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superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice
impossibilità dell'esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria,
incondizionata e insuperabile. Come tale è un'imminenza sovrastante specifica. [... ]
Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l'esserci non se la crea
accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l'esserci esiste, è
anche già gettato in questa possibilità. [... ]. L'esser-gettato nella morte gli si rivela nel
modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell'angoscia. Un'angoscia
davanti alla morte è angoscia davanti al poter- essere più proprio, incondizionato e
insuperabile. [... ] L'angoscia non dev'essere confusa con la paura davanti al decesso.
Essa non è affatto una tonalità emotiva di 'depressione', contingente, casuale, alla
mercé dell'individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell'esserci, essa
costituisce l'apertura dell'esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine.
Si fa così chiaro il concetto esistenziale del morire come esser-gettato nel poter-essere
più proprio, incondizionato e insuperabile, e si approfondisce la differenza rispetto al
semplice scomparire, al puro cessare di vivere e all'esperienza vissuta del decesso. [...
] Un'interpretazione pubblica dell'esserci dice: "Si muore"; ma poiché si allude sempre
a ognuno degli Altri e a noi nella forma del Si anonimo, si sottintende: di volta in volta
non sono io. Infatti il Si è il nessuno. [... ] Il morire, che è mio in modo assolutamente
insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Questo
tipico discorso parla della morte come di un "caso" che ha luogo continuamente. Esso
fa passare la morte come qualcosa che è sempre già "accaduto", coprendone il
carattere di possibilità e quindi le caratteristiche di incondizionatezza e di
insuperabilità. Con quest'equivoco l'esserci si pone nella condizione di perdersi nel Si
proprio rispetto al poter-essere che più di ogni altro costituisce il suo se-Stesso più
proprio. Il Si fonda e approfondisce la tentazione di coprire a se stesso l'essere-per-la-
morte più proprio. Questo movimento di diversione dalla morte coprendola domina a
tal punto la quotidianità che, nell'essere-assieme, "i parenti più prossimi" vanno
sovente ripetendo al "morente" che egli sfuggirà certamente alla morte e potrà far
ritorno alla tranquilla quotidianità del mondo di cui si prendeva cura. Questo "aver
cura" vuol così "consolare il morente". Ci si preoccupa di riportarlo nell'esserci,
aiutandolo a nascondersi la possibilità del suo essere più propria, incondizionata e
insuperabile. Il Si si prende cura di una costante tranquillizzazione nei confronti della
morte. In realtà ciò non vale solo per il "morente" ma altrettanto per i consolanti. [... ]
Il Si non ha il coraggio dell'angoscia davanti alla morte. [... ] Nell'angoscia davanti alla
morte, l'esserci è condotto davanti a se stesso in quanto rimesso alla sua possibilità
insuperabile. Il Si si prende cura di trasformare quest'angoscia in paura di fronte a un
evento che sopravverrà. Un'angoscia, banalizzata equivocamente in paura, è
presentata come una debolezza che un esserci sicuro di sé non deve conoscere. [... ]
Un essere-per-la-morte è l'anticipazione di un poter-essere di quell'ente il cui modo dì
essere è l'anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere,
l'esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi
sul poter essere più proprio significa poter comprendere se stesso entro l'essere
dell'ente così svelato: l'anticipazione dischiude all'esistenza, come sua estrema
possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su
posizioni esistenziali raggiunte.” [Heidegger, Essere e Tempo ]
Gadamer e il diritto alla morte.
Gadamer ritiene che tutte le religioni siano una risposta dell'uomo all'angoscia della morte e dell'umana
finitezza: per questo la filosofia non può ignorare questo tema . In tal senso Sisifo viene interpretato non
tanto come l'eroe dell'attivismo e dell'iniziativa, ma come colui che tenta di ingannare la morte. Per
punire questo, ossia per punire la sua volontà di sfuggire alla morte con l'astuzia, è stato condannato a
spingere continuamente un masso di marmo fino alla sommità di un colle ma, poco prima di giungere alla
sommità, il masso insidioso gli sfuggiva sempre rotolando a valle. Con ciò in realtà si intende dire che si
può infliggere una punizione alla volontà di sfuggire alla morte solo con un terribile prolungamento della
vita.
Secondo Gadamer, Sisifo rappresenta, quindi, la temerarietà della cultura odierna che prolunga
artificiosamente la vita e il suo innaturale tormento e tenta di esorcizzare la morte con simbologie e riti
nuovi e, soprattutto, con una sorta di ottimismo pragmatico che "sterilizza" il morire , che, al contrario,
come Gadamer ricorda, deve essere sopportato e interpretato come un compito della vita . A proposito
dei moderni metodi terapeutici che si accaniscono nel prolungare il corso dell'esistenza, Gadamer
rivendica un diritto alla morte, accanto al diritto alla vita . Se sono legittime delle etiche speciali o delle
etiche professionali, secondo il filosofo tedesco, è difficile immaginare un'etica generale, la quale esige
una coscienza etica universale oggi inconcepibile di fronte alle diverse culture e ai diversi gruppi di
interesse.
Tratto dall'intervista "Il filosofo e la morte" - Fermo, Palazzo dei Priori, mercoledì 10 aprile
1991
“Il mito di Sisifo è noto come quel mito che descrive la condanna di Sisifo a subire una
punizione del mondo dei Morti. Secondo la versione omerica, Sisifo doveva
continuamente spingere un masso di marmo fino alla sommità di un colle ma, poco
prima di giungere alla sommità, il masso insidioso gli sfuggiva sempre rotolando a
valle. Questa figura mitica viene usata spesso; si dice - ad esempio - "è una fatica di
Sisifo", quando si tratta di un lavoro pesante; oppure si afferma che Sisifo significa in
realtà affrontare e iniziare le cose con rinnovata energia.
Sisifo viene considerato in effetti una sorta di eroe che si afferma con tenacia ed
ostinazione. Ma se consideriamo più attentamente il mito, e tralasciamo l'uso che ne
fa il nostro modo di pensare così attivistico, emerge qualcosa di estremamente
interessante. Sisifo è stato per l'appunto condannato a questa pena per un
determinato motivo; egli ha ingannato la morte. Come lo ha fatto? Per noi Sisifo
significa effettivamente qualcosa di simile a scaltro, a colui che trova sempre una
strada, un trucco: con i suoi inganni egli è riuscito persino ad aggirare il suo ingresso
nell'Ade. Per punire questo, ossia per punire la sua volontà di sfuggire alla morte con
l'astuzia, è stato condannato ad un tale tormento.
Con ciò in realtà si intende dire che si può infliggere una punizione alla volontà di
sfuggire alla morte solo con un terribile prolungamento della vita. Quando lessi il mito
mi venne di colpo in mente l'uso che oggi gli uomini ne fanno: "Mio Dio! Noi siamo
tutti un po' su questa strada, prolunghiamo artificiosamente la vita".
Negli attuali centri di terapia intensiva e negli ospedali geriatrici favoriamo il
prolungamento vegetativo della vita che per così dire ci allontana dalla morte
naturale, la ritarda in un modo che può apparire come una sorta di tormento di Sisifo
forse in un senso più profondo - il fatto cioè che la nostra vita cosciente si affievolisce
rimanendo ormai solo come esistenza vegetativa. Per il modo in cui le nostre
possibilità tecniche ci mantengono in vita, Sisifo ha acquisito un nuovo significato
simbolico: noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è
anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di
incoscienza.
DOMANDA: Professor Gadamer, c'è un diritto alla morte così come c'è un diritto alla
vita?
Io risponderei: "Sì!". Si ha questo diritto, perché si è uomini liberi e perché lo scopo
della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che
fare con un uomo il cui volere deve esser rispettato. In questo senso non mi sembra
affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene però molto più difficile
poiché il morire, l'agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di
decidere in cui l'uomo vive come uomo consapevole e sano. Per questo è una
domanda ragionevole la sua. Io comunque risponderei così come ho fatto. “
[ http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=75 ]
Un inscindibile binomio…
L’amore e la morte sono qualcosa che ci conducono oltre quelli che sono i nostri limiti umani, che ci spingono oltre noi
stessi.
In principio fu Chaos […] e poi si generò Eros, l’amore primordiale, la forza pura e generatrice […] e Thanatos, la morte,
tra le Dodici Astrazioni, fratello di Hypnos e Karma e Nemesi
TEOGONIA, 1-5-16, ESIODO
L’amore, in quanto anche forza vitale dell’ erotismo, richiama immediatamente la sua controparte mortifera, Thanatos;
tant’è che fin dalla mitologia greca Eros & Thanatos sono in qualche modo vicini; volendo essere precisi, secondo i
Greci il fratello di Thanatos è Hypnos, la divinità responsabile del sonno e dei sogni; questa precisazione non sconvolge
il parallelismo iniziale amore/morte, ma anzi lo arricchisce di nuove suggestioni ricordandoci quanto affini siano tra loro
l’esperienza erotica, quella ipnotica e quella tanatologica. È evidente infatti che l’attività sessuale può richiamare la
vertigine pericolosa della morte o quella più sottile della stanchezza e quindi del sonno; ancora, è proprio durante il
sonno che si scatenano le fantasie erotiche; la morte stessa viene definita il grande sonno / il sonno eterno. Non a caso,
sono tutti campi in cui per l’umanità è facile avere la sensazione di entrare in contatto con l’Assoluto, di uscire da Sé
grazie ai sogni, al coito
o alla morte del corpo. Bataille provocatoriamente afferma che:
L’essere nella sua interezza è quindi accessibile all’uomo solo nella trasgressione dei suoi limiti, nell’eccessivo piacere
e dolore, oppure nella rappresentazione drammatica di quegli eccessi, cioè nella letteratura, nel sacrificio cruento, nelle
immagini dotate del potere di sconvolgere: nel concetto di erotismo tragico questi stati emozionali così intensi trovano
la loro unificazione.
Thanatos, Hypnos ed Eros, divinità in qualche modo notturne, stranianti, estreme: pericolosissime per il corpo e la
mente, che espongono ai rischi della morte e della follia.
La nostra società dell’immagine, con le sue ossessioni per la bellezza e la giovinezza dei corpi, ha perso l’abitudine alla
morte: per secoli la presenza nelle strade di cadaveri di uomini ed animali era la norma, negli agglomerati umani di
ogni dimensione e specie . La morte era qualcosa di tangibile, sentita nei riti funebri come nelle carcasse o nelle
reliquie conservate per gli scopi e nei modi più macabri .
Il paesaggio delle metropoli moderne in confronto è asettico, lontanissimo da ogni ricordo mortifero; persino gli edifici,
un tempo fatti di mattoni porosi e diversi uno dall’altro, imperfetti e consumati dal tempo, tendono verso
un’immortalità chirurgica: siamo circondati da superfici nuove, scintillanti, scivolose nella perfezione liscia dei più strani
materiali artificiali. Gigantografie pubblicitarie ci ricordano come dovremmo essere, ma soprattutto come dovremmo
voler essere, mentre in tutti i media echeggia un messaggio comune, un imperativo solenne: la felicità è essere giovani
e belli.
Una società che bandisce Thanatos dal proprio vissuto e dal proprio immaginario, o almeno si illude di poterne fare a
meno, che sbandiera l’erotismo in ogni sua manifestazione fino a renderlo un vessillo di libertà e autocoscienza, non
sta in qualche modo esorcizzando una paura ben più grande?