadino della Repubblica, sospettato di morbo, potesse circolare liberamente, mentre venivano istituiti gli «Uffiziali di Sanità» con annessa milizia di frontiera, alcuni dei quali vissero ed operarono proprio a Castelfranco, in qualità di posto avanzato del Genovesato, dove gli abitanti, impossibilitati a rifornirsi di viveri sulla Riviera, cercarono di alimentarsi nelle campagne con gli stenti e i timori di contagio che aumentavano di giorno in giorno in una situazione di estrema precarietà, che durò per due anni, durante i quali persino gli animali vennero abbattuti in gran numero in quanto erano ritenuti veicoli di possibili infezioni.

A queste calamità si aggiunse l’opera di alcuni fanatici che nel gennaio 1588 denunciarono agli inquisitori civili e religiosi, che stavano processando un gruppo di presunte «streghe» della Podesteria di Triora, una certa Gentile Moro di Castelfranco, moglie del calzolaio Giacomo, la quale venne condotta nelle carceri trioresi e sottoposta ad ogni genere di torture e sevizie per estorcerle una confessione dei suoi «crimini» fino a quando, insieme ad altre cinque infelici, non venne condannata a morte a Badalucco il 30 agosto 1588, ma la sentenza non venne fortunatamente mai eseguita per intervento del Senato della Repubblica e del cardinale di Santa Severina.

La Gentile ed altre cinque condannate vennero trasferite nelle carceri genovesi, dove non sarebbero però sopravvissute agli stenti e alla denutrizione. Nuovi lutti sopraggiunsero nell’aprile 1625 quando il paese venne bombardato dalle truppe del duca di Savoia Carlo Emanuele I nel corso della prima guerra tra la Repubblica di Genova e il Ducato sabaudo, i cui militi penetrarono in Castelfranco saccheggiando il borgo ed asportando dalla casa comunale anche tutti i documenti d’archivio; la dominazione sabauda era destinata comunque a durare poco in quanto il governo genovese inviò tosto in Val Nervia un forte esercito al comando del barone di Vatteville, il quale non solo liberò Castelfranco, ma costrinse alla resa anche la vicina Pigna, dove il comandante delle truppe sabaude de Flechy firmò la capitolazione il 12 settembre 1625 consegnando il paese ai Genovesi, che vi sarebbero rimasti fino al 5 luglio 1633 quando venne stipulata la pace tra i Savoia e la Repubblica. Nel maggio del 1627, frattanto, le truppe genovesi di stanza a Castelfranco, agli ordini del capitano Ambrosio Lodovisio e affiancate da un gruppo di milizie locali, su ordine del Senato genovese, avevano tentato di occupare Buggio, centro sabaudo di grande importanza strategica per i collegamenti con Triora e la Valle Argentina, dandosi tuttavia ad una serie di efferatezze con il massacro di ben ventisei abitanti del borgo tra i quali anche donne e bambini, tanto che le autorità genovesi, in seguito alle vibrantissime proteste del governo sabaudo, furono costrette ad intentare un processo ai maggiori responsabili di così gravi crimini e violenze, dei quali alcuni furono giustiziati ed altri morirono di stenti nelle carceri di Alassio.

   Altre gravissime privazioni dovette subire la popolazione castellese in occasione della seconda guerra tra Genova e i Savoia nel 1672, dopo la quale il paese visse un periodo di relativa tranquillità intervallato soltanto dal riaffiorare di secolari discordie con il borgo di Pigna in merito ai confini del Monte Gordale, i quali, dopo lunghe e laboriose trattative, furono tracciati, il 23 settembre 1732, dall’ingegner Gio Pietro Audiberto per parte del re di Sardegna e dal capitano Tallone della Repubblica di Genova, senza però che si giungesse ad una soluzione definitiva della controversa questione tanto che negli anni successivi alcuni proprietari del luogo vennero a diverbio ed effettuarono pesanti interventi in deroga ai patti del 1732, finché non si pervenne ad un nuovo accordo il 30 luglio 1736 tra l’ingegnere Francesco Garella per il re di Sardegna e il colonnello Matteo Vinzoni per la Repubblica di Genova, i quali fissarono concordemente i nuovi termini della zona contesa con una sentenza assai ragionevole, che non evitò tuttavia neanche questa volta il riaccendersi di alcuni focolai di discordia, poi definitivamente sopitisi soltanto con l’annessione di tutta la valle al Regno di Sardegna. Nella successiva guerra tra il Regno sabaudo e la Repubblica di Genova Castelfranco venne assediato dalle truppe piemontesi guidate dal conte Alfieri, il quale, la mattina del 16 luglio 1745, fece accerchiare il paese dai suoi soldati, mentre gli armati genovesi all’interno della cinta muraria, comandati dal maggiore Orengo, si apprestavano ad attrezzarsi allo scopo di resistere ad oltranza all’assedio dei nemici, che due giorni dopo furono cacciati da un contingente genovese giunto sul posto a rinforzo degli assediati.

Il 15 aprile dell’anno successivo giunsero invece in paese alcune centinaia di soldati francesi al comando del brigadiere Cattheler, il quale sferrò subito un violento attacco contro Pigna, dove i militi franco-spagnoli si lasciarono andare ad un violento saccheggio che non risparmiò niente e nessuno, provocando la ferma reazione dei Pignaschi, che, addossando la colpa alle milizie scelte di Castelfranco e affiancati da soldati sabaudi, si presentarono davanti alle porte del paese confinante il 7 agosto 1747 e, dopo aver compiuto rapine e distrutto tutto quello che avevano trovato sulla loro strada, si portarono sulla torre campanaria e vi asportarono due campane, le quali, a differenza di quelle prelevate l’anno prima a Pigna dai Castellesi e poi infrante e disperse, sarebbero state issate sul loro campanile, mentre la comunità di Castelfranco decideva di tramandare ai posteri l’infame azione compiuta dai loro dirimpettai con l’apposizione di una targa al posto delle campane sottratte nella quale furono scritti due distici in latino a ricordo dell’episodio. Un ben più drammatico evento colpì invece il paese nel 1759-60 quando si verificò una gravissima carestia che portò la popolazione alla fame, mentre i campi erano inariditi dalla siccità, le famiglie erano costrette ad acquistare le farine dai centri vicini per la produzione del pane e i possidenti del luogo affittavano i loro terreni a prezzi particolarmente esorbitanti con la giustizia, che, istigata dalla cieca superstizione popolare, arrivò persino ad imprigionare dei cittadini semplicemente perché erano sospettati di aver «provocato» la carestia.

 Alla fine del Settecento anche Castelfranco venne raggiunto dalle idee rivoluzionarie provenienti dalla vicina Francia, le quali, unitamente alle misere condizioni economiche del borgo, furono la causa di una sommossa, scoppiata il 26 dicembre 1792, quando un gruppo di circa duecento uomini, sobillati da alcuni individui esiliati dalla Francia, prese le armi e al canto del Ça ira si recò a catturare una grossa mandria di pecore e capre che pascolavano sul territorio castellese, delle quali cinque furono subito uccise e distribuite alla popolazione festante. Informato del fatto dal podestà di Triora, il governatore di Sanremo Vincenzo Spinola inviò allora a Castelfranco un picchetto armato di quaranta uomini comandati dal tenente Dameri, che fece arrestare i responsabili, poi condotti nel carcere sanremese di Santa Tecla e infine liberati dopo essere stati processati nel marzo del 1794. Frattanto, dopo l’occupazione del paese da parte delle truppe francesi, si ebbe una sempre più vasta diffusione della nuova ideologia rivoluzionaria soprattutto tra i ceti operaio e contadino, mentre in tutto il territorio comunale imperversavano bande armate di malviventi, che, approfittando della precaria situazione politica che li lasciava liberi di agire indisturbati, effettuarono rapine di bestiame e di derrate alimentari seminando anche incendi e distruzioni.

La proclamazione della Repubblica Ligure nel giugno 1797 fu preceduta in paese dall’assalto alla sede comunale dove andarono bruciati i registri tra l’euforia del popolo e del locale comitato rivoluzionario, che il 14 luglio, su disposizione del governo provvisorio, diede inizio alla «cerimonia di fraternizzazione» e fece erigere l’albero della libertà sulla piazza centrale del borgo. Frattanto, nella nuova suddivisione amministrativa del territorio ligure varata dal governo della Repubblica, il paese fu inserito in un primo tempo nel Distretto dell’Argentina con Taggia capoluogo, mentre, nella divisione del 1798, Castelfranco, in qualità di capocantone, costituì con Baiardo il Sesto Cantone della Giurisdizione delle Palme, avente per capoluogo la città di Sanremo. Nell’ambito della riorganizzazione amministrativa del ’98 il paese divenne sede di un giudice di pace di prima classe, carica che fu ricoperta per la prima volta da Stefano Maria Rebaudi, coadiuvato da Giovanni Battista Pastore, ai quali venne affidata l’amministrazione della cosa pubblica e il delicato compito di dirimere tutte le vertenze di carattere familiare o relative a questioni di pascolo o di confine.

Dopo l’annessione della Liguria all’Impero francese nel 1805, Castelfranco entrò quindi a far parte del Dipartimento delle Alpi Marittime sotto la giurisdizione locale dell’arrondissement di Sanremo, mentre nelle campagne circostanti l’abitato cominciava a serpeggiare una crescente miseria dovuta soprattutto a sopraggiunti fenomeni di siccità che causavano il drastico calo della produzione di derrate alimentari, il cui reperimento era reso ancora più difficile dai frequenti arrembaggi alle navi onerarie da parte di vascelli inglesi. Tale situazione provocò tra l’altro il trasferimento del lavoro agricolo in zone assai lontane dal centro abitato, avviando così un graduale decentramento che fu ulteriormente incentivato dal nuovo catasto napoleonico, il quale consentì a molti contadini, a prezzo di dure ipoteche, di diventare proprietari di più vasti appezzamenti, mentre i vari frantoi disseminati lungo i torrenti Gordale e Nervia rimanevano nelle mani di pochi proprietari, che ne concedevano l’uso solo dietro il pagamento di forti tasse in natura, e le poche attività commerciali locali era gestite direttamente dal Comune, che permetteva ai privati l’esercizio della macellazione e della vendita del sale e del vino soltanto dietro il versamento di una tassa da devolversi due volte all’anno alle casse della Municipalità, la quale metteva all’incanto anche i terreni destinati al pascolo, che venivano concessi al maggior offerente, a cui spettava il duplice dovere di versarne i relativi tributi sia al Comune che all’autorità ecclesiastica.

Caduto Napoleone e il suo impero, Castelfranco e il resto della Liguria passarono al Regno di Sardegna nel 1815 e il paese fu incluso nella provincia di Sanremo che era a sua volta inserita nella Divisione di Nizza. Gli anni della Restaurazione furono quindi contraddistinti da una generale ripresa economica, che venne interrotta dal disastroso terremoto del 26 maggio 1831, nel corso del quale rimasero danneggiate la parrocchiale e la cappella di Santa Caterina oltre a numerose abitazioni private. L’incremento della popolazione e del numero dei bisognosi aveva intanto spinto il sacerdote locale Stefano Rebaudi a lasciare in testamento la sua casa alla comunità affinché questa fosse adibita a ospedale, il quale fu realizzato nel 1837 dall’Amministrazione municipale, che, dopo essere entrata in possesso dell’abitazione del prete castellese, dispose il ricovero dei primi due malati nella nuova struttura, che avrebbe svolto la sua opera assistenziale fino agli ultimi anni dell’Ottocento.

Dopo l’Unità, l’Amministrazione comunale si fece quindi promotrice del cambiamento del nome ufficiale del Comune da «Castelfranco», che aveva dalla fine del XIII secolo, a quello di «Castelvittorio», in onore del re d’Italia Vittorio Emanuele II, il quale venne infine approvato con regio decreto del 26 ottobre 1862. Pochi anni dopo fu invece realizzata un’altra importante istituzione locale su iniziativa, tra gli altri, del padre domenicano Luigi Orengo, del parroco Vincenzo Re e del sindaco Stefano Giraldi, i quali fondarono nell’estate del 1881 un’associazione mirata alla fondazione di un asilo infantile per i circa cinquanta bambini del paese, che fu poi ospitato in una casa donata dal vescovo di Ventimiglia Tommaso Reggio ed iniziò quindi ufficialmente la sua attività scolastica agli inizi del 1883 sotto la direzione di tre suore domenicane e i primi quarantadue bambini del paese iscritti.

Drammatiche conseguenze ebbe invece il devastante terremoto del 23 febbraio 1887, che provocò due morti e circa sessanta feriti inducendo gran parte della popolazione a rifugiarsi fuori dell’abitato nella frazione di Colletta o tra gli ulivi di Orenga, mentre le vie principali del borgo, che non aveva ancora una strada carrozzabile, erano ostruite dalle macerie, le varie zone del paese impraticabili e inaccessibili, il campanile squassato nella cupola e nelle strutture portanti, la chiesa parrocchiale aperta nella volta con l’abside crollata e la sede comunale e il cimitero praticamente inservibili. Tre giorni dopo il sisma, nelle prime ore del mattino, giunsero a Castelfranco i militari del quarto distaccamento del Genio Civile, accompagnati da funzionari della Prefettura di Porto Maurizio e numerosi volontari che diedero i primi soccorsi alla popolazione, mentre, grazie anche ai molti finanziamenti pervenuti da enti pubblici e privati cittadini, si procedeva, seppur assai lentamente, alla ricostruzione delle case danneggiate in modo più o meno grave e alla riattivazione delle principali vie di comunicazione con una serie di lavori, che furono poi terminati nel 1888 grazie alla prestazione gratuita di cittadini comuni e ai fondi pubblici elargiti in base alla legge n. 4511 del 31 maggio 1887.

Nei decenni successivi al terremoto il paese tornò lentamente alla normalità, sebbene dovesse ancora pagare un alto tributo di sangue con numerosi suoi figli caduti al fronte italiano nel corso della prima guerra mondiale. Dopo gli anni del regime fascista, alla notizia della resa con gli Alleati anche a Castelvittorio si formarono i primi gruppi di partigiani che si trasferirono sui monti circostanti il paese, dove furono presto raggiunti da molti militari sbandati, che cercavano di sfuggire in tutti i modi ai Tedeschi, i quali già il 9 settembre 1943 avevano occupato tutta la Riviera di Ponente. Poco più di un anno dopo, l’8 ottobre del ’44, un contingente tedesco si stabilì in paese sottoponendo la popolazione locale a ogni sorta di abusi e violenze, mentre i Castellesi collaboravano con il movimento resistenziale tanto da essere considerati dai nazisti dei «banditi», sui quali si sarebbe presto abbattuta una feroce vendetta che rappresentò uno dei momenti più tragici dell’intera storia del paese.

La mattina del 3 dicembre 1944, dopoché un sottufficiale tedesco era stato ferito nel corso di un rastrellamento a Monte Gordale, i nazisti della terza compagnia guidati dall’aiutante maggiore del battaglione von Katen fecero irruzione nelle case del borgo prelevandovi diciannove civili, tra cui anche donne e bambini, che vennero subito dopo massacrati a raffiche di mitra dai Tedeschi, che nei giorni successivi si diedero pure a saccheggi e rapine ai danni della popolazione inerme. Il paese rimase quindi occupato dai nazisti fino al momento della loro fuga dalla Val Nervia, nei giorni della Liberazione, quando i Tedeschi avrebbero ancora sparato alcune cannonate sull’abitato con i pezzi piazzati a Carmo Langan senza tuttavia provocare dei danni a persone o cose. Nel secondo dopoguerra il paese conobbe una discreta ripresa di carattere economico, nonostante il progressivo spopolamento della zona congiunto al fenomeno dell’invecchiamento della popolazione locale, la quale ha ormai abbandonato le tradizionali attività agricole (che comunque permangono con una discreta produzione di olio e vino oltre alla diffusione dell’allevamento soprattutto nella zona di Langan), dedicandosi in parte alle attività del settore secondario, tra le quali spicca quella legata alla distillazione della lavanda e delle erbe aromatiche, ma specialmente a quelle commerciali con la produzione di ottime pagnotte, le cosiddette «grizze», mentre negli ultimi anni ha assunto una sempre più massiccia rilevanza per l’economia castellese il comparto del turismo, che attualmente può contare su ben otto ristoranti, nei quali si possono gustare le specialità tipiche locali come il coniglio, i barbagiuài, sorta di ravioli fritti con ripieno di patate, bruzzo, uova e formaggio e il vino Rossese.

In anni recenti si segnala la notevole attività dell’Amministrazione comunale per favorire il turismo e potenziare ulteriormente le infrastrutture locali tramite la costruzione di un nuovo acquedotto in grado di captare le sorgenti nella zona di Langan, la realizzazione di una moderna rete  elettrica rurale e la sistemazione definitiva della rotabile per Baiardo, mentre la recente approvazione da parte della Regione del piano regolatore comunale adottato nel 1988 fornirà nuovi mezzi all’Amministrazione municipale per migliorare ancora di più la struttura urbanistica del territorio nell’ambito di una auspicabile e più ampia valorizzazione dei paesi dell’alta val Nervia».

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