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LA VITA TRA

ILLUSIONE E

REALTA’

ESAME DI STATO A.S. 2009/2010

Esiste un mondo là fuori oppure è solo una della mente? Esistono

PROIEZIONE

gli altri, oppure siamo sempre noi che recitiamo parti diverse?

T utto ciò che noi possiamo conoscere direttamente è sempre e solo il Sé.

Anche se noi tentassimo di fonderci in uno stato di unità con qualcosa, ad esempio un albero, un

fiore, una divinità o concetti quali l’amore, la pace, la libertà o altro, alla fine scopriremmo che alla

fonte di tutto ciò, esiste solo il Sé, o in altri termini, ci siamo noi. Tutto ciò che appare come diverso

dal Sé è un’ILLUSIONE generata da noi stessi. Per questo potremmo anche dire che noi siamo

tutte le cose. Da questa inspiegabile comunione deriva anche la realizzazione “Io sono tutto e

nulla”. (“Non sei la mente” di Hari, Gunter Leone)

PIRANDELLO

" Ciò che conosciamo di noi stessi non è altro che una parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in

certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che

sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente."

Secondo Pirandello l’esistenza è data dagli ideali che ci poniamo, dal meccanismo

stesso della vita, dal contrasto vita-forma: proprio la forma blocca la spinta delle

pulsioni vitali e cristallizza la vita. Quest’ultima è una forza profonda e oscura che

“un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare

fermenta sotto la forma, è

in forme stabili e determinate…ma dentro noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima,

il flusso continua indistinto”. Il contrasto tra vita e forma è indubbiamente costitutivo

dell’arte pirandelliana, e della stessa poetica dell’umorismo che rileva ironicamente i

Uno, nessuno e centomila

modi con cui la forma reprime la vita. Nell’opera “ ”, il

soggetto che vive nella forma non è più una persona ma diventa una maschera, un

personaggio costretto a recitare la parte che la società o lui stesso si è imposto. Noi

dunque siamo “uno” perché pretendiamo di avere una forma precisa “nessuno” perché

non abbiamo una personalità definita e “centomila” perché a seconda di chi ci guarda

abbiamo un aspetto diverso. Il personaggio, dunque, che non è più coerente e unitario,

ha davanti a se due possibilità di scelta, o adeguarsi passivamente alla forma, o vivere

consapevolmente la scissione fra forma e vita. Nel primo caso sarebbe solo una

maschera, mentre nel secondo diventerebbe una “maschera nuda” dolorosamente

consapevole delle illusioni dell’umanità. E una volta presa coscienza della tragicità

della propria condizione l’uomo non può più tornare nella forma, “a questo sentimento

solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un

nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può

affacciarsi, se non a costo di vivere o di impazzire. È stato un attimo, ma dura a lungo

in noi l’impressione di esso, come di vertigine” afferma lo stesso Pirandello. L’uomo a

questo punto interviene con delle riflessioni a porre la distanza fra se stesso e la vita;

inizia, dunque, a interrogarsi per giungere sempre a quella risposta …”maschere,

maschere … e passano per dar posto ad altre”, “vero il mare, sì, vera la montagna;

vero il sasso; vero un filo d’erba; ma l’uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza

saperlo”. Quindi egli non vive ma “si guarda vivere”. La riflessione, la fine

dell’immediatezza vitale, l’estraniazione da se e dagli altri diventano la sua marca

esistenziale. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella

possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela

inadeguata all’inattingibile verità della vita. In un mondo dominato dal caos è privo di

senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare

l’inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà.

A nche ciò che appare diverso dal Sé, percepito in spazio e tempo, produce l’illusione di una

differenza fra soggetto e oggetto.

SCHOPENHAUER

“ E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non

può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno , rassomiglia al riflesso del sole

sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o che rassomiglia alla corda gettata a terra

che egli prende per un serpente.”

Il mondo come volontà e rappresentazione

Nell’opera “ ” Shopenhauer riprende il

dualismo kantiano. Mentre per Kant il fenomeno è la realtà, l’unica realtà accessibile

alla mente umana ed il noumeno serve solo a rammentare all’uomo quelli che sono i

suoi limiti, per Shopenhauer, invece, il fenomeno è parvenza, illusione, sogno ovvero

ciò che nell’antica sapienza indiana è detto “velo di Maya ” mentre il noumeno è una

realtà che si “nasconde” dietro l’ingannevole trama del fenomeno e ciò che si mostra

dopo aver strappato il velo di Maya: è la realtà senza false illusioni, quella stessa

realtà che il filosofo deve svelare. “Il mondo è una mia rappresentazione”, afferma

Shopenhauer e questo significa che il mondo consiste nel suo essere percepito da un

soggetto. Per Shopenhauer infatti, il fenomeno è rappresentazione di qualcosa che è

dentro la coscienza del soggetto e fuori non é nulla, è illusione che demistifica la realtà

sogno cioè un tessuto di

e che nasconde l’essenza noumenica. La vita è dunque un “

apparenze o una sorta di incantesimo ”. L’uomo è però portato a interrogarsi sul fine

ultimo della vita e il passaggio segreto che gli permette di passare dal fenomeno al

noumeno è rappresentato dalla sua corporeità attraverso la quale non ci limitiamo a

viviamo”

“vederci” dal di fuori bensì “ci anche dal di dentro, godendo e soffrendo.

Ripiegandoci su noi stessi ci rendiamo conto che il fine ultimo del nostro io è la brama

o “Volontà di vivere”. Essendo al di là del fenomeno, la Volontà presenta caratteri

contrapposti a quelli del mondo della rappresentazione, in quanto si sottrae alle forme

proprie di quest’ultimo: lo spazio, il tempo, la causalità. La Volontà, è, dunque, eterna,

libera o cieca. Infatti, noi possiamo cercare la ragione di questa o quella

manifestazione fenomenica della Volontà, ma non della Volontà in se stessa. Miliardi di

esseri non vivono che per vivere e continuare a vivere. È questa, secondo

Shopenhauer, l’unica crudele verità sul mondo; anche se gli uomini hanno cercato per

lo più di mascherare la sua terribile evidenza postulando un Dio cui sarebbe finalizzata

e in cui troverebbe un senso la loro vita. Ma Dio, nell’universo doloroso di

Shopenhauer, non può esistere e l’unico Assoluto è la Volontà stessa. Affermare che

l’essere è la manifestazione di una Volontà infinita equivale a dire che la vita è dolore

per essenza. Sappiamo, infatti, che la Volontà è tendenza e, dunque, finché non viene

soddisfatta vi è il dolore, quando invece viene soddisfatta subentra la noia: “la vita

umana è”, pertanto, “come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la

noia passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della

gioia”. Questa Volontà e questa situazione non è propria esclusivamente dell’uomo ma

per analogia si può estendere a tutte le cose. Dunque, tutta la realtà è soggetta alla

Volontà e quindi tutto è noia e dolore: pessimismo metafisico. Tuttavia, da questa

situazione si può uscire, non, però, col suicidio, che è paradossalmente un’ulteriore

affermazione della Volontà ma attraverso alcuni esercizi che ci permettano di

raggiungere la Noluntas cioè l’estirpazione completa della Volontà (attraverso l’arte, la

pietà e l’ascesi). LUCREZIO

“ Humana ante oculos foede cum vita iaceret, in terris oppressa gravi sub religione … religio peperit

scelerosa atque impia facta”.

(Quando la vita umana giaceva sulla terra oppressa gravemente dalla religione sotto gli occhi di tutti …

proprio essa, la religione, ha partorito fatti scellerati ed empi)

Il tema dell’illusione è presente anche nella visione della vita di Lucrezio, grande poeta

latino: egli non esalta i pregi che tale sentimento produce ma lo condanna,

considerando la stessa “religio” un’illusione oltre che la causa di tanti mali. Nell’opera

De Rerum Natura

“ ”, rifiuta la religione pagana e ne crea al suo posto una che non

ha bisogno di dèi, cioè la religione dell'uomo e della natura, rifacendosi alla dottrina

del filosofo greco Epicuro, l'epicureismo: non crede in un altro mondo, non crede nella

sopravvivenza dell'anima, ma si limita a descrivere e a esaltare la vita terrena, poiché

la virtù, la felicità, il piacere, il dolore sono per lui sentimenti, modi di essere, legati

strettamente alla nostra esistenza fisica. La noia, invece, è per Lucrezio una malattia,

perché deriva dall’impossibilità dell’uomo di soddisfare i propri desideri, le proprie

ambizioni, indirizzandolo verso una sensazione di profondo disagio. E una volta

raggiunti l’appagamento dei desideri, questo si rivela solo momentaneo e illusorio:

appagato un desiderio ne seguirà sempre un altro. Solo raggiungendo l’atarassia, il

fine della pratica epicurea, si può sconfiggere la noia ed evitare tale disagio. Gli

uomini, quindi, si affannano perseguendo falsi scopi, miraggi illusori e non si

accorgono che la natura non chiede altro che l’assenza di dolore fisico e spirituale.

Lucrezio ci fornisce una visione del mondo e della natura triste e sconsolata: la natura

è ostile all’uomo e rende la vita sulla terra difficile e dolorosa. Tale quadro negativo

può far pensare ad una visione pessimistica della realtà, tuttavia, spesso Lucrezio

afferma, con accenti di profonda convinzione, che è possibile per l’uomo, purché

aderisca alla verità e alla sapienza epicurea, trasformare positivamente una situazione

dolorosa e negativa, sconfiggendo, dunque, la sofferenza e raggiungendo la felicità.

Per questo nel primo libro dell’opera esalta la figura di Epicuro, che per primo osò

sfidare gli dei liberando gli uomini dalla paura e dal dominio della religione.

quanam sit ratione atque alte

terminus haerens.

Quare religio pedibus subiecta

vicissim

obteritur, nos exaequat victoria

caelo.

80 Illud in his rebus vereor, ne forte

DE RERUM NATURA I, 62-83 rearis

impia te rationis inire elementa

Humana ante oculos foede cum viamque

vita iaceret indugredi sceleris. Quod contra

in terris oppressa gravi sub religione saepius illa

quae caput a caeli regionibus religio peperit scelerosa atque impia

ostendebat facta.

65 horribili super aspectu mortalibus

instans,

primum Graius homo mortalis tollere

contra

est oculos ausus primusque Mentre la vita umana giaceva sulla

obsistere contra, terra alla vista di tutti turpemente

quem neque fama deum nec schiacciata dall'opprimente religione,

fulmina nec minitanti che mostrava il suo capo dalle regioni

murmure compressit caelum, sed celesti, con orribile aspetto incombendo

eo magis acrem dall'alto sui mortali, un uomo greco per

70 inritat animi virtutem, effringere ut la prima volta osò levare contro di lei gli

arta occhi mortali, e per primo resistere

naturae primus portarum claustra contro di lei. Né la storia degli dèi, né i

cupiret. fulmini, né il cielo col minaccioso

Ergo vivida vis animi pervicit, et rimbombo lo trattennero: anzi più gli

extra accesero il fiero valore dell'animo, sì

processit longe flammantia moenia che per primo volle infrangere gli stretti

mundi serrami delle porte della natura. E

atque omne immensum peragravit dunque prevalse il vivido vigore

mente animoque,

75 unde refert nobis victor quid possit dell'animo, ed egli si inoltrò lontano,

oriri, oltre le fiammeggianti mura del mondo,

quid nequeat, finita potestas e il tutto immenso percorse con la

denique cuique mente e col cuore. Da cui vittorioso

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