Storia locale

La storia di Terzorio nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

Le cui origini risalgono all’età longobarda, poi dominio dei monaci di Villaregia e infine ceduto alla Repubblica di Genova nel 1353

Terzorio comune

Terzorio. Nuovo appuntamento con la storia locale a cura dello storico Andrea Gandolfo che questa volta propone la storia del borgo di Terzorio,  le cui origini risalgono all’età longobarda, poi dominio dei monaci di Villaregia e infine ceduto alla Repubblica di Genova nel 1353:

«Borgo medievale collinare situato nell’entroterra di Santo Stefano al Mare, Terzorio è costituito da un abitato allungato sull’estremità pianeggiante di un colle che si dirama in senso trasversale dal rilievo di Pian delle Vigne (539 metri), in posizione dominante il fondovalle del rio Santa Caterina, che poco oltre sbocca in mare. Attualmente il centro di Terzorio, le cui case risalgono in parte la collina rivestita di ulivi, si presenta nella sua veste tipicamente rurale assediata dagli sviluppi di un insediamento moderno, legato alle redditizie colture possibili nel suo territorio.

Il culmine architettonico è localizzato nella piazza in cima alle case, una sorta di balconata sulle colline tagliate dal limitrofo nastro dell’autostrada, dove si trovano la chiesa parrocchiale, l’oratorio e la sede del Comune. Per quanto concerne l’etimologia del toponimo, sono state avanzate varie ipotesi, ma sulla base delle forme storiche del XIII secolo (villam Tresoli, homines Trezoli) e della dizione locale Tresö), esso potrebbe essere derivato, con il finale -olo, dal latino tertius (come l’italiano terzuolo, peraltro con altri significati, quali maschio di falcone e terzo taglio annuale del fieno), nel senso di «terza parte di un territorio, terziere», anche se nel XII secolo è già attestato come Terzorio e quindi il suffisso di derivazione dovrebbe essere stato il più raro -orio.

Nel corso dell’età romana il territorio dell’attuale Terzorio era probabilmente occupato da antichi latifondi facenti parte del fondo Porcianus nei pressi della mansio romana di Costa Balenae, dove sono venuti alla luce importanti ruderi di un battistero e parte di una necropoli. Dopo la caduta dell’Impero romano la zona venne presumibilmente occupata da insediamenti di tipo monastico, forse collegati con il cenobio benedettino di Lerino, che infatti ne avrebbe accampato diritti ancora nel XVIII secolo.

Nei primi secoli dell’alto Medioevo si instaurò inoltre un legame molto stretto tra l’episcopato e l’istituzione monastica, che si sarebbe mantenuto vivo fino al VI-VII secolo. In tale contesto molti territori costieri e vecchi fondi abbandonati furono assegnati dal fisco imperiale alla Chiesa di Genova, che estese così il suo controllo su vaste zone dell’estremo Ponente ligure.

Secondo la leggenda, l’origine del dominio vescovile genovese sulla Liguria occidentale sarebbe da collegare alla donazione fatta dall’esattore delle imposte Gallione al vescovo genovese San Siro di vaste proprietà site nei territori matuziani e taggesi come premio per avergli esorcizzata una figlia schiava del demonio. Sembra tuttavia storicamente certo che, intorno al VI secolo, le autorità imperiali abbiano concesso ai vescovi genovesi molti fondi, e tra questi una proprietà rurale situata fra Terzorio e Cipressa, detta di San Siro, giunta ai Benedettini prima delle note donazioni feudali, attraverso quel processo storico per cui i vescovi erano soliti affidare ai monaci i loro possedimenti.

All’influenza dei frati di Lerino si andò intanto gradualmente sostituendo quella dei Benedettini di Pedona, i quali, a partire dal VII secolo, si stanziarono a Taggia e in vari centri limitrofi pochi anni dopo le devastazioni compiute dai Longobardi. Fu proprio in seguito all’occupazione longobarda del Ponente ligure che il primitivo borgo di Terzorio, che era già stato pars minima della grande villa rustica romana di Pompeiana, ne fu staccato per assegnazioni di terre, in misura di un terzo, a famiglie di notabili longobardi, e in particolare quelle dei gastaldi, che avevano l’incarico di amministrare il territorio in nome e per conto del sovrano e quelle degli aldii, costituenti una classe intermedia tra liberi e servi, che conservavano il diritto ad una famiglia e alla proprietà, pur dovendo fornire al loro signore il terzo dei prodotti del suolo.

L’origine longobarda del borgo appare ulteriormente confermata dalla presenza di una serie di cognomi locali di chiara derivazione longobarda come i Lombardi. Il primo è sicuramente da ricollegare, come derivato medievale, ai Longobardi, in quanto l’etnico di tale popolo divenne un «nome» sviluppatosi, attraverso vari processi di latinizzazione, dall’iniziale Langbarden, tanto che nel corso dei secoli si sarebbero formati vari cognomi come Longobardi, Bardi e appunto Lombardi, con numerose varianti, mentre Filippi, presenti sia a Pompeiana che a Terzorio, è un cognome che si sviluppò soprattutto nell’alto Medioevo per il culto dell’apostolo Filippo, ma la sua massima diffusione si ebbe in seguito alla conquista bizantina della Liguria occidentale.

Il sito di Terzorio venne quindi probabilmente occupato da alcune famiglie appartenenti al ceppo longobardo con un rapporto di dipendenza nei riguardi della Curtis Regia, un appellativo in stretta relazione con la limitrofa Villaregia, dove fu sempre documentato il cognome Gastaldi, derivante dal longobardico castaldus, indicante l’amministratore della curtis del re e in seguito identificabile con il curatore dei beni fondiari di duchi o conti longobardi o di enti ecclesiastici.

In base a tali elementi, sembra dunque altamente probabile che un ceppo longobardo si sia innestato nel corso del VII secolo su parte di un’antica proprietà agricola romana situata nel territorio dell’odierno Terzorio, dove potevano essersi già stanziate una o più famiglie di onomastica romana o cristiana come quelle dei Filippi e dei Martini. Un importante segnale della genesi longobarda di Terzorio è fornito in particolare dal cognome Lombardi e dal ruolo socialmente elevato svolto dagli appartenenti a queste famiglie, come dimostrato dal fatto che ricopriva la carica di console, ossia la massima autorità terzorina, un Oberto Lombardo, quando nel 1277 furono giurati all’abate di Santo Stefano gli Statuti di Cipressa e Terzorio. Al momento del loro insediamento sulle terre di Villaregia i Longobardi vi dovettero con ogni probabilità trovare i segni di vita rurale dovuti all’iniziativa monastica, e forse anche a Terzorio rimanevano i resti di qualche opera di origine eremitica con i superstiti coloni che coltivavano tali fondi fin dall’epoca romana.

Nel corso del IX e X secolo la zona di Terzorio venne quindi interessata dalle violente incursioni dei Saraceni, che vennero poi sconfitti da una coalizione di signori feudali tra il 975 e il 980. Frattanto, nel 979, il vescovo di Genova Teodolfo aveva incoraggiato i coloni dispersi a causa delle devastazioni saracene a reinsediarsi nei possedimenti della Chiesa genovese, che nel frattempo erano stati inglobati, nell’ambito della generale riorganizzazione delle terre di Liguria, attuata dal re d’Italia Berengario II, nella Marca Arduinica.

La contessa Adelaide di Susa, che aveva ereditato vaste proprietà un tempo gestite dai Benedettini, decise di «restituire» i suoi vasti possedimenti ai monaci. Con atto stipulato ad Albenga il 4 luglio 1049 la contessa cedette così al monastero di Santo Stefano di Genova la zona detta Villaregia che ella possedeva nel fondo Porciano, un esteso possesso che aveva i connotati della Curtis Regia di ascendenza longobarda e della Villa Regia franca, un toponimo utilizzato per indicare la zona gestita da «signori» in conduzione diretta. È tuttavia probabile che già nel corso dell’XI secolo, in concomitanza con l’indebolimento del sistema feudale, Terzorio sia entrato sotto giurisdizione ecclesiastica, conservando però le caratteristiche longobarde di terra soggetta al beneficio verso un dominus.

Il paese rimase quindi per così dire sospeso tra l’influenza monastica e la vicenda temporale di Villaregia, tanto che gli eredi di Adelaide ne avrebbero contestato a lungo la donazione e rivendicato in particolare i loro diritti su Cipressa e Terzorio.

Al momento della venuta in possesso dell’antico fondo Porciano nelle mani della contessa Adelaide, i paesi di Terzorio e Cipressa sarebbero diventati dominio dei conti di Ventimiglia, i quali avrebbero poi approfittato della donazione di Villaregia ai Benedettini di Genova da parte della contessa Adelaide per un ricongiungimento di Terzorio con i possedimenti del monastero di Santo Stefano, ma gli eredi di Adelaide si opposero rivendicando i loro diritti sulle terre cedute dalla contessa. Fu così che il 23 febbraio 1169 costoro, ossia i marchesi di Clavesana Guglielmo di Ceva e Bonifacio di Clavesana, alla fine di una lunga e laboriosa vertenza da loro intrapresa nella speranza di annullare le donazioni fatte dall’antenata, furono costretti a stipulare un atto con il quale Villaregia veniva riconfermata proprietà del monastero benedettino di Santo Stefano.

Nello stesso lasso di tempo si andava gradualmente affermando l’influenza sulla zona di Anselmo de Quadraginta, capostipite dei conti di Linguilia, che il 13 aprile 1153 ricevette dal vescovo di Albenga Odaordo l’infeudazione delle decime in parrocchie di vari paesi tra cui Terzorio, per cui i tre quarti degli introiti spettanti prima al presule passavano al conte Anselmo e ai suoi successori.

Tale concessione avrebbe tuttavia contribuito ad aggravare la situazione fiscale locale in quanto, mentre erano esentati dalle decime i monaci di Villaregia, non lo erano però gli abitanti laici del Principato, che erano divenuti nel frattempo sempre più numerosi grazie anche all’ospitalità e alla buona protezione dei Benedettini. Proprio al fine di risolvere alcune vertenze d carattere legale, il vescovo di Albenga Roberto si indusse a riconfermare al conte Bonifacio di Lingueglia, con atto stipulato il 7 ottobre 1171, il diritto di riscossione delle decime in vari paesi, tra cui quelli di Taggia, Pompeiana, Cipressa e Terzorio. Il 6 settembre 1215 il conte di Ventimiglia Oberto liberò quindi gli abitanti di Terzorio e Cipressa da ogni vincolo servile dichiarandoli proprietari dei loro beni.

Il 27 ottobre di dieci anni dopo lo stesso feudatario vendette quindi i due borghi all’abate Raimondo del monastero di Villaregia per la somma di cento lire. Tale vendita fu però contestata dai conti di Linguilia, che avevano proprietà e diritti su Terzorio e Cipressa, e pure la popolazione di Lingueglietta si intromise nella questione appoggiando i suoi signori. Ne nacque allora una vertenza che comportò l’intervento di papa Onorio III e l’emissione di un giudicato sfavorevole al monastero.

In base a una sentenza emessa il 18 aprile 1228 nel chiostro di San Lorenzo a Genova, l’abate dovette vendere a Bonifacio di Linguilia le terre appena acquisite, ottenendo per il cenobio solo il diritto di pascolo e il legnatico, mentre l’abate Raimondo dichiarava in un atto del 5 maggio successivo di aver ricevuto da Bonifacio di Linguilia la somma di centoventi lire stabilita nella sentenza per tale vendita. Il monastero però, quando Bonifacio era ormai in fin di vita nel suo castello di Garlenda, non rassegnandosi alla situazione venutasi a creare inviò nel maniero un suo emissario, il monaco Guglielmo Sacrista, che non solo riottenne per trecento lire dal conte morente i luoghi di Cipressa e Terzorio (oltre al territorio di Porzano), ma anche vaste proprietà, di non facile identificazione, che i feudatari avevano comprato da un certo Pietro Gandolfo di Oneglia.

Guglielmo Sacrista, sentiti i procurati dei Linguilia, entrò quindi nel pieno possesso materiale dei territori strappati al conte Bonifacio sul punto di morte con atto stipulato nel castello di Garlenda il 5 aprile 1237, ottenendo anche contestualmente dalla vedova di Bonifacio, Verda, un’opportuna conferma della vendita di Cipressa e Terzorio con atto rogato in data posteriore al 9 aprile dello stesso anno. I conti di Linguilia si opposero però ben presto a tale soluzione tanto che già nel 1253 il nobile Anselmo procedette all’occupazione di alcune terre del monastero.

Tra il 1275 e il 1278 la questione fu riaperta dai figli di Anselmo, che non riconobbero valida la composizione giuridica, favorevole al principato ecclesiastico, redatta da un certo Janella Avvocato a Villaregia il 21 aprile 1253, su mandato della Repubblica di Genova. Nel 1278 il podestà di Taggia Ivano Baldizzone, per istruzione del podestà genovese Roggero de Guidobus e dei capitani del popolo Oberto Doria e Oberto Spinola cui si erano appellati i monaci, riconfermò ufficialmente i diritti del cenobio e voce del suo esecutore Guasco intimò al gastaldo di Castellaro Fulcone Balduino, governatore per i Linguilia, di non invadere più le terre dei frati.

Bonifacio di Linguilia non accettò però questa nuova imposizione e in particolare tentò, suddividendo nel 1281 con il fratello Giacomo i paesi sui cui esercitava un antico diritto di riscossione delle decime, di sottoporre Cipressa e Terzorio ad una pressione fiscale molto rigorosa, che però urtava con il fatto che le famiglie di Terzorio e Cipressa erano già tributarie del monastero di Santo Stefano e non avevano pertanto alcuna intenzione di pagare altre tasse ai feudatari.

Incoraggiati dai monaci, ai quali andava la loro netta e sincera predilezione, gli abitanti di Cipressa e Terzorio opposero un inatteso rifiuto alle pretese di Bonifacio, dando vita ad una nuova vertenza, che si sarebbe composta con l’atto stipulato il 26 febbraio 1286 davanti al podestà di Genova Enrico Petia e al subdelegato papale, il priore di San Matteo di Genova. In base a tale convenzione venne confermata al prete Giovanni, cappellano e agente del monastero, e al rappresentante del conte Bonifacio Guglielmo Bergonzo, la situazione giurisdizionale favorevole ai Benedettini, ponendo così fine ad un’aspra e secolare controversia risolta pacificamente dalle due parti che si posero anche sotto la possibile pena di cento lire in caso di inadempienza alle norme pattuite.

Tra il 1237 e il 1277 il luogo di Terzorio aveva intanto acquisito il titolo ufficiale di «villa», ossia di «centro abitato subordinato a un centro urbano», un rango assimilabile alle «ville» di Ventimiglia e Albenga, tanto da raggiungere ormai un suo ruolo funzionale all’interno del Principato ecclesiastico, ulteriormente confermato da una sempre maggiore consistenza numerica dei suoi abitanti, soprattutto se calcolati insieme a quelli di Cipressa. Per regolamentare la vita pubblica nelle sue nuove ville di Cipressa e Terzorio, l’abate genovese di Santo Stefano, Fredencio, fece così redigere il testo degli Statuti locali, costituiti da una serie di norme vincolanti di comportamento e azione sotto il profilo giuridico e amministrativo.

L’atto si apre con la riconferma da parte dell’abate dei totali diritti del monastero sui due paesi e continua poi con l’elenco dettagliato di svariati provvedimenti da prendersi contro coloro che non avessero rispettato la legge. Le nuove norme, nelle quali era forse sottinteso l’obbligo per i sudditi di contribuire fino a tre giorni alle spese di permanenza a Villaregia degli abati genovesi, ricalcavano molto da vicino quelle degli Statuti per gli uomini di Villaregia concesse nel 1217 e prevedevano espressamente come i consoli di Cipressa e Terzorio fossero tenuti personalmente a far rispettare i vari capitoli delle disposizioni statutarie, pena una multa di cento lire in caso di loro inadempienza.

Da un approfondito esame del testo degli Statuti di Cipressa e Terzorio si evince inoltre come di tutte le multe riscosse metà spettava all’abate e la restante ai consoli per il bene della comunità e i risarcimenti dei danni, mentre chi si fosse reso responsabile di colpe più gravi come l’omicidio, l’incesto, l’adulterio o lo spergiuro era giudicato direttamente dalla curia dell’abate. Nel corso del Basso Medioevo la popolazione di Terzorio era in gran parte addetta alla coltivazione dei campi e il loro patrimonio era connesso, oltreché al possesso di abitazioni e casali, alla disponibilità di buone terre e di animali destinati all’allevamento di media e grossa taglia, come suini, capre e pecore, in minor misura bovini, che erano produttori di carne e latte, con tutti i possibili derivati da un’eventuale macellazione. Tali beni erano particolarmente tutelati dalle norme statutarie in quanto un furto, un saccheggio o un incendio avrebbero potuto arrecare gravissimi danni alla comunità e quindi all’abate di Santo Stefano, suo signore.

Nel corso del XIV secolo i rapporti tra l’abate e la comunità di Villaregia si andarono gradualmente incrinando tanto che i consoli eletti dai parlamenti avevano finito con l’amministrare la giustizia in modo diretto senza alcun rispetto per i singoli statuti e rifiutando di fatto l’autorità ecclesiastica. Gli abati, che risiedevano ormai stabilmente a Genova, decisero allora di affidare l’amministrazione di Villaregia a Castellano Doria, nella speranza che tale influente membro della nobile famiglia genovese fosse in grado di riaffermare la loro autorità e riscuoterne vecchi crediti.

Nonostante la buona volontà, il Doria fallì però completamente, cosicché il 24 settembre 1334 cedeva all’abate sia i diritti di amministrazione che i crediti sulla popolazione e i suoi stessi beni nella zona per la somma totale di 755 lire, otto soldi e quattro denari. In quel periodo gli abitanti di Cipressa e Terzorio avevano peraltro uno status politico e giuridico assai diverso da quello dei residenti a Villaregia, in quanto, pur condividendo con questi ultimi la dipendenza dall’abate di Santo Stefano, erano separati nell’amministrazione delle cose comuni in virtù di norme statutarie diverse.

Intanto i Benedettini, sempre più oberati dai debiti, avevano chiesto un prestito a Lamba Doria, figlio e omonimo del vincitore di Curzola, il quale venne nominato dai monaci anche podestà del luogo di Santo Stefano, che comprendeva anche il paese di Villaregia, che andava assumendo il nome di Piano della Foce, e quelli di Cipressa e Terzorio. Dopo una serie di liti e lunghe controversie, il possesso benedettino, ormai in pieno disfacimento, venne ceduto a Nicolò Doria, figlio del defunto Lamba, che il 29 ottobre 1352 fu riconosciuto creditore verso il monastero di una somma pari a 2300 lire.

Dal momento che i frati non erano in grado di saldare il debito contratto, Nicolò Doria poté legittimamente entrare in possesso, dopo un giudicato del 28 giugno 1353, del territorio di Santo Stefano che poi vendette nello stesso anno per 2300 lire al doge di Genova Giovanni di Valente e al consiglio dei dodici Sapienti. Durante il XV secolo assunse particolare rilievo per Terzorio una lunga controversia che avrebbe incrinato i rapporti con la vicina Pompeiana. I motivi di tale dissidio erano legati al rapporto intercorrente tra la chiesa parrocchiale di quest’ultimo paese, ritenuta «matrice» di quella di Terzorio, cosicché i parroci pompeianesi potevano vantare antichi privilegi di ordine spirituale e fiscale, che risultavano assai sgraditi tanto ai reggenti di San Giovanni Battista quanto agli abitanti.

Questi aspiravano soprattutto all’autonomia della propria chiesa, per cui avviarono una lunga serie di iniziative legali presso il potere temporale di Genova e il vescovo di Albenga. La situazione si aggravò ulteriormente a partire dal 1472, quando i diritti su Pompeiana passarono nelle mani dei figli del marchese Battista Spinola di Genova, incrinando i già tesi rapporti del paese con la podesteria di Taggia e la zona di Terzorio, la cui chiesa continuava peraltro a dipendere da Santa Maria di Pompeiana. Il 10 settembre 1498 la chiesa di Terzorio ottenne finalmente la separazione dalla matrice di Pompeiana, dopoché il vescovo ingauno ebbe riconosciuto le gravi difficoltà che gli abitanti del luogo sopportavano per partecipare alle funzioni in Pompeiana.

Tale agognata separazione, ottenuta anche grazie alla mediazione dei sindaci di Terzorio Geronimo Bellone e Biagio Lombardi, fu peraltro compensata dagli obblighi che la chiesa di Terzorio mantenne verso quella di Pompeiana, allora retta dall’abate Sebastiano Pelliccia, e in particolare il pagamento delle decime ed offerte di vario genere che rimasero a carico dei Terzorini.

L’inizio della storia moderna di Terzorio è collocabile nel 1475, quando vennero redatti gli Statuti di Santo Stefano, che comprendevano anche quelli di Pian della Foce, Cipressa e Terzorio. Dal testo di tali leggi si apprende infatti che queste località formavano allora un unico Comune, amministrato da consoli eletti dal Parlamento congiunto, i quali risultavano coadiuvati dai campari e trattavano le questioni civili con una certa autonomia; tra l’altro erano garanti e custodi del sistema della «sequella», un insieme di obblighi e tributi per il bene generale, cui erano tenuti tutti gli uomini residenti, dai 17 ai 70 anni.

Nel corso del XVI secolo anche la zona di Terzorio venne interessata dalle violente incursioni di pirati barbareschi, che assaltarono il paese inerme in varie occasioni e in particolare il 28 giugno 1561 e il 20 agosto 1563. In quest’ultima data, forse la più funesta nella storia del borgo, i corsari turchi guidati da Ulugh-Alì, un rinnegato calabrese, catturarono ben novanta sventurati terzorini, tra cui anche donne e bambini, poi radunati sulla spiaggia degli Aregai, mentre il paese saccheggiato era in preda alle fiamme, e quindi imbarcati con destinazione Algeri, dove sarebbero stati venduti come schiavi. Per fronteggiare il pericolo barbaresco, le autorità di Terzorio decisero allora di erigere una torre di avvistamento, costruita nella seconda metà del XVI secolo con il citato metodo della «sequella», ossia con il concorso di tutti gli abitanti, allo scopo di fungere da riparo della popolazione e degli armati del luogo in previsioni di eventuali assalti barbareschi.

Non era ancora cessato del tutto il pericolo di attacchi da parte dei corsari turchi, che a Terzorio si diffuse una gravissima epidemia di peste, che tra il 1579 e il 1580 generò il panico tra la popolazione e mieté molte vittime. Un’altra micidiale pestilenza si sarebbe verificata nel 1656, quando in paese, per scongiurare la diffusione del morbo, si tennero processioni, si consacrarono altari a San Rocco, protettore contro le epidemie, si abbellirono le chiese e si dovette anche allestire un cimitero per le inumazioni in terra delle sempre più numerose vittime della peste.

Dopo lo scoppio della prima guerra tra la Repubblica di Genova e il Ducato sabaudo, tra il maggio e il luglio del 1625 Terzorio venne occupato dalle truppe piemontesi guidate dal principe Vittorio Amedeo, il quale, prima di ritirarsi di fronte all’avanzata genovese, emanò due proclami con cui si sancivano le conquiste sabaude e si costringeva, tra i vari paesi della Liguria occidentale, la comunità di Santo Stefano, Terzorio e Cipressa al pagamento di 102 stai di grano e al rifornimento di una discreta quantità di munizioni e materiale bellico.

Recatisi in paese per esigere quanto richiesto, i Piemontesi ebbero però la sgradita sorpresa di venire accolti dalle archibugiate sparate da dieci soldati terzorini rinchiusi nella torre antibarbaresca e dovettero così rinunciare ai loro propositi anche per la pressione dell’esercito genovese ormai alle porte del paese, mentre gli abitanti di Terzorio avrebbero festeggiato per alcuni mesi con i caratteristici fuochi la fine dell’occupazione sabauda e la caduta dei proclami di Vittorio Amedeo.

Nel gennaio 1709 si verificò una rovinosa gelata che causò una grave carestia, mentre tra l’ottobre del 1713 e l’aprile dell’anno successivo sopraggiunse una totale siccità, che provocò la rovina completa del raccolto delle olive. Il passaggio per Riva Ligure di Elisabetta Farnese nel 1714 fu festeggiato anche dai Terzorini convenuti a rendere omaggio all’illustre ospite, mentre la convenzione per il porto franco di Arma, stipulata fra Taggia e Genova nel 1718, ravvivò le speranze di un più solido e duraturo sviluppo economico anche per la comunità terzorina.

Nel 1724 sopravvenne nuovamente una grave siccità, seguita dall’aumento delle gabelle da parte delle autorità genovesi, intimorite per l’occupazione di Perinaldo, Seborga e Loano da parte delle truppe sabaude, tanto da costringere i Terzorini a cibarsi dei soli prodotti ortili, quali le fave e i piselli. Vista la situazione, aggravata dalla comparsa di micidiali malattie come l’avitaminosi, lo scorbuto e la pellagra, il governo della Serenissima si decise a ritirare le gabelle e indusse le popolazioni a riprendere il lavoro dei campi, che venne però vanificato da una nuova siccità ricomparsa nel 1734. Due anni dopo il paese fu colpito da un’epidemia influenzale, che causò almeno cinque vittime, mentre, nel corso delle successive operazioni belliche tra le truppe genovesi e quelle sabaude, alcuni soldati di Terzorio si unirono al contingente del marchese Desiderio Lombardi, che nel 1745 difese vittoriosamente l’avamposto genovese di Castelvittorio dall’assedio delle forze piemontesi.

Pochi anni dopo una nuova gravissima calamità naturale si abbatté su Terzorio e i paesi vicini in occasione della disastrosa alluvione del 2 ottobre 1763, quando le colture familiari e i poderi furono allagati dalla pioggia torrenziale, mentre il torrente Argentina rompeva gli argini e invadeva numerosi terreni nella zona di Taggia, provocando ingentissimi danni che sarebbero stati rimediati solo dopo molti mesi di duro lavoro. Dopo l’invasione del territorio ligure da parte delle truppe rivoluzionarie francesi guidate dal generale Massena, la zona di Terzorio divenne meta di numerosi patrioti e rivoluzionari, tra i quali Filippo Buonarroti, che vi fecero opera di proselitismo e diffusione delle loro idee. Con la nascita della giacobina Repubblica Ligure nel luglio del 1797, Terzorio, Cipressa, Santo Stefano ed altri ventotto comuni limitrofi entrarono a far parte della Giurisdizione degli Ulivi con capoluogo Porto Maurizio. Dopo gli anni del dominio francese, quando il paese fu sottoposto direttamente, insieme al resto della Liguria, all’Impero napoleonico a partire dal 1805, Terzorio entrò a far parte del Regno di Sardegna nel 1815 sotto la giurisdizione della Divisione di Nizza. Nel febbraio del 1814 la popolazione terzorina, unitamente a quella di Riva, Castellaro e Pompeiana, aveva reso omaggio a papa Pio VII, che si era brevemente fermato nella chiesa di Riva Ligure durante il suo viaggio di ritorno a Roma al termine del suo esilio francese. Il 19 giugno 1831 papa Gregorio XVI emise una bolla pontificia, che assegnava Terzorio ed altri comuni vicini alla Diocesi di Ventimiglia staccandoli da quella di Albenga.

Nello stesso anno il paese venne colpito da un forte terremoto che causò il crollo di due case, il danneggiamento di altre otto e il ferimento di due persone. Nel 1842 Terzorio ottenne finalmente l’autonomia municipale e poté dotarsi di una pubblica casa con una propria amministrazione costituita da sindaco, giunta e consiglieri comunali. In seguito alla cessione del Nizzardo alla Francia nel marzo 1860, Terzorio fu aggregato alla provincia di Porto Maurizio, mentre dodici anni dopo veniva inaugurata la nuova linea ferroviaria Genova-Ventimiglia, che avrebbe rivoluzionato il sistema dei trasporti locali aprendo nuove e inattese prospettive per le attività commerciali e il nascente turismo.

Verso la metà del XIX secolo una nuova e insperata opportunità di guadagno offerta alla popolazione terzorina fu la scoperta di uno strato di arenaria nel letto di un torrente nel territorio comunale messo allo scoperto dall’erosione naturale del rivo, nel quale fu riscontrata la presenza di una galena argentifera. La sensazionale scoperta arrestò di colpo il flusso migratorio verso altri paesi degli abitanti del paese che si impegnarono in una febbrile attività di ricerca.

Si scavarono allora due gallerie, una addentrantesi nella sponda destra e un’altra in quella di sinistra, ma purtroppo le speranze andarono deluse in quanto, secondo la relazione tecnica stilata dal geologo Francesco Zucchi, le miniere sarebbero state presto abbandonate per l’inadeguato rapporto tra il materiale ricavato e gli alti costi del lavoro. A partire dalla metà dell’Ottocento alcune gravi malattie, come la fillossera e la peronospera, causarono la morte dei vigneti di Terzorio, peraltro presto sostituiti dagli intraprendenti viticoltori locali da qualità più robuste come il Vermentino e il Rossese. In diverse occasioni la popolazione terzorina fu colpita da gravi epidemie di colera, che si manifestò soprattutto nel 1817, nel 1838 e nel 1854 inducendo molti abitanti della zona ad emigrare per sottrarsi alla pestilenza e trovare lavori più redditizi. Quando perdurava ancora la crisi dell’olivicoltura e del Moscatello, il paese fu colpito dal disastroso terremoto del 23 febbraio 1887, che lesionò vari edifici senza causare tuttavia vittime e feriti, seminando comunque il panico tra la popolazione, già provata duramente dalla diffusione di una epidemia, per cui nel 1888 il prefetto di Porto Maurizio aveva sollecitato i vari comuni, tra cui Terzorio, a prendere provvedimenti contro i pericoli del morbo, tenendo conto della precaria situazione igienica determinata dal sisma dell’anno precedente.

Nel 1879 era stato intanto realizzato un nuovo cimitero, mentre la vecchia area cimiteriale, situata nelle vicinanze dell’attuale Oratorio, veniva smantellata e su parte di essa veniva edificata la nuova casa municipale. Dopo gli anni della prima guerra mondiale, nel corso della quale caddero i due Terzorini Agostino ed Enrico Lombardi, poi ricordati su una lapide posta sulla fronte dell’Oratorio, nell’ambito della generale riorganizzazione amministrativa degli enti locali attuata dal regime fascista Terzorio fu aggregato insieme a Castellaro e Pompeiana a Santo Stefano al Mare nel 1923, diventando nuovamente autonomo nel 1925, per essere ancora una volta unito ai suddetti paesi nel 1928 nel nuovo Comune di Riva Santo Stefano, da cui si sarebbe staccato nel gennaio del 1947 per recuperare la sua piena autonomia.

Durante la guerra di Liberazione il paese subì vari rastrellamenti da parte delle forze nazifasciste, che ai primi di novembre del 1944 fucilarono a Terzorio Giambattista Filippi, mentre il 21 gennaio 1945 alcuni militi della Brigata Nera catturarono in paese il partigiano Renato Giusti (Baffino), che, dopo essere stato seviziato, pagò con la vita la sua scelta di essersi unito alle formazioni garibaldine per combattere i nazifascisti. Nei decenni successivi alla fine della guerra l’agricoltura si è confermata la principale attività economica del borgo, anche se la sua espansione è gravemente penalizzata dalla scarsità di strade interpoderali, per cui non pochi terreni restano gerbidi per la difficoltà di accesso o, se già olivati, vengono abbandonati. I maggiori proventi economici sono tuttora ricavati dalle coltivazioni floreali, che coprono quasi per intero i seminativi.

Per quanto concerne le specie floreali, le più coltivate erano un tempo la Violetta di Parma e la Violetta Nera. La prima, più pregiata, divenne ben presto oggetto di esportazione soprattutto in Francia, mentre la seconda veniva prodotta e lavorata per finalità esclusivamente ornamentali ed era commercializzata soprattutto presso il mercato dei fiori di Ospedaletti. In seguito, cessata tale coltivazione, si sviluppò quella del narciso, assai più redditizio, mentre assumeva notevole rilevanza la raccolta dell’aglio cresciuto allo stato selvatico.

Attualmente il fiore più coltivato è la margherita, la cui coltura si effettua su circa l’80% di tutte le aree a fiori sia in pien’aria che con modeste protezioni, mentre tra gli altri fiori, scomparsi ormai i garofani, vi sono poche colture di rose e orchidee in serra, modesti quantitativi di ginestra, mimosa e Ruscus, oltre a circa diecimila piante di palma della qualità Phoenix canariensis. Più modesto è invece l’apporto fornito dai settori secondario e terziario, considerato anche il numero elevato di Terzorini che lavorano fuori del territorio comunale.

Negli anni più recenti si è inoltre registrata un’intensa attività da parte dell’Amministrazione comunale al fine di rendere il borgo sempre più accogliente e vivibile tramite il potenziamento dell’acquedotto con il rifacimento delle condutture e l’allacciamento di tutte le abitazioni alla rete idrica, il rafforzamento dell’illuminazione pubblica con la sostituzione nel centro storico dei punti luce con lampioni in stile, la sistemazione di un’area verde attrezzata nei pressi del cimitero e il rifacimento della pavimentazione della piazza di San Giovanni Battista. In discreta crescita è anche il comparto del turismo, che può contare su alcune strutture ricettive, dove è possibile degustare i piatti tipici locali, tra cui spicca il «tortello», una specialità tipica del paese fatta di pezzi sottili di pasta spianata in cui è involto un ripieno di bietole o spinaci, condito con olio, formaggio, uova, riso lessato, sale e pepe».

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